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sport.doc UNA STORIA NAZIONALE Quattro stelle, qualche flop Un secolo d'Italia in azzurro L'attesa nuova edizione del bestseller "Ho ballato con Mandela" ROBERTO RENGA Absolutely Free Editore LIPPI ESCLUSIVO. PER LA PRIMA VOLTA RACCONTA IL SUDAFRICA

Una Storia Nazionale

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“Una Storia Nazionale” è la storia della Nazionale, che è parte integrante della storia della Nazione, la nostra Storia, la Storia dell’Italia... Per uscire alla meglio da ciò che sembra (ma non è) un gioco di parole, Renga si affida a una trasformazione (quasi) genetica della sua prima opera, “Ho Ballato con Mandela” e la ripropone oggi con un testo nel quale la Nazionale è l’unico filo conduttore. Un filo al tungsteno, però... Talmente forte e resistente da trascinare con sé altre mille storie. Quelle dei molti calciatori che ne hanno fatto parte, dei dirigenti, dei tecnici, dei giornalisti, degli avversari, di “quelli al seguito”, dei tifosi e degli appassionati.

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sport.doc

«Mo' je faccio er cucchiaio»

Francesco Totti

«Sono più uomo io di tutti voi messi insieme»

Bobo Vieri

«Come Achille, me ne sto sulla collina»

Alessandro Del Piero

«Non so che cosa ha detto Lippi, ero al bagno»

Rino Gattuso

«Oggi facciamo il 4-4-3»

Giovanni Trapattoni

«Meglio due feriti che un morto»

Gianluigi Buffon

€ 15,00

ROBERTORENGAè nato a Perugia di lunedì:il giorno prima sua madre era allo stadio.Non ha fatto il calciatore: era una schiappa. Moglie e due figli. Segno: Toro. Studi classici. Ama scacchi, cinema, Caravaggio, letteratura americana e calcio, che scoprì con il Brasile del 1958. Fa il tifo per gli amici: ne ha molti nellaNazionale, che segue, senza tregua, dagli Europei del 1980. Ha cominciato alla Nazione di Perugia, è passato poi a Roma: Paese Sera prima, dopo Il Messaggero. Molta tivvù e moltissima radio. Un fioretto nel 1990: mai più incarichi interni al giornale... Ma ha sbandato duevolte per l'offerta di una direzione. Per venti anni inviato intorno al mondo.

sport.doc

UNA STORIANAZIONALEQuattro stelle, qualche flopUn secolo d'Italia in azzurroL'attesa nuova edizione del bestseller "Ho ballato con Mandela"

ROBERTO RENGA

Absolutely Free Editore

10 LIPPI ESCLUSIVO.PER LA PRIMA

VOLTA RACCONTAIL SUDAFRICA

“Una Storia Nazionale” è la storia dellaNazionale, che è parte integrantedella storia della Nazione, la nostra Storia, la Storia dell’Italia... Per uscirealla meglio da ciò che sembra (ma non è)un gioco di parole, Roberto Renga si affida a una trasformazione (quasi) genetica della sua prima opera, “Ho Ballato con Mandela”: l’ha ripresain mano, l’ha asciugata dei molti raccontinati dalle sue scorribande da inviato, la ripropone oggi con un testo nel qualela Nazionale è l’unico filo conduttore.Un filo al tungsteno, però...Talmente forte e resistente da trascinarecon sé altre mille storie.Quelle dei molti calciatori che ne hannofatto parte, dei dirigenti, dei tecnici,dei giornalisti, degli avversari, di “quellial seguito”, dei tifosi e degli appassionati. E noi con loro, tutti insieme in lietae sussultante carovana, dato che la Storia della Nazionale – e questo Renga lo spiega e documentabenissimo – va di pari passo alla storiadel nostro Paese, certe volte l’anticipa, più spesso ne è succube, quasi sempre la spiega.Un libro di mille ricordi, mille fattinascosti, mille volti da riscoprire.Compreso quello di Marcello Lippi, chea Renga ha concesso la sola intervista in cui abbia raccontato, e spiegato,lo sfortunato Mondiale sudafricano.

Daniele Azzolini

cover_STORIA_NAZIONALE_DEF_sportdoc 27/09/12 17:07 Pagina 1

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Progetto editoriale:Absolutely Free

Grafica:Nicoletta Azzolini

Immagini:L’immagine di copertina è una rielaborazione grafica realizzata da Nicoletta Azzolini

Prima edizione: ottobre 2012

© Copyright, 2012Absolutely Free Editore - via Roccaporena, 44 - 00191 RomaE-mail: [email protected]

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata,compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico, non autorizzata

ISBN 978-88-97957-75-8

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UNA STORIANAZIONALEQuattro stelle,qualche flop.

Un secolo d’Italiain azzurro

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Agli studenti inglesi che, mentre in Italia succedeva

un quarantotto, misero per iscritto le prime norme del gioco del calcio, ufficializzandone la nascita

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L a prima Nazionale venne applaudita da quat-tromila spettatori all’Arena di Milano: 6-2 sullaFrancia, che da allora non ci sopporta. Era il 15maggio 1910, ore 15,30 in punto. Radio, televi-sione, tribuna stampa: niente di niente. Arbitro

l’inglese Goodley, stipendiato dalla Juve, stimatissimo:può capitare e allora capitava anche che il notaio calcisti-co venisse pagato, ufficialmente dico e non sotto sotto, daun club. Altri tempi. Belli, se in vista non ci fosse stata lagrande guerra, quando il pallone prese a rimbalzare trale croci bianche che segnavano la morte e la porta.

Centodue anni fa, appunto. Un secolo e un pizzico d’I-talia. Un titolo mondiale ogni venticinque anni. Buonamedia e si poteva fare di più. Almeno tre titoli ci sono sci-volati via dalle mani: 1970, 1990, 1994. Pianti e rimpianti.Un percorso che ha toccato due conflitti mondiali, la tra-gica fine del Torino, il 68, Pelè, Maradona, i figli dei fiori, ilcatenaccio e il possesso palla, scandali che sembravanodovessero cancellare il calcio e toglierlo dalla testa dellagente, come è capitato con altri sport, ormai sfioriti e di-menticati.

È cambiato il pallone, che non è più, come si chiama-va nelle ore dell'alba, la sfera di cuoio e se la colpivi di te-sta erano dolori. È cambiato il liguaggio di chi scrive e dichi ne parla. Sono cambiate le maglie, ora piene di dise-gni, scritte di ogni tipo, non solo quelle degli sponsor.

Il calcio si leggeva. Poi si ascoltava e, se proprio loamavi, lo guardavi grazie ai disegni di Silva (inventava:che altro avrebbe potuto fare?). Ora si vede tutto e in tuttoil mondo e si resta in poltrona.

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Si andava allo stadio, quello sì, almeno in Italia, rima-sto come allora. Da noi ci sono ancora gli impianti alzatiper i mondiali del 1934, quando Mussolini si accorse che icalciatori di ieri ricordavano i gladiatori di ieri l’altrio eche il calcio sarebbe stato un ottimo veicolo pubblicitario.In particolare vincendo, come capitò per due volte di se-guito e l'azzurro divenne anche nero e il saluto si fece ro-mano.

Il regalo di LippiQuesto nostro viaggio parte con la prima Nazionale e

arriva all'ultima Nazionale, vista agli europei di Polonia eUcraina. E si presenta con un regalo, offerto a chi ama ilnostro calcio: Marcello Lippi per la prima volta racconta ilsuo Sudafrica. Non ne aveva mai parlato. Mi assumo ogniresponsabilità, disse quel giorno, dopo la sconfitta degliex campioni del mondo. Si alzò, fece un cenno di saluto echiuse. Poi silenzio, sino alle parole che potrete leggerequasi alla fine della storia nazionale.

Dal bianco al bleu marinaItalia, in quel fatidico giorno passato allora inosserva-

to, in camicia bianca in onore della Pro Vercelli, cui l’Interaveva appena portato via uno scudetto. Scandalo, disseroa Vercelli e non solo. Il primo, comunque, non l’ultimo.Quanti ne avremmo visti, sempre sperando nel ravvedi-mento.

La seconda partita si giocò a Budapest e ne pren-demmo sei da una delle migliori squadre dell’epoca,l'Ungheria. Trerè si portò dietro una valigia piena di cibo,non si sa mai e, del resto, lo facciamo ancora, accompa-gnati in trasferta da cuochi, parmigiano, pomodori e spa-ghetti. La mamma no, ma ci dispiace un po'.

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A Fossati rubarono gli scarpini e giocò con eleganticalzature da passeggio. Esordì a sedici anni De Vecchi, fi-glio di Dio, come, allargandosi, lo chiamarono. Al ban-chetto ufficiale, ungheresi in smoking, italiani in flanella.De Vecchi in calzoni corti.

Il 6 gennaio del 1911 si giocò la terza partita, di nuovocontro l’Ungheria, ospitata a Milano: uno a zero per loro.Fece la sua comparsa la nuova maglia. Non azzurro Sa-voia, come si è tante volte detto e scritto, ma bleu mari-na: lo si legge nell’unico resoconto della vicenda. Ma-glietta con scollatura a V, un laccetto per chiuderla, unacroce sul cuore. Era nata la divisa dell’Italia. I calciatorida allora vennero chiamati azzurri; il bleu lo lasciammo,sbagliando, ai francesi. Azzurri furono poi gli atleti di ognidisciplina.

Un salto in MessicoLa nuova Italia del calcio, quella che ha accompagnato

le penultime generazioni, nacque nel 1970 in Messico,dove, tra le nuvole, Montezuma con la sua vendetta, le pi-ramidi, la quebrada e la tequila, perse in finale contro ilBrasile: stanchi (noi: eravamo tutti in campo con Riva egli altri) per la semifinale contro la Germania, reggemmosolo un tempo. Il secondo fu un calvario. I brasiliani arri-vavano da ogni parte e facevano sempre gol. Un incubo.

Mille anni dopo mi raccontarono una storia. Valcareg-gi nel dare, come si usava, le marcature, chiese a Burgni-ch di prendere Rivelino e a Bertini di controllare Pelè.Esattamente l'opposto di ciò che esperienza e intellettoconsigliavano, essendo uno il brillante regista che si sa el’altro, appunto, Pelè, che con il gol aveva un solido e no-to rapporto d’amore e di stima reciproca.

I giocatori si scambiarono sguardi preoccupati: lorosapevano. Bisognava fare qualcosa. Modificare le marca-

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ture senza dirlo al tecnico? Prima o poi se ne sarebbe ac-corto. Accettare e andare incontro alla disfatta? Lascia-mo perdere. C’era una sola strada da seguire: convincer-lo. Venne spinto in avanti De Sisti, che, con quell’aria tra ilpuro e l’impuro di chi è nato ai Castelli romani, avrebbepotuto spiegare all’allenatore la situazione tattica senzaapparire presuntuoso. Lo fece. Noi, almeno, la vediamocosì, chiuse tutto d’un fiato e facendo subito un passo in-dietro.

Valcareggi lo guardò. Si mise seduto. Ci pensò a lun-go. Disse infine: partiamo come dico io. Se avete ragionevoi, si cambia. Avevano ragione i calciatori e al quartod'ora Valcareggi prese la storica decisione: invertiamo lemarcature. Ma si stava giocando e certe cose si fanno apalla ferma. Burgnich lasciò Rivelino, Bertini mollò Pelè.Il primo sfruttò la libertà per pennellare un cross perl'altro, piazzato al centro dell'area. Burgnich stava arri-vando, c'era quasi. Allungò il braccio, fece un salto. Pelè,senza ostacoli, rimase in cielo e fece quel gol che ha rovi-nato l’adolescenza di tanti.

I sei minutiNon ci fa una bella figura Valcareggi. Il quale, del re-

sto, si è portato dietro per tutta la vita il mistero dellastaffetta tra Mazzola e Rivera e quello dei sei minuti fattigiocare in finale a Gianni, un’altra figuraccia mica da ri-dere. Non era un cattivo tecnico, ma debole e predispostoa inspiegabili cadute.

Rivera piaceva poco al capo comitiva Mandelli, un in-dustriale che ignorava il calcio, e a qualche compagnoimportante, che gli rimproverava snobistica solitudine epigrizia in campo. Come Platini, riteneva che dovesseroessere gli altri a correre, a lui toccava un diverso e piùalato compito: pensare, creare, disegnare calcio. Del re-

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sto, vale una regola: accanto all'ingegnere, ci vuole il mu-ratore. E Rivera, guardategli le mani (e i piedi), muratorenon era. È stato il primo italiano a vincere il Pallone d’o-ro, nonostante l’avversione di Gianni Brera, che, ai suoitempi, contava più del presidente della Federcalcio. Maintelligenza e buona scrittura non sempre portano allaverità. La sensazione è questa: Brera, tutto compreso,era così più bravo degli altri da arrivare a prenderli in gi-ro.

Sandro Mazzola in privato offre un’altra, prosaica,versione. Il titolare sarebbe stato sempre lui, altro chestaffetta, che venne ideata solo per il mal di pancia chel’aveva colto e debilitato durante i mondiali. Rivera favori-to dagli dei e dalla toilette, insomma, non rovinato dagliuomini.

Fulvio esageratoFulvio Bernardini fu uno dei migliori calciatori di sem-

pre. Cominciò nella Lazio e come portiere. Nella Roma sitrasformò in centrocampista, così diverso dagli altri, per ipiedi e per la laurea, che la Nazionale lo lasciò spessofuori: i compagni parlano un’altra lingua, spiegò senzaarrossire Vittorio Pozzo, che non andava per il sottilequando si trattava di spararle grosse. Da allenatore havinto scudetti a Firenze e Bologna, non a Milano: segno diclasse superiore. Offensivista, in uno spareggio con l'In-ter di Herrera all'Olimpico mise un terzino in più (Capra)e confuse le idee di HH, bravo nel preparare a parole lepartite, non a cambiarle dalla panchina. Non ci vedeva,dicono. I ragazzi non capirebbero, sosteneva Herrera,dando degli stupidi ai calciatori.

Il dottore prese il posto di Valcareggi, dopo la pessimafigura rimediata in Germania nel 1974, quando l'Italia siritrovò davanti la Polonia, qualificata e disinteressata. Gli

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azzurri litigarono durante il riscaldamento: Mazzola chie-se spiegazioni a Capello, che aveva detto di voler ringio-vanire la squadra e dunque partendo proprio da lui, giàvecchiotto. Sandro, per innervosire l'acido collega, eseguìda caposquadra solo esercizi di velocità. L'altro, lento epesante, finì in panne e boccheggiava prima del via.

Bisognava trovare qualcuno che, incontrandosi con ipolacchi, capisse sino a che punto si potessero ammorbi-dire. Quel qualcuno, alla fine, spuntò fuori, ma era tardi.L'Italia perse e uscì dai mondiali.

Il vice con la pipaIl vice del dottore, detto anche, con amichevole snobi-

smo romano, Fuffo, era Enzo Bearzot, destinato a grandiimprese e dava l’idea di saperlo. Se ne stava in disparte.Guardava e fumava la pipa. Non scontroso: tra l’assente eil meditabondo. Ciò che faceva il capo gli sembrava stra-no e misterioso. Non riusciva a fare coppia con uno cosìdiverso.

Bernardini dipingeva calcio in campo e cercava di far-lo in panchina. Con Fiorentina e Bologna gli riuscironosvolazzi, giochi di luce e d’ombre e pennellate stravagan-ti. Con la Nazionale no. Era stanco. Credeva meno in sestesso e nel suo lavoro. Arrivò a convocare un tale Mar-telli, sconosciuto. È il figlio di un mio amico di Livorno,disse il cittì. E chiuse. Non ci furono polemiche, ma solostupore mascherato. Come a dire: se va bene per te, vabene anche per me. Non so che cosa ne pensasse Bear-zot, che era quadrato per quanto l’altro era tondo. E con-creto, come chi viene dal Friuli, una terra fatta di pietre eil raccolto deve sudarselo, mica gli cade tra i piedi.

Facile la vita di Bernardini. Era un genio del calcio. Daportiere e da centrocampista. Lo vedevi e perdevi la testa.Roma e l’Italia l’amavano. Elegante, lucido, capace di

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scherzi e di epiche sfuriate. Si laureò alla Bocconi di Mi-lano e al dottore e al lei teneva. Girava con fuoriserie chealtri potevano solo sognare. E se doveva avere un inci-dente stradale, faceva le cose in grande: tamponò l’autodi Mussolini, non di uno qualsiasi e quanti problemi ne ri-cavò.

I due tecnici non potevano prendersi. Il dottore guar-dava l’altro come se venisse da Marte, Bearzot lo stava asentire per pura educazione. In Federazione capirono e limisero alla pari. Non funzionò. Rimase alla fine il soloBearzot, che ci avrebbe regalato la terza stella, litigandocon il mondo: una scelta di vita.

Totonero... Sembrava la fineNessuno avrebbe puntato una lira sull'Italia. Era il

1982 e ci aspettava la Spagna. Venivamo da pessimi Eu-ropei persi in casa e dal Totonero, uno scandalo che pote-va stenderci, secondo, forse, solo a Calciopoli. Sono pas-sati più di trenta anni e il 23 marzo, il giorno delle manet-te, sembra ieri.

Giocatori e tecnici scommettevano sulle propriesconfitte: una polizza sulla vita calcistica. Un allenatoreraccontò: in caso di vittoria prendo mezzo milione, macome posso essere sicuro di vincere? Allora scommettoduecentomila sulla sconfitta e come va, va bene. Si face-va tutto alla luce del sole e un dirigente teneva il banco.

A un calciatore, vecchio e con solide e numerose ami-cizie romane e non solo, venne in mente di trasformare ilgiochino individuale in un gioco di squadra. Il capo, i sot-tocapi, gli scommettitori, i banchisti. Lui il regista. Di not-te, in ritiro, era tutto un telefonare: oggi vinci tu, domanitocca a me, il mondo va avanti lo stesso e il conto in ban-ca tira un sospiro. La folle idea nacque e si sviluppò a Ro-ma, attorno a Trinca, che aveva un ristorante al centro, e

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Cruciani, che vendeva frutta all'ingrosso e serviva gratui-tamente di pesche e zucchine la maggior parte dei cal-ciatori romani.

Trinca era basso e rotondo, occhi piccoli e lingua lun-ga. Pensava, come gli avevo detto, che fossi un medico econ medico e prete ci si confessa. Una sera, all'internodel suo ristorante (cui poi dette fuoco per cercare, invano,di riscuotere i soldi dell’assicurazione), si avvicinò al ta-volo con aria sofferta e misteriosa. Dopo essersi guarda-to intorno, sollevò il pullover e mostrò un’insolita cintura:tutti biglietti da diecimila, infilati in verticale, attraentecartucciera. Sono cinquanta milioni, fece, abbassando lavoce. Domani vado a Bologna e scommetto tutto sul paricon la Juve. Azzeccò la puntata.

Qualche giocatore del Perugia si mise d'accordo perfare due a due ad Avellino. Fu, effettivamente, due a due.Paolo Rossi, non uno qualsiasi ma il numero uno, secon-do il successivo atto d'accusa, avrebbe detto sì in cambiodi due reti. Leggerezza, disincanto, voglia di liberarsi diseccatori, non i sa. Successe. Il Perugia era in ritiro a Vie-tri, l'incontro tra giocatori e organizzatori avvenne duran-te una tombolata, l'allenatore Ilario Castagner era fuori.

La Lazio pensò male di perdere per tre a due a Milanoe di vincere per due a zero con l'Avellino: risultati che nonavrebbero dato nell’occhio e neppure danneggiato la so-cietà. A Montesi dissero tutto nei bagni degli spogliatoi diSan Siro. Si tirò fuori: malato. Al suo posto Totò Lopez.Solo Vincenzo D'Amico venne tenuto al buio: non si fida-vano. Operazione compiuta a metà: due a uno. È compli-cato truccare le partite. Vanno sintonizzate ventidue testee addomesticato il pallone, che spesso va dove gli pare. Econ l'Avellino, quando a Roma nessuno accettava piùscommesse sulla vittoria della Lazio, finì uno a uno.

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L’avvocato con la pistolaStudio di un noto avvocato. Sopra la scrivania un re-

volver. Un tizio l'impugnò e disse: è per chi non sta connoi. Raccontarono che tutte le squadre italiane, meno In-ter e Catanzaro, erano finite nella rete tesa da Trinca eCruciani. I quali, a forza di puntare soldi altrui ma soprat-tutto propri, si rovinarono. Chiesero un risarcimento aigiocatori. Ricevute pernacchie, li denunciarono e lo scan-dalo divenne pubblico e ufficiale. Si arrese anche Tutto-sport che, quando Paese Sera, e Messaggero in secondabattuta, pubblicarono le prime notizie, uscì con un titolo-ne: "Scandalo inventato".

Della vicenda si occuparono giustizia sportiva e giu-stizia ordinaria. I processi sportivi portarono retrocessio-ni, radiazioni, squalifiche. L'altro processo, svoltosi a Ro-ma, si chiuse con l'assoluzione: la frode sportiva non eraancora reato. Fui chiamato a testimoniare. In una salettadel tribunale mi ritrovai con Gianni Rivera. Avevo un rim-pianto: hai giocato troppo poco con Gigi Riva. E in Nazio-nale? mi disse. Non basta, gli risposi: volevo di più. Houna foto: sullo sfondo, alla sbarra, Walter Cruciani, losguardo a terra.

Riqualificarono, giusto in tempo per i mondiali, PaoloRossi. Che era magro da far paura e pallido e, sincera-mente, non stava in piedi. Gli altri beneficiarono dell'am-nistia che seguì la vittoria. Pagò soprattutto Montesi, chenon c'entrava.

Lo schiaffo di EnzoL'avventura spagnola si aprì a Fiumicino: Enzo Bear-

zot litigò con una tifosa che voleva Beccalossi in Naziona-le. Il tormentone mediatico di quei giorni. Bearzot era uo-mo di grandi ideali e feroci passioni. Da vice di Bernardini

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aveva girato il mondo e conosciuto il calcio degli altri, nonancora mostrato dalla televisione. Aveva capito, comeVittorio Pozzo tanti anni prima, una cosa: vince la squa-dra, non il singolo. Beccalossi era un giocoliere: non gliserviva. Quel giorno, dissero, gli era scappato unoschiaffo, come risposta a un insulto. Non ci sono prove otestimonianze dirette. Ma tutti lo scrissero. facendo di-ventare ufficiale il gesto.

A Biella, dove l'Italia si riunì prima degli Europei del1980, mi capitò di chiedere a Bearzot il motivo per il qua-le non faceva scalare le marcature. Per intenderci: io la-scio il mio uomo per affrontare un avversario libero, uncollega mi copre, un altro copre lui. È l'abc del calcio.Bearzot mi guardò e sorridendo offrì un pizzicotto e unamassima: ragazzo, sempre undici contro undici siamo.Come a dire: lasciami lavorare e tu gioca con le figurine.In Belgio e Olanda già scalavano le marcature in avanti,lasciando in fuorigioco il più lento degli avversari. Il mon-do correva e Bearzot, mentre il Piave mormorava, rima-neva in trincea.

Non era un incompetente. Aveva idee semplici, data-te, ma chiare e non deviava: è uno dei segreti del calcio. Ilcittì aveva giocato con Torino e Inter: discreto e robustomediano di rottura. Una brevissima parentesi da allena-tore e poi a Coverciano: federale classico, tutto d’un pez-zo, pipa compresa. Fece tre mondiali: uno benissimo inArgentina, dove arrivò al quarto posto e dette spettacolo;un secondo bene in Spagna; un terzo malissimo in Mes-sico.

Il gioco, i giocatoriBearzot puntava su un portiere affidabile: Dino Zoff,

friulano come lui. Uomo di sostanza, non di apparenza.Badava al sodo. Il contrario di Albertosi, tra i pali e nella

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vita. In Argentina Zoff prese qualche gol da lontano escrissero che non ci vedeva più. Siamo i più bravi delmondo a costruire statue per il gusto di distruggerle.

In difesa Gentile dalle mille mani e uno stopper dascegliere, via via, tra Collovati e Bergomi, chiamato zioper via dei baffi che gli davano qualche anno in più. Bear-zot aveva due artisti, come Scirea e Cabrini, abilissimi neltrasformare in offesa, azioni che altri avrebbero chiusocon un calcione. Cabrini dribblava come un'ala, Scireaera nato centrocampista e ricopriva il ruolo di libero conl'eleganza che solo Beckenbauer e Baresi hanno avuto indono. Quando andava avanti, te ne accorgevi a cose fatte,perché girava al largo, come fanno i gatti, sempre attac-cati alla parete. Arrivato, graffiava. È morto mentre face-va l'osservatore della Juve: assurdo incidente in unastradina polacca.

A centrocampo Bearzot teneva un mediano basso(Oriali o Marini), un centrocampista completo, inimitabilegiocatore universale (Tardelli), un calciatore elegante ediscontinuo (Antognoni), un'ala capace di superare sem-pre l'uomo e di mettere la palla dove voleva, un fantasistaesterno e quasi regista (Conti, chiamato però BrunoCon-ti, una sola parola da sparare velocissima). In avanti, unapunta alta e una bassa. Perso per malattia Bettega, iltecnico ripiegò su Graziani e Altobelli. Il secondo era ma-gro e tecnico, temevi che potesse spezzarsi.

Graziani era apprezzato per la sua corsa continua, madargli solo del generoso, come capitò in quel periodo, èun’offesa oltre che un errore. Ciccio era un calciatoremoderno. Un centravanti che giocava per il partner (Puli-ci nel Toro, Rossi in azzurro) e per la squadra, mai per sestesso.

La punta bassa fu Paolo Rossi, ripescato per l'occa-sione, ma ben lontano da una condizione accettabile eche solo il cittì riusciva a vedere.

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Una squadra completa, forte fisicamente e moral-mente, con gente insuperabile e altra di grande qualità.Tutti gli azzurri fornirono nelle ultime quattro partite delmondiale le migliori prestazioni della vita. I campioni, delresto, vincono quando serve.

Rivisti adesso sembrano lenti, come lentissimi ci ap-paiono i giocatori del 1970, per non parlare di quelli chevinsero nel '34 e nel '38. La verità è che ora ci si allena dipiù e meglio: ci sono anche tecnici creati apposta, i pre-paratori atletici. Una volta ci si fermava ai professori diginnastica, qualche flessione, un giretto di campo, il pal-lone medicinale e via. Ora accanto ai giocatori ci sonoscienziati in camice bianco. I giocatori migliori (significa:quelli che se lo possono permettere) hanno il preparato-re personale, come le attrici: un altro mondo e altri risul-tati. I cento stile libero si nuotavano in un minuto e grida-vamo al miracolo. Ora l'uomo scivola sull'acqua.

Nel calcio bisognerebbe cambiare misure e regole.Ampliare il terreno, alzare e allargare le porte, ridurre ilnumero dei giocatori, infilare la moviola, ma non si faniente: a decidere sono vecchietti che poco o niente san-no di calcio, materia già di per sé complicatissima, cometutte le cose che sembrano facili.

C'è una conclusione e vale per lo sport e per la vita:non si fanno paragoni, ogni epoca ha i suoi campioni, chequalche volta, travolti dall’enfasi, possiamo chiamareeroi. I cavalieri azzurri litigarono con noi e con il mondo,collezionarono insulti e fu il livore e la rabbia il loro do-ping.

Gabbiani e granchiIn Galizia si pose la prima pietra della vittoria mondia-

le. Per via del clima. Brasile e Argentina si sciolsero alsole spagnolo, l'Italia rabbrividiva al freddo, recuperando

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energie. Pioveva sempre. Al primo giorno di mezzo solegita incontro all'oceano. Spiaggia e scogli. Anzi, no: gran-chi. Centinaia di enormi granchi rossi. Si spostavano mi-nacciosi, ondeggiando. Prezioso cibo in scatola.

I gabbiani, come grasse galline, gironzolavano tra ipescherecci e beccavano il pesce lasciato cadere da di-stratti pescatori. La sera si sceglieva un ristorante tradue: la Bella Napoli e i Cuatro Caballeros. L'ingresso delBella Napoli era dominato da un acquario, dentro il qualesi azzuffavano i granchi di prima e aragoste. Un giornali-sta napoletano del Corriere dello Sport, Antonio Corbo,curava da vicino la cottura degli spaghetti e GiampieroGaleazzi, usciva dalla cucina con una montagna di cibofumante, cameriere personale e di classe, capace di to-gliere i piatti sotto il naso a timidi avventori.

Nell'altro ristorante della città, tiravano tardi giocan-do a carte Gianni Brera, Giovanni Arpino, Oreste Del Buo-no, Manlio Cancogni e Mario Soldati. Gli scrittori. DelBuono si autoproclamò presidente del "Club dei rimbam-biti", di fronte ai quali, i piccoli e giovani cronisti si senti-vano ed erano anonime comparse. L’oste offriva vino spa-gnolo, che non è granché. Brera glielo bocciava. Tutte lesere così. Soldati viaggiava in macchina e autista. Perdue volte denunciò il furto della valigia. In albergo giravaallora in canottiera e bretelle, perché non dubitassiro ipresenti e, soprattutto, l'amministratore del Corrieredella Sera, per il quale scriveva.

Il silenzio stampaUn brillante giornalista del Giorno, Claudio Pea, un

pomeriggio bussò alla porta. Tanto per cambiare, piove-va. Senti che ho scritto, disse. Lesse. Più o meno: Rossi eCabrini stanno sempre chiusi in camera. A questo puntoci si chiede chi sia la muchacha e chi il caballero. Diver-

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tente, ma un po' forte, gli dissi. Ormai ho dettato, fece lui.Avrebbe scatenato un pandemonio storico e inedito: il si-lenzio stampa. Il giorno successivo Rossi e Cabrini sce-sero a braccetto dalle lugubri scale del Parador. Cantava-no la marcia nuziale. Ci scherzarono, insomma. I giornaliturchi ripresero il pezzo, usando tinte forti e dando percerto ciò che era un gioco di parole. A Vigo volò Consuelo,allora signora Cabrini, preoccupata per la novità.

La Nazionale, ci dissero, sarebbe andata in un'isola incui sorgeva un casinò. Un giornalista di Torino scrisseche i calciatori avevano giocato e perso grosse cifre allaroulette. Il casinò era chiuso. Brutto giorno per dare spa-zio alla fantasia.

Aggiungete le critiche per i tre pareggi (Polonia,Perù e Camerun) del girone di qualificazione e capiretecome mai il rapporto tra Nazionale e giornalisti abbiatoccato in quei giorni il punto più basso della storia.Sull'aereo che da Santiago ci portava a Barcellona,Dossena disse: hanno deciso il silenzio stampa, indi-cando il resto della truppa azzurra. Non capii bene e algiornale spedii solo un corsivo: meglio del niente man-dato da altri. Diceva, più o meno: la nazionale italiana,dopo aver deciso di interrompere il rapporto con i gior-nalisti imponendosi il silenzio stampa, si è chiusa in unalbergo di Barcellona, che dista pochi metri da una cli-nica psichiatrica, dai rappresentanti della quale è statavanamente e a lungo attesa.

Da quel momento parlarono con i cronisti solo iltecnico Enzo Bearzot e il portiere Dino Zoff, noto, que-st'ultimo, per i suoi silenzi. Per tutto il mondiale ripor-tai raramente le parole dell'allenatore. Mai quelle delportiere. Cercavo servizi alternativi: le mogli, i marinaiitaliani, i turisti, gli avversari, i personaggi di passag-gio, i toreri.