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1 Francesca Coraglia ~ Una feroce simmetria. William Blake e l’anticlassicismo. ~ Francesca Coraglia ~ UNA FEROCE SIMMETRIA WILLIAM BLAKE E L’ANTICLASSICISMO William Blake, The ancient of the Days (23.3 x 16.8 cm), 1794, British Museum, London.

UNA FEROCE SIMMETRIA - gorgonmagazine.com · soprattutto le pagine luminose e altrettanto polemiche di Berkeley che, nei Principles of Human Knowledge (1998; ed. or. 1710), aveva

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1Francesca Coraglia ~ Una feroce simmetria. William Blake e l’anticlassicismo.

~ Francesca Coraglia ~

UNAFEROCE

SIMMETRIAWILLIAM BLAKE E L’ANTICLASSICISMO

William

Blake, The ancient of the Days

(23.3 x 16.8 cm), 1794, British M

useum, L

ondon.

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Dedali ~ Saperi e semiotiche

William Blake si può considerare come colui che dimise completamente il Neoclassicismo dalla cul-tura inglese del proprio secolo.

Il titolo di questo saggio è tratto da quella che resta probabilmente la poesia più famosa di Blake: The Tyger, inserita nella raccolta Songs of expe-rience; lo stesso titolo è stato assegnato alla raccolta di saggi dedicati all’eclettico inglese da Northrop Frye (cfr. N. Frye, 1969), che rimane il suo più appassionato studioso.

Non ci interessa analizzare qui l’arte pittorica e le incisioni dell’artista, anche se alcuni rimandi saranno inevitabili, non fosse per il fatto che egli usava illustrare le proprie opere; né ci interessa dare spazio a quella critica psicologica che si è partico-larmente accanita su Blake (pare, secondo alcuni, che egli abbia iniziato ad avere visioni alla tenera età di quattro anni), giungendo a considerare nella sua figura «uno dei più probabili esempi di artisti psicotici» (E. Kris, 1967: 89).

Ciò che maggiormente ci interessa è analiz-zare l’opera letteraria dell’artista dal punto di vista teologico e filosofico, poiché, checché se ne dica, essa rimane prima di tutto un’opera di religiosità preponderante, nonché un tentativo – del tipo, a nostro avviso, di quello che perpetuano tutti i veri filantropi – di salvare la contemporaneità dall’as-sopimento nei dogmi e nelle mode imperanti; e la moda imperante del secolo in Inghilterra aveva un nome in particolare: Joshua Reynolds, sodale fra gli altri di Edmund Burke.

All’immagine di Joshua Reynolds si può ricol-legare una delle critiche più feroci al classicismo di fine Settecento: mi riferisco ai marginalia, ovvero a quel tipo di note che lo stesso Blake appose alla copia personale dei Discourses reynoldsiani (oggi conservati presso il British Museum nell’edizione del 1799) e che furono poi raccolti come opera a parte (W. Blake, 1965). Proprio da questo testo, che si configura come un manifesto programmatico, è necessario partire per poter meglio comprendere la posizione di Blake.

Uno dei capisaldi della critica blakiana all’ope-ra di Reynolds è la bersagliatissima nozione di central form, ovvero il principio di astrazione, seguito anche nella rappresentazione letteraria, che deriva proba-bilmente a Reynolds dall’affezione a un principio di uniformità dell’anima umana (intesa ancora, alla ma-niera di Ficino, come copula mundi).

In base a questa convinzione i classicisti evi-tavano di indulgere nel particolare: il loro scopo era

quello di generalizzare il più possibile e di rappre-sentare una classe dell’esistente piuttosto che i suoi singoli individui componenti.

E difatti si legge ancora nel Rasselas, Prince of Abyssinia di Johnson:

The business of a poet […] is to examine, not the individual, but the species; to remark general properties, and large appearances; he does not number the streak of a tulip, or describe the different shades in the verdure of the forest. He is to exhibit in his portraits of na-ture such prominent and striking features, as recall the original to every mind; and must neglect the minuter discrimination.

L’occupazione di un poeta […] è quella di esamina-re non l’individuale, ma le specie; di rimarcare proprietà generali e fatti ricorrenti; egli non si sofferma sulla stria-tura di un tulipano, e non descrive le differenti ombreg-giature nella vegetazione della foresta.

Egli deve mostrare nel suo ritratto della natura le più prominenti e straordinarie fattezze, come se esse doves-sero richiamare ad ogni mente l’originale. Soprattutto [Egli] deve aborrire la descrizione troppo particolareg-

giata.

[Traduzione propria da S. Johnson, 1968:47; dell’opera esiste un’ot-tima traduzione italiana di G. Miglietta in S. Johnson, 1983:63]

Notiamo dunque una tendenza platonica al processo mentale sintetico-induttivo, che si traduce in questo afflato generalizzatore.

Blake si attestò su posizioni differenti, rivendicando la centralità dell’individuo anche nella rappresenta-zione letteraria. E naturalmente questo discorso si ritrova nelle Annotazioni ai discorsi di Reynolds (W. Blake, cit.: 509-511).

Minute Discrimination is Not Accidental. All Sublimity is founded on Minute Discrimination. […] One Central Form composed of all other Forms be-ing Granted, it does not therefore follow that all other Forms are Deformity. All Forms are perfect in poet’s mind, but these are not Abstracted nor Compounded from Nature, but are from Imagination.

What is General Nature? Is there Such a Thing? What is General Knowledge? Is there such a Thing? Strictly speaking All Knowledge is Particolar. The Symmetry of Deformity is Pretty Foolery. Can any Man who thinks talk so? Leanness or Fatness is not Deformity, but Reynolds thought Character itself ex-travagance & deformity. Age & Youth are not classes, but properties of each class; so are learness & fatness.

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3Francesca Coraglia ~ Una feroce simmetria. William Blake e l’anticlassicismo.

La discriminazione minuziosa non è accidentale. Tutto il Sublime è basato sulla discriminazione minu-ziosa. […] Dando per certa una Forma Centrale com-posta da tutte le altre forme, non ne consegue necessa-riamente che tutte le altre Forme siano Deformità.

Tutte le forme sono perfette nella mente del poeta, ma queste non sono né Astratte né Composte dalla Na-tura, ma lo sono dall’immaginazione. Cos’è la Natura generale? Esiste una simile cosa? Cos’è la conoscenza generale? Esiste una simile cosa?

In senso stretto ogni conoscenza è particolare. La simmetria della Deformità è una bella stupidaggine. Può un uomo che pensa dire una cosa simile? Magrezza o Grassezza non sono Deformità, ma Reynolds pensava che perfino il Carattere fosse stravaganza & deformità. Vecchiezza e giovinezza non sono Classi, ma proprietà di Ogni Classe; come magrezza e grassezza.

La frammentarietà di questo testo è tipico delle raccol-te di annotazioni; tuttavia, Blake sa essere molto conci-so anche nel suo disordine di scrittore particolarmente prolifico.

Da questo breve ma lapidario commento si scor-ge con evidenza il solco profondo che anche la tradi-zione empirista inglese aveva lasciato in eredità al poeta pittore. Pagine su cui egli aveva lungamente meditato, e per sua stessa ammissione, erano quelle di Locke, ma soprattutto le pagine luminose e altrettanto polemiche di Berkeley che, nei Principles of Human Knowledge (1998; ed. or. 1710), aveva polemizzato esattamente contro le idee astratte di Locke.

Era naturale che Blake prediligesse Berkeley, data la tipologia fortemente apologetica dei suoi scritti, che certo si allinea anche ad una certa tradizione inglese (si pensi a Shaftesbury) di avversione alle teorie lockiane della conoscenza umana, senza discussione sulle quali non si darebbe ricezione estetica.Ma lasciamo la parola al commento stesso di Blake (Ivi, p. 515), che chiosa in questo modo le sue Annotazioni:

Burke’s treatise on the Sublime & Beautiful is founded on the opinion of Newton & Locke; on this treatise Rey-nolds has grounded many of his assertions in all his Di-scourses.

I read Burke’s treatise when very young; at the same time I read Locke on Human Understandig & Bacon’ s Advancement of Learning; on every one of these books I wrote my opinions & on looking them over find that my notes on Reynolds in this books are exactly similar.

I felt the same contempt & abhorrence then that I do now. They mock inspiration & vision. Inspiration & Vi-sion was then, & now is, & I hope will always remain, my element, my eternal dwelling place; how can I then hear it contemned without returning scorn for scorn?

Il trattato di Burke sul Sublime e sul Bello è fondato sulle opinioni di Newton e Locke; su questo trattato Reynolds ha basato molte delle asserzioni che si trovano nei suoi Discorsi.

Ho letto il trattato di Burke quando ero molto gio-vane; nello stesso tempo ho letto Locke, Sull’umana ca-pacità di comprendere e Il progresso e l’apprendimento di Bacone; su ognuno di questi libri ho scritto le mie opinioni, e rivedendole trovo che le mie annotazioni su Reynolds in questo libro sono del tutto simili.

Ho provato lo stesso disprezzo e repulsione allora come adesso… Si fanno beffe dell’ispirazione e della vi-sione. Ispirazione e visione erano allora e lo sono adesso e spero che lo rimangano sempre il mio elemento, il mio eterno soggiorno; quindi come posso sentirle disdegna-re senza ricambiare disprezzo con disprezzo?

Era comprensibile questa reazione per Blake, che pro-prio Reynolds e «la sua banda di astute canaglie» aveva esclu-so dalla spartizione dell’ambiente culturale dell’epoca e dei relativi sostentamenti, riducendolo ad una situazio-ne grave di indigenza. Tuttavia tutto questo discorso si configura come momento fondamentale della rivolta anticlassica proprio per il modo in cui Blake oppone il «particolare» al «generale».

La grandezza di questo artista consistette nel rigettare sia la tradizione estetica che fa capo all’em-pirismo, sia quella che fa capo al neoplatonismo. Queste due correnti si erano date battaglia per un certo periodo, mentre con Addison e Burke i confini tra le due posizioni si erano sfumati.

La filosofia empirista, nell’imporre il suo me-todo sperimentale e induttivo, aveva distrutto quel-la che Shaftesbury riteneva la nozione di genio, cioè l’innata capacità artistica – derivatagli forse ancora dall’antica nozione più estensibile alla grecità tutta che a Platone – dell’invasamento. E tuttavia questa no-zione shaftesburiana di «genio artistico» era media-ta da due grandi processi: il primo era l’obbligo, da parte dell’artista, di osservare attentamente la natura fenomenica prima di rappresentarla (idea che precor-se il Realismo); il secondo era il condizionamento del sensus communis, principio che, da Herbert di Cherbury in poi, non era mai stato messo in discussione.

« A Blake, la cui grandezza consistette nel rigettare sia l’empirismo che il neoplatonismo,

premeva sottolineare il carattere di blasfemia che portava con se il principio di generalizzazione »

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Dedali ~ Saperi e semiotiche

Blake, da questo punto di vista, è radicalmente platoni-co. Ovvero, ritiene che quello del genio artistico sia un dono sovrannaturale (Ivi, p. 509):

Knowledge of ideal beauty. Is not to be acquired it is born with us innate ideas are in every man born with him. They are truly himself. The man who says that we have no innate ideas must be a fool and a knave.

La conoscenza della bellezza ideale non può essere acquisita. Essa nasce con noi. Le idee innate si ritrovano in Ognuno, sono nate con lui; sono veramente lui stesso. L’uomo che dice che non abbiamo idee innate deve essere un folle e una canaglia.

Ciò che a Blake premeva sottolineare era il carat-tere di blasfemia che portava con sé la generalizza-zione: poiché, evidentemente, trascurava il carat-tere rivelatorio, negando così il ricorso attento al particolare che doveva consacrare l’origine ultra-terrena della rivelazione.

Anche per questa propensione Blake non poteva aderire a dottrine che non fossero esoteriche e visio-narie. Sotto questa chiave di lettura si comprendono meglio alcune propensioni del nostro autore; innanzi-tutto, come abbiamo accennato, verso Berkeley (la cui influenza sul pensiero blakiano dovrebbe essere me-glio indagata: presso la Trinity College di Cambridge si conserva la copia della prima edizione del Siris di Berkeley del 1744, appartenuta al poeta, le cui annota-zioni a margine dimostrano la sostanziale conformità del pensiero blakiano a quello del filosofo irlandese); ma anche verso Swedenborg e il suo Divine Love and Divine Wisdom (1788), e soprattutto verso il più famoso precursore Milton, che con il suo Paradise Lost è il vero iniziatore di quel filone mistico-filosofico sotterraneo diffuso nella cultura inglese del secolo.

Una delle opere più maestose di Blake dimostra questa affezione a Milton e, contemporaneamente, il tentativo di superarne la prospettiva. Il titolo è già for-temente indicativo delle intenzioni autorali: The marriage of Heaven and Hell, ovvero Il matrimonio del cielo e dell’inferno, composto nel 1792.Fu questa l’opera che, non a caso, piacque di più ai filo-sofi e agli scrittori filosofeggianti come Goethe (Stefano Zecchi, nel suo Nelle foreste della notte, in Blake, Opere, cit., p. LI, considera quest’opera di Blake come una delle maggiormente influenti nella costruzione dell’edificio del Faust, a cui Goethe lavorò per sessant’anni, anche se la prima edizione precede di poco lo scritto di Blake. Essa fu completata e data alle stampe nel 1775).

E non a torto: qui Blake mostra la sua vena po-lemica più sottile, con una scrittura che sembra nata dall’affezione al dolore. Non si trovano qui la capacità di distacco e il divertimento limpido che traspaiono nella sapiente scrittura del Faust.

Nelle opere di Blake l’autore è doppiamente coin-volto. Se dovessimo valutare la qualità dei suoi scritti mediante il metro shaftesburiano, quello dell’ironia e dell’autoironia, probabilmente non rinverremmo alcun pregio. Quella linea espressiva, sempre in bilico sull’or-lo dell’apocalisse rappresentato, ne fa però uno degli scrittori più inquieti e meno illuministi del suo secolo. Scrive Blake ne Il matrimonio del cielo e dell’inferno: «Che ne sapete se un qualsiasi uccello che taglia le strade dell’aria non è un immenso mondo di delizia chiuso ai vostri cinque sensi?» (Id., in Opere, cit., p. 185)

Siamo qui di fronte ad una scelta programmati-ca della filosofia blakiana e a un radicale sradicamento della teoria platonico-ficiniana dell’anima umana come copula mundi. Se infatti l’antico credo immetteva nell’esi-stente una scissione tra anima e corpo, Blake la ricom-pone facendo coincidere Io, Mondo e Dio. Nessuna visione razionalistica del mondo, dunque, può soddi-sfare la sua produzione letteraria.

C’è un mito nella produzione blakiana che ritorna ci-clicamente: è quello del dio Urizen. Egli è il simbolo della ratio, ed è spesso rappresentato dallo stesso autore come un vecchio canuto. Nell’affermare il proprio do-minio sul mondo, Urizen si distaccò dagli altri Eterni e scelse un’esistenza nel tempo (espressione certamente tautologica, perché se ci si rifà alla dottrina anselmiana l’esistenza è data solamente in una dimensione tempora-le, altrimenti verrebbe definita essenza). Il dio Orc, op-positore strenuo di Urizen, è invece un dio luciferino; è il simbolo del fuoco liberatore, in grado di emanci-pare gli uomini dalle catene della ratio, ma allo stesso tempo è anche colui che mostra all’uomo l’inevitabilità del negativo, del male, della morte come inizio ciclico di una rinascita. Siamo qui in piena ridiscussione del mito prometeico, con accenni allo stoicismo e l’enfa-tizzazione dell’importanza del relativismo e della sog-gettività.Secondo Blake l’uomo è prevalentemente corpo e le sensazioni che esso produce, anziché essere analizza-te come mezzo di ricerca per il raggiungimento di una verità, di un equilibrio universale che uniforma e amalgama, divengono in definitiva uno scopo.

« Anche se Blake non indulge nel sensismo, per lui l’uomo è prevalentemente corpo e le sensazioni che esso produce divengono di conseguenza uno scopo »

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5Francesca Coraglia ~ Una feroce simmetria. William Blake e l’anticlassicismo.

Lungi però dall’autore scivolare nel sensismo. Scrive infatti Blake (Ivi: 170-171):

Without contraries is no progression. Attrac-tion and repulsion, reason and energy, love and hate are necessary to human existence.

From these contraries spring what religious call Good and Evil. Good is the passive that obeys reason. Evil is the active springing from energy.

Good is heaven. Evil is hell.

Senza contrari non c’è progresso. Attrazione e repulsione, ragione e energia, amore e odio sono neces-sari all’esistenza umana.

Da questi contrari ha origine ciò che i religiosi chiamano Bene e Male. Bene è il passivo che obbedisce alla ragione. Male è l’attivo che scaturisce dall’energia.

Bene è il cielo. Male è l’inferno.

Ancora più importante è il passaggio successivo (Ibid.), in cui Blake esplicita meglio quale sia il suo credo:

The voice of the devil:

All Bibles or sacred codes have been the causes of the following errors:

I. That man has two real existing principles, viz a Body and Soul.

II. That energy, call’d Evil, is alone from the Body; and that Reason, call’d Good, is alone from the soul.

III. That Good will torment Man in eternity for following his energies.

But that following contraries to these are true:

I. Man has no body distinct from his soul; for that call’d body is a portion of soul discern’d by the five sen-ses, the chief inlets of soul in this age.

II. Energy is the only life, and is from the body; and reason is the bound or outward circumference of energy.

III. Energy is eternal delight.

La voce del diavolo:

Tutte le Bibbie o i sacri codici sono stati le cause dei seguenti errori:

I. Che l’uomo ha due reali principi di esistenza, cioè un corpo e un’anima.

II. Che l’energia chiamata male procede sola dal corpo; e che la ragione, chiamata bene, procede sola dall’anima.

III. Che Dio tormenterà l’uomo per l’eternità per aver seguito le sue energie.

Mentre i seguenti contrari a queste affermazioni corrispondono invece a verità:

I. L’uomo non possiede un corpo distinto dall’anima; poiché ciò che viene detto corpo è una porzione dell’ani-ma che i cinque sensi, i principali spiragli dell’anima nella presente età, sono in grado di discernere.

II. L’energia è la sola vita, e procede dal corpo; e la ragione è il confine o circonferenza esterna dell’energia.

III. L’energia è piacere eterno.

Il trascendente di Blake è talmente radicale che non contempla conciliazione dei contrari perché anche questo atto, seppur rivoluzionario, mostra una conces-sione alla ratio ordinatrice. Così, alla quieta bellezza egli oppone il caos, il disordine del male come presup-posto alla libertà individuale.

È evidente, come ha spiegato Mario Andrea Ri-goni nel suo capitale saggio Illuminismo e negazione (in M. A. Rigoni, 1985), che siamo qui di fronte a quella parte di secolo che, attraverso le sue mille sfaccettature (Rigoni vi inserisce anche Leopardi e La Mettrie, in un’idea di «secolo lungo», per parafrasare l’opera di Hobsbawm), nega con vigore la preponderanza del-la ragione, opponendo al Lume della Ragione il Buio dell’Istinto, l’eterno presente della dimensione storica deresponsabilizzata. Certo è, come anche lo studioso ebbe a rilevare, che questa tendenza possiede un forte impulso a considerare la Morte come alla stregua di una dea liberatrice.

A ben vedere, il rifiuto di Blake che la scien-za, l’arte figurativa e la letteratura venissero dedotte «dalle cose», quindi dall’empiria, era già un atteggia-mento fuori dal tempo, e il suo stesso modo stilistico di enumerare i vantaggi tratti dal seguire l’impero dei sensi dimostra una certa attitudine, tutta moderna, nei confronti al regime della partita doppia (non estranea a certi scrittori che facevano della ratio ordinatrice e dell’apo-logia borghese i temi fondamentali dei propri scritti).

Ciò che Blake tuttavia non fece mai mistero di mal sopportare era la perdita d’interesse per l’arte mi-topoietica antica; una perdita d’interesse ormai palese-mente programmatica, poiché era chiaro a tutti che, se si voleva fondare una mitologia moderna della mimesis letteraria, era necessario affrancarsi dal dominio cultu-rale dell’antichità.

« Per dimostrare il suo distacco dal classicismo, a cui egli contrapponeva il gotico, Blake prese a illustrare le copie dei suoi libri, che stampava in

proprio, con metodi di incisione rispondenti al suo modello artitico di praxis »

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6Dedali ~ Saperi e semiotiche

Il miglior modo per affrancarsene era quello, secon-do molte personalità eminenti dell’epoca, di seguire la strada di Locke, e cioè di soccombere infine al do-minio della natura fisica, che rendeva tutte le azioni umane necessarie e conformi a modelli precostituiti, «con la conseguenza di costruire le forme della conoscenza sulla base dell’automatismo delle impressioni» (S. Zecchi, Nelle foreste della notte, in W. Blake, cit., p. LIII).

A questa capacità di astrazione e generalizza-zione Blake (Lettera al Dottor Trusler, 23 VIII 1799, in Opere, cit.: 786-787) contrappone il potere dell’im-maginazione.

So che questo mondo è un mondo di immaginazione e visione. Vedo ogni cosa che dipingo in questo mondo, però non tutti vedono così. Agli occhi dell’avaro una ghi-nea è più bella del sole, e un sacco consunto dal denaro ha proporzioni più belle di una vigna colma d’uva. L’albero che commuove alcuni fino a lacrime di gioia è agli oc-chi degli altri soltanto una cosa verde che sta sulla strada. […] Questo mondo, per me, è tutto una continua visione di fantasia o d’immaginazione.

L’immaginazione viene a coincidere con il mondo stesso e vediamo come questo principio sia in questo modo contrario a ciò che avevano postulato i primi au-tori che scrissero di estetica in Inghilterra: in esso non v’è traccia d’astrazione. Ma la cosa forse più interes-sante è che tutta l’opera di Blake ritrova quel legame tra estetica ed etica che era già stato superato da Addison e da Burke.

Anche Blake fu un radicale dissolvitore delle «magnifiche sorti e progressive» (il riferimento è natu-ralmente al Leopardi della Ginestra) in cui il suo secolo iniziava convintamente a credere. La visione è in qual-che modo incontrovertibile: essa, come lo stesso Blake cercò di dimostrare nel poema Jerusalem (circa quattro-mila versi e cento incisioni), sta lì, nella sua eternità immutabile, e non è soggetta all’interpretazione della ragione. Alla fine di questo breve percorso siamo ap-prodati alla ribellione contro le teorie deiste dalle quali partì tutta la riflessione inglese sul rapporto tra fede e ragione, tra istinto e razionalità, e che fecero della cer-chia dei Platonici di Cambridge i precursori del secolo dei Lumi.

La posizione di Blake è chiara se si leggono i suoi giudizi sull’arte classica, fondata quest’ultima sul concetto di armonia matematica delle forme e princi-palmente sul concetto di proporzione, alla quale Blake opponeva la vitalità dell’arte gotica.

Da questa prospettiva per Blake arte greca e romana e tirannia di stato venivano palesemente a coincidere. D’altra parte questo giudizio fu già espresso in prece-denza da Edward Young, che nel 1759, in opposizio-ne all’idea winckelmanniana di arte, aveva scritto che l’unico modo per superare o eguagliare l’arte antica era quello di evitare di imitarla (E. Young, 1918: 6-23). Per dimostrare il suo distacco dal classicismo egli pre-se ad illustrare le copie dei suoi libri, che stampava in proprio, con i metodi di incisione che aveva elaborato e che rispondevano esattamente al modello che egli aveva di arte come praxis, essendo per lui il mondo reale e il mondo immaginativo sostanzialmente la stessa cosa.

Blake avrebbe aderito all’idea junghiana di rin-novamento moderno nel campo delle arti; tuttavia, la sua consuetudine di illustrare i propri testi con una stretta consonanza fra parole ed immagini, soprattutto nelle opere giovanili (Songs of Innocence e Songs of Expe-rience) ricorda molto il testo miniato medievale, come giustamente fa notare lo stesso Zecchi, cit.).

Anche Northrope Frye osserva come questa commistione eserciti sull’immaginario della ricezione una singolare impressione che lega l’immagine alle pa-role e le parole ai ritmi musicali, in una unione che ricalca la nascita stessa della poesia (che, come sappia-mo, ebbe inizialmente un forte legame con la musica). Dunque Blake è antico non tanto nei contenuti, quanto nella forma del suo poetare.

Il compito del neoclassicismo, in Inghilterra come in Francia, era stato quello di tematizzare un au-

to-riconoscimento soggettivo della borghesia di fron-te al corso degli avvenimenti storici: questa strada fu percorsa da Reynolds e dai suoi sodali, mentre Blake rifuggì da questa prospettiva, perché il suo scopo era quello di liberarsi dalle catene della storia. Per questo motivo la contemporaneità gli fu così ostile; egli mi-nava alle fondamenta l’alba di una nuova mitologia e la sua critica fu una delle più precoci all’avvento della disciplina storica romanticamente intesa. D’altra parte questo atteggiamento non fu compreso nemmeno un secolo più tardi, con l’avvento degli scritti nietzscheani, pericolose mine vaganti per l’ordine precostituito.

« Gli accorgimenti di Blake dovettero suonare poco digeribili per i contemporanei, che nulla volevano concedere allo spazio utopico della

rappresentazione: anche la chiarezza espressiva evocava visioni ben poco razionali »

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7Francesca Coraglia ~ Una feroce simmetria. William Blake e l’anticlassicismo.

Altra mira polemica di Blake fu il trattato di Edmund Burke, Sul bello e sul sublime, che faceva trasmigrare la distinzione lockiana tra sensazione e riflessione sul piano estetico del nesso tra bello e sublime.

Secondo Burke, riletto da Blake, il sublime verrebbe a coincidere con il momento astratto, con la magnificenza della concezione delle idee, mentre il bello si costituirebbe più semplicemente come il momento esecutivo, a cui però corrisponderebbe una concezione delle idee depotenziata. Ciò agli occhi di Blake era particolarmente dannoso perché significava riportare nel momento mimetico l’antica distinzio-ne tra pensiero e azione, tra teorizzazione e pratica. Scissione che, fra le altre cose, aveva fatto allontanare l’umanità dalla coincidenza tra le parole e le cose (per citare Foucault), ovvero dal senso primario e pieno dell’esistenza stessa.

Già l’aver individuato un problema filosofico indubbiamente di portata universale – e, oseremmo dire, l’avere anticipato il suo sviluppo prettamente novecentesco – porta Blake nell’olimpo dei pensato-ri controcorrente. La sua avversione alla fiducia nel principio di rappresentabilità, svolta secondo mo-delli storici, realistici, naturalistici o scientifici, por-ta all’affermazione di un relativismo dei significati. Per questo motivo tutta l’opera blakiana è disorga-nica e di difficile interpretazione. Come egli stesso scrisse, il suo scopo era quello di reinserire il divi-no nell’umano, anche a costo di provocare scorno e disapprovazione presso i suoi contemporanei, che giustamente intuirono l’impossibilità dell’impresa. Si confronti il Blake della Lettera al Dottor Trusler, 23 VIII 1799, (in Opere, cit., p. 785):

Sono molto dispiaciuto per l’irritazione che vi ha provocato il Mondo Spirituale. Specialmente se dovessi risponderne. Mi dispiace davvero che le nostre idee sul-la Pittura Morale siano tanto differenti da avervi fatto adirare con il mio Metodo di Studio.

L’accento naturalmente va posto sulla definizione di Blake di mondo spirituale e di pittura morale. Abbiamo già introdotto la discussione sulla reintroduzione della morale nell’estetica che con così tanta fatica era stata espulsa dalle ultime teorizzazioni, nel tentativo di rendere scientifico l’approccio ad una materia che di riscontrabile empiricamente ha ben poco.

Ciò che tormentava Blake fin dagli anni giovanili era la ricostituzione di questa frattura, calcando la penna sulla somma contraddizione della rappresentabilità del

divino, mediata dalla percezione umana (problema che aveva attanagliato anche i pensatori della cerchia di Cambridge). Così Blake in Non c’è religione naturale (1788, in Opere, cit., pp. 66-67).

He who sees the Infinite in all things, sees God. He who sees the Ratio only, sees himself only.

Therefore God becomes as we are, that we may be as he is.

Colui che vede l’infinito in tutte le cose vede Dio. Colui che vede solo la Ratio, vede solo se stesso.

Perciò Dio diventa come noi siamo, affinché noi possiamo essere come egli è.

Notiamo l’incedere aforismatico tipico di tutta la produzione dell’autore, che utilizza un razionalismo apollineo per reintrodurre il concetto di dionisiaco.

E forse è proprio questo accorgimento utilizzato da Blake ad essere poco digeribile dai contempora-nei, che nulla volevano concedere allo spazio utopico della rappresentazione, tanto più se esso utilizzava un linguaggio particolarmente congeniale alla chia-rezza dell’esposizione, evocando però visioni che di razionale avevano ben poco.

Nella sua affezione al mito dei contrari più volte già dimostrata egli esplica tutta la sua filosofia. Ad uno dei due poli sta immobile il dio Jeoshua-Uri-zen, simbolo della ratio ordinatrice. L’illustrazione più famosa a lui dedicata risale al 1794, si ritrova nel frontespizio di Europe ed è generalmente conosciuta con il titolo The Ancient of the Days (fig. 1). Qui Urizen è rappresentato nell’intento di circoscrivere il mon-do con un compasso. Questo rappresenta in modo esplicito come Blake intendesse l’atavico conflitto tra ragione e immaginazione. La ratio è costrizione, ma c’è di più.

La bellezza di questa illustrazione dimostra la ra-dicalità di Blake nel concepire una visione che basa la propria veridicità non sulla consustanzialità dei con-trari, ma sulla irriducibilità reciproca di essi. Scrive Blake nelle Annotazioni agli aforismi di Lavater (in Opere, cit., pp. 55-57).

« La celebrazione di un’estetica del brutto, anche dal punto di vista della ricezione, era

anche per Burke un moto liberatorio dalle catene della ratio ordinatrice »

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8Dedali ~ Saperi e semiotiche

Man is a twofold being, one part capable of good; that which is capable of evil and the other capable of good; that which is capable of good is not also capable of evil, but that which is capable of evil is also capable of good.

This aphorism seems to consider man as simple and yet capable of evil: now both evil and good cannot exist in a simple being, for thus two contraries would spring from one essence, which is impossible; but if man is consider’d as only evil and good only good, how then is regeneration effected which turns the evil to good? By casting out the evil by the good? […] Rectify every thing in Nature as the philosophers do, and then we shall return to chaos, and God will be compelled to be excentric if he creates, o happy philosopher.

L’uomo è un essere duplice, una parte capace di male, l’altra capace di bene; quella che è capace del bene non è capace anche del male, ma quella che è capace del male è anche capace del bene.

Questo aforisma sembra considerare l’uomo come semplice e tuttavia capace del male: ora il male e il bene non possono esistere in un essere semplice, per-ché in tal caso due contrari scaturirebbero da un’unica essenza, il che è impossibile; ma se l’uomo è consi-derato soltanto come male e dio soltanto come bene, in che modo si compie la rigenerazione che trasforma il male in bene? Espellendo il male con il bene? […] Rettifica ogni cosa di natura come fanno i filosofi e allora ritorneremo al caos e Dio sarà costretto a essere eccentrico quando crea, o felice filosofo.

Questa creazione mitopoietica seppe in definitiva liberarsi dalle catene kantiane della frattura con la trascendenza e da tutto quel côté illuministico bri-tannico che affonda le sue radici nell’ipotesi di spie-gare razionalmente il trascendente.

Bisogna anche aggiungere però che forse Bla-ke non aveva compreso bene i termini della questio-ne, soprattutto per quanto riguarda la polemica con l’opera di Burke. È pur vero che al sublime si asse-gna un posto di preminenza assiologica, sia nell’arte mimetica sia nella sua ricezione; ciò, tuttavia, non è causato dal fatto che esso si configura come mo-mento teorizzante, a discapito del bello, che viene relegato nella sfera della praxis. A nostro parere Bur-ke, in questo caso, non ha opinioni molto differenti da quelle di Blake.

Innanzitutto l’accento che egli pone sul mo-mento del sublime gli deriva da un’attenzione ai processi psicologici inconfessabili che sottostanno ad alcuni atteggiamenti altrimenti incomprensibili.

Anche Burke scopre la potenza del male. Il sublime non è altro che quell’istinto verso la morte

e l’autodistruzione (così scandalosamente blasfemo per chi aveva sempre basato il proprio sistema di pensiero sulla norma dell’autoconservazione) che fino a quel momento rimase nella sfera del non di-cibile.La celebrazione di un’estetica del brutto, anche dal punto di vista della ricezione, era anche per Burke un moto liberatorio dalle catene della ratio ordina-trice. Burke perviene a questa scoperta perché fa ricorso a quello studio empirico e indagatore dei fenomeni psico-patologici che a quell’altezza inizia-vano ad essere indagati. La sua prospettiva quindi non esce dal campo scientifico sperimentale.

Blake invece opera la sua critica solo su un piano teoretico. Non che le sue critiche non aves-sero ancoraggio nella realtà, ma il suo programma sfiora solo i massimi sistemi ed è dedicato più alla collettività che non al disagio individuale.

A una più attenta analisi, dunque, se si fa ap-pello alla funzionalità delle opere prese in esame si ridimensiona quella scissione tra generale e parti-colare che fu il nocciolo della questione nella lotta classicismo/anticlassicismo. Questa non è, natural-mente, solo un’impressione di chi scrive. Esiste uno studio molto interessante di Thomas Altizer (1967) che interpreta Blake attraverso Hegel. Questo stu-dio introduce nel sistema blakiano i termini della dialettica, e prova a intravedere una mediazione fun-zionante e una relazione tra termini teorici contrari all’interno dello stesso schema concettuale.

Tuttavia, se è vero che la ricezione avverte si-curamente una certa verità di fondo in questa teoria, pur tuttavia non è possibile affermare che questa fosse l’intenzione di Blake medesimo. Poiché non esiste autore più estraneo alla mediazione. Anzi, proprio sulla feroce contrapposizione di termini antitetici egli ha basato il suo apparato concettuale. Che poi questa tensione perenne fosse impossibile da realizzare per qualsiasi uomo che non fosse Blake questa è altra questione. Mai come in questo caso si può dire che teorizzazione e pratica debbano ri-manere separate nella ricezione dell’opera, anche se lo scopo di Blake era invece quello di reintegrarle vicendevolmente.

A chiosa di questo discorso, dopo aver indi-cato le numerose influenze esercitate sul consesso intellettuale europeo da questo straordinario secolo, e in particolare dall’Inghilterra settecentesca, ci sov-viene un’idea: che proprio questi autori, nella loro tangenzialità rispetto alla cultura dell’epoca e nella

Page 9: UNA FEROCE SIMMETRIA - gorgonmagazine.com · soprattutto le pagine luminose e altrettanto polemiche di Berkeley che, nei Principles of Human Knowledge (1998; ed. or. 1710), aveva

9Francesca Coraglia ~ Una feroce simmetria. William Blake e l’anticlassicismo.

loro caparbietà e fermezza morale, abbiano fornito materia per quello sviluppo del pensiero che succes-sivamente avrebbe portato pensatori come Nietz-sche a esclamazioni come «credo d’essere talmente ateo che penso che un Dio abbia infine inculcato in me questo ateismo» (1998:205).

Si vuole ora concludere con una citazione da Blake, a dare la misura di quanto queste polemiche non fossero sterili e di come il problema della mime-sis riguardi davvero la costruzione di un mito iden-titario, ma anche il modello di una vita comunitaria di cui la contemporaneità ha smarrito il senso.

Così si esprime in proposito Blake nel [Pri-mo] libro di Urizen (in Opere, cit., 348-349):

The remaining sons of UrizenBeheld their brethren shrink togheterBeneath the Net of Urizen.Persuasion was in vain;For the ears of the inhabitantsWere wither’d and deafen’d and cold,And their eyes could not discernTheir brethren of other cities.

I figli di Urizen rimastiVidero i loro fratelli assottigliarsiSotto la luce di Urizen.La persuasione fu inutile;Perché gli orecchi degli abitantiS’erano disseccati, freddi e sordi,E gli occhi non potevano discernereI loro fratelli di altre città.

LETTURE ULTERIORI

T. Altizer, The New Apocalypse. The radical christian vision of William Blake, Michigan State University, 1967.

Berkeley, G., A Treatise Concerning the Principles of Human Knowledge (ed. or. 1710), Oxford University

Press, New York-Oxford 1998.

W. Blake, Annotazioni ai Discorsi di Sir Joshua Reynolds, in Id., Opere, cit., pp. 509-511.

W. Blake, Annotazioni agli aforismi di Lavater, in Id., Opere, cit., pp. 55-57.

W. Blake, Il [primo] libro di Urizen, in Id., Opere, cit., pp. 348-349.

W. Blake, Annotations to the Works of Sir Joshua Reynolds, in The Complete Poetry and Prose, Erdman, New York 1965 (trad. it., Annotazioni ai discorsi di Sir Joshua Rey-

nolds, in Opere, Id., cit.)

W. Blake, Opere, Guanda, Milano 1984.

W. Blake, Lettera al Dottor Trusler, in Id., Opere, cit., pp. 786-787.

W. Blake, Non c’è religione naturale, in Id., Opere, cit., pp. 66-67.

N. Frye, Fearful symmetry, Princeton University, New Jersey 1969.

E. Kris, Ricerche psicoanalitiche sull’arte, (trad. it. di E. Facchinelli), Einaudi, Torino 1967.

S. Johnson, Rasselas, Prince of Abyssinia, (ed. or. 1759), O. U. P., Oxford 1968 [ed. it. 1983, cit.]

S. Johnson, Rasselas, principe di Abissinia (trad. a cura

di G. Miglietta), Il Saggiatore, Milano 1983.

F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Mondadori, Milano 1998.

M. A. Rigoni, Illuminismo e negazione, in Liguori, M. A., Saggi sul pensiero leopardiano, Liguori, Napoli 1985.

S. Zecchi, Nelle foreste della notte, testo introduttivo a W. Blake, Opere, cit., p. LIII.

E. Young, Conjectures on Original Composition, Morley, Manchester 1918.Ritratto di William Blake a opera di T. Phillips (1807).