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un anno di La cronaca quotidiana dei tempi moderni visti con gli occhi di chi non ha più 20 anni e nemmeno 40 2011

Un anno di Tr3nta

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il 2011 delblog Tr3nta

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un anno di

La cronaca quotidiana dei tempi modernivisti con gli occhi di chi

non ha più 20 anni e nemmeno 40

2011

Raccontare il mondo con gli occhi di una genera-zione che ha da raccontare successi, sogni, spe-ranze. Che vuole portare innovazione, idee fre-sche, nuove.

Una generazione invisibile che sta facendo andare avanti questo Paese, una generazione che vuole sognare, che vuole avere modo di raccontare la sua visione di un paese diverso.

REDAZIONE TR3NTA

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INDICE

POLITIC’S 7 SPEECH 52

MEZ-MED 81

RIVOLUZIONI 2.0 88

MEDIACLUB 90

CULTURE CLUB 97

[PHOTO]SPEECH 111

AUTORI 115

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Quello che manca alle idee per diven-tare storia sono le gambe e le braccia.

La nostra, quella che muove questo blog, ha incontrato in questo primo anno le menti migliori di questo Paese ed ha la pretesa, perchè siamo ambi-ziosi, di volerne incontrare ancora di più. Abbiamo dato uno spazio a chi cercava uno spazio ed abbiamo ampli-ficato i momenti migliori e peggiori di questo 2011.

Non abbiamo mai perso di vista la nostra missione, quella cioè di raccon-tare una generazione che ormai è stanca di essere definita e raccontata da altri.

In queste pagine potete trovare una rassegna del meglio pensato e scritto, delle idee più forti e dei racconti più autentici dei quasi 60 autori che hanno raccontato con oltre 700 post e senza fretta un intero anno ed un pezzo della loro vita.

Siamo grati ad ognuno di loro, perchè è solo grazie a loro che siamo riusciti a costruire, mattone dopo mattone, il romanzo generazionale del più duro anno che il Paese abbia mai vissuto da quel drammatico 11 settembre.

In queste pagine troverete la crisi, la politica, la forza, il dolore, l'amore, l'innovazione e i sogni raccontati con la forza della modernità e con il linguaggio che più gli è consono. Ed abbiamo vissuto il mondo e visitato gli States e l'Australia, ballato un tango sotto la pioggia incessante di Londra e abbiamo vissuto i momenti più intensi di piazza Tahrir.

Vogliamo ancora continuare a raccon-tare il mondo che ci circonda, a costruire dal basso con un bottom up autentico la nuova Italia e la nuova Europa.

Dedichiamo questo primo e non ultimo 3book, realizzato grazie al talento, al lavoro ed al genio creativo di Simona Melani, a chi non confonde i desideri con i diritti ed a chi ha biso-gno di diritti per desiderare.

3BOOKDI SERGIO RAGONE | 31.12.2011

NON CHIAMATECI TRENTENNI!DI SERGIO RAGONE | 06.12.2010

Non chiamateci trentenni! No, non è una provoca-zione ma un’esigenza, un necessario atto di verità che dobbiamo compiere se vogliamo davvero par-lare di questa generazione di mezzo.

Il “kindergarten” nel quale i nostri padri ci hanno messo è solo un inganno, un modo per far trascorrere il tempo nell’attesa che la loro generazione prolunghi il più possibile il loro tempo di governo e gestione. La lente d’ingrandimento che il Quotidiano della Basilicata ha voluto usare per leggere meglio e decodificare i ragazzi dell’Ottanta ha messo in evidenza alcuni aspetti chiari che rischiano di perdersi nella carta e nell’inchiostro del giovanilismo più spinto e populista che spesso, ahinoi, alberga nell’animo del meridionale stanco e svoglia-to.

Perché questa mia è una generazione che rischia di passare alla storia come la più quieta, la più invisibile. La generazione che sui social network spera di fare la rivoluzione a colpi di tag e fanpage, di note e di immobi-lismo.

Ma invisibile lo è per forza una generazione che salirà al potere solo verso i 50 anni, quasi come Carlo d’Inghilterra. Ma non è Peter Pan. No, non è eterna bambi-na, la generazione di chi oggi ha 20 o 30 anni. Rassegnata, disillusa. Ma non assopita.Non è una generazione che non sogna. Vive in un Paese bloccato, che da sempre predilige il riciclo al rinnovamento.

Il Paese dei “Grandi Vecchi”, il Presidente del Consiglio ha 72 anni, senza il coraggio di investire sui suoi figli. Un’autorevole inda-gine della Caritas racconta di un rischio impoverimento per i giovani, non solo al primo impiego.

Il 25% dei matrimoni è preceduto da un periodo di convivenza. Negli anni ’60, lo era solo il 6%. Non si tratta, però, di una rivolu-zione dei costumi. Per quanto cresca l’interesse per forme di unione diverse dal matrimonio, molto spesso si tratta di una scelta obbligata da ragioni economiche, più che ideali.

Oggi la strada che porta all’autonomia dalle proprie famiglie è un cammino tortuoso, privo di indicazioni e raramente illuminato da una meta certa.

È questo che manca: una meta. Non bastano più l’università, l’alta formazione o altri percorsi a garantire la certezza del lavoro e il diritto alla realizzazione persona-le. “Il pieno sviluppo della persona”, sancito dall’articolo 3 della Costituzione Italiana, sta diventando la più onirica delle utopie; eppure è la missione autentica dello Stato.

La liberalizzazione delle professioni ci ha fatto toccare con mano quanto sia difficile rinunciare a privilegi ereditari. Ma la vicenda di farmacisti e tassisti fa soltanto da cartina di tornasole ad un Paese pigro ed egoista, nel quale nessuno ha intenzione di mettersi in discussione. L’Italia divenne grande nel Dopoguerra, perché una generazione intera vide nel “posto fisso”, per quanto discutibile, un sim-bolo di riscatto sociale; una vera e propria meta. Con l’assunzione si aveva la percezio-ne di avercela fatta. E si poteva cominciare a pensare a una casa, a una famiglia, al futuro.

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Diceva Gramsci nelle pagine della Città futura: ”Vorrebbe essere un e un incitamento. L’avvenire è dei giova-ni. La storia è dei giovani. Ma dei giovani che, pensosi del compito che la vita impone a ciascuno, si preoccupano di armarsi ade-guatamente per risolverlo nel modo che più si confà alle loro intime convinzioni, si preoc-cupano di crearsi quell’ambiente in cui la loro energia, la loro intelligenza, la loro attività trovino il massimo svolgimento, la più per-fetta e fruttuosa affermazione.”

Tutto questo oggi è rinviato a data da desti-narsi. La precarietà non descrive pienamen-te una condizione che è di vera e propria inquietudine. Ma non è il posto fisso, che chiediamo. Occorre invertire la rotta e segnare una meta. E la risposta può essere la “liberalizzazione dei giovani”. Non solo nel mercato del lavoro, ma di tutto quello che essere giovani significa. Liberalizzazione del futuro. E’ questa la parola chiave del cambiamento e al tempo stesso la sfida che la società deve lanciare alla sua gioventù.

Realizzare il merito vuol dire che tutti devono essere messi in condizione di farlo. Altrimenti il merito è solo un nuovo mito da distruggere. Egualitarismo delle opportu-nità: sostegno al reddito, mobilità sociale. Liberalizzazione dei saperi e della conoscen-za. Liberalizzazione della creatività, del coraggio di intraprendere, di progettare l’avvenire. Questa generazione può farcela. Non è vero che non ha un’anima.

È appena finita l’estate in cui oltre 3 milioni di giovani hanno partecipato a campi di lavoro di associazioni no profit. Forse, c’è una religione della solidarietà, che ci acco-muna. È l’etica di una generazione globaliz-zata, che non contempla più nefandi propo-siti rivoluzionari. L’etica di una generazione che ha deposto simboli e bandiere ideologi-che e non ha nessuna voglia di partecipare a venture guerre di religione.

Generazione “Ikea”, generazione “low cost”: la chiamano così.

Strano, però, che la più grande politica di redistribuzione del reddito per i giovani sia stata messa in campo dalla “Ryan Air”. Che è solo una compagnia aerea, mentre lo Stato è assente e questo Governo nazionale ritiene i giovani un problema e non una risorsa.

Strano che i giovani siano completamente assenti dall’agenda politica di questa nazio-ne, nonostante un ministero dedicato. Ma è anche una “generazione molle”, viziata dai consumi, a volte troppo remissiva, adagiata su quello che ha già. Priva di stimoli per valorizzare i suoi talenti. Necessita di una scossa e la “liberalizzazione” potrebbe esser-lo. Soprattutto per i giovani del Sud.

I giovani chiedono un’occasione. Chie-dono al Paese il coraggio di cambiare. Di investire sul suo bene più prezioso. Di crede-re nel cammino virtuoso della vitalità giova-nile. In Italia bisogna ricominciare ad imma-ginare. Immaginare il futuro del Paese, non dall’oggi al domani, ma da qui a 10, 20 anni.

Capire la modernità. Pensare il futuro. Liberalizzare i giovani, non la categoria dei trentenni, o aspettare che Daniele De Rossi - alciatore della Roma soprannominato “Capi-tan Futuro”- diventi capitano.

Ho sottoscritto un appello che chiede al Mez-zogiorno una riscossa civile, e che tanti citta-dini, imprenditori ed istituzioni come il Presi-dente della Camera Fini, il Vicepresidente del parlamento europeo Gianni Pittella ed i Pre-sidenti Nichi Vendola e Vito De Filippo hanno fatto proprio, e come quell’appello io dico alla mia generazione: su la testa!

Il tempo del lamento è finito.

POLITIC’S

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WIKILEAKS, QUANDO IL POTERE FA I CONTI CON IL LATO OSCURO DELLA LUNADI FABIO MALAGNINO | 13.12.2010

Uno degli aspetti più preoccupanti di questa vicenda è l’accanimento con cui l’amministrazione Usa (Obama is the Presi-dent, do you remember?) cerca di avere sul proprio territorio colui il quale è oggi oggetto attacchi che forse neanche Bin Laden ai tempi d’oro.

Un “Occidente” (ma possiamo ancora chia-marlo così?) serio fondato sui valori della democrazia scaturiti dalla Rivoluzione fran-cese, dall’Indipendenza Americana, dal pen-siero liberale, dovrebbe mobilitarsi per chie-dere garanzie sul trattamento che verrà riservato ad Assange una volta nelle mani dei servizi segreti. Di certo le premesse non sono le migliori.

Altro effetto paradossale di questa vicenda sono le restrizioni che vedremo a breve nel trattamento dei segreti di Stato. Se è vero che Wikileaks ci ha mostrato una volta per per tutte il “pointbreak” determinato dalla rivoluzione di Internet, è altrettanto vero che non può esistere un potere senza una quota garantita di segreti.

Dovremo aspettarci un ritorno alla diligenza come dice Umberto Eco? Di certo no, ma probabilmente dovremo assistere a un giro di vite in primis da quel governo che ai suoi albori aveva promesso massima libertà e apertura nell’epoca post-11 settembre. In particolare per quanto riguarda Internet, Hillary Clinton dixit.

I giornali di questi giorni si occupano a piene mani del caso Wikileaks e dell’arresto del suo fondatore Julian Assange.

È proprio questo il lato oscuro della Luna con cui in futuro gli stati occidentali dovranno fare i conti. L’occidente avrebbe dovuto finanziare Assange, perché creasse reti simili in Russia, Cina, Iran, veri e propri nuclei di resistenza e di sovvertimento civile delle dittature sulla base delle armi di informazio-ne di massa, come dice Vittorio Zambardino.

Invece le élites politiche delle democrazie occidentali hanno scoperto che Internet può essere una spina non solo nel fianco di regimi autoritari, ma anche nel loro.

È partito l’attacco ad aziende informatiche, con l’eccezione di Twitter finora, per piegarle alla loro volontà. Con tanti saluti al miracolo del Cloud Computing. Google, Flickr, Facebo-ok, Myspace e Amazon, che ospitano i nostri blog o memorizzano i dati sui loro server da qualche parte su internet, potranno in qual-siasi momento oscurare il contenuto indesi-derato se sarà loro interesse o dei governi che faranno pressione.

Ma i politici si trovano ora ad affrontare un dilemma angosciante. Il vecchio approccio non funzionerà. Wikileaks non dipende solo dalla tecnologia web. Migliaia di copie di file segreti – e probabilmente di molto altro ancora – sono là fuori, distribuiti da tecnolo-gie peer-to-peer come BitTorrent.

I nostri governanti hanno una scelta da fare: o imparare a vivere in un mondo “WikiLeaka-ble”, o chiudere internet.Bisognerebbe invece rinnovare i nostri valori e portare la nostra democrazia nel ventune-simo secolo.

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AI TEMPI DEI BAMBOCCIONIDI FEDERICO MELLO | 20.12.2010

Bamboccioni. Questa parola dal suono grassoccio rim-balza oggi di sito in sito. Tommaso Padoa Schioppa se n’è andato stroncato improvvisamente da un infarto. Se n’è andato a settant’anni, un’età in cui oggi si è (quasi) considerati “giovani”.

La storia di questo civil servant uomo simbo-lo dell’austerità, ma anche del rigore prodia-no, è già il racconto del progressismo recen-te, delle sue frustrazioni, ma anche del senso dello Stato e della stritolatrice macchi-na mediatica.

Da superministro economico del governo Prodi, Padoa Schioppa, annunciando una misura di sgravi a favore degli italiani più giovani (gli stessi che oggi, quattro anni dopo, mandano chiari segni di rivolta), s’impiccò a questa frase: “Mandiamo i bam-boccioni fuori di casa”, per poi specificare: “incentivare a far uscire di casa i giovani che restano con i genitori, non si sposano e non diventano autonomi, è un’idea importante”.

Quello stigma “bamboccioni”, lanciato contro l’imbelle generazione precaria, lasciò il segno. In primo luogo per le dilanianti divi-sioni del governo Prodi: la parte sinistra dell’Unione, generosa di analisi ma avara di soluzioni, si scagliò contro Padoa Schioppa. Così fece la destra in modo strumentale. Pochi però centrarono il punto.

Il famoso aiuto per uscire fuori di casa era poco più che una mancetta: per i giovani tra i 20 e i 30 anni, una detrazione di 495 euro in tre anni per chi avesse un reddito superio-re ai 15mila euro l’anno; 1000 euro, invece, sempre in tre anni, per chi avesse un reddito inferiore a tale soglia. Nella migliore delle ipotesi, uno sgravio di circa 30 euro al mese per 36 mesi: una cifra simbolo, insomma, più vicina ad una presa in giro che a un vero aiuto.

Fu lo stesso Padoa Schioppa, poi, a varare un “Protocollo Welfare” con in quale venne speso il famoso tesoretto: circa dieci miliardi di euro, una cifra sufficiente a rivoluzionare il welfare italiano in direzione dei precari che invece venne impiegata, per l’85 per cento, a varare lo “scalone pensionistico” e che per-mise a circa 100mila lavoratori, che già godevano della vecchia e conveniente pen-sione “retributiva”, a ritirarsi dal lavoro due anni prima.

Per questo fece tanto male quella definizione di Padoa Schioppa. Divenne simbolo della lontananza del governo di centrosinistra alle esigenze degli italiani più giovani, i più mas-sacrati economicamente; riassunse in poche parole il tradimento consumato dai progres-sisti verso le nuove istanze del paese; la dimostrazione non tanto di volere il cambia-mento, quando di non concepirlo bellamen-te.

Eppure, non si può dire solo questo. Padoa Schioppa era noto per la sua schiettezza. Famosa anche la sua frase, sempre pronun-ciata da ministro, “le tasse sono bellissime”, per la quale venne crocifisso dalla destra. In questo caso, intendeva sottolineare lo stret-to legame tra la democrazia e il prelievo fiscale: il contributo di ognuno, il senso della sua frase, è “bellissimo” per il raggiungimen-to del bene comune.

Al netto di tutto ciò, però non si può tacere come Padoa Schioppa sia stato un uomo per bene. Alla Consob, alla banca d’Italia, alla banca centrale europea.

Europeista convinto, persona competente, uomo di quella generazione che vedeva nell’Europa non tanto la centrale delle scar-toffie e della burocrazia, ma un’ambizione, una visione, un sogno di fratellanza pace nato dalle macerie della seconda guerra mondiale.

Un uomo pubblico, Padoa Schioppa, tra quei pochi che conservano precetti morale cogen-ti, e che su questi tarano la loro condotta. Un uomo onesto, di quelli che oggi mancano in ogni dove.

Per questo è giusto rendergli l’onore delle armi. E anche se oggi la macchina mediatica mette l’accento sui “bamboccioni”, e sulle tasse “bellissime”, va ricordato come un uomo di Stato.Di cui il paese sentirà la mancanza.

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LUCI E OMBRE DELLA RIFORMA GELMINIDI EMILIANO GERMANI | 06.12.2010

Prendiamo, ad esempio, il disegno di legge per la riforma del sistema universitario por-tato avanti dal ministro Maria Stella Gelmini: un testo che, ad essere onesti, non ha soltanto demeriti e cattive intenzioni.

A scanso di equivoci, diciamolo subito: ci sono delle cose nel progetto Gelmini che non convincono e che rendono in larga parte comprensibile lo scontento generale che, nelle ultime settimane, ha alimentato prote-ste di studenti, docenti e ricercatori universi-tari. Ma piuttosto che bocciare in blocco la riforma, può essere forse utile ragionare meglio sui pro e contro della proposta, cer-cando appunto di distinguere tra il pargolo e l’acqua del bagnetto.

Individuare la principale nota dolente del Ddl Gelmini è facile: il diritto allo studio. Per volontà della Costituzione, se non hai abba-stanza soldi ma dimostri intelletto e buona volontà lo Stato deve aiutarti a raggiungere l’obiettivo della laurea, finanziando i tuoi studi con borse di studio e altre misure. Il problema è però che, in tempi di vacche magre, anche i soldi per il diritto allo studio scarseggiano e spesso non bastano per tutti, col risultato che già oggi molti studenti vin-cono una borsa di studio senza la certezza di riceverla effettivamente.Le cose poi sono destinate ad andare peggio nei prossimi anni, visto che l’ultima manovra finanziaria ha ridotto gli stanziamenti per il diritto allo studio, e quindi la coperta rischia di essere sempre più corta.

Per rimediare, la Gelmini ha pensato ad un sistema in cui al tradizionale fondo per le borse di studio si aggiunge un fondo per il merito.

L’idea è apparentemente buona, anche se non si capisce ancora bene da dove arrive-ranno i soldi per il nuovo fondo. È chiaro invece che alle tradizionali borse di studio si dovrebbero aggiungere buoni studio e prestiti d’onore, cioè finanziamenti agevolati che gli studenti dovranno restituire parzialmente o completamente dopo la laurea. Anche questa idea apparentemente non è malvagia, visto che riprende un modello spe-rimentato con successo in altri paesi (ad esempio gli Stati Uniti) e che punta a stimo-lare gli studenti a laurearsi in fretta e trovare subito un lavoro. Peccato però che, visto l’attuale stato dell’occupazione nel nostro Paese, con questo sistema per molti ragazzi si prospetta lo spauracchio di ritrovarsi lau-reati disoccupati o precari e oltretutto con un carico di debiti contratti per studiare.

Ci sono poi altri punti che convincono poco. Innanzitutto, per cercare di ottenere una borsa di studio si dovrà partecipare ad un concorso nazionale che prevede una tassa d’iscrizione, e a molti appare un po’ parados-sale che uno studente con pochi soldi debba pagare per cercare di ottenere un aiuto finanziario dallo Stato. Infine, il Ddl Gelmini mette mano alla riorga-nizzazione del sistema del diritto allo studio, lasciando però ad un successivo intervento del Governo i criteri di gestione. In pratica, si stabilisce che ci saranno meno soldi, che verranno distribuiti in un altro modo rispetto al passato, ma non si decide come, riman-dando la decisione ad un altro momento.

Fin qui “l’acqua sporca”. Ma, come premes-so, c’è anche un “bambino” che varrebbe la pena non buttar via.

La tendenza a buttare via il catino dell’acqua sporca con tutto il bambino dentro sembra essere un vero e proprio “talento” italiano, che purtroppo spesso para-lizza del tutto la già scarsa attitudine alle innovazioni e alle riforme del nostro sistema politico e sociale.

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La proposta Gelmini, infatti, contiene alcuni elementi di razionalizzazione e innovazione del sistema universitario sui quali è forse utile discutere e riflettere con maggiore attenzione, piuttosto che rifiutare in blocco tutto il disegno di legge.

Innanzitutto si punta a “svecchiare” le nostre università, con l’abbassamento dell’età pen-sionabile dei docenti, che lascerebbe qualche cattedra in più ai giovani docenti, e con la limitazione della durata in carica dei rettori, che in alcuni casi hanno la tendenza a rima-nere sulla loro poltrona vita natural durante. Un’altra proposta apparentemente positiva riguarda il meccanismo di accesso alla docenza accademica.

Oggi è tutto gestito tramite concorsi locali che, secondo le accuse di molti, favoriscono il clientelismo politico e il nepotismo dei cosiddetti “baroni accademici”. La riforma prevede invece di istituire concorsi e albi degli abilitati all’insegnamento a livello nazionale, con selezioni più legate al rank degli aspiranti docenti (pubblicazioni, espe-rienze internazionali, ecc.) e più libere dal meccanismo delle conoscenze personali. Anche la carriera dei docenti sarà legata alla valutazione del lavoro svolto e potrà essere preso in considerazione anche il giudizio degli studenti.

C’è poi il tentativo di mettere mano agli sprechi con varie misure non del tutto cam-pate in aria: finanziamenti agli atenei legati alla corretta gestione dei conti di bilancio e ad un rank della qualità scientifica; commis-sariamento obbligatorio per gli atenei con i bilanci in rosso; nomina di direttori generali che affiancano i rettori nella gestione ammi-nistrativa e finanziaria.

Apprezzabile anche l’impegno contro la proli-ferazione spesso esagerata degli atenei e delle facoltà: massimo 12 facoltà per ogni università e federazioni di atenei per razio-nalizzare l’offerta didattica e ridurre le spese.

Infine c’è la questione dei ricercatori univer-sitari, che da anni rivendicano giustamente di essere sottopagati, frustrati nella carriera a causa di nepotismi, clientele e gerontocra-zia e troppo impegnati in attività di insegna-mento per occuparsi adeguatamente nella ricerca.

La riforma prevede che i loro contratti siano a termine e che il rinnovo sia vincolato ad una valutazione dell’operato svolto. In teoria, si tratterebbe di un’applicazione posi-tiva del criterio di selezione dei migliori. L’altro lato della medaglia, però, è che i con-tratti sarebbero rinnovabili solo una volta. Quindi, dopo un po’ di anni, il ricercatore o vince una cattedra o è fuori dall’università.E molti temono che si possa scatenare una “guerra tra poveri” e un’esasperazione della caccia a favori e raccomandazioni.

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BATTISTI E LA DEMOCRAZIA DA OPERETTADI PABLO PETRASSO | 06.12.2010

Credo che i criminali come Cesare Battisti debbano stare in galera. Credo che tutti i criminali condannati definitivamente debba-no stare in galera. Come Erich Priebke, per esempio. Secondo me avrebbe dovuto finire la sua esistenza in una cella.

Credo che l’equazione condanna=prigione vada declinata in senso strettissimo, specie in un Paese il cui premier tiene ostaggio il Parlamento per evitare non di farsi condan-nare, ma addirittura di essere processato. Credo che le parole di questo ometto che non vuole entrare in un’aula di tribunale, riferite a ogni questione che riguardi la giu-stizia, siano come una moneta da tre euro: false.

Detto questo un po’ di fatti. Per amore della precisione (se non della verità, che è un’altra cosa). Cesare Battisti è diventato un John Dillinger all’italiana: il nemico pubblico numero uno della compagnia di giro politica che alimenta “Porta a porta” e specula sulla sofferenza dei familiari delle vittime del terrorismo, cercando di strappare qualche voto in più. Cominciamo.

Battisti, Torregiani e i PacBattisti fu arrestato il 16 febbraio 1979, in una retata seguita all’omicidio del gioielliere Luigi Pietro Torregiani. L’assassinio del com-merciante fu deciso per colpire chi, in quegli anni, tendeva a farsi giustizia da sé. Torre-giani, infatti, aveva ucciso uno dei rapinatori che avevano assaltato il ristorante in cui cenava. Nella sparatoria morì un cliente e un altro rimase ferito. L’omicidio del gioielliere è un atto deliberato, efferato, criminale. Al quale, però, Cesare Battisti non ha parte-cipato.

È il primo e forse più pesante cortocircuito informativo nella storia del Dillinger italiano. Per la vulgata, Battisti (che resta un crimina-le) sparò a Torregiani. E invece non c’era. Non che fosse impegnato in qualche attività benefica: partecipava, a Udine, all’agguato mortale ai danni di Lino Sabbadin, un macel-laio.

Chiedete a una persona qualunque: vi dirà che Battisti ha ucciso il commerciante mila-nese e ferito uno dei suoi figli adottivi, Alber-to, rimasto poi paraplegico. Anche i giornali più prestigiosi “confermano” questa versio-ne: addirittura su una prima pagina di qual-che giorno fa si ribadiva la responsabilità del terrorista recluso in Brasile mentre, all’interno, i cronisti riportavano che Torre-giani era stato “ucciso dai Pac (Proletari armati per il comunismo)”.

Perché nessuno chiarisce (ripeto, solo per amore della precisione, dato che Battisti resta un criminale e deve stare in galera)? Non lo so, quello che si sa è che i veri assas-sini furono catturati e sono stati pure con-dannati. Appartenevano ai Pac, dei quali Battisti non era neppure uno dei capi.

Nel corso del processo, il terrorista fu giudi-cato uno degli organizzatori dell’agguato di Milano, perché – secondo il dissociato Arrigo Cavallina – avrebbe partecipato a riunioni in cui si era discusso dell’attentato. Mandante, criminale, ma non esecutore. Sorge un dubbio: che si voglia accusare mediatica-mente Battisti di un omicidio che non ha commesso solo per spettacolarizzare la sua storia?

Il caso Cesare Battisti sta creando una bufera mediati-ca. Quali sono i motivi per cui il Brasile non vuole estra-dare Battisti? Siamo sicuri di conoscere come sono andati davvero i fatti? Siamo sicuri che non si tratti ancora una volta di mistificazione mediatica?

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Democrazie da operettaSembra che in Brasile siano pazzi. Che abbiano rifiutato l’estradizione del criminale (ribadisco per sicurezza) perché sono matti o hanno l’anello al naso. Invece, le motivazioni si possono riassumere così: il ricorso alla tortura per estorcere confessioni in fase istruttoria, l’uso di testimoni minorenni o con turbe mentali, la moltiplicazione dei capi d’accusa in base alle dichiarazioni di un pen-tito di incerta attendibilità.

Tutti fatti che chiunque abbia seguito la vicenda processuale difficilmente potrà smentire. Certo, erano altri tempi e il terrori-smo insozzava di sangue le strade d’Italia, ma non si può negare che le forze dell’ordine torturassero i prigionieri politici. E, letta con gli occhi di un giudice brasiliano, come si deve considerare questa cosa, come un invito a far rientrare il detenuto in Italia?

Certo, è opinabile, ma non mi sembra scan-daloso. Infine: è una democrazia da operetta quella che decide sulla base della legge e delle carte processuali o quella che sfrutta l’onda emotiva delle tragedie umane per fare passerella?

A cosa serve BattistiEcco, la passerella. La grancassa mediatica che decide quali siano le notizie, cosa vada enfatizzato e cosa, invece, possa o debba essere oscurato. Il caso Battisti è servito a qualcosa. Ma non si capisce bene a cosa, o almeno non lo si capisce a uno sguardo superficiale. Come finirà?

Probabilmente Battisti non sarà estradato. E questa dovrebbe essere un’offesa insoppor-tabile, stando agli strepiti (politici) di questi giorni. Una cosa che potrebbe (sempre se ci si basa sull’indignazione a comando delle ultime settimane) incrinare per sempre i rapporti tra l’Italia (nazione civile) e il Brasile (nazione da operetta).

E invece Silvio Berlusconi, con un candore degno di Heidi, spiega che non succederà niente: “Tra Italia e Brasile c’è un’amicizia solidissima”.

Ma come, non era uno scandalo fino a qual-che minuto prima? Nasce il dubbio che si faccia tutto per lo show. O, peggio, per ma-scherare altre notizie. Sono sparite dai tg (su alcuni non erano mai apparse, a dire il vero) le ingerenze della politica italiana negli affari miliardari tra Eni e Gazprom. È sparita la vergognosa compravendita dei parlamentari che servirà a tenere in vita il governo.

Eppure continua, sottobanco e sotto traccia. Tutto scomparso dai titoli principali, mentre Silvio racconta a Signorini di comunisti col cachemire che mangiano bambini e PM – sempre comunisti – che vogliono incastrarlo (e invece quando gli conviene sono infallibi-li).

Mentre nei calendari leghisti di Padova scompare il 25 aprile, le scuole muoiono e gli uffici giudiziari sono in ginocchio. Mentre il nostro Paese diventa ogni giorno più brutto, più egoista, più superficiale.Quasi fosse colpa solo di Battisti e dei crimi-nali come lui.

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DA LEVI A BORGHEZIODI AGNESE PORTO | 11.01.2011

Quando avevo tredici anni, leggendo per la prima volta “Se questo è un uomo” mi domandavo, stupita, come fosse stato possi-bile arrivare a quel dramma. Non era la mal-vagità dei gerarchi nazisti o fascisti a stupir-mi, le favole già mi avevano insegnato che il male esiste nell’uomo, erano le persone comuni a lasciarmi di stucco. Mi domandavo: come mai chi viveva nei pressi di un campo di concentramento e vedeva il fumo uscire dai camini, non ha capito, non ha fatto qualcosa per fermare l’orrore, non ha provato “PIETAS” verso chi vi era rinchiuso?

Dopo molto tempo capii che quelle persone erano state convinte all’odio, educate al disprezzo, proiettate alla sopraffazione e non avrebbero potuto far altro che considerare tutto quello “normale e necessario” per non impazzire e per vivere una vita tranquilla, nonostante tutto.Poi c’è stato Primo Levi e la sua tragica storia, il suo libro, il suo suicidio.Poi ci sono state quelle parole: “Meditate che questo è stato:/vi comando queste parole./Scolpitele nel vostro cuore…O vi si sfaccia la casa,/la malattia vi impedisca,/i vostri nati torcano il viso da voi“.

Dopo, davvero, i cittadini non avrebbero potuto permettersi il lusso d’ignorare il dolore altrui, dopo non avrebbero potuto rimanere impassibili davanti alle difficoltà o ai soprusi.Falso. Sbagliato. Primo Levi viene ucciso tutti i giorni.

Sono ancora fresche le ultime, annichilenti, dichiarazioni di Mario Borghezio che, durante un intervento nella trasmissione – di cui io fino a poco fa ignoravo l’esistenza – “Klau-sCondicio” spara a zero, tanto per fare una cosa nuova, sui deboli del caso.

Oggi, assistito da un impacciato Klaus Davi, l’europarlamentare dalla bocca larga se l’è presa con i terremotati d’Abruzzo. Ha iniziato il suo intervento con una nota folk: “Buongior-no e Buona Padania” e poi ha assecondato le domande, per nulla faziose, del conduttore che lo ha immediatamente condotto verso l’argomento clou: Alluvionati del Veneto vs Terremotati d’Abruzzo, “sfighe d’Italia a con-fronto” verrebbe da commentare.

Già l’introduzione lascia intendere il corso dell’intervista: “I sinistri che colpiscono il nostro Paese… quello del Veneto, pesante, che ha colpito… e va ad aggravare su casse già appesantite dai problemi della riforma sanita-ria e abbiamo l’Abruzzo, il terremoto che atta-naglia una regione... che era in una situazione prima della crisi economica, un pò di ripresa. Nel Veneto i soldi non sono arrivati ancora, è corretto?”

I Veneti erano già in difficoltà mentre gli abruzzesi stavano benone, economicamente – è il primo messaggio.Poi Borghezio passa al “I veneti non hanno aspettato aiuti, si sono immediatamente rim-boccati le maniche… non hanno fatto il solito spettacolo troppo italiano dei piagnisdei e sce-neggiate” – che invece noi aquilani, abbiamo fatto, a suo dire, e prosegue a raffica con la solita verve padana per tredici minuti e qua-rantadue secondi.

Noi abbiamo avuto i finanziamenti e soldi “in grande quantità” – senza mai quantificare l’ammontare della cifra – mentre ai veneti non è arrivato niente; noi continuiamo a lamentar-ci nascosti dietro le spalle dei nostri politici locali, pretendendo soldi che ormai non ci ser-vono e non ci spettano più… e così via.

La lezione di Primo Levi spesso rimane inascoltata e così ci si ritrova a rivivere scene già viste. Questa volta è nuovamente il caso di Mario Borghezio che attacca l’Aquila e l’Abruzzo del post-terremoto. Agnese Porto, aquilana DOC cerca di riportare quelle affermazioni alla realtà rispondendo a Borghezio da una città che è ancora ben lontana dalla cosiddetta normalità.

Ora, non è a Borghezio che mi rivolgo: credo nella malvagità e nell’insensibilità dell’uomo e lui è solo uno dei vari. Io mi rivolgo ai fratelli veneti, mi rivolgo anche e sopratutto a coloro che hanno perduto attività e case, a chi ha votato la Lega, con la convinzione di fare del bene e vi dico: venite a L’Aquila.

Vi ospiteremo volentieri, d’altra parte c’è il luogo comune che a sud siamo tutti ospitali.Camminate con noi per le nostre piazze distrutte dal terremoto e abbandonate da due anni di incuria, guardate le crepe, i crolli, guardate come “procede” la ricostru-zione (che in realtà non è mai iniziata), venite a sentire l’odore del monumento che nel cimitero ospita le bare delle 309 vittime del terremoto, leggete con noi i loro nomi, le loro date di nascita.

Venite a parlare con i ragazzi, gli uomini e le donne dei movimenti cittadini, diversi per credo politico e per formazione, ma che le maniche se le rimboccano dal 7 aprile 2009. Fate tutto questo con la mente sgombra da preconcetti, con gli occhi, il cervello e il cuore pronti ad accogliere anche conoscenze non previste e portate con voi i vostri fratelli milanesi, torinesi, genovesi, emiliani, friulani e chiunque altro vogliate.

Non vi dico di fare questo per ricreare “sce-nette e piagnistei” che non piacciono nean-che a me, ve lo chiedo perchè c’è bisogno di non fermarsi a quello che vogliono farci cre-dere.

Siamo, a differenza dei polacchi del ’43, in un mondo globale, nel XXI secolo e in una “democrazia”, fino a prova contraria. Siete liberi di aprire gli occhi, siete liberi di scegliere da che parte stare – se dalla parte di chi crede che L’Aquila sia stata ricostruita e noi siamo degli ingrati, o da quella di chi affronta una ben diversa realtà.

Siete liberi di chiedere che “fumo è quello che si solleva” con le nostre manifestazioni e perchè si solleva, siete liberi di venire e noi verremo da voi, perchè siamo una Nazione, fino a prova contraria.

Altrimenti… “vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi“.

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I PREGI DI BEN ALI E LE NOSTRE “COLPE NELLA CRISI TUNISINADI MARIO POLESE | 15.01.2011

Mario Polese guarda alla crisi Tunisina con occhio diverso ed elenca i motivi per cui la Tunisia potreb-be essere considerata un paese occidentale. Ma Polese individua anche il motivo per cui questo non accade.

Studi in Francia a spese del partito socialista marocchino, perfezionamento negli Stati Uniti in ingegneria informatica, Ben Ali è Pre-sidente della Repubblica tunisina dal 1987. Dopo una carriera poliedrica, che lo ha visto ricoprire cariche di prestigio nel mondo mili-tare, diplomatico ed istituzionale, sale ai ver-tici politici del paese dichiarandosi l’uomo del cambiamento e delle riforme.

Andrò controcorrente, ma sono convinto che Ben Ali ha portato avanti la Tunisia in manie-ra egregia, commettendo un solo errore, quello per cui oggi accade tutto ciò a cui assistiamo.Ma andiamo con ordine.

Il Presidente Ben Ali è stato il primo a modifi-care la Costituzione tunisina cassando la presidenza a vita ed introducendo il sistema elettorale moderno. Ha poi dato vita al Comitato Superiore dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamenta-li, e contestualmente ha introdotto cardini giuridici essenziali come la presunzione di innocenza, l’abolizione dei lavori forzati e la libertà di stampa. Dal punto di vista socio economico ha intro-dotto un sistema di welfare di assoluta avan-guardia per i paesi africani e basso asiatici, creando il Fondo di Solidarietà Nazionale e la Banca Tunisina di Solidarietà, due strumenti che consentono di favorire lo sviluppo delle zone più povere investendo proprio sulle gio-vani eccellenze, che attraverso questi istituti vedono la possibilità di realizzare i loro piccoli progetti lavorativi nelle zone depresse del paese. Quanto auspicherei qualcosa di simile per il nostro amato Mezzogiorno!

E vogliamo poi parlare del sistema sanitario tunisino? Copertura sociale al 93%, altissima presenza di centri specializzati e numero elevato di medici per paziente. Tutto ciò non parole al vento, ma motivo di prestigiosi riconoscimenti internazionali.

Le Nazioni Unite infatti, hanno accolto la richiesta di ospitare a Tunisi quest’estate la Conferenza internazionale dei giovani e l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha premiato la Tunisia con la medaglia d’oro della salute poiché è riuscita a realizzare un sistema sanitario efficiente e accessibile a tutti.

Ancora, il 40% degli investimenti in Tunisia avviene nel settore ambientale, con partico-lare intenzione alle fonti rinnovabili; a Tunisi sorgerà la “Città della Cultura”, una sorte di fiore all’occhiello della cultura maghrebina che racchiuderà tutte le principali opere arti-stiche nazionali ed internazionali. Senza dimenticare le importanti rassegne cinema-tografiche e teatrali che ogni anno si svolgo-no ininterrottamente nello scenario unico di Cartagine.

Potrei continuare per ore. Una sorta di Stato Ideale di hegeliana memoria? Certo che no. E richiamo Cartagine, perché se Ben Ali avesse fatto tesoro della storia antica del suo paese avrebbe capito, come ad esempio è accaduto in Marocco, che i pericoli maggiori arrivano sempre da Occidente.

Arriviamo quindi all’ ”errore tunisino”, ad una politica economica totalmente internaziona-listica, specialmente eurocentrica.

La Tunisia ha il primato di aziende europee presenti nel suo territorio tra i paesi del bacino del Mediterraneo e ciò è anche frutto di un accordo ( a mio avviso scellerato per i tunisini e conveniente per noi…) del 2008 per cui tra Tunisia ed Europa esiste il libero scambio di tutti i prodotti industriali.Questo legame fondamentale ed indissolubi-le con l’economia europea ha fatto si che oggi, con la crisi che divampa proprio in Europa, la Tunisia sia il primo stato africano a risentirne.

Ci si è affidati completamente all’estero, senza riuscire a formare proprio personale specializzato nel settore manifatturiero, elet-tronico, informatico.

Oggi paradossalmente la Tunisia è un paese che pullula di professionisti, ma difetta di manovali e tecnici. È un paese che ha biso-gno di trovare al suo interno, e di formare adeguatamente, le risorse umane per sfrut-tare le immense ricchezze che possiede.

Come? La risposta è sempre la stessa, e scu-satemi se insisto con questa analogia tra Maghreb e Mezzogiorno, la cooperazione. Cooperazione tra paesi del Mediterraneo, paesi simili tra loro che però preservano caratteristiche uniche che ne costituiscono il quid pluris; un confronto continuo da cui nascerebbero eccellenze di inestimabile valore umano, leva imprescindibile se si vuole davvero riaffermare la centralità della persona nel conteso socioeconomico mon-diale.

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È GIÁ IL SOLITO 2011DI PAOLO GUARINO |22.01.2011

Un paese che ha bisogno di un nuovo racconto, di una nuova dialettica e di maggiore senso di responsabilità. Questa è l’Italia disegnata da Paolo Guarino che però pare essere ancora un mi-raggio. Per la politica, infatti, è già il solito 2011.

Non pervenuti responsabilità e racconto. Per la politica è già il solito 2011 (piccola rasse-gna di comunicazione politica di inizio d’anno).

Operai, sindacalisti e padroni che si accusa-no vicendevolmente di anteporre interessi particolari al bene generale, in un dibattito che raramente è uscito (nella capacità, appunto, di toccare interessi, non di riempire pagine di giornali) dai cancelli di Mirafiori.Un premier che irrequietamente, trascinato dalla sua più grande passione, cede a inge-nue frequentazioni e rischia guai grossi, di immagine se non giudiziari.Poli democratici, secondi e terzi, che si cor-teggiano, adagiati nelle comodità di un’opposizione che non implica responsabili-tà, nè fattive nè di chiarezza di posizioni.Sistema mediatico broadcasting che conti-nua a far finta di non sapere cosa sia un’informazione indipendente (da proprietà e subalternità culturali o ideologiche).

La responsabilità, in termini sia di accountbi-lity che di rappresentanza del bene generale, anche quest’anno non fa parte dei doni lasciati al patrimonio nazionale da babbi natali e befane. Ci ritroviamo dove eravamo rimasti, e non c’è troppo da stupirsi. Un paese fermo, che guarda indietro, che invecchia. Vecchi sono operai e sindacalisti, nei linguaggi ancor più che all’anagrafe. Vecchi (o troppo giovani) i personaggi delle vicende del premier. Vecchi i protagonisti delle opposizioni. Vecchie le parole dell’informazione.

E non si intravede via d’uscita, per chi non voglia mettere in fuga il cervello, per cercare altrove spazi pubblici più accoglienti o per ritirarsi in un privato che nega il sociale per consolarsi nel social.

Quello che servirebbe è un nuovo racconto del paese.L’ultimo capace di proporne uno (unendo miticamente rassicurazione tradizionalista democristiana e ottimismo muscolare cra-xiano) è stato Berlusconi nel 1994. Da allora, tra alterne vittorie, nulla più è cambiato.

Berlusconi è ormai il paese, come conferma-to dalle indiscrezioni sul nuovo nome del suo partito (ops, scusate, popolo, qui commen-tato negativamente da Crespi). Passare da “Forza Italia” a “Italia” risponde ed evoca la diversa necessità storica del suo scendere e perdurare in politica. La forza dirompente che aveva travolto le macerie della prima repubblica, arenata poi in vent’anni di stasi, cerca oggi un ancoraggio ancor più generali-sta, che non necessità di direzione.

É segno di una vittoria storica, e insieme trasformazione definitiva di un racconto innovativo in uno di conservazione. Chi voleva cambiare e divideva tutto tra forzisti e debolisti, oggi si accontenta di rappresen-tare il paese così com’è, bloccato in uno specchio a sua immagine e somiglianza. Chiamando Italia il suo partito Berlusconi si ferma, si democristianizza, si fa tutt’uno col destino immobile del paese.

Perché può farlo? Perché altri racconti del paese non esistono.

La parola narrazione invece di essere prati-cata diventa ennesimo pretesto di divisione a sinistra, con Bersani e i suoi accaniti da qualche settimana a demonizzarla, come colpa massima del berlusconismo di sinistra che li agita e li minaccia. E pensare che intanto Vendola, il poetico narratore, rischia di perdersi proprio in eccessi di poesia.

Narrazione, per Bersani e il Pd come per Vendola, è solo una parola, evocata nel bene e nel male, mentre è concetto al di sopra del bene e del male. Termine neutro, forma del pensiero e qualità del linguaggio, da perso-nalizzare, interpretare e riempire, quello si bene o male.

Tra gli spin doctor è famosa una frase di Mit-terand: “vince chi sa raccontare una storia al suo popolo, a condizione che sia la storia che il popolo vuole sentirsi raccontare in quel momento e di saperne essere l’eroe”.

É quello che riesce ancora, a volte mirabil-mente, ad Obama, che ha finora faticato nelle azioni di governo (nel fare il presiden-te) ma trova tutta l’ispirazione del leader (dell’essere presidente) in momenti epici come quello della sparatoria di Tucson.

Il suo discorso è di quelli che confermano che è lui il grande narratore collettivo di questi tempi, relegando la povera Sarah Palin a sospirosa paladina della responsabili-tà individuale, rivendicata da lei per smar-carsi dai sospetti e rinfacciata dai suoi detrattori come incoerenza politica.

Responsabilità e capacità di ispirare: questo si chiede a un nuovo racconto del paese.Lo avremo prima che i nostri figli raggiunga-no i tr3nta?

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ALBANIA: LETTERA APERTA AL POPOLO ITALIANODI RUBIN BEQO | 26.01.2011

Dopo le proteste di Tirana del 21 gennaio 2011 che hanno portato alla morte di 3 persone, riceviamo e pubblichiamo questa lettera che richiede supporto internazionale su una serie di problematiche che vanno contro l’ordine democratico del Paese.

Il 21 gennaio 2011 a Tirana, durante gli eventi che hanno portato ai disagi di massa davanti alla sede del Primo Ministro nel viale principale della città, tre persone sono morte per ferite d’arma da fuoco, decine sono rimaste ferite ed altri 113 sono stati arrestati brutalmente e con violenza.

La protesta è stata una chiara esternazione dell’indignazione dell’opinione pubblica per le condizioni di degrado economico e sociale nelle quali l’attuale governo corrotto, come anche provato recentemente, ha portato l’Albania.Successivamente e stato dimostrato attra-verso filmati di telecamere li presenti, che gli spari i quali hanno causato la morte delle tre persone provenivano dalla sede del Primo Ministro.

Durante l’ultima operazione per riprendere il controllo del viale, la polizia ha arrestato 113 protestanti violando palesemente i loro dirit-ti, come dimostrano chiaramente i filamti. L’uso eccessivo della violenza, continuata anche dopo l’arresto e soprattutto mentre i manifestanti venivano accompagnati nei veicoli della polizia, è ripreso dalle videoca-mere.

Esiste una chiara testimoniaza della violenza subita dagli arrestati anche nelle diverse sta-zioni di polizia. Molti di loro sono stati accompagnati in ospedale riportando gravi ferite mentre altri rimangono in condizioni gravi.

Il giorno dopo la protesta la Procura dello Stato ha rilasciato sette mandati di arresto per la Guardia Nazionale ritenuta responsa-bile per gli omicidi.

Dopo il rifiuto delle Forze di Polizia di esegui-re gli arresti, questa disputa senza prece-denti tra le istituzioni è stata ulteriormente aggravata dalle dicchiarazioni pubbliche del Primo Ministro Albanese Sali Berisha, secon-do il quale non sara’ permesso l’arresto degli ufficiali militari responsabili della sicurezza il giorno 21.

Secondo Berisha la Procura è parte di quello che Lui chiama un colpo di stato organizzato dal Partito Socialista.Egli accusa la Procura di voler arrestare gli ufficiali della Guardia di Stato con lo scopo lasciarlo senza protezione nell’eventualità di una nuova aggressione. In queste circostan-ze siamo testimoni di un colpo di stato orga-nizzato dallo stato nei confronti delle sue stesse istituzioni.

Sali Berisha in questa occasione ha pubblica-mente dicchiarato immunità per i militari e le forze pubbliche.Alla luce di questi fatti che hanno suscitato la paura di un regime violento pronto ad ucci-dere senza voler pagare le conseguenze, la parte della società albanese antagonista con questo Governo, e la quale questa lettera rappresenta, neccessita di supporto e solida-rietà internazionale. Bisogno ancora più grande considerando che le istituzioni internazionali presenti i Albania si rifiutano di imporsi sufficiente per influen-zare gli eventi aiutando così gli standard di un paese democratico.Con questa lettera vi esortiamo a scrivere alle istituzioni per Voi più appropriate in modo da poter generare attenzione su questa causa.

Il Movimento “Mjaft”Tirana

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DIVERSI DA CHI?DI MARIO POLESE | 04.02.2011

La parola «civis», nel mondo antico, rappresentava il rapporto politico che intercorreva tra un individuo e il governo della città cui egli apparteneva. Per Aristotele, infatti, i cittadini partecipavano alla vita della polis come governanti e come governati, in quella logica comunitaria che fu propria delle civiltà di quel periodo.

Ma la nozione di cittadinanza ha subito nel tempo notevoli evoluzioni, fino ad essere ricondotta, come diceva Mortati, al possesso di uno status (lo status civitatis) che deriva dall’organico collegamento dei singoli al territorio dello Stato.

Si è parlato a lungo di questa condizione, in maniera articolata e complessa: molti tra sociologi, filosofi del diritto e giuristi hanno tentato di fornire una chiara definizione di cosa possa intendersi per “essere cittadino”; dopo secoli di studi, forse, sarebbe bene accettare l’originaria visione di Santi Romano, per cui “la cittadinanza è una con-dizione giuridica di contenuto variabile, che non può né determinarsi a priori né scom-porsi interamente in singoli diritti e doveri”. In realtà, i contorni della questione diventa-no sempre meno marcati ma di maggiore rilevanza se accostati al tema dell?immigrazione.

Lo straniero, per sua natura, è un elemento particolare e interessante, in quanto genera una forma “tipica” di relazione sociale, che consente di far emergere aspetti che in altri tipi di relazioni non vengono sufficientemen-te evidenziati. Perché unire la Cittadinanza al termine “Straniero”? Perché, come diceva Simmel, lo straniero ci è vicino in quanto condivide con noi alcune caratteristiche che già diamo per acquisite nel rapporto con gli altri, che possono essere più o meno simili a noi (nazionalità, posizione sociale, umanità, ecc.).

Nonostante tutto, proprio questa generalità di aspetti che ci accomunano agli stranieri, continuano a creare una certa lontananza.

Ma i dati riguardanti il nostro Paese, ci indi-cano chiaramente che questa lontananza può e deve essere assimilata e risolta: la crescita demografica dell’Italia, secondo l’ultimo rapporto ISTAT, è da attribuire, ancora una volta, ai flussi migratori; gli stra-nieri residenti in Italia ammontano comples-sivamente a 4.563 al 1 gennaio 2011, con un incremento netto del 7% rispetto al 1° gen-naio 2010.

Ma la residenza è proprio quella variabile di inclusione/esclusione per questi determinati soggetti, capaci di operare, di produrre e di generare servizi in un Paese che li ospita ma che li mantiene in una obsoleta condizione di “appartenenza senza cittadinanza”. Da queste premesse, quindi, sembrerebbe quantomai urgente un’opera di ridefinizione dell’istituto in questione, auspicando l’avanzamento verso una visione che dia più ampio respiro alle identità che compongono le società contemporanee.

Una “cittadinanza di residenza”, che sia sganciata dalla nazionalità e basata sulla effettiva partecipazione alla vita della comu-nità di riferimento. I

n questo, ci sia d’esempio la figura della “Cit-tadinanza europea”, che se pur di aggiunta a quella nazionale, costituisce un innovativo strumento giuridico e identitario, capace di racchiudere al suo interno, non solo i diritti e i doveri ad essa annessi, quanto facilitare un’unione più concreta tra persone di diversa natura e tradizione.

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CHI HA PAURA DELLA MINETTI?DI ANNARITA DIGIORGIO | 12.02.2011

Asta. Pene, culo, vagina: carne, parti del corpo come le altre. Che vendiamo e compriamo tutti i giorni.

Come le braccia per fare il pane, gli occhi per cucire i vestiti, il cervello per studiare. O questi valgono meno di culo e vagina? Perché la dignità è a rischio per cinquemila euro in una notte e non per gli 800 in un mese a Mirafiori con pausa di dieci minuti?

Come se la stessa retribuzione per una serata ad Arcore fosse sfruttamento e per un anno all’Esselunga no. Ieri repubblica.it per informare dell’alto numero di badanti italia-ne titolava “è tornato il lavoro da donna”. Cosa stabilisce cosa sia un lavoro da donna rispetto ad un altro?Non abbiamo tutte studiato per fare le astro-fisiche come le amiche di Concita, e in man-canza d’altro ognuno sfrutta quello che ha. Natalia Aspesi pur avendo firmato l’appello ha scritto su Micromega “Credo che essere un puttanone debba dare tante soddisfazio-ni… Non lo so, io non lo sono stata purtrop-po. Per essere un puttanone prima di tutto bisogna essere bellissime, io ero bruttarella”.

Allora sapete che c’è? Penso che ci voglia del talento, delle capacità, un po’ di merito anche per farsela pagare. Libero mercato: a una domanda, corrispon-de un’offerta. Non è un reato fare sesso. Per-sone consenzienti possono farne come, quando e quanto vogliono, con soldi o senza. Non ledono la libertà di nessuno, e non viola-no nessuna legge. E questa è l’unica asta che divide ciò che è morale da ciò che non lo è.

E anche il limite della maggiore età è neces-sario, ma convenzionale, che non è che a 18 anni e un mese si sa come guidare una mac-china e a 17 e mezzo no.

In uno stato liberale non esistono reati senza vittima, neanche di sesso, e quindi il sesso non ha niente a che fare con dignità e morale, tranne nei Paesi in cui la legge è det-tata dalla religione, in cui si sorveglia sulla castità delle donne o se ne mutilano i genita-li. Ma questo, appunto, è da stato etico. E nel nostro il sesso è ancora visto non come un diritto, ma una cosa che se sei fortunato riesci a fare: ne è la prova la sessualità negata ai 70.000 detenuti nelle patrie galere.

Io non contesto chi manifesterà il 13, non ho una morale da imporre agli altri. Ma non con-divido il loro appello a dire basta ai compor-tamenti che “stanno inquinando la conviven-za sociale e l’immagine in cui dovrebbe rispecchiarsi la coscienza civile, etica e reli-giosa della nazione”. Io non difendo la coscienza religiosa della nazione, lotto per uno stato laico. E in uno stato laico non si dovrebbero attribuire ai politici funzioni pedagogiche e moralizzatrici.

Quanto a me non ho bisogno di mettere sul mio profilo Facebook la foto di Maria Goretti come avrebbe voluto Berlinguer, e neanche di Brigitta Bulgari. Aveva ragione Ferrarotti: “bisogna trovare un lessico e non lasciarlo espropriare con la madonna da un lato e Cic-ciolina dall’altro”.

La mia dignità per fortuna non è intaccata nè da Arcore, nè da chi va in piazza per difende-re l’etica della nazione. E’ solo che entrambe le cose mi sembrano un po misere. Come quelli che vanno al palasharp a dire che loro leggono Kant. Ottima lettura, e poi? Nean-che mi convince la spiegazione della Perina: che il problema è solo che con questi mezzi le ragazze arrivano poi in Parlamento.

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Ma perché qualcuno per caso si è mai chiesto come ci è arrivato Gasparri o Calearo? Iva Zanicchi chiedeva ieri sera a Gad Lerner di non invitarla più in trasmissione perché lei non è una politica seria, è una cantante; ma lui regalandole rose rosse: “Continuerò a farlo, sei una gran signora”. Che differenza ci passa (fino a processo concluso) tra la Zanicchi e la Minetti?

L’avvertita Alda D’Eusanio scrisse nel 1978 un intelligente istant book “Chi ha paura di Cicciolina?”.Chi ha paura della Minetti?

Secondo il principio di non discriminazione credo che a nessuno debba essere preclusa la possibilità di essere eletto, pure Cicciolina fu candidata per gioco dai radicali, ma gli elettori scelsero con tantissime preferenze di mandarla in Parlamento. Queste manifesta-zioni sono misere perchè non accompagnate da proposte politiche.

Non si difende niente dicendo solo basta o raccogliendo firme senza alcun valore. Si difende col votare in parlamento il disegno di legge per l’introduzione di un sistema eletto-rale uninominale maggioritario. E soprattut-to, con la legalizzazione della prostituzione.Se non ora quando?

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C’È BISOGNO DI ANDARE IN PIAZZA?DI GIOVANNA SOLIMANDO | 06.12.2010

Non so cosa sia la felicità, ma qualunque cosa sia si muove. L’immobilismo è la fine di tutto.A.Busi.

Non sono scesa in piazza il 13 febbraio per “Se non ora, quando”, a Torino, nella città in cui vivo adesso. Io che ho sempre creduto nel valore della piazza, nella forza che ti dà stare tutti insieme, uniti, a urlare le proprie ragioni. E che ho manifestato sempre, per qualsiasi cosa. Non sono scesa in piazza e non ci andrei se si manifestasse ancora. Trovo che le donne possano fare a meno della “categoria protetta” in cui vengono infi-late spessissimo, quasi sempre.Manifestare per dire che ti dissoci da chi abusa del suo ruolo politico, mischia pubbli-co e privato, permette a delle giovani donne di trovare la strada facile per arrivare in TV o – purtroppo – tra i banchi della politica. C’è bisogno pure di andare tutti in piazza? Questo vestire di straordinario l’ordinario mi fa vomitare.

Io vedo e ho visto e, spero, vedrò ancora, tantissime donne normali. Ci sono cresciuta in mezzo. Ci lavoro, per mia enorme fortuna. Dove normale non vuol dire banale, invisibi-le. Donne normali che assistono senza mol-lare per anni il fidanzato dopo un incidente con un amore e una speranza e una forza che non so spiegare.

Donne rimaste accanto alla propria famiglia invece di inseguire lontano i propri sogni perché lì c’era bisogno. Donne normali che si accollano il peso di padri e fratelli a vent’anni, perché la mamma non c’è più.Donne studiare e poi fare un lavoro di dedi-zione completa agli altri, a chi vive ai margi-ni, a chi non ha i mezzi per trovare un posto nel mondo. Donne che fanno i figli e se li crescono barca-menandosi tra l’affermarsi come donna in carriera in un mondo di maschi e la casa, con l’aiuto di altre donne (la mamma, la colf, la babysitter). E i maschi a passeggio, la dome-nica mattina.

Rigorosamente senza i figli, come quando sei un single e la domenica puoi dormire fino alle 3 del pomeriggio e non hai impegni e il week-end è tutto tuo.

Vedo donne d’altri tempi sopportare qualsia-si cosa – figli ingrati, mariti che non hanno mai una parola di affetto e riconoscenza, solitudine – ma farlo con ironia e saggezza. Tutte queste storie non ho lette in nessun libro.Sono le mie amiche, le mie zie, le mie cugine, mia sorella.

Vedo pure donne felici, per fortuna. E orgo-gliose di essere donne. Donne con accanto uomini che fanno la spesa e cucinano, vanno a prendere i figli a scuola e si occupano di loro. Molto spesso, mi pare, la felicità di una donna sta anche nell’avere vicino un uomo così. Che non si vergogna di essere sul suo stesso piano, in famiglia e fuori. Che non tradisce il patto di aiuto e rispetto reciproco di un matrimonio, quando addirittura si giura – in due – che si sarà una cosa sola davanti a Dio e davanti agli uomini. Del resto, mio padre ha sempre steso il bucato e assistito me e mia sorella quando eravamo malate. Non riesco a concepire un modello di coppia e di famiglia diverso da questo.

E devo sempre stare attenta a quello che mi metto addosso e a cosa dico. Se no sei subito una veterofemminista o hai le manie di persecuzione.

Questo è quello che vedo e che vivo. Serve andare a manifestarlo? La mia vita - e la vita di milioni di altre donne - sono qui. Basta saperle vedere.

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L’ITALIA AGLI INGEGNERI!DI MASSIMO PREZIUSO | 06.03.2011

Da giovane ingegnere mi è tornata alla mente una cosa che penso da tempo. Ovvero che, da quando in questo Paese il ruolo degli ingegneri è diventato sempre più marginale nelle imprese pubbliche e private, ma più in generale nella società il Paese è pian piano diventato incapace di programmare ed attuare progetti ed inve-stimenti di medio – lungo periodo.

In questo senso, il caso della repentina e brusca approvazione da parte del governo del Decreto Rinnovabili è di scuola.

Qui si è visto all’opera l’approccio di una classe dirigente culturalmente indifferente alla programmazione, che non capisce che lo sviluppo di un Paese è semplicemente frutto del completamento di un insieme variegato di progetti e programmi possibilmente basati su tecnologie innovative, e che la realizza-zione di questi richiede fondamentalmente il poter operare in scenari regolamentari il più possibile certi. Con la approvazione di un Decreto che vuole sostanzialmente annientare l’unica industria in crescita, in maniera anti ciclica, nel nostro paese – quella delle rinnovabili – risulta così ancora di più evidente l’assenza di un approccio manageriale – sistemico (proprio della cultura ingegneristica) allo sviluppo del Paese. Ed è per questo che l’Italia dei talenti imprenditoriali degli ingegneri Olivetti e Mattei è ormai un luogo lontano.

L’assenza dell’ingegnere dalla scena pubblica e privata comincia dalle Università. Basti guardare l’andamento delle iscrizioni negli ultimi venti anni: i giovani – assecondando i messaggi di una società che diceva loro che quel che conta davvero sono le cosiddette “soft skills” e non quelle “hard” – hanno pian piano abbandonato gli studi ingegneristici e si sono diretti verso le facoltà umanistiche (o al massimo ad Economia e Commercio).

Continua nel mondo delle imprese, oggi governate principalmente da professionisti con profili giuridici – economici, che portano con sé nella gestione societaria una logica manageriale di tipo amministrativo e buro-cratico, proprio oggi che una società com-plessa, sempre più basata su paradigmi paradigmi tecnologici di breve durata e rapi-dissima intensità di crescita, dovrebbe svilupparsi attorno alle competenze tecniche e alla “cultura di progetto”, che un ingegnere più di tutti detiene, per formazione e forma-mentis.

Infine è presente nella politica. Mentre in Cina il potere politico è gestito da ingegneri (tra gli altri, Premier e Vice Premier lo sono) – e forse anche grazie a ciò quell’enorme e complesso Paese è riuscito a pianificare con un programma pluridecennale la crescita di quella che a breve diventerà la prima poten-za economica del pianeta – in Italia esso è principalmente gestito da personalità di formazione giuridico – umanistica (il Premier è laureato in legge, il nostro Ministro dell’economia è un commercialista, il Mini-stro dello Sviluppo Economico ha la licenza liceale).

È per tutto questo che auspico a noi tutti che “l’Italia torni agli ingegneri e presto”, pena la fine di questo Paese.

Nota: L’articolo è chiaramente provocatorio, ma vuole mettere in risalto un fatto concre-to: l’assenza dalla scena di quelle professio-nalità di formazione scientifica – che l’ingegnere rappresenta – che potrebbero invece far decollare il Sistema Italia.

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ASPETTANDO IL 17 MARZO DALLA PRIMA CAPITALE D’ITALIADI GIOVANNA SOLIMANDO | 15.03.2011

Mentre pedalo sulla bici blu e gialla di toBike, il servizio di bike sharing del Comune di Torino, al freddo marzolino ho le mani congelate e la schiena che mi scricchiola un pò. La borsa pende a sinistra e l’equilibrio è precario.

Eppure riesco ogni mattina a guardarmi intorno e non ho le cuffie dell’ipod a proteg-germi dal rumore del traffico, delle frenate dei pullman e dallo sferragliare del tram.Alzo lo sguardo e da qualche settimana vedo tantissime bandiere tricolore pendere dai balconi, issate con aste improvvisate o ferme in vecchi portabandiera che nessuno, prima, aveva notato. Così anneriti dal tempo e dalle intemperie. E invece c’erano e qual-cuno li ha usati.

Non ci sono i mondiali di calcio, no. Dal 17 marzo in poi si festeggeranno i 150 anni dell’Unità d’Italia. Lo sanno pure le pietre. E sono mesi che molte mie amiche perdono il sonno e i week-end nell’organizzazione di mostre incredibili ospitate in spazi molto belli. Lo spazio delle OGR per esempio, ex officine dove si costruivano e riparavano i treni – 190 mila metri quadrati su navate lunghe 200 metri – sarà il “contenitore” prin-cipale di mostre ed eventi per le celebrazioni dei 150.

E mentre ogni mattina pedalando osservo sventolare dai balconi torinesi l’orgoglio nazionale, mi viene in mente De Gregori / E poi ti dicono “Tutti sono uguali, tutti rubano alla stessa maniera”. Ma è solo un modo per convincerti a restare chiuso dentro casa quando viene la sera/.

Penso che sia bello, si, essere proprio qui in questo momento, nella prima capitale d’Italia. Come è stato incredibile arrivarci, senza nessun amico da chiamare, nel 2006, in mezzo all’uragano “Olimpiadi”.Ovviamente, da irriducibile, pragmatico, capricorno quale sono, mi chiedo pure cosa rimarrà di tutto questo da novembre in poi, quando i fari si spegneranno e le bandiere annerite dallo smog non sventoleranno più.

E mi chiedo – potevo non farlo? – cosa suc-ceda a Roma, o meglio, da Roma in giù. Verso sud. Non so si respiri la stessa voglia e questo entusiasmo di festeggiare l’Unità. Forse perché l’Unità, soprattutto nelle teste, non sempre esiste. E non sempre si manife-sta.

Poi sempre De Gregori mi canta nella testa e mi rassicura /E poi la gente, (perché è la gente che fa la storia), quando si tratta di scegliere e di andare, te la ritrovi tutta con gli occhi aperti, che sanno benissimo cosa fare.Penso in effetti che i miei conterranei lucani, per esempio, si sono organizzati quando volevano portargli le scorie radioattive in casa e hanno avuto la meglio. E poi per una banale associazione di pensiero sul “reagire/consapevolezza/appartenenza/valori/identità” mi viene in mente la gente che incontro in piazza ogni volta che con Mana-Manà organizziamo SenzaMoneta, un mercato-non mercato in cui ci si scambia oggetti, conoscenze e capacità senza usare i soldi. Vale tutto meno pagare.

Penso a quante volte in due anni hanno scrit-to del mercato sui giornali e alla velocità con cui l’idea si stia diffondendo.Perché va di moda, d’accordo, lo ammetto, fare quelli che risparmiano e non sprecano, ma pure – permettetemi l’orgoglio nel dirlo – perché se fai divertire le persone, se crei occasioni per far cadere diffidenza e pregiu-dizi, mostri che l’alternativa è possibile, pra-ticabile da tutti. E nasce una festa. E deduco, dalla fetta di italiani che incontro nei merca-ti, che non c’è solo un popolo assuefatto e per forza di sinistra.

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Incontro e parlo con gente consapevole, di generazioni diverse, che nel piccolo della piazza del suo quartiere sperimenta modi nuovi di stare al mondo, di essere cittadino consapevole. E mi si para davanti una realtà a tinte meno fosche.

Ma se la storia siamo noi, noi che scriviamo le lettere, siamo noi che abbiamo tutto da vincere, tutto da perdere oggi mi illudo ancora che i valori di appartenenza, di collet-tività e di ingegno che hanno fatto l’Italia unita siano vivi, come 150 anni fa.(E almeno lo scrivo).

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SE CI FOSSE LUCE SAREBBE BELLISSIMODI VITTORIA SMALDONE| 16.03.2011

Erano in cinque quella mattina a Via Fani. Cinque corpi martoriati sull’asfalto. Cinque padri, fratelli, mariti, zii. Cinque famiglie distrutte dal dolore. Un dolore che difficilmente si potrà cancellare.

“Il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, è stato rapito da un commando di brigatisti, cinque uomini della scorta hanno perso la vita in un agguato”. Il 16 marzo del 1978 queste parole riecheggiano di casa in casa. La notizia si diffonde subito.

Paolo Frajese, giornalista del Tg1, appena appresa la notizia si precipita sul luogo del delitto. D’altra parte Via Fani non è molto distante dagli studi della Rai. Per la prima volta l’orrore entra nelle case. Il terrorismo rosso ci è riuscito, ha portato il suo attacco al cuore dello Stato, ma la ripresa televisiva gli è fatale. A terra, coperti dalle lenzuola, ci sono cinque uomini normali. Non sono politi-ci, non sono giornalisti, non sono rappresen-tanti di quello che le Br definivano nel loro linguaggio delirante il “Sim”, stato imperiali-sta delle multinazionali, sono persone sem-plici, “umili servitori dello Stato”.

Pierpaolo Pasolini, profeta di tale sciagura, avrebbe detto forse che gli uomini della scorta di Moro erano più proletari dei brigati-sti stessi, i quali, in nome di un ideale, hanno negato il diritto alla felicità a tanti figli, figlie, madri e mogli. Ma la giustizia in Italia tutela molto di più i carnefici delle vittime. Dei brigatisti tutti gli italiani conoscono i nomi, i volti, il ghigno sprezzante e prepotente di chi in televisione viene ascoltato come un eroe. Dei loro libri sono pieni gli scaffali delle libre-rie, mentre la pubblicistica dedicata alle vitti-me del terrorismo è molto esigua.

Agli ex br vengono garantiti sconti di pena, libertà condizionale e infine la scarcerazioni. Dei terroristi che parteciparono all’eccidio di Via Fani in carcere non è rimasto quasi nes-suno.

Qualcuno è morto, molti altri lavorano, scri-vono, pubblicano, fotografano, alimentano il loro mito. Uno dei killer, un tiratore scelto, poi, non è stato mai identificato. Ma cosa importa. Tutto sommato loro, i terroristi, sono salvi. Si sono redenti. E magari vivono in pace con se stessi. I parenti di Oreste Leo-nardi, Domenico Ricci, Francesco Zizzi, Raf-faele Iozzino e Giulio Rivera, invece no.

I familiari delle vittime sono stati condannati all’ergastolo dell’anima. Fine pena mai. Ed è a loro, a quei cinque agenti della scorta e ai loro cari, che oggi deve andare il nostro pen-siero. In memoria di Oreste Leonardi, Dome-nico Ricci, Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino e Giulio Rivera. Ripetiamo questi nomi come un matra. Nomi scritti sulle lapidi. Impressi nei cuori dei loro cari. Ma spesso assenti dai libri di storia e dai giornali.

Nomi destinati all’oblio. Perché, a 150 anni dall’unità d’Italia, il nostro Paese deve fare ancora in conti con le stragi, “i corpi di stato”, il terrorismo rosso e nero, “Eccetera eccetera eccetera” … Perché a 150 anni dall’Unità d’Italia noi italiani ancora branco-liamo nel buio.

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UN PAESE NORMALEDI SERGIO RAGONE | 17.03.2011

Non sono molti, sono solo 150. Per uno Stato sono una stagione,una primavera, un capitolo di storia. Una storia fatta di uomini e donne, di eroi e di criminali, di servitori dello Stato e di uno Stato servo di se stesso. L’Italia che oggi festeggia i suoi 150 anni non merita molto di quello che rimane della sua Storia.

È un’Italia che merita di più, che meritereb-be un presente diverso, più dignitoso, all’altezza della sua Storia e di chi l’ha fatta.

In questi ultimi 30 anni, ho conosciuto ed imparato la storia della mia terra, dei miei padri, dell’Italia e dei suoi italiani. Ho visto la guerra in tv, la nuvola tossica sul mio cielo, il muro di Berlino sgretolarsi e quel ponte saltare in aria. Ho visto torri cadere, treni saltare in aria e metropolitane diventate scatole di morte. Ho attraversato le stagioni più deludenti e quelle più esaltanti della recente storia politi-ca, non perdendo mai di vista quell’idea e quel mondo da costruire. Ho stretto mani pulite, ho parlato con lingue diverse e con vocaboli nuovi. Ho incontrato occhi sinceri dei quali fidarsi e menti lucide nonostante l’età come il Presidente Giorgio Napolitano. Ho conosciuto chi serve lo Stato per renderci più liberi.

Sono queste immagini che fanno parte della mia storia, della storia collettiva di un Paese oggi un po’ perso. Ma oggi che Italia abbia-mo di fronte?

Oggi l’Italia ha bisogno di un nuovo scatto d’orgoglio che le permetta di superare i par-ticolarismi, gli egoismi e le forze della dispersione che lacerano il tessuto civile del paese. Per battere la rassegnazione e aprire una nuova stagione costituente di impegno civile, dobbiamo liberare le migliori energie presenti nella nostra società.

È necessario costruire una società del merito fondata su una reale uguaglianza di opportu-nità.

Contro lo spettro della lacerazione e del declino, è necessario un nuovo patto nazio-nale di solidarietà che riconosca e fortifichi le forze vitali del Paese, che cementi la coesio-ne territoriale tra Nord e Sud, che sani le fratture tra le diverse categorie sociali e costruisca nuovi legami di cittadinanza da cui nessuno si senta escluso, soprattutto i più deboli.

Oggi la democrazia non è sfidata solo dal rischio dell’ autoreferenzialità e dal plebisci-tarismo. L’ipertrofia del mercato rischia di ridurre gli spazi della sovranità popolare. Serve più democrazia per correggere i falli-menti del mercato e costruire un’economia giusta. La crisi economica che ha travolto l’economia mondiale non è stata un semplice incidente di percorso. Essa è figlia di un mer-catismo sfrenato, dell’idea cioè che il merca-to, da solo, porti all’allocazione perfetta delle risorse, garantisca il massimo benessere individuale e la felicità degli individui. La crisi ha invece dimostrato che, senza con-trollo democratico, gli spiriti animali del mer-cato distruggono ricchezza, causano disoc-cupazione, perdita di benessere e infelicità. Bisogna ribaltare il paradigma economico dominante negli ultimi decenni per costruire un’economia che metta al centro del suo funzionamento i bisogni degli esseri umani.

In questo quadro ci siamo noi, la nostra generazione. Lo abbiamo detto in principio e lo vogliamo ripetere con la forza e la sfronta-tezza che ci caratterizza:“L’Italia non investe nel futuro e nelle sue giovani generazioni.

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Anzi spesso le mortifica conservando impe-netrabili barriere all’accesso al mondo delle professioni, ostacoli alla piena soddisfazione del diritto a costituirsi una famiglia o ad avere protezione nel lavoro, incrostazioni e grumi corporativi, che mortificano il merito, deprimono il talento, fiaccano l’intraprendenza e il dinamismo. L’Italia ha bisogno di più solidarietà tra le generazioni, ma anche di più libertà per i più giovani di costruirsi un futuro e di “determi-narsi” liberamente nel proprio percorso di vita. Un Paese per le giovani generazioni significa che in questa partita l’Italia si gioca larga parte del proprio futuro.

Si tratta di capire se saremo destinati al declino ed alla marginalità nei nuovi equilibri geopolitici, oppure se, all’interno del conte-sto di una nuova Europa, integrata e coesa, potremo ancora esercitare un ruolo ed una funzione. Non si parla delle stancanti dichia-razioni di un dibattito mediatico troppo spesso autoreferenziale.

Si tratta del futuro del paese. Ed il futuro è cosa che riguarda prima di tutto noi. Le gio-vani generazioni, la nostra qualità della vita, la nostra formazione, il nostro lavoro, l’ambiente naturale e sociale in cui vivremo.”

La debolezza della Politica troppo occupata a curare il proprio destino e a frantumare il Paese, la difficoltà dei settori produttivi di disegnare scenari futuri sempre più innovati-vi, la lotta del “quarto potere” sempre più quinto e sempre meno potere, sono mali che vanno cuarti con una forte dose di coraggio e di riformismo applicato.

L’Italia merita un futuro degno del propio passato e gli italiani meritano un Paese più sicuro, convinto dei propri mezzi e delle pro-prie potenzialità. E noi abbiamo il dovere di costruire un Paese migliore, diverso. Un Paese normale.

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SFIZZERO? NO, MARCHIONNE!DI PABLO PETRASSO | 30.03.2011

Capita che Marchionne vada in Parlamento per discutere delle politiche Fiat e un parlamentare - concessionario si preoccupi soltanto dell’eventualità che qualcuno apra una rivendita accanto alla sua.

Capita che Marchionne cerchi di negare un’intervista a Report. Hai visto mai che salti fuori qualche domanda “vera”. Capita che il sindaco di Torino, Chiamparino – che a scopone lo ha sempre battuto – dica di lui: “E’ molto di sinistra”. Capita, addirittu-ra, che l’amministratore delegato più ameri-cano d’Italia dica: “Se la famiglia Agnelli resta in Fiat? Bisognerebbe chiederlo a loro”. Roba che, qualche anno fa, si sarebbe parla-to di lesa maestà.

Forse Marchionne può dirlo perché ha salva-to l’azienda, a conti fatti più con la finanza che con il prodotto, dal tracollo. Forse dietro l’azienda più grande d’Italia si nascondono meccanismi curiosi, per non dire anomali. Come quello che “costringe” i fornitori a restituire, a fine anno, il 2% del lavoro otte-nuto dal gruppo. Esempio: Fiat ti dà dieci milioni di euro di lavoro, tu le restituisci 200mila euro. Qualcuno, alla fine, è stato costretto a chiudere.

Marchionne, quello dell’azienda che chiede bonus ai propri fornitori, si vanta di non aver mai chiesto soldi pubblici (“per fortuna, capacità, intelligenza, botta di culo”). In realtà, lo ha fatto per tutto il 2008 e il 2009. Nel 2010 ha dovuto fare senza: le vendite, in Europa, sono crollate. Il manager, però, giura che i modelli simil-Chrysler andranno fortissimo anche a queste latitudini. E promette che Fiat crescerà del 64% in un mercato europeo in crescita del 15. Intanto, mette in quarantena Giorgetto Giugiaro, uno dei migliori designer italiani, e se lo fa soffiare da Volkswagen, che cresce del 17% e non ha intenzione di cedere spazio a Fiat. Mica facile farsi spazio.Intanto pagano gli operai, “costretti” ad accettare condizioni di lavoro più difficili in cambio della promessa di nuovi investimen-ti. Pena: la chiusura delle fabbriche.

Per il momento, ci sono le cifre a raccontare una difficoltà che si avverte a fine mese. Stipendio medio di un operaio italiano: 1200 euro. In Germania è di 2500 euro. Stipendio di Marchionne secondo la cronista di Report: “4 milioni l’anno esclusa la liquida-zione. Fatti i conti con azioni e stock options, in 7 anni al vertice dell’azienda totalizza circa 250 milioni, 38 l’anno”. I manager vanno pagati bene, specie se possono salvare pezzi dell’economia nazionale.

Ma se 10mila dipendenti Fiat sono in cassa integrazione perché il prodotto non funziona, evidentemente neppure chi guida l’azienda è esente da colpe. E chi chiede sacrifici, dovrebbe esserne disposto a farne qualcuno, a dare l’esempio. Marchionne, per ora, è un esempio di come si possa godere di una fiscalità vantaggiosa vivendo in Svizzera (nel cantone tedesco di Zug, dove l’aliquota mas-sima è del 23%). Ma i conti del manager non tornano. Per aver diritto alle condizioni age-volate, dovrebbe passare sei mesi su dodici in Svizzera. All’ufficio stampa Fiat, invece, giurano che è a Torino per quattro giorni alla settimana.Lui giura di pagare le tasse in Italia come un lavoratore italiano che vive all’estero “e poi pago la differenza in Svizzera”. Un tributari-sta lo smentisce. Fatti due calcoli, Marchion-ne paga il 30% di tasse sui redditi percepiti da Fiat (in Italia sarebbe il 43%) e un’aliquota compresa tra 15 e 23% per i red-diti come ad di Chrysler. Solo sui redditi italiani (4mln di euro) il risparmio del 13% gli frutta circa 500mila euro ogni anno. Ci si pagano 35 operai. Quelli a cui ha promesso qualche miliardo di investimenti in cambio dell’assenso a lavorare di più e con meno diritti. Un’idea per la quale, a occhio e croce, non serve un supermanager. Basterebbe uno stage di un paio d’ore nelle peggiori aziende meridionali.

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IL FANTASMA DI BENITODI VITTORIA SMALDONE | 25.04.2011

Ognuno di noi ha il suo 25 aprile. Questo è il giorno della liberazione. Il giorno in cui è stata sconfitta la dittatura. Il giorno di Roma città aperta. Il 25 aprile ha il volto fiero e ribelle di Anna Magnani.

Rappresenta la rinascita del Paese dopo il regime fascista. Un Paese in ginocchio, un’Italia uscita dalla guerra, povera ma piena di speranze per il futuro. E’l’Italia del Comitato di Liberazione Nazionale. L’Italia dei partigiani e delle partigiane. Di donne e uomini morti in nome della libertà.

L’Italia del 45’ è l’Italia del cinema neoreali-sta. Del trionfo della politica attiva. L’Italia in cui la gente, il popolo, si riappropria final-mente della cosa pubblica. L’Italia in cui si può scegliere di essere sé stessi. Un paese che condanna il fascismo, la sua apologia. Condanna le leggi razziali. Condanna ogni forma di discriminazione. E’da questa Italia qui che nascerà la nostra Costituzione.A ripensarci oggi vengo i brividi.

Soprattutto considerando che, negli ultimi tempi, cinque esponenti del Pdl hanno deciso di presentare un disegno di legge costituzio-nale per abolire la norma della nostra Costi-tuzione che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. Il ddl risale al 29 marzo e i firmatari sono: il senatore del Cristano De Eccher , Fabrizio Di Stefano, Francesco Bevilacqua , Giorgio Bor-nacin, Achille Totaro e il senatore Fli Egidio Digilio.

Quest’ultimo avrebbe poi ritirato la sua firma. L’episodio in ogni caso è grave. Come lo è la proposta del ministro show girl Car-lucci di intervenire sui libri scolastici giudicati “comunisti”. Rivedere la storia in ossequio alle direttive del premier. Dare un altro taglio agli eventi, raccontare i fatti in maniera imparziale o semplicemente gradita a Sua Emittenza.

La caccia alle streghe, ai comunisti, a chi la pensa diversamente, è un’ossessione della maggioranza e soprattutto del suo principale esponente. Addirittura si usa lo spauracchio del comunismo per invogliare i genitori ad iscrivere i figli alle scuole private, cattoliche, per allontanarli dalla scuola pubblica, dove i ragazzi potrebbero essere manipolati da pro-fessori “comunisti”.

Gravi sono le parole dei leghisti sui migranti. Il razzismo. La politica della non accoglienza.La paura del diverso. La chiusura dell’Italia. E grave è ancora di più l’omofobia latente. E’notizia di qualche giorno fa: la deputata Paola Concia e la sua compagna sono state pesantemente insultate per la loro omoses-sualità nei pressi del Parlamento.

Da più parti sono arrivate manifestazioni di solidarietà. Ma dei passanti, della gente comune che ha assistito all’episodio, nessu-no è intervenuto … A questo punto viene spontaneo domandarsi: non è che il fasci-smo sta ritornando di moda?

Riflettiamo. Buon 25 aprile.

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IKEA: MERLO FA BRICOLAGE CON GIOVANARDI SUI DIRITTI CIVILIDI VALENTINA DESIDERI | 27.04.2011

La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare. (Art. 29 Costituzione italiana)

Il poeta Konstantinos Kavafis scriveva:«Che cosa aspettiamo cosi’ riuniti sulla piazza? Stanno per arrivare i Barbari oggi. Perche’ un tale marasma al Senato? Perche’ i Senatori restano senza legiferare? E’ che i barbari arrivano oggi. Che leggi voterebbero i Senatori? Quando verranno, i Barbari faranno la legge.”

Ma chi sono questi barbari che sconvolgono i parlamentari,questa gente che non favella l’italiano ma che si infila nelle case? Sono forse i tunisini? No. Sono forse i rumeni? No. Sono i galli della Lactalis, quelli dell’opa sulla Parmalat ? No. Sono Svedesi. Provengono dal paese più omo-friendly d’Europa.

Si è proprio l’Ikea,la multinazionale che sforna mobili a prezzo popolare e con i libret-ti delle istruzioni incomprensibili come le sparate di Giovanardi sull’articolo 29 della Costituzione. Non ci vuole un dottore in Giu-risprudenza come lui, per capire che il sud-detto articolo che regola i rapporti etico-sociali,va letto in chiave moderna e andreb-be integrato concettualmente e messo a sistema assieme a leggi ad hoc sui diritti civili.

Il marketing ha invaso la politica e dopo la polemica sulla natura femminile di Toscani,abbiamo avuto la polemica sul mani-festo pubblicitario,delicato ma ficcante che recita “siamo aperti a tutte le famiglie”. Sullo sfondo due uomini si danno la mano come in ogni paese civile,si amano alla luce del sole e vanno all’Ikea la domenica.

La concezione della famiglia è crollata come i partiti degli eletti senza programma,quelli che dicono in campagna elettorale ciò che la media degli italiani si vuole sentir dire “Dio,Famiglia e Patria”. Ecco qui,che dal colombaio del Partito Democratico spunta Merlo. Un artigiano del qualunquismo.

«Giovanardi ha ragione. Senza se e senza ma. E il messaggio pubblicitario dell’Ikea va denunciato. Almeno per chi crede nel valore costituzionale della famiglia». Una frase più reazionaria che neanche se ci pensava vera-mente la poteva dire.Bisogna decidere la riva del fiume sulla quale sedersi.

Un problema di posizioni condivise ma anche di obiettivi politici e sociali. E’ arrivato il mo-mento di montare la mensola dei diritti civili nel programma del Partito Democratico,cercando di far avanzare meno viti e bulloni possibili.

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NON ANDRÒ A VOTARE AI REFERENDUMDI ANNARITA DIGIORGIO | 06.12.2011

I primi due, quelli sull’acqua non li ho tanto capiti. La formulazione dei quesiti è astrusa e il contenu-to complicato. Ho capito solo che il comitato pro-motore ne ha però raccolto le firme e continua a pubblicizzarlo spacciandolo per una cosa diversa da quello che è.

Per l’acqua pubblica dicono loro, cosa che in realtà la legge non andrebbe comunque a cambiare. Quelli del NO però non mi hanno aiutato a chiarire cosa invece è davvero in ballo, e non mi hanno convinta a difendere una legge, tanto da andare a votarla, se non ho capito che dice.

Il terzo. Era contro una legge che prevedeva la costruzione di centrali nucleari. Poi la legge nel frattempo è cambiata e il referen-dum quindi inutile. Poi è intervenuta la Corte Costituzionale e ha detto che il referendum si faceva lo stesso, su un altro quesito. E infatti sono cambiate le schede. Questo meno di una settimana fa. Ma la data dei referendum non poteva essere spostata, e allora addio diritto all’informazione, quello che in realtà dice questo quesito non avremo il tempo sufficiente per saperlo.

Che poi dico io ma a me chi me lo garantisce che dopo tutto st’ambaradan e i miliardi spesi per farci votare, poi non facciano comunque le leggi che vogliono? Per esem-pio tanti anni fa passò il referendum per la responsabilità civile dei magistrati, eppure mo Demagistris è diventato Sindaco. E così le Regioni, che il nucleare tanto non lo vuole nessuna. E allora penso che pure per l’acqua alla fine i Comuni faranno un po’ come cre-dono. Per esempio il presidente della mia regione, Nichi Vendola, dice di votare SI al referendum perchè lui è per l’acqua bene comune così costa meno.

E per portarsi avanti qualche giorno fa varato in Puglia un nuovo Ente, l’Autorità Idrica: così l’acqua sarà sempre controllata dal pubblico e in più ci saranno nuove consu-lenza, nuove assunzioni, nuove nomine, sempre pubbliche.

Che pagheremo attraverso l’aumento della bolletta dell’acqua. Menomale che dove ho la casa io, a Chiatona, l’acqua potabile non arriva, e quella del pozzo non la pago.Il quarto. Per abrogare la legge sul legittimo impedimento. Quello lo volevo votare eccome. Penso sia l’unico che interessi dav-vero a Berlusconi. Anche se la legge sca-drebbe comunque a ottobre e quindi vale solo per qualche altro mese. Lo volevo votare perchè non mi sembra giusto che uno perchè è il Presidente del Consiglio o un Ministro è legittimamente impedito a parte-cipare a un’udienza.

Questi così avevano deciso per loro, e vole-vano decidere da soli pure quando erano impediti, che poi anche lì a gennaio è inter-venuta la Corte e ora invece se sono impediti lo decide il giudice. Non a caso qualcuno che a pensar male ci si azzecca diceva che tutto il proliferare di leggi all’ultimo minuto, antici-pando sostanzialmente quello che chiedeva-no i comitati promotori col referendum, era una scusa per rendere la loro utilità super-flua, così da non far raggiungere il quorum al quarto.

Ma voi non ve ne siete accorti. Tutti presi a fare casino tra Giappone, Celentano e Chicco Testa, e a scannarvi su quest’acqua, senza farci capire niente, solo per farvi vedere e prendere i soldi del rimborso che tanto se passa li prendete tutti. E l’unico di cui non avete parlato è quello che nonostante il silenzio sarebbe la più grossa sconfitta politi-ca e personale di Berlusconi. E la vittoria di quella cosa là che siamo tutti uguali. A me dispiace, ma io domenica me ne vado a Chiatona, che tanto lì son si vota e l’unica cosa che c’è è il mare, anche se quando sca-rica l’Ilva l’acqua è un poco sporca. Voi però che siete intelligenti andate a votare. Che ve lo meritate ancora. Berlusconi.

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L’EUROPA DEI DIRITTI PASSA PER L’EUROPRIDE 2011 A ROMADI RICCARDO CAMILLERI | 06.06.2011

Un’Europa a ventisette velocità e l’Italia come fanalino di coda dei diritti sono i temi centrali di Europride 2011, la manifestazione di rivendicazione di orgoglio LGBT (lesbian, gay, bisex e trans gender) che si svolge a Roma dal primo al dodici giugno e avrà il suo apice nella Big Parade dell’11.

Da diversi anni i gay pride hanno perso il suf-fisso legato all’ orientamento sessuale diven-tando solo, si fa per dire, ‘pride’: una festa di orgoglio e rivendicazione per tutte le perso-ne che si trovano a vivere una cittadinanza dimezzata, di eguali doveri, ma differenti diritti.

Orgoglio di essere e rivendicazione del diritto di organizzare la propria esistenza nel modo che più si trova congeniale.L’Europa dei diritti e l’apertura e il coinvolgi-mento della cittadinanza sono, dunque, i temi guida delle lotte del movimento LGBT italiano degli ultimi anni che vengono perfet-tamente interpretati nel Pride Park allestito a Roma fino al 12 giugno nei giardini di Piazza Vittorio.

Al Pride Park l’Italia incontra l’Europa, quella dei diritti e quella che da noi deve ancora arrivare.Nei rapporti ILGA Europe , organizzazione di gay, lesbiche e trans a livello internazionale, il nostro Paese in tema di tutela e riconosci-mento di diritti civili è fuori dal gruppo dei paesi cofondatori dell’unione e precede, di poco, paesi con democrazie ancora molto giovani e fragili.

Nel nostro Paese, contrapposizioni ideologi-che e ormai lontanissime dal sentire comune impediscono le basilari tutele per le persone LGBT: nessuna legge contro l’omofobia, nessun riconoscimento pubblico per le coppie dello stesso sesso, nessuna tutela per i figli di coppie di persone omosessuali, nes-suna possibilità di accedere all’adozione e alla fecondazione eterologa.

Una piazza al centro di Roma e fortemente simbolica, si diceva, crocevia di culture, differenze ed esperienze, protagonista da anni di forme liquide di integrazione e convi-venza quotidiana è dunque elemento portan-te di quanto con Europride 2011 si vuole comunicare.

In questa cornice, frequentata ogni giorno da centinaia di abitanti di Roma, turisti e avventori vari, la comunità LGBT si apre e si fonde alla città, la accoglie e si fa accogliere, tra dibattiti e momenti di elaborazione e con-fronto, serate di animazione e spettacoli tea-trali, la chiave sembra proprio quella di farsi conoscere e riconoscere dalla città e dal nostro Paese usando le armi del dialogo, della presenza fisica e anche della conviviali-tà.

E queste chiavi saranno, e dovranno essere, quelle di volta per la lotta per il riconosci-mento dei diritti civili: “uscire dalle rivendi-cazioni peri i soggetti interessati e gli addetti ai lavori” era l’obiettivo, raggiunto, degli organizzatori della manifestazione.Il messaggio politico dietro a questa modali-tà è chiaro: a chi crede ancora che attraver-so escamotage, giri di parole, manovre di palazzo mascherate da attività di lobbying, o presunta tale, detti e non detti si possa affrontare la tematica della tutela e dei diritti delle persone LGBT, le cittadine e i cittadini rispondono con la spinta della partecipazione e della solidarietà.

Se è vero che in Italia sta cambiando il vento, il centrosinistra che in massa ha ade-rito e appoggiato la manifestazione o un centro destra finalmente di stampo europeo, non potranno non tener conto di questa grande partecipazione e richiesta di allinea-mento legislativo a un sentimento fortemen-te diffuso e condiviso.

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PROPRIETÁ DI LINGUAGGIODI SIMONA MELANI | 29.06.2011

Brunetta, si sa, è un nano. Berlusconi idem. Ed è anche pelato. La Santanchè, non ne parliamo. Per citare mia nonna e non scadere nella volgarità, diciamo che è una “donna pubblica”.

Sono queste le categorie della politica? Perchè se è vero che le parole sono impor-tanti, lo sono anche i pensieri che ci stanno dietro. E se vent’anni di berlusconismo hanno abbrutito culturalmente l’Italia, gli effetti si vedono anche da questo.

Da chi, tentando di opporsi a questo main-steam, ci cade dentro, usa l’insulto per subli-mare l’avversione politica nei confronti di qualcuno. Il problema del linguaggio della politica non c’entra niente con il politichese.

C’entra con il fatto che, nel buttare giù il linguaggio verso il basso nel tentativo di ren-derlo comprensibile a tutti, lo abbiamo fatto spronfondare. E il risultato è lo stesso di quando urtiamo le dita del piede contro uno spigolo e ne diciamo di ogni. Ma un avversa-rio poltico non è lo spigolo del comodino, e non lo si può abbattere a colpi di improperi e di accetta. Quello, lasciamo fare al centrode-stra.

Non è facile riappropriarsi di certe categorie, specialmente quando l’insulto è così diffuso. E così, una donna incapace, stupida, un po’ stronza o che fa qualcosa di sbagliato diven-ta in automatico una puttana. E un uomo un bastardo (il che sottintende sempre un insul-to ad un’altra donna, nello specifico sua madre).

Le donne, che sono le prime vittime del linguaggio scurrile, con insulti diretti e indi-retti, buoni per tutte le stagioni e le feste comandate, stanno cadendo nel tunnel. E sono le prime ad insultarsi tra loro.

Il ministro delle pari opportunià che apostro-fa come “vaiassa” una sua collega di coali-zione – scatenando il godimento non solo degli avversari uomini, ma anche l’ilarità delle donne tutte – è un esempio lampante di come la questione sia quotidianamente alimentata. Tocca alle donne “ripulire” il linguaggio della politica? Anche, ma non soprattutto.

Tocca a tutti, nella quotidianità di ogni giorno, cercare di modersi la lingua quando sta per uscire uno sproposito, bloccare le dita sulla tastiera quandi stiamo per scrivere nano, pelato, ciccione, puttana.

Perchè non si tratta di satira sui potenti – si è sempre scherzato sulla fisicità dei potenti – ma di rabbia che non riesce a venir fuori in maniera pulita, articolata, politica. Questi non sono nani e ballerine. Sono persone che decidono – in maniera sbagliata – delle nostre vite.

Il web e le parole sono le noste armi di con-trocultura più potenti. Non sprechiamo sette lettere per scrivere puttana. Usiamone otto, e scriviamo politica.

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NESSUNO OSÒ TANTO [OVVERO DELLA LEGGE SUL FINE VITA]DI RICCARDO CAMILLERI | 14.07.2011

Nessuno, credo, osò tanto. Impedire all’uomo di disporre della propria volontà. Si badi bene, della propria volontà prima ancora della propria vita, che pur sarebbe legittimo.

La legge approvata alla Camera dei Deputati e ora rinviata al Senato è una legge illibera-le, una legge che va contro il paziente, annulla la sua volontà riducendola a orienta-mento e investe non di una responsabilità, ma di un peso le professionalità di medici e giudici che verranno sommersi di richieste di pronunciamento su quanto non compete loro. Compete a Dio, qualunque, per chi crede, compete alla propria inviolabile volon-tà per chi non segue i dettami di alcuna sen-sibilità religiosa.

Questo Governo ha licenziato una legge degna delle peggiori dittature del novecento, frutto delle peggiori dottrine politiche, tota-lizzanti. Ingiuste allora come oggi. Fuori dalla storia.La posizione delle opposizioni, però, è stata ambigua, oscillante, a mio parere, tra buon-senso e viltà.

Buonsenso quella espressa dal Presidente PD Bindi (che non è proprio a me vicina poli-ticamente ed eticamente, ma di cui nutro rispetto politico …) che ha chiaramente spie-gato come il voto sensato per rispondere a questa legge sarebbe stato quello contrario. Motivato dall’impianto della legge, in primis, che è quello che il legislatore deve guardare. Motivato dalle questioni etiche che non pos-sono essere trattate con urgenza, arrogan-za, sensazionalismo, emozione o, peggio ancora, con la pressione di alcuni poteri che influenzano.

Viltà, da quel gruppo di parlamentari dell’opposizione che si sono astenuti, con la scusa che nessuna legge dovrebbe regolare queste questioni. E qui si assomma l’irresponsabilità di una classe politica.

Non era la questione della gestione del proprio fine vita, non era il giudizio sull’opportunità di disporre del proprio corpo quando la nostra volontà verrà, clinicamente, meno, che doveva, e deve, essere legiferata.

La legge, in questi come in altri casi, deve legiferare per assicurare a ciascun cittadino di poter disporre, ancora, della propria volontà e di poter decidere come porre fine ai suoi giorni in caso di malat-tie o condizioni terminali.

Lo stato non può non legiferare laddove esistano diverse sensibilità. Proprio in questi casi, anzi, lo Stato deve esprimer-si per tutelare tutte(!) le sensibilità ripor-tando le scelte lecite di ciascuno nell’alveo della legalità. Quello che hanno avallato questi parlamentari è il farwest, dannoso quanto questa terribile legge.

Il PD ha, per erroneamente, lasciato libertà di voto avallando questa distor-sione invece di impegnarsi a una vera ricerca, discussione e elaborazione di qualcosa che garantisca in pieno il rispet-to delle convinzioni di ciascuno. Non è impedendo di morire dignitosamente e mettendo all’angolo famigliari, medici e giudici, che si tutelerà la vita umana.

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Provenendo da una tradizione cattolica, valutandone il Carisma prima ancora che le regole ‘istituzionali’, spesso mi sono posto alcune domande e la risposta torna sempre lì: posso decidere, e voglio decidere, perso-nalmente della mia vita, ma impegnando politicamente perché ciascuno possa fare altrettanto [e, ripeto, in questo caso aggiun-gendo che oltre la volontà del malato, anda-vano tutelati anche serenità e libertà d’azione di magistrati e medici].

Forse, guardando oltretevere, come si suol dire, sento più coerenti e vicine le parole del passaggio parlamentare dell’on.Bindi “a quale antropologia state ispirando questa vostra legge? Non certo a quella liberale, non certo a quella cristiana: perché il fondamen-to del rapporto tra Dio di Gesù Cristo e gli uomini è la libertà della persone”, piuttosto che l’opinione di chi si è astenuto dicendo che “è una legge che ‘non doveva essere’, una legge che si colloca oltre un limite che il legislatore non avrebbe dovuto varcare”.

E, nonostante i detrattori, la prima e non la seconda è la direzione in cui si muove questo nostro tempo e, mi sembra, questo PD.

NON SAREBBE POPULISMO MA DIFESA DELLA GIUSTIZIA (E LIBERTÁ)DI TIMOTEO CARPITA | 17.07.2011

I parlamentari che ci rappresentano in questa demo-crazia rappresentativa hanno votato e fatto passare una manovra finanziaria che si ripercuoterà duramente sulla stragrande maggioranza dei settori medi e medio-bassi di questo Paese.

Sono andati a centellinare i centesimi di euro per far dire all’Europa che forse riusciremo ad avere una situazione migliore nel 2014. Nel frattempo, proprio ieri (ancora non sono passate 24 ore), è nata una pagina su Face-book, ”I segreti della casta di Montecitorio”, che subito, per paura di censura da parte dello stesso social network che già avrebbe mandato avvisi in merito, si è fatta seguire dall’apertura di un blog.

I numeri: 30mila fan in meno di un giorno(ora siamo a oltre 50mila). Sembra crescere più velocemente di Google Plus, considerando che è rivolta solo agli internau-ti italiani. Si leggono cose, e si vedono immagini racca-priccianti. Contro chi alzerà il ditino urlando al populismo e al qualunquismo, forse non basterà più la solita “risata che vi seppellirà”. Forse neanche “la risata dei nostri figli” à la Bobby Sands, da parte della popolazione italiana.

Qualcuno seriamente starà pensando di ritornare alla violenza. Frequentando strade e vicoli italiani diversi tra loro, a me pare che questo pericolo comunichi di essere lì, pro-prio dietro l’angolo.

Quando le leggende metropolitane, come queste sulla casta, vengono raccontate, spiegate e fotografate così nel dettaglio nasce da sola dentro di sé la necessità di rivendicare giustizia e libertà. Se ciò non avviene, forse significa avere interiora ben attaccate e inserite in queste leggende me-tropolitane, che dunque non saranno poi tanto leggende, ma realtà invereconde. Da subito, quindi, auspico e spero che uomini e donne, di buona volontà e di sana e robusta costituzione, si mettano “in mezzo” con testa e cuore italiani a quello che forse a breve può diventare uno scontro duro. Perché bisogna garantire la non violenza e allo stesso tempo che questi “della casta” se ne vadano.

Perché l’affermazione “la politica è bella” può essere ripristinata solo così, e non facendo finta di niente anteponendo la la propria, oltretutto sempre più schiavizzata e variabi-le, carriera.

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MODERATI E BARACCONIDI SIMONA MELANI | 18.08.2011

Paola Concia e la sua compagna hanno celebrato il loro matrimonio in Germania, diventando una coppia legal-mente riconosciuta. Un matrimonio che per lo stato ita-liano non esiste e che ha inevitabilmento scatenato un dibattito nel nostro Paese. L’onnipresente Daniela San-tanchè non poteva astenersi dal commentare, con delle argomentazioni che di politico, come sempre, non hanno nulla.

“Tutte queste robe qua, certi eccessi dei gay pride come anche il matrimonio di Paola Concia mi sembrano baracconate molto lon-tane dai gay moderati che sono la stragran-de maggioranza della comunità, sono cose che danno fastidio”

Definire baracconata un matrimonio come quello di Paola Concia è fuori luogo e stru-mentale. Cosa c’è di eccessivo in due perso-ne che si presentano in Comune, di fronte ai loro amici e allo Stato, promettono di stare per sempre insieme e dopo fanno una festa, non riesco davvero a comprenderlo. Sono molto più baraconi certi matrimoni “tradizio-nali”, con fuochi d’artificio, carrozze trainate da cavalli, spose che atterrano in elicottero e 5000 invitati con esclusive vendute ai gior-nali. Matrimoni alla quale la Santanchè è avvezza a partecipare e che sono, franca-mente, molto lontani dalla maggioranza degli eterosessuali “moderati” che invitano 100 amici e parenti e non spendono centina-ia di migliaia di euro per giurarsi amore eterno (finchè dura).

Cosa siano poi, i gay moderati, non è dato sapere. Forse chi indossa una t-shirt macula-ta è un gay estremista, pronto a irrompere su un autobus con una bomba-litter per “gayzzare” gli etero presenti? Allora ci sono anche gli etero estremisti, i malati di testo-sterone, i serial-machos. Quelli, la moderata Santanchè, non li condanna?

“Suggerisco alla Concia che è una donna capace e intelligente di trovare altre strade più politiche, più indirizzate verso il perse-guimento dei diritti individuali le sua batta-glie e di non cedere a strategie autopromo-zionali”

Le strade intraprese dall’on. Concia per il riconoscimento dei diritti civili alla comunità GLBTQ le conosciamo tutti, anche se non abbiamo uno scranno in Parlamento. Il sot-tosegretario Santanchè forse, tra un’ospitata e un’intervista, si è persa qualche passaggio. Come la recente bocciatura della legge che avrebbe introdotto l’aggravante di omofobia ai reati penali, sostenuta anche dal Ministro Carfagna. La volontà di Paola Concia di rendere pubbli-che le foto del suo matrimonio e di racconta-re a Vanity Fair la sua storia d’amore con la compagna non è autopromozione, perchè non si tratta di commercio. Trattasi di testi-monianza, parola forse sgradita al sottose-gretario, di sentimenti e di voglia di vivere una vita normale. Una vita normale, nella quale, se stai male, la persona che ami e che condivide tutto con te non venga allontanata da una stanza d’ospedale – per esempio – perchè “non è un parente”.

“Ma secondo lei i gay si sentono rappresen-tati da questi eventi come il matrimonio della Concia?’, Santanchè ha risposto: “Per nulla, tutti i miei amici gay si sono sentiti comple-tamente lontani e per niente rappresentati dal cosiddetto evento della Concia”.

La Santanchè deve aver aperto una società che si occupa di sondaggi a nostra insaputa. E i suoi amici gay devono essere un campio-ne ben rappresentativo della popolazione italiana, visto che le loro opinioni sono utiliz-zati come dato certo. A questo proposito giro una domanda alla neonata società “I son-daggi di Daniela”: quando la Santanchè ha dichiarato a Pomerigio 5 “insegnamo a baciarsi a casa, non in pubblico… in pubblico, ci ha stufati…” per commentare l’aggressione subita da due ragazzi che si stavano bacian-do per strada a Roma, come si sono sentiti?

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LA LOBBY DEI TRENTENNIDI MARCO ESPOSITO | 06.12.2010

Qualche giorno fa su queste pagine Dino Amenduni, nel suo pezzo “Ci siamo fatti sfuggire la crisi” parlando della manovra approntata dal governo Berlusconi a fer-ragosto per contrastare la pesante crisi finanziaria, ha messo in luce un aspetto importante, passato quasi del tutto sotto silenzio.

Come ogni crisi, anche questa che stiamo attraversando, porta con se delle opportuni-tà. Di cambiamento, di innovazione, di rottu-ra, di cesura con il passato. Sotto questo punto di vista, duole ammetterlo, le propo-ste della nostra generazione, dei giovani italiani, sono mancate. Anzi, detto in manie-ra cruda, siamo stati i grandi assenti di questi incredibili 20 giorni.

Insomma, una crisi che noi più di tutti dovremmo avere interesse a guidare, a mo-dellare e a risolvere, ci ha visto ancora una volta assenti.Che fine hanno fatto i movimenti studente-schi di questo autunno? Quelli che avevano invaso Roma, bloccando gli automobilisti nel traffico, riscuotendone addirittura le simpa-tie? Non pervenuti. Qualcuno di voi ricorda una proposta significativa fatta in quei giorni dai Giovani Democratici? Io no.

Si, insomma, pare proprio che i trentenni, che le nuove generazioni italiane, abbiano deciso di non “sporcarsi le mani” con una crisi che, probabilmente, gli appare più grande di loro.

Ma forse, e qui veniamo alla provocazione, i ventenni e i trentenni italiani hanno preferito scegliere la via dell’autostrada del Sole o della Salerno Reggio Calabria, piuttosto che quello dell’impegno, semplicemente perché sanno di non contare.

Semplicemente, hanno capito che il loro volere, le loro idee, non vengono rappresen-tate nei cosiddetti “tavoli istituzionali”. E, come è accaduto spesso in passato, chi non è rappresentato in quei tavoli, ovvero gli outsiders, cioè i cittadini nati dopo il 1970, è destinato a vedere i propri interessi non tutelati.

E, d’altronde, da chi dovrebbero sentirsi rap-presentati? Dalla Cgil e dai suoi iscritti com-posti per oltre il 50% da pensionati? Dalle giovanili dei partiti? I giovani democratici, il cui fallimento politico è sotto gli occhi di tutti, non sono in grado di distinguersi nem-meno dalle posizioni ultraortodosse di Stefa-no Fassina, responsabile economico del Pd.

L’unica proposta di un certo interesse, per la verità, è giunta da Giovanni Donzelli, leader dei giovani del PdL, che chiede di incidere sulle Baby pensioni, ovvero sui quei diritti acquisiti, o per meglio dire, privilegi acquisi-ti, che gran parte del centro sinistra non osa nemmeno pensare di toccare. Come uscire, quindi, da questa situazione. Il primo passo tocca a noi, ai “Tr3nta”. Svegliarsi dal torpo-re, ed iniziare a lottare sono i prerequisiti. Dire basta, come abbiamo già proposto, all’assistenzialismo familiare, e scendere in campo in prima persona, per prendersi il futuro di questo paese.

Il vero problema, il secondo passo, quello decisivo, riguarda le forme con cui manife-stare il proprio pensiero, il proprio dissenso, le proprie proposte. Vanno bene le manife-stazioni in piazza. Vanno bene i blog, i social network, i siti, le riviste. Ma non bastano.

È giunto il momento di far diventare “attore istituzionale” questo soggetto, gli under 40, che fino ad ora è stato tenuto fuori da tutto. Se nessuno, come sembra, è intenzionato a difendere gli interessi di questa generazione, se nessuno vuole prendersi questa respon-sabilità, se nessuno ha la forza per portare le nostre istanze nei tavoli dove si prendono le decisioni, è il momento di spendersi diretta-mente.

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SI CHIAMANO PROSTITUTEDI DINO AMENDUNI | 27.09.2011

A un certo punto abbiamo smesso di chiamarle prostitute. Chi aveva bisogno di allontanare il pen-siero cattivo, il pregiudizio automatico e la paura del giudizio degli altri, dei propri amici, dei propri conoscenti, dei propri elettori, ha iniziato a chia-marle escort.

Tutti gli altri, uomini e donne, continuano a usare appellativi grevi, mix di vecchi stereo-tipi, fastidio, qualche malcelata e inconfessa-bile invidia per un certo stile di vita, per i vantaggi e i privilegi, per i soldi facili, per il successo vero, presunto, anche solo mo-mentaneo.Quando le cose cambiano nome e questo cambiamento non dipende dalla pressione della cultura popolare, c’è sempre un motivo per cui preoccuparsi.

Chiamarle escort, e non prostitute, le eleva moralmente: sono donne distinte, non sono per strada, non appaiono sotto il ricatto dalla malavita, forse non vendono il loro corpo di professione e a tutti, magari lo fanno ‘per arrotondare’, qualcuno addirittura per piace-re, ricevendo in cambio omaggi dal cliente solo per una forma di altruismo malato.

La prostituzione delle escort è legittima: pagare una prestazione sessuale equivale a concedersi un lusso, come lo champagne o la cocaina. Ottenere servizi sessuali da una escort è una buona moneta di scambio per favori, mazzette, appalti truccati.

Immaginate i racconti di questi giorni se le donne che sono andate a letto col Premier e coi potenti della politica e dell’economia, della destra e della sinistra, fossero state chiamate così come prevede il vocabolario della lingua italiana: prostitute.

Automaticamente i racconti si sarebbero colorati di torbido e di illegittimo. La censura morale sarebbe assai più forte rispetto a quella che possiamo misurare oggi. Il giro di soldi, favori veri e presunti, le cene eleganti, i dirigenti coinvolti sarebbero tutti, indistin-tamente, sporchi.

Le vicende politiche, giudiziarie, di costume e antropologiche hanno subito numerosi attacchi semantici, tutti pienamente riusciti perché sono stati in grado di intaccare il nostro immaginario e non farci chiamare le cose col loro nome.

Ruby Rubacuori non è chiamata mai, da nes-suno, con il suo vero nome: Karima El Mahroug. Chissà come sarebbe andata se non fosse stata marocchina.Silvio Berlusconi non è andato a letto con delle prostitute, è stato l’utilizzatore finale. In quella definizione di Ghedini, in realtà, c’è molta più verità di quello che lo stesso avvo-cato avrebbe voluto ammettere. Nel trattare le donne come semplice oggetto di mercimo-nio, ha in realtà svelato il loro vero valore per Tarantini, Lavitola, Berlusconi e tutti i loro amici.

Berlusconi ha vinto la partita del linguaggio: il processo breve, lo scudo fiscale, il Popolo della Libertà (e i suoi promotori), i Respon-sabili, il legittimo impedimento sono solo alcune tra le perle di diciasette anni di domi-nio semantico su una sinistra troppo impe-gnata a sentirsi diversa da Berlusconi per poter immaginare che la comunicazione fosse un talento neutro.

Nel frattempo ci sfilavano le parole: e così essere opposti al Premier voleva dire essere difensori del processo lungo, della spada fiscale, del Popolo dell’assenza di libertà, degli irresponsabili, dell’illegittimo impedi-mento.

Ora basta. Si chiamano prostitute. E Berlu-sconi è andato a prostitute.

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LA DIASPORA DEI TERRONIDI FRANCESCO DI COLA | 29.09.2011

La presentazione dei risultati di un’indagine rea-lizzata dall’Associzione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno ci parla di “Tsuna-mi demografico”.

Nella sostanza, il Mezzogiorno si sta svuo-tando di giovani, che “emigrano”, come cinquant’anni fa, verso Nord.

Con qualche differenza: i ragazzi che lascia-no le proprie regioni d’origine – le province più coinvolte sono Napoli, Palermo, Bari e Caserta – non s’imbarcano con valigie di car-tone: nel 45% dei casi si tratta di diplomati o laureati e, aggiungo io, verosimilmente delle persone più dinamiche; non è scritto, ma si può ragionevolmente dedurre che abbiano questa caratteristica quelli che non si accontentano delle scarse o sotto qualifi-cate possibilità che potrebbero trovare vicino alla vestaglia di mammà e magari devono o vogliono trovare un proprio percorso in auto-nomia, abbandonando i sentieri professionali già tracciati dai genitori.

Ora, si da il caso che io sia esattamente uno degli emigranti del terzo millennio di cui par-lano gli amici Svimeziani. Ed è banale e pre-vedibile discutere delle conseguenze di un fenomeno di questo tipo: minore stimolo allo sviluppo, invecchiamento della popolazione, regressione del livello di innovazione, ecc. ecc. ecc.

Ed è altrettanto facile pensare a quanto e come per queste ragioni si possano accen-tuare le differenze che pure già sussistono, rilevanti, tra Nord e Sud d’Italia e di quanto gli appestanti fenomeni criminali potranno ancor più rappresentare un interlocutore pervasivo e rilevante nelle società Meridio-nali, offrendo quindi ulteriori sponde agli sproloqui di semianalfabeti politici Padani, ma non solo.

Quello che invece voglio, con fatica, riportare è quanto segue: così come molti altri prota-gonisti della Diaspora dei Terroni, troverei una ragione di vita nella possibilità di impe-gnarmi e offrire un contributo allo sviluppo, se non al recupero, della mia Terra. Allo stesso tempo, più ci penso e più credo che di contributi di questo tipo la mia Terra non li vuole: cosa si potrebbe fare? E con quali mezzi, quali supporti?

A me, e a tutte le persone che conosco e che condividono lo stesso destino d’esilio, pare di non vederne alcuno.In sostanza oggi leggo un articolo e mi pare di vedere provato che, nell’indifferenza generale, i Meridionali hanno rinunciato alla sovranità, al futuro, alla speranza.

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LA COSA 2 (QUELLA PUBBLICA)DI FRANCESCO DI COLA | 24.10.2011

Le notizie serie dell’ultima settimana – a parte quelle sciocche, tipo l’omicidio di Gheddafi (l’inciso dell’inciso: uso omicidio non a caso. Chi condanna i car-nefici non applaude ai carnefici dei carnefici) o la nomina del Governatore della Banca d’Italia – sono due.

1. Tutti quelli che on line e off line da setti-mane andavano dicendo di voler combinare un casino alla manifestazione del 15 ottobre non lo facevano così, tanto per parlare. Il risultato si poteva vedere per le strade della città il giorno successivo e grazie ai media per molti dei giorni seguenti.

2. A Roma ogni tanto piove. Sembrerà un’ovvietà, ma così non è. La pioggia ha infatti sorpreso molti cittadini e l’intera am-ministrazione pubblica. Infatti: tombini ostruiti, manto stradale mal (o non) manute-nuto, hanno consentito a quei pochi romani dotati di branchie di vivere una giornata di riscatto dopo una vita passata a sopportare gli sguardi obliqui che subiscono tutti quelli con una caratteristica fisica tanto peculiare.

Senza discutere di argomenti su cui i porno-grafi delle idee si sono già esercitati anche a questo round, mi stupisce piuttosto una cosa che mi pare di osservare: il “giorno dopo” delle persone. Strade ripulite, incendi spenti, incroci asciugati, vittime tumulate (per il secondo episodio, non per il primo!), per molti di quanti hanno anche sofferto i disagi o i disastri dell’ultima settimana, tutto è alle spalle.

Nel corso di una manifestazione 500 (mille? Millecinquecento? Duemila?) persone si impossessano di una fetta grossa di una capitale europea esigendo il diritto di sac-cheggio? Succede.

Nella stessa occasione, viene assaltata e data alle fiamme un’abitazione privata, in presenza degli abitanti della stessa casa? Può capitare. Per un acquazzone di due ore una città perde un punto di PIL e un tizio ci lascia la pelle in casa sua? È proprio vero che non ci sono più le mezze stagioni.

Sembra proprio che, piano piano, un pezzet-to alla volta, ci stiamo abituando a tutto. La cacca dei cani per strada, gli schiamazzi sotto casa fino alle quattro del mattino, l’evasione fiscale ostentata da ogni profes-sionista o artigiano. E l’ignoranza diffusa, la vuota arroganza dei potenti, la volgarità dei media. Fino alla rinuncia al reclamo dei diritti civili.

La mia generazione, per fortuna, non ha vissuto alcuna guerra. Ma oggi mi domanda-vo, immaginando che ancora si combattesse con baionette e granate, cosa faremmo nel caso in cui ci trovassimo assediati.Sulle barricate fino alla morte? O via, salvan-do più denari possibile? O, piuttosto, come sempre in fila al supermercato, sperando che le bombe al massimo colpiscano i civici pari – eh, io sto al dispari – chè poi con i Lanzi-chenecchi in un modo ci si mette d’accordo.

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PER (DIS)GRAZIA RICEVUTADI SIMONA MELANI | 25.10.2011

Il presidente Napolitano ha concesso la grazia a Calogero Crapanzano, ex maestro di Favara, che nell’estate del 2007 uccise Angelo, il figlio venti-settenne affetto da autismo.

Condannato a 9 anni, l’uomo aveva visto commutata la sua pena agli arresti domicilia-ri.

Aveva ucciso il figlio perchè si era ritrovato a gestire da solo, insieme alla moglie anziana e malata, una situazione impossibile, senza alcuna assistenza da parte dello Stato. L’uomo si era costituito immediatamente dopo l’omicidio.

Sicuramente questa storia darà di che parla-re ai conduttori e ospiti della tv pomeridiana, che si nutre di tragedie personali per farci dimenticare la tragedia collettiva che il Paese sta vivendo.

Ci saranno autorevoli opinionisti che nella melassa del buonismo italiota assolveranno questo padre disperato facendo finta di non vedere quanto sia colpevole lo Stato. Ci sarà chi lo accuserà di vigliaccheria, di non aver saputo portare questa croce, questa disgra-zia ricevuta. Perchè un figlio non si uccide, è una cosa che non si perdona. Gli elementi del reality noir ci sono tutti: c’è la disgrazia, la miseria, la sofferenza di due genitori.

Ci sarà una vaga accusa alle Istituzioni, che lasciano soli i bisognosi e gli ammalati, perchè la vergogna sono le auto blu e i politi-ci che hanno il barbiere gratis al parlamento.

Ma nessuno dirà che il progressivo smantel-lamento della sanità pubblica di nome fa Governo e di cognome Berlusconi e che i tagli della manovora congelano le retribuzio-ni dei medici e fanno sparire i fondi dell’edilizia sanitaria.

In Sicilia poi, ‘o ragioni da medico o ragioni da imprenditore’. Sono le parole agghiac-cianti – riportate su Repubblica Palermo qualche settimana fa – pronunciate da una dirigente sanitaria di una clinica privata ai suoi collaboratori. Si parla di malati terminali come “schifezze” che occupano soltanto il posto letto e la cui “gestione” è antieconomi-ca a fronte dei rimborsi che la Regione garantisce.

E se le cliniche private sovvenzionate dalla Regione si permettono di selezionare i pazienti e le strutture pubbliche vedono tagliati i fondi a trecentosessanta gradi, la disperazione di un singolo padre diventa la disperazione di tutti noi.

La disgrazia di Angelo è quella di essere nato e cresciuto in Sicilia, la disgrazia di suo padre è stata quella di non avere un aggan-cio che gli garantisse “una mano”, l’assistenza alla quale avrebbe avuto diritto.

E nessuna grazia potrà mai liberarlo dalla disgrazia ricevuta. Che non è l’autismo del figlio, ma delle Istituzioni. E di tutti noi.

LA SPAGNA DI MARIANO (RAJOY)DI NATALIA GARCIA CABAJO | 23.11.2011

Con 186 seggi, Mariano Rajoy e il suo Partito Po-polare si impongono davanti a un PSOE in caduta libera e portano a casa la seconda maggioranza più ampia dall’inizio della democrazia, seconda solo ai 202 seggi del PSOE di Felipe Gonzalez nel 1982.

Quando nel 2004 José Maria Aznar indicò Rajoy come suo successore alla guida del Partito Popolare, furono in pochi a capire questa scelta. Da allora Mariano Rajoy è stato a capo di un partito di opposizione che si è visto forzato a rivedere più volte la sua linea politica e la sua immagine di fronte agli elettori.

Dopo aver perso due elezioni generali, nel 2004 e nel 2008, Rajoy ha resistito al suo posto, nonostante le critiche e i conflitti interni al partito che si sono evidenziati negli ultimi anni, ed è riuscito a imporre la sua linea, più pacata e conciliante di quella che altre correnti del Partito Popolare volevano imporre al centro-destra spagnolo. E final-mente l’altro ieri i numeri gli hanno dato ragione. Anche se non per merito proprio, come sa bene perfino lui, ma per una con-giuntura economica, politica e sociale senza precedenti.

La campagna elettorale del PP è stata una sorta di insipida messa in scena di un film di cui si conosceva già il finale. E’ stata una campagna light, piatta, senza politica, senza programmi né proposte, senza alzate di voce né attacchi personali (sono poche le volte in cui Rajoy ha nominato direttamente Rubal-caba). La scelta del Partito Popolare (PP) è stata quella di fare la campagna di chi si con-sidera già vincitore (un po’ come quella del 2004, ma questa volta gli è andata bene), di chi si pone già come Presidente di tutti.

In questo senso, il PP ha fatto due grandi scelte strategiche.D’una parte si è autoproposto come l’opzione della concordia e del dialogo, dell’unità nazionale e istituzionale, riuscendo così a evitare certi temi (il dopo ETA, la ricet-ta per uscire dalla crisi, i rapporti con le comunità autonome, il futuro della legge dei

matrimoni omosessuali, e un grande ecc, che ha lasciato un immenso vuoto riguardo alle politiche che questo nuovo governo por-terà avanti).

D’altra, il tema della disoccupazione ha pre-valso su tutti gli altri e guidato la campagna elettorale. La disoccupazione è stata spesso messa al centro e presentata come “l’unico e vero avversario” di Rajoy in queste elezioni. Anche in questo caso, nonostante aver pro-posto il tema all’infinito, il Partito Popolare si è dimenticato di spiegare le soluzioni propo-ste e la sua visione di cosa sia necessario fare per invertire la rotta e produrre posti di lavoro per chi ora non ce li ha (e per chi li perderà).

La campagna elettorale non ci ha aiutato a capire cosa intende fare Rajoy per risolvere i problemi economici della Spagna, così come nessuno sa, ad oggi, come intende muoversi su tutti i temi caldi.

È però prevedibile immaginare uno scenario non troppo diverso da quello vissuto nell’ultimo anno e mezzo, due anni di gover-no socialista, dove Zapatero si è visto costretto, più o meno volontariamente, a dover applicare i dettami provenienti da EU e BCE. In questo senso, il governo Rajoy potrebbe distinguersi da quello uscente “uni-camente” (e non è poco!) nella scelta delle voci da tagliare. Perché i tagli, non illudiamo-ci, ci saranno. E se ne convincano anche tutti quelli che hanno scelto di votare il PP proprio per protestare contro i tagli che fin qui ci sono stati.

Probabilmente, adesso, colpiranno ancora di più il sociale (politiche pubbliche e welfare) e la cultura. Come da manuale della destra spagnola.

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VUOI DIVENTARE ITALIANO?DI CLAUDIO MAIO | 06.12.2010

La ricchezza attrae popolazione. La popolazione genera crescita. Bisogna valorizzare questo capitale umano, è un punto sul quale si decide il futuro del Paese”. Così si conclude l’ultimo rapporto “Italia, Sud, e Mediterra-neo” della Confcommercio.

A dir la verità, è raro che un tema così cru-ciale come quello della Cittadinanza entri in maniera così dirompente nell’ormai assopito dibattito che riguarda la politica migratoria del nostro Paese. In tempi non sospetti, dalle pagine di questo blog, avevamo cercato di porre l’accento su questo “capitolo dimenti-cato” della politica, nella convinzione che queste tematiche non fossero poi così distanti dall’interesse pubblico.

Ci si accorge soltanto ora (meglio tardi che mai) che quella schiera di persone che popo-lano i nostri uffici, le nostre scuole, le nostre università e i nostri ospedali, sono individui che, come noi, hanno bisogno di tutela. Eppure, secondo gli ultimi studi, in Italia si contano oltre 2 milioni di lavoratori stranieri (il 9,1% del totale degli occupati), che notifi-cano al fisco 40 miliardi di € (pari al 5,1% del totale dichiarato) e pagano un Irpef che rag-giunge quasi 6 miliardi di € (pari al 4,1% del totale dell’imposta netta). Ciò nonostante, nessuno parla di inclusione di questi stranie-ri. Forse, a nostro modesto avviso, per la troppa confusione che permane in tema di Cittadinanza. Questa aulica alternanza tra lo ius soli e lo ius sanguinis di cui, siamo certi, molti ignorano la natura, le conseguenze e le opportunità.

Andiamo avanti con ordine. T.H. Marshall, nella sua “Cittadinanza e classe sociale”, affermava che «la cittadinanza è lo status che viene conferito a coloro che sono membri a pieno diritto di una comunità». Ma che cos’è una Comunità? Per dirla con parole più approfondite, «rappresenta la proiezione giuridica di un insieme di rapporti intersog-gettivi che trovano il loro fulcro nella parteci-pazione alla vita pubblica».

Da qui, il “cittadino” diventa «l’individuo legato ad altri individui – suoi concittadini – da un comune vincolo di identità, che può essere politica, sociale, etnica, linguistica, religiosa». Non è forse ciò che (seppure in termini squisitamente economici e sociologi-ci) abbiamo appena descritto?

Alcuni affermano che la cosiddetta “cittadi-nanza di sangue” sia un pericolo per l’integrità politica e identitaria del nostro Paese. Forse costoro ignorano che tutti i ragazzi di origine straniera, nati e residenti in Italia senza periodi d’interruzione fino ai 18 anni di età, possono già richiedere la cittadinanza italiana, con tutti i diritti e i doveri civili e politici che questo comporta.

Altri invece si soffermano sull’annoso tema degli “anni di permanenza” sul territorio dello Stato, come se il termine perentorio di 10 anni, così come previsto dalla legislazione attuale, sia confortante e bastevole alla cre-azione di una identità.

Per altri versi, resta sempre il tema della lingua, che rimane ancora l’ultimo baluardo per coloro che si oppongono ad una piena integrazione dei migranti; questi stessi (forse) disconoscono che i cd. soggiornanti di lungo periodo devono già dimostrare una conoscenza avanzata (A2) della lingua italia-na per ottenere il rilascio del permesso di soggiorno CE a tempo indeterminato, richie-dibile da chi ha più di 14 anni e possiede un regolare permesso di soggiorno da almeno cinque anni (ad oggi, sono state ammesse 97.306 domande).

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Perché, dunque, fa paura l’immigrazione? Un recentissimo sondaggio internazionale, rea-lizzato dalla società di ricerca IPSOS su 23 Paesi del mondo, ha rilevato una forte oppo-sizione all’immigrazione da parte delle popo-lazioni autoctone.

L’Italia si è posizionata al quarto posto (circa il 67%) e si trova concorde nell’affermare che “gli immigrati nel nostro Paese sono eccessivamente numerosi”. Il sentimento più diffuso è che questo fenomeno abbia reso più difficile l’accesso al lavoro e “messo mag-giore pressione sui servizi pubblici”, quali sanità e istruzione.

I dati specialistici, però, restituiscono un’immagine diversa della situazione: secondo l’ultimo rapporto Caritas Migrantes, l’immigrazione ha raggiunto una straordina-ria importanza, soprattutto per l’economia: gli oltre 2 milioni di lavoratori stranieri costi-tuiscono un decimo dell’intera forza lavoro. Si consideri che gli immigrati hanno un’età media di 32 anni, contro i 44 degli italiani, tanto che il nostro sistema pensionistico – sottolinea la Caritas – regge anche grazie ai circa 7,5 miliardi di euro all’anno di contribu-ti pagati dagli stranieri”.

Inoltre, gli immigrati non si dedicano solo ai lavori più umili. Molti, infatti, sono imprendi-tori: il loro numero, cresciuto nel 2010 di 20 mila unità, è arrivato a quota 228.540.

Concludendo, cos’è che ci allontana da questi “extra–individui”? Perché ci ostiniamo a mantenerli in una condizione di deni-zenship (appartenenza senza cittadinanza), nonostante la riscontrata opportunità della loro presenza?

Sarà forse quella rinnovata “paura dell’Altro”, magistralmente stigmatizzata da Ryszard Kapuscinski, il quale affermava che «la comprensione di chi è diverso da noi significa, già di per sé, ammettere che esiste una ricchezza che non appartiene solo al singolo, ma che è di tutti».

Rebus sic stantibus, saremo noi, senza timori, a dover accettare che esistano “nuovi italiani”.

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FASSINA IN PIAZZA CON LA CGIL, TORNA L’ERA DELL’UNIONE?DI MARCO ESPOSITO | 12.12.2011

Qualche anno fa fece scalpore un titolo di Libera-zione, che richiamava il titolo di una fortunata telenovelas brasiliana: “Anche i ricchi piangono” riferita alla manovra finanziaria del Governo Prodi.

Questo titolo apparteneva, quindi, ad un modo di pensare di un partito “comunista”, durante la stagione del governo di centrosi-nistra, prima della nascita del Partito Demo-cratico. In realtà, quindi, stiamo parlando di un qualcosa che NON apparteneva al modo di pensare degli allora Democratici di Sini-stra.

Con la nascita del Partito Democratico, quindi, tutta il centrosinistra era atteso ad un importante cambio di mentalità. Il Pd, infatti, nasce anche e soprattutto per parlare a coloro i quali non fanno parte tradizional-mente dell’elettorato di sinistra: quindi com-mercianti, piccoli imprenditori, partite IVA.Per questi motivi, ogni qual volta sento par-lare il responsabile economico del Partito Democratico, Stefano Fassina, ho un piccolo sussulto al cuore. Perché rischio di avere un infarto. Perché vedo una mentalità che pen-savo ormai sorpassata, fare pericolosamente capolino. E, quello che più atterrisce di Stefano Fassi-na, è il suo linguaggio. Su “Diario della Manovra” una bella iniziativa del sito del Pd, ho trovato questa intervista rilasciata alla collega de La Stampa “Francesca Schianchi“. In questo breve colloquio, Fassina dice due cose preoccupanti.

Ieri sulla Stampa D`Alema diceva però che per la prima volta anche i ricchi pagano: è d`accordo?«Pagano qualcosa anche i ricchi, ma l`equilibrio non mi pare soddisfacente. Sul versante pensionistico e dell`Ici si pro-ducono situazioni di grande sofferenza: ci sono lavoratori che vedono ritardata di sei anni la pensione, non è la stessa cosa che pagare 1200 euro per un conto titoli miliona-rio».

Insomma la cultura retrò del “dagli al ricco” inteso come colpevole, è ancora in voga nel modo di ragionare del responsabile economi-co del Pd... Certo lo dice riprendendo un’intervista di D’Alema e la domanda della giornalista, ma lo dice.Poi, la cosa più grave. Avevamo sicuri che il centrosinistra, finita l’era dell’Unione, avesse chiuso con il brutto spettacolo di andare in Piazza a protestare contro le leggi che si apprestava a votare in Parlamento. Putrop-po, non è così. E che ad aderire allo sciopero indetto contro la Manovra del governo Monti, che il Pd voterà in Parlamento, sia proprio un membro della segreteria rende il tutto ancor più grottesco.

«Lunedì andrò al presidio di Cgil, Cisl e Uil per ascoltare i lavoratori e ribadire le ragioni per cui il Pd vota questa manovra: perché Lega e Pdl ci hanno portato a un centimetro dal baratro, e se ci cadessimo dentro a pagare molto di più sarebbero proprio i lavo-ratori».Non ci trova una contraddizione, come ai tempi del governo Prodi, quando c`erano alleati che sfilavano contro il governo che sostenevano?«No: allora votavano le misure e poi andava-no in piazza con parole d`ordine di segno opposto, io invece vado ad ascoltare e riba-dire le posizioni del Pd. (…)»

La cosa drammatica è che Fassina non si accorge neanche della sua contraddizione. Perché lui va in piazza, proprio con chi ha parole d’ordine di segno opposto rispetto alla manovra che il suo partito appoggerà in Par-lamento.È ancora sopportabile – per il centro sinistra – questa continua ambiguità? Si può essere al contempo al fianco del governo Monti in Parlamento, e alla CGIL in piazza?

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IL MOSTRO A FIRENZEDI SERGIO RAGONE | 14.12.2011

Samb Modou, 40 anni, Diop Mor, 54 anni, Mou-stapha Dieng, 34 anni, Gianluca Casseri, 50 anni. Il mostro del razzismo a Firenze.

La follia omicida, l’odio razziale, la dispera-zione, la morte. Non ci sono molte buone parole per descrivere quello che è accaduto a Firenze ieri, così come non ci sono mai buone parole per commentare la morte.

Si rincorrono le analisi, così come i titoli dei giornali e dichiarzione di rabbia e sdegno. Una delle migliori è sicuramente quella di Ugo Maria Tassinari, uno dei maggiori esperti di fascisterie, che sul suo blog ci spiega bene il movimento dell’estrema destra italiana.

Cresce anche l’idiozia dell’esaltazione, l’immaturo e primordiale innalzamento sull’altare dei martiri di un assassino. E come spesso accade, Facebook alimenta questi sentimenti con pagine come questa

Non è il primo caso e, purtroppo, non sarà nemmeno l’ultimo. Ma allora che fare? Cer-care responsabilità nella politica? Nelle rifor-me che non arrivano? Nella crisi che sta cambiando questo Paese? Nella mancanza di cultura o, spesso e volentieri, di istruzione?

Non può non interessarmi e non deve non interessarci. Le colpe sono di chi commette il delitto, le ragioni sono nel delitto stesse che va condannato e con estrema forza.

Quello che noi dobbiamo fare, perchè pos-siamo, è convincerci fino in fondo che non è questo il Paese nel quale vogliamo continua-re a vivere, che faremo di tutto per provare a cambiarlo abbattendo ogni steccato identi-tario che ci recinta e non ci lascia vivere in libertà con gli altri.

Perchè è razzismo anche incolpare gli immi-grati di uno stupro che non c’è mai stato, è razzismo il raid al campo nomadi del giorno dopo a Torino ed il titolo del giornale “La Stampa”.

Dobbiamo non aver più timore dell’asiatico in metro, del ragazzo dell’est che cerca solo pane e lavoro, della ragazza costretta a mar-ciare su strada e non per rivendicare un dirit-to.

È dentro di noi che questo stato di cose può cambiare, solo ed esclusivamente li. L’ altro, il diverso da sé, l’uomo nero incubo dei bam-bini, non sono altro che uomini e donne con le nostre stesse passioni, con i nostri stessi sogni, con i nostri stessi occhi.

E allora è per questo che dobbiamo batterci, per dare diritti e cittadinanza a loro ed ai loro figli, che un giorno saranno italiani come noi. Solo con i diritti, solo con una compiuta cittadinanza sarà possibile invertire la rotta ed il paradigma culturale che genera mostri. L’indignazione, come al solito, non basta, ser-vono politiche forti mirate all’inclusione sociale.

Casa Pound e simili, fascisti di nuova genera-zione che la storia sta a poco a poco sconfig-gendo, se ne facciano una ragione. C’è un Italia diversa, migliore, aperta e libera.

Ma siamo il 99%?

SPEECH

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GUIDARACCONTO DI UN VIAGGIO IN EUROPADI VALERIO GENOVESE | 07.12.2010

Così un giorno ti ritrovi con una mappa in tasca e un sogno nella penna, che accarezza un quadratino rosso per trasformarlo in un pallino nero. La musica ti accom-pagna su una linea immaginaria che da intenzione diventa progetto, poi biglietto e poi chilometro; trac-ciata sulla carta come se il tempo e lo spazio non aves-sero alcun peso.

Guardi fuori per tradurre il panorama, fab-briche abbandonate nella nebbia si legano al fraseggio degli alberi nudi, ed hai voglia di evitare il tuo rifesso per eliminare l’ultima traccia di casa.

Ti chiedi cosa ci fai sul regionale Vienna – Praga. Dove c’è Radek, salito a Brno, che ha pensato bene di togliersi le scarpe. Sei parti-to per cercare lo spirito dell’Europa, e ti sforzi di ricordare che “rispetto” e “tolleran-za” fanno parte dei tuoi valori. Li tradisci un po’, aprendo il finestrino. Fa freddo. E’ Novembre. Speri che il controllore non faccia il suo dovere, per guadagnare una tratta in più con un biglietto interrail global pass da centosessanta euro che ti poterà a Zurigo, Vienna, Praga, Berlino, Bruxelles e Amster-dam, più un biglietto aereo, per toccare Londra.

Hai scoperto che viaggiare è economico, soprattutto se sai scendere a compromessi con i trasporti, le comodità e gli odori. Com-battere il sonno, barare un po’ e masticare qualche parola in inglese. Così, tanto per accompagnare i gesti che ti condannano italiano. Partire all’avventura, la zingarata, non l’ho certo inventata io; ma ne ho esplo-rato una dimensione più moderna, forse più affascinante, decisamente 2.0. Per capire l’Europa, mi sono detto – per imparare a sentirmi europeo – il modo migliore è far scontrare la mia idea di mondo con le altre possibili, smussare gli angoli, uscire fuori dal pessimismo politico del bel-paese e sperimentare una dimensione Schengen dell’esistenza.Perciò agli ostelli ho preferito l’ospitalità dei residenti affidandomi al progetto CouchSur-fing.

Grazie a questo progetto, dove si offre e si chiede ospitalità in maniera assolutamente gratuita, ho dormito sul materassino gonfia-bile di Jens, che mi ha prestato la bicicletta per circumnavigare il Zürichsee; bere la spremuta di mele; parlare di politica con una clochard tedesca; visitare i musei; conoscere Bura in un pub e ricevere i suoi suggerimenti Istambul dietro uno scontrino con troppe birre; fare un doccia e ripartire con un abbraccio e la promessa di fare un viaggio insieme.

Sono arrivato a Vienna, dove Janina mi ha accompagnato ad una premiazione sull’e-business austriaco sconcertata dalla mia fame di dolci e biglietti da visita. Mi sono perso nell’atmosfera di Malostranske Name-sti, dove incontro Dušan che a Giugno del 2010 mi presterà il suo appartamento per una settimana. Musicista, matematico e folle viaggiatore. Sceso dal treno a Berlino sfioro la rissa con un biondino in uniforme nera che stringe per un braccio una bambina rom, in un modo che non mi piace. Prima che il ragazzo chiami la polizia, Milena mi spiega che è una sorta di “guardia volon-taria”, senza riuscire a rendermelo simpati-co. Scappiamo.

Bruxelles mi piove addosso per due giorni mentre una gentilissima Quynh Anh cucina cibo vietnamita e mi canta le sue canzoni, noto le grate alle finestre, un barbiere turco mi taglia i capelli, parliamo della vita e del futuro.

Ad Amsterdam il mio ospite non può ospitar-mi, così ripiego su un ostello e incontro due ragazzi francesi, veterani del luogo, che mi mostrano una città invisibile ai turisti e piut-tosto lontana dalla trasgressione.

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Però i tram cercano di investirmi, gli alunni entrano nelle “vetrine” incitati dal maestro, e diversi iniziati a qualche società segreta fanno un bagno fra oche e biciclette.

Così arrivo a Londra, dove Richard mi offre il giaciglio più scomodo della mia vita, parlan-domi della sua missione di attivista e lasciandomi libero di scorazzare come gli scoiattoli che, fino ad allora, conoscevo solo attraverso i fumetti di Dylan Dog.

Un ragazzo eritreo mi aiuta ad integrarmi in una città complessa come la sua metropoli-tana, piena di eventi, dove inesorabilmente mi perdo – per ritrovarmi a dormire in una stazione. Venti giorni di viaggio non si reggo-no con dodici notti di sonno. Ne faccio espe-rienza, saluto Richard e torno in Italia.

Sospiro di sollievo. Aria. Dall’aereo non si vedono gli individui, ma solo il risultato dei loro sforzi collettivi. Casa.

Svuoto la valigia, faccio una doccia, vado a riposare e sogno. Così il viaggio ricomincia.

Quello che mi rendo conto di aver fatto, dopo, fra i volti della gente incrociata in strada, fra le vite sussurrate nei vagoni, fra nuovi amici e i momenti di solitudine, fra gli immensi viali e i vicoletti, fra le scene di vita quotidiana e le scelte che mi ricordano chi sono, chi siamo, e perchè ci raccontiamo europei.

Perchè non lo posso descrivere, un viaggio così, se non attraverso le persone che mi hanno accolto e che ho conosciuto, facendo-mi sentire integrato e partecipe della loro cultura.

Mi accorgo di essere partito italiano, forse lucano, e di essere tornato con un’identità diversa. Più aperta, inclusiva, globale. E con-cetti come patria; stato; ricchezza; classe; immigrazione; civiltà; cultura; tradizione; contrasto; voi; noi; io; si allargano come l’abbraccio con cui stringevo ospiti e compa-gni di viaggio – includendo tutte le persone a cui ho sfiorato la vita – con la chiara consa-pevolezza che è soltanto per mio limite, e mio soltanto, se non riesco a stringerci il Mondo.Perchè se continuo a viaggiare, forse, par-tendo da europeo arriverò a sentirmi sempli-cemente un uomo.

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AFFACCIATA ALLO SPECCHIOANNA RUSSELLI| 22.12.2010

Trent’anni. Soffi le candeline, con la famiglia attorno che ti guarda felice. La mamma col sorriso dolce, il papà, fratelli, cugini, qualche amico intimo. Proprio come quando avevi 16, e poi 20 e poi venticinqueanni; come la festa di laurea, la cresima, la macchina nuova.

Ti guardi allo specchio e pensi soddisfatta che in fondo non li dimostri.Anzi. A guardare le foto anni Ottanta dei tuoi sedici anni coi jeans a bordo alto, i maglion-cini a pipistrello, le spalline e i capelli perma-nentati come il cantante degli Europe, eri certamente più vecchia lì. Più magra, forse, ma più vecchia.

La serata non si conclude con la rassicurante festa familiare; anzi. Le amiche di sempre ti aspettano, anche loro più giovani di prima; insieme, trascorrerete la notte tra locali e discoteche (ma a sedici anni, le facevamo ‘ste cose? Mah…) in preda a un’euforia che si contagia reciprocamente e aumenta espo-nenzialmente per tutta la notte sorreggen-dovi in danze sfrenate, brindisi, siparietti e risate, salvo il tragico crollo finale per improvviso e inspiegabile esaurimento delle energie che si verifica normalmente prima dell’alba (le 3, le 4?) costringendovi a rinun-ciare alla programmata colazione in autogrill con cornetto e cappuccino.

Il giorno dopo guarderai le foto scattate, pensando: “mica male’sti trent’anni!”.Già. Mica male.Chè non sai ancora quello che t’aspetta.Non sai che sei entrato in una dimensione a-temporale in cui resterai misteriosamente installato per tutti gli anni a venire. Mica male i trenta, i trentuno, i trentacinque. Il tempo non è più una linea in progresso, ma una essenza misteriosa che si forma in mac-chie e spazi delimitati in assoluta disconnes-sione tra loro.

Scordati tutto quelloche t’hanno insegnato.

Non pensare di organizzare la tua vita comeorganizzi il tuo armadio: dimentica il senso logico, la razionalità, l’ordine. Pensa a quella bella citazione che ha ispirato L’Uomo dupli-cato di Saramago: il caos è un ordine da decifrare.

Penserai di cercar lavoro, e troverai qualcosa da fare per sbarcare il mese. Crederai di essere cresciuto, e ti ritroverai le notti in giro a far baldoria co’gente che non conosci.Vorrai farti una famiglia, e all’improvviso penserai – giocoforza – che in fondo forse è ancora presto.Trenta, trentatre, trentacinque: nelle foto ti vedrai sempre più giovane e forse ti verrà in mente Dorian Gray: mah!

Mica male ‘sti trentacinque!Conoscerai meglio la forza della mente. La tua. Quella che ti chiamerà a rapporto un giorno mentre guidi nel traffico e all’improvviso ti sembrerà di uscire da te stesso, sentirai il collo della camicia stringer-si e qualcosa che si muove tra lo stomaco e la gola e non capisci cos’è. Tranquillo, non è niente. Solo Paura.

Trentacinque, trentasei.Goditela. Goditi il tuo caos, questo disordine che non hai scelto tu ma sei tu, che ti piaccia o no.Esci da te, dimentica tutto quello che t’hanno insegnato e goditela.Goditi gli spazi aperti. Ama le cose, che siano o no il tuo lavoro. E falle.Dimentica il tempo lineare e impara a sopravvivere.Parla alla tua paura, dille: entra pure, c’è posto anche per te.Esisti. Muoviti. Gira. Partecipa. In qualunque modo.Parla, scrivi, ama, piangi, leggi.

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Divora libri, parole, immagini. E poi dimenti-cale. E poi ascoltale, quando improvvisa-mente ti parleranno da dentro, senza che te l’aspettassi. E poi lascia che parlino, ma solo attraverso te.

Impara la tristezza, ché senza non si vive da uomini; il fallimento, ché è la prova che in fondo va tutto bene; la solitudine, ché nes-suno può più farne a meno; l’amore, ché non è più quello di una volta (ma perché, una volta com’era?).Impara a costruirti la tua propria bussola, quella che serve a te.

Quella che serve a navigare in un nuovo mare, aperto, dove sei tu che decidi i punti di riferimento e la rotta non te l’hanno già trac-ciata gli altri e non te la traccerà mai nessu-no.Ritrovati all’aria aperta ogni tanto. Guarda la brina che si consuma di sole su un ramo o sulle bacche invernali. Scatta una foto. E guardala a lungo, quando sarai a casa, finché non capirai.Trentasette, trentotto.Sei ancora lì. Nello stesso posto, ma sempre in uno diverso. Sei sempre tu, ma dentro quante voci hai?Mica male ‘sti trenta anni.In fondo, è l’acqua la sostanza che resiste sempre: perché scorre, dappertutto.

Ritrovati all’aria aperta ogni tanto. Guarda la brina che si consuma di sole su un ramo o sulle bacche invernali. Scatta una foto. E guardala a lungo, quando sarai a casa, finché non capirai.

Trentasette, trentotto.Sei ancora lì. Nello stesso posto, ma sempre in uno diverso. Sei sempre tu, ma dentro quante voci hai?

Mica male ‘sti trenta anni.In fondo, è l’acqua la sostanza che resiste sempre: perché scorre, dappertutto

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LA GRANDE MELA A MORSIALICE AVALLONE | 31.12.2010

Nuok City - www.nuok.it - è una scatola formata da cinque pezzi, uno più bello dell’altro. La metro-politana li collega tra loro e funziona di giorno e di notte, senza mai fermarsi.

Il modo più divertente per visitare questa città è passare da un pezzo all’altro, percor-rendo tutti i colori delle linee.

Manhattan è il pezzo più lungo e stretto. Ha case di cemento altissime ed un parco per gli innamorati. Manhattan si vede in tantissimi film americani, per questo motivo spesso si dà delle arie e costa di più.

Brooklyn è uno dei pezzi più grandi. In basso ha le spiagge di sabbia, da una parte tre ponti verso Manhattan, dall’altra gli aerei che vanno e vengono dall’Italia. I veri fichi vivono qui.

Queens è il migliore amico di Brooklyn, e vivono sempre attaccati. È il pezzo più socie-vole, infatti ci sono persone da tutto il mondo che vivono qui. La metropolitana non va sottoterra, ma corre più in alto dei palaz-zi!

Bronx è il nome del pezzo più scuro. Anche quando c’è il sole, nasconde tantissime perle! Ha uno zoo con gli orsi e gli elefanti, uno stadio dove si giocano le partite impor-tanti di baseball e due strade piene di ban-diere italiane.

Staten Island è il pezzo in basso a sinistra: qui si arriva a nuoto o con il traghetto. Sopra non c’è la solita metro, bensì un altro trenino blu che l’attraversa. È circondata dall’oceano e le piace guardare da lontano tutti i suoi quattro compagni.

In parte rivista online, in parte guida turisti-ca, in parte community: Nuok è un grande contenitore per tutto ciò che è più incredibile a New York a misura di italiano.

Qui si parla di lifestyle, cibo, arte e cultura: aggiornato quotidianamente e indispensabile per viaggiatori, residenti, sognati e chiunque voglia conoscere il lato inedito di New York City. Si parla del nostro modo tutto italiano di scoprire una città estera ed i suoi tesori.

Ma il progetto digitale Nuok non si ferma qui. Nuok è il primo prototipo di un network di Sitis. Da Borlin a Peris, da Maiemi a Chioto: l’obiettivo è raccontare l’Italia al di fuori dei suoi confini geografici attraverso le nuove tecnologie.

Unica avvertenza: non chiamatelo blog!

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COMANDARE È MEGLIO CHE...DI SERGIO RAGONE | 14.01.2011

Calabrese di Marina di Gioiosa Ionica dal 26 novembre 1979, sagittario. Studia e si laurea alla Luiss con tesi sul caso Moro e di lì a breve arriva al Riformista dove scrive di politica, varie ed eventuali. È alfista, vespista e soprattutto interista.Intervista a Tommaso Labate

Giovane, meridionale, oggi uno degli opinion leader del giornalismo politico italiano. Ma quanta fatica?Opinion leader è più che esagerato. Fatica? Quella necessaria a portare a casa una noti-zia o a immaginare uno spunto interessante. A volte poca, a volte tantissima.

Tommaso l’Italia come sta?Direi male. Il vero paradosso è che senza un Ministro dell’Economia decisamente medio-cre come Tremonti, che comunque ha chiuso i cordoni della borsa, starebbe anche peggio.

Un vecchio adagio ci ricorda che “co-mandare è meglio che scopare” ma il potere politico italiano pare abbia unito le due attività mischiandole e confon-dendole. Insomma, la politica ha perso dignità o si è solo svelata per quella che è?La politica ha perso dignità soprattutto perché l’eletto non ha elettori da guardare in faccia uno per uno. Detto questo, i politici si mostrano a volte anche peggio di quello che sono. Alberto Sordi, a cui piaceva giocare sulle loro “debolezze”, avrebbe fatto fatica ad “occuparsi” dello Scajola proprietario di casa a sua insaputa. Il comico e il politico, spesso, hanno scambiato il proprio ruolo. Basta farsi un giro sul territorio. Io, di Cetti Laqualunque, ne ho visti almeno una decina in Calabria. E molto prima che nascesse il personaggio di Albanese.

Popolari o Italia, così dovrebbe chia-marsi il nuovo movimento politico del Presidente del Consiglio. Ma anche il movimento di Fini, quello di Vendola e quello dell’ex magistrato molisano hanno puntato tutto sull’assenza del partito nel nome ma con la presenza del leader nel brand.

Sembra proprio che la parola partito spaventi più la politica che gli elettori. E’ solo un’esigenza di comunicazione o forse c’è ancora in atto una riscrittura del ruolo e della funzione dei partiti? Ed il Pd è semplicemente sfigato oppure è controcorrente per statuto?Oggi i leader danno troppa importanza all’originalità vera o presunta di un brand rispetto agli altri. Neanche quello di Casini è “partito” e men che meno quello di Bossi. Messa così, il Pd, oggi, è il più originale di tutti. L’unico che ha il partito nel nome. Fuor di ironia, credo che per essere premiati dagli elettori sia a volte decisivo scegliere il bianco o il nero senza indugiare troppo tra le mille sfumature di grigio. “Tenere dentro tutti”, come nel mantra recitato a più riprese dai leader del Pd, a volte è contro natura. Basta guardare al caso Fiat.

L’Italia ha bisogno di leaders, di guide, di bandiere intorno alle quali stringersi. Sembra un po’ questa la storia del por-toghese Mourinho, allenatore vincente, arrogante ma interprete di un’intera comunità di italiani nerazzurri.Mourinho è una specie di profeta che venne, vide, vinse e se ne andò. Oggi in molti spera-no che Leonardo sia la sua reincarnazione. Però mi creda, Mourinho in politica fallireb-be. E sa perché? Per citare un caso di suc-cesso, basta parlare con Silvio Berlusconi per rendersi conto che il Cavaliere mette il suo interlocutore due o tre gradini più in alto di lui. Mou non ne sarebbe capace.

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Dan Peterson e Zeman sono la prova che c’è una generazione che ha ancora molto da dare e da dire. E allora come la mettiamo con i rottamatori?Dan Peterson e Zeman non la mettono pro-prio, coi rottamatori. Non sanno nemmeno chi siano, i rottamatori. Puoi rottamare un’automobile o un motorino. Puoi rottama-re una Mito ma non un mito. E poi, come disse una volta Berlusconi a quelli che gli chiedevano un rimpasto nel governo, di Maradona in panchina non se ne vedono.

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I PARTITI HANNO RINUNCIATO AL LORO RUOLODI SERGIO RAGONE | 24.01.2011

Rudy Francesco Calvo, classe 1981, cresciuto a Scicli (Ragusa), in quella parte di Sicilia che si trova più a sud di Tunisi, si è trasferito a Roma per laurearsi in Scienze della comunicazione.

La passione per la scrittura e il pallino per la politica lo hanno indotto a insistere per fare uno stage a “Europa” e da quando è entrato lì (settembre 2005) non ne è più uscito. Nel frattempo, è diventato giornalista professio-nista e da qualche mese anche giornalista parlamentare. Almeno per il momento, non ha intenzione di tornare a vivere nel suo pro-fondo Sud, ma non lo dimentica e cerca di fare il possibile per dare il proprio contributo al suo sviluppo. Dalla Sicilia a Roma. È bastato solo un aereo?Macché aereo, i primi anni di università i low cost non c’erano ancora e io affrontavo lunghe odissee di 15 ore in treno per arrivare dalla mia città, Scicli, a Roma. A queste, aggiungi i sacrifici di una famiglia, con il padre operaio edile e la madre casalinga, per mantenere agli studi l’unico figlio e un sogno iniziato in quarto liceo: diventare giornalista parlamentare prima di compiere 50 anni. Ci sono riuscito a 29 e non ho intenzione di fermarmi qui. Consiglio la stessa determina-zione a tutti i giovani che partono dalle mie stesse condizioni: non fatevi scoraggiare dalle difficoltà, se siete capaci prima o poi vi assisterà anche la fortuna, come è successo a me quando ho messo piede a “Europa”. E non abbiate fretta di avere tutto subito.

Come vedi l’informazione in Italia? Ci sono lacci e bavagli oppure c’è spazio per un’informazione libera?L’informazione nel nostro paese è dominata soprattutto dalla tv: oltre il 70% degli italiani riceve le notizie solo o prevalentemente dai tg. Finché non si scioglie il duopolio di fatto Rai-Mediaset e non si trova un sistema per rendere autonoma l’azienda pubblica dalle decisioni della politica non avremo mai un’informazione di massa veramente libera.

Per quanto riguarda la carta stampata, esistono oasi di libertà ma bisogna saperle coltivare. Per esempio, tutti si scandalizzano per i contributi diretti ai giornali di partito, come il mio, mettendoli nello stesso caldero-ne di tante pubblicazioni finte, fatte solo per accaparrarsi i soldi pubblici. Ma veramente vogliamo che l’informazione resti in mano solo ai grandi gruppi, editoriali e non solo, come Rizzoli e Mediobanca, Con-findustria, Fiat, De Benedetti, Angelucci, Mondadori? Senza dimenticare che anche questi, seppur in forma indiretta, ricevono forti sovvenzioni statali. Credo che la pluralità delle fonti sia una con-dizione irrinunciabile, ma un’informazione consapevole passa anche dalla conoscenza di chi sta dietro alle parole che leggiamo. Non tanto i colleghi con la loro autonomia e professionalità, quanto soprattutto chi finan-zia il loro lavoro. In questo quadro, gli aiuti statali ai piccoli giornali di partito sono indi-spensabili per garantire la possibilità a tutti di far conoscere le proprie idee e formare un elettorato consapevole.

Ormai la stampa fa l’agenda dei lavori parlamentari. Non credi si stia delegitti-mando il ruolo del Parlamento?Non credo che si possa incolpare la stampa di questo. Ormai da tempo i partiti hanno rinunciato al loro ruolo di artefici del cosid-detto agenda setting, i giornali hanno solo riempito questo spazio, devo ammettere non sempre in maniera lodevole. Ma non posso non constatare che, soprattutto in questa legislatura, l’agenda parlamentare è stata condizionata pesantemente dal comporta-mento del Governo, che ha bloccato Camera e Senato a suon di decreti da convertire e voti di fiducia, lasciando pochissimo spazio alle proposte dei parlamentari e costringen-do perfino a bloccare i lavori in più di un’occasione.

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Quando si parla di riforme istituzionali e di un riequilibrio dei poteri tra esecutivo e legi-slativo, seppure nella necessità di accelerare i processi decisionali, è prima di tutto a questo che ci si deve riferire.

In Italia ancora vince l’antipolitica, vin-cono i leader e non i partiti. E non è solo un problema di comunicazione.Io farei una chiara distinzione tra antipolitica e personalizzazione della politica. La prima deriva certamente da una chiara inadegua-tezza dei partiti (ma io aggiungerei anche altre associazioni, a partire dai sindacati) a rappresentare la società moderna. In questo contesto, si abbandonano queste forme tradizionali di partecipazione alla vita civica per rifugiarsi nell’antipolitica, alimentata anche da chi spera di ricavarne vantaggi elettorali o economici (Berlusconi fu il primo, oggi possiamo guardare allo stesso modo ai vari Grillo e Di Pietro o a quotidiani come Il Fatto, Libero e Il Giornale), o in altre forme associative, laiche e religiose, che rappre-sentano molto spesso soprattutto nei piccoli centri realtà da valorizzare, proprio in con-trapposizione al qualunquismo e al disimpe-gno civico.

Spesso, invece, i partiti si limitano a volerle controllare in qualche modo. Per quanto riguarda la personalizzazione della politica, invece, penso che questa sia una realtà da cui ormai non si possa tornare indietro, con buona pace di chi vorrebbe riproporre un modello iper-parlamentarizzato, fatto di con-trattazioni e accordi nel chiuso di poche stanze, che la gente ormai rigetta e che i partiti non hanno più la forza per imporre.

In questo, chiaramente, la mediatizzazione della società contemporanea ha giocato un ruolo fondamentale: non puoi essere un leader se non sai gestire la tua comunicazio-ne e la tua presenza in tv.

E sbaglia chi, a sinistra, confonde questi caratteri con il berlusconismo, che è invece una distorsione di questo processo che è in atto in tutte le democrazie occidentali. Un’interessante ricerca Itanes sulle elezioni del 2008 metteva in rilievo che molti possibili elettori del Pd avevano finito per non votarlo perché ritenevano la leadership di Veltroni troppo debole. Esattamente il contrario di quanto gli è stato rimproverato dai suoi stessi compagni di partito.

Che 2011 sarà? E che 2011 sarà per te?D’istinto direi che non potrà che essere un anno migliore del precedente, anche se poi mi guardo attorno e mi rendo conto che veramente al peggio non c’è mai fine. Io aspetto ancora un anno in cui il nostro paese possa affacciarsi con convinzione in una mo-dernità da cui ancora rifugge, per ritirarsi in un conservatorismo che ci sta spingendo sempre più indietro, sul piano sociale ed economico. È una tendenza che riguarda larga parte della classe dirigente, ma anche dei comuni cittadini, più interessati a conservare effime-ri agi e privilegi che a progettare un futuro migliore. Per quanto mi riguarda, ho impor-tanti progetti personali per il 2011: non trascurerò il mio lavoro, ma dovrò dedicare un po’ più di tempo a me stesso e a chi mi vuole bene. Spero solo di avere la forza per arrivare fino in fondo: ad aprile comincio la mia vita da trentenne e non vorrei che gli anni comin-ciassero a farsi sentire!

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LAVORARE PER PASSIONE A 30 ANNI: IN ITALIA SI PUÒDI VITTORIA SMALDONE | 24.03.2011

Trentanni, calabrese, Giacomo Triglia è un film maker indipendente, laureato in arti visive (pittura) presso l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria dove è stato docente di Digital Video dal 2007 al 2009.

Vincitore del Reggio Film Fest 2009 (Minerva Pictures) e del Premio Internazionale d’Arte “La Colomba” 2009. I suoi lavori sono stati trasmessi da MTV Italia, MTV Brand New, All Music, La7, Rai Music, Music Box e Rock TV. Attualmente vive e dirige uno studio creativo a Cosenza (TYCHO Creative Studio | www.tychostudio.it). Ha avuto il coraggio, a trentanni, di mettere un’attività in proprio e non emigrare.o impoverimento per i giovani, non solo al primo impiego.

Leggo di te Giacomo che studiavi da ingegnere ma poi hai preferito iscriverti all’Accademia delle Belle Arti e seguire la tua passione. Dopo aver fatto questa scelta hai mai pensato al tuo futuro, al lavoro, a quello che avresti potuto fare? Sì, insomma, hai mai avuto paura di non farcela?I due anni trascorsi da studente di ingegne-ria sono stati fondamentali per la mia forma-zione attuale, non fosse altro che li ho trascorsi interamente a guardare film (sfiorando la patologia considerato che riuscivo a vederne anche 4 al giorno) e leg-gere tonnellate di libri di qualsivoglia argo-mento eccetto quello pertinente gli studi. Poi un bel giorno mi resi conto che i computer potevano servire anche a realizzare “arte” oltre che a compilare stringhe di codice c++ ed il passo verso l’accademia fu decisamente breve. Non ho mai provato paura pensando al futuro, e non ne ho tuttora, probabilmente non ho mai avuto neanche il tempo per pen-sare una cosa del genere, mi sono sempre tenuto impegnato facendo esclusivamente le cose che amavo fare, cose che mi hanno portato a laurearmi al primo appello possibi-le, che mi hanno portato in meno di due anni ad insegnare nella stessa accademia dove ho studiato...

che mi hanno fatto scappare dopo poco più di due anni dalla stessa accademia dove ho insegnato (anche per la totale assenza di stimoli e per la tristezza dell’ambiente) per realizzare il lavoro che ho sempre voluto fare, il filmmaker, e quando riesci a vivere “monetizzando” la tua forte, fortissima pas-sione, sia essa quella per il cinema e il video come nel mio caso, per la cucina, per la legge e per qualsiasi altra cosa… direi che puoi ritenerti decisamente soddisfatto.

Immagino che per motivi di studio ti eri allontanato dalla tua terra, dalla Cala-bria. Come mai hai deciso di tornare in una delle regioni più povere d’Italia ?Ho girato molto ma non ho vissuto mai per tanto tempo lontano dalla Calabria, né ho voluto mai farlo, ho sempre lavorato sì con realtà nazionali, ma l’ho sempre fatto tenen-do base in Calabria, per il tipo di lavoro che faccio internet è perfetto per gestire i rap-porti e a volte addirittura lavorare a distanza (come nel caso della stagione televisiva di “Blister” su All Music), se c’è da spostarsi per un video o altro puoi farlo velocemente e a basso costo in aereo, con zero stress, vivere in Calabria ti permette di contenere decisa-mente i costi della vita, se la vita di costa meno puoi offrire i tuoi “servigi” a minor prezzo, e tutti sono interessati ad avere un ottimo rapporto qualità/prezzo.

Da creativo a Cosenza riesci a trovare gli stimoli giusti?Gli stimoli oggi sono ovunque, non solo dove vivi, basta solo saperli cogliere, basta avere l’interesse e la passione per recepirli, puoi vivere a New York… ma se non hai interessi e passione serve a poco… l’importante è essere circondato da belle persone, sentirsi bene, avere la serenità necessaria per creare e andare avanti, per fortuna questo è un

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campo in cui le raccomandazioni contano poco, se sei bravo lavori… più lavori più i tuoi lavori ti restituiscono altri lavori. Detto questo Cosenza ha comunque una bella e attiva scena musicale, a dimostrazione di quanto appena detto abbiamo da poco creato una web-tv musicale per proporre tutta la scena musicale nazionale e interna-zionale che passa al sud e a Cosenza in par-ticolare e quest’estate saremo presenti a vari e importanti festival partner del proget-to come l’Ypsigrock e l’IndieRocket, questo è il sito della “tv”: www.trallalalla.it.

Com’è nata l’idea di mettere su uno studio di grafica, design e altro?Per concretizzare il tutto e riunire tutte le nostre lavorazioni in un unico “posto”, più che altro lavoriamo in ambito musicale, quindi videoclip, artwork degli album, siti internet, poster ect.

Hai usufruito di fondi europei per l’imprenditoria giovanile, incentivi, o hai fatto tutto da te?Per ora è tutta farina del nostro sacco, e più che sacco era un piccolo borsello…In quanti siete a lavorarci?I responsabili sono due, io e la mia fidanza-ta, poi di volta in volta in base alle esigenze collaboriamo con varie persone oltre a delle collaborazioni fisse che già abbiamo.

Hai avuto difficoltà nel lavoro, inizial-mente, oppure è filato subito tutto liscio?Come tutti i lavori da libero professionista avrai sempre dei periodi meno buoni, ma grandi difficoltà al momento non ne abbiamo avute, da quest’anno poi il lavoro è notevol-mente aumentato, soprattutto riguardo i video musicali.

Cosa ti senti di dire ai ragazzi che hanno perso la speranza, ai trentenni che hanno rinunciato a cercare lavoro o che preparano la valigia per andare a cerca-re fortuna altrove?Che purtroppo non esistono formule precise, io stesso mi rendo conto di essere stato fortunato per una serie di concatenazioni del caso, a volte davvero assurde, che mi hanno portato dove sono, auguro loro di riuscire a svegliarsi al mattino sereni, ovunque finisca-no, perchè la serenità è la cosa più impor

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AMIR SALCIN, LA STORIADI EMILIANO ALBENSI | 29.03.2011

La storia di Amir non troverebbe spazio in nessun gior-nale del mondo. Perché Amir non ha vinto le Olimpiadi dopo aver rischiato di perdere per sempre le gambe. E perché, semplicemente, Amir, dopo aver rischiato di perdere per sempre le gambe, è tornato alla sua vita normale.

Eppure la quotidiana normalità di Amir è la vera notizia. Ciò che per chiunque sarebbe scontato, nella vita di questo trentottenne bosniaco musulmano è stato una vera e pro-pria conquista.

Lo incontro nella sua casa, in un quartiere popolare della parte musulmana di Mostar. Amir mi fa accomodare in salotto, la stanza più bella della casa. Mi siedo sul divano e di fronte a me un enorme televisore al plasma trasmette l’ultimo Gran Premio di Formula Uno. Scoprirò poi che questo è l’unico sport che Amir riesce a guardare con piacere in tv. Del calcio non vuol più sentir parlare, da quando ha dovuto smettere di giocare.

Amir Salcin aveva sedici anni quando, volon-tariamente, si arruolò nell’HVO (Croatian Defence Council), la formazione militare croata, unico esercito allora esistente. Nel giro di pochi mesi scoppiò il conflitto che avrebbe per sempre diviso il destino di fami-glie, amici e colleghi della ex Jugoslavia e segnato irreparabilmente la crescita di Amir. A Mostar, bosniaci musulmani e croati catto-lici, in un primo tempo, combatterono assie-me contro i serbi.

“In quel periodo – racconta Amir – lavoravo nelle cucine. Un giorno, mentre stavo rasset-tando, ho sentito dei rumori. Ho avuto come il presentimento che qualcosa di brutto stesse per accadere”. Il magazzino accanto alla cucina dell’esercito era già stato colpito da una granata qualche giorno prima. Amir ebbe solo il tempo di comprendere che quel presentimento era giusto. Uscì dal retrocuci-na e svoltò l’angolo, per mettersi al riparo ai piedi di una scalinata. Questione di secondi.

“Ci fu un enorme boato – spiega Amir, senza bisogno di scavare troppo nei ricordi, come se quei momenti non si nascondano in un passato poi così lontano – e mi ritrovai a terra. Nessun dolore. Provai d’istinto a solle-varmi, ma non sentii le gambe”. Non sentì nulla. Si vide su una sedia a rotelle e fu questa l’ultima immagine prima di svenire.

Era il 27 maggio del 1992. Cominciò così la lunga odissea di ospedale in ospedale. Amir fu curato a spese dell’HVO, ricoverato per lunghi mesi a Spalato, subì sei operazioni, ma nessuna riuscì a restituirgli il corretto utilizzo di un gomito e della gamba sinistra. Mentre ne parla, indica quelle parti del corpo, ma è quasi impossibile percepire la gravità delle ferite di un tempo attraverso i maglioni e pantaloni larghi che per pudore usa portare. Amir è un ragazzo molto alto e magro, i capelli brizzolati ne lasciano immaginare l’età, le espressioni del volto sono quelle di un bambino timido. Dietro gli occhi grigio-verdi, anche quando riesce a scherzare, c’è un velo di malinconia.

Esattamente un anno dopo l’incidente tornò a Mostar: il lato sinistro della città, quello più antico, era ormai completamente distrutto. I serbi erano stati ricacciati al di là delle mon-tagne. Ma un nuovo fronte di guerra si stava aprendo proprio in quei mesi, nella città spaccata in due dal fiume Neretva.Croati e bosniaci, che un tempo avevano combattuto fianco a fianco, si trovavano ora opposti, a farsi guerra per il possesso della città.Ad agosto del ’93, Amir fu chiamato a Spala-to dai vertici dell’HVO: un medico americano sarebbe giunto dagli Stati Uniti per operarlo.

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Accompagnato dal padre, Amir salutò la sorella e la mamma e si avviò verso un nuovo capitolo della sua storia, il cui finale, ancora una volta, sarebbe stato scritto dalla Storia, con la “S” maiuscola. Il conflitto fra bosniaci musulmani e croati cattolici rag-giunse il suo culmine il 9 novembre del 1993: una granata croata fece crollare, a Mostar, lo Stari Most, il Ponte Vecchio sulla Neretva, che da quattrocento anni univa Oriente e Occidente.

Un ponte per nulla strategico, ma altamente simbolico: una stretta di mano fra cattolici, musulmani e ortodossi, spazzata via per sempre. Tutti capirono che non era stato un ponte a cadere, ma il dialogo e la possibilità di pace in un Paese dilaniato dalla guerra fratricida. Il crollo dello Stari Most era una ferita nel cuore dell’Europa. L’HVO si rifiutò a quel punto di continuare ad assistere un gio-vane musulmano. E nulla significò che quel ragazzo avesse perso le gambe proprio per servire l’esercito croato.

Amir e suo padre, Nusret, furono abbando-nati al loro destino. Ancora una volta. Non potendo tornare a Mostar, cercarono di emi-grare in Germania, dove – con non poche difficoltà – furono raggiunti dal resto della famiglia. Nusret, affermato imprenditore prima della guerra, si adattò a fare qualsiasi lavoro. “Mi misi a pulire finanche le grate usate per arrostire la carne nei ristoranti”, spiega senza vergogna l’uomo.

“Disinfettavo ogni giorno la gamba – rivela poi Amir – ma c’era il rischio serio di una cancrena e l’amputazione sembrava l’unica soluzione. Mi aiutò una donna tedesca. Lavo-rava in un’associazione che si prendeva cura dei profughi bosniaci. Mi accompagnò in una clinica per sapere quanto sarebbe costato operarmi”.250.000 euro, il prezzo della complicata ope-razione. Dieci giorni il tempo rimasto per scongiurare l’amputazione. “Mio padre bussò alle porte di tutte le aziende bosniache in Germania: sarebbe stato sufficiente fingere di avermi assunto e l’assicurazione sanitaria avrebbe coperto le spese mediche”.

Nessun musulmano però accettò di correre il rischio di dichiarare il falso. E in un capo-volgimento della Storia, furono i cattolici a tendergli una mano.

“La signora tedesca – continua Amir – ne parlò ad un ufficiale dell’esercito e l’esercito tedesco decise di accollarsi metà del costo dell’operazione”. L’altra metà la mise, di tasca sua, il medico che effettuò il delicato intervento. Muscoli della spalla furono trapiantati nella coscia e nel braccio di Amir, che dopo un ricovero di un mese e mezzo riprese a camminare senza le stampelle. A guerra finita, i Salcin tornarono a Mostar, in Bosnia Herzegovina. Lì, con non pochi sacri-fici, ricostruirono la casa che i croati avevano raso al suolo.

Nello stesso quartiere, a maggioranza catto-lica, Nusret volle tornare. E ricostruì dalle ceneri una villa con piscina. Riprese in mano la sua vita e il suo lavoro. Tornò a essere l’imprenditore facoltoso di un tempo, con decine di dipendenti e il sorriso di chi, da sempre, è artefice della propria fortuna. Amir ha aperto un negozio di elettrodomesti-ci, si è sposato ed ha avuto due figli. Amina, la maggiore, ha otto anni. Frequenta scuole per musulmani e vive nella parte musulmana di una Mostar divisa. “Non le insegnerò a odiare gli ‘altri’ – confessa Amir – ma non voglio che esca con loro. Né tantomeno che sposi un croato”.

Sono parole di un padre la cui vita, dai sedici anni in poi, è stata segnata da un marchio. “Sono sempre stato solo – rivela – e anche oggi mantengo tutti a distanza. Non ho dei veri amici. E tantomeno potrei essere amico di un croato. Posso averli come clienti, questo sì. Dobbiamo vivere nel rispetto reci-proco, ma non per questo convivere con loro”. Una pace forzata, mentre la guerra rivive ogni notte nei sogni di chi l’ha vissuta. E il corpo di Amir trema appena cala il buio. Nei suoi sbalzi d’umore, tenuti a bada dalle medicine, il trauma di una generazione ferita dalla follia di un conflitto che difficilmente saprà spiegare ai figli.

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PENNE CORAGGIOSEDI VITTORIA SMALDONE | 15.04.2011

“Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con la penna,l’uomo con la pistola è un uomo morto”. Roberto Benigni

Lapidi, necrologi e rosari di nomi di uomini e donne deceduti, non per cause naturali, ma per i loro ideali, a molti danno fastidio. E, in questa Italia che cancella la memoria e pone sullo stesso piano eroi e falliti, perché tanto “sono tutti uguali”, ricordare nomi, storie e volti, sottolineare le differenze, è fondamen-tale. Lo è ancor più se ad essere dimenticati sono i giornalisti. Quella razza deprecabile di persone dipinte come sciacalli, monatti che speculano sul dolore della gente. Ma i gior-nalisti non sono tutti giornalai.

I “giornalisti giornalisti” non passano il tempo a preparare dossier da tirare fuori al momento giusto quando il capo lo decide. I “giornalisti giornalisti” danno solo notizie verificate e pensano con la loro testa. Non pubblicano le veline del potere. I “giornalisti giornalisti” consumano le suole delle scarpe. Non ingannano i propri lettori né si divertono a fare gossip rimanendo ancorati alla loro scrivania. I “giornalisti giornalisti” sono diversi dai “giornalisti impiegati”, rischiano la pelle pur di informare e non temono nessu-no, nemmeno un AK 47 o una lupara.

Cosimo Cristina, Mauro Rostagno, Peppino Impastato e Giovanni Spampinato erano dei Giornalisti Giornalisti e davano fastidio. La mafia, Cosa Nostra, li ha uccisi per farli tacere.

La “macchina del fango”, come la definisce Saviano, la calunnia, la propaganda dei boss, appoggiati e sostenuti da agenti conni-venti e omertosi, ha cercato di fare passare alcune di queste morti come “suicidi”(Cosimo Cristina) o morte di un pre-sunto terrorista (Peppino Impastato).

Ma per fortuna, col tempo, la verità è venuta fuori. Grazie anche a madri coraggiose- Feli-cia Impastato in aula indicò in Tano Badala-menti l’assassino del figlio: “Iddu è stato”, disse Felicia, stretta nei suoi abiti neri-. E oggi i nomi di questi uomini, colpevoli di aver fatto troppo bene il proprio mestiere, verran-no impressi su una lapide. In America però, non in Italia.

Il Journalists Memorial, che si trova nel New-seum di Washington, e raccoglie i nomi di reporter e fotografi caduti sul campo, da quest’anno ospiterà anche i 4 martiri dell’informazione italiana. La notizia è stata diffusa dall’osservatorio “Ossigeno per l’informazione”. Dei quattro cronisti morti per mano della criminalità organizzata sici-liana il meno noto è Cosimo Cristina. Giova-ne cronista siciliano, Cosimo Cristina è stato il primo giornalista assassinato dalla mafia.

Ed è proprio parlando di lui che noi di Tr3nta.com vogliamo iniziare a raccontare le storie di chi non ha avuto paura di sfidare la mafia con l’unica arma che aveva a disposi-zione, la penna.

LA BARBIE ESPIATORIADI SIMONA MELANI | 29.04.2011

Se Barbie fosse vera, non ce ne sarebbe più per nessuna. Con i tempi che corrono, poi, a qualcuno verrebbe anche in mente di nominarla sottosegre-tario per la diffusione del tubino nero.

In realtà, la bambola più amata e allo stesso tempo più vituperata del mondo, nella vita vera sarebbe un “freak”. Alta un metro e 80, misure 99-45-83, due gambe come stecchini e spalle da Franken-stein: lo dimostra una studentessa america-na che, superata l’anoressia, vuole dimo-strare alle sue coetanee quanto siano sba-gliati i modelli estetici che vengono proposti alle donne, sin da bambine.

Ed eccola, ex cheerleader, bionda e spigliata, che mostra in tv la sua Barbie a grandezza naturale, così brutta che neanche lo stoma-chevole show dei record di Mediaset la mo-strerebbe in tv (o forse si). Il mostro è stato creato per un concorso sui disordini alimen-tari e rispetta fedelmente le proporzioni della bambola Mattel.

L’idea è d’impatto. Ma forse un pochino stru-mentale. Non mi occupo di disturbi dell’alimentazione per mestiere, ma credo che avrei difficoltà a trovare qualcuna che si è ammalata perchè “voleva essere Barbie”. C’è una grande ipo-crisia quando si parla di disturbi legati al cibo: che sia colpa della moda, della tv, delle riviste e di Photoshop.

Ritengo – con la dovuta delicatezza che il tema merita – che una persona (uomo o donna, non importa) che sviluppa un rappor-to conflittuale con il cibo lo faccia principal-mente perchè ha un disperato bisogno di attenzione.

Un bisogno che non siamo più in grado di esprimere a parole, perchè, prima che di anoressia siamo un popolo di malati di ales-sitimia, ovvero l’incapacità di verbalizzare e persino di riconoscere i nostri sentimenti.

Che non possiamo che esprimere attraverso il medium più potente che possediamo, cioè il nostro corpo, modificandolo, alterandolo, fino – come nel caso dell’anoressia – oltre i limiti della malattia.

Riflettendoci potrebbe essere lo stesso prin-cipio per cui una donna si riempie di botox e silicone fino a scoppiare: per l’incapacità di esprimere la sua sensualità in maniera com-plessa.

Non diamo la colpa alle modelle, alla moda, o alla povera Barbie, che per molte di noi è stata la chiave di volta per imparare a inven-tare e raccontare storie. Chi cerca di proteg-gere le povere fanciulle da modelli estetici irreali ha poca fiducia nell’intelligenza umana. E nella profondità dei pensieri di chi si sente a disagio non rispetto ad una bam-bola ma rispetto al mondo intero.

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Sembra proprio che la parola partito spaventi più la politica che gli elettori. E’ solo un’esigenza di comunicazione o forse c’è ancora in atto una riscrittura del ruolo e della funzione dei partiti? Ed il Pd è semplicemente sfigato oppure è controcorrente per statuto?Oggi i leader danno troppa importanza all’originalità vera o presunta di un brand rispetto agli altri. Neanche quello di Casini è “partito” e men che meno quello di Bossi. Messa così, il Pd, oggi, è il più originale di tutti. L’unico che ha il partito nel nome. Fuor di ironia, credo che per essere premiati dagli elettori sia a volte decisivo scegliere il bianco o il nero senza indugiare troppo tra le mille sfumature di grigio. “Tenere dentro tutti”, come nel mantra recitato a più riprese dai leader del Pd, a volte è contro natura. Basta guardare al caso Fiat.

L’Italia ha bisogno di leaders, di guide, di bandiere intorno alle quali stringersi. Sembra un po’ questa la storia del por-toghese Mourinho, allenatore vincente, arrogante ma interprete di un’intera comunità di italiani nerazzurri.Mourinho è una specie di profeta che venne, vide, vinse e se ne andò. Oggi in molti spera-no che Leonardo sia la sua reincarnazione. Però mi creda, Mourinho in politica fallireb-be. E sa perché? Per citare un caso di suc-cesso, basta parlare con Silvio Berlusconi per rendersi conto che il Cavaliere mette il suo interlocutore due o tre gradini più in alto di lui. Mou non ne sarebbe capace.

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LA MIA CRISI NEL RAPPORTO CON BARIDI DINO AMENDUNI | 08.07.2011

Gran parte dei miei coetanei che hanno frequentato il Flacco sono ora cocainomani, pallettomani, frustrati, egocentrici, boriosi, fintamente artisti e veramente ricchi, spocchiosi. Aveva proprio ragione la preside: questa scuola forma le classi dirigenti della città.

Lo scrive Dario, sulla sua bacheca Facebook. Dario gestisce la Taverna Vecchia, il pub (espressione riduttiva) di maggior tradizione della storia di Bari. Dario ha studiato al Flacco, il Liceo Classico più blasonato della nostra città. Io, invece andavo allo Scacchi, il Liceo Scientifico. Gli studenti delle due si percepivano come ‘cugini’, pseudorivali, salvo poi condividere tutto: i luoghi di ritro-vo, i siti Internet di riferimento, persino le relazioni sentimentali.

Se nell’aggiornamento di stato ci fosse stato ‘Scacchi’ o ‘Socrate’, o ‘Fermi’, al posto di ‘Flacco’, se avesse citato chissà quante e quali altre scuole superiori di Bari, o se avesse traslato questo ragionamento in altri grandi centri urbani italiani, non sarebbe cambiato niente. In quella frase, Dario ha descritto un problema e lo ha fatto con stra-ziante lucidità.

Vivo, studio e lavoro a Bari. È una scelta che ho fatto anni fa e che ho sempre difeso. Mi sono preso le parti migliori del vivere qui (il mare, il clima, la famiglia, le belle abitudini) e ho ignorato ciò che è oggettivamente un problema. Qualche giorno fa, però, mi si è accesa una spia. Per la prima volta, ho pen-sato di non avere più nulla da dare a questa città e che dunque fosse più sensato lasciar-la.

Ho avuto il privilegio di coordinare un gruppo di giovani volontari, tutti sotto i 30 anni, durante la campagna elettorale nella mia città, a sostegno di Michele Emiliano, sinda-co di Bari dal 2004. Non so se mi capiterà più un’esperienza così emozionante e totalizzan-te. Lavorare per la tua città, al fianco dei tuoi amici, con la possibilità di sperimentare e disponendo di tanti gradi di autonomia, farlo a 24 anni (e vincere le elezioni) è un mix irripetibile.

Quell’esperienza, pur non priva di imperfe-zioni, ha dato uno shock a Bari, o almeno a un certo tipo di città, diciamo a quella parte che non coincide perfettamente con la descrizione di Dario. Speravo, così come spero ancora, che alla fine vinca la Bari sana, che quell’esperienza seminale dia i suoi frutti e lo faccia in tutti questi anni, non mi impor-ta se in politica, nel mondo dell’economia, nelle amicizie e nelle relazioni.

Dopo la campagna non ho mai smesso di lavorare, di scrivere, di pensare, ma non so se ha più senso farlo. Vorrei dare una mano, cerco ogni giorno di dire la mia, a tutti, sui temi caldi nella città. Abbiamo degli ammini-stratori pubblici fantastici, tra i migliori d’Italia, ma non so come aiutarli, non so neanche se vogliono il mio aiuto.È importante che io dica a me stesso che oggi, non servo. E che non so quando e se mai tornerò utile come lo sono stati in questi anni. È importante che mi abitui presto all’idea. In teoria dovrei andarmene, aspet-tando giorni migliori, ma non lo farò, perché ho il mio fido Mac che mi permettere di essere a Bari e contemporaneamente in tutto il mondo prendendo il meglio dai due contesti.

Questo vale anche per voi che leggete, ed è per questo che ho scritto: non fuggite, resta-te, non c’è bisogno di andar via, se oggi non vi sentite indispensabili, lo sarete presto, perché la nostra generazione ha competenze uniche, che a un certo punto (neanche tanto lontano) diventeranno indispensabili per governare e per costruire.E se c’è qualche amministratore, o dirigente politico, del Sud come del Nord, che si trova da queste parti, chiedo loro di farsi una domanda: perché permettete ai vostri più fedeli servitori di avere l’istinto di andarse-ne?

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COSA CI VAI A FARE A SAN PAOLODI FRANCESCO DI COLA | 31.08.2011

Appena tornato da un viaggio in Sudamerica, dico che quello che più continua a rimbalzare da una parte all’altra dei pensieri – a parte, sì, le spiagge, le caipirin-has, il filetto argentino, ecc. ecc. – sono le riflessioni di un europeo del sud con due città come San Paolo e Rio.

Prima di partire: un amico mi dice “Cosa ci vai a fare a San Paolo? È solo un Laurentino di 20 milioni di abitanti.” Di Rio invece mi portavo dietro l’immagine stereotipata di garotas di Ipanema, Lino Banfi sulla spiaggia di Copacabana, le inimmaginabili feste che hanno rovinato la carriera di Edmundo o Ronaldinho o i racconti meravigliosi e spa-ventosi di Città di Dio et similia.Vi dico.

A Sampa, la prima cosa che vedo è la metro-politana. Sono a New York, penso. Insalata di razze nel vagone, servizio efficiente, treni puntuali. A destinazione mi aspetta un amico, diplomatico di sede lì.La sera, a cena, avremo modi di parlare più a lungo. Intanto, io avrò visto quartieri Lon-dinesi, gioventù NordAmericana, prezzi giapponesi.

Il mio amico mi racconta di una città in esplosione, in cui milioni (letteralmente) di persone negli ultimi anni sono passati dalla fascia di povertà alla classe media. Su Aveni-da Paulista decine e decine di grattacieli ospitano la city Iberoamericana.

Il Brasile in fortissima crescita economica, supportato da una moneta che galoppa, forse ancora troppo legato all’export di ma-terie prime e ancora parzialmente incapace di produrre un modello culturale autonomo – non ci viene in mente un Made in Brazil a parte samba, furbol e havajanas, giusto? E San Paolo – la più importante città dell’America Latina – ne è chiaramente il traino.

L’impressione si conferma dal ristorante sul tetto di un hotel di design, frequentato dalla bella gente Paulistana, alla vista dello ster-minato skyline cittadino.

Rio è una meraviglia della natura, violentata per troppi anni – bisogna dire, per fortuna, opponendo una resistenza feroce – da spe-culazione edilizia e uno sviluppo selvaggio.Non credo però esista al mondo uno scenario paesaggistico come quello che si può ammi-rare da una delle vette cittadine, montagne di 700 o 1000 metri a due passi dal mare.In questo teatro, e con una classe politica, almeno apparentemente, più consapevole, nel 2014 si giocheranno i Campionati del Mondo di Calcio, ottima prova generale orga-nizzativa in attesa delle Olimpiadi del 2016. Se a Rio saranno in grado di fare la metà di quanto realizzato a Barcellona o Sidney, la città ne godrà per decenni.

Tornando nel nostro paesello sempre più periferico e, purtroppo, sempre più inconsa-pevole, inciampo nel folle dibattito sulla ma-novra finanziaria in cui sembra che ignari (a pensar bene) personaggi stiano discutendo con l’obiettivo si salvaguardare il più possibi-le piccole lobby se non, peggio ancora, la propria stessa sopravvivenza politica, mentre invece sembra chiaro anche ai più che è in gioco il futuro storico della nostra intera società.

Sarò in grado di resistere allo scoramento?

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CRISI, PAURA, SPERANZADI ANNA RUSSELLI | 09.11.2011

Stretti uno affianco all’altro, disposti in cerchio, in piedi, con lo sguardo abbassato e l’atteggiamento com-posto tipico dei momenti solenni, eravamo lì, all’interno di un grande salone aziendale, completa-mente vuoto, che sembrava aver l’aspetto d’esser stato a non attendere altro che un’occasione grave e irripeti-bile come questa per darsi finalmente un senso.

Era il tardo pomeriggio dell’11 settembre del 2001. Lavoravo in un’azienda dall’immagine accattivante, giovane e di grandi speranze e appena un’ora prima il mondo sanciva dinan-zi a sé stesso che le cose erano cambiate per sempre, che la storia, in realtà, non era per nulla finita e che tutti noi, giovani e meno giovani, ci trovavamo su una faglia storica, una cesura, un irrevocabile passaggio da un’altra parte con conseguenze che nessuno poteva immaginare. Solo che noi non lo sapevamo ancora.

Le spalle si sfioravano, strette una affianco all’altro, i respiri contenuti appena riempiva-no il silenzio in quella cerimonia improvvisa-ta di muto raccoglimento; gli sguardi erano bassi, ma nessuno dentro aveva ancora la consapevolezza di ciò che davvero stava accadendo. I giorni a seguire furono poi uno stordimento collettivo di immagini e parole dal quale uscivamo ogni volta affamati e intontiti. Orrore, commozione e il pensiero fisso che c’erano riusciti: c’avevano portato la Guerra e la Paura in casa. Ciò che per anni aveva covato era infine esploso. Avevamo anche noi le nostre vittime innocenti, i nostri marti-ri, il nostro orrore vero, da toccare con mano.

Paura. La parola che più ci appartiene, più ci condiziona, più fa parte di noi. La nostra azienda di grandi speranze, dopo un anno, chiude e ci molla per strada. Dopo dieci anni siamo ancora giovani, ancora in equilibrio, sempre più in attesa. La storia non è finita, anzi. S’è aperta. Ha dissolto repentinamente le certezze ordinate consegnateci per decen-ni e ora tocca a noi scriverla.

Solo che non abbiamo piani d’appoggio, non abbiamo sedie, non abbiamo regole scritte da altri per noi. Non più. E soprattutto, non sappiamo più qual è la causa e qual è l’effetto.

Crisi. La parola più detta, più interpretata, più discussa. Ci dicono che bisogna pagare, perché abbiamo fatto baldoria per troppi anni e troppo al di là di quello che potevamo permetterci e ora la festa e finita e il conto è lì ad aspettarci. Ma dov’era ‘sta festa e, soprattutto, chi ha partecipato? Noi, no di certo. E nemmeno i nostri padri e le nostre madri. In fin dei conti, non s’è fatto altro che studiare o lavo-rare o arrangiarsi. e anche chi non l’ha fatto, di certo non ha festeggiato. E ogni tanto ci siam permessi qualche svago, qualche viag-gio, qualche avventura. E i nostri genitori, qualche risparmio.

E però la festa c’è stata, e mo’qualcuno il conto lo deve pur pagare. Forse la festa era quella che per anni c’hanno bombardato con milioni di immagini patinate, di belle ragaz-ze, di eterna giovinezza, di totem issati in onore del dio Denaro e del dio Successo, di consumo e consumo e consumo, di gaudenti imprenditori abbronzati e smaglianti, di car-riere folgoranti, di miliardi e di potere infini-to, tanto che c’eravamo convinti che per forza prima o poi anche noi saremo diventati così. Per forza.

Oggi tocca a loro, ma prima o poi, toccherà a noi. E però la festa e finita. Non era la nostra. Non siamo mai riusciti manco a get-tare uno sguardo nella sala anche solo per inebriarci della vista o degli odori dei festeg-giamenti. Ma il conto, ora, tocca a noi pagar-lo. E magari, pure ripulire tutto.

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Il “kindergarten” nel quale i nostri padri ci Speranza. La parola di cui più abbiamo biso-gno. La speranza che ha riempito le piazze (ma non dicevano che era un modo vecchio di protestare?) e infiammato gli animi dei giovani del Mediterraneo e dei giovani indi-gnados europei. La speranza che rinasce ogni giorno nelle mille primavere arabe, nelle mille resistenze libiche, nelle mille pro-teste europee. “E’ come una poesia che sgorga dal cuore di un poeta che scrive sotto dettatura della vita, che si ribella e vuole giorni migliori”, scrive Tahar Ben Jelloun rac-contando la rivoluzione dei gelsomini. La storia è nostra, ci tocca scriverla.

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UN AEREO RYANAIR ALL’ALBA IN ITALIADI DINO AMENDUNI | 13.09.2011

Questa mattina sono tornato a Bari da Pisa con il volo Ryanair delle 6.30. Avrei voluto dormire vista l’ora, ma come spesso accade sui mezzi di traspor-to non ci riesco. Devo però dire che la compagnia aerea ci mette del suo.

Dopo aver rinunciato alle mie velleità biorit-miche, ho deciso di segnarmi tutto ciò che accade su un volo della prima e più celebre compagnia aerea low-cost (low fares, dicono loro. Mica sono straccioni) del mondo. Un volo che parte in Italia quando è ancora buio e arriva in Italia con il sole che splende da pochi minuti.Si entra in aereo accolti da una hostess non italiana. Si esprime più a gesti che con parole, comprendendo l’incapacità di gran parte dei viaggiatori di parlare inglese. Gli ultimi arrivati trovano le cappelliere piene e sono obbligati a lasciare il bagaglio a mano in fondo all’aeromobile. Essendo l’unico pezzo che si può caricare a bordo, scatta una frenetica transumanza di libri, computer, telefoni, cuscini prima di mollare la presa per tutto il tempo del viaggio.

“Sedetevi nel primo posto utile nel più breve tempo possibile”. E si parte con tre minuti di ritardo. Durante il rollaggio, inizia la comuni-cazione delle misure di sicurezza da parte delle hostess. La voce registrata che accom-pagna il solito balletto è rigorosamente in inglese. (a proposito: quanti di voi saprebbe-ro rispettare quelle procedure pur avendole viste chissà quante volte?). E quando arriva la traduzione in italiano delle misure, le hostess sono già sedute e il decollo è già nel pieno.Come sempre accade sui voli Ryanair, il viag-gio è accompagnato da continue offerte di prodotti commerciali. Ed è qui che si toccano le punte di surrealismo. Dopo l’annuncio (in inglese) che invita a non alzarsi e non slac-ciarsi la cintura fino all’indicazione luminosa dettata dal comandante, inizia la disperata camminata degli assistenti di volo: Ore 6.50: bibite fredde e calde, birra, superalcolici e cappuccino (non italiano). Gelo in platea; ore 7.05: è il momento del cibo: fino ai crois-sant l’offerta può funzionare.

Sulla pizza si può provare a immaginare le singolari abitudini alimentari degli americani e a giustificare la proposta di Ryanair. Ma sui cannelloni ricotta e spinaci si tocca il mo-mento più alto dell’intero viaggio; ore 7.20: si cerca di dormire. Ma perché farlo, se il sole sta sorgendo? È il momento del Gratta e Vinci; ore 7.30: sicuramente avete dimenti-cato il regalo da portare al ritorno da un lungo viaggio. Ryanair ti soddisfa offrendoti profumi Duty Free delle migliori marche; ore 7.40: “we’ll be landing shortly” (ci hanno risparmiato le sigarette senza fumo).

Si atterra puntuali, anzi in anticipo. Ryanair è la compagnia low-fares con il record di puntualità: oltre il 90% dei voli arrivano ‘on time’ (ah già, anche questa mirabile statisti-ca è citata in inglese). La trovata è geniale: basta dilatare il tempo previsto per il volo per arrivare sempre nei tempi. Si atterra a Bari, fa caldo e tutti parlano in italiano.Ryanair è ritenuta, a ragione, un’eccellenza del marketing: il suo business model ha aperto la strada a una nuova stagione sia del trasporto (aereo, e a cascata su tutti gli altri mezzi di trasporto) sia del turismo. L’offerta è eccellente e i costi, nonostante la crisi eco-nomica e la concorrenza fortissima, sono rimasti bassi. Le gabelle supplementari sono cresciute, ma basta un po’ di furbizia per girare l’Europa con pochi euro.Per queste ragioni trovo assolutamente incomprensibile l’assenza di flessibilità in ciò che la compagnia offre nell’esperienza del volo, un aspetto che può essere determinan-te per le successive scelte d’acquisto. Che sia un tratta nazionale o internazionale, all’alba o di sera, ‘turistica’ o ‘commerciale’, Ryanair offre sempre la stessa cosa.Probabilmente la standardizzazione estrema fa parte della politica di riduzione dei costi, ma quei cannelloni ricotta e spinaci alle sette di mattina mi hanno causato grossi problemi di digestione.

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IMPRESSIONI AMERICANE: LE PRIME 36 OREDI LIVIA IACOLARE | 26.09.2011

“How are you doin’?” È questa la domanda che ci si sente porre più spesso in America. “Come stai?” Sia chiaro: a nessuno interessa sapere realmente come stai, tanto meno alla commessa di Best Buy che di lì a poco ti aiuterà a scegliere il tuo telefonino da battaglia. È una domanda automatica alla quale si risponde con un semplice “Hi”.

Eppure ogni volta ci casco: ogni volta mi viene da rispondere “Fine, thanks. And you?”, perché ci sono abituata. Perché non la concepisco in quanto espressione formale di cortesia. “Come stai?”. Di che umore sei? Come stanno i tuoi sogni, le tue speranze, le tue aspirazioni? Come ti senti dentro? Metti da parte l’apparenza e dimmi come ti senti in questo momento.

Penso a queste cose mentre me ne sto seduta sul treno della linea 4 che mi porterà a Franklin Av. Sono all’incirca le 18:30 e sono una delle tre persone caucasiche in un vagone occupato da afroamericani. Accanto a me una quindicenne con la testa rasata legge voracemente un manuale di brokering mentre con la mano destra si gratta il pol-paccio sotto lo stivale di pelle. Pessima idea indossare stivali di pelle in questa giornata umida e afosa.

Sono a New York City da circa 36 ore e sta-volta potrò godermi la città senza lo stress di chi deve fare tutto in pochi giorni. Ma una cosa è certa: sull’Empire State Building non ci andrò, cascasse il cielo. Questa città non sarà mai piccola ai miei occhi: preferisco osservarla dal basso e conoscere il suo sot-tobosco, le forme di vita aggrappate alle sue radici possenti.

Il treno ci inietta nelle vene della città alla velocità della luce (o quasi). Sfoglio un’antologia di poesie di Leonard Cohen che ho comprato da Barnes&Nobles. In realtà cercavo un volume specifico, “Flowers for Hitler”, ma pare che non lo ristampino da anni, per cui mi sono dovuta accontentare. Mi sono fatta strada tra i corridoi delimitati da cataste di libri, facendo lo slalom tra i lettori spalmati al suolo e gli avventori inten-ti a succhiare il wifi gratuito.

Solo tre scaffali dedicati alla poesia: davvero pochini per una libreria in cui è facile perder-si. La sezione dedicata allo yoga predomina su tutto il resto: calzini e guanti antiscivolo, CD musicali, materassini, DVD, manuali e quant’altro l’umanità possa concepire sul tema. Dopo un rapido giro mi sono resa conto del fatto che ci fossero più tazze con frasi zen che libri di poesia in quel posto.

Intanto il treno è arrivato a destinazione e un ceffone di aria calda mi colpisce al volto nel momento in cui si aprono le porte. La stazione è uno scheletro di plastica dura, acqua, ferro, cemento e piastrelle di cerami-ca del secolo scorso. Un utero usurato ma accogliente che ti trattiene finché può e ti stordisce con il suo profumo innaturale e al contempo familiare.

Sulla via verso casa mi soffermo a guardare le case a schiera dai mattoni rossi che somi-gliano a dei biscotti giganti. Quasi verrebbe voglia di prenderle a morsi (ovviamente dopo aver divelto le scale antincendio). Sono a Brooklyn, nella parte più lontana dal centro pulsante di Manhattan. Qui le giornate sono scandite in modo diverso e le persone – dopo una certa ora – camminano lentamente. A Brooklyn il cerchio si chiude, la vita prevede delle pause. Non siamo nella “city that never sleeps”.L’odore di carne alla griglia misto a quello di chicken tikka masala mi rapisce e le insegne intermittenti incorniciano il mio percorso con i loro colori fluorescenti. Non è ancora l’ora del tramonto ma ci siamo quasi. E’ l’ora in cui i ragazzi si siedono sulle scale davanti ai portoni con gli skate tra le gambe e la gente rientrata dal lavoro porta a spasso i cani dalle vesciche gonfie.

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Giunta davanti al portone di casa ritrovo la familiarità di un gesto: quello di cercare le chiavi nella borsa. La chiave del portone gira a vuoto solo perché dimentico che va girata in senso antiorario. Quando me ne accorgo è troppo tardi: una ragazza dai denti bianchis-simi la apre dall’interno e – sorridendo – mi saluta con un “Hey, how are you doin’?”.

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IMPRESSIONI AMERICANE: PIZZA, IDENTITÁ E PROTESTEDI LIVIA IACOLARE | 28.09.11

Chiamatemi Jane Smith. Questo è il nome che la commessa di Best Buy mi ha dato quando ha regi-strato la mia sim card di AT&T. Me ne sono accorta solo qualche giorno fa.

Jane Smith è la Maria Rossi americana: una donna che è stata inventata per riempire i moduli e fare improbabili donazioni ad altret-tanto improbabili istituzioni che salveranno il mondo. Jane Smith: un nome così comune da risultare unico. Sarà il mio nome di batta-glia e me lo cucirò addosso come un tatuag-gio maori.

Oggi abbiamo un po’ di riunioni da fare nel nostro ufficio a Bowling Green, nei pressi di Wall St. Al secondo piano dell’edificio che ci ospita c’è un bordello clandestino mentre al terzo c’è un appartamento di circa 100 metri quadri, vuoto e sfasciato nel quale non sarebbe entrato nemmeno Edgar Allan Poe se l’avesse visto. “Pare che qualche mese fa abbiano ammazzato delle donne là sotto” dice Mark addentando un bagel. In effetti sembra la scena di un crimine consumato da poco.

In uno degli angoli dell’open space abbando-nato c’è un divano di legno e velluto marrone con le gambe spezzate accanto al quale è stato appoggiato un telefono pubblico, uno di quelli che si trovano per strada. Cavi gialli sono attorcigliati tutt’intorno. C’è odore di moquette bagnata, le pareti sono di un azzurro cielo e le finestre enormi inquadrano il traffico su Beaver St.

Noi siamo al quarto piano e condividiamo l’ufficio con una comunità di artisti che si riunisce un paio di volte alla settimana. Il pavimento in legno massiccio riflette la luce e nella sala principale ci sono dieci file di sedie nere di plastica disposte in semicerchio intorno ad un pianoforte. Una grande cucina fornisce tutto il necessario per la sopravvi-venza.

Mi affaccio ad una delle enormi finestre per osservare i passanti. C’è un po’ di agitazione in strada ed i poliziotti controllano l’accesso alla via principale dalle strade affluenti. “Stanno protestando” mi rivela Mark “E’ una cosa che va avanti da qualche giorno ma la stampa e la TV non ne hanno parlato fino a poche ore fa”.

“Occupy Wall Street” (#OccupyWallStreet) è il nome della protesta che si sta svolgendo in questo momento sotto i miei occhi. Gli indi-gnados locali si ribellano al sistema finanzia-rio americano. Tutto è cominciato il 17 Set-tembre proprio ai piedi del toro bronzeo di Bowling Green Park, uno dei simboli dello stra-potere economico di Wall Street. La settimana scorsa hanno arrestato circa 80 protestanti ma questo non ha domato gli animi.Osservo la fiumana che passa sotto il mio naso e penso all’Italia e a tutti i motivi che avremmo per stare in piazza 24 ore su 24. Mark nota il mio interessamento alla prote-sta e – dopo aver mandato giù un lungo sorso di caffè – dice: “Dovresti scendere giù a dare un’occhiata. E’ un momento storico per la città”.

So che ha ragione e ormai la mia curiosità è troppo grande per contenerla.Scendo con in tasca qualche dollaro e il mio cellulare. Mi soffermo sui volti e sui gesti dei protestanti. Alcuni indossano la maschera di Guy Fawkes ed agitano cartelli con frasi tipo “Vi amo tutti” e “Il dissenso è patriottico”. C’è un materasso matrimoniale accanto ad un’aiuola e su di esso si dimena una coppiet-ta in amore che diventa immediatamente il soggetto preferito dai fotografi presenti sul posto.

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Ma la rivoluzione non si fa a pancia vuota ed ecco arrivare una ventina di pizze giganti che vengono meticolosamente tagliate (indossando guanti di lattice) ed offerte ai passanti. Mi avvicino ad un ragazzo dai capelli rossi che distribuisce cibo e bevande. Gli chiedo se può darmi un trancio di pizza e lui lo fa con piacere. “Come vanno le cose?” gli domando. “Beh, ormai sono due settima-ne che siamo qui. Bisogna resistere!” sorride ed alza gli occhi al cielo.

Ci voltiamo entrambi di scatto non appena qualcuno intona lo slogan “Wall Street is our street”; a poco a poco tutti si uniscono a quell’unica voce. Wall Street è la nostra strada, la strada di tutti. Il coro si spegne dopo un po’ e tutto torna alla calma. “Ah comunque io sono Brett, tu come ti chiami?” mi domanda il tipo. Addento la pizza e rispondo “Jane, il mio nome è Jane”.

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IMPRESSIONI AMERICANE: SAN FRANCISCO, LA NEBBIA, LA MUSICADI LIVIA IACOLARE | 04.10.2011

L’sms di Frank arriva mentre sto mangiando la pasta che ho preparato nel mio appartamento qui a San Fran-cisco: “Io ed Amy passiamo a prenderti tra un’ora. Ti portiamo al Bluegrass. Ti piace il vino rosso? Porta una giacca”. In quindici minuti sono pronta.

L’estate di San Francisco (nota anche come “Indian summer”) mi aspetta e non posso farla attendere.

Hardly Strictly Bluegrass è un evento gratui-to finanziato da un comitato composto da persone molto facoltose. Si svolge ogni anno all’interno del Golden Gate Park. Qui vengo-no ad esibirsi musicisti famosi e meno famosi: ieri c’era Robert Plant dei Led Zeppe-lin. Ci sono almeno quattro palchi montati nel parco e su ciascuno di essi si suona un genere musicale diverso.

Frank ed Amy sono puntualissimi e la loro enorme Jeep sfreccia nel traffico quasi fosse una Smart. Il Golden Gate Park è enorme, più grande del Central Park di New York e sicuramente più selvaggio. Ci incamminiamo nella boscaglia e ad un tratto si apre davanti a noi una vallata con un palco e della musica. Migliaia di persone se ne stanno sdraiate a terra su teli colorati, all’interno di un perime-tro delimitato dagli stand che servono cibo e bevande. Nell’aria c’è un mix di profumi ben amalgamati tra loro: frittura, pollo alla mes-sicana, arrosto, erba schiacciata e marijua-na.

Oltre gli stand ci sono degli alberi dalle radici enormi che diventano capanne per avvolgere i corpi rannicchiati degli innamorati. Non c’è nessuno che vada in giro senza un sorriso ed una birra nella mano. L’atmosfera è quella che prima di oggi ho potuto percepire solo in alcuni filmati della fine degli anni Sessanta. La natura tutt’intorno è architettata per pro-teggere queste persone, quasi fosse un abbraccio.

Amy dice che tra poco arriverà la nebbia, la famosa nebbia di San Francisco che solita-mente fa calare la temperatura in modo pre-cipitoso. In realtà non è “fog”, ovvero la nebbia pesante, umida e fitta; è piuttosto una sorta di “mist”, una foschia leggera che si muove sinuosamente tra le cose e le per-sone. Io mi guardo intorno e penso che la nebbia non arriverà: non può arrivare pro-prio ora e rovinare tutto.

Mi soffermo sulle le coppie di anziani che contemplano lo spettacolo che le circonda con una luce particolare negli occhi. Chissà quante ne avranno viste quando erano gio-vani – penso. Eppure le scintille nei loro sguardi mi fanno capire che non sono sazi, che vogliono esserci e godere di tutto questo fino all’ultimo momento. Certo, non è come quarant’anni fa: non c’è Jimi Hendrix che schitarreggia sulle note di “Little Wing”, non ci sono i Jefferson Airplane che urlano “Feed your head!” e manca il Bob Dylan migliore per intonare “Shelter from the storm”. Però c’è la musica e ci sono le persone. E questo basta.

Sollevo la testa e intravedo un ciuffo bianco sopra gli alberi in lontananza. Eccola – penso – sta arrivando. La nebbia di San Francisco somiglia un po’ al fumo di Lost ma è bianca e sottile. Siamo tutti stesi a terra e posso sentire il battito del cuore della signora cinquantenne seduta accanto a me con le piume nei capelli.

Da ragazzina credevo di essere la reincarna-zione di qualche amica di Janis Joplin: non osavo pensare di poter ospitare l’anima della divina Janis… ma quella di una sua amica incontrata a San Francisco, quello sì! Magari l’amica scapestrata che le offriva sempre le sigarette.

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Mi sarebbe bastato. Ora mi trovo qui in mezzo a tutta questa gente che ride, canta, si saluta come se si conoscesse da sempre e si congeda come se fosse per l’ultima volta. E mi sembra di rivivere qualcosa che ho vissuto qualche decina di anni fa, forse in una vita in cui ho offerto molte sigarette.

Alzo gli occhi al cielo e quel barlume di nebbia che intravedevo fino a pochi minuti fa è sparito, non c’è più. Sì la nebbia si è allon-tanata, forse sciolta dal calore emanato da tutti noi, oppure commossa dalle preghiere di chi la implorava di andare a rinfrescare le teste di qualcun altro. Tutto è tranquillo, come sospeso in un limbo confortante e pia-cevole. Il pericolo si è allontanato e ci rilas-siamo. Ci si scambia cibo, bevande, erba e tutto ciò che è possibile condividere.

Quasi tutti i partecipanti hanno con sé un sacchetto di carta per i rifiuti e chi non ce l’ha va diligentemente a riporre la spazzatu-ra negli appositi contenitori per la raccolta differenziata. Qui accorrono persone di tutti i tipi: dai senzatetto ai ragazzi fighetti del Mis-sion District, dagli studenti di legge di Stan-ford ai geni di Facebook. Il rispetto per gli altri è la cosa che mi colpisce di più in questa occasione.

Stringo amicizia con il capitano Derek Porter che organizza escursioni in barca in Alaska. È un uomo di bell’aspetto con dei profondis-simi occhi blu, una grande cicatrice sull’avanbraccio, il volto abbronzato e le rughe marcate. Le sue figlie vivono in diver-se parti del mondo e lui è venuto apposta da Sitka per partecipare a questo evento. Mi fa vedere le loro foto sull’iPhone e mi dice che è contento di aver conosciuto un’italiana in questo casino perché lui ama l’Italia. Prima di andare via mi ringrazia, quasi gli avessi concesso un privilegio.

Sono ormai le sette e i concerti sono termi-nati. Ci avviamo lungo il viale che ci porterà al parcheggio. Frank tiene la mano di Amy e l’aiuta a risalire la collinetta. Sul nostro cam-mino incontriamo un uomo con una lunga barba; agita un cartello che recita “Occupy San Francisco” e proclama: “Succederà anche qui, preparatevi! Siate pronti a parte-cipare! L’onda sta arrivando!”. Ripenso alla manifestazione di New York di qualche giorno fa, quella che ho osservato con questi occhi.

Un ragazzino che avrà forse diciassett’anni cammina davanti a me e soffia in un’armonica mentre prende a calci dei sassi. Riconosco le note di “Find the cost of free-dom” e mi spiazzano; mi spiazzano come il tramonto che si fa largo con impazienza tra i rami degli alberi. Un tramonto che somiglia alla nebulosa di Orione e mi sembra l’inizio del giorno più che la fine.

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LA STAMPA E IL TITOLO SBAGLIATO. PERCHÈDI SERGIO RAGONE | 11.12.2011

Fa riflettere, tanto, l’errore commesso dal giornale di Torino “La Stampa” e per il quale oggi chiede scusa. Fa riflettere e pone alcune domande che, sappiamo, non avranno nessuna risposta dagli “addetti ai lavori”.

La cosa peggiore, a mio modo di vedere è: “Ma sui «rom» siamo scivolati in un titolo razzista. Senza volerlo, certo, ma pur sempre razzista.”

A tutta prima sono rimasto basito, poi ho provato ad andare oltre la primordiale sen-sazione di spiazzamento. E allora mi sono posto alcune domande: che vuol dire senza volerlo?

Chi fa i titoli dei giornali? Che responsabilità ha il giornalista che “a sua insaputa” ha scritto una cosa falsa e razzista? Che giorna-lismo è questo? C’è un problema di compe-tenze? Quante copie ha venduto La Stampa grazie a questo titolo?

Come giustamente sostiene Ciro Pellegrino su Linkiesta.it, perchè i giornalisti, gli editori, i caporedattori ed i direttori, sulla questione “rom” non tengono conto della “carta di Roma” in cui si chiede ai giornalisti di «evita-re la diffusione di informazioni imprecise, sommarie o distorte»?

Troppe volte i giornalisti sbagliano, poche volte si correggono, rarissime volte chiedono scusa. Che poi, mi chiedo, perchè i giornalisti della Stampa devono sentirsi in obbligo di dovere delle scusa «soprattutto a noi stessi»? Sembrano i politici, o forse sono peggio perchè nessun titolo a nove colonne può attaccarli?

Come giustamente sostiene Ciro Pellegrino su Linkiesta.it, perchè i giornalisti, gli editori, i caporedattori ed i direttori, sulla questione “rom” non tengono conto della “carta di Roma” in cui si chiede ai giornalisti di «evita-re la diffusione di informazioni imprecise, sommarie o distorte»?

Troppe volte i giornalisti sbagliano, poche volte si correggono, rarissime volte chiedono scusa.

Che poi, mi chiedo, perchè i giornalisti della Stampa devono sentirsi in obbligo di dovere delle scusa «soprattutto a noi stessi»?

Sembrano i politici, o forse sono peggio perchè nessun titolo a nove colonne può attaccarli?

ANNALISA CHIRICO, L’INTOCCABILEDI SERGIO RAGONE |29.12.2011

Chiudiamo questo primo anno di Tr3nta con l’intervista ad Annalisa Chirico. Classe 1986, cresciuta a Francavil-la Fontana in provincia di Brindisi, l’abbiamo conosciu-ta per le sue battaglie radicali ed ultimamente per la sua collaborazione con il programma Gli Intoccabili de La7

Sei l’anti Innocenzi?Essere anti-qualcuno è sempre squalificante. Faccio un esempio, che forse risponde alla tua curiosità. Io non sono anti-Santoro, ma sono per un giornalismo “popperiano”, che non propina risposte preconfezionate, ma pone innanzitutto quesiti, interrogativi. Il (dis)servizio pubblico pagato coi soldi dei contribuenti non mi piace, così come non apprezzo i toni tribunizi, la retorica dell’anticasta o quella dell’antimafia assurta a dogma infallibile. I demagoghi sono un male del nostro Paese. Io mi innamoro degli spiriti liberi e critici. Ho risposto?Vuoi la notiziona? Ecco, io e Giulia siamo grandi amiche e condividiamo lo stesso appartamento romano…questa notizia sono sicura che interesserà un ampio stuolo di lettori…

Stili differenti e percorsi differenti. Eppure entrambe rappresentate il “nuovo che avanza” del giornalismo italiano. Sto esage-rando vero?Io rappresento a malapena me stessa.

Hai iniziato da poco questo lavoro per la7, un programma scomodo e che prende di mira gli intoccabili d’Italia. Ma che credibilità ha una casta, quella dei giornalisti, che ha la pretesa di fare le pulci alle altre caste?Noi non siamo il programma dell’anticasta, neppure quello dell’antipolitica, tutt’al più direi “per la buona politica”. Gianluigi Nuzzi è un segugio della notizia, i giornalisti come lui in Italia si contano sulle dita di una mano. L’obiettivo de Gli Intoccabili è raccontare il pezzo di verità mancante, far parlare le storie per quello che non hanno ancora detto. Quanto alla casta dei giornalisti poi, io non sono iscritta a nessun ordine, né intendo farlo.

E’ cosa nota che l’ordine dei giornalisti, unicum a livello mondiale, non si batte per tutelare la libertà dell’informazione, al mas-simo reclama diritti acquisiti, privilegi ormai superati e un diritto di ultimissima genera-zione, quello allo sputtanamento altrui.

Parliamo di noi. Come sta l’Italia?L’Italia è sospesa tra quello che si dovrebbe fare e quello che non si fa. Viviamo sotto una cappa pesante di corporativismo e di morali-smo. Oggi la vera sfida è la crescita, e le ricette per crescere contemplano un drastica riduzione della spesa pubblica, che assorbe oltre il cinquanta percento della ricchezza nazionale. Sono le ricette, su cui i Radicali hanno promosso dei referendum, le ricette che il Berlusconi del ’94 brandiva come l’arma per la mai realizzata Rivoluzione Libe-rale. Allora però a consigliarlo c’era Antonio Martino e non Tremonti…

Come sta Annalisa?Bene, grazie. Forte e combattiva.

Ti sei battuta per molte battaglie radicali, alcune difficili e tante altre davvero corag-giose. Ma credi davvero sia in queste batta-glie il destino del Paese?Le battaglie radicali sono battaglie di civiltà e di libertà, per loro natura transnazionali, uni-versali. Guai al Paese che pensa di non aver bisogno delle battaglie radicali.

Nel 2012 cosa farà Annalisa e, soprattutto, cosa farà l’Italia dei Professori?Il 2012 sarà l’anno del grande strappo dell’Italia e di Annalisa.

E cosa vuoi strappare?Quel che c’è da strappare, sono una che non si tira indietro, mai.

C’è ancora spazio per questa nostra genera-zione o possiamo dichiararci perdenti senza aver mai giocato?Certo che c’è spazio. Dobbiamo avere corag-gio, dobbiamo saper rischiare per cambiare le cose.Uscire dalla sindrome dell’autocompatimento e muovere i bianchi per primi. Si può, basta volerlo.

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MEZ-MED

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SE NON ORA QUANDO: MEZ&MED SU LA TESTA!DI SERGIO RAGONE | 06.12.2010

Pagine di giornali, siti internet, conferenze, blog, tavole rotonde e dibattiti sulla regia occulta o palese delle ultime vicende nordafricane. Caccia al “who”. Chi guida le rivolte popolari nel Mediterraneo? Chi auspica una pacificazione? Chi c’è dietro questo vento di pre-sunta democrazia?

A chi gioverebbe un’instabilità persistente?Domande che non hanno una risposta univo-ca e che autorizzano tutti a dire il contrario di tutto. Io partirei con una distinzione di base: la Libia non è la Tunisia. La Tunisia non è l’Egitto. Ognuno di questi tre paesi ha storie differenti alle spalle che bisognerebbe cono-scere prima di poter parlare di “effetto domino”. In principio fu la Tunisia.

Successivamente l’Egitto. Mubarak ostacolo allo sviluppo democratico o baluardo contro la islamizzazione estrema? Nessuno può dare una risposta certa a questa dicotomia, ma di certo non si può negare che l’Egitto ha vissuto un periodo di prosperità socio-economica-democratica con Mubarak e che lo stesso si sia posto come interlocutore affi-dabile con molti paesi europei e con gli stessi Stati Uniti d’America. Certo, anche l’Egitto è stato sconvolto dalla crisi economica ed ha pagato lo scotto di uno sviluppo centralizzato, una burocrazia ma-stodontica ed una corruzione dilagante che ha infiacchito e logorato quello che anni fa è stato il ceto dirigente egiziano. E come non considerare gli ottimi rapporti tra Egitto e Israele?

Qui forse abbiamo un’influenza islamica. Ma più che di regia parlerei di afflato, di principi alla base di una rivoluzione che è partita a mio avviso dall’alto e non dal basso, da quell’elite culturale egiziana che spazia dall’occidentalismo all’islamismo moderato, dal richiamo della tradizione araba ed orien-tale all’auspicio della modernità.

Chi ne esce sconfitto di certo? L’immenso patrimonio culturale ed artistico egiziano che necessariamente subirà delle perdite a seguito della inevitabile anarchia che prece-derà una prossima “islamocrazia”, un nuovo regime o perché no, una “democrazia all’occidentale”. Domanda aperta: ma siamo poi sicuri che la “nostra” democrazia, quel modello che consideriamo universalmente riconosciuto e che ci riteniamo in diritto/dovere di esportare, anche indiretta-mente, sia un qualcosa che si adatta alle tradizioni ed alle culture di questi popoli?

Infine Libia. Gheddafi, personaggio contro-verso, poliedrico nei suoi vizi, alleato fedele della Nato e nemico dei diritti umani, paladi-no antisovietico ed insieme fautore di un sistema utopicamente sociale e socialista da far sembrare un liberale Fidel Castro.

Ebbene qui, esperienze dirette di amici libici mi raccontano di manifestazioni spontanee, di gruppi insorti davvero per i diritti, l’eguaglianza, la partecipazione, seguendo la scia di Tunisia ed Egitto, di valori familiari generalmente riconosciuti e di nessuna regia occulta, nessun piano segreto, nessun busi-ness delle armi, ma solo afflato di libertà. Qui e solo qui si bombarda i manifestanti.

Tunisia, Egitto e Libia, situazioni diverse quindi, ma una possibile via d’uscita comune, non solo per loro, ma soprattutto per noi. Quale? L’Europa. Come? Attraverso il Mezzogiorno d’Italia. Perché? Mi ripeto. Ci crediamo? Certo, altrimenti non saremmo qui a ribadirlo, con forza. Su la testa.

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SIGARETTE E LIBERTÁDI MARIO POLESE | 06.12.2010

Il racconto di un pomeriggio trascorso al campo di accoglienza dei profughi tunisini a Palazzo San Gervasio (Pz)

Sono giovani, alcuni giovanissimi, ed hanno il volto di chi ha solo fame di libertà. Sono i quasi 500 profughi tunisini giunti in Basilica-ta ed accolti nel campo di Palazzo San Ger-vasio in provincia di Potenza. ” Sigaretta?” è la prima domanda che ci pongono appena entriamo in contatto con loro, un contatto filtrato dalla recinzione che divide noi da loro, loro dalla libertà.

Nel campo di Palazzo l’accoglienza è stata ed è molto dignitosa, rispettosa della cultura e delle primarie esigenze dei ragazzi di Tunisi. La vita scorre lenta, l’attesa per un tempora-neo permesso di soggiorno è vissuta tra una partita di calcio con delle porte improvvisate ed una chiacchierata con i reporter che ormai stazionano li da diversi giorni. Ottimo è il lavoro che sta svolgendo la CRI lucana, così come lo è quello che stanno facendo le forze dell’ordine impegnate a vigi-lare e a tenere sotto controllo la vita nel campo. A loro, credo, va dato un sincero grazie per il lavoro straordinario che stanno facendo in una situazione certamente non facile.

Sono giovani, dicevamo, hanno gli occhi di chi ha vissuto il dolore della partenza, dell’allontanamento dagli affetti e dalla pro-pria casa. I loro occhi cantano voglia di liber-tà, di normalità, di futuro, di vita nuova.

“E’ così sottile il bilico tra la costruzione e la distruzione da sembrare una cosa sola, un solo odio ed un solo amore”, canta Marco Parente nella sua incantevole “Gente in costruzione”, ed è proprio il costruire che sentiamo sulla nostra pelle e che abbiamo voluto immortalare in queste istantanee scattate in collaborazione con il nostro amico e autore Emiliano Albensi fotografo e giorna-lista professionista.

E percepiamo anche una bella sensazione, una certezza per chi è nato e vive da queste parti. La generosità della gente del Sud, di questo Mezzogiorno diverso, positivo, coraggioso che va raccontato ma che non trova spazio nelle pagine dei giornali nazionali, impegna-te a distribuire fango e incenso al politico o all’imprenditore di turno.

Di questo Sud nessuno racconta nulla, fa più rumore un’inchiesta (poi arenatasi sugli scogli dei due mari), una sfilata di vallette o altro. Eppure anche questa è l’Italia, la stessa che il 17 marzo in piedi cantava l’inno di Mameli, la stessa che questi ragazzi tunisi-ni non hanno scelto come loro destinazione di vita perchè, dicono, vogliono andare in Francia… un Paese europeo.

Dopo qualche scatto, qualche sigaretta ed una chiacchierata con i ragazzi, lasciamo il campo mentre il sole lentamente si abbassa ed illumina di tramonto il verde intenso e pulito di questo pezzo d’Italia. La voglia di libertà assale anche noi, in macchina non si parla di altro e c’è qualcuno che azzarda una triste ed amara battuta: “Loro almeno sono andati via dal loro Paese e Ben Ali l’hanno mannato a fanc…”.

Mentre dalla radio il Gr ci informava sull’andamento dei lavori parlamentari.

PANE E CORAGGIODI SERGIO RAGONE | 08.10.2011

Hanno le mani consumate dal lavoro, gli occhi stanchi e la sclera così bianca da sembrare gesso. Il sorriso che ci accoglie è imbarazzante e impetuoso. Loro hanno un sorriso per noi e noi, che accompagnamo la Caritas locale, abbiamo pane, iPhone e macchine fotografiche.

L’odore è forte, il contorno sugli occhi e sulle loro incertezze è molto marcato. Sembra quasi di toccare con mano la forza della disperazione che li ha portati fin qui..fino alle sponde nord del Mediterraneo per un tozzo di pane ed un Paese libero.

Con molti di loro scherziamo parlando in francese ed in inglese. Ci facciamo racconta-re i loro giorni italiani nei campi mentre il sole del mezzogiorno sale alto su di noi. Un sole tiepido ed un’aria che inizia a farsi dura e pungente, come le loro storie e la dura verità sull’Italia che ai loro occhi pare povera, non più forte ed in estrema difficol-tà. E come dargli torto se poi sono loro stessi ad invitarci ad andare nella loro terra in cerca di riscatto.

Il giro dei casolari con i ragazzi della Caritas inizia alle 10 del mattino, per consegnare pane e tonno, qualche sapone e detersivi per lavare panni e utensili. A breve i ragazzi par-tiranno perchè il lavoro nei campi è quasi agli sgoccioli ed è tempo di andare via in cerca di nuove opportunità. Chi a Napoli, chi a Modena, chi in Calabria e chi a Bologna. Ma in tutti c’è un sogno che li tiene ancora svegli, il sogno mai domo di una vita diversa e migliore in quell’Africa che trasuda dal loro accento incerto ed impreciso. Come il passo con quelle scarpe così consumate da non esserci più.

Sono ragazzi, forti e misteriosi, con la fame e la sete di chi non ha nulla e vorrebbe avere il giusto. Quello che le organizzazioni umani-tarie e le istituzioni locali provano con fatica e silenzio a dare, in una stanca indifferenza e senza luci mediatiche che li, a parer loro, non trovano più notizie.

Alla loro umanità intensa, alla loro libertà estrema, al loro sguardo innamorato dobbia-mo saper rivolgere il nostro…quello disilluso, violentato dalla modernità e distratto dal rumore delle cose del mondo. La crisi, le agenzie di rating sono così lontani da questi casolari consumati dal tempo, la tecnologia e la cinica velocità qui prendono altre forme, altri colori, così diversi dai nostri da non sembrare veri.

Di Fossati, così citato e violentato in questi giorni, vale la pena ricordare la sua intensa “pane e coraggio”e quella strofa che a me-moria credo faccia così:” E noi cambiavamo molto in fretta il nostro sogno in illusione, incoraggiati dalla bellezza vista per televisio-ne, disorientati dalla miseria e da un po’ di televisione.

Pane e coraggio ci vogliono ancora, che questo mondo non è cambiato, pane e coraggio ci vogliono ancora sembra che il tempo non sia passato, pane e coraggio commissario che c’hai il cappello per coman-dare, pane e fortuna moglie mia che reggi l’ombrello per riparare. Per riparare questi figli dalle ondate del buio mare e le figlie dagli sguardi che dovranno sopportare, e le figlie dagli oltraggi che dovranno sopporta-re.”

È forse l’istantanea che a parole rende meglio il dolore.La strada che ci riporta a casa è piena di sassi e terra bagnata. Le foglie che coprono il selciato stanno li a ricordarci che il tempo dell’inverno è giunto preciso e deciso.

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Ci incamminiamo, con un silenzio presente ed una forte commozione in gola che ancora non scende giù ma con una piccola certezza: c’è un mondo migliore nel cuore di ognuno e allo stesso tempo c’è la voglia di costruirlo pezzo dopo pezzo, mattone su mattone.

Tocca solo farlo senza più impedimenti e senza molte parole, come la possibilità di farli sentire cittadini a pieno con esercizio di voto ed il diritto a potersi costruire un futuro.

Ho nel naso ancora il loro odore ed ho paura che vada via come vanno via tutte le passio-ni tristi di questo amaro tempo, ma quegli occhi che sorridono e chiedono solo un po’ di pane sono qui con me e non andranno via. Mai più.

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LIBIA: DOPO GHEDDAFI UN RISCHIO MAGGIORE?DI MARIO POLESE | 08.11.2011

La necessità di smantellare la vecchia ragnatela dello stato libico non puo’ prescindere dalla valo-rizzazione della società civile nella politica libica.

L’ Europa oggi deve limitare la militarizzazio-ne della Libia onde evitare l’esasperazione dell’ estremismo islamico che costituisce, in potenza, un pericolo peggiore di Gheddafi.

Non bisogna quindi svilire il grande peso politico che può avere l’oltraggio del cadave-re di Muhammar Gheddafi ed è necessario, nella ricostruzione di un nuovo stato libico, tener presente la plurietnicità del contesto sociale e le differenze religiose tra i vari clan. Non si può infatti dimenticare uno dei pregi oggettivi del governo Gheddafi, la sostanzia-le laicizzazione del paese, valore oggi a forte rischio se non si vigila ed incentiva la cresci-ta delle comptenze civili del paese.

Evitare una muova forma di colonialismo occidentale significa utilizzare si il petrolio libico, ma superare il binomio più petrolio meno democrazia; è anzi necessario “demo-cratizzare” il petrolio ed auspicare che le risorse petrolifere siano non dello stato ma dei cittadini e servano a sostenere lo svilup-po del paese.

Non dobbiamo infatti dimenticare che a differenza di Mubarak e Ben Ali, Gheddafi conquista la Libia con un colpo di stato. La Libia è quindi sua, ha un atteggiamento paternalista.

Appare pertanto improbabile pensare che oggi la nazione libica possa divenire una per-fetta democrazia occidentale – a patto che tali siano le mostre democrazie – piuttosto, piu plausibile potrebbe essere l’idea di un giverno di transizione illuminato, sul modello del primo Mubarak.

Quale futuro allora per la Libia e quale ruolo può avere l’Italia?Sicuramente il nostro compito deve essere quello di puntare all’incremento della exper-tice della governance libica, favorendo in maniera concreta il processo di riconciliazio-ne, esportando il nostro know how d’eccellenza nella formazione delle classi dirigenti libiche e nei servi essenziali, ad esempio nel settore ospedaliero.

È importante d’altra parte preservare il nostro tuolo di partner strategico nel settore energetico e favorire una exit strategy dalla crisi post caduta del rais attraverso un diplicr binario.

Da un lato il riconoscimento di un governo provvisiorio ed il favor per un’assemblea nazionale ed una commissione costituente, dall’altro la promozione di un processo di conciliazione sul modello sudafricano post aparthaid, basato sulla concilizione, sulla confessione di crimini reciproci e sull’equa presenza di tutti i clan all’interno di un consi-glio di sicurezza che vigili sull’operato del governo tranistorio.

Ricordiamoci che dalla pacificazione del Mediterraneo passa la strada per la rinascita dell’Europa e dell’Italia intera.

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RIVOLUZIONI 2.0

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INTERVISTA A MOHAMAD NOUR DI GIOVANNA LOCCATELLI | 06.12.2010

“Non ci fidiamo dei fratelli musulmani. Bisogna controllarli da vicino e fare attenzione a come si comportano. Non sempre fanno quello che dicono e viceversa. Controlleremo il loro operato”

Parla Mohamed Nour, uno dei leader del par-tito salafita ‘Nour’ (‘la luce’), la corrente più radicale dell’ Islam, che ci ha concesso un’intervista dopo l’ora della preghiera. Poi sorride ed esclama: “I fratelli musulmani prendono in giro anche la stampa internazio-nale, dicono ai giornalisti quello che la stampa vuole sentire. Sono molto abili in questo.”

Il partito dei salafiti, ‘La luce’, si è presentato con una percentuale di consensi stimata vicina al 5%, ma che, stando alle ultime ana-lisi, potrebbe addirittura raddoppiare.Insomma, sono loro la vera sorpresa del primo round elettorale. Una maratona che, nell’arco di oltre tre mesi, prevede ben sei appuntamenti elettorali per definire la nuova Assemblea del Popolo e il nuovo Consiglio della Shura, le due camere del parlamento egiziano.

Non si conoscono ancora i dati precisi ma Mohamed Nour ostenta una certa sicurezza “Il partito di Libertà e giustizia ha distaccato tutti. Al secondo posto, con molto scarto, c’è il gruppo dei liberali, ‘El Kotla El Masria’. Sono certo che noi avremo un buon risulta-to.” E riguardo alle elezioni, non ha dubbi “Non potevano essere rimandate. Sono, in questo momento, un passaggio inevitabile. È giusto averle fatte. Il Paese deve iniziare un suo percorso, scelto dalla gente.”

L’ufficio del partito è grande, ci sono 7 stanze. Diverse persone fanno avanti e indietro, l’atmosfera è molto rilassata. Ci offrono subito del tè, molto zuccherato, in linea con la tradizione egiziana.

L’intervista si concentra subito sulla situazio-ne attuale a Tahrir. Una piazza, secondo alcuni, uscita sconfitta dalla massiccia pre-senza dei cittadini egiziani alle urne.

“I fratelli musulmani - continua Nour – non hanno aderito, come partito, alla manifesta-zione perché dovevano difendere i loro inte-ressi: le elezioni. Hanno fatto il loro comodo, hanno agito così per vincere. Però, sceglien-do questa strada, hanno perso il rispetto non solo dei manifestanti ma anche delle altre forze politiche. Non so come andranno le cose ma sicuramente la loro decisione, in sintonia con l’esercito, ha indebolito inevita-bilmente le istanze portate avanti dai cittadi-ni manifestanti”.

Poi si ferma, sorseggia un po’ di tè, e conti-nua a parlare.

“Noi vediamo Tahrir in modo diverso dal par-tito di Libertà e Giustizia. Siamo per la piazza, e siamo presenti durante le manife-stazioni.” Nour spiega che, secondo loro, la piazza – oggi – è pericolosa perché ci sono delle persone che si aggirano indisturbate, pagate per creare confusione.

“Li chiamiamo ‘baltaghia’, sono dei mercena-ri infiltrati tra le gente, pagati per creare pro-blemi: scontri, violenze, stupri. Pensiamo - continua Nour – che siano pagati da forze sconosciute che vogliono prendere il control-lo sull’Egitto. Dietro questi disordini ci sono persone molto potenti, forse alcuni uomini dell’ex regime di Mubarak, che non vogliono le elezioni in questo momento.

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“Ecco, noi salafiti scendiamo in piazza per tenere la situazione sotto controllo . Noi siamo sia per le elezioni che per la rivoluzio-ne, in senso pacifico. Sono due strade che non si contraddicono.”

Nour condanna, infine, l’operato violento della polizia ma ci tiene a fare una differen-zazione “La polizia e le forze armate stanno sbagliano a rispondere con il fuoco ai mani-festanti, ma molti soldati sono delle vittime. Devono obbedire agli ordini dei superiori, anche se non sono d’accordo. Loro non pos-sono scegliere.”

L’intervista finisce, poi i saluti. Le donne non possono stringere la mano agli uomini, un cenno con il capo è più che sufficiente.

MEDIACLUB

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LA DESTRA E L’ACCOUNTABILITY SMARRITADI DINO AMENDUNI | 20.07.2011

La formazione dell’opinione pubblica mediatizzata è condizionata da una variabile che, giorno dopo giorno, diventa sempre più ‘pesante’: la credibili-tà. In inglese esiste una parola che rende l’idea in modo ancora più efficace: accountability.

L’accountability è la sintesi di tante virtù: responsabilità, etica pubblica, capacità di offrire risposte ai cittadini e ai mezzi di comunicazione, autorevolezza.L’affermazione di Internet ha reso l’accountabilty cruciale per il successo in pubblico: gli opinion leader sono gli utenti che scrivono, pensano, prendono posizione, si difendono, contrattaccano, non fuggono.

Non emerge chi ha grandi capacità diploma-tiche, ma piuttosto chi dà conto delle sue idee, che siano più o meno popolari. Questa dinamica spiega sempre di più le dinamiche di socializzazione e comunicazione politica, soprattutto perché la Rete offre sempre una possibilità in tempo reale della credibilità di ogni protagonista della vita pubblica.Un governo che ha smarrito la sua accounta-bility per strada è arrivato a fine corsa. E il governo Berlusconi non è più credibile, non è accountable.

Credete a un gruppo di persone che sono alla guida di un paese in cui un ministro (Tremonti) dà del cretino a un suo collega (Brunetta) fuori onda?E credereste al fatto che un evento del genere non causi strascichi, così come Bru-netta ha cercato di illustrare a tutti noi? E allora perché l’amico Tremonti non era al matrimonio di Brunetta mentre l’amico Sac-coni, che non era stato certamente più leg-gero del Ministro dell’Economia, è stato addi-rittura il testimone di nozze dello stesso Bru-netta?

Credete al popolarissimo Presidente della Regione più ricca d’Italia, Roberto Formigoni, che parla della necessità di ridurre i costi della politica e di rendere più equa la mano-vra economica mentre sul suo sfondo, durante un collegamento al TG3, si stagliano lussuose barche?

Credete a una forza politica, la Lega Nord, che ha prima promesso l’abolizione delle province in campagna elettorale, poi ha fatto le barricate contro questa opzione in Parla-mento, e oggi presenta una legge costituzio-nale per il taglio dei costi della politica che ha bisogno di non meno di due anni per essere approvata, quando la legislatura ha certa-mente meno di due anni di vita, anche se si chiudesse con la sua scadenza naturale?

Credete ai propositi del nuovo segretario del Pdl, Angelino Alfano, che ha iniziato la sua reggenza invocando il partito degli onesti mentre il suo Partito e il suo mentore, Berlu-sconi, chiedevano in parlamento di votare contro la richiesta di arresto del loro deputa-to Alfonso Papa?

La perdita di credibilità di chi governa il Paese è sistemica, è ovunque e, probabil-mente, è irrecuperabile. Se la destra perde-rà, non sarà solo perché ha amministrato male e non ha mantenuto le promesse, ma soprattutto perché non ha più la forza di farne, di offrire una prospettiva.

Promettere (anche poco) e mantenere, per questo, rischia di essere il miglior modo per vincere le prossime elezioni, a qualsiasi livel-lo.

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LE INCONGRUENZE DELLA POLITICA DELLA PAURADI NATALIA GARCIA CARBAJO| 06.12.2010

La paura è lo strumento di controllo politico e so-ciale più potente che esista. Una società timorosa è vulnerabile, fragile, facilmente malleabile e pronta ad affidarsi a chiunque le offra l’anelata sicurezza, anche a costo di perdere alcune libertà individuali e collettive.

Le conseguenze di questa svendita di libertà e di diritti umani in favore della sicurezza e della tranquillità possono essere fortemente negative e significare un punto di non ritorno per la democrazia liberale, così come la conosciamo, e per la libertà stessa dei citta-dini:“La guerra è pace. La libertà è schiavitù. L’ignoranza è forza.” Così nel suo libro ‘1984’, George Orwell riassume e ci consegna la chiave di lettura che ci permette di capire qual’è la motivazione che porta alcuni politici e governanti, con la complicità dei media, a scegliere la politica della paura come stru-mento di controllo della società.

In uno stato governato dalla paura i poteri pubblici divengono i guardiani della patria, ovvero gli unici in grado di garantire la pace e la tranquillità desiderata dagli individui. Ma perché mai i poteri politici hanno questo interesse a governare Stati impauriti? Qual’è la vera motivazione che c’è dietro a questa perversa strategia?

Se in passato gli Stati erano gli incaricati di gestire il territorio, le sue frontiere e di fare la guerra per garantire la pace all’interno del proprio dominio, nella società contempora-nea queste funzioni non sono più richieste (o non come una volta), e i poteri pubblici devono trovare altre funzioni che giustifichi-no la loro posizione privilegiata e la loro responsabilità/servizio nei confronti dei cittadini/elettori.

Questo comporta che, oggi, il patto tra elet-tori e governanti si basi sulla sicurezza, intesa nel senso più ampio.

La sicurezza, infatti, riguarda svariati ambiti della vita pubblica: davanti alla paura della disoccupazione lo Stato risponde con aiuti economici e fiscali (sussidio di dissocupazio-ne); alla paura per il futuro lavorativo risponde invece con scuole, università e centri di formazione; alla paura della malat-tia risponde con ospedali e centri medici; alla delinquenza con un sistema di polizia; al terrorismo con i militari; ma non solo, anche aspetti più astratti come la paura di perdere i principi morali e tradizionali di una società sono combattuti ad esempio con provvedi-menti contro la prostituzione nelle strade, oppure non dando spazio alle diversità cultu-rali, di genere, di religione, di origine, ecc. che rischiano di mettere in discussione la stabilità conservatrice della comunità.

Una parte considerevole di queste paure/richieste (ad esempio l’educazione, la sanità, la sicurezza nelle strade, ecc) sono oramai considerate vitali ed essenziali per i cittadini della maggior parte del cosiddetto “Occidente” e sono alla base dello stato del Welfare. Sistema questo che ha saputo interpretare le necessità degli individui e proporre un pacchetto assistenziale di non poco valore. Altre necessità/paure, invece, sono state create oppure amplificate da parte di chi si ritrova a governare uno Stato con l’obiettivo, in modo più o meno consape-vole, di dover giustificare il proprio ruolo di amministratore e rappresentante del popolo davanti all’opinione pubblica. Questi tipi di paure, come ad esempio le paura del “diver-so” o quella del terrorismo islamista, a diffe-renza di quelle ‘risolte’ dal sistema del welfa-re, rappresentano una minaccia più difficil-mente verificabile e hanno in molti casi l’obiettivo ultimo di indebolire la società per renderla più controllabile ed influenzabile.

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I rischi per la democrazia e le libertà indivi-duali e collettive di questa politica della paura e del controllo sono però alti e da non sottovalutare. Nel momento in cui la paura si insinua tra la popolazione e si consolida come parte integrante della quotidianità, la società diventa inevitabilmente vulnerabile, debole e pronta ad accettare in modo acriti-co e ingenuo qualsiasi azione venga compiu-ta in nome della sicurezza, qualsiasi sia il metodo utilizzato per arrivarci (“Il fine giu-stifica i mezzi” Machiavelli).

Così le leggi che fino a al momento sostene-vano lo Stato di diritto e la democrazia libe-rale, non sono più percepite in grado di garantire la sicurezza. Le nuove minacce, più o meno reali, finiscono per giustificare leggi speciali e gli stati di emergenza, che rispon-dono per lo più ad interessi particolaristi e partitici, mettendo in pericolo le fondamenta della democrazia.

La divisione dei poteri dello Stato viene meno. Il potere esecutivo giustifica la sua maggiore necessità di legiferare mediante poteri speciali per riuscire a salvaguardare così il cittadino, eliminando le prerogative ritenute fino al momento esclusive del potere legislativo. Nei confronti del potere giudiziario invece, il potere esecutivo riesce ad incrementare la sua capacità d’influenza, autoproclamandosi come la voce del popolo, come colui che è riuscito ad interpretare i bisogni e le richieste (di maggior sicurezza) dei cittadini.

Contrastare la politica della paura non è affatto facile visto che si compete nell’ambito delle emozioni ed in particolare su quella che tra tutte riesce meglio a scuo-tere e sottomettere la razionalità umana: la paura. Siamo tutti chiamati ad essere difen-sori delle libertà individuali e collettive: poli-tica, cittadini e media.

Per combattere questo mostro che assedia i nostri stati di diritto e le libertà conquistate dalle generazioni che ci hanno preceduto bisogna tenere ben presenti i pilastri che sostengono le nostre società e i nostri siste-mi politici e democratici. Il nostro ruolo di cittadini responsabili, infor-mati, critici e lucidi deve essere per fino am-plificato. Il buon senso e la professionalità di quelli che sono a carico della diffusione dell’informazione devono combattere gli interessi particolari e le visioni soggettive e non veritiere della realtà.

E nel caso ci scoraggiassimo ricordiamoci le celebri e ricorrenti parole di Giovanni Falco-ne: ‘chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola’, e non faccia-moci intimorire da discorsi privi di senso e lontani dalla realtà che hanno come obiettivo ultimo sottomettere i cittadini per riuscire così ad influenzarli e controllarli.

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SOCIAL MEDIA LOVERS: LUIDI SERGIO RAGONE | 06.09.2011

Il percepito è sempre più vero del reale. Con questa breve frase credo si possa riassumerel’esperienza del social media love tra me e Simona. Il tutto è nato per scherzo, per un motto di spirito, per riempire di colore una noiosa serata di fine estate che sul web ha il peso specifico delle banalità depressive.

Ma ora dopo ora, mi sono accorto che questo gioco iniziava a diventare interessante, soprattutto per chi come me crede che la percezione che si ha della vita “in the web” sia condizionata da quella che è la credibilità di ogni singolo utente, anche e soprattutto “out of the web”.

E così, dicevo, in poche ore sono arrivati moltissimi commenti, soprattutto in privato via email, su quello che in tanti descrivevano già come il social media love dell’anno. Ma allo stesso tempo, devo purtroppo registrare anche un notevole calo di contatti da parte di chi, quotidianamente, si intratteneva con me a ragionare delle più disparate notizie o di questioni personali. Insomma la percezione che avvertivo di me era del tutto diversa: rassicurante per una parte dei miei contatti, deludente (per la scelta sentimentale) da parte di altri.

L’amore ai tempi del social media insomma, non ha nulla di differente rispetto all’amore prima del 2.0. O forse qualche differenza c’è. Perchè… “perché Facebook è “tutto sotto controllo” e “tutto e subito”. Perché Facebook siamo tutti, o quasi. È il nostro tempo, anche quello che perdiamo alla ricerca di qualcosa che non abbiamo ancora trovato. E che troveremo?”

Facebook è uno dei luoghi della rete ma è il luogo delle facce per eccellenza. Quindi il luogo della passoni. Tristi e deboli, forti e intense. Ma è un luogo dove la vita si replica e si ridimensiona, perdendo la sua forma inziale e prendendo quella dei “like” e dei “tag”. Sono passioni nuove ma non sono passioni tristi. Sono luoghi diversi ma non sono falsi. E come per il mondo, bisogna saperci stare con coraggio e dignità, con la spina dorsale dritta e gli occhi aperti.

Mi permetterete un’altra citazione a me cara: “Esistono senza dubbio passioni tristi che hanno un’utilità sociale, ad esempio la paura, la speranza, l’umiltà, il pentimento, ma solo quando gli uomini non vivono sotto la guida della ragione. Rimane comunque il fatto che ogni passione, dal momento che implica tristezza, è cattiva in quanto tale: anche la speranza e la sicurezza… L’unico dettame della ragione [...] consiste nel con-catenare il maggior numero di gioie passive col maggior numero di gioie attive. Infatti, la gioia è un’affezione passiva che aumenta la nostra potenza di agire, e solo la gioia può essere un’affezione attiva. [...] Il sentimento della gioia è il sentimento propriamente etico. “(da Spinoza e il problema dell’espressione, p. 213)

Il social media love è lo specchio riflesso del qui ed ora, di come le nostre relazioni siano diventate mutevoli e liquide. Oggi basta un click ed il sangue inzia a fluire a ritmi più intensi pulsando ossigeno ed adrenalina. Non sai bene se e’ vero questo sentimento, ma sai che il cuore batte ed il respiro si fa un po’ più veloce.

Insomma l’amore al tempo del social media non è poi così diverso da quello di una volta… ma siate consapevoli del fatto che ogni piccolo dettaglio che lasciate in rete, narra il vostro romanzo e la vostra vita. Che avete deciso di raccontare al mondo attraverso la vostra tastiera.

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SOCIAL MEDIA LOVE: LEIDI SIMONA MELANI| 06.09.2011

Quando sul web non eravamo noi stessi ma un nickname di cui adesso ci vergognamo profonda-mente, l’atteggiamento nei confrnti degli incontri in rete era pubblicamente biasimato e privatamen-te praticato.

Con Facebook le cose sono cambiate e gli incontri si sono persino moltiplicati, anche perchè molti si sentono rassicurati dal poter vedere in foto la persona e conoscere il suo vero nome sin da subito. Amici in comune e interessi sono l’ennesima garanzia di “sicu-rezza”. E sono sempre più le coppie che non si vergognano affatto ad ammettere di essersi conosciute sui social network.

Ma il punto di quest post non è questo.Io e Sergio abbiamo fatto un esperimento, per capire cosa scatta tra “gli amici” quando due persone, inaspettatamente e senza aver nulla in comune si mettono insieme su Face-book, insomma, cosa accade quando sulla bacheca spunta il fatidico cuore che annun-cia una relazione.

Per prima cosa arrivano le congratulazioni, sotto forma di “mi piace” e di commenti. Ma le reazioni più significative avvengono nella sfera “privata”: chat, sms, incontri face to face con le persone che ci conoscono. Ho ricevuto circa 10 contatti nel giro dei primi 15 minuti dell’annuncio della relazione: richieste di spiegazione, domande a raffica sull’altra persona, un paio di proposte inde-centi con la motivazione “adesso che sei fidanzata può essere divertente se…” e la reazione più o meno scomposta di qualcuno che accampava “diritti” non meglio precisati.

Considerato che la “notizia” è venuta fuori in tarda serata, il dato è significativo. Via sms sono arrivate le congratulazioni discrete di chi ha preferito non sbilanciarsi online e di familiari allibiti.

Con ogni amico incontrato face to face, il copione è stato uguale: nessuna delle perso-ne a cui ho svelato che si trattava di un fidanzamento fake mi ha creduta. Hanno tutti ritenuto – con parole più o meno simpa-tiche, dal “hai problemi mentali” al “vabbè, non ti devi vergognare di esserti innamora-ta” – che fosse una scusa per mascherare qualcosa di vero.

Insomma, inconcepibile “giocare” con una cosa seria come una relazione, annunciata addirittura su Facebook.Ne viene fuori la percezione di come per le persone il virtuale sia una parola svuotata di significato. Se è su Facebook è vero, non esiste più una separazione della vita online e offline. Sono esattamente la stessa identica cosa. E del resto, perchè dovrebbero essere due cose diverse?

Un altro esperimento interessante sarà trac-ciare le reazioni di chi vedrà questa relazione interrompersi improvvisamente e non legge-rà questo articolo. Spiegherò pazientemente che si trattava di un esperimento e sono pronta a scommettere che tutti – indistinta-mente – penseranno che si tratta di un ma-chiavellico meccanismo di difesa di una fan-cuilla con il cuore spezzato in due (punto zero).

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SERIE B TWITTERDI SERGIO RAGONE | 06.12.2010

Le classifiche dei profili più seguiti ed influenti di Twitter,apparse su Wired e sul Corriere, si presta-no a numerose domande e qualche certezza: c’è democrazia nella rete? La rete è una nuova casta?

Dividere i bianchi dai neri, i belli dai brutti, i simpatici dagli antipatici, i buoni e i cattivi. Solitamente a questo servono le classifiche, ad esaltare e pettinare l’ego di chi viene nominato (mai votato) e a generare malcon-tento e qualche perplessità in chi viene tagliato fuori.

Lo sappiamo, lo speriamo, si tratta di un gioco e/o di una strategia editoriale, ma tutto quello che riguarda la rete, intesa come piattaforma orizzontale e mai verticale, rischia di diventare un caso o peggio un hashtag. Mi riferisco ovviamente alle due classifiche pubblicate da Wired e dal Corriere sui profili più seguiti sul social media Twitter, che in questi ultimi mesi ha segnato una notevolissima crescita in termini di account e di contenuti generati (“Nel novembre 2010 gli utenti erano meno di un milione, oggi gli iscritti a Twitter in Italia sono 2,4 milioni.” Fonte vitadigitale.corriere.it)

Ne sono un esempio i tanti articoli apparsi sui giornali, cartacei e online, le citazioni dei Tg e le inevitabili domande che il fenomeno, specie se riferito agli ultimi fatti di cronaca politica, ha generato nella cerchia ristrettis-sima degli addetti ai lavori. Una di queste è se il giornalismo del “brekin’ news” sia morto o se l’uccellino azzurro, come il Cavaliere, possa davvero staccare la spina alle agenzie di stampa.

L’esempio dello studente che annunciava l’imminente nomina della sua prof. a mini-stro è uno dei casi di studio dell’intellighenzia 2.0.L’articolo di Simona Bonfante postato da Libertiamo il 17 novembre apre una bella discussione che vorremmo non finisse li.

A quest’articolo ci permettiamo di aggiunge-re una semplice domanda: il ritardo di analisi e di azione lo stanno scontando (e lo scon-terranno) i politici o le redazioni dei giornali? Sarebbe utile parlarne e nelle prossime setti-mane proveremo a farlo, cercando di chia-mare a raccolta gli attori del settore per farci dire come la pensano.

Ma questa è un’altra storia.Quello di cui vorremmo parlare è dell’opportunità di creare da parte della stampa specializzata, a sua insaputa (cit), una sorta di casta social, intorno e grazie alla quale dovremmo sviluppare reti, condividere saperi, concretizzare azioni, rompere le palle alla politica, fare dell’ironia o della satira sui poteri forti, essere compiutamente cittadini digitali.No, decisamente e fortemente no.

Perchè se è la rete il nuovo, vero, spazio di vita democratica allora non è democratico dividerla in blocchi, in gruppi di appartenen-za, in categorie.Certo, le classifiche piacciono a tutti e tutti sono contenti di rientrarci. Ma non è che l’ennesimo esempio di come la mentalità “verticale” nel nostro paese prevalga sempre sull’orizzontalità della partecipazione, della democrazia, di cui tutti si riempiono la bocca ma che nessuno applica mai veramente, neanche quando ha occasione di farlo. C’è davvero sempre bisogno di un faro da segui-re?

Sul podio di Tr3nta Magazine troverete i con-tenuti, lo spirito di condivisione, una pro-spettiva diversa. L’ordine di importanza lo decide chi legge. Piuttosto che seguire o essere seguiti, preferiamo correre insieme alla parte migliore del Paese la maratona verso un’Italia senza numeri uno, ma fatta ancora da poeti e navigatori.

CULTURE CLUB

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DISCOGRAFIA 2.0DI MARCO BRANCATELLI | 10.12.2010

Alcuni anni fa, quando Napster si affacciava in rete e il formato mp3 dilagava sugli hard disk di mezzo mondo, le case discografiche erano ancora ricche e inconsapevoli della catastrofe che le avrebbe colpite.

Il coperchio del vaso di Pandora prima o poi sarebbe saltato e nessuno avrebbe mai lon-tanamente ipotizzato che la musica non sarebbe più stata fonte di reddito.L’industria, sul finire degli anni ‘80, aveva deciso di mantenere invariati i prezzi di vinili e musicassette, imponendo un alto valore al nuovo, scintillante, “eterno” Compact Disc.Un 33 giri costava circa 13.000 Lire e un CD era venduto al doppio.

Come dargli torto, era un prodotto destinato a target elevati e il mercato era vergine.Nel decennio successivo il mondo è cambiato ma l’establishment discografico, con i suoi beati paraocchi, continuava a macinare soldi senza abbassare o adeguare i prezzi.La diffusione globale delle nuove tecnologie ha modificato radicalmente la fruibilità della musica.Quando il file sharing ha reso possibile la distribuzione gratuita (illegale) dell’opera omnia di qualsiasi autore, gli amministratori delegati delle major sono stati colti imprepa-rati : del resto se una persona trova delle banconote per strada, raccoglie e porta a casa.Anno dopo anno i negozi di dischi sono spari-ti, le etichette si sono fuse, e la ricerca di nuovi talenti è scomparsa, passando il testi-mone alla tv. Il piccolo schermo resta una delle poche chance a disposizione di un gio-vane musicista per emergere, e rappresenta l’unica speraranza di ottenere un contratto che lo renda visibile su giornali (che non si vendono più) e radio (che ascoltano solo gli over 35).Il tempo scorre inesorabile e nonostante le sorti dei talent show sembrano essere in bilico (è notizia recente il probabile annulla-mento della versione nostrana di X-Factor) i discografici e giornalisti cinquantenni parte-cipano come giurati a queste trasmissioni mettendo sotto contratto i vincitori.

L’audience continua a calare e la tiratura di stampa diminuisce. Alla luce di quanto espo-sto nessuno cerca soluzioni convincenti, anzi tagliano personale, vendono quote, fallisco-no.Cosa succede alle tasche degli artisti che sono sulla scena da più di un paio di lustri ? Niente di sconvolgente.Alcuni puntano istericamente il dito conto i pirati del web mentre altri abbozzano, sapendo che il loro catalogo vecchio e futuro renderà ancora egregiamente grazie agli utenti di una certà età, ai quali piace sfoglia-re il libretto con i testi e ascoltare qualcosa che sia un po’ meno compresso di un mp3. Ragione per cui nei pochi megastore rimasti, una novità viene ancora venduta a cifre ana-cronistiche (dai 17 ai 20 Euro).Solo Richard Branson, vero genio del setto-re, da anni aveva intuito l’esaurirsi della vena d’oro. La sua Virgin è stata la prima ad essere venduta, i suoi negozi i primi ad essere chiusi, ma il suo marchio è stato l’unico a rimanere vivo su aerei, palestre, telefonia, radio e tv.

YouTube, MySpace, Facebook e molti altri sono i luoghi virtuali da cui l’adolescente del 2010 attinge per scegliere la propria musica.Neanche Steve Jobs con iTunes riuscirà a fermare il declino delle vendite: non si è mai visto un tredicenne dotato di carta di credito, e l’attuale crisi non invoglierà neppure un ventenne (che possa permettersela) ad usarla per comprare musica.

I concerti rimangono l’unica fonte consisten-te di guadagno, e fino a quando ci saranno regole poco applicabili per la protezione del copyright e dirigenti vetusti, il cane conti-nuerà a mordersi la coda con il rischio di inghiottire se stesso, e manca davvero poco.

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LA CASA È DOVE QUALCUNO TI RICORDADI VITTORIA SMALDONE | 12.12.2010

“Il libro è una delle possibilità di felicità che abbia-mo noi uomini”J.L. Borges

L’appuntamento per fare la foto è all’Angolo dSpiegare la fiera romana della piccola edi-toria a chi non l’ha mai vissuta è una bella impresa. Ma, come tutti i racconti che si rispettano, vale la pena iniziare dalla loca-tion.Palazzo dei Congressi, Eur. Espressione della megalomania del regime fascista. Quando si arriva nei pressi dell’obelisco ci si sente molto piccoli. Poi, avanzando verso il palaz-zo, la sindrome della canna pensante attana-glia anche il lettore più valoroso. Per fortuna tra gli espositori non ci sono né Mondadori né Feltrinelli. E, una volta entrati, ci si può rilassare.L’intera superficie del palazzo è ricoperta di stand. La grandezza della “bancarella” dipende dal peso della casa editrice. In ogni caso, per orientarsi nell’inferno dantesco dell’editoria indipendente, è necessaria una mappa; l’opuscoletto su cui sono riportati tutti gli espositori, ma soprattutto gli appun-tamenti, le presentazioni dei libri, spesso impreziosite dalle presenza di artisti e big della letteratura o del giornalismo, e i dibat-titi.

Nei sotterranei nel palazzo dei Congressi si è discusso di ebook ed editoria digitale. L’accogliente Caffè Letterario invece ha ospi-tato come sempre la trasmissione di Radio Tre dedicata ai libri, Fahrenheit. La parola scritta si fonde con la musica; sul palco, accanto agli autori, si esibiscono vari gruppi jazz. Durante la Fiera dell’editoria di Roma viene eletto il libro dell’anno di Fahrenheit. Quest’anno il premio è andato a “Nel mare ci sono i coccodrilli”di Fabio Geda, Baldini Castoldi Dalai.

La fiera del libro è una sorta di enorme giar-dino segreto in cui è piacevole addentrarsi. Perché si possono acquistare titoli introvabili nelle grandi librerie. Libri fantastici e non solo per il contenuto. Penso ai bellissimi volumi della Quodlibet, alla collana Gog diNutrimenti, agli eleganti tomi della Notte-tempo, ai testi della Voland … L’elenco sarebbe lungo. E qualcuno potrebbe obietta-re che, per una habitué come me, sia facile districarsi. Ma non è vero. Ognuno può sce-gliere il percorso che preferisce e scoprire, ogni volta, qualcosa di nuovo.

Quest’anno ad esempio ho esplorato il piano superiore e mi sono imbattuta nellaZandonai Editore. Una piccola casa editrice di Rovereto la cui ambizione è quella di fare promozione turistica attraverso i libri. Meraviglioso, direi.Chi pensa che in fiera ci si annoi poi si sba-glia davvero. Sfido chiunque a non sbellicarsi dalle risate al cospetto di Johnny Palomba e Sabrina Impacciatore. I due hanno letto alcuni brani di “Palomba Vintage”, la nuova raccolta di recinzioni edita da Fandango. Uno spettacolo esilarante quanto la presentazio-ne del libro di Emilio Marrese, “Rosa di fuoco. Romanzo di sangue, pallone e piroscafi”, con Valerio Mastandrea.

Insomma: la fiera dell’editoria è un espe-rienza da fare. E non ve la potete cavare nemmeno con la scusa dei marmocchi al seguito. C’è uno spazio dedicato interamente a loro. Quindi … Più libri più liberi!

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TRENTADI FEDERICA COLONNA | 15.12.2010

Trenta, come gli anni passati dal giorno in cui Mark Chapman sparò quattro colpi di pistola, e John, così, morì.

Trenta come gli anni che Gabriele Muccino ha stigmatizzato in un ultimo bacio un po’ pate-tico, ma, se ormai vecchio, in grado di mar-chiare come le mucche una generazione con quella faccia un po’ così, canterebbe Paolo Conte.Trenta come i tacchi di Sex and the city, le prime valutazioni, la comparsa di prime rughe insieme alle frasi che iniziano con quando ero. Trenta, insomma. Ma se dopo trenta anni dalla morte di Lennon, la mitolo-gia del primo Beatles incanta ancora, non solo i nostalgici, quanto le sue canzoni, Jude, Eleonor Rigby, Desmond e Molly, raccontano ancora i trentenni?

Una musica, per non essere solo canzonetta, ha quell’alchimia di parole e suoni in grado di evocare speranze e paure. Le canzoni dei Beatles riescono ancora a descrivere i sogni contemporanei? Oppure i Fab Four, nell’iconografia in bianco e nero, tra l’elegante e lo spensierato, sono ormai nell’empireo, dove tutto è divismo, magia, senza appiglio con la realtà?

Qualcosa, nei trentenni di oggi, c’è delle spe-ranze di John. Anzi, forse Lennon è stato profetico. C’è ancora voglia di spensieratez-za. Dopo il boom e dopo il crac è il momento di Obladi-oblada, life goes on. Qualcuno canta Revolution, ma con l’ironia con cui Lennon dice: <You better free you mind instead /But if you go carrying pictures of chairman Mao /You ain’t going to make it with anyone anyhow>.

Tradotto: prima delle ideologie, vengono le idee. I Beatles, allora, sono gli eroi del tempo senza eroi, in grado di musicare un atteggiamento politico orientato al miscuglio, alla flessibilità. I Beatles sono Tony Blair ante litteram: <Le idee non sono di destra o di sinistra, sono di chi se le prende>.

I trentenni di oggi non sono stanchi, rispetto ai propri genitori, hanno adotta-to un altro linguaggio, difficile da impac-chettare dentro le etichette a disposizio-ne. Sono gli eredi di Lennon: la rivoluzio-ne per strada è troppo militante, la fanno in casa. Una bed revolution, come con Yoko Ono.

Stavolta non è il sesso a rendere liberi, ora nemmeno un film porno in piazza Navona scandalizzerebbe elettori avvezzi alle performance del premier.

La rivoluzione è sì dentro casa, ma con le dita capaci di portare in tutto il mondo, in mezzo ai link, in rete. E se rispetto ai propri antenati questi trentenni qua fos-sero solo più creativi? Proprio come John, che non prendeva il peso del mondo sulle sue spalle, ma scriveva can-zoni.

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Due mesi fa sento parlare, per la prima volta, di “un ragazzo che sta facendo dei ritratti fotografici partico-lari ai cittadini aquilani, per un suo progetto”. Da grande appassionata di fotografia, m’incuriosisco e decido di mettermi in contatto con lui, per saperne di più.

LA CASA È DOVE QUALCUNO TI RICORDA

L’appuntamento per fare la foto è all’Angolo del Buongustaio, zona Torrione, L’Aquila di domenica pomeriggio. Federico Luzi, questo è il suo nome, mi dice di portare con me uno (o più) oggetti che mi rappresentino e un euro, per la successiva stampa della foto. Dopo aver riflettuto un paio di giorni su quali oggetti potessero descrivermi meglio, alla fine decreto i vincitori in: “Aspettando il sole” – un libro su Jim Morrison e i Doors – e la mia nuova macchina LOMO Diana+.

Vado, insieme a un’amica nel luogo dell’appuntamento, ci sono già delle persone che aspettano e altre ne arriveranno. Dopo pochi minuti, da una macchina, scende un ragazzo, giovane – ventitré anni – magro e con una faccia simpatica. Ci invita a seguirlo, ci porterà a casa sua. Già dall’ingresso è subito chiaro che la casa è “terremotata”, le lesioni sono evidenti: crepe sui muri, intona-co a terra e polvere sulle scale…cose già viste ma che comunque, ogni volta si mani-festano con rinnovato stupore.

L’idea di un progetto “vivo”, in divenire, che unisca la cittadinanza dell’Aquila, in nome dell’arte e dei propri simboli o feticci e che si realizzi all’interno di una casa disabitata a causa del terremoto, mi piace e mi affascina. E’ riportare la vita, le persone, le sigarette e il rumore in un luogo che altrimenti sarebbe stato solo abbandono e silenzio.Faccio la “mia” foto e metto la mia essenza, tra le altre, del progetto di Federico.Ma cos’è davvero “La casa è dove qualcuno ti ricorda”?

Da una chiacchierata con Federico scopro che l’idea nasce a Valencia, dove il nostro giovane si trovava a fare l’Erasmus, lo scorso anno.

“Il Progetto raccoglie tutte le persone che hanno a che fare con L’Aquila e che ne cono-scono le diverse sfaccettature. E’ un’idea che nasce per riunire tutti coloro che permettono a questa città di esistere, perché in fin dei conti, che cosa sarebbe L’Aquila senza queste persone? Una città vuota e senza vita”.Lo scopo è di arrivare a 500 fotografie per poi realizzare un’istallazione, situata in un luogo caratteristico della città. L’insieme delle singole foto, formerà un’immagine uni-taria con un messaggio (sui dettagli Federico è rimasto misterioso).

“Il percorso è ancora lungo, ma l’idea di riunire un certo numero di persone che posano, con un oggetto che li rappresenti, creando un meccanismo che funzioni come una catena, porterà a rappresentare l’anima stessa della città. La composizione del quadro finale…é portata avanti da me ma anche da coloro che con entusiasmo parteci-pano. E’ una vera e propria collaborazione che, senza fondi esterni, permetterà la riuscita di questo lavoro, anzi colgo quest’occasione per ringraziare chiunque abbia creduto in quello che sto facendo”.Abbiamo parlato di altre cose con Federico Luzi, delle persone che avrebbe voluto foto-grafare, come della sua “top ten” sulle foto scattate finora e del perché si è affezionato a loro, e ai soggetti: a Davide – con la birra Peroni (rappresenta l’essenza di questa per-sona solare e amante della birra), Chiara – cascata di chicchi di mais e caffè(ho potuto giocare con lei durante lo scatto ed ha per-messo l’uscita di una foto quasi surreale), Eleonora – Specchio e rossetto, Patrizio – V per vendetta (per l’eccentricità del perso-naggio e del suo significato), Jacopo – mac-china da scrivere, Aurora – Bolle di sapone (rappresenta il lato fantastico e sognatore), e altri ancora… .

DI AGNESE PORTO | 16.12.2010

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Parlare del progetto di Federico significa, oggi e qui, parlare di una delle piccole rico-struzioni possibili dell’Aquila e della sua cittadinanza. Una delle più interessanti, a mio avviso, perché generata dalla fantasia e dall’impegno di un giovane artista che ha capito che l’identità di una città è necessaria-mente l’espressione di ogni singola identità dei suoi abitanti.

Federico mette in pratica questa verità, con entusiasmo e divertimento nel suo bel pro-getto che andrà avanti (e del quale vi invito a visitare il rguppo facebook “Progetto: la casa è dove qualcuno ti ricorda”) ancora nei prossimi mesi.

Aspettando, a questo punto, l’installazione completa!

MAMMA BUTTA LA PASTADI FABIO MALAGNINO | 07.01.2011

In un’Italia che cerca di far emergere il nuovo in tutti i settori (o almeno così speriamo noi), c’è quasi un ritor-no di fiamma verso quelle certezze che pure garanti-scono risultati. E’ il caso di Dan Peterson, tornato ad allenare l’Armani Jeans Milano a 75 anni.

La piazza cestistica di Milano, si sa, è esigen-te. D’altronde non è facile cancellare la me-moria dei molti successi dei decenni passati, dei mostri sacri come D’Antoni (oggi head coach dei NY Knicks), Bob McAdoo, Carr, Meneghin fino ai più recenti Bodiroga, Pittis e Fu?ka.

E non basta un decente Bucchi che tira la carretta per due decenti campionati a soddi-sfare gli appetiti della Memoria. Soprattutto se il giovane che aveva risvegliato i palati più sopraffini del basket meneghino, “il Gallo” Gallinari ha ben presto ceduto alle sirene d’oltreoceano.Ci voleva qualcosa di più, ci voleva il colpo di genio. Ma un colpo di genio all’italiana.In quell’Italia divisa tra rottamatori e rotta-mandi, del giovanilismo tradito dalla “pro-messa insensata delle aspettative crescenti”, ritorna il coach Dan.

Mamma butta la pasta, perché in un attimo Renzi, Civati, Carfagna, Alfano, i Grillini ci sembrano figurine sbiadite.

Torna l’uomo del gioco a L, della difesa 1-3-1, del basket NBA in salsa europea. E torna dandoci una lezione che dovremmo tenere a mente. Non si vincono le sfide con il solo giovanilismo, si vincono le sfide della modernità con un elemento fondamentale: l’umiltà.L’umiltà di chi arriva a Milano nel 1978, vince 4 scudetti, 2 Coppe Italia, una Coppa Korac e l’Eurolega 1987. Dopo aver vinto tutto decide di ritirarsi, con 281 vittorie su 384 gare di regular season e 51 successi in 74 match di playoff (record assoluto), e inizia l’avventura come commentatore TV Nba e Wrestling, entrando nelle case di tutti gli italiani.

E oggi dice: “Non avrei fatto questa scelta per un’altra squadra, ma solo per l’Olimpia: farò questo passo con grande cuore. Loro hanno avuto la visione di andare oltre il fatto che sia fuori da un quarto di secolo. Non pre-tenderò di fare le stesse cose di 25 anni fa come il gioco ‘elle’ e la difesa 1-3-1, il basket è cambiato e io devo adeguarmi”.

Oggi cosa può inventarsi di nuovo? Niente.Coach Dan, si sa, non ha mai amato Stephon Marbury, play tutta scena e poca sostanza. Lui ha sempre preferito John Stockton e Steve Nash.Perché di giovanotti che provano acrobazie, schiacciate, loop pass, sono pieni i parquet. E anche la politica.Ma i fondamentali, quelli li abbiamo dimenti-cati.

Bisogna ritornare al palleggio, all’arresto e tiro, al passaggio schiacciato prima della linea del tiro libero. Cose semplici. Perché con i fondamentali i Miti sono diventati tali, Bill Russell, De Gasperi, Michael Jordan, Togliatti, Magic Johnson e Cavour. LeBron e Renzi per adesso possono ancora guardare qualche tutorial.

L’Italia non è un paese per giovani? Può darsi. Ma come dice un brillante giornalista di casa nostra, Tommaso Labate, non c’entrano i giovani, i vecchi, quelli di mezza età, i ricambiatori e i ricambiati, i rottamatori e i rottamati. Zeman a Foggia e Peterson a Milano dimostrano che questo è ancora un paese per Miti.

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CHI È IL GENTIL SESSO?DI ROCCO ROMANELLI | 21.01.2011

I paradigmi della sessualità e della sensualità sono cambiati stravolgendo il modo novecentesco di vedere il mondo. Cosa cambierà nei prossimi anni?

C’era una volta l’uomo che puzzava.L’immaginario collettivo identifica l’uomo del novecento come il conquistatore delle donne, il macho per eccellenza, quello che negli anni ottanta venne definito “l’uomo che non deve chiedere mai”.Nello stesso decennio, però, cominciò la con-fusione sessuale che negli anni novanta sfociò nel delirio dei generi.

Le donne di botto si impossessarono dei caratteri maschili diventando manager inflessibili sia sul lavoro che nel privato, gli uomini si videro defraudati del loro ruolo di capo famiglia si piegarono in una crisi che ancora ora li vede in cerca di una chiara identità. Nel terrore scatenato dalle donne che improvvisamente hanno scoperto la loro forza, gli uomini hanno cominciato a mostra-re le loro debolezze e così mentre l’ei fu “gentil sesso” argomentava di sesso come maschi negli spogliatoi del dopo partita di calcetto, “l’uomo che non doveva chiedere mai” si ritrovava a chiedersi cosa fosse acca-duto alla sua virilità.

Nel dubbio ha cercato intorno a sé qualcosa che le donne non potessero avere e così ha riscoperto i muscoli. Il genere cinematografi-co Peplum ora vive e lotta insieme a noi con moderni macisti che, firmati da capo a piedi, girano per le nostre città. Ma una volta intra-preso il cammino della bellezza esteriore non ci si ferma facilmente. Creme di bellezza, maschere per capelli (quelli a cui sono rima-sti), steroidi per pompare ancora più i mu-scoli e poi tutto il fiorire della moda per uomini da sempre sorella minore di quella femminile.

Per intere generazioni del secolo scorso, la bellezza era una caratteristica delle donne; gli uomini dovevano essere sicuri di se stessi, saldi nella propria posizione, sapere quello che volevano e possibilmente un lavoro che gli permettesse di portare la pro-pria donna in villeggiatura. Da quando anche gli uomini devono essere belli per poter trovare una donna, la selezione darwiniana della specie ha cominciato ad operare in modi prevedibili.

Le modelle vanno con i modelli ed i normali si accontentano delle normali creando sempre più un divario fra i baciati dalla fortu-na e chi non dovrebbe essere baciato nem-meno da sua madre!

L’uomo muscoloso si prostra al dio Narciso e scopre che amare se stessi è più facile che andare alla conquista delle Venere che sfila-no per le nostre strade e lentamente, incon-sapevolmente si riappropria del machismo perso durante gli anni 90. Frotte di donne si sdilinquiscono per bellissimi che non le degnano nemmeno di uno sguardo e così, una parvenza di predominanza sembra che l’uomo l’abbia riconquistata.

Ma è proprio così? In fondo non abbiamo sempre saputo che sebbene l’uomo sia cac-ciatore è la donna che decide chi prendere? Allora è la donna che nel momento in cui è riuscita a cambiare, ha preso una maggiore consapevolezza di quali sono i suoi desideri? I nuovi modelli maschili sono ascrivibili a due categorie non distinte, ma unite indissolubil-mente: i cerebrolesi egocentrici. Saranno questi i geni (mi si perdoni il gioco di parole) che porteranno avanti la specie umana?

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CONTRO IL SISTEMADIVALERIO GENOVESE | 23.01.2011

Cosa può fare il singolo per ribellarsi, per ripren-dere in mano le redini della propria vita e uscire fuori dalla traccia segnata dalle possibilità econo-miche, dalle congiunture politiche e dalla narrativa sociale?.

Il “kindergarten” nel quale i nostri padri ci Le società sono sistemi che incasellano le nostre azioni in traiettorie prevedibili, costringendoci in ruoli che parassitano la volontà e distolgono l’energia dal nostro interesse individuale, orientandola verso l’interesse collettivo.

Non c’è niente di anomalo in questo perchè anche la società è un sistema e, come tale, tende a riorganizzare gli elementi che la costituiscono per ottenere il massimo van-taggio d’insieme a discapito dei singoli.

Eppure, a leggere queste parole, sono certo che la parte sana della tua coscienza – quella liberalista – percepisce un’angosciante dissonanza. Si riduce ad essere una semplice “funzione” la mia esistenza? E’ solo per con-sumare e produrre che sono venuto al mondo? Non ho il dovere di oppormi e lottare per affermare la mia individualità contro un sistema ingiusto e limitante? Devo accettare acriticamente le imposizioni della società o seguire le mie inclinazioni?

A queste domande, ci sono risposte che attraversano tutto lo spettro dell’intelligenza e si posizionano dalla stupidità più radicale all’ideologia più utopistica. Tuttavia, chi sembra essere andato più vicino ad una risposta sensata sono gli “outsider del pen-siero” – che non c’entrano con gli ipocriti anarchici anticapitalisti no-global in lotta contro le multinazionali - ma sono i cosiddet-ti dissidenti filosofici, pensatori che non hanno avuto particolare rilievo nella storia della cultura ma le cui idee esprimono tutta la volontà di potenza racchiusa nell’animo umano.

Essi ci insegnano che la società è la creazio-ne più importante della nostra specie, ma ci mettono in guardia sui pericoli che corriamo ad abbandonarci ad essa e a lasciarci rac-contare, anzichè tentare di imporle la nostra prospettiva.

La società è un’organismo egoista che, come ogni altro, serve la propria causa e lo fa attraverso uno strumento particolarmente potente: l’ideologia. L’ideologia è un virus che si insinua nella coscienza individuale e convince i singoli a dimenticarsi di se stessi e a servire un “bene più grande”, e lo fa costruendo un ambiente narrativo in cui i soggetti interpretano un ruolo che riempie il loro urgente bisogno di senso.

Nessuno è immune da questa schiavitù, ma ognuno può cercare di liberarsi. E l’esito di questa liberazione dipende soltanto dal pro-prio coraggio.

Cosa può fare il singolo per ribellarsi, per riprendere in mano le redini della propria vita e uscire fuori dalla traccia segnata dalle possibilità economiche, dalle congiunture politiche e dalla narrativa sociale? E’ inutile manifestare dissenso, lanciare molotov, me-ravigliarsi perchè nessuno ci viene ad offrire un lavoro, arrabbiarsi con uno stato assente, evidenziare tutte le storture del sistema.

L’unica possibilità ragionevole è quella di svincolarsi dalla paura del futuro – in cui i media costantemente ci annegano – e impa-rare a difendersi dall’agoscia di morte per far emergere appieno tutte le proprie facoltà creative.

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Il singolo deve avere la forza di pensarsi diverso, contrastando le spinte omolganti della società con la propria immaginazione, come fa una ballerina di tango con il proprio cavaliere. L’errore più sconcertante non è lì fuori, ma qui dentro. Nella nostra mente.

In fin dei conti, la nostra vita è aperta a tutte le declinazioni di senso. Chi ci impedisce, se non la paura, di viverla proprio come piace a noi? Chi ci impedisce di viaggiare, di avviare un progetto, di fare nuove esperienze, di valorizzarci, di aiutare gli altri, di cambiare lavoro o di seguire le nostre passioni?

E’ giusto scaricare sulla società la colpa della nostra incapacità ad agire? O ci siamo troppo abituati ad uno stato-balia che gestisce la nostra vita e la canalizza in un percorso esistenziale standardizzato e privo di perico-li? Possiamo continuare a lamentarci della nostra esistenza senza sforzarci, noi per primi, di inventarci un destino diverso? Se proprio siamo insoddisfatti, perchè pensia-mo sia più intelligente continuare a lottare cercando di cambiare un sistema ostile anzi-chè andare a spendere la nostra energia in una società che ci valorizza? Perchè continu-iamo a dimenticare che esite l’America?

E’ questo il segreto dischiuso in quelle idee perse nella storia. Per vivere una vita felice e appagante bisogna viverla un po’ da outsid-er: sta al singolo individuo riuscire a guada-gnarsi il proprio spazio vitale, a immaginarsi prima per realizzarsi poi, cercando il sistema sociale più adatto ad esprimersi e smetten-dola di lamentarsi perchè qualcun’altro non da un senso al nostro essere-nel-mondo.

Perchè è vero che ogni società è un sistema ed ha bisogno di assegnarci un ruolo, ma trovare un ruolo che ci renda felici è solo nostra responsabilità.

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GLI ZEROFANS E L’ANTIDOTO ALLA NOIADI LOREDANA VACCARO | 26.04.2011

A tu per tu con la rock band vincitrice dell’edizione 2011 di Italia Wave Basilicata.

Saverio Boccia: psicoterapeuta funzionale corporeo in giacca e cravatta. Salvatore Lan-zillotta: promoter, per quasi cinque anni, di una nota casa discografica indipendente e ora precario in cerca di occupazione. Gian-giacomo Ponzo: esperto in analisi dei dati e metodologie di ricerca nelle scienze sociali. Di giorno, queste, le loro vite. Di sera, però, tutto cambia.

Lasciati a casa i panni dell’impiegato, preca-rio ed esperto si trasformano negli “Zero-fans”. Gruppo musicale rivelazione, nonchè vincitore, alla finale regionale dell’Italia Wave Love Festival. Manifestazione, quest’ultima, che si terrà a Lecce dal 14 al 17 luglio e che vedrà alternarsi sul palco arti-sti del calibro di Lou Reed&Band, Kaiser Chief, Jimmy Cliff, Kaiser Chiefs, Lindo Fer-retti, Verdena, Sud Sound System.

GLi Zerofans masticano musica sin dalla tenera età. Si sono più volte incrociati in quel di Roma in diverse band fino a quando hanno deciso di creare un gruppo tutto loro. Circa due anni fa. Da allora non si sono più sciolti. Saverio alla voce e basso nonché paroliere, Salvatore alla chitarra e Giangiacomo alla batteria. Genere Adult Psico Rock, un trio lucano composto da solo trentenni.

La loro unica pretesa è quella di piacersi scri-vendo canzoni con l’obiettivo di divertire e far riflettere ma sempre con il sorriso. Un esempio è la canzone “Silvio”, sbarcata da poco sul Itunes, dove ritroviamo alcuni dei problemi che attanagliano l’italia di oggi, ponendo l’accento sulla politica condotta di chi sta al potere. Di certo canzoni che non vogliono terminare nel calderone del “politi-cally correct”.

Ritornano volentieri in Basilicata per stacca-re la spina e concentrarsi sulla musica. Li abbiamo incontrati e l’intervista si è rivelata un vero e proprio “antidoto alla noia”, così come amano definire le loro canzoni. Un trio esplosivo e senza peli sulla lingua che spazia dallo psichiatra Wilhelm Reich alle telenove-las e telefilm che hanno segnato la loro l’adolescenza perchè la “realtà è l’estremo dell’immaginazione”.

Se a qualcuno, ora, fosse venuta voglia di ascoltarli dal vivo potrà farlo sabato 30 Aprile presso il teatro Due Torri di Potenza dove apriranno il concerto del gruppo indie veneto “Onedimenisionalmen”.

Coincidenza vuole che tutti e tre siete lucani e che il vostro incontro è avvenu-to per caso in terra romana dopo aver suonato in diverse band. Sembra un pò uno scherzo del destino. Mi raccontate nel dettaglio come è nato il gruppo Zerofans e il perchè di questo nome?Saverio: «E’ andata pressappoco così. Salva-tore e Giangiacomo avevano già suonato assieme in più di 15 band. Mi conoscevano per un progetto fatto assieme nel 2001. Nel frattempo Salvatore si stacca e inizia a suo-nare con altre persone. Così mi sono ritrova-to nel 2009 a suonare con Giangiacomo. Dopo poco entra a far parte anche Salvatore. Io cantavo e suonavo la chitarra, però poichè solo batteria e chitarra erano pochi, mi costringono a suonare il basso. Da qui nascono gli Zerofans».Salvatore:«Il nome “Zerofans” nasce dalla constatazione che viviamo in una società che bada più alle cose banali che ai contenuti. Ormai è una corsa all’ apparire. Noi musical-mente non inventiamo nulla di nuovo, anzi.

Che tipo di messaggi cercate di far arri-vare, attraverso le vostre canzoni, a chi viene ad ascoltarvi?Saverio: «Il punto di vista degli Zerofans è legato al bombardamento continuo di infor-mazioni che porta a recepire il tutto con iner-zia. Per me scrivere un testo è come darmi una strizzatina ed osservare il liquido che fuoriesce.Diciamo che non è proprio una bella immagi-neSaverio: «Se hai provato ribrezzo vuole dire che l’immagine è efficace. Dobbiamo stac-carci dall’effetto Sanremo. All’estero non scrivono canzoni sempre e solo d’amore. Il ribrezzo per un qualcosa è quando stiri le narici verso dietro per chiuderle e con il corpo ti allontani dallo stimolo, questo serve per non ingoiare le migliaia di notizie, storie, situazioni “velenose” che ogni giorno ci circondano».Salvatore: «Sinceramente non vedo luce all’orizzonte per questo paese e per questo che noi siamo molto arrabbiati».

A quanto stimavate la vostra vittoria all’Italia Wave Festival? E perchè avete vinto voi e non gli altri?Salvatore: «Sinceramente abbiamo deciso di partecipare non per vincere. Volevamo uscire da una situazione “live” triste e stantia di Roma, e questo concorso era la giusta occasione per cercare di aprire porte per altri live fuori. Abbiamo vinto perchè abbiamo trasmesso un qualcosa, un qualcosa di vero senza filtri ma nello stesso tempo qualcosa di compiuto un’idea precisa, composta ed eseguita con tentata professionalità. C’ è ancora tanto da fare ma c’ è un’idea molto definita di base molto precisa».

In questi due anni di “live romani” vi è capitato di partecipare ad altri concorsi e di vincerli?Saverio: «Si, nel 2010 abbiamo vinto il con-corso M.A.T. (Matteo Amitrano Tribute) orga-nizzato dai ragazzi di Emergency con tappe a Roma e Pescara. Per la finale ci siamo esibiti al Circolo degli Artisti di Roma».

C’è una frase che usate come rito scara-mantico quando salite sul palco?Saverio: «Gli Zerofans come i The Blues Bro-thers. Cerco di creare da subito quel tipo di atmosfera tipica dei loro concerti e poi recito la frase che dicevano loro all’attacco del ma-xiconcerto solo che cambio il nome del locale e aggiungo “adult psico rock”: “Solo per sta-sera, alle ore 20, i favolosi Zerofans! Alla Sala Grande del Palace Hotel! Lago Wazza-pamani! Alle ore 20, i favolosi Zerofans!Show Band and Review!”»

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I CANI, GENERAZIONE DI FENOMENIDI SARA LODDO | 03.08.2011

Dei Cani si è detto tanto. Le testate indipendenti ne hanno parlato ampiamente. Giornali come Wired hanno dedicato dello spazio. Persino i quoti-diani ne hanno scritto. E per tutti si tratta di una rivelazione.

Di un fenomeno raro, che dal web ha portato un gruppo sconosciuto ad essere trasmesso nelle radio nazionali e a diventare uno dei più scaricati su iTunes. Il tutto nell’arco tem-porale di circa un anno e senza avere alle spalle il supporto di una grande casa disco-grafica.

Per questi motivi e forse anche per la scarsi-tà di stimoli, negli ultimi mesi il fenomeno dei Cani ha monopolizzato le discussioni sulla musica italiana.E quindi, che piacciano o meno, non si può far finta di nulla.I Cani si fanno sentire. Vendono dischi e, dopo appena due concerti, in autunno faran-no un vero tour. Ormai chiunque ne ha senti-to parlare.

Nati nel 2010, con soltanto una pagina face-book che li descriveva come “l’ennesimo gruppo pop romano” e con all’attivo un brano, “I pariolini di 18 anni”, seguito da “Wes Anderson”, i Cani hanno costruito il mistero attorno alla propria immagine fin dall’inizio. Mai una foto che li ritraesse, né un nome di riferimento.

Soltanto attesa, curiosità e tante aspettati-ve. Una hype creata attraverso i social net-work, forse nata ingenuamente – e poi sviluppatasi grazie al passaparola – o forse creata a puntino.Una grossa aspettativa che poteva trasfor-marsi in una sonora sconfitta, diventando un boomerang per un gruppo tanto sfacciato quanto autoironico come i Cani. Tanto al punto da intitolare il proprio album Il Sor-prendente album d’esordio dei Cani.

Sotto la romana 42 Records, un’etichetta indipendente “piccolissima e bellissima” – la stessa di Albanopower, Cat Claws e My Awe-some Mixtape – l’esperimento dei Cani è esploso in tutta la sua forza.

Con l’uscita ufficiale del disco, seguita dalla prima esibizione live all’interno del Miami, si è iniziato a capire qualcosa in più dei Cani. Innanzitutto si è capito che quella che da un almeno un anno si spacciava per una band, era in realtà una one-man-band. Con dei musicisti presenti alle esibizioni live, ma che poco hanno avuto a che fare con la costru-zione dei brani presenti nel disco.

I Cani sono quindi il progetto di un ragazzo romano, un certo Niccolò. Probabilmente l’ex leader del gruppo di musica elettronica Tavrvs. Un ragazzo che al momento ha deciso di rimanere defilato e non dichiarare apertamente la sua identità, come dimostra-no le prime foto mosse diffuse dalla stampa.E l’elettronica, che forse appartiene al passa-to dei Cani, è presente anche nel Sorpren-dente album d’esordio degli stessi. Una base molto semplice, che varia leggermente da una canzone all’altra. Tanto da dare l’impressione che le tracce dell’album siano in realtà un unico racconto diviso in episodi.

Un racconto appunto, perché quello che conta davvero in un progetto come questo sono le parole.Quelle che è facile trovare furbette, banali, antipatiche o semplicemente perfette per descrivere esperienze comuni a molti. Parole facili da ricordare e canticchiare, che a tratti possono essere considerate dei veri e propri inni generazionali.

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Andrò a New York a lavorare da American Apparelio ti assicuro che lo faccioO se non altro vado al parco e leggo David Foster Wallace. [Hipsteria]Vorrei vivere in un film di Wes Andersoninquadrature simmetriche e poi partono i Kinks.Vorrei l’amore dei film di Wes Andersontutto tenerezza e finali agrodolciE i cattivi non sono cattivi, davveroE fratelli non sono nemici, davveroMa anche i buoni non sono buoni, davveroProprio come me e te [Wes Anderson].

[PHOTO]SPEECH

IN AMOREDI CALUDIA BASILE | 08.09.2011

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In amore c’è posto per tutti. (Londra 2011)

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“ANIME DI CRISTALLO”DI CALUDIA BASILE | 08.09.2011

Il self portrait dell’artista Claudia Basile

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INSTANTLONDONDI SERENA ROSATO | 08.09.2011

Da piccoli ci insegnano a giocare con gli aerei di carta. Basta solo un foglio, poche pieghe, un soffio di aria sulla punta e…decollo. Ora che son grande, non é cambiato molto.

É solo la maniglia che cambia. Afferrare, tirare, aprire, camminare. Curiosità.

Cambiando il senso di marcia potrebbero con-fonderci le idee… Per me é percorrere la corsia di sorpasso.

@Fortnum&Mason. Essere frivoli non basta, qui tocca essere esperti (di frivolezze s’intende). Astenersi perditempo.

Today’s security service. Spiderman is in the “tube”. Adesso si che posso viag-giare tranquilla.

Abbandonare il sentiero per ritrovarsi in un giardino segreto…Progettato da P.Z. però.

@British Museum. Afrodite… voluttuosa e bellissima. Timidamente si copre, pudica, quasi mi meraviglio che non arrossisca.

Da Londra il daily di Serena Rosato, con foto e commenti della città più cool d’Europa.

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INSTANTSYDNEYDI ALICE AVALLONE| 08.09.2011

Prima ancora di mettermi in viaggio, nella mia to do list del viaggio australiano, avevo segnato: controllare da vicino la copertura dell’Opera di Sydney. Già, perché io pensavo fosse un’unica grande vela, mica un mosaico di mattonelle bianche pure e semplici, come quelle del bagno. Ma è stato così emozionante, davvero. Non pen-savo, da lacrime agli occhi.

Photo reportage e commenti, provenienti direttamente dall’altra parte del mondo.

Ok a Roma davanti al Colosseo noi abbiamo improbabili centurioni che cercano di raccattare spiccioli dai turisti stranieri affascinati dalla nostra italianità. A Sydney, bisogno ammetterlo, ci battono in quanto suggestione. Spar-pagliati per la City australiana ci sono finti aborigeni che suonano finti stru-menti, con finti disegni sulla pelle e soprattutto, finti serpenti di plastica che alzano quando un turista si avvi-cina a loro per farsi fotografare.

Lo segnalano tutte le guide turistiche che vi passeranno sotto mano prima di partire per Sydney: questo acquario è spettacolare. Non solo perché c’è un’intera sezione sulla Barriera Corallina, non solo perché gli squali qui fanno veramente paura (e sono dieci volte tanto quelli di Genova), ma soprattut-to perché ci sono gallerie lunghissime dove i pesci ti passano a fianco, sotto e sopra la testa. Cercherete di controllare i wow davanti a tutti i bambini presenti!

Il paradiso terrestre ha un indirizzo e si raggiunge anche con il bus: Bondi Beach, Sydney. Non si può raccontare: i suoi colori sono così forti da fermare il respiro. Se siete fortunati da quassù potrete avvistare facilmente balene, delfini e pinguini. Di sicuro non potrete non notare la meravi-gliosa piscina del Bondi Icebergs. Per fortuna che a dissuadervi ci sarà il listino prezzi per entrare a far parte del prestigio-so club, altrimenti chi vi avrebbe riportati in Italia?

A Sydney non dite mai: è solo pesce. C’è un mercato ittico incredibile qui, con ben quindici mila tonnellate di pesce vendute ogni anno dal 1945. Ci sono pesci stranissimi e visitare il Sydney Fish Market è ancora più interes-sante dell’acquario, se non altro perché uscirete di qua con la pancia piena: voi puntate il dito, indicate quel pezzo volete mangiare e in pochi minuti vi verrà servi-to sotto i vostri occhi: crudo, fritto, lesso o al cartoccio. Attenzione solo ai gabbiani!

È pieno giorno e c’è un pipistrello enorme e peloso appeso a testa in giù su un albero secolare dei Botanic Gadens di Sydney: ci credete? Qui la prova. Anzi, ce n’è più di uno. Sono decine e decine, tanti quanti i curiosi che si affollano sotto a fotografarli. Hanno un qualcosa di incredibi-le: di tanto in tanto si stiracchiano le ali nere e poi si richiudono a bozzolo. Sono così grandi qui in Australia che non possono nemmeno farvi senso. Deliziosi!

Sydney è una città complessa e rumorosa che va scoperta attraverso ai dettagli. Ha un po’ il sapore di New York, dove succede qualcosa ad ogni angolo, in qualsiasi mo-mento del giorno e della notte. Capita così che girate l’occhio mentre aspet-tate il verde del semaforo e scoprite un fiore arruginito con chiodi come pistilli. Tutto è curioso in Australia: è il paese delle meraviglie.

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AUTORI

AGNESE PORTO

Agnese è nata a L'Aquila ventisei anni fa e qui continua a vivere. Studia Lettere, indi-rizzo Teatro e Spettacolo e ha già fatto i conti con la possibilità di vivere di espedienti. Ha collaborato con l’Accademia dellíImmagine, l’Istituto Cinematografico “La Lanterna Magica” e più in generale nell’organizzazione e promozione di eventi culturali. Ama scattare fotografie, sia in analogico che in digitale. Adora l’Arte, in tutte le sue forme ed espressioni e fa in modo di essere contraccambiata nel sentimento, non sempre riuscendovi. Agnese adora la birra artigianale. Non ha l'orecchio assoluto.

ANNA RUSSELLI

Nata a Catania, vive a Potenza. Laureata in Lingue, è stata tra i blogger più seguiti della Basilicata. Ama scrivere e ha collaborato con diversi magazine locali. Appassio-nata di fotografia, musica, lettura, viaggi. Attualmente è Segretario Generale di SLC CGIL Basilicata, il Sindacato dei Lavoratori della Comunicazione

ANNARITA DIGIORGIO

Romana nei feriali, palagianese nella vita. Cresciuta a chiesa e proverbi, per cambiare con Tortora e Sciascia. Pop perchË ho studiato, radicale perchË ho capito. Direttore di Rai Due per sogno, non al denaro nË all'amore nË al cielo per necessit‡.

ALICE AVALLONE

Nata ad Asti a metà dicembre del 1984, vive a Brooklyn da due anni. Il suo lavoro ha un sacco di parole difficili in inglese: digital media, web 2.0 and social media strate-gist, bla bla bla. Più semplicemente, Alice lavora come creative thinker, inventando nuovi modi di comunicazione e coinvolgere le persone sui new media.

CLAUDIA BASILE

Nata l'11 maggio 1983 a Milano, fotografa sempre in cerca di forti emozioni, ha conse-guiti gli studi fotografici presso l'istituto italiano di fotografia di Milano, ritrattista dalla nascita ha focalizzato la sua attenzione sui ritratti maschili e sul corpo maschile e sull'analisi dell'autoritratto fotografico praticato con trasporto e profonda passione. Dice di se: "la fotografia mi ha educata a guardare e a scrutare l'intima natura delle cose". Attualmente lavora come freelance ed esegue progetti fotografici personali

CLAUDIO DI MAIO

Nato a Messina nel 1983. E' dottorando di ricerca presso l'Università della Calabria e la Universidad de Castilla-La Mancha. Si occupa dei temi riguardanti la Cittadinanza europea e i diritti politici degli stranieri. Ha svolto un'intensa formazione nel campo delle Relazioni internazionali, prediligendo le tematiche europee e diplomatiche. Ha curato studi in ambito europeo sui meccanismi d'integrazione e gestione degli immi-grati, con particolare riferimento alla comunità africana.

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DINO AMENDUNI

27 anni, responsabile nuovi media e consulente per la comunicazione politica di Pro-forma (www.proformaweb.it). » giornalista, blogger sul Fatto Quotidiano (www.ilfattoquotidiano.it/blog/damenduni/) e tra i fondatori di Quink, collettivo di adbusting e satira (http://www.quink.it) - about.me/dinoamendun

EMILIANO ALBENSI

Photographer & Director of Tr3nta.com Trent'anni, giornalista professionista dal 2008, lavoro come corrispondente italiano per l'agenzia di stampa inglese Central European News e fotoreporter per l'agenzia LaPresse. Sono nato a Roma "col sangue biancoce-leste". Robert Capa diceva "Öse le tue fotografie non sono abbastanza belle, non sei abbastanza vicino". E io voglio solo "stare vicino al mondo". Avere altre esperienze di vita, continuare a viaggiare, che Ë la cosa che mi piace di pi˘ in assoluto, incontrare volti, persone da rendere visibili al mondo, storie da raccontare.

EMILIANO GERMANI

Romano “de Roma”, è content manager di un sito istituzionale, giornalista, docente universitario a contratto, progettista di contenuti per la formazione online e blogger della prima ora. Appassionato di comunicazione politica, porta avanti un dottorato su “Sfera pubblica e Social Media” e cura il sito Politica2.0 (www.politicaduepuntozero.it). Non dimentica il suo passato di consulente per la comunicazione strategica e il marketing e ogni tanto si tuffa volentieri in progetti interessanti.

FABIO MALAGNINO

Giornalista, blogger malriuscito, comunicatore incidentale. Ha lavorato come respon-sabile comunicazione per un'alta personalità politica piemontese che, in un attimo di scarsa lucidità, gli ha affidato questo compito circa sei anni fa. Collabora con Radio Flash-Popolare Network dove racconta, nel disinteresse generale, come cambia il mondo del giornalismo e la nostra società ai tempi di internet. Ha due blog dove, parlando di comunicazione, internet e nuovi media, cerca in realtà di costruirsi una carriera da blogstar.

FEDERICO MELLO

Giornalista del Fatto Quotidiano, dove si occupa di Internet, cultura e politica, ha lavo-rato due stagioni per Michele Santoro nella redazione di Annozero. Ha scritto nel 2007 "L'Italia spiegata a mio nonno", uscita online e poi per Mondadori, e nel 2010, Viola, un'analisi sull'uso politico dei Social Network.

FRANCESCO DI COLA

Un Europeo del Sud, born in 1980. Si laurea in scienze politiche nel 2004.Durante un master scopre l'interesse per il marketing, inteso anche come mezzo di lettura del mondo, e ne fa un lavoro nel "meraviglioso mondo" del cinema. Intanto non abbandona le passioni per la letteratura, i viaggi, la musica e la politica nazionale e internazionale. Sogna un mondo di uomini liberi.

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GIOVANNA LOCCATELLI

Giornalista freelance, autrice del libro “Twitter e le rivoluzioni” (Editori Riuniti, maggio 2011) sul ruolo dei social network nelle rivoluzioni del Nord Africa: Tunisia, Egitto e Libia. Ha lavorato con le agenzie Ansa e Reuters, nelle rispettive sedi di Londra. Oggi collabora con il Fatto Quotidiano e Linkiesta.it e segue dal Cairo i principali avveni-menti dopo la rivoluzione di gennaio. Sta scrivendo un secondo volume, edito da Castelvecchi, su tutto ciò che si cela dietro le rivoluzioni 2.0. Su twitter: gioloc28

GIOVANNA SOLIMANDO

Nata in Basilicata circa 30 anni fa e ora vive a Torino - dopo essere passata per Siena, dove si Ë laureata in Storia del Giornalismo - . Si occupa della Comunicazione e degli Eventi alla Scuola Holden e, appena riesce, corre in piscina a nuotare (anche se ha paura di nuotare al mare, perchè non si vede il fondo). Ha una sorella che vive a Parigi e fa líeducatrice, il suo alter ego. A Torino ha incontrato: un amore un po’ londi-nese e un po‘sardo, qualche nuovo buon amico e ManaManà http://www.manamana.it/, l’associazione di cui è vicepresidente e con cui ha creato il mercato SenzaMoneta (e molti altri progetti). La cosa che le manca di più della Basilicata sono la sua famiglia e il cielo in primavera.

LIVIA IACOLARE

Napoletana, scalda sedie con successo dal 1981. Laureata in Lettere Moderne, inizia la sua carriera nei nuovi media scrivendo per alcuni siti specializzati, tra cui Mashable. Nel 2008 entra a far parte del team italiano di Current, dove ricopre il ruolo di Social Media Coordinator fino alla a chiusura del canale avvenuta nel Luglio 2011. Attualmente è Lead, Social Media Outreach per IB5k, un network di producer e new-mediologi che annovera tra i suoi clienti Obama (per la campagna presidenziale 2008), i Democrats americani e la World Bank. Livia è molto interessata alle nuove forme narrative sdoganate dai social media, cucina discretamente bene, suona l'armo-nica e viaggia appena può.

MARCO ESPOSITO

Trentaseienne, giornalista professionista, romano; profondamente romano. Ama lo sport, quasi tutto, soprattutto quando si tratta di guardarlo più che di praticarlo. Proprio legate alle sport sono le sue prime esperienze nel campo giornalistico. Nel 2005 inizia a lavorare per nessuno.tv, poi Redtv, occupandosi di politica, web e sport. Nel 2007, con generazione U, si candida in un collegio di Roma alle primarie fondative del Partito Democratico. » fondatore del settimanale The Week, pensato e creato per gli under quaranta italiani, e collabora con L'Espresso online e il Fatto Quotidiano.

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MARIO POLESE

Nasce a Potenza, classe 1982. Completati gli studi giuridici presso la Federico II a Napoli pubblica la sua Tesi sulle problematiche della Lex Mercatoria ed inizia a collabo-rare alla cattedra di Diritto Internazionale dell'Ateneo partenopeo. A Roma, dopo uníe-sperienza all'Ufficio Affari Internazionali del Centro Alti Studi per la Difesa, perfeziona i suoi studi con un master prima ed un corso di alta specializzazione poi nel settore dei servizi pubblici. Attualmente cura le relazioni istituzionali dell'Istituto Italiano per líAsia ed il Mediterraneo (ISIAMED) a Roma.

MASSIMO PREZIUSO

Massimo Ë un ingegnere gestionale, specializzato con un Ph.D. in finanza. Dopo alcune esperienze nel mondo delle telecomunicazioni e dell' e-business, da qualche anno lavora nel settore energetico, dove ultimamente si è focalizzato sulle fonti rinno-vabili. Ha studiato e/o lavorato in varie città italiane ed estere. Dal 2006 si interessa di innovazione nella politica, prima quale dirigente nelle associazioni per il Partito Demo-cratico (APD) e poi all'interno di Innovatori Europei, di cui è coordinatore.

NATALIA GARCIA CARBAJO

Politologa e consulente di comunicazione politica ed istituzionale. Responsabile della comunicazione di Dared Radio. Attualmente si occupa di curare la comunicazione e líimmagine pubblica di politici spagnoli ed italiani oltre ad stare sviluppando un suo progetto di marketing e comunicazione che pretende avvicinare i cittadini ai suoi rap-presentanti politici ed istituzioni (e viceversa). Appassionata di E-government e Open Goverment.

PABLO PETRASSO

Nato a Cosenza nel 1975. Ha studiato Ingegneria chimica, poi ha scoperto che per essere felice avrebbe dovuto scrivere. E si è chiuso in una redazione per quattro anni. Ha scritto brevi, brevine e brevissime, fatto líabusivo, il cronista di strada e poi il col-laboratore a progetto. Nel 2008 è diventato giornalista professionista. A quei tempi lavorava in un giornale locale e si occupava di politica e ‘ndrangheta, a volte senza capire la differenza. Si è dimesso il 19 luglio 2010 perchè, dice, “non aveva più niente da fare”. Ora lavora per il Corriere della Calabria.

PAOLO GUARINO

35 anni, analista e consulente politico, socio fondatore (e anziano) di dgg consulting, insegna marketing elettorale e consulenza politica a Firenze, a scienze politiche. Napo-letano che non beve il caffè, juventino che vive a roma da un quarto di secolo, parigi-no ogni tanto. Ha imparato la politica a casa, si Ë laureato in Scienze della Comunica-zione (ma ha sempre lavorato), si è occupato di semiotica, ha scritto di comunicazione politica e dintorni. Per non pensare alla politica cucina, viaggia, vede film e serie tv. Non ama il politicamente corretto e le maiuscole.

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RICCARDO CAMILLERI

Classe '81, ha studiato, praticato, testato e tentato in vari campi. Si occupa di comu-nicazione politica ed è l'uomo della comunicazione dell'associazione di promozione sociale Elisso. Lavorare per il no profit, per lui, significa dare la possibilità di far cono-scere e sensibilizzare su questi temi. Scrive, per lavoro e per passione, per siti, giornali online, campagne di comunicazione e istituzionali, girovaga nel web e crede ancora nella politica, quella delle idee corag-giose, quella che rompe le scatole, quella che sta tra le persone e prova a coinvolgere ed è membro della Direzione del PD Roma. Si può trovare da Elisso, al circolo del Pd Marconi, a una manifestazione per i diritti LGBT, sempre con i suoi occhialetti, la sua sigaretta e un paio di idee che già gli frullano in testa.

Rubin Beqo

Rubin Beqo ha ormai un esperinza decennale nel suo impegno con la sociataí civile le tante attività sociali e culturali a Tirana, in Albania. è uno dei primi membri attivisti del movimento Mjaft! e tramite questa associazione, come anche attraverso altri canali, è sempre stato un promotore attivo dela cultura, soprattutto musicale. Tra le alter cose collabora al progetto di “Radiostacioni” dove svolge il ruolo di conduttore, offrendo informazione alternativa e commenti agli eventi politici e sociali del paese.

Serena Rosato

Classe 1985, nasce a Molfetta (Bari) da padre salentino e madre calabrese, decisa-mente "made in south of Italy". Laureanda presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Bari, cerca di conciliare gli studi alle sue passioni e più grandi interessi. Studia e tiene corsi di danza nella provincia di Bari e che collabora con uno studio di architettura e design. Non partico-larmente predisposta ai rigidi accademismi, si interessa all'arte nella sua poliedricità. Design, architettura, moda, fotografia, danza, viaggi... tutto scecherato e mandato giù tutto d'un sorso. Nonostante le sue radici super meridionali, di cui apprezza le tradi-zioni, si ritrova puntalmente a voler infilare il naso in realtà diverse, poliedriche e cosmopolite, che la portano a viaggiare qua e là in cerca di emozioni e stimoli sempre nuovi, disegnando prospettive sempre nuove grazie a punti di vista diversi. Attual-mente vive a Londra, dove studia inglese per conseguire il FCE from University of Cambridge.

Sergio Ragone

Founder of Tr3nta. Giornalista pubblicista, è stato tra gli animatori della blogosfera politica nazionale ed oggi lavora come social media strategist per aziende, associazio-ni, fondazioni e PA. Dopo aver distribuito elenchi telefonici nella sua fredda città, ha lavorato per alcune agenzie di comunicazione come consulente di comunicazione poli-tica e web 2.0. Intervistato da Repubblica.it per il primo blog collettivo di impegno politico, ha collaborato con radio, giornali e riviste online. In Rete: http://about.me/sergioragone

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SIMONA MELANI

Advisor of Tr3nta, classe 1985, blogger dal 2004, si occupa di project management, social media, web content e moda. Lavora come consulente per alcune startup nel settore mobile. In passato ha coordianato campagne elettorali in scala locale e regio-nale, con particolare attenzione all'aspetto online. Dopo aver chiuso il suo blog “politi-co” sul Cannocchiale, ha fonda The Wardrobe, blogzine dedicato alle tendenze nel campo della moda e del lifestyle tra i più noti del settore. Laureata in Comunicazione internazionale, si sta specializzando in Comunicazione d'impresa e pubblicità all'Uni-versità di Palermo, non rassegnandosi all'idea che queste siano lauree inutili. La sua lettera aperta al Ministro Gelmini sul tema ha fatto il giro del web e non solo. In rete http://about.me/simonamelani

TIMOTEO CARPITA

È nato un 4 luglio del novecento ad Assisi e prova a legittimarlo ogni giorno. Dopo la maturità classica è andato a fare l'universitario fuori sede per studiare Economia poli-tica. Continua a vivere a Roma ma anche ad Assisi. E infatti deve prendere una decisione a breve. Intanto ancora crede nell'impegno sociale e politico ed è uno dei fondatori di The Week (www.thedailyweek.it), il giornale dedicato agli italiani nati dopo il 1970. Dipende assai dal web e prima ancora dall'odo-re di mare e di carta stampata. Come tutti ha un blog, www.laonda.it dal 2006. Poi c'è Google se volete saperne di più

Valentina Desideri

Ho 24 anni, sono di Roma, studentessa di archeologia, sono membro dell'assemblea romana del Partito Democratico, provengo da Centocelle periferia Est di Roma. Ho iniziato a fare politica a 15 anni nella Sinistra Giovanile. Quest'estate mi ha intervista-ta l'Unità,definendomi uno dei volti per cambiare l'Italia. Penso che inizierò dalla mia città,come ho sempre fatto.

Valerio Genovese

È un curioso sperimentatore di strategie esistenziali. Dopo aver perso il confronto intellettuale con Stirner, Nietzsche, La Mettrie, Reich e Onfray abbandona l'idealismo per dedicarsi ai viaggi e alla creatività. E' attualmente impegnato nell'ambiziosa fusio-ne di Downshifting, Location Independent Business e Social Enterpreneurship. Ha appena cominciato un gap-year che spera di riuscire a prolungare per il resto della sua vita. Maggiori informazioni cliccando qui.

Vittoria Smaldone

Potenza, classe 1982. Sin da piccola desiderava emulare Oriana Fallaci. Colpa di suo padre che le parlava di politica e di attualità. E della Rai di Mixer e Samarcanda. Attualmente collabora con la Gazzetta del Mezzogiorno di Basilicata. Si occupa soprat-tutto di cronaca giudiziaria. In passato ha scritto di cultura e spettacolo per diverse testate online romane. I suoi reportage narrativi e i suoi racconti sono stati pubblicati su Nazione Indiana, Nuovi Argomenti e Il Mese. È appassionata di libri, teatro e nuovi media. Da grande vorrebbe essere una giornalista e scrittrice.

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