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Tulipani rossi

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Luana Cappelletto, Sentimentale

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Luana Cappelletto

TULIPANI ROSSI

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TULIPANI ROSSI Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2010 Luana Cappelletto ISBN: 978-88-6307-320-1

In copertina: immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Ottobre 2010 da Digital Print

Segrate – Milano

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MARTEDI’ 5 MAGGIO «Ecco Amy, spero ti piaccia» esclamò mia madre con un entusiasmo forzato. Cercai di stamparmi sul viso un’espressione grata e felice quando Susan spinse la mia sedia a rotelle nella mia nuova stanza; aveva cercato di renderla il più simile possibile alla mia vecchia camera che, trovandosi in fondo al corridoio al piano superiore, per me non era più raggiungibile. Ma non era la mia stanza, e il brivido di tristezza che attraversò il mio corpo doveva per forza essere trapelato sul mio viso perché notai che l’espressione sul volto di mia madre, quella falsa espressione di ottimismo, era scomparsa lasciando posto alle lacrime. «Mamma è bellissima, te lo assicuro» dissi cercando di rimediare. «Amy, mi dispiace, ma era impossibile che tu continuassi a tenere la tua vecchia stanza, non riuscirei a portarti di sopra ogni volta che ti sarebbe necessario» disse Susan inginocchiandosi davanti a me. «Ora che sei tornata a casa la potrai finire di sistemare come meglio credi e io ti darò una mano» aggiunse prendendo le mie mani tra le sue per poi portarle verso il suo viso e scaldarle con un bacio. Mi sforzai di sorridere e poi la ringraziai con uno sguardo colmo di amore. «Vorrei riposare un po’ se non ti dispiace» dissi avvicinandomi al letto e lasciando che Susan mi aiutasse a stendermi. «Io vado ad aprire il negozio, ma se hai bisogno di qualcosa chiamami, tesoro» sussurrò poi chiudendo le tende di organza viola. Annuii e attesi che mia madre avesse lasciato la stanza prima di permettere alle lacrime di scendere lungo le mie guance; lungo la mia guancia destra, pallida e liscia, e anche lungo quella sinistra, sfregiata da quell’orribile cicatrice che scendeva dallo zigomo fino a raggiungere quasi l’angolo della bocca. La odiavo più di qualsiasi altra cosa e sapevo che sarebbe bastato un mio cenno perché Susan investisse i suoi ultimi risparmi per sottopormi a un intervento di chirurgia plastica che la cancellasse dal mio viso. Ma non potevo farlo. Non ce la facevo a chiederglielo. Così mi ero sforzata di convincerla che non mi importava del mio volto rovinato, di

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quell’orribile sfregio in rilievo che mi faceva rabbrividire ogni volta che le mie dita lo sfioravano. Mi guardai attorno. Le pareti della stanza, che fin prima del mio ritorno fungeva da piccolo magazzino, erano state ridipinte di un rosa vivace e le mie librerie colme di volumi erano state posizionate di fronte al letto, a lato del quale era stata messa una sorta di pedana di legno per far sì che la mia sedia a rotelle raggiungesse un’altezza sufficiente a permettermi di salire sul letto quasi da sola; immaginai che fosse opera di Peter, il nostro principale fornitore che era anche diventato un caro amico di famiglia. Tra la pedana e il muro era stato messo un nuovo armadio, più piccolo di quello che avevo prima e alla mia sinistra, sul mio vecchio comò, tutte le mie cose erano disposte nella stessa identica posizione che avevano quando si trovavano nella vecchia stanza. Ma non era la mia stanza e io non ero più la Amy di prima. E se non avessi dovuto trattenermi per non ferire mia madre, e soprattutto se avessi potuto muovermi senza dovermi trascinare, sarei scesa dal letto e avrei sfasciato tutto per sfogare la rabbia che avevo dentro. I colori vivaci della stanza, che prima amavo tanto, ora quasi infastidivano i miei occhi e mi davano una sorta di ansia che mi toglieva il fiato. Avrei voluto strappare via le tende e ridurre l’organza viola a brandelli, gettare a terra i peluche e le fatine di gesso e soprattutto lo specchio ovale che se ne stava fiero sul suo piedistallo al centro del comò. Non ero mai stata vanitosa ma amavo specchiarmi in quell’oggetto antico che apparteneva alla famiglia di mia madre da generazioni solo per dare risalto alla sua bellezza: un ovale perfetto con una cornice d’argento intarsiata che lo faceva assomigliare a uno specchio magico delle fiabe. Be’, ora la magia era spezzata e quello era diventato un semplice oggetto che poteva solo ricordarmi che il mio viso era sfregiato e che la mia vita non sarebbe stata più quella di prima. Prima… erano passati mesi e quasi non ricordavo come fossi prima dell’incidente. Mi sforzai di ricordare per disegnare nella mia mente un ritratto della Amy che non c’era più, solo per archiviarlo nei ricordi del passato e tenerlo lì, assieme a tutti gli altri. Un invisibile pennello cominciò a ritrarre nella mia testa una ragazza dolce e allegra, timida e gentile, e con il cuore leggero di chi ama la vita, se pur semplice, se pur complicata. Una ragazza raramente triste e alla quale non capitava mai di annoiarsi. Una ragazza che amava il suo lavoro al negozio di fiori di sua madre, stare in mezzo ai colori e ai profumi, dilettarsi nelle composizioni per le occasioni speciali. Una ragazza il cui entusiasmo e

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la cui creatività andavano alle stelle dando vita a splendide decorazioni che creavano sempre le giuste atmosfere, quando qualcuno andava da lei a ordinare i fiori per un matrimonio. Una ragazza felice e soddisfatta. Ora cominciavo a ricordare. Ero proprio così prima di quel maledetto incidente. Il mio tempo libero lo passavo a leggere e a disegnare, facendo delle passeggiate in spiaggia o andando al cinema con la mia amica Sally, o ancora uscendo con Terence, il mio adorato fratello gemello, quelle poche volte che riusciva a tornare a casa. Terence era l’orgoglio della mamma e anche il mio: si era laureato in medicina e stava finendo il tirocinio. A luglio sarebbe partito per l’Inghilterra per la specializzazione grazie a un programma di gemellaggio organizzato dal suo ospedale. Mi sarebbe mancato da morire. Mi mancava anche adesso che mi sentivo così inutile e così desiderosa di chiudere gli occhi per non riaprirli più. Questa era la nuova Amy. Avevo il cuore appesantito dalla rabbia, i nervi costantemente tesi e uno sguardo apatico che vedevo riflesso solo nel volto distrutto di mia madre. Non mi piaceva sentirmi così ma non avevo abbastanza voglia di vivere da costringermi a cambiare. Tutto quello che avevo attorno mi ricordava semplicemente il fatto che fino a poco prima ero vissuta in un mondo tutto mio, un mondo in cui tutti erano buoni e nessuno ti investiva lasciandoti poi mezza morta sull’asfalto di una strada. Mi sentivo come se di colpo mi fossi risvegliata da un sogno bellissimo rendendomi conto di quanto fosse orribile la realtà. Per questo avrei voluto riaddormentarmi. Non credevo più nei bei sogni, odiavo i colori, odiavo persino i fiori il cui profumo giungeva inevitabilmente dalla stanza accanto alla mia. Che cosa mi era rimasto? Certo l’amore della mia famiglia, l’affetto di Sally che aveva trascurato fin troppo il suo ragazzo per venire tutti i giorni a trovarmi. Ma se fossi morta quella sera, non avrei evitato a tutti loro la sofferenza di vedermi ridotta così? Chiusi gli occhi per non vedere più il rosa delle pareti leggermente scurito dalle tende che attenuavano la luce del sole, ma non a sufficienza da non infastidirmi. Ecco, il buio dei miei occhi chiusi mi avrebbe aiutata a rilassarmi un po’. Sentii la porta del negozio aprirsi accompagnata dal suono del caccia spiriti che avevo appeso al soffitto qualche mese prima, affinché il suono delicato dei fiori di vetro che sbattevano tra di loro accompagnasse l’entrata delle persone.

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Presi il cuscino e mi coprii la testa cercando di non sentire le voci che provenivano da oltre la mia porta e ripensai per l’ennesima volta all’incidente che aveva cambiato in quel modo la mia vita. Io che attraversavo la strada per entrare al cinema e la macchina scura che arrivava a grande velocità e mi travolgeva in pieno lasciandomi in fin di vita in mezzo alla strada. La persona che mi aveva investita non si era fermata ma aveva chiamato i soccorsi dal momento che la strada a quell’ora era deserta e che nessun altro aveva assistito all’incidente. La polizia non aveva ancora trovato il responsabile del mio incidente. Rabbrividii così come accadeva ogni volta che ripensavo a quel giorno, anche se erano passati mesi, anche se tutte le ferite, quelle fisiche, si erano rimarginate. Io però non ero più la Amy di prima, ma una persona piena di sentimenti negativi che mi avevano tolto la voglia di vivere e l’interesse per qualsiasi cosa che prima mi interessasse. Questa sì era una ferita ancora aperta e che difficilmente si sarebbe richiusa. Mi risalirono le lacrime agli occhi pensando che avendo la mia stanza in un negozio non sarei mai riuscita a isolarmi del tutto. E questo era proprio quello che volevo, isolarmi, restare da sola, dormire, pensare… non dover per forza sorridere per non vedere la disperazione negli occhi di mia madre e di Terence. Volevo andare lontano, lontano da tutti, in un posto in cui avrei potuto crogiolarmi nel mio dolore, nel mio pessimismo, nella mia apatia senza che nessuno cercasse per forza di ripescarmi da quella condizione. Volevo solo stare da sola. Girai la testa sul cuscino e la mia cicatrice sfiorò il cotone della federa facendomi provare un brivido di fastidio. Non ero mai stata una ragazza particolarmente interessante, ero stata carina, ma non interessante. Ora non ero più nemmeno carina e in presenza di qualcuno, anche dei miei famigliari, tenevo sciolti i lunghi capelli color bronzo affinché le loro onde coprissero il più possibile la mia guancia. Alla Amy di prima non interessava che nessuno la ritenesse bella o attraente, alla Amy di adesso invece sì. In realtà non era l’effetto sulle altre persone quello che mi interessava, ma il dolore che sentivo dentro; era come se quella cicatrice fosse la parte visibile di quello che provavo dentro e questo non era ciò che volevo. Non volevo la compassione di nessuno, volevo solo essere lasciata in pace. Riemersi dal cuscino e d’un tratto, guardando per un attimo nel mio specchio magico, mi tornarono in mente le parole di un vecchietto che

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poco prima dell’incidente era passato in negozio per comprare dei fiori da portare sulla tomba di sua moglie. «Hai il viso di un angelo» mi aveva detto, «un perfetto ovale, la pelle bianca, il naso piccolo e gli occhi grandi e verdi. E poi i tuoi capelli colore del bronzo lo incorniciano perfettamente. È di una bellezza eterea.» Mi aveva proposto un ritratto, con un tale entusiasmo che non ero riuscita a dirgli di no. Forse era anche tornato al negozio mentre io ero in ospedale ma ormai poco contava, se mi avesse vista ora non avrebbe potuto più descrivermi come aveva fatto la prima volta. Il mio viso era ancora quello di prima, fatta eccezione per la lunga cicatrice che lo deturpava sul lato sinistro. Ma sicuramente non avrebbe trovato nulla di etereo nei miei occhi spenti e a tratti vividi ma solo per rabbia. Tanto meno nella mia carnagione pallida, che non era più naturalmente bianca, ma era diventata a mio parere olivastra dopo quei tre mesi di ospedale. «Amy?» La voce di mia madre mi distolse dai miei pensieri. Mi voltai verso di lei fingendomi assonnata. «Sam è passato a trovarti» aggiunse con un po’ troppo entusiasmo. Il mio sguardo si fece quasi rabbioso. Sam era stato il mio ragazzo per due anni fino a quando, l’anno addietro, mi aveva messa alle strette con una proposta di matrimonio. A quel punto mi ero resa conto che passare la mia vita con lui non era tra i miei desideri e l’idillio del nostro rapporto si era rotto costringendomi a lasciarlo. La cosa mi aveva fatto soffrire, ma la convinzione di aver fatto la cosa giusta per entrambi mi aveva aiutata superare la separazione. Quello che ora mi faceva rabbia era che a distanza di un anno io ero immobilizzata su una sedia a rotelle con uno sfregio sul viso e lui era felicemente fidanzato con un’altra e prossimo alle nozze. La Amy di prima non avrebbe provato simili sentimenti, sarebbe stata felice per lui dal momento che non ne era più innamorata. «E forse non lo era mai stata.» Ma adesso perché dovevo per forza essere felice per qualcun altro quando la mia vita mi era sfuggita di mano e si era nascosta talmente bene da non farsi più ritrovare? «Sono stanca mamma» le dissi voltandomi verso la finestra. «Amy, non puoi rifiutarti per sempre di vedere le persone. In ospedale era comprensibile, ma adesso sei a casa tua, hai bisogno di frequentare gente diversa e…»

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«Ok» la interruppi «solo qualche minuto» aggiunsi solo per fare un piacere a lei. Susan mi sorrise e si avvicinò a me intuendo il mio desiderio di mettermi seduta sul letto; poi uscì dalla mia stanza e subito dopo Sam comparve sulla porta imbarazzato. Quasi non ricordavo che i suoi capelli erano di un biondo luminoso e i suoi occhi di un limpido azzurro, messi ancora più in risalto dall’intensa abbronzatura. «Ciao Sam» dissi con indifferenza. La mia intenzione era quella di fargli capire quanto fosse indesiderato in modo tale che avrebbe abbandonato subito l’idea di tornare ancora a trovarmi. Ma il suo sguardo sinceramente addolorato mi fece desistere. Non dubitai nemmeno per un istante che il suo star mal per me fosse intenso come i suoi occhi volevano lasciar trasparire. «Amy, tu non hai idea di quanto mi dispiaccia…» disse facendo due lunghi passi per venire a sedersi sul bordo del mio letto. Prese la mia mano destra tra le sue e mi guardò negli occhi spostando inevitabilmente lo sguardo sulla mia cicatrice. Le sue dita accarezzarono le mie con dolcezza. «Congratulazioni per il tuo fidanzamento» gli dissi acida cercando di togliere la sua attenzione dalla mia guancia deturpata. Lui arrossì vistosamente e abbassò gli occhi sulla mia mano, come se ci volesse vedere l’anello che probabilmente aveva regalato alla sua futura moglie. «Se tu mi avessi detto di sì ora…» «Ma io ti ho detto di no» intervenni arrabbiata. Lui sembrò sorpreso della mia reazione, forse più di me. Mi vergognai per un momento, un brevissimo momento. Non avevo il diritto di trattarlo male solo perché la mia vita era finita. «Scusa» dissi respirando a fondo per riportarmi alla calma. «Io ho voglia di stare da sola, non voglio gente tra i piedi.» Sam mi guardò triste. Lui mi voleva ancora bene, nonostante ora stesse per sposare un’altra. Ne fui certa dallo sguardo che mi rivolse, carico d’amore e dolore. Non avevo mai visto uno sguardo simile nei suoi occhi nei due anni in cui eravamo stati assieme. Io invece ero come svuotata di ogni sentimento, di ogni sentimento buono. E ora mi dispiaceva vederlo stare male, ma… non mi interessava, non era un motivo sufficiente per cercare di essere diversa. «Ti lascio riposare, Amy» disse alzandosi e chinandosi a baciarmi la fronte. Poi fu questione di un attimo e mi ritrovai la sua bocca appoggiata sulla mia per un bacio fugace. Nulla, non sentii

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assolutamente nulla. Lo guardai sorpresa e sotto il mio sguardo lui lasciò la mia stanza e, dopo un veloce saluto a mia madre, uscì dal negozio facendo tintinnare lo scaccia spiriti. Che cosa gli era saltato in mente? Baciarmi sulla bocca quando gli avevo chiaramente fatto capire che non lo desideravo e soprattutto… soprattutto considerato il fatto che si sarebbe sposato nel giro di pochi mesi. Prima quello sguardo colmo di amore, poi il bacio. «Amy…» disse mia madre entrando nella mia stanza e interrompendo i miei pensieri. «Dimmi mamma» risposi io con un sorriso forzato, visto che sorridere era l’ultima cosa che mi interessava in quel momento. «Io… io capisco come ti senti tesoro… ma non puoi trattare così le persone che vengono qui perché ti vogliono bene e soffrono per quello che ti è successo…» mi disse con un tono che voleva essere di rimprovero, ma che non arrivava che a una nota di constatazione. «Ora dovrei sentirmi in colpa per come mi sento? Non ti basta vedere quello che sono diventata? Guardami bene, mamma, non ti basta quello che sto provando?» urlai con rabbia. Lei scoppiò in lacrime ma pensai con cattiveria che questa volta se l’era cercata. «Non ti riconosco più Amy, non riesco più a riconoscerti!» esclamò singhiozzando. Ma come faceva a non capire? Ero io la sola a pensare che non era possibile che tutto fosse come prima? Che io non potevo essere come prima? «Sarebbe stato meglio che fossi morta invece di diventare così irriconoscibile agli occhi di mia madre» dissi con i muscoli del viso contratti in un’espressione dura ma determinata. Susan non esitò a darmi uno schiaffo. Quando si rese conto di averlo fatto e soprattutto di avere colpito la mia guancia sfregiata, si afferrò il polso della mano colpevole con l’altra e mi guardò con disperazione. «Voglio stare sola» le dissi con la voce rotta dal pianto che stava per sopraggiungere. Mia madre esitò un attimo, poi tornò di là in negozio dove la sentii singhiozzare silenziosamente. Con le braccia mi aiutai a spingere in giù il mio corpo per tornare a stendermi e poi mi coprii il viso con il cuscino e lasciai che le lacrime sgorgassero a fiumi dai miei occhi stanchi della giornata. Rimasi così per un tempo che sembrò interminabile, a pensare, a ricordare come fosse la mia vita, come fossi io prima dell’incidente. Sembrava tutto troppo lontano, così come sembrava lontana la possibilità che io potessi sentirmi di nuovo felice.

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«Amy, ti ho portato la cena» disse mia madre con un tono fin troppo tranquillo entrando nella stanza con un vassoio. Ero stata talmente immersa nei miei pensieri e nel mio dolore da non accorgermi che il negozio era stato chiuso e che Susan era anche salita a preparare la cena. «Terence metterà nella tua stanza un piccolo tavolo, così potremo mangiare assieme…» aggiunse aspettando che riemergessi da sotto il cuscino. Sentivo i miei occhi gonfi fare fatica a rimanere aperti e immaginai di avere un aspetto ancora più orribile di quanto già lo fosse prima di aver pianto per ore. Spostai il cuscino dal mio viso e Susan, dopo aver appoggiato il vassoio sul comò, si avvicinò senza esitazione per aiutarmi a mettermi seduta e mi abbracciò stringendomi forte. «Mi spiace Amy» disse con un sorriso prendendo le mie mani. La guardai negli occhi rischiando di scoppiare di nuovo in lacrime. Con lei non potevo comportarmi così, non dopo tutto quello che aveva patito per tirar su me e Terence da sola, dal giorno in cui nostro padre l’aveva lasciata, o meglio, ci aveva lasciati sparendo nel nulla e non facendosi più vivo. Non dopo quello che aveva passato e stava passando da quella sera di tre mesi prima, quando la polizia l’aveva chiamata per dirle del mio incidente. Aveva trascorso le prime ore in ospedale completamente sola nell’attesa che Terence arrivasse dall’altra parte del paese. La mia amica Sally era arrivata in ospedale assieme a me; vedendo che non arrivavo per il nostro appuntamento al cinema era uscita in strada e aveva camminato con ansia verso l’angolo della via, da dietro al quale provenivano luci lampeggianti e voci concitate di diverse persone. Lo shock di vedermi a terra in una posizione del tutto innaturale e con il volto coperto di sangue le era costato il ricovero per tutta la notte. Susan, di conseguenza, oltre a non avere il sostegno di nessuno, si era preoccupata anche di chiamare i genitori di Sally per avvisarli dell’accaduto. «Scusa mamma» dissi con un filo di voce piena di dolore. «Non dire mai più una cosa simile, ti prego. Non potrei sopportare di vivere senza di te» disse accarezzandomi la guancia che aveva schiaffeggiato. Forse non avrei più detto una cosa simile, non in sua presenza, ma avrei continuato a pensarlo. Mia madre poi non avrebbe mai saputo che avevo fantasticato più volte su come porre fine alla mia vita.

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Annuii e lasciai che mi mettesse di fronte il vassoio della cena. Non avevo fame, ma non volevo farla preoccupare ulteriormente così mandai giù tutto senza esitazioni. Dopo che ebbi finito la cena Susan riportò i piatti di sopra e si fermò a lavare le stoviglie. Poi tornò giù per accompagnarmi in bagno e aiutarmi a cambiarmi. Mi chiesi quanto tempo mi sarebbe servito per diventare autonoma almeno in quelle attività più intime. Fare una doccia da sola attualmente era impensabile, fare un bagno impossibile, visto che la vasca era nella stanza al piano di sopra. Mi mancò il respiro per un attimo. In ospedale ero quasi riuscita a sentire come naturale il fatto di avere sempre qualcuno ad aiutarmi. Ma era come se fossi stata tranquillizzata dal fatto che essendo in ospedale fosse giusto così. Non avevo pensato che le stesse identiche situazioni le avrei ritrovate a casa. Quando tornai in camera mia, sul mio letto, tirai un sospiro di sollievo. Susan mi propose di guardare la televisione o di fare due chiacchiere, ma io le dissi che ero stanca e che volevo dormire. Rimasta sola chiusi gli occhi nella speranza che il sonno mi rapisse ai miei pensieri negativi dandomi la possibilità di ricaricarmi il tanto che bastava a superare l’indomani. Ma non riuscii a dormire e un pensiero si affacciò alla mia mente, un pensiero che avevo accantonato dopo il litigio con mia madre. Il bacio di Sam, quel gesto inaspettato che, nonostante non mi avesse dato nessuna emozione, mi aveva restituito per un breve istante la sensazione di essere un essere umano. Ed era una sensazione che non avevo più provato dopo il mio risveglio dal coma. La Amy di una volta sarebbe inorridita davanti a una simile affermazione: disdegnare il fatto di essere viva e credersi privata della dignità di essere umano solo perché era ridotta su una sedia a rotelle quando c’erano altre persone nel mondo che la fortuna di poter camminare non l’avevano mai avuta! La Amy di prima avrebbe sicuramente trovato un lato positivo in quella situazione, ma solo perché non l’aveva vissuta in prima persona. Presi il telefono dal cassetto del comodino, allungando a fatica un braccio. Lo accesi con l’intento di mandare un messaggio a Sam, forse per scusarmi, forse perché volevo rivederlo, forse perché intendevo rubargli un pezzetto della sua vita perfetta, della sua felicità. Il telefono suonò prima che mi mettessi a scrivere; avevo ricevuto tre messaggi: il primo era di Sally, il secondo di Terence e il terzo era proprio di Sam. Decisi di leggerli in ordine di ricevimento. Sally era in vacanza forzata con il suo ragazzo, George, che aveva reclamato un po’ del suo tempo visto che la maggior parte di quello

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libero lo passava con me. Lei non sarebbe mai partita se io non l’avessi convinta a farlo. Sally era come una sorella per me, adoravo tutto di lei: i suoi lunghi capelli neri e lisci, la sua carnagione pallida come la mia, i suoi grandi occhi castani e sinceri; e poi la sua generosità, la sua dolcezza e la sua lealtà. Lei era l’unica con la quale non mi sforzavo di essere diversa da come mi sentivo e proprio per questo era l’unica con la quale riuscivo a sorridere sinceramente. «Ciao Amy, sabato sono di ritorno e George ha detto che non protesterà se passerò il week end con te! Non vedo l’ora di incontrarci. TI voglio bene. Sally.» Sorrisi leggendo il suo messaggio. Sally era la sola che aveva capito fin dall’inizio che io non sarei stata più quella di prima, che il trauma dell’incidente, il fatto che non potevo più camminare e la cicatrice sul viso, avevano segnato in modo indelebile il mio animo. E di conseguenza si stava adeguando con discrezione alla nuova Amy. All’inizio era stato difficile per lei, ero talmente piena di rabbia, talmente spaventata e lacerata dai dolori che non avevo risparmiato neanche a lei la mia acidità. Ma quando era scoppiata in lacrime davanti a me confidandomi di sentirsi in colpa per la sera dell’incidente e chiedendomi ripetutamente scusa mi si era per un attimo bloccato il respiro. La sera dell’incidente Sally sarebbe dovuta passare a prendermi a casa, ma all’ultimo momento aveva deciso di uscire a cena con George e mi aveva chiesto di raggiungerla direttamente al cinema. Per questo avevo preso un autobus ed ero scesa sul ciglio di quella maledetta strada dove ero stata investita. Sally si era assurdamente sentita in colpa per questo motivo, e io con il mio comportamento l’avevo convinta di credere la stessa cosa, che la ritenevo in parte responsabile. Quando avevo realizzato questo avevo guardato Sally negli occhi e le avevo chiesto scusa tra le lacrime, l’avevo rassicurata e avevo giurato a me stessa che non le avrei più detto nulla di cattivo. «Anch’io non vedo l’ora di rivederti» le risposi con sincerità. Poi passai al messaggio di Terence. «Ciao Amy, mi manchi tanto, ma presto sarò a casa e faremo un sacco di cose assieme. Ti voglio bene gemellina!» Il mio Terence! Lui era nato qualche minuto prima di me ma si comportava come se avesse un sacco di anni in più, come un perfetto fratello maggiore. Eravamo sempre andati d’accordo e avevamo un rapporto invidiabile. Sapendo che solo uno di noi avrebbe potuto studiare al college e avere un futuro lontano da quella città, lui era stato

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pronto a rinunciare ai suoi sogni perché io realizzassi i miei. Ma io non avevo mai avuto grandi ambizioni e lavorare al negozio di fiori, e allo stesso tempo poter stare vicina a mia madre che tanti sacrifici aveva fatto per noi, era quello che desideravo. Così, dopo la grande fatica fatta per convincerlo, Terence aveva iniziato gli studi di medicina per diventare chirurgo. Ora stava terminando il tirocinio e poi avrebbe cominciato la specializzazione. Aveva il mio stesso colorito e il mio stesso bronzo nei capelli corti e spettinati; anche il suo viso era un perfetto ovale e i suoi occhi erano smeraldi, molto più brillanti dei miei, molto più magnetici. Le ragazze facevano la fila per lui ma quella giusta non aveva ancora bussato al suo cuore. Da quando avevo avuto l’incidente era entrato in una sorta di crisi; era come se lui fosse stato travolto da quell’auto assieme a me, era come se sentisse anche lui tutto ciò che sentivo io. Per quasi un mese si era rifiutato di tornare al suo ospedale dall’altra parte del paese e aveva rischiato di mandare all’aria l’intero anno di duro lavoro. Non aveva quasi mai lasciato il posto affianco al mio letto, come se una corda invisibile lo tenesse legato a me rendendolo incapace di allontanarsi. Per fortuna mi aveva dato ascolto quando lo avevo supplicato di tornare al suo lavoro, non aveva saputo resistere alle mie lacrime. Da quel giorno però non era più stato lo stesso. Si sforzava di mostrarsi sereno e ottimista nei week end in cui riusciva a tornare a casa, ma si era spento quasi quanto me. E io ne conoscevo il motivo: non si trattava solo dell’incidente in sé e delle sue conseguenze. Terence si sentiva in colpa all’idea di realizzare i propri sogni e di vivere la vita che desiderava quando la mia si era spezzata. Era assurdo, ma lui si sentiva così, ne ero sicura. Avevo cercato di affrontare l’argomento l’ultima volta che era stato casa ma lui aveva negato anche se in cuor suo sapeva che non mi sarei lasciata convincere. Due vite spezzate in un colpo solo. «Mi manchi Doc, ti aspetto con ansia. Io te ne voglio di più» gli risposi. Passai al terzo messaggio, quello di Sam. Fino a qualche mese prima avrei sicuramente evitato di rispondergli, come d’altronde avevo fatto i primi tempi dopo la nostra rottura. Sam aveva cercato in tutti i modi di convincermi a sposarlo, ma io non ne avevo voluto sapere e avevo smesso di rispondere alle sue chiamate e ai suoi messaggi. Adesso invece avevo un terribile bisogno di leggerle ciò che mi aveva scritto. «Mi dispiace per quel bacio, non avrei dovuto, spero tu non sia arrabbiata. Ma sei irresistibile come sempre.»

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Irresistibile? Con le gambe immobilizzate e un lungo sfregio sul viso? Sam doveva essere impazzito. Ripensai di nuovo al suo bacio. Pochi istanti che mi avevano fatto ricordare che ero una donna, non quella sorta di essere inutile che continuavo a vedere in me. «Scusami tu. Spero tornerai a trovarmi, magari domani. Saremo soli.» risposi senza pensare e talmente in fretta da non lasciarmi il tempo di riflettere. Che cosa avevo in mente? Ora non volevo proprio pensarci ma nel mio profondo lo sapevo perfettamente: come avevo già detto a me stessa, volevo rubargli un pezzo della sua felicità. Chiusi gli occhi e attesi che il sonno mi portasse via con sé.

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MERCOLEDI’ 6 MAGGIO Quando l’indomani mi svegliai, il sole entrava violento dalla finestra le cui tende erano state scostate ai lati. «Buongiorno tesoro» esclamò mia madre entrando nella stanza con la colazione. «Buongiorno mamma» risposi lasciando che mi baciasse la guancia ferita. «Tesoro, stavo pensando… perché non vieni a prendere le piante al mercato con me, stamattina? Staremo via al massimo tre orette e tu potresti vedere un po’ di gente nuova» mi propose con entusiasmo. Per quanto mi riguardava, l’idea di vedere gente nuova o vecchie conoscenze non mi alettava affatto. Avrei dovuto incrociare sguardi compassionevoli, sentire bisbigli del tipo «guarda cosa è successo alla piccola Amy, guarda quant’è stata sfortunata quella povera ragazza.» No, non ci tenevo proprio. E poi piante e fiori non mi interessavano più. «Preferisco di no, mamma» risposi mandando giù il latte. «Ma Amy…» riprovò lei. «No, mamma, voglio stare a casa» ribattei con una punta di nervosismo; non ero in vena di accettare la sua insistenza. «Ok, tesoro» rispose lei infine scostando le coperte per accompagnarmi in bagno. Quando poi uscì di casa aspettai che il campanello suonasse e schiacciai il tasto dietro al bancone del negozio per aprire la porta a Sam. «Ciao, Amy» disse lui in imbarazzo. Non si capiva se lo era per aver ricevuto una sorta di proposta da me o per la paura di aver frainteso. «Ciao Sam» risposi io con un sorriso del tutto indifferente indicandogli di seguirmi nella mia camera. Fino a quel momento avevo accuratamente evitato di pensare che cosa avrei fatto non appena me lo sarei trovata davanti. Feci forza con le braccia per portare la mia sedia a rotelle in cima alla pedana e poi feci leva di nuovo su di esse per passare a sedermi sul letto. Uno dei pochi gesti di autonomia che avevo conquistato in quei due giorni a casa.

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«Volevo chiederti scusa per ieri, sono stata molto scortese» dissi per trarlo d’imbarazzo, e ci riuscii visto che Sam si affrettò a sedersi sul letto accanto a me. «Perché sei qui?» chiesi poi a bruciapelo per provocarlo. Lui mi guardò per un lungo istante ma non disse niente. Poi, d’un tratto, avvicinò la sua bocca alla mia e prese a baciarmi. Non era il bacio lieve del giorno prima, ma sensuale e pieno di passione. La sua lingua si insinuò nella mia bocca in cerca della mia e una mano abbassò la cerniera della mia felpa e sparì sotto la stoffa in cerca della pelle del mio seno. Rimasi per un attimo bloccata, non riuscendo a capire che cosa stessi facendo, che cosa volessi ottenere. Sapevo solo che in quel momento mi sentivo viva. Ma prima di continuare dovevo essere certa di non ferire i sentimenti di nessuno. Mi allontanai da lui e lo guardai negli occhi. «Pensavo fosse quello che volevi» mi disse ansimando per l’eccitazione. «Sì, ma voglio sapere perché lo fai» chiesi con decisione. Lui interpretò nel modo giusto i miei pensieri e capì di dover essere sincero. «Niente sesso prima del matrimonio… sto impazzendo… ma sarei riuscito a resistere se ieri non ti avessi rivista. Ho sempre provato un’attrazione pazzesca per te. Credo di averti baciata nell’intento di arrivare a questo» disse stringendo la presa sul mio seno e riavvicinando la bocca alla mia. «Quindi ci stiamo usando a vicenda» terminò spingendomi delicatamente indietro sul letto. «Ritieni che io ti stia usando?» chiesi un po’ stupita da quel Sam che avevo di fronte e che in quel frangente non assomigliava molto al Sam con il quale ero stata: era molto più determinato e sicuro di sé. «Sì» disse lui togliendomi del tutto la felpa. «Ma non voglio saperne i motivi Amy, sono affari tuoi» aggiunse affondando la bocca sul mio seno libero. Poi con una mano scese fino ai pantaloni e lì esitò un attimo. Lo capivo, non doveva essere facile pensare di aver appena detto di volermi usare per poi ricordarsi in quali condizioni fossi. Lo distrassi sfilandogli la maglia e cominciando a baciare le sue spalle, mentre con le mani gli accarezzavo il petto liscio. Mi impadronii della sua bocca pensando che maggiore fosse stata l’iniziativa da parte mia, minori sarebbero stati i suoi scrupoli. E infatti mentre riaffondava la lingua nella mia bocca scese con una mano a slacciare i pantaloni e li abbassò leggermente. Poi scese con la lingua sul mio mento, sul collo, in mezzo al seno fino all’ombelico per poi afferrare la stoffa dei pantaloni all’altezza del

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bacino per sfilarli lungo le mie gambe immobili. Anche in quel momento ebbe delle esitazioni, allora afferrai una sua mano e lo attirai verso di me per farlo stendere sul mio corpo. Il calore della sua pelle era eccitante e nonostante non provassi dei sentimenti per lui, quello che stavamo facendo mi stava elettrizzando. Scesi con le mani a slacciare i suoi jeans e lui si alzò per liberarsi dei restanti vestiti, suoi e miei. Quando si ristese su di me, con un gesto veloce scostò le mie gambe e mi prese d’impeto, quasi per paura di avere altri ripensamenti. A quel punto mi lasciai andare totalmente alle sensazioni fisiche che stavo provando. Sam si muoveva rapidamente dentro di me, ogni tanto cercava la mia bocca e i miei occhi, un gesto che non mi sarei aspettata da un uomo in astinenza di sesso. Il piacere cancellò per un attimo dolore e disperazione e quando lui si abbandonò sul mio corpo con il cuore che batteva forte, mi resi conto di non essere assolutamente pentita di essermi comportata in quel modo. «Tutto ok?» mi chiese Sam alzandosi ma non prima di avermi stampato sulle labbra un bacio che aveva tutte le caratteristiche di un bacio d’addio. «Sì, e tu?» chiesi sforzandomi di sorridere. Ma dentro di me non sentivo assolutamente nessun desiderio di sorridere. Quel momento di euforia che aveva allontanato la mia mente dalla realtà era finito e non si sarebbe più ripresentato. «Sì, Amy… non sono pentito di quello che abbiamo fatto, se è questa la tua paura. È stato fantastico, e non perché era da molto che… è stato fantastico perché tu sei fantastica» mi disse passandomi i vestiti e aiutandomi a vestirmi visto che Susan sarebbe potuta rientrare da un momento all’altro. La sfortuna però doveva essere decisamente dalla mia parte e infatti poco dopo sentii la porta del negozio aprirsi e quando mia madre si affacciò all’ingresso della mia camera, Sam era ancora a torso nudo seduto sul mio letto. Sul suo viso passarono una serie di emozioni e sentimenti più o meno negativi: stupore, incredulità, rabbia, e infine disgusto. Sentii le lacrime salirmi agli occhi ma non permisi loro di scendere. Non volevo essere giudicata, tanto meno da mia madre, nessuno aveva il diritto di giudicarmi dal momento che nessuno poteva sapere che cosa stessi provando. «Ma che diavolo è successo qui?» chiese non appena la voce riuscì a uscire dalle sue labbra tremanti. «Sam, non mi sarei mai aspettata una cosa del genere da te… che cosa ti è saltato in mente?» chiese agitando le mani come se volesse picchiarlo. Era evidente che lei pensasse che la

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colpa fosse sua, che si fosse approfittato della mia debolezza fisica ed emotiva ma io non le avrei permesso di prendersela con lui. «Mamma, non te la devi prendere con Sam, non te la devi prendere con nessuno perché sono affari nostri» dissi con tono tranquillo. «Affari vostri? Amy, ma cosa stai dicendo? Voi non state più assieme, lui è fidanzato, che cosa è venuto a cercare qui?» mi chiese lei, ostinandosi a vedere in me la parte innocente e lesa. «Gli ho chiesto io di venire» dissi con voce ferma. Sam tentò di fermarmi ma io lo bloccai con lo sguardo. Mia madre s’impietrì. La stavo ferendo, lo sapevo, ma io non potevo più pensare agli altri quando non riuscivo nemmeno a pensare a me stessa. «Tu cosa?» mi chiese scandendo bene le parole. «Sì, lui non ha colpa, gli ho chiesto io di venire qui e di fare quello che abbiamo fatto» esclamai stavolta sulla difensiva. «Io non posso crederci…» disse Susan appoggiandosi con la schiena al muro. «Ti rendi conto di quello che hai fatto?» «Susan…» cercò di intromettersi Sam. «Tu stai zitto e vattene immediatamente da qui» urlò lei con uno sguardo minaccioso. Senza ulteriori esitazioni Sam si infilò la camicia e se ne andò, non prima però di avermi lanciato uno sguardo colmo di dispiacere. «Non avevi il diritto di cacciarlo in quel modo» esclamai con rabbia. «Oh, sì, signorina, questa è casa mia e io non tollero certi comportamenti» ribatté Susan con un misto di rabbia e dolore nella voce. «Non ho fatto nulla di male» ribadii. E in quel momento ne ero davvero convinta. «Niente di male? Sedurre un uomo che tra poco si sposerà, l’uomo di un’altra? E tutto questo per cosa?» Non avevo intenzione di discutere, non avevo voglia di spiegare che per un attimo ero tornata a vivere e questo perché mia madre non voleva accettare il fatto che normalmente mi sentissi morta. «Sono affari miei» risposi con sguardo di sfida. «Ti sei comportata come una…» Susan si bloccò. «Come cosa? Come una puttana?» terminai io sorpresa da quanta rabbia ci fosse in quel momento dentro a mia madre. «Vorrei tanto riavere la mia Amy» disse con voce affranta. «La tua Amy è morta, e prima lo accetterai, prima ricominceremo ad andare d’accordo» risposi io aspettando che se ne andasse dalla stanza.

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E infatti Susan mi lasciò sola e uscì dal negozio sbattendo la porta. Avevo bisogno di sciacquarmi il viso, di cancellare la sensazione di sporco che lei aveva voluto mettermi addosso. Mi avvicinai al bordo del letto per spingermi sulla sedia a rotelle, ma nel momento di far leva le braccia mi cedettero e caddi a terra sbattendo rovinosamente la testa sulla pedana di legno. Per fortuna niente sangue, solo un bernoccolo che cominciò subito a lievitare sulla mia fronte; una volta accertato che non ci fosse la possibilità di una nuova cicatrice sul mio viso, mi concentrai su come avrei fatto a non farmi trovare sul pavimento da mia madre al suo ritorno. La prima cosa da fare era cercare di girarmi sulla schiena; mi sollevai su un braccio e con l’altro afferrai il bordo delle coperte del letto. Mi ci aggrappai con forza e obbligai il mio bacino a uno sforzo smisurato per ruotare di almeno novanta gradi. Quando ci riuscii però mi sbilanciai subito cadendo supina e sbattendo nuovamente la testa a terra. Stavolta mi scesero le lacrime dal dolore e dall’umiliazione. Susan sarebbe tornata e si sarebbe sentita in dovere di aiutarmi anche se ce l’aveva a morte con me. Era troppo. Chiusi gli occhi per un istante per recuperare la calma e poi afferrai di nuovo le coperte per sollevarmi e mettermi seduta. Con uno sforzo enorme ce la feci e riuscii finalmente ad appoggiare la schiena alla sponda del letto; così andava decisamente meglio. Sentii la porta del negozio aprirsi e richiudersi e in un attimo Susan fu nella mia stanza. Mi guardò con apprensione senza dire nulla, poi si inginocchiò vicino a me e tastò delicatamente il bernoccolo sulla mia fronte. «Ti sei fatta male da qualche altra parte?» mi chiese preoccupata. Scossi la testa e poi mi lasciai aiutare a sedermi sulla sedia a rotelle. Evitai di guardare in volto mia madre perché sapevo che vi avrei letto ancora la delusione di prima. Lei infatti non disse altro e lasciò la stanza per salire a preparare il pranzo. Io andai diretta in bagno e mi bagnai le mani con l’acqua fresca prima di passarle sul viso. La botta sulla fronte mi bruciava e pulsava, così vi appoggiai un asciugamano bagnato d’acqua. Di solito non mi guardavo mai nello specchio del lavello e sarebbe stato meglio se non l’avessi fatto neanche in quel momento. A parte l’ennesima fitta di dolore che avvertii nel vedere la mia cicatrice, provai una cosa che fino a quel momento non mi era capitato di provare: una forte angoscia nel sentirmi del tutto estranea all’immagine riflessa. Chiusi gli occhi e cominciai a singhiozzare. Che cosa mi stava

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accadendo? Ero davvero in un certo senso felice di quello che avevo fatto quella mattina o mi stavo nascondendo dietro a una maschera di finta indifferenza nei confronti di tutti gli ideali che avevo sempre sbandierato? Tornai in camera e, spinta la sedia a rotelle sulla pedana, scostai copriletto e lenzuola prima di trascinarmi sul letto. Mi coprii il più possibile e soffocai il pianto mordendo il lenzuolo. Mi sentivo improvvisamente oppressa da tutto quello che mi circondava: era come se le pareti della stanza si stessero pian piano chiudendo attorno a me arrivando prima o poi a stritolarmi; e tutto il resto, libri, oggetti, sembrava fossero pronti a scagliarsi contro di me. Forse stavo impazzendo. Forse ero già impazzita. Mi sentii scuotere ma non riuscivo a voltarmi, la testa mi scoppiava, mi sentivo la mente annebbiata e confusa e non riuscivo a smettere di stringere tra i denti il mio povero lenzuolo. «Amy!» Era la voce di mia madre preoccupata, angosciata. Non riuscivo a risponderle, mi sentivo troppo debole. Chiusi gli occhi e mi lasciai andare. Quando mi ripresi mi resi subito conto di avere un forte mal di testa. La stanza era buia, ma dubitavo che fosse già notte. Allungai una mano verso il comodino per accendere la lampada e presi il mio telefono per vedere l’ora: erano le tre del pomeriggio e inoltre mi era arrivato un messaggio. Lo lessi velocemente: «mi dispiace che ci abbia scoperti. Ricordati sempre che sei fantastica.» Sam era stato davvero gentile e premuroso, nessuno avrebbe potuto negarlo. Rimisi il telefono sul comodino e chiusi gli occhi. Mi sentivo stanca come se avessi fatto ore e ore di sport o qualche lavoro pesante. Le braccia mi dolevano e non riuscivo a tenerle sollevate tanto erano deboli e in testa avevo ancora parecchia confusione. La porta della mia camera si aprì e mia madre entrò per venire a sedersi sul letto. «Come ti senti?» chiese accarezzandomi la fronte. Non sembrava più arrabbiata, sembrava preoccupata e basta. «Non lo so» risposi sinceramente sentendo le lacrime scendere lungo le guance senza che io potessi far nulla per fermarle. «Ho dovuto chiamare il dottore prima, non mi rispondevi e a un certo punto hai perso i sensi. Mi sono spaventata» disse Susan ancora con l’angoscia nella voce.

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«Mi dispiace, non era mia intenzione» risposi non riuscendo a fermare le lacrime che scendevano copiose dai miei occhi ormai doloranti per il bruciore. «Amy, tesoro, non devi dispiacerti per me, ma preoccuparti di te stessa. Il dottore ha detto che hai avuto un crollo nervoso, vuole fare due chiacchiere con te più tardi.» «No, non voglio vedere nessuno, sto bene adesso» dissi determinata nonostante in quel momento sembrassi ancora più fragile del solito. «Amy, tu non stai bene, hai bisogno di aiuto per accettare…» «Io non accetterò mai di vivere in questo modo» esclamai interrompendo Susan. Mi stava dicendo che dovevo andare da uno strizzacervelli per convincermi che la vita era bella anche se non potevo più camminare, non potevo più essere autonoma, vivere come desideravo. Ma perché non mi lasciavano tutti in pace? «Va bene Amy, ma ora calmati» disse Susan aiutandomi a mettermi seduta e abbracciandomi. «Dimmi mamma: credi che io abbia bisogno di aiuto perché ho avuto un crollo nervoso o perché sono andata a letto con Sam?» chiesi allontanandomi da lei e guardandola negli occhi tra la nebbia delle lacrime. «Amy, se tu stessi bene non lo avresti fatto» rispose lei tranquilla. «Se quell’auto non si fosse portata via la mia vita non lo avrei fatto. È diverso» risposi asciugandomi le lacrime. «Non ho bisogno di uno psicanalista, ho bisogno di tornare a vivere la mia vita, con le mie gambe funzionanti e il mio viso e il mio corpo senza cicatrici.» «Okay, per oggi lasciamo stare, ma sappi che ne parlerò con Terence e se lui sarà d’accordo con me e lo riterrà necessario quanto lo ritengo io, non ti potrai opporre Amy, perché ti ci porterò anche con la forza» disse Susan mostrando chiaramente che al di là della preoccupazione era ancora arrabbiata per via di quello che avevamo fatto io e Sam. Sam… era stato come una medicina, o forse come una droga, di quelle che ti danno per qualche ora una sensazione di benessere e di estasi del tutto effimere. Dovevo rispondere al suo messaggio, ringraziarlo per quella dose di vita che mi aveva regalato. «Non ti preoccupare. È stato bellissimo. Grazie» gli scrissi appena fui sola.

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Forse non avrei dovuto sentire il bisogno di ringraziarlo, forse non avrei dovuto mandargli quel messaggio, anzi, senza il forse, non avrei dovuto mandargli quel messaggio.

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GIOVEDI’ 7 MAGGIO Mi svegliai con la porta del negozio che si richiudeva sbattendo. Pensai che mia madre non poteva essere ancora così arrabbiata da comportarsi in quel modo. La sera prima aveva cenato assieme a me, anche se per la maggior parte del tempo in silenzio; ma avevo capito che rabbia e delusione si stavano pian piano smussando. Mi misi seduta e scostai le lenzuola scoprendo le mie odiate gambe immobili. Ma non feci in tempo a cercare di scendere dal letto perché qualcuno aprì la porta della mia camera e vi entrò con arroganza seguita da mia madre agitata e preoccupata. La ragazza che era entrata mi guardò con odio e non ci misi molto a capire di chi si trattasse. Era bionda e con dei lineamenti dolci del tutto in contrasto con l’espressione feroce che aveva sul viso. Era la fidanzata di Sam ed era evidente che aveva saputo quello che era successo tra di noi. Il messaggio… lo sapevo, non avrei dovuto mandarlo. «Sei una sgualdrina!» mi urlò in faccia con una tale violenza che mia madre si mise subito tra di noi. «Non ti permettere…» disse, ma io la interruppi. «Lascia stare mamma» in fondo me lo meritavo, no? Era giusto che lei si sfogasse e mi dicesse quello che pensava di me. «Tu ti sei portata a letto il mio fidanzato, sei una sgualdrina, non ci sono altri termini per definirti» esclamò la ragazza ignorando totalmente mia madre. «Io sarò anche una sgualdrina ma evidentemente a lui mancava qualcosa se è venuto a letto con me» risposi sulla difensiva. «Certo, credi che un qualsiasi uomo di buon cuore rifiuterebbe a un’invalida un’ora di sesso se è lei a chiederglielo? Mi fai schifo, hai usato la tua condizione per portarmi via il mio Sam» continuò a urlare la ragazza con una tale rabbia da diventare tutta rossa in viso. «Io l’ho perdonato, ma tu non ti azzardare mai più a cercarlo e tanto meno a dirgli che sono stata qui. E ricordati, tu gli hai solo fatto pietà e sarà

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così con qualsiasi uomo che incontrerai.» Le sue ultime parole mi trafissero come un pugnale. «Ora basta! Vattene di qui!» urlò Susan spingendola fuori dalla stanza e dal negozio. Poi tornò di corsa da me, forse preoccupata dal fatto che potessi avere un’altra crisi come quella del giorno prima. «Amy…» sussurrò sedendosi accanto a me per abbracciarmi. «Ha detto solo la verità mamma, sono tutte cose vere» risposi con tono atono. «No, non lo sono. Sono certa che… che Sam non è stato qui per pietà.» Sapevo quanto fosse costato a Susan pronunciare quelle parole perché era come ammettere di avere per lo meno accettato quanto era accaduto la mattina prima. «Non ne sono più tanto certa» risposi svuotata di ogni sensazione e sentimento, anche di quelli che mi avevano tenuta viva fino a quel momento: rabbia e pessimismo. Ero depressa. Ripensai a quello che io e Sam avevamo fatto e mi ritrovai a odiarmi per avergli procurato dei guai. La sua fidanzata aveva proprio ragione. Come avrebbe potuto un ragazzo buono come Sam rifiutare il mio invito sapendo in quali condizioni mi trovavo? Era stato gentile da parte sua trovare delle finte motivazioni per giustificare il perché aveva accettato… ma la verità che riuscivo a vedere in quel momento era solo una: lo aveva fatto per pietà, proprio come aveva detto la sua ragazza. E come aveva detto lei, difficilmente qualcuno mi sarebbe stato accanto per motivi diversi. Ora mi sentivo di nuovo terribilmente inutile. Avrei voluto chiamare Sam e implorarlo di dirmi la verità, di dirmi in faccia perché aveva fatto del sesso con me; ma non lo feci, gli avevo già procurato abbastanza guai.

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SABATO 9 MAGGIO «Amy!» Sally corse verso di me e si inginocchiò davanti alla mia sedia a rotelle per abbracciarmi. Per me il suo arrivo fu come una ventata di aria fresca. Era arrivato il sabato e io non me n’ero nemmeno accorta. Avevo trascorso il resto del giovedì, dopo la sfuriata della fidanzata di Sam, a letto e l’intero venerdì davanti alla finestra della mia camera che dava su una strada secondaria della città. Non toccavo cibo da due giorni, non ci riuscivo, la sola idea di mandare giù qualcosa mi faceva provare una sensazione di soffocamento. Mia madre era preoccupatissima, più volte era stata sul punto di chiamare Sam per raccontargli quello che era accaduto ma io l’avevo scongiurata di non farlo. Era inutile creare ulteriori problemi a lui e alla sua futura moglie. Si era anche offerta di tenere chiuso il negozio il venerdì per portarmi a fare un giro ma avevo rifiutato. Non volevo uscire, non volevo distrarmi, volevo solo rimanere in camera mia a deprimermi. Continuavo a pensare alle parole della fidanzata di Sam, nemmeno sapevo quale fosse il suo nome. Non sapevo perché quella stessa parola, pietà, che tante volte avevo ripetuto nella mia mente pensando alle reazioni delle persone, pronunciata da lei aveva innescato un meccanismo nella mia testa che mi aveva ridotta in quel modo. «Sally, sono felice di vederti» dissi con un filo di voce. Lei si rabbuiò vedendo i miei occhi spenti e le occhiaie profonde e scure. Avevo lasciato sciolte le onde bronzee dei miei capelli che rendevano ancora più definito l’ovale del mio viso. Immaginavo che il mio aspetto dopo due notti insonni e due giorni senza cibo, e dopo tutte le lacrime silenziose versate nelle lunghe ore notturne sembrasse surreale, dovevo assomigliare al fantasma di un film horror. «Amy…» ripeté Sally sconvolta, tranquilla ma sconvolta. Mia madre entrò nella stanza. «Amy è un po’ giù di corda, Sally. Magari tu riesci a distrarla un po’» disse appoggiando sul letto un vassoio con tè e biscotti. «Certo, Susan» le rispose Sally ritornando a sorridere.

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Ma io le leggevo la preoccupazione negli occhi. Avrei voluto tranquillizzarla, ma stavo già usando tutte le mie forze per non mettermi a piangere. «Ti ho portato le foto del viaggio, Amy, vuoi che le guardiamo?» chiese, sicura che comportarsi come avrebbe fatto in una situazione normalissima era ciò di cui avevo bisogno. Le sorrisi, anche se ero sicura che il mio sorriso forse quasi impercettibile. «Sì, certo Sally, mi farebbe piacere» risposi con il nodo alla gola. Speravo che mia madre uscisse di casa per dirle di Sam, della sfuriata della sua fidanzata, di quanto odiassi la mia vita. Sally non esitò e prese dal primo cassetto del mio comò il mio portatile, inutilizzato ormai da mesi. Collegò alla presa elettrica il cavo dell’alimentatore e poi scaricò sul pc le foto dalla sua macchina fotografica digitale. Poi avvicinò una sedia a me e si sedette appoggiandomi il portatile sulle ginocchia. Vedendo le foto piano piano sentii le mie labbra piegarsi in un sorriso. Sembravano tutte fatte per me. Sally aveva fotografato cose o paesaggi che sapeva mi avrebbero colpito. L’adoravo, non c’erano dubbi, l’adoravo proprio come l’adorava la vecchia Amy. «Sono contenta che vi siate divertiti, Sally. Lo si vede da queste foto. Vorrei chiedere scusa a George per averti tenuta lontana da lui così tanto nei mesi scorsi» mi sentii di dirle. «Ma che dici Amy? Lo sai che George ti vuole bene» esclamò Sally guardandomi sorpresa. «Sì, lo so, è stato fin troppo paziente.» Sembrava che i pensieri tristi e deprimenti avessero preso il numero dal distributore al banco dei salumi al supermercato e fossero tutti in coda ad aspettare il loro turno per darmi il tormento. «Amy, nessuno è stato troppo con te, chiaro? Noi siamo tuoi amici e ci fa piacere starti vicino, d’accordo? Non voglio sentire questi discorsi» esclamò Sally con tono alto, ma non arrabbiato, anzi. Mi sentivo inutile e un peso per tutti quelli che mi circondavano. Avevo solo voglia di mettermi a letto e dormire. Ma non volevo far andare via Sally. Chiusi gli occhi pensando a come avrei fatto a spiegare alla mia migliore amica il mio stato d’animo quando nemmeno io lo capivo; non ne capivo la rapida evoluzione verso il basso, verso il baratro della depressione. «Amy… ti va di parlare di qualcosa?» mi chiese Sally spiazzata; credo non si aspettasse di trovarmi così. Esitai. Dovevo raccontarle di Sam, oppure no?

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«Sally… sono andata a letto con Sam» le dissi con lo stesso tono con il quale le avrei detto: ho bevuto un bicchiere d’acqua. «E la sua fidanzata lo ha scoperto e si è arrabbiata ovviamente; e credo che anche lui lo sia, e anche mia madre è molto delusa di me…» aggiunsi tutto d’un fiato. Sally mi guardò per un attimo allibita, poi severa, anche se la sua severità non sembrava rivolta a me. «Perché?» mi chiese poi all’improvviso con la curiosità negli occhi. Sapevo che stava cercando di entrare nella mia testa per capire come mi sentissi veramente. «Io… ormai penso che la mia vita sia del tutto inutile… volevo solo sentirmi un’altra per qualche momento, volevo sentirmi viva e avevo bisogno di far qualcosa che la vecchia Amy non avrebbe mai fatto» le dissi guardandola negli occhi. Sally prese le mie mani e le strinse forte. «Lo capisco Amy» mi sorrise scaldandomi il cuore. «Ti capisco ma mi spiace che questa cosa ti abbia portato altra sofferenza» disse prima di baciarmi la fronte. «Be’, me lo sono meritata… ho fatto una cosa orribile… all’inizio non ne ero affatto pentita perché credevo che Sam lo avesse fatto perché lo voleva anche a lui… ma poi lei mi ha fatto capire che lo aveva fatto per pietà, perché non aveva avuto il coraggio di dirmi di no… non voglio che tutta la mia vita sia così, Sally! Non voglio dovermi chiedere di continuo il perché di quello che gli altri fanno e faranno per me…» dissi lasciando sgorgare le lacrime dai miei occhi. Sally mi abbracciò e mi tenne stretta a sé. «Ti chiedi il perché anche di quello che faccio io?» mi domandò poi con un lieve sorriso. Scossi la testa decisa. «No, tu sei la mia migliore amica» risposi con un filo di voce. «Ci sono altre persone come me, persone che ti staranno vicine perché sei Amy, e non per pietà» esclamò con convinzione. Poi prese il vassoio che mia madre aveva portato poco prima e versò del tè nella mia tazza prima di mettermela tra le mani. «Non mangiare non serve a nulla Amy, serve solo a farti stare peggio» mi disse poi con tono più severo. «Peggio di così?» chiesi. «Sì, Amy, peggio di così. Perché sono sicura che anche ora ti basterebbe guardare bene in faccia tua madre per stare ancora peggio. È preoccupata da morire Amy. E pensa a Terence che è così lontano e vorrebbe sicuramente essere qui perché sa quanto stai male.» Le parole

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di Sally mi fecero sentire in colpa. In colpa perché credevo di avere il diritto di essere egoista e invece probabilmente non ce l’avevo. «Io non voglio dare altre preoccupazioni a nessuno, Sally. Voglio solo essere libera di sentirmi come mi sento e basta.» Sally mi sorrise e annuì. E il nostro week end assieme iniziò anche se non sarebbe stato come uno dei nostri fantastici fine settimana di prima. Solitamente, quando una volta al mese organizzavamo di trascorrere assieme il sabato e la domenica, c’era sempre un’ampia scelta di cose da fare e ci divertivamo anche semplicemente a chiacchierare sedute sul letto con tazze di cioccolato in inverno e infusi rinfrescanti d’estate. Avevamo sempre un sacco di cose di cui parlare: Sally mi raccontava del suo rapporto con George, dei loro progetti, io le parlavo del mio lavoro, dell’ultimo libro letto o delle mie idee per le composizioni floreali per il matrimonio di turno. Qualsiasi argomento tra noi non era né noioso né dato per scontato. Adesso di cosa avrei dovuto parlare con la mia migliore amica? Annoiarla con i miei innumerevoli pensieri negativi, con il mio pessimismo e la mia apatia? Non era giusto. Sally, come mia madre e Terence, aveva già sofferto abbastanza a causa mia. Così decisi di stamparmi un sorriso sulle labbra e di farle domande a raffica sulla sua vacanza con George e su altre cose che ora trovavo abbastanza banali. E Sally se n’era perfettamente resa conto anche se non voleva darlo a vedere. Avrei perso anche la mia migliore amica prima o poi. Quando la domenica mattina Sally se ne andò, tirai un sospiro di sollievo. Susan si era stranamente intromessa nel nostro week end e ci aveva tenuto compagnia per diverso tempo. Ero sicura che lo avesse fatto perché si era resa conto di ciò che volevo fare, ovvero non far pesare su Sally e su di lei il mio stato d’animo, e aveva deciso di darmi una mano. Sospirai di sollievo, sì, ma la ferita dentro di me si era allargata. Non riuscivo a sentirmi meglio, non riuscivo a riprendermi dal vuoto che mi aveva lasciato la scenata della quasi moglie di Sam. E dal fatto che lui non si fosse più fatto sentire confermando indirettamente le parole delle sua fidanzata. Sarei davvero vissuta per sempre oppressa dalla compassione degli altri? Mi sforzai comunque di riprendere a mangiare e vidi sollievo anche in Susan quando si accorse che a pranzo avevo svuotato il mio piatto. Era bello darle l’illusione che la crisi stesse passando, mi faceva sentire meglio con la mia coscienza.

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VENERDI’ 15 MAGGIO «Amy?» chiamò mia madre entrando nella mia stanza. Io me ne stavo davanti alla finestra a spazzolarmi i capelli che poi raccolsi in una coda. «Dimmi mamma» risposi guardandola e sforzandomi di sorridere, come facevo ogni volta che i nostri sguardi si incrociavano. «Devo andare dal medico e poi in farmacia, dai un’occhiata tu al negozio?» chiese con un tono sereno. Questa sua richiesta mi lasciò perplessa. Dopo il week end in compagnia di Sally, durante il quale sembrava che mi fossi un po’ tranquillizzata, ero ripiombata nell’apatia più totale. Era arrivato di nuovo il venerdì e io avevo trascorso quasi un’intera settimana a letto o persa nei miei pensieri davanti alla finestra della mia camera. Mi sembrava alquanto strano che mia madre mi chiedesse di stare in negozio in un giorno della settimana in cui c’erano sempre diversi clienti. Ero sicura che non avesse secondi fini ma la sua richiesta mi sorprese lo stesso. «Sarà solo per una mezz’ora tesoro, dubito che verrà qualcuno e comunque sarò di ritorno in men che non si dica. Te la senti?» La guardai incredula ma poi riflettei su due cose molto importanti. La prima era che mia madre aveva dovuto tenere il negozio chiuso per un bel po’ dopo il mio incidente e le entrate perciò si erano ridotte drasticamente. Considerando poi il fatto che i maggiori profitti derivavano dai miei allestimenti floreali per matrimoni e altre feste e che questa attività era stata sospesa, si poteva solo dire che eravamo fortunate a non essere fallite. La seconda era che Susan era preoccupata da morire per il mio morale e che per tutta la settimana aveva cercato di dire e fare le cose giuste per farmi reagire. Forse questo era uno dei suoi tentativi e io non me la sentivo di deluderla. «Va bene, mamma» risposi senza aggiungere altro e spostandomi nella stanza accanto. «Grazie tesoro.» Susan mi dette un bacio sulla fronte, poi uscì in strada di corsa. Sapevo che, nonostante stesse cercando di farmi reagire, le costasse non poco

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lasciarmi lì sola con il negozio aperto. Ma immaginavo anche, conoscendola, che avesse chiesto ai negozianti vicini di dare un’occhiata a chi sarebbe entrato. Passai oltre al bancone e mi avvicinai alla vetrina del nostro negozio. Mia madre aveva lasciato tutto come lo avevo sistemato io mesi prima e ormai le decorazioni sembravano vecchie e inadeguate. Sarebbe stato il caso di riallestire la vetrina… ma non l’avrei fatto io, no di certo. Non mi interessavano più quelle cose. Non avrebbero portato nulla di più alla mia triste vita. Era da un po’ che non osservavo quell’ambiente. Passavo dietro al bancone ogni volta che dovevo andare nel bagno in fondo al corridoio dalla parte opposta a quella che era diventata la mia camera, ma non mi ero mai soffermata a osservare quel posto che prima mi piaceva così tanto. Il banco di legno dove si confezionavano i fiori lo avevamo ridipinto io e mia madre con un’allegra vernice arancione neanche un anno prima. Sul davanti poi io avevo disegnato fiori e farfalle di ogni colore abbelliti da brillantini e smalti luccicanti. Dietro al bancone la nostra cassettiera verticale, come la chiamavamo noi: una libreria alta fino al soffitto composta di tanti quadrati di legno dove riponevamo nastri e nastrini, fiocchi e stoffe e la carta colorata per confezionare le piante e che aveva anche la funzione di dividere lo spazio del negozio da quello personale rappresentato dal corridoio che conduceva al bagno. Tra il bancone e la vetrina si trovava un ampio spazio riempito a destra e a sinistra da piante e fiori posizionati su cubi colorati di plastica. Era tutto come prima, era ancora visibile il tocco delle mie mani nell’ordine delle cose. Sospirai. Tutto ciò che avevo attorno, un tempo rappresentava la mia vita, ora non mi dava alcuna emozione. Piante e fiori colorati, che prima sapevano appassionarmi, ora rappresentavano semplicemente esseri qualsiasi del modo vegetale. Tornai verso il bancone ma il suono del caccia spiriti mi costrinse a voltarmi. Rimasi per un attimo ammutolita nell’osservare l’uomo che era appena entrato. E non ci misi molto a decretare che fosse di un fascino sconvolgente: capelli e occhi neri, labbra sottili e zigomi leggermente pronunciati. Nei particolari, ma anche nel complesso, il suo viso era assolutamente perfetto e più passavano i secondi con i miei occhi puntati su di lui, più questa perfezione risultava evidente.

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Indossava jeans scuri e una camicia bianca che metteva in risalto la sua carnagione abbronzata. Sebbene fosse vestito semplicemente non si faceva fatica a percepire la classe e l’eleganza del suo aspetto. Non era sicuramente qualcuno del quartiere. Strano che un tipo del genere fosse entrato lì dentro. Mi sentii imbarazzata, ma non si trattava del disagio per uno sguardo di pietà, bensì quello più banale di una donna che si trova davanti a un uomo pericolosamente affascinante e si rende conto di essere un vero e proprio disastro. Al di là del fatto che ero vestita con una semplice tuta da ginnastica, mi ero resa conto di aver lasciato legati i capelli e di conseguenza scoperta l’orribile cicatrice sulla mia guancia. Rimasi quasi sconvolta da questi miei pensieri perché nemmeno l’esperienza con Sam era riuscita totalmente a farmi ripensare a me come a una donna e non a una povera invalida dal volto deturpato. «Ciao» disse distogliendomi dai miei pensieri. Anche la sua voce era perfetta e adatta al suo aspetto. «Buongiorno» risposi io semplicemente, sperando che mia madre entrasse a breve dalla porta. Il cuore stava galoppando impazzito nel mio petto e una forte ansia si stava impadronendo di me. «Volevo… dei fiori» aggiunse continuando a guardarmi con un’espressione alquanto strana sul volto. Non sembrava pietà o compassione, ma semplice dispiacere; e nel mio caso il dispiacere era una visione della faccenda molto più ottimistica della compassione. I suoi occhi scuri erano talmente profondi che mi costrinsero a distogliere lo sguardo da lui e così interromperne l’analisi. «Mia madre sarà qui a momenti e potrà aiutarla…» dissi guardando speranzosa la porta. C’era qualcosa di strano, lui era strano. Era come se i fiori fossero l’ultima cosa a cui fosse interessato. La sua presenza mi inquietava. «Non puoi aiutarmi tu? Sono un po’ di fretta» mi disse guardandosi attorno e fingendosi interessato a colori e profumi. «Che fiori le servono?» chiesi allora, pensando che prima gli avrei dato quello che desiderava e prima se ne sarebbe andato. Si girò di scatto verso di me e si avvicinò di due passi. Se non avessi avuto il bancone dietro di me sarei retrocessa. Lui si irrigidì vedendo la mia espressione, e non avevo la minima idea di cosa ci fosse stampato sul mio viso, ma doveva essere qualcosa tipo paura o ansia; si allontanò un po’ perplesso e io mi vergognai di me stessa per la mia reazione. Ma che cosa mi stava capitando? Ero nervosa perché era bellissimo mentre io ero invalida e sfregiata in viso? O non ero più in grado di stare a

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contatto con le altre persone? Oppure ero convinta che il suo aspetto da bello e tenebroso nascondesse qualcosa? «Vorrei chiedere scusa a una persona» disse con voce suadente. Nel suo sguardo comparve un forte velo di sofferenza. Solo allora mi accorsi dei suoi occhi segnati dalla stanchezza e del velo di barba sul viso, che non potevano far parte della sua consueta immagine. Scossi la testa per tornare lucida e riprendermi dall’effetto ipnotico dei suoi occhi e della sua voce che era calda e melodiosa. «Se le interessa il significato in sé dei fiori, quelli per chiedere perdono sono i giacinti…» dissi indicando in un angolo il vaso con i fiori campanulati «ma se l’ha combinata grossa le consiglio delle rose rosse» aggiunsi, ritrovando per un attimo il buonumore pensando a quanto si potesse giocare con il significato dei fiori. Mi guardò intensamente e di nuovo provai il desiderio di scappare. «Ok, vada per le rose» disse lasciando trasparire nuovamente nei suoi occhi una profonda tristezza. Forse aveva perso la donna che amava e la voleva riconquistare? Ma come poteva un uomo così perdere qualcuno? Era inconcepibile… e io invece dovevo essere impazzita a starmene lì a fantasticare mentre lui mi osservava. «Quante?» chiesi abbassando gli occhi e dirigendomi verso il cubo giallo sul quale c’era il vaso con le rose. «Tutte» rispose lui con la sua voce melodiosa. Be’, non potevo definirla diversamente, era melodiosa, punto e basta. Mi resi conto in quel momento che anche se le avessi prese in mano non sarei riuscita a sistemargliele nella carta colorata, tutto era troppo in alto per me. Chiusi gli occhi per un brevissimo istante sperando che appena li avessi riaperti mi sarei accorta che mia madre era tornata. Ma così non fu. Mi voltai verso di lui che aspettava paziente e il mio sguardo doveva essere veramente frustrato perché fui subito certa che lui avesse capito cosa stessi pensando. Prese un foglio di carta verde, quella più semplice che tenevamo sopra il bancone di legno e me lo porse con disinvoltura, come se si trovasse completamente a suo agio lì dentro. «Mi vanno bene così, sono talmente belle che non hanno bisogno di nulla di appariscente» disse usando di nuovo quel tono dolce e melodioso che si scontrava con l’aspetto del suo viso così serio e, pensai di nuovo, tenebroso come un divo del cinema o uno dei personaggi oscuri dei libri che una volta amavo tanto leggere. Be’, se avessi dovuto immaginare come potesse essere nella realtà uno degli

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affascinanti vampiri ben descritti nei libri della mia autrice preferita, avrei sicuramente detto che avrebbe avuto il volto dello sconosciuto che mi stava osservando di nuovo incuriosito dal mio silenzio. Scossi la testa e stesi il foglio di carta sulle mie ginocchia; poi presi una a una le rose dal vaso e le avvolsi nella semplice carta verde. Appena gliele porsi la porta del negozio si aprì e mia madre entrò di fretta. Si fermò per un attimo a guardare lo sconosciuto, con un’aria che inizialmente mi sembrò preoccupata ma che scoprii quasi subito essere in realtà affascinata. Be’, come darle torto! Ero certa che nemmeno lei, in tutta la sua vita, avesse mai incontrato un uomo così bello da sembrare un angelo… o un demone. In quel momento tendevo più per il demone. «Mamma, puoi finire tu?» chiesi felice di avere una scusa per rifugiarmi nella mia camera. «Arrivederci» dissi poi rivolta a lui prima di spingere le ruote della mia sedia a rotelle fino alla camera. Sapevo che non avrei dovuto farlo, ma prima di entrare nella stanza mi fermai per un breve istante e incrociai il suo sguardo. Gli occhi profondi, un angolo della bocca impercettibilmente piegato in un sorriso che potevo solo definire irresistibile. E di nuovo quel velo di tristezza che forse nemmeno lui si rendeva conto di lasciare trasparire. Ma era davvero tristezza o faceva parte del suo essere affascinate e tenebroso? Un’ultima spinta e fui al sicuro nella mia stanza. Mi sembrò di non respirare finché non sentii la porta del negozio aprirsi e richiudersi e mia madre chiamarmi. «Amy, mi senti?» mi chiese affacciandosi alla porta. «Sì, mamma, ti sento» risposi guardando con sorpresa il grande sorriso che aveva sulle labbra. «Hai venduto tutte le rose, tesoro, complimenti! Ma quel bel tipo da dove è saltato fuori?» chiese stranamente euforica. Mi venne da ridere. «Mamma! Non ti sembra di essere un po’ troppo adulta per mostrare tutto questo entusiasmo?» esclamai accorgendomi di averlo fatto con un grande sorriso sulle labbra. Mia madre scoppiò a ridere, era da molto che non sentivo una risata così spontanea uscire dalla sua bocca. Da molto, da troppo. «Sciocca! Pensavo che, dopo lo sguardo che ti ha rivolto prima che tu venissi di qua, non passerà molto tempo prima che rimetta piede qui dentro» disse sedendosi sul letto.

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«Che stai dicendo mamma?» chiesi sentendo una morsa allo stomaco, non sapevo se fosse dovuta al pensiero che lui si ripresentasse o allo sguardo che mi aveva lanciato prima che io sparissi oltre la porta della mia stanza. Uno sguardo enigmatico che poteva contenere davvero tutto senza lasciar trasparire qualcosa in particolare. «Era affascinato da te, Amy, mi stupisce che tu non te ne sia accorta» disse mia madre convinta delle sue parole. Affascinato da me? Susan doveva essere ammattita; e pensare che avevo creduto di essere io quella pazza. «Io mi sono accorta che era un bel po’… inquietante» dissi ripensando ai suoi occhi così profondi da sembrare due voragini pronte ad attrarti e a farti prigioniera. «Inquietante?» chiese mia madre ridendo e alzandosi dal letto. «Credimi» disse poi avvicinandosi alla porta «scommetto che molto presto lo rivedremo.» Detto questo Susan uscì dalla mia stanza strizzandomi l’occhio. Per quanto le idee di mia madre potessero essere offuscate dall’amore che provava per me e dal dolore per la mia condizione, non potevo credere che fosse convinta di quanto diceva. Come poteva pensare che un individuo del genere si sentisse attratto da me? Un uomo così bello, così raffinato, che avrebbe potuto avere qualsiasi donna ai suoi piedi. Questo pensiero mi fece passare il buonumore, mi rigettò nella tristezza dalla quale mi ero per un attimo risvegliata. Mi pervase una sorta di inquietudine, un profondo senso di vuoto come se lui uscendo dal negozio si fosse portato via un po’ della mia essenza. C’era un qualcosa nei suoi occhi che mi aveva colpita, ma che non ero riuscita a decifrare fino in fondo e che… e che mi mancava. Era assurdo, ma mi mancava. Mi trasferii sul letto e mi lasciai cadere all’indietro sul cuscino. Sciolsi i capelli e li raccolsi con le mani portandoli poi davanti alla spalla sinistra. Accarezzandoli li sistemai in modo da coprire gran parte della mia guancia rovinata. Sentivo il bisogno di nascondere la cicatrice perfino a me stessa, anche se era un gesto del tutto stupido. Tutto il pomeriggio in negozio fu un via vai di gente e questo tenne impegnata Susan impedendole di venire nella mia stanza. E questo mi permise di sfogare le lacrime di cui mi sembrava di aver piena la testa. All’ora di cena il senso di pesantezza che sentivo sulla fronte e sulle tempie era sparito, ma i miei occhi erano gonfi e arrossati. Quando mia madre ebbe chiuso il negozio venne da me e subito si accorse delle lacrime versate. Sembrò non esserne stupita e subito capii che, a parte il fatto che aveva avuto il suo bel da fare con i clienti, non

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era venuta in camera mia per scelta. Lei sapeva e capiva sempre quello di cui avevo bisogno. L’unica cosa che non avrebbe mai capito era il mio desiderio, la mia necessità di addormentarmi per non svegliarmi mai più. «Non devi pensare che la tua vita sia finita qui, Amy» disse seria sedendosi sul bordo del mio letto. «E non devi pensare che nessuno possa amarti così come sei.» Aveva perfettamente capito che il suo giocare sugli sguardi dello sconosciuto aveva suscitato in me una forte tristezza. «Non posso fare a meno di pensarlo mamma» risposi io guardandola negli occhi. «Perché nemmeno io ho ancora imparato ad amarmi per come sono ora…» feci una breve pausa abbassando lo sguardo sulle mie gambe immobilizzate. «Comunque, tornando alle tue illazioni di oggi, sono convinta che un tipo come quello non si sarebbe potuto interessare a me neanche prima» aggiunsi sorridendo. «Secondo me non è nemmeno umano…» esclamai scoppiando a ridere. Mia madre sorrise annuendo. «Forse è davvero un angelo» disse con l’aria di chi fantastica guardando un film d’amore. Ridemmo tutte e due e questo portò un sacco di calore nella stanza. Era da molto che non succedeva, era da molto che noi due non ci perdevamo in confidenze e discorsi colmi di complicità. Poi mia madre tornò seria, mi accarezzò i capelli e mi disse: «Credi di meritare solo qualcuno tipo Sam? Che si fidanza e poi cerca altrove ciò che la sua donna non sa dargli? Perché se credi questo Amy, ti sbagli. Forse non sei più come prima, e non sto parlando del tuo corpo. Forse sei cambiata ma sono sicura che anche questa nuova Amy ha molte qualità.» Si chinò a baciarmi la fronte e poi si alzò per andare a preparare la cena. Lo strano incontro di quel giorno aveva in un certo senso riavvicinato me e mia madre. E io mi sorpresi a ringraziare in cuor mio l’affascinante sconosciuto.

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LUNEDI’ 18 MAGGIO Quello che aveva previsto Susan si verificò sul serio. Dopo un lungo week end di pioggia, che aveva abbattuto inesorabilmente il mio umore, leggermente migliorato dopo l’incontro con lo sconosciuto per via dei suoi effetti sul rapporto tra me e Susan, era finalmente cominciata un’altra settimana. E sottolineavo nella mia mente il finalmente perché si trattava della settimana in cui Terence sarebbe tornato a casa. Sarebbe arrivato solo il venerdì, ma il pensiero del suo ritorno mi avrebbe aiutato a far passare veloci tutti quei giorni che ci separavano. Il lunedì mattina Susan venne a svegliarmi con il vassoio della colazione pieno di cibo. Guardando fuori dalla finestra, e vedendo che ancora pioveva, il mio appetito, stimolato dal profumo delle brioches calde, scomparve. Tuttavia mi misi seduta e accontentai mia madre facendo colazione con lei. «Amy, pensavo che oggi probabilmente non ci sarà molta gente… potrei fare un salto dal parrucchiere, se tu te la senti di stare un po’ in negozio…» disse con cautela. Per poco il latte che stavo bevendo non mi andò per traverso. E non per la richiesta di Susan ma al pensiero di quello che era successo il venerdì prima. Non ero riuscita a cancellare l’immagine degli occhi scuri e profondi di quell’uomo dalla mia mente per tutto il week end e tanto meno il suono della sua voce, bassa, calda e suadente. «Se per te è un problema lasciamo stare, tesoro, andrò un’altra volta» aggiunse vedendo la mia reazione. «No, mamma, vai pure, sono sicura che stamattina non verrà nessuno» dissi sforzandomi di sembrare serena solo per non privarla ancora dei suoi piccoli momenti di libertà, ormai praticamente assenti da mesi. Susan sorrise entusiasta e finita la colazione mi accompagnò in bagno e mia aiutò con la doccia. In previsione del fatto che sarebbe potuto entrare qualcuno in negozio, mi ricordai di tenere sciolti i capelli. Col il pettine tracciai la riga a destra spostando così la maggior parte dei miei capelli dal colore del bronzo a sinistra. Essendo lunghi ma scalati e

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mossi in soffici onde, i capelli più corti coprivano gran parte della mia guancia segnata. Quando vidi mia madre che si preparava per uscire cominciai a sentire una sorta di ansia. Così presi il mio telefono e chiamai Sally per sapere come era andato il week end. A lei non avevo raccontato nulla del bellissimo sconosciuto che era entrato nel negozio la settimana prima ma in ogni caso lei intuì che le nascondevo qualcosa solo dal fatto che l’avevo chiamata: era una cosa che non facevo da molto tempo. Le inviavo qualche messaggio e rispondevo alle sue chiamate, ma era la prima volta dopo l’incidente che la cercavo per prima. Quando lei me lo fece notare mi sentii bene, sapevo di aver fatto una cosa che aveva fatto piacere a entrambe, e Sally ne era rimasta addirittura commossa. Mia madre uscì e io la salutai con un gesto della mano; poco dopo salutai anche Sally che stava per iniziare la sua giornata all’asilo in cui faceva la maestra. Mi infilai tra il bancone arancione e lo scaffale e presi qualche nastro e della carta dai ripiani più bassi. Poi uscii da quella sorta di corridoio e appoggiai tutto su uno dei cubi di plastica colorati posti su un lato della stanza. Almeno se fosse entrato qualcuno avrei potuto sistemare i fiori un po’ meglio dell’ultima volta. Il primo quarto d’ora passò tranquillo, non entrò nessuno e io mi sistemai dietro alla vetrina a osservare discretamente la gente che passava sotto una miriade di ombrelli colorati. Mi ritrovai a fare una sorta di classifica dei colori maggiormente presenti nella scena grigia del cielo piovoso, giusto per ingannare il tempo. La pioggia non cessava e tutto fuori era bagnato e gocciolante. Chiusi gli occhi un po’ insonnolita dalla visione del panorama cinereo oltre il vetro del negozio ma li riaprii subito al suono del caccia spiriti sopra la porta d’ingresso. Mi voltai quasi con timore ma non mi sentii affatto sorpresa di rivederlo. Aveva i capelli bagnati dalla pioggia che scendevano scomposti sui contorni del viso e gli occhi scuri accentuati dal grigio del cielo piovoso. Era completamente vestito di nero, con jeans e camicia, e sembrava ancora più bello e tenebroso della volta prima. «Ciao» disse con quella sua voce armoniosa che era risuonata nelle mie orecchie per tutto il week end. Mi sentii per un attimo infastidita, ancor più che sorpresa della sua presenza. Possibile che fosse una coincidenza che si fosse ripresentato per la seconda volta di fila in assenza di mia madre? Era come se si fosse piazzato lì fuori in attesa che io rimanessi sola. Scossi la testa

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lasciandolo per un attimo perplesso. Chissà che cosa pensava dei miei assurdi comportamenti. «Buongiorno» dissi infine con tono distaccato. Forse ero solo paranoica, forse era davvero una coincidenza, ma non mi fidavo, non riuscivo a fidarmi di quella persona e tanto meno a sentirmi tranquilla. Lui si incantò per un attimo a osservare i miei lunghi capelli sciolti, poi si ricompose e mi sorrise, un sorriso contenuto ma gentile. «Le rose non sono state sufficienti?» chiesi all’improvviso per spezzare quella strana atmosfera che aleggiava nella stanza. Lui mi guardò perplesso. «Non doveva farsi perdonare per qualcosa?» gli ricordai sospettando che quella storia se la fosse inventata. «Ah… no, non sono state sufficienti, ma non importa… in realtà sono qui per comprare dei fiori a mia sorella che compie quindici anni» disse guardandosi attorno con fare elegante. La storia della sorella, non so in base a quali parametri del mio cervello, mi sembrò vera, così mi concentrai sul trovare i fiori adatti a una neo quindicenne. Questa cosa avrebbe distolto i miei pensieri dai sospetti su di lui. Passai in rassegna diversi tipi di fiori, optando poi per delle gazanie viola, a mio parere i fiori ideali per una ragazza così giovane. «Sono della stessa famiglia delle margherite ma più vivaci» dissi indicandogli i fiori freschi nel vaso che Susan era andata a prendere il sabato mattina. Lui li osservò per un istante e poi tornò a guardarmi sorridendo. «Se non mi sbaglio l’altra volta mi hai detto che i fiori hanno un loro significato» disse curioso. «Sì… le margherite rappresentano la semplicità, l’innocenza, la spontaneità, la freschezza e la purezza. Adatte a una quindicenne, no? Il viola di questi fiori però ne attenua un po’ il significato, perché a quell’età affiorano anche la sensualità, la malizia» spiegai cercando di capire dove volesse arrivare. Lui sorrise di nuovo, il suo volto si distese e i suoi occhi profondi risultarono ancora più attraenti. «Sì, devo dire che la scelta è quella giusta, sono proprio adatti al caratterino di Jessica» disse con aria affascinata. Distolsi lo sguardo dal suo viso e recuperai della carta gialla da dove l’avevo disposta poco prima. Viola e giallo erano il giusto contrasto per dare un tocco in più a quel regalo. Lui rimase a osservare tutti i miei

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gesti e fui felice di constatare che i movimenti delle mie mani erano ancora agili e veloci nell’incartare i fiori. «Ho letto nel cartello sulla porta che preparate anche decorazioni per feste di ogni genere… Ho promesso a Jessica che per il suo compleanno le avrei organizzato una festa indimenticabile» disse appoggiando i fiori sul bancone e sedendosi su un cubo colorato di fronte a me. Quel gesto mi fece retrocedere anche se di pochissimi centimetri. Lui se ne accorse ma fece finta di niente, anche e io scorsi nuovamente del dispiacere sul suo viso. Non capivo perché mi sentissi in quel modo. Avvertivo disagio nello stare in mezzo alla gente, anzi, odiavo la folla e sentire gli sguardi su di me o dover rispondere a stupide domande su quello che mi era accaduto. Per questo non uscivo di casa, mi erano bastate le visite in ospedale. Ma le reazioni che avevo in presenza di quell’uomo erano incomprensibili anche per me. Sembrava che ne avessi paura o che una forza misteriosa cercasse di tenermi il più possibile lontano da lui. «Per il momento non ci occupiamo più di allestimenti, mia madre è troppo impegnata e… prima ero io a farlo, ma ora non più» dissi guardandolo negli occhi per convincere me stessa che presto quell’uomo sarebbe uscito dal negozio e dai miei pensieri. «Potresti fare un’eccezione, no?» chiese fissandomi intensamente. «Ci sono tantissime altre fiorerie in questa città» esclamai con un tono acido e scortese che mi sorprese e mi costrinse a cercare di nuovo i suoi occhi per chiedere tacitamente scusa. Lui sorrise debolmente e si alzò in piedi. In quel momento provai qualcosa che mi lasciò senza fiato per la sua inaspettata violenza: paura, paura che uscisse dalla porta e non si facesse più vivo. D’altronde, come dargli torto dopo il modo in cui gli avevo risposto? In fin dei conti era un cliente e io non avevo il diritto di scaricare su di lui le mie frustrazioni e il mio stato d’animo sempre più a digiuno di emozioni positive. «Lo so. È che, come ti ho già detto, trovo questi fiori assolutamente adatti a Jessica e il tuo intuito mi ha fatto pensare che saresti la persona adatta a far sì che la sua festa sia indimenticabile. A quell’età certe cose sono davvero tutto» disse serio, ma con il suo solito tono melodioso e cortese.

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Non potevo che dargli ragione. A quindici anni era giusto sognare e vivere tutte quelle emozioni, semplici o complesse che nell’età adulta non sarebbero state più le stesse. Mi sembrava assurdo lasciarmi convincere a ricominciare a fare qualcosa che avevo ormai abbandonato solo per sapere felice una ragazzina, che tra l’altro non conoscevo, che probabilmente aveva già tutto dalla vita, mentre i miei sogni erano infranti. Lei avrebbe sicuramente avuto tante altre feste, mille progetti da realizzare, una vita piena e felice, io sarei stata per sempre infelice. Sentii gli occhi bruciarmi dalle lacrime che cercavo di trattenere e che insistevano per scendere. «Non c’è comunque il tempo necessario, dovrei avere almeno delle foto della stanza, il tempo di pensare a cosa metterci dentro… non…» dissi cercando di resistere alla tentazione di accettare perché sapevo che lo avrei fatto per lui e non per sua sorella. «La festa sarebbe sabato e domani potrei farti avere le foto su supporto digitale» esclamò lui speranzoso. Trattenni per un attimo il respiro e poi lo rilasciai facendo uscire un «okay» dalle mie labbra. «Puoi lasciare le foto a mia madre, e passare mercoledì mattina per vedere se può andarti bene il progetto perché poi dobbiamo ordinare il materiale e serviranno un paio di giorni…» Non potevo credere di avere appena accettato quel lavoro. «Fantastico» disse lui con un sorriso dolce sulle labbra pallide. «Posso sapere il tuo nome?» chiese poi porgendomi la mano. Io esitai ma poi gliela strinsi sentendola calda e morbida. «Amy» risposi ritraendo subito la mia mano. «È un bellissimo nome» disse con voce suadente. «Io sono Christopher» aggiunse pronunciando il suo come se fosse una armoniosa serie di note musicali. «Allora a domani» disse porgendomi i soldi dei fiori e prendendo il mazzo di gazanie. In quel momento entrò Susan e io mi sentii assurdamente in imbarazzo. Assurdamente perché nemmeno quando mi aveva sorpresa con Sam mi ero sentita in quel modo. Mia madre parve piacevolmente sorpresa della presenza di Christopher «che strano pensare a lui chiamandolo con il suo nome» e subito gli sorrise e lo salutò gentilmente. Poi sparì nel corridoio che portava al bagno ansiosa di lasciarci soli, cosa che non mi sarei mai aspettata da lei. Scossi la testa con una smorfia e questo mio gesto fece ridere il mio affascinante cliente. Io arrossii vistosamente e affrettai i saluti sperando che se ne andasse. E così fece: mi salutò con

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un caldo sorriso e sparì oltre alla porta e io tornai a rivedere in quel momento il grigio del cielo piovoso oscurato fino a quel momento dalla sua presenza. «A domani?» chiese mia madre avvicinandosi quasi di corsa e sedendosi sullo stesso cubo sul quale poco prima si era seduto lui. Sembrava una quindicenne che parla con la sua amichetta di un appuntamento col ragazzino più carino della scuola. Scossi nuovamente la testa e alzai gli occhi al soffitto. «Mamma, ma cosa hai capito?» chiesi con esasperazione. «Devo solo preparare delle decorazioni per la festa di sua sorella» spiegai con indifferenza sapendo che questa cosa l’avrebbe lasciata senza parole. E in effetti fu così, mia madre si bloccò con un sorriso incredulo sulle labbra. I suoi occhi si inumidirono e la sua bocca cominciò a tremare. «Dici sul serio?» chiese con la voce emozionata. «È un’eccezione mamma… e forse non avrei dovuto nemmeno accettare…» specificai rigirando un pezzetto di nastro colorato tra le mani. «Non importa che si tratti di un’eccezione, Amy, io ne sono davvero felice» disse lasciando cadere le lacrime trattenute fino a quel momento. «Mamma, non fare così… non voglio che tu t’illuda che le cose siano cambiate… non lo so nemmeno io perché ho accettato; farò questo lavoro ma come ti ho già detto si tratta di un’eccezione. Posso aiutarti in qualsiasi altro modo, mamma, ma non mi voglio più occupare di ricevimenti o cose simili. Non voglio vedere la felicità degli altri…» Susan fece per replicare ma poi scelse di non farlo e di concentrarsi solo su quell’eccezione. «Strano però che si presenti sempre quando io non ci sono…» disse fingendosi pensosa. «L’ho pensato anch’io mamma, te l’ho detto che quel tipo è inquietante» risposi sollevata dall’idea di non essere l’unica paranoica in famiglia. «Continuo a sostenere che sia affascinante, non inquietante» esclamò Susan alzandosi per baciarmi la fronte. Diversamente dal solito le tenni compagnia in negozio quella mattina, anche se quando vedevo passare qualcuno davanti alla vetrina cercavo una scusa per allontanarmi. Non riuscivo a non pensare a Christopher «di nuovo quella strana sensazione nel pensare a lui con il suo nome» e a come era riuscito a estorcermi quell’«okay.» Era stata la sua voce

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melodiosa e suadente, o erano stati i suoi occhi di ossidiana, profondi e ipnotici? Era stato sicuramente qualcosa in lui, perché se me lo avesse chiesto chiunque altro mai e poi mai avrei ceduto. In verità nessun altro avrebbe avuto l’occasione di propormi un lavoro simile perché non sarei stata a badare al negozio se quella mattina non avessi avuto lo strano presentimento che lo avrei rivisto. E dentro ero spaccata in due: una parte di me voleva allontanarsi il più possibile dalla sua immagine, dalla sua voce e dal suo sguardo, e questo per evitare inutili e ulteriori sofferenze, mentre l’altra parte si sentiva attratta da lui e assettata della sua presenza. Su entrambe le parti però dovevo far dominare la ragione e quello che la ragione mi diceva era che dovevo tenere Christopher lontano da me. All’ora di pranzo mia madre salì al piano superiore e si mise a cucinare canticchiando; avevo paura che si illudesse che la strada in salita fosse terminata e che poi restasse delusa della verità, ma allo stesso tempo non me la sentivo di rattristarla con i miei pensieri, per cui avevo deciso di lasciarle godere quel raro momento di serenità. Era come se lei percepisse che qualcosa fosse cambiato nella mia vita, nella nostra vita, come se vedesse nell’incontro con Christopher un inizio. Ma io non la vedevo allo stesso modo. Avevo smesso già da tempo di credere nelle favole e nonostante ammettessi a me stessa che quell’uomo mi aveva affascinata invadendo continuamente i miei pensieri, sapevo perfettamente che il tutto finiva lì. Non avevo la minima intenzione di approfondire la sua conoscenza perché era assurdo pensare che un uomo simile potesse essere interessato ad approfondire la mia. Preferivo credere che fosse capitato nel nostro negozio per caso e che gli fosse piaciuto e negavo ogni possibilità che potesse essere interessato a me come invece sosteneva mia madre. Il canticchiare di Susan divenne improvvisamente fastidioso per le mie orecchie e con le mani le tappai in un gesto infantile. Perché mi faceva tanto male pensare che lui non potesse essere interessato a me quando la ragione me lo aveva ribadito con indifferenza fin dall’inizio? Perché prima essere triste, pessimista e senza speranza mi era in un certo senso facile mentre ora mi faceva stare così male? FINE ANTEPRIMACONTINUA...