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Traduzione a cura di The Books We Want To Read Link pagina: https://www.facebook.com/The-books-we-want-to-read- 258712084286861/ Link sito: http://thebookswewantoread.altervista.org/

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Traduzione a cura di The Books We Want To Read

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258712084286861/

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INDICE

CAPITOLO 1

CAPITOLO 2

CAPITOLO 3

CAPITOLO 4

CAPITOLO 5

CAPITOLO 6

CAPITOLO 7

CAPITOLO 8

CAPITOLO 9

CAPITOLO 10

CAPITOLO 11

CAPITOLO 12

CAPITOLO 13

CAPITOLO 14

CAPITOLO 15

CAPITOLO 16

CAPITOLO 17

CAPITOLO 18

CAPITOLO 19

CAPITOLO 20

CAPITOLO 21

CAPITOLO 22

CAPITOLO 23

CAPITOLO 24

CAPITOLO 25

CAPITOLO 26

CAPITOLO 27

CAPITOLO 28

CAPITOLO 29

CAPITOLO 30

CAPITOLO 31

CAPITOLO 32

CAPITOLO 33

CAPITOLO 34

CAPITOLO 35

CAPITOLO 36

CAPITOLO 37

CAPITOLO 38

CAPITOLO 39

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CAPITOLO 1 JULIETTE

Traduzione: Veru

Non mi sveglio più urlando. Non mi sento male alla sola vista del sangue. Non

sussulto prima di sparare un colpo.

Non mi scuserò mai più per essere sopravvissuta.

Eppure...

Vengo spaventata dal suono di una porta che si apre. Soffoco un singulto, mi volto

e, per abitudine, la mano corre sull'elsa della semiautomatica risposta in una fondina

assicurata al mio fianco.

«J, abbiamo un problema serio.»

Kenji mi fissa, gli occhi socchiusi e le mani sui fianchi, la t-shirt tesa sul petto.

Questo è un Kenji arrabbiato. Preoccupato. Sono passati sedici giorni da quando

abbiamo preso possesso del Settore 45, da quando mi sono autoproclamata

Comandante Supremo della Restaurazione, e tutto è stato tranquillo.

In maniera sconcertante. Ogni giorno mi sveglio, in parte spaventata, in parte

euforica, e attendo ansiosamente le inevitabili missive da parte delle nazioni nemiche

che sfideranno la mia autorità e ci dichiareranno guerra. Sembra che finalmente quel

momento sia arrivato. Perciò respiro profondamente, faccio schioccare il collo e

guardo Kenji negli occhi.

«Dimmi.»

Lui stringe le labbra. Guarda il soffitto. «Okay, allora...prima di tutto voglio che tu

sappia che non è colpa mia, ci siamo? Stavo solo cercando di dare una mano.»

Esito. Aggrotto le sopracciglia. «Cosa?»

«Voglio dire, sapevo che quell'imbecille era una prima donna all'ennesima potenza,

ma questo va ben oltre il ridicolo...»

«Scusa, che cosa?» Rimuovo la mano dall'arma; sento il mio corpo rilassarsi.

«Kenji, di cosa stai parlando? Non si tratta della guerra?»

«La guerra? Cosa? J, ma mi stai ascoltando? Il tuo ragazzo è in preda a una

dannatissima crisi di nervi al momento, e tu devi fargli dare una calmata prima che lo

faccia io.»

Espiro, irritata. «Sei serio? Ancora con queste idiozie? Gesù, Kenji.» Mi sfilo la

fondina e la lancio sul letto alle mie spalle. «Che hai fatto questa volta?»

«Visto?» Kenji mi punta il dito contro. «Hai visto? Perché sei così veloce nel

giudicare, eh, principessa? Perché presumere che sia stato io a fare qualcosa di

sbagliato? Perché proprio io?» Incrocia le braccia al petto e abbassa la voce. «Sai,

volevo parlarti di questa cosa già da un po', in realtà, perché penso seriamente che, in

quanto Comandante Supremo, tu non dovresti mostrare un simile trattamento

preferenziale, ma chiaramente...»

Kenji si immobilizza all'improvviso.

Al suono della porta che si apre le sue sopracciglia si inarcano; un piccolo click e i

suoi occhi si spalancano; un fruscio smorzato e d'un tratto la canna di una pistola

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preme dietro la sua testa. Kenji stringe i pugni tremanti mentre mi fissa, le sue labbra

non emettono suoni mentre bisbiglia la parola psicopatico ancora e ancora.

Lo psicopatico in questione ammicca nella mia direzione, sorridendo come se non

stesse puntando una pistola contro la testa del nostro comune amico. Riesco a

reprimere una risata.

«Continua» lo esorta Warner, ancora sorridente. «Ti prego, dimmi esattamente

come avrebbe fallito in quanto leader.»

«Ehi!» Le braccia di Kenji si sollevano mimando una resa. «Non ho mai detto che

lei ha fallito in qualcosa, okay? E tu stai ovviamente esagerando...»

Warner colpisce Kenji sul lato della testa con la pistola. «Idiota.»

Kenji si volta. Strappa via la pistola dalla mano di Warner. «Che diavolo hai che

non va, amico? Pensavo fossimo a posto.»

«Lo eravamo» risponde Warner, gelido. «Finché non mi hai toccato i capelli.»

«Sei stato tu a chiedermi di tagliarli...»

«Non ho detto niente del genere! Ti ho chiesto di spuntarli!»

«Ed è quello che ho fatto.»

«Questo» replica Warner, girando su se stesso così che io possa ispezionare il

danno, «non è spuntare, tu coglione incompetente...»

Io sussulto. La parte posteriore della testa di Warner è un groviglio di lunghezze

diseguali; intere ciocche sono state tagliate via.

Kenji fa una smorfia una volta visto il proprio operato. Si schiarisce la voce.

«Bene» dice, mettendosi le mani in tasca. «Voglio dire...in ogni caso, amico, la

bellezza è soggettiva...»

Warner gli punta contro un'altra pistola.

«Ehi!» Grida Kenji. «Non voglio essere parte di questa relazione abusiva, okay?»

Indica Warner. «Non mi sono arruolato per questa merda!»

Warner lo guarda e Kenji indietreggia, ritirandosi dalla stanza prima che Warner

abbia un'altra possibilità di reagire; e proprio mentre mi lascio sfuggire un sospiro di

sollievo, Kenji riaffaccia la testa dalla porta e dice:

«Penso che il taglio sia carino, in realtà.»

E Warner gli sbatte la porta in faccia.

Benvenuti nella mia nuova vita come Comandante Supremo della Restaurazione.

Warner sta ancora guardando la porta chiusa quando espira, le sue spalle si liberano

immediatamente della tensione, e io riesco a vedere più chiaramente il disastro che ha

fatto Kenji.

I folti e bellissimi capelli dorati di Warner – parte integrante della sua bellezza -

falciati da mani incuranti.

Un disastro.

«Aaron» dico dolcemente.

Lui china il capo.

«Vieni qui.»

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Si gira e mi guarda con la coda dell'occhio, come se avesse fatto qualcosa di cui

dovrebbe vergognarsi. Sposto le pistole dal letto e gli faccio spazio accanto a me.

Sprofonda nel materasso con un triste sospiro.

«Sono orribile» dice piano.

Scuoto la testa, sorridendo e toccandogli la guancia. «Perché hai lasciato che ti

tagliasse i capelli?»

Warner mi guarda, con i suoi occhi grandi, verdi e perplessi. «Mi hai detto di

passare del tempo con lui.»

Rido sonoramente. «Quindi hai lasciato che Kenji ti tagliasse i capelli?»

«Non gli ho permesso di tagliarmi i capelli» replica, accigliato. «È stato» esita, «è

stato un gesto di cameratismo. Un atto di fiducia che so essere comune nel rapporto

tra soldati. Comunque» dice, voltandosi dall'altra parte, «non è che io abbia grandi

esperienze su come si costruisce un'amicizia.»

«Beh» dico, «noi siamo amici, no?»

Davanti questa affermazione sorride.

«E quindi?» Insisto. «È stato bello, no? Stai imparando a essere più gentile con le

persone.»

«Sì, beh, io non voglio essere più gentile con le persone, non è da me.»

«Io penso che sia assolutamente da te.» Dico, raggiante. «Amo quando sei

gentile.»

«Ma davvero.» Quasi ride. «Essere gentile non mi viene naturale, amore. Devi

essere paziente con i miei progressi.»

Prendo la sua mano nella mia. «Non capisco di che cosa tu stia parlando. Sei

perfettamente gentile con me.»

Scuote la testa. «Lo so, ho promesso che avrei fatto lo sforzo di essere più gentile

con i tuoi amici, e continuerò a sforzarmi, ma spero di non averti lasciato credere che

io sia capace di fare l'impossibile.»

«Cosa intendi?»

«Solo che spero di non deluderti. Sotto pressione, potrei riuscire a generare un

certo grado di calore, ma dovresti sapere che non ho interesse nel trattare nessuno nel

modo in cui tratto te. Questo» dice, indicando lo spazio che ci divide, «è un'eccezione

a una regola molto severa.» I suoi occhi sono sulle mie labbra adesso; la sua mano sul

mio collo. «Questo» continua sommessamente, «è molto, molto insolito.»

Mi blocco.

Smetto di respirare, parlare, pensare...

Mi ha a malapena sfiorata e il mio cuore sta battendo forte, i ricordi si affollano

nella mente, scaldandomi a ondate: il peso del suo corpo sul mio, il sapore della sua

pelle, il calore del suo tocco, i suoi respiri affannosi e le cose che mi ha detto solo al

buio

Le farfalle mi invadono le vene e io le costringo a uscire.

É ancora tutto così nuovo, il suo tocco, la sua pelle, il suo profumo. Così nuovo,

così nuovo e così necessario...

Lui sorride, inclina la testa; io imito il suo movimento e con un leggera

inspirazione, le sue labbra si schiudono e io resto ferma, i polmoni che annaspano per

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l'ossigeno, le dita percepiscono il tessuto della sua maglia e ciò che accadrà dopo,

quando lui dice: «Dovrò radermi la testa, lo sai»

e si allontana.

Sbatto le palpebre e lui ancora non mi sta baciando.

«Ed è mia sincera speranza» dice, «che tu mi amerai ancora al mio ritorno.»

Poi si alza e va via, e io sono lì a contare su una mano il numero di uomini che ho

ucciso, riflettendo con stupore quanto poco quell'esperienza mi abbia aiutata nel

mantenere il controllo in presenza di Warner.

Annuisco una volta quando mi rivolge un cenno di saluto, riacquisisco il mio buon

senso momentaneamente disperso, e mi sdraio sul letto. Ho la testa che mi gira e le

complicazioni della guerra e della pace occupano i miei pensieri.

Non pensavo che sarebbe stato tanto facile essere un leader, ma pensavo sarebbe

stato più facile di così:

Sono continuamente tormentata dai dubbi riguardanti le decisioni che ho preso.

Sono ridicolmente sorpresa ogni volta che un soldato esegue i miei ordini. E sono

sempre più terrorizzata perché noi, io, dovrò uccidere molte, molte altre persone

prima che il mondo sia sistemato. Tuttavia credo sia il silenzio, più di ogni altra cosa,

ad avermi lasciata scossa.

Sono passati sedici giorni.

Ho fatto discorsi su ciò che verrà, sui nostri piani per il futuro; abbiamo tenuto

memoriali per le vite perse sul campo, stiamo mantenendo le promesse di attuare dei

cambiamenti. Castle, fedele alla sua parola, lavora sodo, e sta provando a risolvere i

problemi riguardanti l'agricoltura, l'irrigazione e, più urgentemente, il miglior modo

di trasferire i civili dai comprensori.

Ma questo sarà un lavoro da eseguire in diverse fasi; sarà un lavoro lento e

consapevole, una battaglia per la terra che potrebbe durare un secolo. Penso che ne

siamo tutti consapevoli. E se l'unico problema fossero i civili, non mi preoccuperei

così tanto. Ma mi preoccupo perché so bene che nulla può essere fatto per sistemare

questo mondo se sprechiamo i nostri prossimi decenni a farci guerra tra noi.

In ogni caso, sono pronta a combattere.

Non è ciò che voglio, ma andrei volentieri in guerra se è ciò che serve per la

transizione. Spero solo che sia più semplice. Attualmente, il mio più grande problema

è anche quello più nebuloso:

Le guerre richiedono un nemico, e io non riesco a trovarne.

Sedici giorni dopo aver piantato una pallottola in fronte ad Anderson non ho

ancora incontrato nessuna forma di opposizione. Nessuno ha provato ad arrestarmi.

Nessun altro Comandante Supremo mi ha sfidato. Dei 554 Settori rimasti in questo

continente, neanche uno ha disertato, dichiarato guerra, o parlato male di me.

Nessuno ha protestato; le persone non sono insorte. Per qualche ragione, La

Restaurazione sta al gioco.

Gioca a fingere.

E mi innervosisce profondamente.

Ci troviamo in uno strano stallo, bloccati in una zona neutrale mentre io vorrei

disperatamente fare qualcosa di più. Di più per la gente del Settore 45, per il Nord

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America, e per il mondo intero. Ma questa strana quiete ci ha spiazzati. Eravamo così

sicuri che, con la morte di Andrerson, altri Comandanti Supremi sarebbero insorti -

costringendo i loro eserciti a distruggerci - a distruggermi.

Invece, i leader del mondo hanno reso palese la nostra insignificanza: ci hanno

ignorati come farebbero con una mosca fastidiosa, imprigionandoci sotto un vetro,

dove siamo liberi di girare in tondo sbattendo le ali spezzate contro il vetro finché

l'ossigeno non sarà consumato. Il Settore 45 è stato lasciato a fare ciò che vuole; ci è

stata consentita l'autonomia e l'autorità di rivedere le infrastrutture del nostro settore

senza interferenze. Tutti gli altri luoghi – e tutti gli altri Comandanti – si stanno

comportando come se nulla nel mondo fosse cambiato. La nostra rivoluzione è

avvenuta nel vuoto. La nostra vittoria è stata talmente minimizzata, che potrebbe

benissimo non esistere.

Giochetti mentali.

Castle mi fa spesso visita e mi dà consigli. Essere pro attiva, prendere il

sopravvento, era stato un suo suggerimento. Invece di aspettare, in ansia e sulla

difensiva, avrei dovuto farmi avanti, ha detto. Prendere parte alle trattative. E tentare

di formare alleanze prima di attaccare. Mettermi in contatto con gli altri cinque

Comandanti Supremi del mondo.

Potevo anche essere la voce del Nord America – ma il resto del mondo? Il Sud

America? L'Europa? L'Asia? L'Africa? L'Oceania?

Ospita una conferenza internazionale di leader, ha detto.

Parla.

Mira prima di tutto alla pace.

«Staranno morendo di curiosità» ha detto. «Una ragazza diciassettenne che

conquista il Nord America? Una teenager che uccide Anderson e dichiara se stessa

sovrana di questo continente? Signorina Ferrars..lei ha un grande potere in questo

momento! Lo usi a suo vantaggio!»

«Io?» Ho risposto, stupefatta. «Come faccio ad avere potere?»

Castle sospira. «Lei è sicuramente coraggiosa per la sua età, signorina Ferrars, ma

mi dispiace vedere che la sua giovinezza sia così inesorabilmente legata

all'inesperienza. Proverò a dirlo chiaramente: lei ha una forza sovrumana, una pelle

quasi invincibile, un tocco letale, 17 anni appena e ha abbattuto da sola il despota di

questa nazione. E ancora dubita di essere capace di intimidire il mondo?»

Rabbrividisco.

«Vecchie abitudini, Castle» ho detto sommessamente. «Cattive abitudini. Ha

ragione, ovviamente. Ovviamente ha ragione.»

Mi ha rivolto uno sguardo diretto. «Deve capire che l'unanime, collettivo silenzio

dei suoi nemici non è una coincidenza. Sicuramente si saranno messi in contatto tra

loro e concordato questa linea di azione, in attesa di vedere cosa farà lei dopo.»

Scuote la testa, «stanno aspettando la sua prossima mossa, signorina Ferrars. La

imploro di farne una valida.»

Quindi sto imparando.

Ho fatto come mi ha suggerito e tre giorni fa ho mandato un messaggio attraverso

Delalieu e ho contattato gli altri cinque Comandanti Supremi della Restaurazione. Li

ho invitati a partecipare qui, nel settore 45, a una conferenza internazionale dei leader

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il prossimo mese.

Quindici minuti prima che Kenji entrasse nella mia stanza, ho ricevuto la prima

risposta.

L'Oceania ha detto di sì.

E non sono sicura di cosa possa significare.

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CAPITOLO 2 WARNER

Traduzione: Fra

Ultimamente non sono più me stesso.

La verità è che non lo sono da così a lungo che ho inziato a domandarmi se me ne

sia mai reso conto. Fisso lo specchio senza batter ciglio, mentre il ronzio del rasoio

elettrico riecheggia nella stanza. Il mio volto è a malapena riflesso, ma è sufficiente

per farmi capire che ho perso peso. Le guance sono incavate; gli occhi, sgranati; gli

zigomi, più pronunciati. I miei gesti sono, allo stesso tempo, desolati e meccanici

mentre taglio via i capelli, che cadono ai miei piedi come i residui della mia vanità.

Mio padre è morto.

Chiudo gli occhi, preparandomi ad accogliere la sgradita sensazione che ho nel

petto, il rasoio ancora stretto in pugno.

Mio padre è morto.

Sono passate solo due settimane da quando è stato ucciso, da quando gli sono stati

sparati due colpi in testa da qualcuno che amo. Uccidendolo mi ha fatto un favore. È

stata più coraggiosa di quanto io sia mai stato, premendo il grilletto quando io non ci

sarei mai riuscito. Era un mostro. Meritava il peggio.

E comunque…

Questo dolore.

Faccio un profondo respiro e sbatto le palpebre, grato per quella solitudine; grato,

in qualche modo, per l’opportunità di poter strappar via qualcosa da me stesso, dalla

mia carne. C’è un qualcosa di stranamente catartico in questo.

Mia madre è morta, penso, mentre mi passo il rasoio lungo il cranio. Mio padre è

morto, penso, mentre i capelli cadono sul pavimento. Tutto quello che ero, tutto

quello che ho fatto, tutto quello che sono, è stato creato dall’insieme delle loro azioni

e inazioni.

Chi sono, mi chiedo, senza di loro?

Testa rasata, rasoio spento. Poggio i palmi contro i bordi dello specchio, cercando

di vedere di sfuggita l’uomo che sono diventato. Mi sento vecchio e inquieto, mente e

cuore in guerra. Le ultime parole che ho detto a mio padre…

«Ehi.»

Il mio cuore accelera mentre mi volto; simulo indifferenza in un istante. «Ciao»

dico, costringendo le membra a essere salde e forti mentre mi spazzolo via le ciocche

di capelli dalle spalle.

Mi sta guardando con gli occhi spalancati, bellissimi e preoccupati.

Mi ricordo di sorridere. «Come sto? Non troppo terribile, spero.»

«Aaron» dice piano. «Stai bene?»

«Sto bene» dico, e guardo di nuovo lo specchio. Passo una mano lungo il morbido

e insieme appuntito centimetro di capelli che ho lasciato, chiedendomi come faccia

questo taglio a farmi sembrare più duro e più freddo di prima. «Confesso che stento a

riconoscermi.» Aggiungo a voce alta, cercando di ridere. Sono in piedi nel bel mezzo

del bagno con indosso solo i boxer. Il mio corpo non è mai stato più magro, le linee

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dei muscoli non sono mai state più definite; e l’asprezza del mio corpo è ora

combinata con il rude taglio di capelli, in un modo quasi incivile… e così diverso dal

solito me che devo distogliere lo sguardo.

Juliette adesso è davanti a me.

Poggia le mani sui miei fianchi e mi tira avanti; incespico un po’ mentre faccio ciò

che vuole. «Che stai facendo?» Inizio a chiedere, ma quando incontro il suo sguardo

vi trovo tenerezza e preoccupazione. Qualcosa dentro di me si scioglie. Le mie spalle

si rilassano e l'attiro a me, inspirando a fondo.

«Quando ne parleremo?» Dice contro il mio petto. «Di tutto? Quello che è

successo…»

Sussulto.

«Aaron.»

«Sto bene» mento. «Sono solo capelli.»

«Sai che non è di questo che sto parlando.»

Guardo altrove. Fisso il vuoto. Stiamo entrambi in silenzio per un attimo.

È Juliette a rompere infine il silenzio.

«Sei arrabbiato con me?» Sussurra. «Per avergli sparato?»

Il mio corpo si immobilizza.

I suoi occhi si allargano.

«No… no» dico le parole troppo in fretta, ma è quello che intendo davvero. «No,

certo che no. Non è questo.»

Juliette sospira.

«Non credo che tu ne sia consapevole» dice alla fine, «ma va bene piangere la

morte di tuo padre, anche se era una persona terribile. Lo sai?» Alza lo sguardo su di

me. «Non sei un robot.»

Caccio indietro il nodo che ho in gola e mi districo gentilmente dalle sue braccia.

La bacio sulla guancia e mi soffermo lì, sulla sua pelle, solo per un secondo. «Ho

bisogno di una doccia.»

Lei sembra confusa e ferita, ma non so che altro fare. Non è che non ami la sua

compagnia, e solo che adesso ho un disperato bisogno di solitudine e non so in che

altro modo trovarla.

Quindi mi faccio delle docce. Dei bagni. Faccio lunghe passeggiate.

Tendo a farlo spesso.

Quando finalmente vado a letto lei già dorme.

Voglio raggiungerla, accostare il suo corpo caldo e morbido al mio, ma sono come

paralizzato. Questo terribile mezzo lutto, al buio, non fa altro che farmi sentire

complice. Mi preoccupa il fatto che la mia tristezza sarà interpretata come un

sostegno verso le sue scelte, verso la sua stessa esistenza, e su questo non voglio

essere frainteso, per questo non posso ammettere di essere in lutto, che piango la

perdita del mostruoso uomo che mi ha cresciuto. E senza saper cosa fare rimango

congelato, una pietra senziente sulla scia della morte di mio padre.

Sei arrabbiato con me? Per avergli sparato?

Lo odiavo.

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Lo odiavo con un’intensità che non avevo mai provato prima. Ma il fuoco

dell’odio, ho realizzato, non può esistere senza l’ossigeno dato dall’amore. Non sarei

stato ferito così tanto, o non avrei odiato così tanto, se non ci avessi tenuto.

E questo, l’affetto non corrisposto verso mio padre, è sempre stato la mia più

grande debolezza. Quindi sto qui, sdraiato, perso in un dolore di cui non posso

parlare, mentre il rimpianto mi consuma il cuore.

Sono un orfano.

«Aaron?» Sussurra lei, riportandomi al presente.

«Sì, amore?»

Si muove in maniera assonnata di lato, dandomi un colpetto sul braccio con la

testa. Non posso far altro che sorridere mentre le faccio spazio. Riempie il vuoto

velocemente, premendo il viso contro il mio collo mentre avvolge un braccio attorno

alla mia vita. I miei occhi si chiudono come se stessi pregando. Il mio cuore riparte.

«Mi manchi» dice. È un sussurro a malapena udibile.

«Sono qui» le rispondo, carezzandole piano la guancia. «Sono proprio qui, amore.»

Ma lei scuote la testa. Anche quando la stringo di più a me, anche mentre si

riaddormenta, scuote la testa.

E io mi chiedo se non abbia ragione.

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CAPITOLO 3 JULIETTE

Traduzione: Giorgia P.

Sto facendo colazione da sola questa mattina, sola, ma non in solitudine.

La sala dove facciamo colazione è piena di volti familiari, e ciascuno cerca di

recuperare qualcosa: sonno, lavoro, conversazioni interrotte a metà. I livelli di

energia qui dentro dipendono sempre dalla quantità di caffeina che assumiamo e, in

questo momento, le cose sono ancora abbastanza tranquille.

Brendan, che sorseggia la stessa tazza di caffè da tutta la mattina, incontra il mio

sguardo e mi saluta. Lo saluto anche io. È il solo tra noi a non avere davvero bisogno

di caffeina; la sua capacità di produrre elettricità funge anche da generatore di

corrente per tutto il suo corpo. È la reincarnazione dell'esuberanza. Infatti, i suoi

capelli bianco candido e gli occhi azzurro ghiaccio sembrano emanare un’energia

propria, persino dall’altra parte della stanza. Comincio a pensare che Brendan

mantenga le apparenze con la storia delle tazze di caffè solo per solidarietà verso

Winston, che al contrario sembra proprio incapace di sopravvivere senza.

Ultimamente sono inseparabili, anche se sembra che ogni tanto Winston sia

infastidito dalla naturale esuberanza di Brendan.

Entrambi hanno dovuto sopportare molto. Come tutti noi.

Brendan e Winston sono seduti con Alia, che ha il suo blocco dei disegni aperto

accanto a sé, senza dubbio sul punto di disegnare qualcosa di nuovo e meraviglioso

per aiutarci in battaglia. Se non fossi troppo stanca per muovermi, mi alzerei per

unirmi al loro gruppo; invece, appoggio il mento su una mano e studio le facce dei

miei amici, sentendomi grata. Le cicatrici sui volti di Brendan e Winston pero' mi

riportano a un tempo che preferirei dimenticare, un tempo dove pensavamo di averli

persi. Dove pensavamo di averne persi altri due. E improvvisamente i miei pensieri

sono troppo tetri per l'ora di colazione. Quindi distolgo lo sguardo. Tamburello le dita

sul tavolo.

Dovrei incontrare Kenji per colazione, così iniziamo le nostre giornate di lavoro,

ed è l’unica ragione per la quale non ho ancora preso niente da mangiare.

Sfortunatamente, il suo ritardo sta iniziando a farmi brontolare lo stomaco. Tutti nella

stanza stanno tagliando pile di morbidi pancakes, e sembrano deliziosi. Tutto di loro è

invitante: il piccolo dispenser di sciroppo d’acero; la pila fumante di patate dolci; la

ciotolina di frutta fresca appena tagliata. Se non altro, uccidere Anderson e

impadronirsi del Settore 45 ci ha fruttato delle colazioni decisamente migliori. Siamo

forse gli unici pero' che apprezzano questi miglioramenti.

Warner non fa mai colazione con il resto di noi. Non smette praticamente mai di

lavorare, nemmeno per mangiare. La colazione è l'ennesima riunione per lui, e la

passa con Delalieu, solo loro due, e anche allora non sono sicura che mangi davvero

qualcosa. Warner non ha mai mostrato di trarre piacere dal cibo. Per lui non è altro

che carburante, indispensabile e, la maggior parte delle volte, fastidioso, dato che il

suo corpo ne necessita per funzionare.

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Una volta, mentre era profondamente immerso in una qualche pratica durante la

cena, ho messo un biscotto in un piatto di fronte a lui solo per vedere cosa sarebbe

accaduto. Ha sollevato lo sguardo verso di me, lo ha poi riabbassato sul suo lavoro

sussurrando un grazie, e poi si è messo a mangiare il biscotto con la forchetta e il

coltello. Non sembrava nemmeno che se lo godesse. Questo, inutile a dirsi, lo rende

l'esatto opposto di Kenji, che ama mangiare qualsiasi cosa, in qualsiasi momento, e

che in seguito mi disse che vedere Warner mangiare un biscotto gli aveva fatto venire

voglia di piangere.

A proposito di Kenji, il suo darmi buca questa mattina è molto più che strano, e sto

cominciando a preoccuparmi. Sono sul punto di consultare l'orologio per la terza

volta quando, improvvisamente, Adam è in piedi accanto al mio tavolo, a disagio.

«Ciao» dico, un po’ troppo forte. «Cosa, ehm, cosa succede?»

Adam e io abbiamo interagito un paio di volte nelle ultime due settimane, ma è

sempre stato per caso. Da questo si deduce che è strano per Adam stare in piedi di

fronte a me di proposito, e sono così sorpresa che per un momento quasi non colgo

l’ovvio.

Ha un brutto aspetto.

Spossato. Sfinito. Molto più che esausto. Infatti, se non sapessi che è impossibile,

giurerei che Adam ha pianto. Non a causa della nostra relazione finita, spero.

Vecchi istinti mi attanagliano, facendo risvegliare sentimenti passati.

Parliamo nello stesso momento.

«Stai bene…?» Chiedo.

«Castle vuole parlare con te.» Dice.

«Castle ha mandato te a chiamarmi?» Domando, dimenticandomi dei sentimenti.

Adam scrolla le spalle. «Stavo passando vicino alla sua stanza al momento giusto,

immagino.»

«Ehm, okay.» Provo a sorridere. Castle prova sempre a mettere a posto le cose tra

me e Adam; non gli piace la tensione. «Ti ha detto che vuole vedermi proprio

adesso?»

«Già.» Adam si mette le mani in tasca. «Subito.»

«Va bene» dico, e l’intera situazione è imbarazzante. Adam rimane lì mentre

raccatto le mie cose, e gli vorrei dire di andare via, di smetterla di fissarmi, che la

situazione è strana, che abbiamo rotto una vita fa ed è stato strano, tu l’hai reso così

strano, ma poi realizzo che non è me che sta fissando. Sta fissando il pavimento come

se fosse bloccato, perso da qualche parte nei suoi pensieri.

«Ehi… stai bene?» Gli chiedo di nuovo, questa volta più gentilmente.

Adam alza lo sguardo, sorpreso. «Cosa?» dice. «Cosa, oh… sì, sto bene. Ehi, sai

per caso, ehm» si schiarisce la gola, guardandosi intorno «sai mica, ehm…»

«So cosa?»

Adam oscilla sui talloni, gli occhi che scrutano la stanza. «Warner non è mai qui

per colazione, eh?»

Le mie sopracciglia schizzano in alto. «Stai cercando Warner?»

«Cosa? No. Me lo stavo solo, ehm, chiedendo. Non è mai qui, sai? È strano.»

Lo fisso.

Lui non dice niente.

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«Non è poi così strano» replico lentamente, studiando l'espressione di Adam.

«Warner non ha tempo di fare colazione con noi; lavora tutto il tempo.»

«Oh» risponde Adam, afflosciandosi.

«È un peccato.»

«Davvero?» Aggrotto la fronte.

Adam non sembra sentirmi. Chiama James, il quale sta mettendo via il suo vassoio

della colazione, e i due si incontrano al centro della sala per poi andarsene.

Non ho idea di cosa facciano tutto il giorno. Non gliel'ho mai domandato.

Il mistero dell'assenza di Kenji a colazione si risolve non appena varco la porta di

Castle: entrambi si trovano lì, le teste vicine.

Busso contro la porta aperta per mera cortesia. «Ehi» dico, «mi voleva vedere?»

«Sì, sì, signorina Ferrars» risponde Castle con impazienza. Si alza in piedi e mi fa

segno di entrare. «Prego, si sieda. E..» punta il dito alle mie spalle, «chiuda la porta,

per favore.»

Divento immediatamente nervosa.

Incerta, avanzo di un passo all'interno dell'ufficio improvvisato, e lancio

un'occhiata a Kenji, la cui inespressività non fa nulla per alleviare i miei timori. «Che

succede?» Domando. E poi, rivolgendomi esclusivamente a Kenji: «Perché non c'eri

a colazione?»

Castle mi fa segno di prendere posto.

Eseguo.

«Signorina Ferrars» dice con urgenza, «ha ricevuto notizie dall'Oceania?»

«Chiedo scusa?»

« La risposta all'invito. Ha ricevuto la sua prima risposta, no?»

«Sì, l'ho ricevuta» rispondo lentamente. «Ma ancora nessuno dovrebbe esserne a

conoscenza...ne avrei parlato oggi a colazione con Kenji...»

«Sciocchezze.» Mi interrompe Castle. «Lo sanno tutti. Il signor Warner lo sa, è

certo. E anche il Luogotenente Delalieu.»

«Cosa?» Guardo Kenji, il quale si stringe nelle spalle. «Come è possibile?»

«Non si sconvolga per così poco, signorina Ferrars. È ovvio che tutta la sua

corrispondenza è monitorata.»

Spalanco gli occhi. «Cosa?»

Castle fa un gesto esasperato con la mano. «Il tempo è denaro, perciò se non le

dispiace, vorrei...»

«Il tempo è denaro?» Domandai, irritata. «Come dovrei aiutarla se non so

nemmeno di cosa sta parlando?»

Castle si stringe il setto nasale tra le dita. «Kenji» dice, improvvisamente. «Ci

lasceresti soli, per favore?»

«Affermativo» Kenji si alza immediatamente eseguendo la parodia di un saluto

militare. Si incammina verso la porta.

«Aspetta» dico, afferrandogli il braccio. «Che sta succedendo?»

«Non ne ho idea, ragazzina.» Ride, liberando il braccio dalla mia presa.

«Questa conversazione non mi riguarda. Castle mi aveva convocato prima per

parlare delle mucche.»

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«Delle mucche?»

«Sì, hai presente» inarca un sopracciglio. «Bestiame. Ultimamente mi sono

occupato di perlustrare centinaia e centinaia di acri di terreni coltivabili che la

Restaurazione teneva nascosti. Un numero impressionante di mucche.»

«Eccitante.»

«A dire il vero, sì.» Gli si illuminano gli occhi. «Il metano rende abbastanza

semplice rintracciarle. Viene voglia di chiedersi perché non abbiano fatto qualcosa

per imped...»

«Metano?» Ripeto, confusa. «Non è una specie di gas?»

«Deduco tu non sappia molto di merda di vacca.»

Ignoro il commento. «Per questo non c'eri a colazione? Analizzavi cacca di

mucca?»

«Praticamente.»

«Beh» rispondo. «Almeno si spiega la puzza.»

Kenji impiega un secondo per cogliere il sottinteso, e appena lo fa stringe gli occhi

a fessura. Mi pressa un dito contro la fronte. «Andrai dritta all'inferno, lo sai vero?»

Faccio un sorrisone. «Ci vediamo dopo? Voglio comunque fare la nostra

passeggiata mattutina.»

Risponde con un evasivo grugnito.

«Andiamo» lo incoraggio, «stavolta sarà divertente, prometto.»

«Oh sì, uno spasso.» Kenji alza gli occhi al cielo mentre si volta per andarsene, e

rivolge a Castle un altro saluto militare. «A più tardi, signore.»

Castle annuisce, un luminoso sorriso sul volto.

Kenji impiega un minuto per uscire dalla stanza e chiudersi la porta alle spalle, ma

in quel singolo minuto la faccia di Castle si tramuta. Il sorriso rilassato, lo sguardo

vivace: spariti. Adesso che siamo totalmente soli, Castle sembra un po' scosso e più

serio: forse persino... spaventato?

Va subito al sodo.

«Che cosa diceva la risposta che le è arrivata? C'era qualcosa di particolare nel

messaggio?»

«No» mi acciglio. «Non saprei. Considerando che tutta la mia corrispondenza è

monitorata, non dovrebbe già conoscere la risposta a questa domanda?»

«Certo che no, non so io quello che le monitora la posta.»

«E chi allora? Warner?»

Castle si limita a guardarmi. «Signorina Ferrars, c'è qualcosa di profondamente

inusuale in questa risposta. Specialmente considerando che è la prima e l'unica che ha

ricevuto finora.»

«Okay» rispondo, confusa. «Cosa c'è di inusuale?»

Castle guarda le proprie mani, poi il muro. «Che cosa sa dell'Oceania?»

«Poco.»

«Quanto poco?»

Mi stringo nelle spalle. «So identificarla su una mappa.»

«E non ci è mai stata?»

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«Sta scherzando?» Gli indirizzo un'occhiata incredula. «Certo che no. Non sono

mai stata da nessuna parte, ricorda? I miei genitori mi hanno fatta ritirare da scuola,

inserita nel sistema e infine rinchiusa in un manicomio.»

Castle inspira profondamente. Chiude poi gli occhi mentre mi domanda con grande

cautela: «C'era un qualsiasi elemento inusuale nel messaggio che ha ricevuto dal

comandante dell'Oceania?»

«No» replico. «Non particolarmente.»

«Non particolarmente?»

«Immagino che sia un po' informale, ma non cred...»

«Informale in che modo?»

Distolgo lo sguardo, riflettendo. «Il messaggio era molto breve» spiego. «Diceva

Non vedo l'ora di vederla, senza firma o simili.»

«Non vedo l'ora di vederla?» Improvvisamente Castle sembra perplesso.

Annuisco.

«No, non vedo l'ora di incontrarla» dice, «ma non vedo l'ora di vederla.»

Annuisco di nuovo. «Come ho già detto prima un po' informale, ma almeno è stato

educato. Il che, tutto sommato, mi sembra un segnale alquanto positivo.»

Castle sospira profondamente, e ruota la sedia. Adesso è rivolto verso il muro, le

mani intrecciate sotto il mento. Mentre studio i lineamenti affilati del suo profilo,

dice, sommessamente:

«Signorina Ferrars, cosa le ha detto il signor Warner della Restaurazione?»

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CAPITOLO 4 WARNER

Traduzione: Veru

Sono seduto da solo nella sala riunioni e mi sto passando distrattamente una mano tra

i capelli appena tagliati quando arriva Delalieu. Trascina con sé un carrellino per il

caffè e ha il solito sorriso incerto su cui ormai ho imparato a fare affidamento.

Nell’ultimo periodo le nostre giornate di lavoro sono state più impegnate che mai; per

fortuna non abbiamo avuto il tempo di discutere gli spiacevoli dettagli degli ultimi

avvenimenti e dubito che mai ne parleremo.

Di questo sono estremamente grato.

Questo è un porto sicuro per me, con Delalieu, dove posso fingere che la mia vita

non sia cambiata in modo significativo.

Sono ancora capo comandante e reggente dei soldati del Settore 45; è ancora mio

compito organizzare e guidare coloro che ci aiuteranno a contrastare ciò che rimane

della Restaurazione. E da questo ruolo derivano delle responsabilità. Sono stati

necessari svariati aggiustamenti mentre decidiamo le nostre prossime mosse, e

Delalieu si è dimostrato fondamentale nel processo.

«Buongiorno, signore.»

Faccio un cenno di saluto mentre lui versa il caffè per entrambi. Un tenente non ha

bisogno di versarsi il caffè da solo la mattina, ma preferiamo questa privacy.

Bevo un sorso del liquido nero – ho da poco imparato ad apprezzarne il sapore

amaro – e mi appoggio allo schienale della sedia. «Novità?»

Delalieu si schiarisce la voce.

«Sì, signore» risponde affrettandosi a riappoggiare la sua tazza sul piattino e

finendo per rovesciarne un po’. «Parecchie questa mattina, signore.»

Gli rivolgo un cenno del capo.

«La costruzione della nuova stazione di comando procede bene. Pensiamo di

ultimare i lavori nel giro di due settimane, ma si potrà trasferire nelle sue stanze

private già domani.»

«Bene.» La nostra nuova squadra, sotto la supervisione di Juliette, è formata da

molte persone e ci sono molti aspetti da gestire. A eccezione di Castle, che si è

ricavato un piccolo ufficio al piano di sopra, la squadra ha finora usufruito della mia

struttura d’addestramento privata come quartier generale. E nonostante in principio

mi fosse sembrata un’idea pratica, alla struttura d’addestramento si può accedere solo

attraverso i miei quartieri personali, e ora che vivono tutti liberamente alla base

spesso escono ed entrano nelle mie stanze senza alcun preavviso.

Inutile dire che non mi piace la cosa. Rivoglio le mie stanze.

«Cos’altro?»

Delalieu controlla la sua lista e dice: «Siamo finalmente riusciti a recuperare i

documenti di suo padre, signore. Ci è voluto molto tempo per rintracciarne la

maggior parte, ma ho lasciato gli scatoloni nella sua stanza, signore, così può aprirli

con calma. Ho pensato…» Si schiarisce la voce. «Ho pensato che volesse dare

un’occhiata a ciò che resta dei suoi effetti personali prima che li erediti il nostro

nuovo comandante supremo.»

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Il mio corpo viene colto da un gelido terrore.

«Sono parecchi, temo» Delalieu continua a parlare. «Tutti i suoi registri giornalieri.

Tutti le relazioni che ha presentato. Siamo riusciti persino a rintracciare alcuni suoi

diari personali.» Delalieu esita. E poi, in un tono che solo io so decifrare dice: «Spero

che i suoi appunti le siano utili in qualche modo.»

Alzo lo sguardo, incontro quello di Delalieu. Ci trovo apprensione.

Preoccupazione.

«Grazie» dico sommessamente. «Me ne ero quasi dimenticato.»

Tra di noi cala un silenzio imbarazzato e, per un attimo, nessuno dei due sa bene

cosa dire. Non abbiamo ancora discusso della cosa, della morte di mio padre. La

morte del genero di Delalieu. Il terribile marito della sua figlia defunta, mia madre.

Non parliamo mai del fatto che Delalieu è mio nonno. Che è la cosa più simile a un

padre che mi rimane a questo mondo.

Non fa parte di noi.

Quindi è con voce innaturale e incerta che Delalieu prova a riprendere il filo del

discorso.

«L’Oceania, come di sicuro ha già saputo, signore, ha detto che, che parteciperà

all’incontro organizzato dalla nostra nuova… nuova suprema…»

Faccio un cenno d’assenso.

«Ma gli altri» dice, le parole ora gli escono di getto, «non risponderanno senza

prima aver parlato con lei, signore.»

Davanti a questa notizia i miei occhi si allargano percettibilmente.

«Sono…» Delalieu si schiarisce di nuovo la voce. «Beh, signore, come ben sa,

sono tutti vecchi amici di famiglia e… beh, loro…»

«Sì» mormoro. «Certo.»

Distolgo lo sguardo, spostandolo verso la parete. D’un tratto sento di aver serrato

la mandibola per la frustrazione. Dentro di me, me l’ero aspettato. Ma dopo due

settimane di silenzio avevo cominciato a sperare che magari avrebbero continuato a

far finta di niente. Non c’è stata nessuna comunicazione da parte di questi vecchi

amici di mio padre, niente condoglianze, niente rose bianche, niente messaggi di

cordoglio. Nessuna corrispondenza, com’era abitudine di tutti i giorni, da parte delle

famiglie che avevo conosciuto da bambino, le famiglie responsabili dell’inferno in

cui viviamo ora. Pensavo mi avessero tagliato fuori, con mia grande fortuna.

A quanto pare no.

A quanto pare il tradimento non è un crimine abbastanza grave da lasciarti isolato.

A quanto pare le molte lettere giornaliere in cui mio padre esponeva la mia “assurda

ossessione nei confronti di un esperimento” non erano bastate a farmi allontanare dal

gruppo. A mio padre piaceva lamentarsi a gran voce, gli piaceva raccontare i suoi

motivi di indignazione e contrarietà ai suoi vecchi amici, gli unici ancora in vita che

lo avevano conosciuto di persona. E ogni giorno mi umiliava davanti alla gente che

conoscevamo. Faceva sembrare il mio mondo, i miei pensieri e i miei sentimenti

insignificanti. Patetici. E ogni giorno contavo le lettere che si accumulavano nella

mia posta, sermoni dei suoi vecchi amici che mi pregavano seguire il buonsenso,

come lo chiamavano loro. Di ricordarmi chi ero. Di smettere di mettere in imbarazzo

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la mia famiglia. Di ascoltare mio padre. Di crescere, fare l’uomo, e smetterla di

piangere per la mia madre malata.

No, questi legami sono troppo radicati.

Serro gli occhi per reprimere la sfilza di volti, dei ricordi della mia infanzia, e dico:

«Digli che mi metterò in contatto con loro.»

«Non sarà necessario, signore» dice Delalieu.

«Come, scusa?»

«I figli di Ibrahim sono già in viaggio.»

Succede velocemente: i miei arti si paralizzano per un breve istante.

«In che senso?» chiedo, mantenendo a stento la calma. «In viaggio per dove?

Qui?»

Delalieu annuisce.

Un’ondata di calore mi attraversa così velocemente che non mi rendo conto di

essermi alzato finché non devo appoggiarmi al tavolo per reggermi. «Come osano»

dico, aggrappato ancora a un filo di compostezza. «Essere così strafottenti… sentirsi

così insopportabilmente in diritto di…»

«Sì, signore. Capisco, signore» dice Delalieu con aria terrorizzata. «È solo che…

come sa… è così che funziona tra le famiglie supreme, signore. È una tradizione

radicata nel tempo. Un rifiuto da parte mia sarebbe stato interpretato come un atto di

ostilità… e la Signora Suprema mi ha ordinato di essere diplomatico il più a lungo

possibile, perciò ho pensato, ho… ho pensato… Oh, mi dispiace molto, signore…»

«Lei non sa con chi ha a che fare» replico con voce tagliente. «Non c’è diplomazia

con questa gente. Il nostro nuovo comandante supremo potrà anche non saperlo, ma

tu…» dico, più turbato che arrabbiato, «tu avresti dovuto saperlo. Sarebbe valsa la

pena di andare in guerra per evitare tutto questo.»

Non alzo lo sguardo sul suo volto quando dice con voce tremante: «Sono

profondamente dispiaciuto, signore.»

Una tradizione radicata nel tempo, proprio così.

Il diritto di andare e venire era una pratica che era stata stabilita molto tempo

prima. Le famiglie supreme erano sempre state le benvenute nelle terre delle altre

famiglie, in qualsiasi momento, nessun invito necessario. Quando il movimento era

giovane e così anche i loro figli, le famiglie vi avevano tenuto fede. E ora quelle

famiglie – e i loro figli – governano il mondo.

La mia vita è stata così per molto tempo. Il martedì un pomeriggio di gioco in

Europa, il venerdì una cena in Sud America. I nostri genitori erano pazzi, tutti quanti.

Gli unici amici che avevo avuto avevano famiglie ancora più assurde delle mie.

Non voglio più rivedere nessuno di loro.

Tuttavia…

Santo cielo, devo avvertire Juliette.

«Per, per quanto riguarda la questione dei civili...» Delalieu continua a blaterare.

«Sono in contatto con Castle, come, come da sua richiesta, per decidere su come

procedere con il loro trasferimento dai, dai comprensori…»

Ma il resto della mattina trascorre in un lampo.

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Quando finalmente riesco a liberarmi dell’ombra di Delalieu vado dritto alle mie

stanze. Di solito Juliette si trova lì a quest’ora e spero di trovarla per avvisarla prima

che sia troppo tardi.

Mi fermano nel giro di pochissimo tempo.

«Ah, ehm, ehi…»

Alzo lo sguardo distratto e mi blocco sul posto. Sgrano leggermente gli occhi.

«Kent» dico piano.

Basta un’occhiata veloce per capire che non sta bene. Anzi, ha un aspetto terribile.

È più magro che mai, ha dei cerchi scuri sotto agli occhi. È completamente esausto.

Mi chiedo se ho il suo stesso aspetto.

«Mi chiedevo…» dice, per poi distogliere lo sguardo, il volto tirato. Si schiarisce la

voce. «Mi, ehm…» Si schiarisce di nuovo la voce. «Mi chiedevo se potessimo

parlare.»

Mi sento stringere il petto. Lo guardo un momento, prendo nota delle sue spalle

tese, dei suoi capelli scarmigliati, le unghie mangiate sin quasi alla base. Si accorge

che lo sto guardando e subito si mette le mani in tasca. Quasi non riesce a guardarmi

negli occhi.

«Parla» riesco a dire.

Lui annuisce.

Espiro piano, lentamente. Non ci siamo scambiati una parola da quando abbiamo

scoperto di essere fratelli, quasi tre settimane fa. Pensavo che l’implosione emotiva di

quella sera fosse finita nel migliore dei modi, ma da allora sono successe tante cose.

Non abbiamo avuto l’occasione di riaprire quella ferita. «Parla» ripeto. «Dimmi

pure.»

Lui deglutisce sonoramente. Guarda il pavimento. «Bene.»

E d’un tratto mi sento costretto a rivolgergli una domanda che scombussola

entrambi. «Va tutto bene?»

Lui alza lo sguardo, sconvolto. I suoi occhi azzurri sono enormi e iniettati di

sangue. Il suo pomo d’Adamo fa su e giù nella gola. «Non so con chi altro parlarne»

sussurra. «Non so chi altro potrebbe capirmi…»

Ma io sì. Improvvisamente.

Lo capisco.

Quando i suoi occhi diventano improvvisamente lucidi per l’emozione, quando gli

tremano le spalle anche se prova a restare fermo…

Sento le mie ossa scricchiolare.

«Certo» dico sorprendendomi. «Vieni con me.»

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CAPITOLO 5 JULIETTE

Traduttore: Juls

Oggi è un'altra giornata gelida, le rovine sono ricoperta da uno strato di neve

argenteo. Mi sveglio ogni mattina sperando di vedere un sottile raggio di sole, ma

trovo solo un freddo pungente che sembra morderci la pelle, senza remore. Ci siamo

lasciati la parte più fredda dell'inverno alle spalle, ma anche queste prime giornate di

Marzo sembrano essere gelide. Mi aggiusto il cappotto attorno al collo, cercando di

coprirmi il più possibile.

Assieme a Kenji stiamo facendo la nostra camminata giornaliera nelle rovine

dimenticate del Settore 45. E' allo stesso tempo strano ma liberatorio camminare

all'aria aperta.

Strano, perché comunque non posso lasciare la base senza un pugno di soldati che

mi proteggono, e liberatorio perché è la prima volta che posso familiarizzare

tranquillamente con il luogo. Non ho mai avuto modo di poter camminare

autonomamente attraverso quei luoghi; mai avuto modo di vedere, di persona, cosa

fosse accaduto al mondo così come lo conoscevo. E ora, posso vagare liberamente,

senza rendere conto a nessuno...

Beh, non del tutto.

Lancio un'occhiata ai sei soldati dietro di me, che seguono ogni mia mossa e

impugnano fermamente le loro armi mentre marciano. Nessuno sa esattamente come

comportarsi con me; Anderson era molto diverso come Comandante Supremo... non

aveva mai mostrato il suo volto a nessuno, a parte a chi stava per uccidere, ed era

sempre accompagnato nei suoi spostamenti della sua Guardia Suprema.

Io non voglio tutto questo e, finché non decido come governare, questa è la mia

situazione:

ho dei babysitter armati ogni volta che metto un piede fuori della base.

Ho provato a spiegargli che non ho bisogno di protezione – Gli ho ricordato che

ho, letteralmente: tocco letale, forza disumana, invicibilità...

«Ma sarebbe utile per tutti», mi aveva spiegato Warner, «se per il momento tu

stessi al gioco. É un mondo basato sulla disciplina e su delle regole, quello di questi

soldati; gli serve qualcosa su cui basarsi, sempre. Fallo per loro» aggiunse. «Per

favore. Non possiamo cambiare tutti subito, tesoro. Sarebbe troppo disorientante».

Quindi, eccomi.

Con i babysitter.

Warner è stato una guida costante in queste ultime settimane. Ogni giorno mi

insegnava cose nuove riguardo l'operato di suo padre e anche il suo – le cose per cui è

responsabile. Ci sono un numero infinito di cose che Warner deve fare ogni giorno

per mandare avanti il settore - per non citare anche la bizzarra (e altrettanto lunga)

lista di cose che dovrei fare io per mandare avanti il continente.

Mentirei se dicessi che, a volte, sembra impossibile.

Ho avuto un solo giorno – solo uno – per assaporare il sollievo di essere riuscita ad

uccidere Anderson e a reclamare il Settore 45. Un giorno per dormire, un giorno per

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sorridere, un giorno per immaginare un mondo migliore.

Alla fine del Giorno 2 ho trovato Delalieu, molto nervoso, sull'uscio della mia

stanza.

Sembrava agitato.

«Madame Suprema», disse con un sorriso nervoso stampato in volto. «Immagino

che sia molto occupata ultimamente. Così tante cose da fare...» Spostò lo sguardo

sulle mie mani intrecciate nervosamente. «Ma temo... ecco... penso che... ».

«Cosa c'è? » Gli dissi. «C'è qualcosa che non va? ».

«Ecco, Madame... Non volevo disturbarla... Ha passato momenti non piacevoli e

deve ancora prendere confidenza con... ».

Fissava il muro.

Io aspettavo.

«Mi perdoni», aggiunse. “Ma sono quasi passate 36 ore da quando ha preso il

controllo del continente e non ha ancora visitato i suoi uffici», disse, velocemente.

«Ha già ricevuto moltissime mail e lettere e non so più dove metterle... »

«Cosa? »

Si irrigidì. Il suo sguardo incontrò il mio.

«Cosa intendi con i miei uffici? Io ho degli uffici?»

Delalieu sbatté le palpebre, esterrefatto. «Ma certamente, Madame. Il Comandante

Supremo ha degli uffici in ogni settore del Continente. Il Comandante Anderson

alloggiava lì ogni qualvolta visitasse la base. E visto che tutti quanti sanno che lei ha

fatto del Settore 45 la sua residenza permanente, le è stata recapitata qui la sua posta,

sia fisica che digitale. Anche le relazioni della vostra intelligence vengono recapitate

qui, ogni mattino. Inoltre ogni leader invia ogni mattina il proprio report

giornaliero..»

«Non puoi dire seriamente» dissi, stupita.

«Sono tremendamente serio, Madame». Sembrava disperato. «E sono preoccupato

del messaggio che può mandare se continua ad ignorare quelle comunicazioni».

Distolse lo sguardo. «Mi perdoni, Madame, non volevo offenderla.. Solo che, pur

sapendo che lei vorrebbe rafforzare i rapporti internazionali – ecco, mi preoccupano

le conseguenze a cui potrebbe andare incontro se ignora i rapporti già esistenti... ».

«No, certo che no. Grazie, Delalieu», dissi, la testa che mi girava. «Grazie per

avermi avvertito. Non ne avevo idea, » mi misi una mano sulla fronte, «che ne dici di

domani mattina? » chiesi. «Domani mattina, possiamo incontrarci dopo la mia

camminata? Così mi mostri dove sono i miei uffici.»

«Certamente», disse con un cenno del capo. “Sarebbe un piacere, Madame

Suprema».

«Grazie, tenente».

Sembrava visibilmente più rilassato. «Nessun problema. Passi una bella serata».

Lo salutai, spaesata, quasi inciampando nei miei stessi piedi dalla confusione.

Non era cambiato molto.

Le mie scarpe sbattono sul cemento, i miei passi uno dopo l'altro, mentre torno al

presente. Faccio un altro passo, contrastando il vento gelido. Kenji mi lancia

un'occhiata preoccupata. Lo guardo, ma in realtà non lo vedo. Sono concentrata su

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ciò che c'è dietro di lui, ma allo stesso tempo su nulla in particolare. La mia mente

segue una strada tutta sua, muovendosi a tempo con il vento.

«Tutto a posto, bambina? »

Mi riscuoto, strizzando gli occhi verso Kenji. «Sì, tutto bene.»

«Molto convincente.»

Sorrido e mi acciglio allo stesso tempo.

«Quindi» dice Kenji, sospirando. «Di cosa voleva parlarti Castle? ».

Mi volto, d'un tratto irritata. «Non lo so. Castle si comporta in modo strano.»

Questo cattura l'attenzione di Kenji. Castle è come un padre per lui – e sono

abbastanza sicura che se fosse costretto a scegliere, sceglierebbe lui e non me – e gli è

molto leale. «Cosa intendi? Sembrava tutto a posto questa mattina.»

Scuoto le spalle. «Sembra molto paranoico. E ha detto delle cose, su Warner, che

io... » Non finisco la frase. Scuoto la testa. «Non saprei.»

Kenji smette di camminare. «Aspetta, cosa ha detto riguardo a Warner?»

Scuoto ancora le spalle, sempre irritata. «Pensa che Warner mi stia nascondendo

qualcosa. Cioè, non esattamente, ma... c'è molto che non so di lui. Quindi gli ho

detto, visto che lui sapeva così tanto di Warner, poteva dirmi ciò che volevo sapere, e

Castle mi ha risposto “No, blah blah, deve dirtelo lui stesso, blah blah”, alzo gli

occhi al cielo. «Praticamente mi ha detto che è molto strano che non conosca bene il

passato di Warner. Ma non è vero» aggiungo, guardando Kenji. «So molto del suo

passato.»

«Ad esempio? »

«Ad esempio, non so… so di sua madre.»

Kenji ride. «Non sai un cazzo di sua madre.»

«Sì invece”.

«Come vuoi, J. Non sai neanche come si chiama.»

Vacillo. Cerco nella mia mente l'informazione, sicuramente mi avrà menzionato il

suo nome...

non trovo nulla.

Guardo Kenji, sentendomi piccola.

«Il suo nome era Leila» dice. «Leila Warner. E lo so perché me lo ha detto Castle.

Ha trovato dei file sugli abitanti del Punto Omega. Ma non sapeva che il suo potere la

faceva ammalare”, aggiunge, premuroso. «Anderson aveva messo quel dettaglio a

tacere.»

«Oh» fu l'unica cosa che riuscì a dire.

«Quindi è per questo che pensi che Castle sia strano? » Mi chiede Kenji. «Perché ti

ha fatto notare che non sai molto sulla vita del tuo ragazzo? »

«Non essere sciocco» dico piano. «Qualcosa so.»

Ma la verità è che non conosco molto.

Quello che mi ha detto Castle questa mattina mi ha punto sul vivo. Mentirei se

dicessi che non mi chiedevo come fosse la vita di Warner prima di incontrarlo.

Ripenso spesso a quel giorno – quel brutto, bruttissimo giorno – nella piccola casetta

blu a Sycamore, dove Anderson mi aveva sparato al petto.

Eravamo solo io e lui.

Non ho mai detto a Warner quello che suo padre mi disse quel giorno, ma non l'ho

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mai dimenticato. Invece, ho cercato di ignorarlo, convincendo me stessa che

Anderson stava giocando con la mia mente per confondermi ed immobilizzarmi. Non

importa quante volte ripetessi la conversazione nella mia testa – cercando

disperatamente di farla a pezzi e cancellarla – ma non riesco a cacciare quella

sensazione che forse, solo forse, non era quello il suo scopo ultimo. Forse Anderson

mi stava dicendo la verità.

Posso ancora vedere il sorriso sul suo volto mentre me lo diceva. Posso ancora

sentire la soddisfazione nella sua voce. Si stava divertendo. A tormentarmi.

Ti ha mai detto quanti soldati volevano servire nel Settore 45? Fra quanti

candidati abbiamo dovuto scegliere?

Aveva solo 18 anni!

Ti ha mai detto cosa ha dovuto fare per dimostrare che era degno?

Il cuore mi batte nel petto, mentre ricordo, e chiudo gli occhi, le viscere annodate...

Ti ha mai detto come gli ho fatto guadagnare il posto?

No.

Sospetto che non vuole raccontartelo, giusto? Scommetto che è una parte del suo

passato di cui non vuole renderti partecipe, o sbaglio?

No.

Non lo ha mai fatto. E io non ho mai chiesto.

Non voglio saperlo.

«Non preoccuparti» mi aveva detto Anderson. «Non te lo anticiperò. Meglio

lasciare che sia lui a condividere con te tutti i dettagli.»

E ora, questa mattina… Castle mi ha detto la stessa cosa: «No, Signorina Ferrars»

aveva mormorato senza guardarmi negli occhi. «No, no, non devo essere io a dirtelo.

Spetta al signor Warner raccontarti parte della sua vita. Non a me.»

«Non capisco» gli avevo risposto, frustrata. «Cosa importa? Perché d'improvviso ti

importa del passato di Warner? E cosa a che fare con il messaggio da parte

dell'Oceania?»

«Warner conosce gli altri Comandanti, » disse Castle. «Conosce le loro famiglia.

Sa come operano e come pensano. E ci sono ancora molte cose che deve dirti.»

Aveva scosso la testa. «La risposta dell'Oceania non è normale, Signorina Ferrars, per

la semplice ragione che è l'unica che tu abbia ricevuto. E penso che gli altri

Comandanti si siamo messi d'accordo, e che la cosa sia intenzionale, ma – temo – che

ci sia tutt'altro messaggio nascosto… un messaggio che devo ancora decifrare.»

Potevo sentirlo, potevo sentire la mia temperatura che si alzava, la tensione nella

mia mascella, mentre la rabbia si faceva strada dentro di me. «Ma tu mi hai detto di

contattare gli altri Comandanti! E ora hai paura della loro risposta? Che cos-» e poi,

improvvisamente, avevo capito. La mia voce era dolce mentre, stupita, dicevo «Oh

mio Dio, non pensavi mi avrebbero mai risposto, non è vero? » Castle non disse

nulla. «Davvero pensavi che non lo avrebbero fatto? » Continuai, la mia voce che si

alzava di un'ottava.

«Signorina Ferrars, devi capire... »

«Perché fai questi giochetti con me, Castle?» Strinsi i pugni. «Cosa hai in mente? »

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«Non sto facendo nessun gioco» disse, le parole come una fiume.

«Io – pensavo che... » continua lui, gesticolando. «Era come un esercizio, un

esperimento... » Puntini bianchi mi offuscano la vista. Sento la rabbia in gola, che

riverbera lungo la spina dorsale. Uso tutta la mia forza di volontà per cacciarla.

«Non sono più l'esperimento di nessuno» dissi. «E devo sapere cosa diavolo sta

succedendo.»

«Devi parlare con Warner» disse lui. «Lui ti spiegherà tutto. C'è ancora molto che

devi sapere di questo mondo – sulla Restaurazione – e il tempo è tutto» continuò. Il

suo sguardo incontra il mio. «Devi essere pronta a qualsiasi cosa accadrà. Devi sapere

di più, e devi farlo adesso, prima che tutto cada in pezzi.»

Distolgo lo sguardo, le mie mani tremano, piene d'energia. Voglio – devo –

rompere qualcosa.

Qualsiasi cosa.

Invece, ho detto, «Sono cazzate, Castle. Solo cazzate.» E lui sembrava l'uomo più

triste del mondo mentre mi diceva «Lo so.»

Da allora vago senza meta, cammino, con un mal di testa martellante. Non mi

sento affatto meglio quando Kenji mi mette una mano sulla spalla, riportandomi al

mondo dei vivi, e mi dice «Te l'ho già detto e te lo ripeto: la vostra relazione è molto

strana.»

«No che non lo è» dissi in maniera meccanica.

«Sì, invece» ribatte Kenji.

E poi se ne va, lasciandomi da sola, salutandomi con un cappello immaginario

mentre mi volta le spalle. Gli tiro una scarpa. Il mio sforzo, comunque, è inutile;

Kenji la afferra al volo. Ora mi sta aspettando, dieci passi più avanti, e io saltello in

maniera imbarazzante nella sua direzione. Non devo voltarmi per vedere i sorrisetti

dei soldati. Sono abbastanza sicura che tutti pensino che io sia la parodia di un

Comandante Supremo.

E perché non dovrebbero?

Sono passate già due settimane e mi sento persa. Paralizzata. Non sono orgogliosa

della mia inabilità di affrontare la situazione, e del fatto che, a quanto pare, non sono

abbastanza intelligente, abbastanza veloce, abbastanza abile da governare il mondo.

Non orgogliosa del fatto che, quando mi sento giù, l'unica cosa che posso fare e

guardarmi attorno e pensare, stupita, a quanto Anderson fosse organizzato. A quanto

fosse preciso, e molto, molto talentuoso. Non sono orgogliosa di averlo pensato.

Oppure, nelle ora più solitaria della mattina, riposo di fianco a suo figlio, che

Anderson ha torturato quasi a morte, e vorrei che lui potesse tornare dal mondo dei

morti così che possa riprendersi il fardello che io ho rubato dalle sue spalle.

E poi c'è questo pensiero, sempre, sempre:

Forse ho commesso un errore.

«Ehi, c'è nessuno? Terra chiama principessa! »

Alzo lo sguardo, confusa. Oggi è come se vivessi su una nuvola. «Hai detto

qualcosa? »

Kenji scuote la testa e mi porge la scarpa. Cerco di infilarmela mentre lui dice

«Quindi mi hai costretto a fare una passeggiata in questo brutto e freddo posto del

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cazzo solo per ignorarmi?»

Lo guardo accigliata.

Lui ricambia, in attesa. «Qual è il punto, J? Questo» dice, indicandomi «è molto

più strano di qualsiasi cosa ti abbia detto Castle questa mattina.» Mi fa un cenno del

capo, e nei suoi occhi leggo vera preoccupazione quando aggiunge: «Quindi, cosa

succede? »

Sospiro, il mio corpo trema.

Devi parlare con il signor Warner. Lui ti spiegherà tutto.

Ma Warner non è conosciuto per le sue doti comunicative. Non parla per dare aria

alla bocca. Non parla di sé stesso. Non parla di cose personali; so che mi ama – lo

posso sentire, in ogni nostro gesto, quanto lui tiene a me – eppure, ho solo vaghe

informazioni sulla sua vita. A volte mi spaventa.

«É solo che – non so», dico, alla fine. «Sono molto stanca. Ho un sacco di

pensieri.»

«Nottataccia? »

Guardo Kenji, strizzando gli occhi contro la fredda luce solare. «Ecco, faccio fatica

a dormire» confesso. «Mi sveglio ogni giorno alle quattro, ma non ho ancora finito di

controllare le mail di settimana scorsa. Non è una pazzia?»

Kenji mi lancia un'occhiata, sorpreso.

«E io devo, tipo, approvare un milione di cose al giorno. Approva questo, approva

quello. E non sono neanche cose importanti» continuo. «Sono cose stupide, come, ad

esempio» prendo un foglio stropicciato dalla mia tasca e lo tendo verso il cielo «Cose

senza senso: il Settore 418 vuole estendere la pausa pranzo dei soldati di tre minuti, e

hanno bisogno della mia approvazione. Tre minuti? A chi importa?»

Kenji nasconde un sorriso; si mette le mani in tasca.

«Ogni giorno. Tutto il giorno. Non riesco a fare niente di concreto. Pensavo che

avrei fatto qualcosa di importante, sai? Pensavo che sarei stata in grado d unificare

tutti i settori, portare la pace o qualcosa del genere; invece passo la giornata a cercare

di evitare Delalieu, che ogni cinque minuti mi cerca perché vuole che io firmi

qualcosa. E parliamo solo delle mail.»

Non riesco a fermarmi, finalmente confesso a Kenji tutte le cose che non posso

dire a Warner, per paura di deluderlo. É liberatorio, ma allo stesso tempo pericoloso.

Forse è meglio non dire a nessuno che mi sento così, nemmeno a Kenji.

Esito, aspettando una sua reazione.

Kenji non mi sta guardando, ma sembra ascoltarmi. La sua testa è inclinata da un

lato, la bocca leggermente incurvata in un sorriso mentre dice, dopo un momento «É

tutto?»

Scuoto la testa, forte, sollevata e grata di poter continuare. «Devo registrare tutto,

sempre. Compilare report, leggerli, archiviarli. Ci sono altri 554 settori nel Nord

America, Kenji. 554» lo guardo. «Questo significa che devo leggere 554 report, ogni

singolo giorno.»

Kenji mi guarda, senza battere ciglio.

«554! »

Incrocia le braccia.

«Sono lunghi dieci pagine! »

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«Uh-uhu.»

«Posso dirti una segreto?» dico.

«Spara.»

«Questo lavoro fa schifo.»

Ora Kenji ride, forte. Non aggiungo nulla.

«Cosa?» dico. «A cosa stai pensando? »

Mi sfiora i capelli e dice, «Aww, J.»

Sposto la testa lontano dalla sua mano. «Solo questo hai da dire? Aww,J? E

basta? »

Kenji scuote la spalle.

«Cosa c'è?» Chiedo.

«Non lo so» dice, arretrando un poco mentre aggiunge «pensavi che sarebbe

stato... facile? »

«No» dico tranquillamente. «Pensavo sarebbe stato migliore.»

«Migliore in che modo?»

«Non so, forse... più figo?»

«Pensavi che saresti andata in giro ad uccidere nemici e destra e manca? Che

avresti scalato la classe politica mondiale? Uccidi Anderson e, bam, la pace nel

mondo?»

E ora non riesco più a guardarlo, perché sto mentendo, mentendo mentre tra i

denti dico «No ovviamente, non pensavo sarebbe stato così.»

Kenji sospira. «Questo è il motivo per cui Castle è così apprensivo con te, sai?

Al Punto Omega i ritmi erano molto lenti, aspettava il momento giusto per agire,

conoscevamo i nostri punti di forza…e le nostra debolezze. Succedevano molte

cose ma abbiamo sempre saputo – così diceva Castle – che non potevamo

eliminare Anderson se non eravamo pronti per governare. Ecco perché non l'ho

ucciso quando ne avevo la possibilità. Nemmeno quando era mezzo morto di

fronte a me. » Prende fiato. «Non era il momento giusto.»

«Quindi... pensi che sia stato un errore? »

Kenji aggrotta le sopracciglia. Distoglie lo sguardo. Poi fa un mezzo sorriso. «Io

penso che tu sia fantastica.»

«Ma pensi che abbia commesso un errore.»

Scuote le spalle, lentamente. «Nah, non ho detto quello. Penso che tu abbia solo

bisogno di più pratica. Non penso che il manicomio ti abbia preparato a questo.»

Gli lancio un'occhiataccia.

Lui ride.

«Ascolta, tu sei molto brava con le persone. Sei gentile. Ma questo lavoro

include anche molto lavoro, e molte cazzate. Bisogna fare buon viso a cattivo

gioco. E ora, cosa vogliamo fare?»

Non rispondo, e lui mi tocca la spalla.

«Giusto?» mi dice. «Non è quello l'obbiettivo? Mantenere la pace prima di

incasinare tutto quanto, no?»

«Sì, esatto» dico velocemente. «Non causare la guerra. Non fare cazzate. Buon

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viso, cattivo gioco.»

«Okay, allora» dice lui, distogliendo lo sguardo. «Devi andare avanti, piccola.

Cosa succederebbe se mollassi tutto adesso? La Restaurazione ti mangerà viva. È

quello che vogliono. Anzi, è quello che si aspettano… aspettano che tu auto-

distrugga tutto quanto al posto loro. Non puoi mostrarti debole.»

Lo fisso, sentendomi spaventata.

Avvolge una mano attorno alla mia spalla. «Non puoi impazzire su cose del

genere. Su dei documenti?» Scuote la testa. «Hai gli occhi di tutti puntati addosso.

Tutti aspettano la tua prossima mossa. O faremo guerra a tutti gli altri settori –

beh, a tutto il resto del mondo – oppure negozieremo. E tu devi stare tranquilla, J.

Stai calma.»

E io non so cosa dire.

Perché la verità è che ha ragione. Ho talmente tante cose per la testa che non

saprei da dove iniziare. Non ho neanche mai finito il liceo. Come possono

pretendere che sia una maestra di relazioni internazionali?

Warner è stato creato per questa vita. Tutto ciò che fa, che dice...

Lui era stato cresciuto per governare.

Ma io?

In cosa diavolo, penso, mi sono cacciata?

Come ho fatto a pensare di essere in grado di governare un intero Continente?

Davvero pensavo che la mia abilità sovrumana di uccidere la persone con un tocco

mi garantisse anche delle conoscenze in scienze politiche?

Stringo il pugno troppo forte e...

dolore, dolore acuto

mentre le unghie penetrano il mio palmo.

Come facevano gli altri a governare? Davvero immaginavo che sarebbe stato

così semplice? Che potevo controllare la società dalla comoda camera da letto del

mio ragazzo?

Sto cominciando a capire la trama di questa delicata e intricata ragnatela di

persone, incarichi, posizioni e poteri. Pensavo di essere pronta. Io, una

diciassettenne con pochissima esperienza di vita; mi sono offerta volontaria. E ora

– letteralmente ogni notte – devo forzarmi per stare al passo. E non ho idea di cosa

stia facendo.

E se non imparassi a gestire le relazioni con gli altri Settori? E se non riuscissi a

far finta di avere almeno la più pallida idea di come avrei governato?

Il resto del mondo potrebbe distruggermi facilmente.

E a volte non sono sicura di uscirne viva.

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CAPITOLO 6 WARNER

Traduzione: JulietteFerrars

«Come sta James?»

Sono il primo a rompere il silenzio. È una sensazione strana. A me nuova.

In tutta risposta Kent annuisce, con gli occhi concentrati sulle mani serrate davanti

a lui. Siamo sul tetto, circondati da freddo e cemento, seduti uno accanto all’altro in

un angolo tranquillo in cui a volte mi ritiro. Da qui riesco a vedere l’intero settore.

L’oceano in lontananza. Il sole mentre fa la sua apparizione fiacca di mezzogiorno. I

civili che marciano avanti e indietro come soldatini.

«Sta bene.» dice finalmente Kent. La sua voce è tesa. Indossa solamente una t-shirt

e sembra che il freddo gelido non gli dia fastidio. Fa un respiro profondo. «Cioè, sta

benissimo, sai? Sta proprio bene. Sta alla grande.»

Annuisco.

Kent alza lo sguardo, fa una risata breve, nervosa e distoglie lo sguardo. «Tutto ciò

è pazzesco?» dice «Siamo pazzi?»

Restiamo entrambi in silenzio per un minuto, mentre il vento fischia più forte di

prima.

«Non lo so» dico alla fine.

Kent martella con il pugno sulla sua gamba. Espira dal naso. «Sai, non te l’ho mai

detto. Prima.» Alza lo sguardo, ma non guarda me. «Quella notte. Non l’ho mai detto,

ma volevo farti sapere che per me ha significato molto. Ciò che hai detto.»

Strizzo gli occhi.

È una cosa impossibile, davvero, chiedere scusa per aver tentato di uccidere

qualcuno. In ogni caso ci ho provato. Gli ho detto che lo capivo allora. Il suo dolore.

La sua rabbia. Le sue azioni. Gli ho detto che era sopravvissuto all’educazione di

nostro padre per diventare una persona migliore di quanto io possa mai essere.

«Dicevo sul serio» gli dico.

Ora Kent tamburella un pugno contro la bocca. Si schiarisce la gola. «Dispiace

anche a me, sai.» La sua voce è rauca. «È tutto andato in malora. Tutto. È un casino.»

«Sì.» dico «Lo è.»

«Quindi che facciamo adesso?» Finalmente si gira per guardarmi, ma io non sono

ancora pronto ad incontrare il suo sguardo. «Come… Come possiamo rimediare? È

possibile? È troppo tardi?»

Passo una mano sui miei capelli rasati da poco. «Non lo so» dico troppo

fievolmente, «Ma mi piacerebbe sistemare le cose.»

«Davvero?»

Annuisco.

Kent annuisce più volte. «Non sono ancora pronto a dirlo a James.»

Vacillo, sorpreso. «Oh.»

«Non è a causa tua.» si affretta a replicare, «Non sei tu che mi preoccupi. È solo

che… spiegare te significa spiegare qualcosa di molto più grande. E non so come

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dirgli che suo padre era un mostro. Non ancora. Credevo davvero che non avrebbe

mai dovuto saperlo.»

Alzo lo sguardo. «James non lo sa? Non sa nulla?»

Kent scuote la testa. «Era così piccolo quando nostra madre è morta e sono sempre

riuscito a nasconderlo quando nostro padre tornava. Pensa che i nostri genitori siano

morti in un incidente aereo.»

«Ammirevole» mi sento dire, «È stata una cosa molto generosa da parte tua.»

Sento la voce di Kent rompersi quando riprende a parlare. «Dio, perché sono così

turbato per lui? Perché mi importa?»

«Non lo so» dico, scuotendo la testa, «Sto avendo lo stesso problema.»

«Davvero?»

Annuisco.

Kent si prende la testa tra le mani. «Ci ha davvero incasinati, cavolo.»

«Sì. È vero.»

Sento Kent tirare su col naso due volte, due tentativi veloci per tenere a bada le sue

emozioni, ciò nonostante gli invidio l’abilità di essere così aperto riguardo ai suoi

sentimenti. Tiro fuori un fazzoletto dalla tasca intera della mia giacca e glielo porgo.

«Grazie» dice in modo teso.

Annuisco di nuovo.

«Quindi, ehm… Cosa ti è successo ai capelli?»

Vengo così preso alla sprovvista da questa domanda che per poco non trasalisco.

Valuto davvero di raccontare tutta la storia a Kent, ma ho paura che mi chieda perché

io abbia mai permesso a Kenji di toccarmi i capelli e quindi dovrei spiegargli le

innumerevoli richieste di Juliette sul fatto che io diventi amico di quell’idiota. E

credo che lei ancora non sia un argomento sicuro tra di noi. Quindi dico: «Un piccolo

incidente.»

Kent alza le sopracciglia. Ride. «Come no.»

Lancio un’occhiata nella sua direzione, sorpreso.

Dice: «Va bene così, sai.»

«Cosa?»

Kent è seduto più dritto ora, mentre guarda la luce del sole. Sto iniziando a

scorgere ombre di mio padre sulla sua faccia. Ombre di me stesso. «Tu e Juliette.»

dice.

Mi immobilizzo.

Mi guarda. «Davvero. Va tutto bene.»

Non riesco a trattenermi dal dire, scioccato: «Non sono sicuro che sarei d’accordo

se i nostri ruoli si invertissero.»

Kent sorride, ma sembra triste. «Sono stato davvero uno stronzo con lei alla fine.»

dice, «Quindi credo di essermelo meritato. Ma non riguardava proprio lei, sai? Tutto

quello. Non riguardava lei.» Mi guarda con la coda dell’occhio. «A dire il vero stavo

annegando già da un po’. Ero veramente infelice e molto stressato e poi… » fa

spallucce, distoglie lo sguardo «Sinceramente scoprire di essere tuo fratello mi ha

quasi ucciso.»

Sbatto le palpebre. Sono nuovamente sorpreso.

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«Già.» Ride, scuotendo la testa, «So che sembra strano ora, ma allora ho… Non so,

cavolo, credevo che tu fossi un sociopatico. Ero così preoccupato che l’avresti

scoperto e poi, cioè… Non so, credevo che avresti provato ad uccidermi o qualcosa

del genere.»

Esita. Mi guarda.

Aspetta.

Capisco solo dopo, nuovamente sorpreso, che vuole che io lo neghi. Che io dica

che le cose non stavano in quel modo.

Ma comprendo la sua preoccupazione. Quindi dico: «Beh. Ho provato ad ucciderti

una volta, non è così?»

Kent sgrana gli occhi. «È passato troppo poco tempo. Non fa ridere.»

Distolgo lo sguardo mentre dico: «Non era una battuta.»

Riesco a sentire lo sguardo di Kent su di me, che mi studia, credo che stia cercando

di dare un senso a me o alle mie parole. Forse entrambi. Ma è difficile sapere a cosa

stia pensando. È frustrante avere un’abilità soprannaturale che mi permette di

conoscere le emozioni di tutti, tranne le sue. Mi fa sentire instabile nei suoi paraggi.

Come se avessi perso la vista.

Alla fine Kent sospira.

Sembra che io abbia superato il test.

«Comunque,» dice, ma sembra un po’ incerto ora, «Ero abbastanza sicuro che mi

avresti dato la caccia. E tutto ciò che riuscivo a pensare era che, se fossi morto, anche

James sarebbe morto. Sono tutto il suo mondo, sai? Uccidi me, uccidi lui.» Si guarda

le mani. «Avevo smesso di dormire la notte. Di mangiare. Stavo perdendo la testa.

Non riuscivo a sopportarlo, niente… E tu stavi, tipo, vivendo con noi? E poi tutta la

faccenda con Juliette… Io… Non so.» Rilascia un sospiro profondo e rumoroso.

Tremolante. «Sono stato uno stronzo. Me la sono presa con lei. L’ho incolpata di

tutto. Per essersi allontanata da ciò che ritenevo essere una delle poche cose sicure

della mia vita. È solo colpa mia, davvero. Un problema mio. Ho ancora molta merda

da risolvere.» Dice alla fine, «Ho problemi con le persone che mi abbandonano.»

Per un momento mi lascia senza parole.

Non avevo mai pensato che Kent potesse essere capace di formulare pensieri

complessi. La mia abilità di percepire emozioni e la sua abilità di estinguere poteri

soprannaturali hanno formato una strana coppia; ero sempre stato costretto a giungere

alla conclusione che Kent fosse privo di pensieri e sentimenti. A quanto pare è un po’

più capace di provare emozioni di quanto mi aspettassi. E anche più aperto.

Ma è strano vedere qualcuno che condivide il mio stesso DNA parlare così

liberamente. Ammettere le sue paure e i suoi limiti ad alta voce. È troppo crudo,

come guardare direttamente nel sole. Devo distogliere lo sguardo.

Alla fine dico solo: «Capisco.»

Kent si schiarisce la gola.

«Quindi. Ecco,» dice, «Credo che volessi solo dirti che Juliette aveva ragione. Alla

fine io e lei ci siamo allontanati. Tutto questo… » indica lo spazio che ci separa, «mi

ha fatto capire un sacco di cose. E lei aveva ragione. Volevo così disperatamente

qualcosa, una sorta di amore o di affetto o qualcosa. Non lo so.» Dice, scuotendo la

testa «penso che volessi credere che io e lei avessimo qualcosa che in realtà non

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avevamo. Ero in una posizione diversa. Diamine, ero una persona diversa. Ma adesso

so quali sono le mie priorità.»

Allora lo guardo, con una domanda negli occhi.

«La mia famiglia» dice, incontrando il mio sguardo «è tutto ciò di cui mi importa

ora.»

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CAPITOLO 7 JULIETTE

Traduzione: Juls

Lentamente, torniamo alla base.

Non ho fretta di incontrare Warner per avere quella che si prospetta una

conversazione difficile e stressante, per cui prendo tempo. Cammino lentamente tra la

distruzione lasciata dalla guerra, tra le grigie rovine e alla fine ci lasciamo quel grigio

territorio alle spalle, così comei resti di ciò che era.

Mi sento triste quando la passeggiata finisce; mi snto nostalgica pensando a come

erano le case, le staccionate, i piccioli negozi, le banche... e ora è tutto abbandonato e

resta solo un grigio terreno irregolare.

Mi piacerebbe trovare un modo per riportare indietro tutto quanto.

Prendo un respiro profondo e sento l'aria fredda pizzicarmi la gola. Il vento mi

avvolge, spingendo tirando e danzando, scompigliandomi i capelli come una furia, e

mi lascio trasportare, mi perdo in quella sensazione, apro la bocca per respirare.

Quasi sorrido quando Kenji mi lancia un'occhiata cupa e io faccio una smorfia,

scusandomi con lo sguardo.

Le mie mezze scusa fanno ben poco per calmarlo.

Costringo Kenji a fare un'altra piccola deviazione vicino all'oceano, la mia parte

preferita. Kenji, d'altra parte, la odia… così come i suoi stivali, che rimangono

incastrati nel fango, che un tempo era sabbia dorata.

«Non posso credere che davvero ti piaccia star a guardare questo che è pieno di

piscio... »

«Non lo è», specifico. «Castle dice che c'è comunque più acqua che piscio.»

Kenji mi fissa.

Mormora qualcosa, forse sulla sua scarpa che era sporca di “acqua pisciata”, così

come la chiama lui, mentre torniamo verso la strada principale. Lo ignoro,

determinata a godermi questi ultimi momenti di pace, essendo gli unici momenti in

cui posso essere sola con i miei pensieri. Osservo i marciapiedi e i tetti di quelli che

sono i resti del nostro vecchio mondo, cercando – e a volte ci riuscivo – di ricordare

un tempo in cui tutto non era così cupo.

«Ti manca?» Chiedo a Kenji. «Come era una volta?»

Kenji è in equilibrio su un piede, cercando di pulire il suo stivale in pelle, mentre

mi guarda e si acciglia. «Non so cosa ricordi tu, J, ma prima non andava tanto meglio

di adesso.»

«Cosa intendi?» Chiedo, appoggiandomi ad un vecchio cartello segnaletico.

«Cosa intendi tu?» ribatte lui. “Cosa ti manca della tua vecchia vita? Pensavo che

odiassi stare con tuoi genitori. Avevi detto che erano orribili, e che ti picchiavano-»

«Lo erano» dico, voltandomi. «E non avevamo molto. Ma ci sono alcune cose che

mi piace ricordare – i momenti belli – prima della Restaurazione. Immagino che

fossero le piccole cose a rendermi felice.» Lo guardo e sorrido. «Non credi? »

Lui alza un sopracciglio.

«Ad esempio…il camioncino dei gelati nel pomeriggio» dico.

«O il postino che fa il giro del quartiere. Mi sedevo vicino alla finestra e guardavo

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le persone tornare a casa dal lavoro la sera.» Distolgo lo sguardo, persa nei miei

ricordi. «Era bello»

«Hmm.»

«Non sei d'accordo? »

Kenji sorride, ma è un sorriso triste mentre continua a pulire il suo stivale. “Non

saprei, bambina. Il camioncino dei gelati non arrivava mai nel mio quartiere. Il

mondo di cui ho memoria era fragile, in bilico, razzista, spezzato da un regime di

merda. Eravamo già a pezzi. La conquista fu facile.» Prende un respiro profondo. Poi

aggiunge “Comunque, sono scappato dall'orfanotrofio quando avevo 8 anni, quindi

non mi ricordo molto di tutte queste cose da bambini, sinceramente.»

Mi irrigidisco, stupita. Mi ci vuole qualche secondo prima di ritrovare la voce.

“Vivevi in un orfanotrofio?»

Kenji annuisce ed esplode in una risata senza gioia. «Esatto. Vivevo sulla strada da

circa un anno, facendo autostop in tutto lo Stato – era prima dei Settori – fino a

quando Castle mi ha trovato.»

«Cosa?» Mi irrigidisco. «Perché non mi hai mai raccontato nulla? Tutto questo

tempo… e non mi hai mai detto...»

Scuote le spalle.

«Hai mai conosciuto i tuoi genitori?»

Annuisce ma non mi guarda.

Un brivido mi corre lungo la schiena. «Cosa gli è successo?»

«Non importa.»

«Certo che importa» dico, toccandogli il gomito. «Kenji...»

«Non è importante» ripete, liberandosi della mia presa. «Abbiamo tutti dei

problemi. Abbiamo tutti una vita. Non serve a niente rimuginarci sopra.»

«Non voglio rimuginarci» ribatto. «Voglio solo sapere. La tua vita – il tuo passato

– è importante per me.» E per un momento mi torna in mente Castle – i suoi occhi, la

sua urgenza – e la sua insistenza sul fatto che ci sono ancora cose che devo sapere

riguardo al passato di Warner.

C'è ancora tanto da sapere sulle persone e cui voglio bene.

Kenji sorride, ma sembra stanco. Sospira. Cammina velocemente verso l'entrata di

una vecchia libreria e si siede sull'asfalto. La nostre guardie ci aspettano, appena fuori

dal nostro campo visivo.

Kenji mi fa cenno di raggiungerlo, cosa che faccio prontamente.

Guardiamo entrambi la strada, i vecchi semafori e i cavi elettrici rotti sull'asfalto, e

lui inizia: «Sai che sono giapponese, vero? »

Annuisco.

«Quando sono nato, le persone non erano abituate a vedere visi come il mio. I miei

genitori non sono nati qui; parlavano giapponese e qualche parole in inglese. Ad

alcuni non andava giù questo fatto. Comunque, vivevamo in un brutto quartiere» mi

spiega, «con un sacco di persone ignoranti. E appena prima che la Restuarazione

iniziasse la sua propaganda, promettendo di risolvere tutti i nostri problemi

cencellando ogni cultura, lingua, religione e tutto quanto, non era bello essere di

un'altra razza. C'era molta violenza, in tutto il continente. Lotte fra le varie comunità.

Si uccidevano a vicenda. Se eri del colore sbagliato al momento sbagliato» con le dita

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forma una pistola, sparando all'aria «semplicemente, sparivi. Cercavamo di evitare

tutto ciò, in gran parte. La comunità Asiatica non era perseguitata come quella nera,

ad esempio. A loro andava moto peggio, Castle può confermartelo,» aggiunge. «A lui

sono successe un sacco di cose pazzesche. Ma il peggio che capitava alla mia

famiglia, di solito, erano solo malelingue quando ci vedevano assieme. Ricordo che

mia mamma non voleva mai uscire di casa.»

Mi irrigidisco.

«Comunque» sospira. «Mio padre non poteva semplicemente stare li a guardare

mentre le persone dicevano cose stupide e offensivo riguardo la sua famiglia, giusto?

Quindi è come impazzito. Non succedeva sempre, ma quando accadeva, litigava

spesso, a volte con qualche conseguenza e a volta senza. Non sembrava la fine del

mondo. Mia mamma lo supplicava di lasciar stare, ma lui non la ascoltava.» Si

incupisce. «E non gliene faccio una colpa.»

«Un giorno» continua, «accadde qualcosa di brutto. Ognuno possedeva una pistola,

sai? Anche i civili. Sarebbe una cosa da pazzi immaginarlo adesso, sotto la

Restaurazione, ma al tempo erano tutti armati.» Fa una piccola pausa. «Anche mio

padre ne aveva una, sai, solo in caso servisse. Per la nostra protezione.» Kenji non mi

guarda mentre dice, «e quando mio padre perse di nuovo la pazienza, fu troppo

coraggioso. Usarono la sua pistola contro di lui. Mio padre fu colpito. Mia mamma

anche, mentre cercava di difenderlo. Avevo sette anni”.

«Eri lì anche tu?» mormoro.

Annuisce. «Ho visto tutto.»

Mi copro la bocca con entrambe le mani. Le lacrime mi pizzicano gli occhi.

«Non ho mai raccontato a nessuno questa storia» dice, aggrottando la fronte.

«Nemmeno a Castle.»

«Cosa?» lascio cadere la mani. Sgrano gli occhi. «Perché no?»

Scuote la testa. «Non saprei» dice piano, guardando un punto indefinito

all'orizzonte. «Quando ho incontrato Castle era appena accaduto. Era ancora troppo

reale. Quando mi ha chiesto del mio passato, gli ho detto che non volevo parlarne.

Mai.” I suoi occhi incontrano i miei. «E poi, ha smesso di chiedermelo.»

Non posso far altro che fissarlo, stupita. Senza parole.

Kenji distoglie lo sguardo. Sembra che parli a sé stesso quando dice «É molto

strano dirlo ad alta voce.» Sospira, e velocemente balza in piedi, nascondendo il suo

volto. Lo sento tirare su col naso, due volte. Poi si mette le mani in tasca e dice, «Sai,

penso di essere l'unico qui che non ha problemi con il proprio padre. Io lo adoravo.»

Sto ancora pensando alla storia di Kenji - quante cose non so su di lui, su Warner,

su tutti coloro che chiamo “amici” – quando lo voce di Winston mi riporta al

presente.

«Stiamo ancora valutando come dividere le camere, sta dicendo, «ma penso che

andrà tutto bene. Anzi, siamo in anticipo sui tempi per quelle che sono le camere da

letto» aggiunge. «Warner ha organizzato i lavori nell'ala est, quindi possiamo

trasferirci lì domani.»

C'è un piccolo applauso. Qualcuno esulta.

Stiamo facendo un piccolo tour del nuovo quartier generale.

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La grande parte dello spazio è ancora in costruzione, quindi, in realtà, tutto un

rumoroso e polveroso cantiere, ma sono comunque contenta di vedere progressi. Il

nostro gruppo ha bisogno disperatamente di nuove camere da letto, nuovi bagni,

scrivanie e uffici. E abbiamo anche bisogno di una sede centrale di comando dove

poartare a termine i vari incarichi.

Questo, speriamo, è l'inizio di un nuovo mondo. Un mondo dove io sono in

comando.

Cose da pazzi.

Per il momento, non ho ancora ben chiaro il mio ruolo i miei doveri. Non

affronteremo gli altri settori o i loro leader finché non capiamo di chi possiamo

fidarci, e ciò richiede tempo.

«La distruzione del mondo non può accadere in una notte, così come la sua

redenzione» è la frse preferita di Castle, e penso abbia ragione.

Dobbiamo scegliere saggiamente le nostre prossime mosse – e sforzarsi di essere

diplomatici può fare la differenza tra la vita e la morte. Sarebbe molto più semplice

cambiare il mondo se non fossimo gli unici a volerlo fare.

Abbiamo bisogno di alleati.

La conversazione con Castle di questa mattina mi aveva innervosita.

Non so più come sentirmi – o per cosa sperare. So solo che, seppure con i civili

sembro quella coraggiosa, non voglio dar inizio ad un'altra guerra; non voglio

uccidere chiunque mi intralci la strada verso il mio obiettivo. Le persone del Settore

45 si fidano di me - i loro figli e i loro mariti sono i miei soldati – e non voglio

mettere in pericolo le loro vita se non è assolutamente necessario. Spero di riuscirci.

Spero che ci sia una possibilità – anche piccola – di cooperazione con gli altri Settori

e gli altri cinque Comandanti Supremi, così da poter sperare in un futuro migliore.

Senza spargimenti di sangue.

«É ridicolo. E ingenuo» dice Kenji.

Lo cerco con lo sguardo. Sta parlando con Ian. Ian Sanchez – alto, allampanato,

con un caratteraccio ma di buon cuore. L'unico senza superpoteri. Non che importi.

Ian è in piedi, le braccia incrociate sul petto, la testa e gli occhi diretti al soffitto.

«Non mi interessa ciò che pensi... »

«Beh, a me sì» Castle si intromette. “A me importa cosa dice Kenji» aggiunge.

«Ma... »

«E mi importa anche cosa dici tu, Ian» continua lui «Ma devi ammettere che Kenji

ha ragione. Dobbiamo essere cauti. Non sappiamo cosa accadrà.»

Ian sospira, esasperato. “Non intendo quello. É che non capisco il bisogno di tutto

questo spazio. Non è necessario»

«Aspetta … qual è il problema?» Chiedo, guardandomi attorno. E poi, a Ian: «Non

ti piace?»

Lily avvolge un braccio attorno alle spalle di Ian. «Ian è triste» dice, sorridendo.

«Gli piaceva la vita alla base.»

«Cosa?» Inarco le sopracciglia.

Keji ride.

Ian scuote le spalle. «Penso solamente che stiamo bene dove stiamo» dice. «Non

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capisco perché dobbiamo trasferirci qui» continua, e con le braccia indica lo spazio

attorno a sè. «É come giocare col fuoco. Nessuno si ricorda dell'ultima volta che

abbiamo costruito un grande nascondiglio?»

Castle sobbalza.

Lo facciamo tutti.

Il Punto Omega, distrutto. Raso al suolo. Decenni di duro lavoro ridotti in polvere.

“Non succederà di nuovo» dico, fermamente. “Inoltre, qui siamo più protetti.

Abbiamo un intero esercito. É il posto più sicuro che si possa trovare.»

Le mie parole sono seguite da un immediato coro di supporto, ma esito, perché so

che quello che ho detto è vero solo in parte.

Non posso sapere cosa ci accadrà o quanto staremo qui. Ma quello che so è che

abbiamo bisogno di nuovi spazi – adesso che possiamo permetterceli. Nessuno ha

provato a fermarci o spararci, almeno, non ancora; nessuna sanzione ci è stata

imposta dagli altri continenti o comandanti. Quindi, dobbiamo ricostruire ora che

possiamo farlo.

Ma questo...

Questo enorme spazio dedicato solo ai nostri sforzi?

Era una cosa da Warner.

Era stato in grado di trasferirci tutti: l'intero Quartier Generale del Settore 45. É

servita un'enorme mole di lavoro per redistribuire tutte le persone, il lavoro, e il

mobilio in un altro posto ma, in qualche modo, ce l'ha fatta. Ora è un luogo creato per

i nostri bisogni.

Inoltre, avremo anche la tecnologia più avanzata per quel che riguarda ricerca e

sorveglianza, e anche ciò che serve a Winston e Alia per creare marchingegni, armi, e

uniformi di cui abbiamo bisogno. E anche se il Settore 45 ha già la sua infermeria,

abbiamo bisogno di un'area dove Sonya e Sara possano lavorare e continuare a creare

antidoti e sieri che un giorno potrebbero salvarci la vita.

Sto per dirlo a tutti quando Delalieu entra nella stanza.

«Madam» dice, facendo un cenno nella mia direzione.

Al suono della sua voce, ci voltiamo tutti.

«Sì, tenente? »

La sua voce trema un poco mentre dice, “Ha un visitatore, Signorina. Lui richiede

dieci minuti del tuo tempo. »

«Un visitatore?» Mi volto instintivamente, cercando Kenji con lo sguardo. Sembra

confuso.

«Sì, Madame» risponde Delialieu. “La sta aspettando al piano inferiore, nell'atrio.»

«Ma chi è?» chiedo, preoccupata. “Da dove viene?»

«Il suo nome è Haider Ibrahim. É il figlio del Comandante Supremo dell'Asia”.

Mi irrigidisco, tesa. Non sono sicura di riuscire a nascondere il panico che mi

attraversa quando dico: «Il figlio del Comandante Supremo dell'Asia? Ha detto

perché è qui?»

Delalieu scuote la testa. «Si rifiuta di rispondere a qualsiasi altra domanda,

Madam.»

Respiro forte, mi gira la testa. Tutto ciò a cui riesco a pensare è la preoccupazione

di Castle nei confronti dell'Oceania. La paura nei suoi occhi. Le domande a cui non

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voleva rispondere.

«Cosa devo dirgli, Madam?» mi solletica Delalieu.

Il mio cuore perde un battito. Chiudo gli occhi. Sei il Comandante Supremo, dico a

me stessa. Comportati da tale.

“Madam?»

“Sì, allora, digli pure che arriv... »

“Signorina Ferrars» la voce di Castle dissipa la nebbia nella mia mente. Lo guardo.

“Signorina Ferrars» ripete, con un lampo di ammonimento negli occhi. “Forse

dovrebbe aspettare.»

«Cosa?» dico. “Aspettare cosa?»

«Aspettare anche il signor Warner.»

La mia confusione si trasforma in rabbia. «Apprezzo la tua preoccupazione, Castle,

ma posso farcela anche da sola, grazie.»

«Signorina Ferrars, la prego di ripensarci. Per favore» dice con urgenza, «deve

capire che non è un gioco. Il figlio di un comandate supremo – potrebbe essere molto

imp... »

«Come ho detto, grazie.» Sento le guance in fiamme. Ultimamente sembra che

Castle non creda in me – per nulla – e mi fa ripensare alla conversazione di questa

mattina. Mi chiedo se posso fidarmi di lui. Quale tipo di alleato farebbe questo tipo di

commenti di fronte a tutti? Tutto quello che posso fare e cercare di non urlare quando

dico, «Posso assicurartelo, andrà tutto bene.»

E poi, a Delalieu:

«Tenente, per favore comunica al nostro visitatore che arrivo fra un attimo.»

«Sì. Madam.» Un altro cenno, e se ne va.

Sfortunatamente, il mio coraggio esce dalla porta assieme a lui.

Ignoro Castle mentre cerco Kenji con lo sguardo; dopo ciò che ho detto, in realtà,

non voglio fare tutto ciò da sola. E Kenji mi conosce bene.

«Ehi…sono qui.» Attraversa la stanza in pochi passi.

«Vieni con me, giusto?» Sospiro, tirando la manica della sua felpa come una

bambina.

Kenji ride. «Dovunque tu voglia, piccola.»

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CAPITOLO 8 WARNER

Traduzione: Juls

Ho una grande paura: annegare nell'oceano del mio silenzio.

Nel rumore bianco del silenzio, la mia mente non è gentile con me. Penso troppo.

Sento, forse, molto più di quello che dovrei. Dire che uno degli obbiettivi principali

della mia vita è riuscire a vincere il mio cervello, e i miei ricordi, equivale a esagerare

di poco.

Invece, devo continuare a muovermi.

Quando volevo una distrazione, mi ritiravo sotto terra. Trovavo conforto nelle

stanze per le simulazioni, nei programmi creati per preparare i soldati al

combattimento. Purtroppo, negli ultimi tempi, a causa del grande caos della nuova

costruzione, abbiamo dovuto trasferire un team di soldati sottoterra, quindi, sono

senza sfoghi. Non ho altra scelta se non andare verso l'alto.

Entro nell'hangar di fretta, i miei passi risuonano nell'ampio spazio mentre mi

muovo, quasi istintivamente, verso la rastrelliere con le armi collocate nell'ala destra.

I soldati mi vedono e si spostano velocemente, con gli occhi che tradiscono la loro

confusione persino mentre mi salutano. Annuisco una volta nella loro direzione, e

non dico altro mentre salgo sull'aeroplano. Mi metto le cuffie e comunico via radio,

avvertendo la torre di controllo della mia intenzione di decollare, mentre mi sistemo

nel sedile. Lo scanner della retina mi identifica automaticamente. I controlli pre-volo

sono a posto. Accendo il motore e il rumore è assordante anche attraverso le cuffie.

Sento il mio corpo rilassarsi.

Presto, sono in aria.

Mio padre mi ha insegnato a sparare quando avevo nove anni. A dieci, mi aveva

ferito di proposito il polpaccio e mi aveva mostrato come suturare le mie stesse ferite.

A undici mi aveva rotto un braccio e mi aveva abbandonato nel bosco per due

settimane. A dodici avevo imparato a costruire e disinnescare le bombe.

A tredici anni ha iniziato a insegnarmi a volare.

Non mi ha mai insegnato ad andare in bicicletta. L'ho imparato da solo.

Molte miglia sotto di me, il Settore 45 sembra una scacchiera semi-distrutta.

L'altezza rende il mondo piccolo e banale, una pillola facile da inghiottire.

E finalmente qui, sopra le nuvole, capisco cosa provava Icaro.

Io, come lui, sono tentato di volare troppo vicino al sole.

È solo il mio essere pragmatico che mi tiene ancorato al suolo. Prendo un respiro

profondo, e torno al lavoro.

Di solito faccio questo giro più tardi, mentre ora il panorama è diverso da quello

che vedo ogni giorno. In genere sono in volo nel tardo pomeriggio e controllo i civili

che tornano a casa dal lavoro, che cambiano i loro dollari al Centro Viveri.

Dopodiché, si precipitano nei loro quartieri, carichi delle loro provviste e con la triste

consapevolezza che dovranno farlo anche il giorno dopo, e quello dopo ancora.

Ora, però, sono tutti ancora al lavoro, nessuna formica operaia in vista.

Il paesaggio è bizzarro e bellissimo da lontano, l'oceano è vasto, blu da mozzare il

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fiato. Ma conosco troppo bene il mondo, e so che non è così.

Questa strana, triste realtà che mio padre ha aiutato a creare.

Socchiudo gli occhi, le mani che scorrono sull'acceleratore. Ci sono semplicemente

troppe cose da prendere in esame oggi.

Primo, la sensazione disarmante di avere un fratello il cui cuore è complicato

quanto il mio.

Secondo, e forse, peggiore: l'onnipresente ansia che mi provoca il mio passato.

Non ho ancora parlato con Juliette dell'arrivo dei nostri ospiti, e, se devo essere

onesto, non sono più sicuro di volerlo fare. Non le ho mai parlato molto della mia

vita. Non le ho mai parlato dei miei amici d'infanzia, dei loro genitori, della storia

della Restaurazione e il mio ruolo in essa. Non c'è mai stato tempo. Il momento

giusto. Juliette è Comandante Supremo da diciassette giorni ormai, e noi due stiamo

insieme da diciannove.

Siamo stati entrambi occupati.

E abbiamo appena superato così tante cose, la nostra relazione, la distanza e la

confusione, le incomprensioni. Lei non si è fidata di me per così tanto tempo. Sono

l'unico da incolpare per questo, ovviamente, ma sono preoccupato che gli orrori del

passato possano allontanarla da me. E sono certo che darle nuovi dettagli sulla mia

vita potrà solo peggiorare le cose, e non voglio assolutamente. Voglio preservare la

nostra relazione. Proteggerla.

Perciò come inizio? Da dove comincio?

Il giorno del mio sedicesimo compleanno, io e gli altri figli dei Comandanti

Supremi abbiamo dovuto spararci a vicenda, per ordine dei nostri genitori. Non

uccidere, solo ferire.

Volevano che sapessimo cosa significava prendere un proiettile. Volevano che

capissimo quanto ci voleva per riprendersi. La cosa più importante, però, era che

capissimo che anche un nostro amico un giorno avrebbe potuto tradirci.

Le mia labbra si curvano in un sorriso amaro.

Suppongo che io abbia imparato la lezione. Dopotutto, mio padre è tre metri

sottoterra e ai suoi vecchi amici non sembra importare.

Il problema di quel giorno, però, fu che mio padre era un tiratore provetto, e io ero

stato addestrato da lui. E il peggio era che mi ero allenato ogni giorno per cinque anni

consecutivi (due anni in più di tutti gli altri) e, come risultato, ero più veloce, più

preciso, più crudele. Io non esitavo. Sparai a tutti i miei amici prima che loro

avessero il tempo di impugnare la loro arma.

Quello fu il giorno in cui capii con certezza che mio padre era fiero di me. Avevo

disperatamente cercato la sua approvazione così a lungo, e finalmente l'avevo

ottenuta. Mi guardava come avevo sempre desiderato che facesse: come se gli

importasse di me. Come un padre che rivede un po' di se stesso nel figlio. Quella

realizzazione, ai tempi, mi aveva fatto scappare nella foresta e prontamente vomitare

nei cespugli.

Sono stato colpito da un proiettile solo una volta.

Il ricordo mi mortifica tutt'ora, ma non me ne pento. Me lo sono meritato. Per non

averla compresa, per averla trattata male, per essere stato perso e confuso. Ma mi sto

impegnando tanto per essere un uomo diverso; per essere, se non più gentile, almeno,

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migliore. Non voglio perdere l'amore che ho imparato ad apprezzare.

E non voglio che Juliette conosca il mio passato.

Non voglio condividere con lei le storie che mi disgustano, storie che potrebbero

cambiare i suoi sentimenti nei miei confronti. Non voglio che sappia come passavo il

mio tempo da bambino. Non voglio che sappia quante volte mio padre aveva voluto

che lo guardassi mentre spellava animali, come riesco ancora a sentire gli echi delle

sue grida mentre mi prendeva a calci, ancora e ancora, se osavo distogliere lo

sguardo.

Non voglio ricordare le ore trascorse incatenato in una camera buia, sentendo voci

registrate di donne e bambini che imploravano aiuto. Era per rendermi più forte,

diceva. Per aiutarmi a sopravvivere.

Invece, vivere con mio padre mi faceva desiderare la morte.

Non voglio dire a Juliette che ho sempre saputo che mio padre era infedele, che

aveva abbandonato mia madre molto tempo fa, che avevo sempre desiderato

ucciderlo, lo sognavo, lo pianificavo, che un giorno gli avrei spezzato il collo

sfruttando quelle stesse abilità che mi aveva insegnato.

E di come fallivo. Ogni volta.

Perché sono debole.

Non mi manca. Non mi manca la sua vita. Non voglio la sua presenza o quella dei

suoi amici nella mia anima. Eppure, per qualche ragione, i suoi vecchi commilitoni

non sembrano darmi tregua.

Stanno venendo per avere la loro parte, e ho paura che questa volta, come ogni

volta, sarà il mio stesso cuore a pagare i debiti.

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CAPITOLO 9 JULIETTE

Traduzione: Juls

Kenji e io siamo nella stanza di Warner (adesso la mia) in piedi nel bel mezzo

dell'armadio mentre lancio vestiti nella sua direzione, cercando di decidere cosa

indossare.

«Cosa ne dici di questo??» Chiedo, lanciandogli un capo scintillante. «O questo?»

Lancio un'altra palla di tessuto nella sua direzione.

«Non sai proprio un bel niente di vestiti, vero?»

Mi giro, inclinando la testa. «Chiedo scusa, ma in quale momento avrei

esattamente dovuto imparare come vestirmi, Kenji? Mentre crescevo da sola e

torturata dai miei terribili genitori? O mentre marcivo in quel manicomio?»

La risposta lo zittisce.

«Allora?» Gli dico, facendo un cenno col mento. «Quale dei due?»

Prende in mano i due capi che gli ho lanciato e aggrotta le sopracciglia. «Mi stai

facendo scegliere fra un vestito corto e scintillante e dei pantaloni del pigiama?

Voglio dire, in quel caso sceglierei il vestito? Ma non penso che starà bene con le

logore scarpe da ginnastica che indossi sempre.»

«Oh» mi guardo le scarpe. «Beh, non saprei. Warner ha scelto queste cose per me

molto tempo fa, prima di incontrarmi. È tutto quello che ho» dico, guardandolo.

«Sono quello che rimane di quando sono arrivata nel Settore 45.»

«Perché non indossi la tua divisa?» Mi chiede Kenji, appoggiandosi al muro.

«Quella che Alia e Winston hanno fatto per te.»

Scuoto la testa. «Non hanno ancora finito di ripararla. Ed è ancora sporca del

sangue del padre di Warner. Inoltre» aggiungo, prendendo un respiro profondo, «lì si

parlava di un'altra me. Indossavo quella tuta che mi ricopriva dalla testa ai piedi

quando pensavo di dover proteggere le persone dalla mia pelle. Ma ora è diverso.

Posso controllare il mio potere. Posso essere . . . normale.» Provo a sorridere. «E

voglio vestirmi come una persona normale.»

«Ma tu non sei una persona normale».

«Lo so questo.» Un frustrante rossore mi invade la guance. «Io vorrei solo.. Mi

piacerebbe vestirmi come se lo fossi. Magari solo per un po'? Non ho mai avuto la

mia età e vorrei anche solo per un attimo...»

«Lo capisco» dice Kenji, sollevando una mano per interrompermi. Mi squadra

dalla testa ai piedi. «Beh, se è davvero quello che vuoi, ora sembri una persona

normale. Può andare così» aggiunge, facendo un cenno con la mano verso di me.

Indosso dei jeans e un maglione rosa. Ho i capelli raccolti in un'alta coda di

cavallo. Mi sento a mio agio e normale, ma mi sento anche come se fingessi di essere

la diciassettenne che sono.

«Io dovrei essere il Comandante Supremo del Nord America» dico. «Lo sembro,

vestita così? Warner indossa sempre completi eleganti, no? O comunque bei vestiti.

Sembra sempre così ricercato, quasi intimidatorio...»

«A proposito dov'è?» Mi interrompe Kenji. «cioè, so che non vuoi sentirtelo dire,

ma sono d'accordo con Castle. Warner dovrebbe partecipare a questo incontro.»

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Prendo un respiro profondo. Cerco di calmarmi. «So che Warner sa tutto, ok? Che

è il migliore a fare praticamente qualsiasi cosa, che è nato per governare, che suo

padre lo ha cresciuto per dominare il mondo, e via dicendo. In un'altra vita, in un'altra

realtà? Dovrebbe esserci lui al mio posto. Ne sono certa.»

«Ma?»

«Ma non è questo il suo lavoro, giusto?» Dico rabbiosamente. «È il mio. E sto

cercando di non fare affidamento su di lui in ogni momento. Voglio farcela da sola.

Voglio prendere il comando.»

Kenji non sembra convinto. «Non saprei, J. Penso che sia una di quelle volte in cui

devi fare affidamento su di lui, invece. Conosce questo mondo meglio di noi e, in più,

lui saprebbe dirti cosa indossare.» Kenji fa spallucce. «La moda non è proprio il mio

campo.»

Prendo in mano il vestito corto e scintillante e lo esamino.

Appena due settimane fa ho combattuto contro centinaia di soldati. Ho fracassato

la gola di un uomo con un pugno. Ho sparato due volte ad Anderson in fronte, senza

rimpianti. Ma qui, di fronte ad un armadio pieno di vestiti, sono intimidita.

«Forse dovrei chiamare Warner» dico, lanciando un'occhiata a Kenji da sopra la

mia spalla.

«Esatto» mi indica. «Buona idea.»

Ma, poi,

«No...lascia stare» dico. «Ho tutto sotto controllo. Cioè, qual è il problema? Lui è

solo un ragazzo, giusto? Il figlio di un Comandante supremo. Non un Comandante

vero e proprio, no?»

«Uhhm... invece è importante, J. I figli dei Comandanti sono, tipo... altri Warner.

Sono praticamente dei mercenari. E sono preparati a prendere il posto dei loro

genitori per...»

«Sì, ecco, devo assolutamente farlo da sola» guardo lo specchio, aggiustandomi la

coda. «Giusto?»

Kenji scuote la testa.

«Sì. Esattamente.» Annuisco fra me e me.

«Uh-uh, no. Penso che non sia una buona idea.»

«So fare qualcosa anche da sola, Kenji» scatto. «Non sono un'incapace.»

Kenji sospira. «Come dici tu, principessa.»

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CAPITOLO 10 WARNER

Traduzione: FranciAlbi

«Signor Warner... Per favore, Signor Warner, aspetti, figliolo...»

Mi fermo improvvisamente, girando bruscamente su me stesso. Castle mi sta

inseguendo per il corridoio, agitando irrequieto la mano verso di me. Incontro i suoi

occhi con un'espressione mite.

«Posso aiutarti?»

«Dove è stato?» Dice, palesemente col fiatone, «L’ho cercata dappertutto.»

Alzo un sopracciglio, ricacciando indietro l’urgenza di dirgli che sapere dove vado

non sono affari suoi. «Ho dovuto fare delle ricognizione aeree.»

Castle si acciglia. «Solitamente non le fa nel tardo pomeriggio?»

Dopo questa constatazione, quasi sorrido. «Mi stai controllando.»

«Non prendiamoci in giro. Anche lei mi sta controllando.»

Ora sorrido davvero. «Lo sto facendo?»

«Sottovaluta la mia intelligenza.»

«Non so cosa pensare di te, Castle.»

Ride di gusto. «Oddio! Lei è un eccellente bugiardo.»

Distolgo lo sguardo. «Cosa desideri?»

«È qui. È qui in questo istante e lei è con lui e ho provato a fermarla ma non mi ha

voluto ascoltare...»

Mi volto, allarmato. «Chi è qui?»

Per la prima volta, vedo pura rabbia negli occhi di Castle. «Non è il momento di

fare il finto tonto con me, figliolo. Haider Ibrahim è qui. In questo istante. E Juliette

lo sta incontrando, da sola, completamente impreparata.»

Lo shock mi rende, per un istante, senza parole.

«Ha sentito cosa ho detto?» Castle sta praticamente urlando, «É con lui, adesso.»

«Come?» Dico, tornando in me, «Come fa a essere già qui? È arrivato da solo?»

«Signor Warner, la prego mi ascolti. Lei le deve parlare. Le deve spiegare e lo

deve fare adesso.» Mi dice, prendendomi le spalle. «Stanno tornando per l...»

Castle viene scagliato all’indietro, forte.

Urla, mentre ritrova l'equilibrio, le braccia e le gambe stese davanti a sé come fosse

stato trasportato da una raffica di vento. Rimane in quella posizione innaturale,

sospeso diversi centimetri dal pavimento, e mi fissa, col petto che si gonfia.

Lentamente, si stabilizza. I suoi piedi toccano il suolo.

«Userebbe i miei stessi poteri contro di me?» Mi chiede, respirando

affannosamente. «Sono un suo allea...»

«Mai» dico freddamente, «mai mettermi le mani addosso, Castle. O la prossima

volta potrei ucciderti accidentalmente.»

Castle sbatte le palpebre. E poi la sento... la percepisco, potrei quasi afferrarla: la

sua pietà. È ovunque. Orribile. Soffocante.

«Non osare dispiacerti per me.»

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«Chiedo scusa» dice piano, «non intendevo invadere i suoi spazi personali. Ma non

ha capito l’urgenza della situazione. Prima il RSVP... e ora, l’arrivo di Haider?

Questo è solamente l’inizio» dice, abbassando la voce, «si stanno mobilitando.»

«Stai lavorando troppo di immaginazione» dico, la mia voce tagliente. «L’arrivo di

Haider ha a che fare con me. Ho commesso un tradimento, ricordi?» Scuoto la testa e

comincio ad andarmene. «Sono solo un po’... arrabbiati.»

«Basta» dice, «mi ascolti...»

«Non ti devi preoccupare di tutto questo, Castle. Ci penso io.»

«Perché non mi sta ascoltando?» Mi sta inseguendo ora. «Sono venuti per riportare

lei indietro, figliolo. Non possiamo permetterlo!»

Mi blocco.

Mi volto verso di lui, i miei movimenti sono lenti, deliberati. «Di cosa stai

parlando? Riportarla indietro dove?»

Castle non risponde. Invece, sbianca. Mi fissa, confuso.

«Ho mille cose da fare» gli dico, impaziente, «quindi se vuoi per favore rendere le

cose veloci e dirmi di cosa diavolo stai parlando...»

«Non gliel’ha mai detto, vero?»

«Chi? Non mi ha detto cosa?»

«Suo padre» mi dice, «non gliel’ha mai detto.» Castle si sfrega una mano sul viso.

Sembra improvvisamente vecchio, sul punto di spirare. «Oh mio Dio. Non gliel’ha

mai detto.»

«Cosa intendi? Cosa non mi ha mai detto?»

«La verità» mi dice, «Sulla signorina Ferrars.»

Lo fisso, la morsa della paura mi dilaga nel petto.

Castle scuote la testa mentre dice, «Non le ha mai detto da dove proviene

veramente, non è vero? Non le ha mai detto la verità sui suoi genitori.»

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CAPITOLO 11 JULIETTE

Traduzione: JulietteFerrars

«Smettila di agitarti, J.»

Siamo nell’ascensore di vetro, ci stiamo incamminando verso una delle aree di

accoglienza principali e non riesco a smettere di muovermi.

Tengo gli occhi fermamente chiusi. Continuo a dire, «Oddio, sono davvero una

completa incapace, vero? Cosa sto facendo? Non sembro per niente professionale… »

«Sai che ti dico? A chi importa cosa stai indossando?» Dice Kenji. «In ogni caso

sta tutto nell’atteggiamento. È il portamento che conta.»

Lo guardo alzando la testa e percepisco la differenza di altezza tra di noi più che

mai. «Ma sono così bassa.»

«Anche Napoleone era basso.»

«Napoleone era una persona orribile.» Gli faccio notare.

«Napoleone portava le cose a termine, non è così?»

Mi acciglio.

Kenji mi dà un colpetto col gomito. «Sarebbe una buona idea sputare la gomma da

masticare però.»

«Kenji» dico, prestandogli ascolto solo per metà, «mi sono appena resa conto di

non aver mai incontrato nessun ufficiale straniero prima d’ora.»

«Lo so, eh? Neanch’io.» Replica, scompigliandomi i capelli. «Ma andrà tutto bene.

Devi solo darti una calmata. E comunque sei carina. Andrai alla grande.»

Allontano la sua mano con uno schiaffetto. «Potrò ancora non saperne molto

sull’essere un comandante supremo, ma almeno so che non dovrei essere carina.»

L’ascensore si apre proprio quando finisco la frase.

«E chi ha detto che non si può essere carini e spaccare culi allo stesso tempo?»

Kenji mi fa l’occhiolino, «Io lo faccio tutti i giorni.»

«Oh, cavolo… Sai cosa? Non importa.» È la prima cosa che Kenji mi dice.

Sta facendo delle smorfie imbarazzate mentre mi lancia delle occhiate di sbieco e

dice, «forse dovresti davvero lavorare sul tuo guardaroba?»

Potrei morire per l’imbarazzo.

Chiunque sia questo tizio, qualunque siano le sue intenzioni, Haider Ibrahim è

vestito come nessun altro che abbia mai conosciuto . Non ho mai visto nessuno come

lui prima d'ora.

Si alza in piedi non appena entriamo nella stanza, alto, molto alto, e rimango

immediatamente colpita quando lo vedo. Indossa una giacca di pelle grigia scura su

ciò che credo dovrebbe essere una camicia, ma che in realtà è una serie di catene

intrecciate saldamente sul corpo. La sua pelle è fortemente abbronzata ed esposta per

metà, la parte superiore del corpo a malapena coperta dalla sua camicia di catene. I

suoi pantaloni neri affusolati scompaiono in anfibi alti fino allo stinco e i suoi occhi

marrone chiaro, un contrasto impressionante con la pelle marrone, sono bordati da

una ruota di ciglia nere e folte.

Strattono il mio maglione rosa e nervosamente mando giù la gomma da masticare.

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«Ciao» dico, e vado per salutare con la mano, ma Kenji è così gentile da

abbassarmela. Mi schiarisco la gola. «Sono Juliette.»

Haider fa cautamente un passo in avanti, un’espressione confusa sul volto, mentre

valuta il mio aspetto. Mi sento fastidiosamente a disagio. Estremamente impreparata.

E all’improvviso ho davvero bisogno di andare in bagno.

«Ciao» dice infine, ma sembra più una domanda.

«Possiamo aiutarti?» Dico.

«Tehcheen Arabi?»

«Oh.» lancio un’occhiata a Kenji, poi a Haider. «Ehm, non parli inglese?»

Haider solleva un sopracciglio. «Non sai parlare altre lingue?»

«No?» Rispondo, sentendomi più nervosa che mai.

«Un gran peccato» sospira. Si guarda intorno. «Sono qui per vedere il comandante

supremo.» Ha una voce intensa e profonda, ma parla con un leggero accento.

«Sì, eccomi, sono io» replico e sorrido.

Sgrana gli occhi con una confusione malcelata. «Tu sei… » aggrotta le

sopracciglia, «Il comandante supremo?»

«Mm-hm» gli indirizzo un sorriso ancora più smagliante. Diplomazia, ripeto a me

stessa. Diplomazia.

«Ma ci è stato detto che il nuovo comandante supremo è selvaggio, letale,

terrificante… »

Annuisco. Mi sento il viso bruciare. «Sì. Sono io. Sono Juliette Ferrars.»

Haider inclina la testa, i suoi occhi mi scrutano. «Ma sei così piccola.» E sto

ancora cercando di capire come rispondere quando scuote la testa e dice, «chiedo

scusa, intendevo dire… che sei così giovane. Ma anche molto piccola.»

Il sorriso sta iniziando a farmi male.

«Quindi sei stata tu» dice, ancora confuso, «a uccidere il Comandante Supremo

Anderson?»

Annuisco. Faccio spallucce.

«Ma… »

«Scusami» Kenji si intromette, «C’è un motivo per cui sei qui?»

Haider sembra colto di sorpresa dalla domanda. Lancia un’occhiata a Kenji. «Lui

chi è?»

«È il mio vice» dico, «e dovresti sentirti libero di rispondergli quando ti parla.»

«Oh, capisco» dice Haider, un barlume di comprensione nello sguardo. Fa un

cenno a Kenji. «Un membro della Guardia Suprema.»

«Non ho una Gua… »

«Proprio così» dice Kenji, dandomi una gomitata veloce per dirmi di star zitta,

«Perdonami se sono un po’ iperprotettivo» sorride, «sono sicuro che tu sappia come

funziona.»

«Sì, certamente» dice Haider, sembrando capire.

«Perché non ci sediamo?» Dico, indicando i divani nella stanza. Siamo ancora in

piedi all’entrata e sta iniziando a essere imbarazzante.

«Certo» Haider mi offre il braccio in vista della camminata di 5 metri fino ai

divani e confusa, lancio una veloce occhiata a Kenji.

Lui si stringe nelle spalle.

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Ci sistemiamo sui divani; io e Kenji sediamo di fronte a Haider. Ci separa un lungo

tavolino da caffè in legno e Kenji preme il sottile bottone sotto per chiamare il

servizio di tè e caffè.

Haider non smette di fissarmi. Il suo sguardo non è né adulatorio né minaccioso,

sembra genuinamente confuso, e sono sorpresa nel rendermi conto che è questa la

reazione che mi preoccupa di più. Se i suoi occhi fossero arrabbiati o oggettivanti,

saprei meglio come reagire. Invece sembra gentile e piacevole, ma… sorpreso. E non

sono sicura di come comportarmi. Kenji aveva ragione, vorrei davvero che Warner

fosse qui; la sua capacità di percepire le emozioni degli altri mi darebbe un’idea più

chiara su come reagire.

Alla fine rompo il silenzio.

«È davvero un grande piacere fare la tua conoscenza» dico, sperando di sembrare

più gentile di quanto io non mi senta, «ma mi piacerebbe sapere cosa ti porta qui. Hai

fatto così tanta strada.»

A quel punto Haider sorride. Così facendo aggiunge un calore necessario al suo

volto che lo fa sembrare più giovane di prima. «Curiosità» risponde semplicemente.

Faccio del mio meglio per nascondere la mia ansia.

Sta diventando sempre più evidente che sia stato mandato qui per fare una sorta di

perlustrazione per conto di suo padre. La teoria di Castle era corretta, i comandanti

supremi stanno morendo dalla voglia di sapere chi sono. E sto iniziando a chiedermi

se questa sia solo la prima di diverse visite che riceverò presto da occhi indiscreti.

Il servizio di tè e caffè arriva proprio in quel momento.

I signori e le signore che lavorano nel Settore 45, qui e nei comprensori, sono più

vivaci che mai ultimamente. C’è un’infusione di speranza nel nostro settore che non

esiste da nessun’altra parte del continente e le due signore che si affrettano ad entrare

nella stanza con il carrellino del cibo non fanno eccezione. Mi indirizzano dei sorrisi

smaglianti e sistemano il servizio di porcellana con un entusiasmo che non passa

inosservato. Noto che Haider sta osservando le nostre interazioni con attenzione,

studiando i visi delle donne e il modo in cui si muovono a loro agio in mia presenza.

Le ringrazio per il loro lavoro e Haider è visibilmente sbalordito. Con le sopracciglia

alzate, poggia la schiena al divanetto, con le mani intrecciate in grembo come un

perfetto gentiluomo, muto come una tomba fin quando non lasciano la stanza.

«Approfitterò della tua gentilezza per un paio di settimane» dice Haider

all’improvviso, «se… se per te va bene.»

Aggrotto le sopracciglia, faccio per protestare, ma Kenji mi interrompe.

«Certamente» dice, facendo un grande sorriso, «resta tutto il tempo che vuoi. Il

figlio di un comandante supremo è sempre il benvenuto qui.»

«Sei molto gentile» dice con un semplice cenno del capo. E poi esita, tocca

qualcosa sul suo polso e la nostra stanza è invasa in un attimo da persone che devono

essere i membri del suo staff personale.

Haider si alza in piedi così velocemente che quasi non lo vedo.

Io e Kenji ci affrettiamo ad alzarci.

«È stato un piacere conoscerti, Comandante Supremo Ferrars» dice Haider,

facendo un passo in avanti per prendermi la mano e resto colpita dalla sua

sfrontatezza. Nonostante le numerosi voci che ha sentito su di me, non sembra che gli

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dispiaccia essere vicino alla mia pelle. Non che abbia molta importanza, certo, ho

imparato ad accendere e spegnere i miei poteri quando voglio, ma non tutti lo sanno.

Ad ogni modo, mi deposita un rapido bacio sul palmo della mano, sorride e fa un

lieve cenno con il capo.

Riesco a sorridere in modo imbarazzato e a fare un piccolo cenno.

«Se mi dici quante persone ci sono nel tuo gruppo» dice Kenji, «posso iniziare a

sistemare i vostri allog… »

Haider scoppia a ridere, sorpreso. «Oh, non sarà necessario» dice, «ho portato la

mia residenza.»

«Hai portato… » Kenji corruccia il volto, «hai portato la tua residenza?»

Haider annuisce senza guardare Kenji. Quando apre bocca parla solo con me.

«Non vedo l’ora di vedere te e il resto della tua guardia a cena stasera.»

«A cena… » dico, sbattendo le palpebre, «stasera?»

«Certo» si affretta a dire Kenji, «non vediamo l’ora.»

Haider annuisce. «Per favore, manda il mio più cordiale saluto al tuo Reggente

Warner. Sono passati molti mesi dalla nostra ultima visita, ma non vedo l’ora di

aggiornarci sugli ultimi avvenimenti. Ti ha parlato di me, giusto?» fa un sorriso

smagliante, «Ci conosciamo dall’infanzia.»

Scioccata, annuisco lentamente, mentre la consapevolezza supera la mia

confusione. «Sì. Giusto. Certo. Sono sicura che sarà elettrizzato all’idea di rivederti.»

Un altro cenno e Haider sparisce.

Io e Kenji siamo soli.

«Ma che c… »

«Oh» Haider rispunta nella stanza, «Per favore dite al vostro chef che non mangio

carne.»

«Ma certo.» dice Kenji, annuendo e sorridendo, «sì. Ci penso io.»

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CAPITOLO 12 WARNER

Traduzione: Layola

Sono seduto al buio con le spalle alla porta della camera da letto quando la sento

aprirsi.

É solo metà pomeriggio, ma è così tanto che sto seduto qui, fissando queste scatole

chiuse, che anche il sole sembra essersi stancato di fissarmi.

La rivelazione di Castle mi ha lasciato stordito.

Non mi fido ancora di lui, non credo sappia di cosa parla, ma alla fine della nostra

conversazione non ho potuto evitare di provare un terribile e implorante desiderio di

verificare. Avevo bisogno di tempo per valutare le opzioni. Di stare da solo con i miei

pensieri. E quando l’ho detto a Castle, ha risposto, «processa quello che vuoi,

figliolo, ma non lasciare che questo ti distragga. Juliette non dovrebbe incontrarsi con

Haider da sola. C’è qualcosa che non va qui Signor Warner e tu devi andare da loro.

Adesso. Mostrale come navigare nel tuo mondo.»

Ma non sono riuscito a farlo.

Nonostante ogni mio istinto di proteggerla, non ne avrei minato così l'autorità.

Non ha chiesto il mio aiuto oggi. Ha scelto di non dirmi cosa stava accadendo.

Una mia brusca e indesiderata interruzione le farebbe solo pensare che sono

d’accordo con Castle, che non mi fido di lei per fare il lavoro da sola. E io non sono

d’accordo con Castle; penso che sia un’idiota a sottovalutarla. Quindi sono tornato

qui, in queste stanze, a pensare. A fissare i segreti di mio padre. Ad aspettare il suo

ritorno.

E ora...

La prima cosa che Juliette fa è accendere la luce.

«Ehi» dice con cautela «che succede?»

Faccio un respiro profondo e mi volto. «Questi sono i vecchi file di mio padre»

dico, indicandone uno con la mano. «Delalieu li ha raccolti per me. Pensavo che

dovrei darci un’occhiata, vedere se c’è qualcosa che potrebbe esserci utile.»

«Oh, wow» dice, i suoi occhi illuminati dalla comprensione. «Mi chiedevo a cosa

servissero.» Attraversa la stanza per accovacciarsi vicino alle pile, scorrendo le dita

sulle scatole senza etichetta. «Hai bisogno di aiuto per spostarle nel tuo ufficio?»

Scuoto la testa.

«Vuoi che ti aiuti a catalogarle?» Chiede, guardandomi da sopra la spalla. «Sarei

felice di... »

«No» dico troppo velocemente. Mi alzo in piedi cercando di sembrare calmo. «No,

non sarà necessario.»

Solleva un sopracciglio.

Cerco di sorridere. «Penso che mi piacerebbe passare del tempo da solo con loro.»

A questo annuisce, fraintendendo tutto, e il suo sorriso comprensivo mi fa dolere il

petto. Sento un’indistinta sensazione di gelo che mi pugnala internamente. Lei pensa

che voglia spazio per venire a patti con il mio lutto. Che passare in rassegna le cose di

mio padre sarà difficile per me.

Lei non sa. Magari non sapessi anche io.

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«Quindi» dice, camminando verso il letto, le scatole dimenticate. «è stata una

giornata... interessante.»

La pressione nel mio petto si intensifica. «Ah sì?»

«Ho appena incontrato un tuo vecchio amico» dice, e si getta all’indietro sul

materasso. Si scioglie la coda e sospira.

«Un mio vecchio amico?» Chiedo. Ma non posso far altro che fissarla mentre

parla, studiando la forma del suo viso. Non posso, al momento, sapere con certezza se

quello che mi ha detto Castle è vero; ma so che troverò le risposte che cerco nei file

di mio padre... nelle scatole impilate in questa stanza.

Anche se non ho ancora trovato il coraggio di controllare.

«Ehi» dice, sventolando una mano dal letto. «Ci sei?»

«Sì» dico di riflesso. «Sì, amore.»

«Quindi... ti ricordi di lui?» Continua, «Haider Ibrahim?»

«Haider.» Annuisco. «Si, certo. É il figlio maggiore del comandante supremo

dell’Asia. Ha una sorella» rispondo, ma lo faccio in maniera robotica.

«Beh, non so di sua sorella» dice. «Ma Haider è qui. E resterà per qualche

settimana. Andiamo tutti a cena con lui stasera.»

«Come da lui richiesto, ne sono certo.»

«Sì» ride, «come lo sapevi?»

Sorrido. Vagamente. «Ricordo Haider molto bene.»

Rimane in silenzio per un momento. Poi: «Dice che vi conoscete sin dall’infanzia.»

E avverto, ma non ammetto, la tensione improvvisa nella stanza. A malapena

annuisco.

«È una lunga conoscenza.»

Si tira su a sedere. Appoggia il mento su una mano e mi fissa. «Pensavo avessi

detto che non avevi nessun amico.»

A questo rido, ma il suono è vuoto. «Non so se ci definirei esattamente amici.»

«No?»

«No.»

«E non vuoi approfondire?»

«C’è poco da dire.»

«Beh, se non siete amici, perché è qui esattamente?»

«Ho i miei sospetti.»

Sospira. Dice: «Anche io» e si morde l’interno della guancia. «Immagino che

questo sia l’inizio. Tutti vogliono dare un’occhiata ai fenomeni da baraccone. A

quello che abbiamo fatto... a me. E noi dobbiamo assecondarli.»

Ma sto ascoltando solo a metà.

In effetti, sto fissando le scatole che incombono dietro di lei, le parole di Castle che

vorticano ancora nella mia mente. Mi ricordo di dover dire qualcosa, qualunque cosa,

per sembrare coinvolto nella conversazione. Quindi cerco di sorridere e dico, «Prima

non mi hai detto che sarebbe arrivato. Avrei voluto essere lì per aiutare in qualche

modo.»

Le sue guance, improvvisamente arrossate per l'imbarazzo, raccontano una storia;

le sue labbra ne raccontano un’altra. «Non pensavo di doverti dire sempre tutto.

Posso gestire alcune cose da sola.»

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Il suo tono affilato è così inaspettato da forzare la mia mente a rifocalizzarsi.

Incontro i suoi occhi per scoprire che ora mi sta trapassando con lo sguardo, ferita e

arrabbiata.

«Non è affatto quello che intendevo» dico. «Sai che penso che puoi fare tutto,

amore. Ma ti sarei potuto essere d’aiuto. Conosco queste persone.»

In qualche modo il suo viso diventa ancora più rosso adesso. Non riesce a

guardarmi negli occhi.

«Lo so» sussurra. «Lo so. Mi sono solo sentita un po’ sopraffatta ultimamente. E

ho avuto una conversazione con Castle stamattina che mi ha incasinato la testa.»

Sospira. «Oggi è una giornata strana.»

Il cuore inizia a battermi troppo forte. «Hai avuto una conversazione con Castle?»

Annuisce.

Dimentico di respirare.

«Ha detto che devo parlare con te di alcune cose» Solleva lo sguardo su di me.

«Tipo, c’è dell'altro sulla Resistenza di cui non mi hai parlato?»

«Dell'altro sulla Resistenza?»

«Si, c’è qualcosa che devi dirmi?»

«Qualcosa che devo dirti.»

«Uhm, continuerai semplicemente a ripetere quello che dico?» Chiede, e ride.

Sento il petto rilassarsi. Solo un po’.

«No, no. Certo che no» dico, «sono solo... mi dispiace, amore. Confesso che sono

anche io un po’ distratto oggi.» Annuisco verso le scatole impilate nella stanza.

«Sembra che ci sia ancora molto da scoprire su mio padre.»

Lei scuote la testa e i suoi occhi sono grandi e tristi. «Mi dispiace così tanto. Deve

essere terribile dover esaminare tutta la sua roba in questo modo.»

Espiro, e dico, principalmente a me stesso: «Non ne hai idea» prima di guardare

altrove. Sto ancora fissando il pavimento, la testa pesante dei pensieri della giornata,

quando lei allunga il braccio, con esitazione, usa una singola parola.

«Aaron?»

E posso sentirlo, posso sentire il cambiamento, la paura, il dolore nella sua voce.

Il mio cuore batte ancora troppo forte, ma ora per una ragione completamente

diversa.

«Cosa c’è che non va?» Dico, alzando lo sguardo. Mi siedo vicino a lei sul letto,

studiando i suoi occhi. «Cos’è successo?»

Lei scuote la testa. Si guarda le mani aperte. Quando parla, le parole sono un

sussurro: «Penso di aver commesso un errore.»

Spalanco gli occhi guardandola. Il suo viso si contrae. I suoi sentimenti, sono

palline fuori controllo, e mi colpiscono con la loro turbolenza. È preoccupata. È

arrabbiata. È arrabbiata con se stessa per essere preoccupata.

«Io e te siamo così diversi» dice. «Incontrare Haider oggi, ho solo... » sospira «Mi

sono ricordata di quanto siamo diversi. Quanto differentemente siamo cresciuti .»

Sono immobile. Confuso. Posso sentire la sua paura e apprensione, ma non so dove

vuole arrivare. Cosa sta cercando di dire.

«Quindi pensi di aver commesso un errore?» Domando, «riguardo... noi?»

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Panico, improvvisamente, quando capisce. «No, oh mio dio, non riguardo noi»

replica velocemente «No, solo... »

Sono pervaso dal sollievo.

«... Ho ancora così tanto da imparare» dice, «non so niente riguardo il governare...

niente» Emette un verso impaziente, arrabbiato. Riesce a malapena a far uscire le

parole. «Non avevo idea di quello per cui stavo firmando. E ogni giorno mi sento così

incompetente» dice. «A volte semplicemente non sono sicura di riuscire a starti

dietro. A stare dietro a tutta questa situazione.» Esita. E poi a bassa voce, «Questo

lavoro sarebbe dovuto essere tuo, lo sai. Non mio.»

«No.»

«Si» dice, annuendo. Non riesce più a guardarmi. «Lo pensano tutti, anche se non

lo dicono. Castle. Kenji. Scommetto che anche i soldati lo pensano.»

«Possono andare tutti all’inferno.»

Sorride. Anche se solo un pochino. «Penso che possano avere ragione.»

«Le persone sono idiote, amore. Le loro opinioni sono senza valore.»

«Aaron» dice, accigliandosi. «Apprezzo il tuo essere arrabbiato per conto mio,

davvero, ma non tutte le persone sono idio..»

«Se pensano che tu sia incapace è perché sono degli idioti. Idioti che hanno già

dimenticato che in pochi mesi sei stata capace di raggiungere quello che loro hanno

cercato di fare per decadi. Hanno dimenticato da dove hai iniziato, cosa hai ottenuto,

quanto velocemente hai trovato il coraggio di combattere quando loro riuscivano a

malapena a stare in piedi.»

Alza lo sguardo, ha l'aria sconfitta. «Ma non ne so niente di politica.»

«Sei inesperta» le dico, «questo è vero. Ma puoi imparare. C’è ancora tempo. E io

ti aiuterò.» Le prendo la mano.

«Tesoro, hai ispirato le persone di questo settore a seguirti in battaglia. Hanno

messo in gioco le loro vite, hanno sacrificato i loro cari, perché credevano in te. Nella

tua forza. Non puoi dimenticare l’enormità di quello che hai fatto» dico. «Non

permettere a nessuno di portarti via questo.»

Mi fissa con i suoi occhi grandi e lucidi. Sbatte le ciglia guardando altrove e

asciuga velocemente una lacrima che le era sfuggita lungo il volto.

«Il mondo ha provato a schiacciarti» continuo gentilmente, «e tu hai rifiutato di

farti distruggere. Hai affrontato ogni ostacolo, risorgendo dalle ceneri sempre più

forte, e solo per stupire tutti quelli intorno a te. E continui a confondere e stupire

quelli che ti sottovalutano. È inevitabile» dico. «Una conclusione scontata.»

«Ma ora devi capire che essere un leader è un’occupazione ingrata. Pochi saranno

grati per quello che fai o per i cambiamenti che introduci. I loro ricordi saranno brevi,

convenienti. Ogni tuo successo sarà valutato. Ogni tuo traguardo sarà spazzato via,

generando solo maggiori aspettative da quelli intorno a te. Il tuo potere ti porterà

lontano dai tuoi amici» distolgo lo sguardo, scuotendo la testa. «Ti faranno sentire

sola. Persa. Bramerai l'approvazione di quelli che una volta ammiravi, agonizzando

tra accontentare i vecchi amici e fare quello che è giusto.» Sollevo lo sguardo. Sento

il cuore gonfiarsi di orgoglio mentre la guardo. «Ma non devi mai, mai lasciare che

gli idioti entrino nella tua testa. Ti porteranno solo fuori rotta.»

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I suoi occhi brillano di lacrime non versate. «Ma come?» Domanda, la voce

spezzata. «Come li faccio uscire dalla mia testa?»

«Dagli fuoco.»

I suoi occhi si spalancano.

«Nella tua testa» chiarifico, trattenendo un sorriso. «Lascia che alimentino il fuoco

che ti mantiene forte.» Allungo un braccio, toccandole la guancia con le dita. «Gli

idioti sono altamente infiammabili, amore. Lasciali bruciare all’inferno.»

Chiude gli occhi. Protende il viso contro la mia mano.

La avvicino a me, premendo la mia fronte contro la sua. «Quelli che non ti

capiscono» dico pacatamente «dubiteranno sempre di te.»

Si tira indietro, giusto un centimetro. Guarda in su.

«E io» dico, «Io non ho mai dubitato di te.»

«Mai?»

Scuoto la testa. «Neanche una volta.»

Distoglie lo sguardo. Si asciuga gli occhi. Premo un bacio sulla sua guancia,

assaporando il sale delle sue lacrime.

Si gira verso di me.

Posso sentirlo da come mi guarda; Posso sentire le sue paure scomparire, posso

sentire le sue emozioni diventare qualcos'altro. Le sue guance si arrossano.

Improvvisamente la sua pelle è calda, elettrica sotto le mie mani. Il mio cuore batte

più veloce, più forte, e lei non ha detto neanche una parola. Posso sentire la

temperatura cambiare tra noi.

«Ehi» dice. Ma sta fissando la mia bocca.

«Ciao.»

Tocca il mio naso col suo e qualcosa dentro di me torna in vita. Sento il mio

respiro bloccarsi. I miei occhi si chiudono, involontariamente.

«Ti amo» dice.

Queste parole hanno effetto su di me ogni volta che le sento. Mi cambiano.

Costruiscono qualcosa di nuovo dentro di me. Deglutisco forte. Il fuoco consuma la

mia mente.

«Lo sai» bisbiglio. «Non mi stanco mai di sentirtelo dire.»

Sorride. Il suo naso sfiora la mia mascella mentre inclina il viso, premendo le

labbra contro la mia gola. Sto trattenendo il respiro, terrorizzato di muovermi, di

interrompere questo momento.

«Ti amo» ripete.

Il calore mi riempie le vene. Posso sentirla nel mio sangue, i suoi sospiri

sovraccaricano i miei sensi. E per un breve, disperato momento penso che potrei star

sognando.

«Aaron» dice.

Sto perdendo la battaglia. Abbiamo così tanto da fare, così tanto di cui occuparci.

So che dovrei muovermi, dovrei tornare alla realtà, ma non posso. Non riesco a

pensare.

E poi lei si arrampica sul mio grembo, e io prendo un respiro breve e disperato,

combattendo contro un improvviso impeto di passione e dolore. Non posso fingere

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quando mi sta così vicina; so che può sentirmi, può sentire quanto intensamente la

voglio.

E io posso sentire lei.

Il suo calore. Il suo desiderio. Non nasconde cosa vuole da me. Cosa vuole che le

faccia. E saperlo rende il mio tormento ancora più acuto.

Mi bacia una volta, delicatamente, le sue mani si infilano sotto il mio maglione e

mi stringe le braccia intorno al busto. La stringo e lei si avvicina, sistemandosi sul

mio grembo, e prendo un altro respiro doloroso e tormentato. Tutti i miei muscoli si

tendono. Cerco di non muovermi.

«So che è tardi» dice. «So che abbiamo tante cose da fare. Ma mi manchi.»

Abbassa le braccia, le sue dita tracciano la lampo dei miei pantaloni, e il movimento

si ripercuote dentro di me. Vedo bianco tutto intorno a me. Per un momento non

sento nient’altro che il mio cuore, rimbombare nella mia testa.

«Stai cercando di uccidermi» dico.

«Aaron.» Posso sentire il suo sorriso mentre sussurra la parola nel mio orecchio.

Sta sbottonando i miei pantaloni. «Per favore.»

E io, io sono perduto.

Immediatamente porto la mano dietro al suo collo, l’altra le circonda il torace, e la

bacio, fondendomi con lei, cadendo all’indietro sul letto e portandola giù con me.

Sognavo questo, momenti come questo, come sarebbe stato sbottonarle i jeans, far

scivolare le mie dita sulla sua pelle nuda, sentirla, calda e morbida contro il mio

corpo.

Mi fermo, improvvisamente. Mi allontano. Voglio vederla, studiarla. Ricordare a

me stesso che lei è veramente qui, è veramente mia. Che mi vuole tanto quanto la

voglio io. E quando incontro il suo sguardo la sensazione prende il sopravvento,

minacciando di affogarmi. E poi mi sta baciando, anche se combatto per riprendere

fiato, e ogni cosa, ogni pensiero e preoccupazione è spazzata via, sostituita dalla

sensazione della sua bocca contro la mia pelle. Le sue mani reclamano il mio corpo.

Dio, è una droga impossibile.

Mi bacia come se lo sapesse. Come se sapesse quanto disperatamente ho bisogno

di questo, di lei, di questo conforto.

Come se ne avesse bisogno anche lei.

Le stringo le braccia intorno, ruotandola così velocemente che squittisce per la

sorpresa. Le bacio il naso, le guance, le labbra. I contorni dei nostri corpi sono fusi

insieme. Mi sento dissolvere, diventando pura emozione quando separa le labbra,

assaggiandomi, gemendo nella mia bocca.

«Ti amo» dico, annaspando nel pronunciare le parole. «Ti amo.»

È interessante, davvero, quanto velocemente sia diventato una persona che fa

pisolini nel tardo pomeriggio. La persona che ero non avrebbe mai sprecato così tanto

tempo dormendo. Ma di nuovo, quella persona non sapeva come rilassarsi.

Dormire era brutale, sfuggente. Ma questo...

Chiudo gli occhi, premo il viso contro la sua nuca e inspiro.

Lei si muove quasi impercettibilmente contro di me.

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Il suo corpo nudo è caldo contro il mio, le mie braccia sono completamente avvolte

intorno a lei. Sono le sei, ho un centinaio di cose da fare, e non vorrei mai più

muovermi.

Bacio la sua spalla e lei inarca la schiena, espira e si gira a guardarmi. La stringo

più a me.

Mi sorride. Mi bacia.

Chiudo gli occhi, la pelle ancora calda al ricordo di lei. Le mie mani seguono la

forma del suo corpo, il suo calore. Mi stupisco sempre di quanto sia morbida. Le sue

curve sono gentili e affusolate. Sento i muscoli tendersi per il desiderio e mi stupisco

di quanto la voglia.

Di nuovo.

Così presto.

«Faremmo meglio a vestirci» dice delicatamente. «Devo ancora incontrare Kenji

per parlare di stasera.»

Mi allontano immediatamente.

«Wow» sospiro, girandomi. «Questo non è affatto quello che speravo dicessi.»

Ride. Forte. «Mmm. Kenji è un forte anafrodisiaco per te. Ricevuto. »

Mi acciglio, sentendomi petulante.

Mi bacia il naso. «Spero davvero che voi due possiate diventare amici.»

«È un disastro ambulante» dico. «Guarda cosa ha fatto ai miei capelli.»

«Ma è il mio migliore amico» dice, sorridendo ancora. «E non voglio dover

scegliere tra voi due tutto il tempo.»

La guardo con la coda dell’occhio. É seduta ora, indossando nient’altro che il

lenzuolo. Ha i lunghi capelli castani arruffati, le guance arrossate, gli occhi grandi e

rotondi ancora un po’ assonnati.

Non sono sicuro di poterle dire di no.

«Per favore, sii carino con lui» dice e gattona verso di me, il lenzuolo intrappolato

sotto il suo ginocchio e annullando la sua compostezza. Allontano di scatto il resto

del lenzuolo da lei e sussulta, sorpresa dalla vista del proprio corpo nudo, e non posso

fare a meno di sfruttare il momento, mettendola di nuovo sotto di me.

«Perché» dico baciandole il collo, «sei sempre così attaccata a quel lenzuolo?»

Lei allontana lo sguardo e arrossisce, e io sono di nuovo perso e la bacio.

«Aaron» boccheggia senza fiato, «Io davvero... devo andare.»

«Non farlo» sussurro, seminando baci leggeri lungo la sua clavicola. «Non

andare.»

Il suo volto è arrossato, le labbra di un rosso brillante. Tiene gli occhi chiusi per il

piacere.

«Non voglio» dice, trattenendo il respiro mentre le catturo il labbro inferiore tra i

denti, «Non voglio davvero, ma Kenji... »

Gemo e mi lascio cadere all'indietro, coprendomi la faccia con un cuscino.

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CAPITOLO 13 JULIETTE

Traduttore: Noir

«Dove diavolo eri finita?»

«Cosa? Da nessuna parte» rispondo, il rossore che si diffonde per tutto il mio

corpo. «Stavo solo...»

«Che vuol dire da nessuna parte?» Replica Kenji, finendo quasi per pestarmi i

piedi mentre cerco di camminare più veloce di lui.

«Ti ho aspettata quaggiù per quasi due ore.»

«Lo so…mi dispiace…»

Mi afferra per una spalla. Mi fa voltare. Da un'occhiata alla mia faccia e...

«Oh, che schifo, J, ma che diavolo...»

«Cosa?» Spalanco gli occhi, fingendomi innocente anche se nel mentre ho il volto

in fiamme.

Kenji mi lancia un'occhiataccia.

Mi schiarisco la gola.

«Ti avevo detto di fargli una domanda.»

«Gliel'ho fatta!»

«Gesù cristo» Kenji si passa agitatamente una mano contro la fronte. «Ora e luogo

non significano niente per te?»

«Hmm?»

Stringe gli occhi a fessura nella mia direzione.

Sorrido.

«Siete terribili.»

«Kenji» replico, cercando di toccarlo.

«Bleah, non toccarmi!»

«Va bene» mi incupisco, incrociando le braccia.

Scuote la testa, guarda in un'altra direzione. Fa una smorfia e dice: «Sai che c'è?

Chissenefrega» e sospira. «Ti ha almeno detto qualcosa di utile prima che

tu…mmh… cambiassi argomento?»

Ci ritroviamo nella zona di accoglienza dove avevamo incontrato Haider la prima

volta.

«Sì, l'ha fatto» rispondo, determinata. «Sapeva esattamente di chi stessi parlando.»

«E?»

Ci sediamo sui divani, Kenji mi si posiziona di fronte stavolta, e io mi schiarisco la

gola. Mi domando ad alta voce se sia il caso di ordinare dell'altro tè.

«Niente tè.» Kenji si appoggia allo schienale, a gambe incrociate, la caviglia destra

sopra il ginocchio sinistro. «Che ha detto Warner di Haider?»

Il suo sguardo è così concentrato e inflessibile che non so bene come comportarmi.

Mi sento ancora abbastanza in imbarazzo; vorrei essermi ricordata di legarmi di

nuovo i capelli. Devo continuamente scostarmeli dal volto.

Mi siedo più dritta. Mi do un contegno. «Ha detto che non sono mai stati amici.»

Kenji ride seccamente. «Sai che rivelazione.»

«Ma lo ricordava» continuo, indicando nulla in particolare.

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«E? Cosa ricorda?»

«Oh. Ehm.» Mi gratto un inesistente prurito dietro l'orecchio. «Non lo so.»

«Non hai chiesto?»

«Io l'ho... dimenticato?»

Kenji alza gli occhi al cielo. «Merda, sapevo che gli avrei dovuto parlare io.»

Mi siedo sulle mani e cerco di sorridere. «Vuoi ordinare del tè?»

«Niente tè.» Kenji mi scocca un'occhiataccia. Tamburella le dita sulla gamba,

pensieroso.

«Ti va di...»

«Dov'è Warner adesso?» Taglia corto lui.

«Non lo so» rispondo. «Penso sia ancora nella sua stanza. Aveva un mucchio di

scatole che voleva esaminare...»

Kenji si alza in un attimo. Solleva un dito. «Torno subito.»

«Aspetta! Kenji, non credo che sia una buona idea..»

Ma è già andato via.

Mi lascio cadere sul divano e sospiro.

Come avevo sospettato, non una buona idea.

Warner sta rigido in piedi dietro il mio divano, e guarda Kenji a malapena. Penso

che ancora non l'abbia perdonato per il terribile taglio di capelli, e non posso certo

biasimarlo.

Ha un aspetto differente senza i suoi capelli dorati, non brutto, ma diverso. I suoi

capelli raggiungono a malapena il centimetro e mezzo di lunghezza, il taglio è

uniforme ma il colore è una sfumatura di biondo che adesso si nota a malapena. Il

cambiamento più interessante, però, è la presenza di un morbido velo di barba, come

se ultimamente si fosse dimenticato di radersi, e sono sorpresa dal fatto che la cosa

non mi infastidisca. La sua bellezza è tale da non essere minata da un semplice taglio

di capelli, e la verità è che un po' mi piace. Non condividerei volentieri la cosa con

Warner, dato che non saprei come prenderebbe questo complimento poco ortodosso,

ma c'è un qualcosa di bello in questo cambiamento. Sembra un po' più grezzo adesso;

un po' meno curato. È meno bello, ma in qualche modo incredibilmente più...

Sexy.

Capelli corti e che richiedono poca cura; un velo di barba; un volto intensamente

serio.

Gli dona.

Indossa un morbido maglione blu marino, le cui maniche sono, come sempre,

arrotolate sugli avambracci, e pantaloni neri aderenti infilati dentro lucidi stivali neri

alla caviglia. È un look che gli riesce senza sforzo. E adesso, mentre sta appoggiato

contro una colonna, le caviglie incrociate e l'espressione più accigliata del solito, io

non posso fare a meno di godermi il panorama.

Kenji, d'altro canto, non è dello stesso avviso.

Entrambi sembrano più irritati che mai, e mi rendo conto che è colpa mia se c'è

questa tensione. Continuo a cercare di fargli passare del tempo insieme. A sperare

che, col tempo, Kenji riuscirà a vedere i motivi per cui amo Warner, e che

quest'ultimo imparerà ad ammirare Kenji così come lo ammiro io. La cosa, però, non

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sta funzionando. Obbligarli a passare del tempo insieme sta iniziando ad avere delle

ripercussioni.

«Quindi» dico, battendo le mani. «Parliamo?»

«Certo» replica Kenji, ma il suo sguardo è sul muro.

«Parliamo.»

Nessuno parla.

Tocco il ginocchio di Warner. Quando mi guarda, gli faccio segno di sedersi.

Si siede.

«Per favore» sussurro.

Warner si incupisce.

Alla fine, con riluttanza, sospira. «Hai detto che avevi delle domande da farmi.»

«Sì, prima domanda: perché sei così stronzo?»

Warner si alza. «Amore» dice sommessamente, «spero mi perdonerai per quello

che sto per fargli alla faccia.»

«Ehi, cazzone, ti riesco a sentire comunque.»

«Ok, la dovete smettere sul serio.» Tiro Warner per il braccio, cercando di farlo

sedere di nuovo, ma lui non si muove. La mia forza sovrumana è del tutto inutile con

lui, il potere viene semplicemente assorbito dal suo. «Per favore, siediti. Tutti e due.

E tu» dico, indicando Kenji, «devi piantarla di istigare liti.»

Kenji alza le mani al cielo e fa un verso incredulo. «Oh, quindi adesso è colpa mia,

giusto? Certo, come no.»

«No» replico, seria. «Non è colpa tua. È colpa mia.»

Kenji e Warner si voltano verso di me allo stesso tempo, colti di sorpresa.

«Questa situazione?» Dico, indicandoli. «L'ho causata io. Mi dispiace di avervi

chiesto di essere amici. Non dovete esserlo. Non dovete nemmeno piacervi.

Dimenticate quello che ho detto.»

Warner lascia cadere le braccia.

Kenji solleva le sopracciglia.

«Prometto» continuo, «che non vi forzerò più a trascorrere tempo insieme. Niente

più incontri senza di me presente. D'accordo?»

«Lo giuri?»

«Lo giuro.»

«Grazie a Dio» commenta Warner.

«L'hai detto, fratello, l'hai detto.»

Alzo gli occhi al cielo, irritata. Questa è la prima cosa su cui hanno concordato in

tutta la settimana: l'odio condiviso per le mie speranze in una loro amicizia.

Almeno Kenji sta sorridendo adesso. Si siede sul divano e sembra rilassarsi.

Warner si siede accanto a me, sempre composto, ma molto meno teso.

Ed ecco fatto. Serviva soltanto questo. La tensione è sparita. Adesso che sono liberi

di odiarsi, si comportano con massima cordialità. Non li capisco per niente.

«Quindi, hai delle domande da farmi, Kishimoto?» Chiede Warner.

Kenji annuisce e si sporge in avanti. «Sì, volevo sapere cosa ti ricordavi della

famiglia Ibrahim. Dobbiamo prepararci a tutto in vista della cena di stasera con

Haider, che sarà tra..» Kenji guarda nella mia direzione e si acciglia, «venti minuti,

non certo grazie a voi, ma comunque, mi domandavo se ci sapessi dire qualcosa sulle

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sue possibili motivazioni. Vorrei essere un passo avanti rispetto a questo tizio.»

Warner annuisce. «La famiglia di Haider richiederà più tempo per essere

analizzata. Tutti insieme intimidiscono, ma preso da solo Haider è molto meno

complesso. Onestamente è strano che l'abbiano scelto per questa situazione. Sono

sorpreso che Ibrahim non abbia mandato sua figlia invece.»

«Perché?»

Warner si stringe nelle spalle. «Haider è meno competente. È un ipocrita, arrogante

e viziato.»

«Aspetta, stai descrivendo te stesso o Haider?»

Warner non sembra turbato dall'insulto. « Non stai considerando una differenza

chiave tra me e lui» replica. «Io sarò anche sicuro di me, ma Haider è arrogante. Non

siamo simili.»

«Non vedo la differenza.»

Warner unisce le mani e sospira, l'aspetto esasperato di chi sta cercando di essere

paziente con un bambino difficile. «L'arroganza è falsa sicurezza» spiega. «Nasce

dall'insicurezza. Haider finge di non avere paura. Si finge più crudele di quello che è.

Mente con facilità, e questo lo rende imprevedibile, e in un certo senso, un nemico

pericoloso, ma nella maggior parte dei casi le sue azioni nascono dalla paura.»

Warner solleva lo sguardo e incontra quello di Kenji. «E questo lo rende debole.»

«Mmh, ok.» Kenji sprofonda ulteriormente nel divano, processando. «C'è qualcosa

di particolarmente interessante che dovremmo sapere di lui?»

«Non penso. Haider è mediocre nella maggior parte delle cose. Eccelle solo

occasionalmente. È ossessionato dal proprio fisico e molto abile con il fucile da

cecchino.»

Kenji solleva di scatto la testa. «Ossessionato dal proprio corpo? Sicuro che non

siete parenti?»

La faccia di Warner si rabbuia. «Io non sono ossessionato dal m....»

«Ok, ok, calmiamoci.» Kenji agita le mani in aria. «Non c'è bisogno di corrucciare

quel tuo bel faccino.»

«Ti detesto.»

«Adoro il fatto che il sentimento sia reciproco.»

«Va bene, ragazzi» interrompo a voce alta. «Concentriamoci. Dobbiamo cenare

con Haider tra cinque minuti, e io sembro l'unica preoccupata dalla rivelazione che

sia un cecchino estremamente abile.»

«Già, magari è qui per fare un po' di, sai...» Kenji punta le dita a pistola in

direzione di Warner e poi di se stesso, «tiro a segno.»

Warner scuote la testa, ancora un po' infastidito.

«Haider è tutta scena, non mi preoccuperei di lui. Come ho già detto, mi

preoccuperei solo se sua sorella fosse qui, il che significa che dovremo iniziare a farlo

molto presto.» Sospira. «Sarà quasi sicuramente la prossima ad arrivare.»

Inarco le sopracciglia. «Fa davvero paura?»

Warner inclina la testa. «Non direi esattamente paura» risponde, «è molto logica.»

«Quindi è... che cosa?» Interviene Kenji. «Una psicopatica?»

«Nient'affatto. Però io sono sempre stato in grado di capire le persone e le loro

emozioni, e non sono mai riuscito a captare niente da lei. Penso che la sua mente si

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muova troppo in fretta. Il modo in cui pensa ha un che di... fugace. Come un colibrì.»

Sospira, solleva lo sguardo. «Ad ogni modo, non la vedo da diversi mesi, ma dubito

che sia cambiata molto.»

«Come un colibrì?» Chiede Kenji. «Quindi parla molto rapidamente?»

«No» replica Warner. «Di solito è molto taciturna.»

«Uhm, ok, sono contento che non sia qui» dice Kenji, «sembra una noia.»

Warner quasi sorride. «Ti sbudellerebbe.»

Kenji alza gli occhi al cielo.

Sono sul punto di porre un'altra domanda quando uno scampanellio improvviso e

stridulo interrompe la conversazione.

Delalieu è venuto a chiamarci per la cena.

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CAPITOLO 14 WARNER

Traduzione: JulietteFerrars

Detesto con tutto me stesso essere abbracciato.

Ci sono pochissime eccezioni, ma Haider non ne fa parte. Ciononostante, ogni

volta che lo vedo insiste nell’abbracciarmi. Bacia l'aria vicino le mie guance, mi

prende le spalle e mi sorride come se fossi davvero suo amico.

«Hela habibi shlonak? È così bello vederti.»

Cerco di sorridere. «Ani zeyn, shukran.» Faccio un cenno verso il tavolo. «Prego,

accomodati.»

«Certo, certo» dice, e si guarda intorno. «Wenha Nazeera…?»

«Oh» dico, sorpreso, «Pensavo che fossi venuto da solo.»

«La,habibi.» Dice mentre si siede, «Heeya shwaya mitakhira. Ma dovrebbe

arrivare tra poco. Era molto eccitata al pensiero di vederti.»

«Ne dubito fortemente.»

«Ehm, chiedo scusa, ma sono l’unico qui che non sapeva che parlassi l’arabo?»

Kenji mi sta guardando con gli occhi spalancati.

Haider ride, i suoi occhi luminosi analizzano la mia espressione. «I tuoi nuovi

amici sanno pochissimo di te.» E poi, in direzione di Kenji: «Il tuo Reggente Warner

parla sette lingue.»

«Parli sette lingue?» Domanda Juliette, toccandomi il braccio.

«A volte.» Replico, a voce bassa.

Siamo un piccolo gruppetto a cena stasera; Juliette siede a capotavola. Io siedo alla

sua destra; Kenji siede alla mia destra.

Di fronte a me ora siede Haider Ibrahim.

Di fronte a Kenji c’è una sedia vuota.

«Allora» dice Haider, unendo le mani, « È questa la tua nuova vita? Sono cambiate

molte cose da quando ci siamo visti l’ultima volta.»

Prendo in mano la forchetta. «Cosa ci fai qui, Haider?»

«Wallah» dice, toccandosi il petto, «Credevo che saresti stato felice di vedermi.

Volevo conoscere tutti i tuoi nuovi amici. E ovviamente dovevo conoscere il tuo

nuovo comandante supremo.» Guarda Juliette con la coda dell’occhio; il movimento

è così veloce che quasi mi sfugge. Poi prende il tovagliolo, lo pone con attenzione sul

grembo e dice a bassa voce, «Heeya jidan helwa.»

Mi irrigidisco.

«E ti basta questo?» Si piega improvvisamente in avanti, parlando a bassa voce

cosicché possa sentirlo solo io. «Un bel visino? Per tradire i tuoi amici così

facilmente?»

«Se sei venuto per combattere» dico, «per favore, non disturbiamoci a cenare.»

Haider scoppia a ridere. Prende il suo bicchiere d’acqua. «Non ancora, habibi.»

Prende un sorso. Si appoggia allo schienale. «C’è sempre tempo per cenare.»

«Dov’è tua sorella?» Domando, distogliendo lo sguardo, «Perché non siete venuti

insieme?»

«Perché non glielo chiedi tu stesso?»

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Alzo lo sguardo, sorpreso nel vedere Nazeera sulla soglia. Scruta la stanza, con gli

occhi che si soffermano sul viso di Juliette un secondo di più rispetto agli altri, e si

siede senza proferire parola.

«Vi presento Nazeera» dice Haider, scattando in piedi con un grande sorriso.

Avvolge le spalle di sua sorella con un braccio, anche se viene ignorato. «Resterà qui

fino alla fine del mio soggiorno. Spero che la accoglierete tanto calorosamente quanto

me.»

Nazeera non saluta nessuno.

Il viso di Haider è aperto, è un’esagerazione di felicità. Nazeera, d’altro canto, non

ha nessuna espressione. I suoi occhi sono assenti, la sua mandibola è solenne. Le

uniche somiglianze tra i due fratelli sono fisiche: somiglia sorprendentemente al

fratello. Ha la sua stessa pelle marrone chiaro, così come gli occhi, e le stesse ciglia

lunghe e scure che rendono ermetica la sua espressione per il resto di noi. Ma è

cresciuta molto da quando l’ho vista l’ultima volta. I suoi occhi sono più grandi, più

profondi di quelli di Haider e ha un piccolo piercing a forma di diamante proprio

sotto il labbro inferiore. Altri due piercing sul sopracciglio destro. L’unica altra

differenza evidente tra di loro è che non posso vedere i suoi capelli.

Indossa uno scialle di seta intorno alla testa.

E non riesco a nascondere la mia sorpresa. Questa mi è nuova. La Nazeera che

ricordavo non si copriva i capelli, e perché mai avrebbe dovuto? Il suo velo è un

cimelio; fa parte delle nostre vite passate. È un reperto di una religione e di una

cultura che non esistono più con la Restaurazione. Molto tempo fa il nostro

movimento ha cancellato tutti i simboli e le pratiche delle fedi e delle culture nel

tentativo di azzerare identità ed alleanze; a tal punto che i luoghi di culto sono state le

prime istituzioni nel mondo a essere distrutte. I civili, si diceva, dovevano inchinarsi

davanti alla Restaurazione e a nient’altro. Croci, mezzelune, Stelle di David…

Turbanti e kippah, veli e abiti da suora…

Sono tutti illegali.

E Nazeera Ibrahim, la figlia di un comandante supremo, ha una quantità

sconcertante di coraggio. Perché questo semplice velo, solitamente un dettaglio

irrilevante, non è nient’altro che un puro atto di ribellione. E sono così scioccato che

non riesco a non farle questa domanda.

«Ti copri i capelli ora?»

Lei alza lo sguardo per incontrare il mio. Prende un lungo sorso di tè e mi scruta.

E poi, alla fine…

Non dice nulla.

Sento che il mio viso è sul punto di mostrare sorpresa e devo impormi di stare

fermo. Chiaramente non ha alcun interesse a parlare dell’argomento. Decido di

passarci oltre. Sto per dire qualcosa ad Haider, quando...

«Quindi credi che nessuno lo noti? Che ti copri i capelli?» Chiede Kenji, parlando

e masticando contemporaneamente. Mi tocco le labbra e distolgo lo sguardo,

cercando di nascondere il mio disgusto.

Nazeera infilza un pezzo di lattuga nel suo piatto con la forchetta. Lo mangia.

«Cioè, credo che tu ne sia a conoscenza» insiste Kenji, mentre continua a

masticare, «ciò che indossi è un reato punibile con la carcerazione.»

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Lei sembra sorpresa del fatto che Kenji stia ancora parlando dell'argomento, i suoi

occhi lo studiano come se fosse un idiota. «Scusami» dice piano, mettendo giù la

forchetta, «Ma tu chi sei esattamente?»

«Nazeera» dice Haider, cercando di sorridere mentre le lancia una cauta occhiata

di traverso. «Ricordati che siamo ospiti, per favore…»

«Non credevo ci fosse un dress code qui.»

«Oh, beh, qui non abbiamo un dress code» dice Kenji tra un boccone e l’altro,

noncurante della tensione creatasi, «ma è solo perché abbiamo un comandante

supremo che non è uno psicopatico. Però è illegale vestirsi così» commenta,

gesticolando nella sua direzione con il cucchiaio, «cioè, lo è letteralmente in qualsiasi

altro posto. Giusto?» Si guarda intorno ma nessuno risponde. «Non è così?» Mi

chiede, impaziente di averne conferma.

Annuisco. Lentamente.

Nazeera prende un altro lungo sorso di tè, attenta a mettere giù la tazza sul piattino

prima di appoggiarsi allo schienale, poi ci guarda entrambi e dice, «cosa vi fa pensare

che me ne importi qualcosa?»

«Cioè» Kenji si acciglia, «dovrebbe importartene, no? Tuo padre è un comandante

supremo. Almeno sa che indossi quella cosa… » un altro gesto platonico verso la sua

testa, «In pubblico? Non si incazzerà?»

Le cose non stanno andando bene.

Nazeera, che aveva appena ripreso la forchetta per infilzare un altro boccone di

cibo nel piatto, la mette giù e sospira. A differenza di suo fratello, parla la lingua

perfettamente, senza alcun accento.

Fissa Kenji quando dice, «Questa cosa?»

«Scusa» dice con imbarazzo, «non so come si chiama.»

Lei gli sorride, ma non calorosamente. C’è solo un avvertimento in quel sorriso.

«Uomini» dice, «sono sempre così confusi dall’abbigliamento delle donne. Così tante

opinioni che riguardano un corpo che non gli appartiene. Copritevi, non copritevi… »

agita una mano, «sembra che nessuno riesca a decidersi.»

«Ma… non è quello che… » Kenji cerca di dire.

«Sai cosa penso» dice lei, ancora sorridendo, «di chi mi dice cosa è legale e cosa

non lo è riguardo al mio modo di vestirmi?»

Fa il dito medio con entrambe le mani.

A Kenji va il cibo di traverso.

«Fa’ pure» continua Nazeeraa, con gli occhi lampeggianti di rabbia mentre

riafferra la forchetta. «Dillo a mio padre. Avverti l’esercito. Non me ne frega un

cazzo.»

«Nazeera… »

«Chiudi il becco, Haider.»

«Ehi, ehi, mi dispiace» dice Kenji all’improvviso, preso dal panico, «Non

intendevo… »

«Lascia perdere» dice Nazeera, alzando gli occhi al cielo. «Non ho fame.» Si alza

di colpo. In modo elegante. C’è qualcosa di interessante riguardo alla sua rabbia. La

sua protesta palese. E la ragazza è più impressionante una volta in piedi.

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Ha le stesse gambe lunghe e la stessa figura slanciata di suo fratello, un portamento

molto fiero, come quello di qualcuno nato nel privilegio. Indossa una tunica grigia di

un materiale raffinato e pesante; pantaloni di pelle aderenti; stivali pesanti; e degli

anelli d’oro luccicanti sulle nocche di entrambe le mani.

E non sono l’unico che la sta fissando.

Juliette, che ha assistito a tutta la scena in silenzio, la sta guardando, colpita.

Riesco praticamente a vedere il suo flusso di pensieri mentre si irrigidisce di colpo,

dà un’occhiata ai suoi vestiti e incrocia le braccia sul petto come per nascondere il

suo maglione rosa dagli altri. Sta strattonando le maniche, come quasi per strapparle.

È così adorabile che quasi la bacio sul momento.

Dopo che Nazeera se n’è andata, è calato un silenzio pesante e sgradevole tra di

noi.

Stasera ci aspettavamo un interrogatorio dettagliato da Haider; invece sta

infilzando il cibo in silenzio, visibilmente stanco e imbarazzato. Nessuna quantità di

denaro o di prestigio può risparmiarci l’agonia delle cene di famiglia imbarazzanti.

«Perché hai dovuto per forza dire qualcosa?» Kenji mi dà una gomitata e io

trasalisco, sorpreso.

«Come, scusa?»

«È colpa tua» sibila ansiosamente. «Non avresti dovuto dire niente sul suo scialle.»

«Le ho fatto una domanda» replico severamente, «sei stato tu a insistere… »

«Sì, ma hai iniziato tu! Perché hai dovuto dire per forza qualcosa?»

«È la figlia di un comandante supremo» dico, cercando di non alzare la voce, «sa

meglio di chiunque altro che ciò che indossa è illegale secondo le leggi della

Restaurazione… »

«Oh mio Dio» replica Kenji, scuotendo la testa. «Smettila e basta, okay?»

«Come ti permetti… »

«Di cosa state parlando così a bassa voce?» Chiede Juliette, avvicinandosi.

«Solo del fatto che il tuo fidanzato non sa quando chiudere il becco» dice Kenji,

raccogliendo un’altra cucchiaiata di cibo.

«Sei tu quello che non riesce a chiudere il becco» distolgo lo sguardo, «Non ci

riesci neanche mentre mangi. Tra tutte le cose disgustose… »

«Stai zitto, amico. Ho fame.»

«Credo che anch’io mi ritirerò per la notte» dice Haider, di colpo.

Si alza in piedi.

Solleviamo tutti lo sguardo.

«Certamente» dico. Mi alzo per dargli una buonanotte come si deve.

«Ani aasef» dice Haider, guardando gli avanzi della sua cena. «Speravo di poter

avere una conversazione più produttiva con tutti voi questa sera, ma temo che mia

sorella sia infelice di essere qui; non voleva lasciare casa nostra.» Sospira, «Ma

conosci Baba» continua, «non le ha lasciato altra scelta.» Haider fa spallucce. Cerca

di sorridere. «Non ha ancora capito che ciò che facciamo, il modo in cui viviamo

adesso… » esita, «è la vita che ci tocca. Nessuno di noi ha possibilità di scelta.»

E per la prima volta stasera Haider mi sorprende; scorgo qualcosa nei suoi occhi

che riconosco. Una scintilla di dolore. Il peso delle responsabilità. Delle aspettative.

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So fin troppo bene cosa significhi essere il figlio di un comandante supremo della

Restaurazione e osare palesare dissenso.

«Certo» gli dico, «capisco.»

E lo capisco davvero.

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CAPITOLO 15 JULIETTE

Traduzione: Layola

Warner scorta Haider al suo alloggio, e subito dopo che sono andati via, il resto

della nostra compagnia si disperde. È stata una cena strana e troppo breve, ricca di

sorprese e mi fa male la testa. Sono pronta per andare a letto. Io e Kenji stiamo

andando verso la stanza di Warner in silenzio, entrambi persi nei nostri pensieri.

È Kenji il primo a parlare.

«Quindi... sei piuttosto silenziosa stasera» dice.

«Già.» Rido, ma senza entusiasmo. «Sono esausta Kenji. È stata una giornata

strana. E una serata ancora più strana.»

«Strana come?»

«Beh, non lo so, che ne dici se iniziamo con il fatto che Warner parla sette lingue?»

Sollevo lo sguardo, incontrando il suo. «Voglio dire, ma che diavolo? A volte penso

di conoscerlo così bene, e poi succede qualcosa come questa e semplicemente... »

scuoto la testa «... mi fa impazzire. Avevi ragione» dico. «Non so ancora niente di lui.

E poi, cosa sto facendo? Non ho detto niente a cena perché non avevo idea di cosa

dire.»

Kenji sospira. «Già. Beh. Sette lingue sono pazzesche. Ma, voglio dire, devi

ricordarti che lui è nato in tutto questo, no? Warner ha ricevuto un'istruzione e tu

invece no.»

«Questo è esattamente ciò che intendo.»

«Ehi, ce la farai» dice Kenji, strizzandomi la spalla. «Andrà tutto bene.»

«Stavo giusto iniziando a sentirmi come se potessi farcela» gli dico, «ho avuto

questa conversazione con Warner oggi che mi ha fatta sentire veramente meglio. E

ora non riesco neanche a ricordare perché.» Sospiro. Chiudo gli occhi. «Mi sento così

stupida, Kenji. Mi sento ogni giorno più stupida.»

«Forse stai solo invecchiando. Perdendo i colpi.» Si picchietta la testa. «Proprio

qui.»

«Stai zitto.»

«Quindi» ride, «so che è stata una serata strana e tutto il resto, ma... cosa ne pensi?

Nel complesso?»

«Di cosa?» Gli lancio uno sguardo.

«Di Haider e Nazeera» dice. «Pensieri? Sensazioni? Sociopatici, sì o no?»

«Oh» Mi acciglio. «Voglio dire, sono molto diversi. Haider è così rumoroso. E

Nazeera è... non so. Non ho mai incontrato qualcuno come lei prima. Immagino che

rispetti il fatto che si sia ribellata a suo padre e alla Restaurazione, ma non ho idea di

quali siano le sue vere motivazioni, quindi non sono sicura che dovrei darle troppo

credito.» Sospiro. «In ogni caso, sembra molto... arrabbiata.»

E molto bella. E molto intimidatoria.

La dura realtà è che non mi sono mai sentita così intimidita da un’altra ragazza

prima, e non so come ammetterlo ad alta voce. Tutto il giorno, e per l’ultimo paio di

settimane, mi sono sentita come un impostore. Un bambino. Odio quanto facilmente

acquisto e perdo sicurezza in me stessa, come vacillo tra chi sono e chi ero. Il mio

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passato ancora mi perseguita, mani scheletriche mi trattengono anche se io avanzo

verso la luce. E non posso fare a meno di chiedermi quanto diversa sarei oggi se

avessi avuto qualcuno ad incoraggiarmi quando stavo crescendo. Non ho mai avuto

un forte modello femminile. Incontrare Nazeera stasera, vedere quanto fosse

imponente e coraggiosa, mi ha fatto chiedere dove abbia imparato a essere così.

Mi ha fatto desiderare di aver avuto una sorella. O una madre. Qualcuno da

prendere a esempio e su cui far affidamento. Una donna che mi insegnasse come

essere coraggiosa in questo corpo, in mezzo a questi uomini.

Non ho mai avuto niente di simile.

Invece, sono stata cresciuta con una dieta fissa di scherno e derisione, diretti al

cuore e schiaffi in faccia. Sentendomi dire ripetutamente che ero senza valore. Un

mostro.

Mai amata. Mai protetta dal mondo.

Nazeera non sembra dare importanza a quello che pensano gli altri, e vorrei così

tanto avere la sua stessa fiducia in me stessa. So di essere cambiata molto, di avere

percorso una lunga strada rispetto quella che ero, ma più di ogni altra cosa voglio

essere sicura di me, orgogliosa di chi sono e come mi sento, e non doverci provare

così tanto tutto il tempo. Sto ancora lavorando su quella parte di me.

«Giusto» dice Kenji. «Sì. Piuttosto arrabbiata. Ma... »

«Scusate?»

Al suono della sua voce ci giriamo entrambi di scatto.

«Si parla del diavolo» dice Kenji a bassa voce.

«Scusate... penso di essermi persa» dice Nazeera. «Pensavo di conoscere questo

palazzo piuttosto bene, ma ci sono un sacco di lavori in corso e mi stanno

confondendo. Potete dirmi come uscire?»

Sorride quasi.

«Oh, certo» dico, e quasi sorrido in risposta. «In realtà, penso che potresti essere

nel lato sbagliato del palazzo. Ti ricordi da dove sei entrata?»

Si ferma a pensare. «Credo che i nostri alloggi siano nel lato sud» dice, e mi fa un

vero sorriso per la prima volta. Poi vacilla. «Aspetta. Penso che fosse il lato sud. Mi

dispiace» dice, accigliandosi. «Sono arrivata appena un paio d’ore fa, Haider è

arrivato qui prima di me... »

«Capisco perfettamente» dico, interrompendola con un gesto della mano. «Non

preoccuparti, mi ci è voluto un po’ per orientarmi in questo palazzo. In realtà, sai

cosa? Kenji lo conosce anche meglio di me. A ogni modo, questo è Kenji, non penso

che siate stati presentati formalmente stasera...»

«Già, ciao» dice, il sorriso scomparso in un istante. «Mi ricordo.»

Kenji la sta fissando come un idiota. Occhi spalancati, palpebre che battono.

Labbra schiuse anche se solo leggermente. Gli do un colpetto sul braccio e lui strilla,

sorpreso, ma si rianima.

«Oh, giusto» dice velocemente. «Ciao. Ciao... sì, ciao, uhm, mi dispiace per la

cena.»

Lei solleva un sopracciglio verso di lui.

E per la prima volta da quando lo conosco, Kenji arrossisce. Arrossisce. «No,

davvero» dice. «Io.. io penso che la tua sciarpa sia... molto bella.»

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«Uh-uhm.»

«Di cosa è fatta?» Chiede, allungando il braccio per toccarle la testa. «Sembra così

soffice... »

Lei gli allontana la mano con uno schiaffo, indietreggiando visibilmente anche in

questa scarsa luce. «Ma che diavolo? Fai sul serio?»

«Cosa?» Kenji sbatte le ciglia, confuso. «Cosa ho fatto?»

Nazeera ride, le sua espressione un misto di confusione e vago disgusto. «Come

puoi essere così negato?»

Kenji si immobilizza, la bocca spalancata. «Io non... non so, quali sono le regole?

Tipo, posso chiamarti qualche volta o... »

Rido improvvisamente, forte, e do un pizzicotto a Kenji sul braccio.

Kenji impreca ad alta voce. Mi lancia uno sguardo arrabbiato.

Mi pianto un sorrido radioso sul viso e parlo rivolgendomi a Nazeera. «Quindi, sì,

se vuoi uscire dall’uscita sud» dico velocemente, «la tua migliore opzione è tornare

indietro lungo il corridoio e girare tre volte a sinistra. Vedrai le doppie porte alla tua

destra, chiedi ad uno dei soldati di portarti da lì.»

«Grazie» dice Nazeera, ricambiando il mio sorriso prima di indirizzare una strana

occhiata in direzione di Kenji. Lui si sta ancora massaggiando la spalla colpita mentre

la saluta debolmente con la mano.

È solo dopo che lei se ne è andata di nuovo che finalmente mi volto, sibilando,

«Cosa diavolo hai che non va?» E Kenji mi afferra per le braccia, le ginocchia gli

cedono, e dice,

«O mio Dio, J, penso di essere innamorato.»

Lo ignoro.

«No, veramente» dice «è così che ci si sente? Perché non sono mai stato

innamorato prima, quindi non so se questo è amore o solo un’intossicazione

alimentare?»

«Non la conosci neanche» dico, alzando gli occhi al cielo, «quindi immagino che

sia solo un’intossicazione alimentare.»

«Pensi che sia così?»

Alzo lo sguardo su di lui, gli occhi a fessura, ma uno sguardo è abbastanza per far

dissolvere la rabbia. La sua espressione è così strana e sciocca, così stordita, che mi

sento quasi male per lui.

Sospiro, spingendolo in avanti. Continua a fermarsi senza motivo. «Non lo so.

Penso che forse sei solo, sai... attratto da lei? Dio, Kenji, mi hai gettato addosso così

tanta merda per essermi comportata così con Adam e Warner e ora sei tu a essere in

una tempesta ormonale... »

«Come ti pare. Me lo devi.»

Lo guardo con la fronte aggrottata.

Lui alza le spalle, ancora raggiante. «Voglio dire, so che probabilmente è una

sociopatica. E che potrebbe benissimo uccidermi nel sonno. Ma dannazione, è...

wow...» dice «è follemente bella. Il tipo di bellezza che fa pensare a un uomo che

essere assassinato nel sonno non sia un brutto modo di andarsene.»

«Già» ribatto, ma lo dico a bassa voce.

«Vero?»

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«Immagino di si.»

«Che significa immagino di sì? Non stavo facendo una domanda. Quella ragazza è

oggettivamente bellissima.»

«Certo.»

Kenji si ferma, mi stringe le spalle. «Qual è il tuo problema, J?»

«Non so cosa tu... »

«Oh mio Dio,» dice, sbalordito. «Sei gelosa?»

«No» dico, ma ho praticamente urlato la parola.

Sta ridendo ora. «Questa è pazzia. Perché sei gelosa?»

Alzo le spalle, mormorando qualcosa.

«Aspetta, cosa hai detto?» Si mette le mani a coppa sulle orecchie. «Sei

preoccupata che ti lascerò per un’altra donna?»

«Stai zitto, Kenji. Non sono gelosa.»

«Oh, J.»

«Non lo sono. Lo giuro. Non sono gelosa. Sono solo... sono solo... »

Sto passando un momento difficile.

Ma non ho la possibilità di pronunciare le parole. Kenji improvvisamente mi

solleva, mi fa ruotare e dice, «Oh, sei così carina quando sei gelosa... »

E io gli tiro un calcio sul ginocchio. Forte.

Mi fa cadere sul pavimento, reggendosi la gamba, e gridando parole così oscene

che non ne riconosco la metà. Corro via, per metà sentendomi in colpa, per metà

compiaciuta, le sue promesse di prendermi a calci in culo il mattino successivo che

mi fanno da eco mentre me ne vado.

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CAPITOLO 16 WARNER

Traduzione: FranciAlbi

Oggi mi sono unito a Juliette per la sua passeggiata mattutina.

Sembra molto nervosa, molto di più di quanto non l’abbia mai vista, e incolpo me

stesso per non averla preparata al meglio per ciò che potrebbe trovarsi ad affrontare

come comandante supremo. La scorsa notte è tornata nella nostra stanza in preda al

panico, aveva detto di desiderare di saper parlare più lingue, poi si era rifiutata di

elaborare.

È come se si stesse nascondendo da me.

O forse sono io che mi sto nascondendo da lei.

Sono stato così assorto nella mia stessa testa, nelle mie preoccupazioni, che non ho

avuto molte possibilità di parlare con lei, di chiederle come se la stia cavando

ultimamente. Ieri è stata la prima volta che ha parlato delle sue preoccupazioni

sull’essere un buon leader, e mi fa interrogare da quanto tempo queste paure si siano

insediate in lei. Da quanto tempo si stia tenendo tutto dentro. Dobbiamo trovare più

tempo per discuterne a fondo; ma temo che entrambi potremmo affogare nelle

rispettive rivelazioni.

Io già lo sto facendo.

Ho la testa ancora piena delle assurdità di Castle. Sono certo che si scoprirà che ha

ricevuto informazioni sbagliate, che ha male interpretato qualche dettaglio cruciale.

Ciononostante, sono alla disperata ricerca di risposte certe, e non ho ancora avuto

l’occasione di esaminare i file di mio padre.

Quindi rimango qui, nell’incertezza.

Avevo sperato di trovare un po' di tempo oggi, ma non voglio lasciare Juliette da

sola con Haider e Nazeera. Le ho dato lo spazio di cui aveva bisogno quando ha

incontrato per la prima volta Haider, ma lasciarla da sola con entrambi, ora, sarebbe

semplicemente da irresponsabile. I nostri visitatori sono qui per le ragioni sbagliate e

probabilmente coglieranno ogni pretesto per trascinarla nelle loro crudeli Olimpiadi

mentali, giocando con le sue emozioni.

Sarei sorpreso se non volessero terrorizzarla e confonderla. Spaventarla al punto di

farla dubitare di se stessa. E sto cominciando a preoccuparmi.

Ci sono così tante cose che Juliette ancora non sa.

Credo di non essermi sforzato abbastanza di mettermi nei suoi panni. La mia

educazione militare fa si che io dia per scontate troppe cose, e ciò che per me sembra

ovvio, per lei è ancora totalmente nuovo. Devo ricordarmelo. Devo ricordarle che

possiede un esercito. Che possiede una flotta di macchine a uso personale; un autista.

Diversi jet privati a sua disposizione. E poi mi domando, improvvisamente, se sia mai

salita su un aereo.

Mi fermo, assorto nei miei pensieri.

Certo che non ci è salita. Non ricorda niente della sua vita al di fuori del Settore

45. Dubito che sia mai andata a fare una nuotata, figuriamoci se è mai stata su una

nave nel bel mezzo dell’oceano. Ha solo e sempre vissuto attraverso libri e ricordi.

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C’è ancora moltissimo che deve imparare. Moltissimo da affrontare. E sebbene

simpatizzi profondamente con i suoi problemi, non la invidio per questo, per

l’enormità del compito che deve affrontare. Dopotutto, c’è una semplice ragione se

non ho mai voluto il compito di comandante supremo...

Non ne ho mai voluto la responsabilità.

Si tratta di un’impressionante mole di lavoro con addirittura meno libertà di quelle

che uno potrebbe aspettarsi; anzi peggio, è una posizione che richiede una buona dose

di capacità nel trattare con le persone. Quel tipo di capacità che include uccidere e

ammaliare una persona, a pochi secondi l’una dall’altra. Due cose che detesto.

Ho provato a convincere Juliette che era perfettamente in grado di prendere il posto

di mio padre, ma non mi è sembrata minimamente convinta. E con Haider e Nazeera

qui adesso, capisco perché si senta più insicura che mai. Quei due... beh, solo Haider,

in realtà, ha chiesto di unirsi a Juliette per la sua passeggiata mattutina verso l’acqua,

oggi. Lei e Kenji hanno discusso la questione sommessamente, ma Haider ha un udito

più fine di quanto sospettassimo. Quindi eccoci qui, tutti e cinque a camminare sulla

spiaggia in un imbarazzante silenzio. Haider, Juliette e io abbiamo inconsciamente

formato un gruppetto. Nazeera e Kenji ci seguono a qualche passo di distanza.

Nessuno parla.

Tuttavia, la spiaggia non è un posto terribile dove passare la mattinata, nonostante

il tanfo che si sta alzando dall’acqua. In realtà è piuttosto rilassante. Il suono delle

onde che si infrangono crea un sottofondo rilassante in questa prima parte di giornata

altrimenti già stressante.

«Quindi» Haider mi chiede, «parteciperai al Simposio Continentale quest’anno?»

«Certo» rispondo piano. «Parteciperò come ho sempre fatto.» Una pausa.

«Tornerai a casa per partecipare all’evento organizzato da voi?»

«Sfortunatamente no. Io e Nazeera speravamo di accompagnare voi nordamericani,

ma ovviamente... non so se il Comandante Supremo Ferrars...» guarda verso Juliette,

«presenzierà, quindi...»

Si avvicina con gli occhi spalancati. «Scusate, di cosa stiamo parlando?»

Haider si acciglia solo in apparenza, ma percepisco la profondità della sua

sorpresa. «Il Simposio Continentale» dice, «sicuramente ne avrai sentito parlare?»

Juliette mi guarda, confusa, e poi...

«Ah, sì, ma certo» dice, ricordandosene. «Ho ricevuto un mucchio di lettere in

merito. Non avevo compreso che fosse così importante.»

Devo sopprimere l’impulso di fare una smorfia.

Questa è stata un’ulteriore svista da parte mia.

Io e Juliette abbiamo parlato del Simposio, ovviamente, ma brevemente.

È un congresso con cadenza biennale di tutti i 555 reggenti del continente. I leader

di ogni singolo settore, riuniti nello stesso posto.

È un evento enorme.

Haider inclina la testa, studiando Juliette. «Sì, è davvero importante. Nostro padre»

prosegue, «è impegnato a preparare l’evento in Asia, quindi ci ho pensato un bel po'

ultimamente. Dato che l’ultimo supremo, Anderson, non ha mai partecipato agli

eventi pubblici, mi stavo domandando se tu avessi intenzione di seguire le sue orme.»

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«Oh, no, ci sarò» Juliette risponde velocemente, «non mi nasconderò dal resto del

mondo come ha fatto lui. Certo che ci sarò.»

Gli occhi di Haider si allargano lievemente. Sposta lo sguardo fra me e lei.

«Quand’è, esattamente?» Chiede, e sento la curiosità di Haider crescere.

«Non hai guardato il tuo invito?» Domanda, con massima innocenza. «L’evento è

fra due giorni.»

Juliette si volta improvvisamente dall'altra parte, ma non prima che io la veda

arrossire. Posso percepire il suo improvviso imbarazzo e mi spezza il cuore. Odio

Haider perché gioca con lei in questo modo.

«Sono stata molto occupata» mormora.

«È colpa mia» mi intrometto, «era un mio compito e me ne sono dimenticato. Ma

stiamo finalizzando il programma proprio oggi. Delalieu è all’opera per organizzare i

dettagli.»

«Fantastico» mi risponde Haider. «Io e Nazeera non vediamo l’ora di raggiungervi.

Non siamo mai stati a un simposio al di fuori dell’Asia.»

«Certamente» dico, «saremo contenti di avervi con noi.»

Poi, Haider guarda Juliette dall’alto in basso, analizzando il suo abbigliamento, i

suoi capelli, la sua semplicità, le sue scarpe da tennis consunte; e anche senza dire

niente, riesco a percepire la sua disapprovazione, il suo scetticismo e infine... la sua

delusione.

Mi fa venire voglia di gettarlo nell’oceano.

«Quali sono i vostri piani per il resto della vostra permanenza?» Gli chiedo,

guardandolo più attentamente.

Lui alza le spalle, con nonchalance. «I nostri piani sono in continuo cambiamento.

Siamo solo interessati a passare del tempo con voi.» Mi guarda. «I vecchi amici

hanno davvero bisogno di un motivo per vedersi?» E per un momento, un brevissimo

momento, sento del dolore genuino dietro alle sue parole. Un sentirsi trascurato.

Mi sorprende.

E poi sparisce.

«Comunque» dice Haider, «credo che il Supremo Comandante Ferrars abbia già

ricevuto numerose lettere dai nostri amici. Sembra però che le loro richieste di poter

venire in visita abbiano ricevuto in risposta solo silenzio. Temo che si siano sentiti un

po’ esclusi quando ho detto loro che io e Nazeera siamo qui.»

«Cosa?» Chiede Juliette, guardando me prima di voltarsi verso Haider. «Che altri

amici? Intendi gli altri comandanti supremi? Perché non ho...»

«Oh... no» dice Haider, «No, no, non gli altri comandanti. Non ancora, perlomeno.

Solo noi ragazzi. Speravamo di fare una reunion. Non ci ritroviamo tutti insieme da

troppo tempo.»

«Tutti insieme» dice piano Juliette. Poi si acciglia. «quanti ragazzi ci sono

esattamente?»

La falsa esuberanza di Haider improvvisamente si tramuta. Freddezza. Mi guarda

con un mix di rabbia e confusione quando dice, «Non le hai raccontato niente di

noi?»

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Ora Juliette mi sta fissando. I suoi occhi si allargano impercettibilmente; posso

sentire la sua paura crescere. E sto ancora riflettendo su come diavolo convincerla a

non preoccuparsi quando Haider mi afferra un braccio, forte, e mi spinge all’indietro.

«Cosa stai facendo?» Sussurra, con tono urgente, violento. «Hai voltato le spalle a

tutti noi... per cosa? Per questo? Per una bambina? Inta kullish ghabi» dice, «Molto,

molto stupido. E ti assicuro, habibi, non andrà a finire bene.»

C’è un avvertimento nei suoi occhi.

E poi lo sento, all’improvviso non si trattiene più, rivela un segreto custodito nel

suo cuore, e una sensazione orribile si annida nel mio stomaco. Una sensazione di

nausea. Puro terrore.

E infine comprendo:

I comandanti stanno mandando qui i loro figli in avanscoperta perché pensano che

non valga la pena di perdere tempo presentandosi personalmente. Vogliono che la

loro prole si infiltri ed esamini la nostra base... che usino la loro giovinezza per

ammaliare la giovane, nuova comandante suprema del Nord America, per fingere

spirito di squadra... e infine, vogliono che mandino loro informazioni. Non sono

interessati a forgiare alleanze.

Sono qui unicamente per capire quanto laborioso sarà distruggerci.

Mi volto dall'altra parte, la rabbia minaccia di farmi perdere la mia compostezza, e

Haider mi serra sempre di più il braccio. Lo guardo negli occhi. L'unica cosa che mi

trattiene dallo spezzargli le dita e staccarmele dal corpo, è la mera determinazione a

voler mantenere la situazione civile per il bene di Juliette.

Ferire Haider sarebbe sufficiente per dare il via a una guerra mondiale.

E lui lo sa.

«Cosa ti è successo?» Insiste, continuando a sibilarmi nell'orecchio. «Non ci ho

creduto quando mi hanno detto che ti eri innamorato di una ragazza idiota e psicotica.

Avevo più fiducia in te. Ti ho difeso. Ma questo» dice, scuotendo la testa, «mi spezza

davvero il cuore. Non posso credere quanto tu sia cambiato.»

Le mie dita si irrigidiscono, smaniano per trasformarsi in pugni, e sto per

rispondere quando Juliette, che ci sta osservando attentamente a distanza, dice,

«Lascialo andare.»

E c’è qualcosa nella fermezza della sua voce, nella furia a malapena contenuta

delle sue parole, che cattura l’attenzione di Haider.

Lui mi lascia il braccio, sorpreso. Si volta.

«Toccalo ancora una volta» dice Juliette con calma, «e ti strappo il cuore dal

corpo.»

Haider la fissa, «Scusami?»

Juliette fa un passo in avanti. Improvvisamente è terrificante. C’è il fuoco nei suoi

occhi. Una calma assassina nei suoi movimenti. «Se ti sorprendo a mettergli una

mano addosso un’altra volta, ti apro il petto» dice, «e ti strappo il cuore.»

Le sopracciglia di Haider schizzano verso la fronte. Batte le palpebre. Esita. E poi:

«Non sapevo facesse parte del tuo repertorio.»

«Per te» dice, «lo farei con piacere.»

Ora, Haider sorride. Ride, forte. E per la prima volta da quando è arrivato, pare

davvero sincero. I suoi occhi brillano, deliziati. «Ti dispiace» le dice, «se prendo in

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prestito il tuo Warner per un momento? Ti prometto che non gli metterò le mani

addosso. Voglio solo parlargli.»

Mi guarda, con occhi interrogativi.

Riesco solo a sorriderle. Vorrei sollevarla di peso e portarla via. Portarla in qualche

posto tranquillo e perdermi in lei. Amo il fatto che la ragazza che arrossisce così

facilmente fra le mie braccia è la stessa che ucciderebbe un uomo per avermi fatto del

male.

«Non ci vorrà molto» dico.

E ricambia il mio sorriso, il suo viso ancora una volta trasformato. Il gesto si

protrae solo per pochi secondi, ma non so come, il tempo rallenta quel tanto che basta

affinché io possa cogliere i dettagli di questo momento e inserirlo fra i miei ricordi

preferiti. Sono grato, improvvisamente, per questo insolito, soprannaturale dono che

ho di percepire le emozioni. È ancora un segreto, pochi ne sono a conoscenza... un

segreto che sono riuscito a tenere nascosto a mio padre, agli altri comandanti e ai loro

figli. Mi piace come mi fa sentire un caso a parte... diverso... dalle persone che ho

sempre conosciuto. Ma soprattutto, mi fa comprendere quanto profondamente mi ami

Juliette. Posso sempre percepire il flusso di emozioni nelle sue parole, nei suoi occhi.

La certezza che combatterebbe per me. Che mi proteggerebbe. E sapere questo mi fa

sentire il cuore talmente pieno che, a volte, quando siamo insieme, fatico a respirare.

Mi domando se sa che farei di tutto per lei.

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CAPITOLO 17 JULIETTE

Traduzione: Layola

«Oh, guarda! Un pesce!» Corro verso l’acqua e Kenji mi afferra per la vita,

trascinandomi indietro.

«Quell’acqua è disgustosa, J. Non dovresti avvicinarti.»

«Cosa? Perché?» Chiedo, indicandola. «Non vedi il pesce? Non vedevo un pesce

nell’acqua da tantissimo tempo.»

«Già, beh, probabilmente è morto.»

«Cosa?» Guardo di nuovo, strizzando gli occhi. «No, non credo... »

«Oh, si, è decisamente morto.»

Entrambi solleviamo lo sguardo.

É la prima cosa che Nazeera ha detto in tutta la mattina. È stata molto silenziosa,

guardando e ascoltando tutto con un’immobilità inquietante. In realtà, ho notato che

ha trascorso la maggior parte del tempo a guardare suo fratello. Non sembra

interessata a me nel modo in cui lo è Haider, e lo trovo disorientante. Ancora non

capisco esattamente perché siano qui. So che sono curiosi riguardo a chi sia, cosa che

onestamente capisco, ma deve esserci più di questo. Ed è questa parte sconosciuta, e

la tensione tra fratello e sorella, che non riesco a capire.

Quindi aspetto che dica qualcos'altro.

Non lo fa.

Sta ancora guardando suo fratello, che ora si è allontanato con Warner, i due stanno

discutendo di qualcosa che non riusciamo più a sentire.

Vederli insieme è una scena interessante.

Warner oggi indossa un completo rosso sangue scuro. Nessuna cravatta, nessun

cappotto, anche se fuori si gela, solo una camicia nera sotto la giacca, e un paio di

stivali neri. Stringe il manico di una valigetta e un paio di guanti nella stessa mano, e

ha le guance rosa per il freddo. Di fianco a lui, i capelli di Haider sono una massa

nera selvaggia nella grigia luce mattutina. Indossa dei pantaloni neri aderenti, la

maglietta di ieri con le catene sotto un lungo cappotto blu, e non sembra affatto

infastidito dal vento che gli fa aprire il cappotto rivelando il suo addome muscoloso e

molto abbronzato. In realtà, sono abbastanza certa che sia intenzionale. Loro due che

camminano spavaldi e solitari sulla spiaggia deserta, stivali pesanti che lasciano

impronte nella sabbia, creano un’immagine impressionante, ma sono decisamente

vestiti troppo elegantemente per l’occasione.

Se devo essere onesta, devo ammettere con riluttanza che Haider è bello tanto

quanto la sorella, nonostante la sua avversione per le magliette. Haider però sembra

pienamente consapevole della sua bellezza, il che in qualche modo va a suo sfavore.

In ogni caso, niente di tutto questo ha importanza. Sono interessata solo al ragazzo

che cammina al suo fianco. Quindi è Warner che sto fissando quando Kenji dice

qualcosa che mi riporta immediatamente al presente.

«Penso sarebbe meglio che tornassimo alla base, J.» Controlla l’ora sull’orologio

che ha iniziato ad indossare solo di recente. «Castle dice che ha bisogno di parlare

con te il prima possibile.»

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«Di nuovo?»

Kenji annuisce. «Già, e io devo parlare con le ragazze dei loro progressi con

James, ricordi? Castle vuole un rapporto. A ogni modo, penso che Winston e Alia

abbiano finalmente finito di sistemare la tua tuta, e hanno un nuovo modello da farti

vedere quando hai il tempo. So che devi ancora esaminare il resto della tua posta di

oggi, ma quando avrai fatto magari potremmo...»

«Ehi» dice Nazeera, facendoci un cenno mentre ci raggiunge. «Se voi ragazzi state

tornando alla base, potreste farmi un favore e darmi l'autorizzazione di circolare da

sola per il settore oggi?» Mi sorride. «Non vengo qui da più di un anno, e mi

piacerebbe dare un'occhiata in giro. Vedere cosa è cambiato.»

«Certo» dico, sorridendole in risposta. «I soldati alla reception possono

occuparsene. Dagli il tuo nome, e Kenji gli invierà la mia pre-autorizzazio...»

«Oh, sì, in realtà, sai una cosa? Perché non lasci che ti porti io in giro?» Kenji le

rivolge un sorriso abbagliante. «Questo posto è cambiato molto nell’ultimo anno.

Sarei felice di farti da guida.»

Nazeera esita. «Pensavo avessi detto che hai una montagna di cose da fare.»

«Cosa? No.» Ride. «Zero cose da fare. Sono tutto tuo. Per qualsiasi cosa.»

«Kenji...»

Mi dà un colpetto sulla schiena e io sussulto, guardandolo storto.

«Uhm, ok» dice Nazeera. «Beh, magari più tardi, se hai tempo...»

«Ho tempo adesso» dice lui, e sta sorridendo come un idiota. Tipo, come un totale

idiota. Non so come salvarlo da se stesso. «Andiamo?» Dice. «Possiamo iniziare da

qui... posso mostrarti il comprensorio per prima cosa, se ti va. O possiamo iniziare dai

territori non regolati.» Alza le spalle. «Quello che preferisci. Basta che me lo dici.»

Nazeera sembra improvvisamente affascinata. Sta fissando Kenji come se potesse

sminuzzarlo e metterlo in uno stufato. «Non sei un membro della Guardia Suprema?»

Chiede. «Non dovresti stare con il tuo Comandante finché non è al sicuro nella

base?»

«Oh, sì... no, starà bene» dice velocemente. «In più abbiamo questi tizi» fa un

gesto verso i sei soldati che ci stanno seguendo, «che la tengono d’occhio tutto il

tempo, starà bene.»

Gli do un forte pizzicotto al lato dello stomaco.

Kenji sussulta, girandosi. «Siamo a soli cinque minuti dalla base» continua. «Non

avrai problemi a tornare da sola, vero?»

Gli lancio un’occhiataccia. «Certo che posso tornare indietro da sola» bisbiglio,

infervorata. «Non è per questo che sono arrabbiata. Sono arrabbiata perché hai un

milione di cose da fare e ti stai comportando come un idiota davanti a una ragazza

che ovviamente non è interessata a te.»

Kenji fa un passo indietro, assumendo un'aria ferita. «Perché stai cercando di

ferirmi, J? Dov’è il tuo voto di fiducia? Dove sono l’amore e il supporto di cui ho

bisogno in questo momento difficile? Mi devi fare da spalla.»

«Sapete che posso sentirvi, vero?» Nazeera inclina la testa di lato, le braccia

incrociate contro il petto. «Sono proprio qui.»

Oggi sembra in qualche modo ancora più splendida, con i capelli avvolti in seta

che sembra oro liquido alla luce. Indossa un maglione rosso intricatamente

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intrecciato, un paio di leggings neri di pelle, e stivali neri con la suola di acciaio. E ha

ancora quei tirapugni di oro pesante su entrambe le mani.

Mi piacerebbe chiederle dove prende i vestiti.

Quando si schiarisce la gola, realizzo che io e Kenji siamo rimasti a fissarla fin

troppo a lungo. Lascia cadere le braccia e si avvicina cautamente, sorridendo, non

senza gentilezza, a Kenji, che sembra improvvisamente incapace di respirare.

«Ascolta» dice gentilmente. «Sei carino. Molto carino. Hai un bel viso. Ma questo»

dice, facendo un gesto tra di loro, «non accadrà.»

Kenji non sembra averla sentita. «Pensi che abbia un bel viso?»

Lei ride e si acciglia allo stesso tempo. Agita due dita e dice, «ciao.»

E questo è tutto. Se ne va.

Kenji non dice niente. I suoi occhi sono fissi sulla figura di Nazeera che si va

allontanando.

Gli do una pacca sul braccio, cercando di sembrare comprensiva. «Va tutto bene»

dico. «Il rifiuto è diff...»

«Uh. Cosa?»

Si volta a guardarmi. «Voglio dire, ho sempre saputo di avere un bel viso. Ma ora

so per certo che ce l'ho. Ed è così soddisfacente.»

«Sai, non penso che mi piaccia questo lato di te.»

«Non fare così, J.» Kenji mi dà un colpetto sul naso. «Non essere gelosa.»

«Non sono gelo...»

«Voglio dire, merito di essere felice anch’io, no?» E si zittisce improvvisamente. Il

suo sorriso svanisce, la risata si spegne, e Kenji sembra, anche se solo per un

momento, triste. «Forse un giorno.»

Sento il cuore stringersi.

«Ehi» dico gentilmente. «Tu meriti di essere il più felice di tutti.»

Kenji si passa una mano tra i capelli e sospira. «Già. Beh.»

«È lei che ci perde» dico.

Lui mi lancia un'occhiata. «Immagino che in termini di rifiuti non fosse tanto

male.»

«Lei non ti conosce» dico. «Sei assolutamente un ottimo partito.»

«È così, vero? Cerco sempre di dirlo a tutti.»

«Le persone sono stupide.» Alzo le spalle. «Penso che tu sia meraviglioso.»

«Meraviglioso, eh?»

«Già» dico, prendendolo a braccetto. «Sei intelligente, divertente e gentile e...»

«Bellissimo» dice. «Non dimenticarti bellissimo.»

«E assolutamente bellissimo» confermo, annuendo.

«Sono lusingato, J, ma non mi piaci in quel modo.»

Resto a bocca aperta.

«Quante volte devo chiederti di smettere di innamorarti di me?»

«Ehi!» dico, spintonandolo via. «Sei terribile.»

«Pensavo di essere meraviglioso.»

«Dipende dall’orario.»

E ride, forte. «Va bene, ragazzina. Sei pronta per tornare indietro?»

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Sospiro, guardando in lontananza. «Non lo so. Penso di aver bisogno di un altro

po’ di tempo da sola. Ho ancora troppe cose per la testa da analizzare.»

«Capisco» dice, lanciandomi uno sguardo comprensivo. «Fa quello che devi.»

«Grazie.»

«Ti dispiace se io vado? A parte gli scherzi, ho veramente una montagna di cose da

fare, oggi.»

«Starò bene. Tu vai.»

«Sei sicura? Starai bene qui fuori da sola?»

«Sì, sì» dico e lo spingo in avanti.«Starò più che bene. Non sono mai veramente da

sola, comunque.» Indico con la testa i soldati. «Questi ragazzi mi seguono sempre.»

Kenji annuisce, strizzandomi velocemente il braccio e si allontana.

Nell’arco di pochi secondi sono sola. Sospiro e mi giro verso l’acqua, calciando la

sabbia nel mentre.

Sono così confusa.

Mi sento schiacciata da diverse preoccupazioni, intrappolata dalla paura di un mio

all'apparenza inevitabile fallimento come leader e quelle dell'imperscrutabile passato

di Warner. La conversazione di oggi con Haider non mi ha aiutato con queste ultime.

Il suo evidente shock per il fatto che Warner non si sia neanche scomodato a dirmi

delle altre famiglie, e dei figli con cui è cresciuto, mi ha davvero colpita. Mi ha fatto

domandare quanto altro ancora non sappia. Quanto ancora ci sia da scoprire.

So esattamente come mi sento quando guardo Warner negli occhi, ma a volte stare

con lui mi dà dei colpi di frusta. Non è affatto abituato a comunicare le cose più

basilari a chiunque, e si scopre sempre qualcosa di nuovo ogni giorno. Le scoperte

non sono tutte negative, infatti la maggior parte delle cose che ho imparato di lui me

lo fanno amare di più, ma anche le rivelazioni più innocue sono occasionalmente

poco chiare.

La scorsa settimana l’ho trovato seduto nel suo ufficio ad ascoltare dei vecchi

dischi in vinile.

Avevo visto la sua collezione di dischi prima, ha un'enorme pila che gli era stata

assegnata dalla Restaurazione insieme a una selezione di vecchi libri e pezzi d’arte,

avrebbe dovuto smistarla, decidere cosa tenere e cosa distruggere. Ma non lo avevo

mai visto stare semplicemente seduto ad ascoltare della musica.

Quel giorno non mi ha notata quando sono entrata.

Era seduto completamente immobile, la faccia rivolta verso il muro e stava

ascoltando quello che poi ho scoperto essere un disco di Bob Dylan. Lo so perché ho

sbirciato nel suo ufficio diverse ore dopo, quando lui se n'era andato. Non riuscivo a

liberarmi della curiosità; Warner aveva ascoltato solo una delle canzoni del disco, e

ogni volta che finiva rimetteva l'ago indietro, e volevo sapere cosa fosse. Si è

scoperto che era una canzone chiamata “Like a Rolling Stone.”

Non gli ho ancora parlato di cosa ho visto quel giorno; volevo vedere se avrebbe

condiviso la storia con me. Ma non ne ha mai fatto parola, neanche quando gli ho

chiesto cosa avesse fatto quel pomeriggio. Non era esattamente una bugia, ma

l’omissione mi ha fatto domandare perché me lo stesse nascondendo.

C’è una parte di me che vuole dissezionare la sua storia. Voglio conoscere le parti

belle e le brutte, far uscire allo scoperto tutti i segreti e non parlarne più.

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Perché in questo momento sono certa che la mia immaginazione è molto più

pericolosa di qualsiasi delle sue verità.

Ma non sono bene come renderlo possibile.

Inoltre, tutto si sta muovendo così velocemente per adesso. Siamo tutti così

impegnati, tutto il tempo, e la situazione è abbastanza complicata da tenere i miei

pensieri a bada. Non sono neanche sicura a quali obiettivi stia mirando la nostra

resistenza al momento. Mi preoccupa tutto. Le preoccupazioni di Castle mi

preoccupano. I misteri di Warner mi preoccupano. I figli dei comandanti supremi mi

preoccupano.

Prendo un respiro profondo ed espiro, a lungo e rumorosamente.

Fisso l'acqua, cercando di schiarirmi la mente, focalizzandomi sul movimento

fluido dell’oceano. Appena tre settimane fa mi sentivo più forte di quanto non mi

fossi mai sentita in tutta la mia vita. Avevo finalmente imparato come usare i miei

poteri; avevo imparato come moderare la mia forza, come proiettarla, e, ancora più

importante, come accendere e spegnere la mia abilità. E poi ho rotto le gambe di

Anderson a mani nude. Sono rimasta immobile mentre i soldati scaricavano interi

caricatori sul mio corpo. Ero invincibile.

Ma adesso?

Questo nuovo lavoro è molto più difficile di quanto immaginassi.

La politica, si è scoperto, è una scienza che ancora non capisco. Uccidere cose,

rompere cose, distruggere cose? Quello lo capisco. Arrabbiarsi e andare in guerra, lo

capisco. Ma giocare con pazienza una partita di scacchi confusionaria con un

mucchio di stranieri da ogni parte del mondo?

Dio, preferirei molto di più sparare a qualcuno.

Sto tornando lentamente verso la base, e le mie scarpe si riempiono di sabbia. Ho

paura di sentire qualunque cosa Castle voglia dirmi, ma sono già stata via troppo a

lungo. C’è così tanto da fare, e l'unico modo per uscirne è affrontare tutto. Venirci a

patti, qualsiasi cosa sia. Sospiro mentre apro e serro i pugni, sentendo il potere entrare

e uscire dal mio corpo. È ancora una strana sensazione per me, essere in grado di

spegnermi a piacimento. È bello poter andare in giro la maggior parte dei giorni con i

miei poteri disattivati; è bello essere in grado di toccare accidentalmente la pelle di

Kenji senza preoccuparmi di fargli del male. Raccolgo due manciate di sabbia. Poteri

attivati: chiudo il pugno e la sabbia è polverizzata. Poteri disattivati: la sabbia lascia

una vaga orma butterata impressa sulla mia pelle.

Lascio cadere la sabbia, spolverando via i grani rimasti sui palmi, e strizzo gli

occhi al sole mattutino. Sto cercando i soldati che mi hanno seguito per tutto questo

tempo, perché, improvvisamente, non riesco a localizzarli. Il che è strano, perché li

ho visti solo un minuto fa.

E poi lo sento...

Dolore

Mi esplode nella schiena.

È un dolore improvviso, intenso e violento e ne sono accecata all'istante. Mi volto

infuriata, ma immediatamente la sensazione svanisce, i miei sensi attenuati anche se

cerco di focalizzarli. Chiamo a raccolta la mia Energia, che ronza immediatamente di

electricum, e mi rimprovero per la mia stupidità, per aver dimenticato di riaccendere i

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miei poteri, specialmente all'aperto. Ero troppo distratta. Troppo frustrata. Posso

sentire il proiettile conficcato nella scapola indebolirmi, ma combatto l’agonia e

cerco di avvistare il mio assalitore.

Sono comunque troppo lenta.

Un altro proiettile mi colpisce alla coscia, ma questa volta mi lascia solo una ferita

superficiale, rimbalzando via prima di procurare un danno serio. La mia Energia è

fioca, e si indebolisce ogni minuto di più, penso a causa del sangue che sto perdendo,

e sono frustrata, tremendamente frustrata da quanto velocemente mi abbiano

sopraffatta.

Stupida stupida stupida...

Inciampo mentre cerco di muovermi con rapidità sulla sabbia; sono ancora un

bersaglio facile. Il mio assalitore potrebbe essere chiunque, trovarsi ovunque, e non

sono neanche sicura di dove guardare, quando improvvisamente vengo colpita da tre

proiettili: allo stomaco, al polso e al petto. I proiettili mi penetrano nel corpo e

riescono a farmi perdere altro sangue, ma quello che ho piantato nella schiena mi sta

causando accecanti fitte di dolore che mi attraversano le vene. Ansimo, la bocca

spalancata, e non riesco a prendere fiato e il tormento è così intenso che non posso

fare a meno di chiedermi se questa sia una pistola speciale, se questi non siano

proiettili speciali...

Oh

Il mio corpo rilascia questo breve suono senza fiato mentre le ginocchia colpiscono

la sabbia e ora sono abbastanza sicura, quasi certa che questi proiettili siano

avvelenati, il che significa che anche queste, queste fitte di dolore potrebbero essere

pericolos...

Cado, la testa mi gira, la schiena contro la sabbia, troppo stordita per vedere bene.

Ho le labbra intorpidite, le ossa sfatte e il sangue, il mio sangue sgorga rapido e

strano e io inizio a ridere, pensando di vedere un uccello nel cielo, non uno solo, ma

tanti tutti insieme che volano volano volano

All’improvviso non riesco a respirare.

Qualcuno ha le braccia intorno al mio collo, mi trascina indietro e sto soffocando,

sputando e perdendo i polmoni e non riesco a sentire la lingua e sto scalciando la

sabbia così forte che ho perso le scarpe e penso è fatta, sono morta di nuovo, così

presto così presto a ogni modo ero così stanca e poi

La pressione è scomparsa

Così repentinamente

Sto ansimando e tossendo e c’è sabbia nei miei capelli e tra i miei denti e vedo

colori e uccelli, così tanti uccelli, e sto girando e...

Crack

Qualcosa si spezza e sembrano ossa. La mia visuale si schiarisce per un istante e

riesco a vedere qualcosa davanti a me. Qualcuno. Sobbalzo, sentendomi come se la

mia bocca potesse inghiottirsi da sola e penso che deve essere il veleno, ma non è

così; è Nazeera, così bella, così bella in piedi davanti a me, le mani intorno al collo

senza vita di un uomo e poi lo lascia cadere a terra

Mi solleva

Sei così forte e così bella biascico, così forte e voglio essere come te, le dico

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E lei dice shh e mi dice di stare ferma, mi dice che andrà tutto bene

e mi porta via.

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CAPITOLO 18 WARNER

Traduzione: FranciAlbi / Juls

Panico, terrore, colpa, paure infinite...

Riesco a malapena a sentire i miei piedi mentre colpiscono il pavimento, il mio

cuore batte così forte da farmi male fisicamente. Mi sto dirigendo verso l’ala medica

in costruzione al quindicesimo piano cercando di non affogare nell’oscurità dei miei

pensieri. Devo combattere l’istinto di chiudere gli occhi mentre corro, facendo le

scale di emergenza due scalini alla volta perché, ovviamente, l’ascensore più vicino è

temporaneamente fermo per manutenzione.

Non sono mai stato così ingenuo.

A cosa stavo pensando? A cosa stavo pensando? Semplicemente, ho fallito.

Continuo a commettere gli stessi errori. Continuo a elaborare supposizioni. E non ho

mai desiderato così tanto utilizzare l’inelegante vocabolario di Kishimoto. Dio, le

cose che vorrei dire. Le cose che vorrei urlare. Non sono mai stato così arrabbiato con

me stesso. Ero sicuro che avesse tutto sotto controllo, ero sicuro che non sarebbe mai

andata all’aperto senza protezione...

Un’ondata improvvisa di terrore mi travolge.

Passerà.

Passerà, anche se il mio petto si solleva esausto e rabbioso. È irrazionale, essere

arrabbiati con l’agonia, è futile, lo so, essere arrabbiati con il dolore... ma comunque,

lo sono. Mi sento impotente. Voglio vederla. Voglio stringerla. Voglio chiederle come

ha potuto abbassare la guardia, passeggiando da sola, all’aperto...

Qualcosa sembra uscire dal mio petto appena raggiungo il piano, i miei polmoni

stanno bruciando dallo sforzo. Il mio cuore batte furiosamente. Nonostante questo,

attraverso il corridoio come una furia. Disperazione e terrore mi danno la carica per

trovarla.

Mi fermo bruscamente quando torna il panico.

Un’ondata di paura mi prende alle spalle e mi obbliga a piegarmi, per provare a

respirare. È un dolore spontaneo. Schiacciante. Sento un solletico dietro ai miei

occhi. Li sbatto forte per combattere i miei sentimenti.

Com’è potuto accadere? Le vorrei chiedere.

Non ti sei resa conto che qualcuno avrebbe potuto ucciderti?

Sto praticamente tremando quando raggiungo la stanza dov’è lei. Quasi non mi

accorgo dei suoi arti, del suo corpo sporco di sangue sul tavolo di metallo; mi

avvicino, accecato dal dolore, e chiedo a Sonya e Sara di fare una cosa che avevano

già fatto una volta: aiutarmi a guarirla.

Solo in quel momento mi accorgo che la stanza è piena.

Mi sto togliendo la giacca quando mi accorgo degli altri. Figure sono in piedi

vicino al muro, ombre di persone che probabilmente conosco ma di cui ora non mi

importa nulla. Ma, in qualche modo, di lei mi accorgo.

Nazeera.

Potrei strozzarla.

«Vattene da qui,» le dico in una voce che non sembra appartenere a me.

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Lei sembra ingenuamente scioccata.

«Non so come tu abbia fatto» le dico, «ma questa è colpa tua, tua e di tuo fratello,

le avete fatto questo…».

«Se vuoi incontrare il responsabile,» risponde lei, fredda, «prego. Non è stato

identificato, ma i tatuaggi sul suo braccio indicano che potrebbe provenire da un

Settore qui vicino. Il suo corpo è nell'obitorio.»

Il mio cuore perde un battito. «Cosa?»

«Aaron?» É Juliette, Juliette, la mia Juliette...

«Non ti preoccupare, tesoro» le dico velocemente, «andrà tutto bene, ok? Le

ragazze sono qui e faremo come l'ultima volta...».

«Nazeera», dice lei, gli occhi chiusi, appena un mormorio.

«Sì?» mi irrigidisco. «Nazeera cosa?»

«Mi ha salvato...» la sua bocca fa fatica a muoversi, deglutisce, «la vita».

Guardo Nazeera. La studio. Sembra scolpita nella roccia, nessuna emozione

traspare dal suo viso in mezzo a quel caos. Sta guardando Juliette con aria curiosa,

che non riesco a decifrare fino in fondo. Ma non mi serve un superpotere per capire

che c'è qualcosa che non va con quella ragazza. Il mio istinto mi dice che c'è qualcosa

che lei sa, qualcosa che non vuole rivelarci, e che non posso fidarmi di lei.

Quando finalmente mi guarda, il suo sguardo è fermo, profondamente serio, e

sento il panico farsi largo nel mio petto.

Juliette ora sta dormendo.

Non potrei essere più grato al mio potere di rubare a usare l'Energia delle altre

persone come in questo bruttissimo momento. Abbiamo spesso sperato che, ora che

Juliette riusciva a controllare il suo potere, Sonya e Sara avrebbero potuto guarirla –

toccarla, in caso di emergenza, senza preoccuparsi della loro salute. Ma Castle aveva

sottolineato che c'era sempre una probabilità che il corpo di Juliette, nella guarigione,

avrebbe potuto inconsciamente attivare le proprie difese senza l'autorizzazione di

quest'ultima. In caso di emergenza, la pelle di Juliette, accidentalmente, sarebbe

potuta essere letale, di nuovo. Era un rischio, un esperimento, che speravamo di non

dover affrontare di nuovo. Ma ora?

E se non fossimo stati qui? Se io non avessi avuto questo strano potere?

Mi costringo a non pensarci.

Quindi mi siedo, prendendomi la testa con le mani. Aspetto in silenzio fuori dalla

sua camera, mentre riposa. Il potere di guarigione sta facendo il suo lavoro.

Eppure, sono continuamente assalito dalle emozioni.

Non è misurabile, la mia frustrazione. Sono frustrato con Kenji perché ha lasciato

Juliette da sola. Frustrato con i sei soldati che sono stati aggirati, seppur armati, da

un singolo assalitore. Ma più di tutto, Dio, più di tutto, sono frustrato con me stesso.

Sono stato negligente.

Ho lasciato che questo accadesse. Un mio errore. La mia stupida ossessione per

mio padre, e la piega che la mia mente aveva preso dopo la sua morte, e i drammi dal

mio passato. Mi sono fatto distrarre; ero assorbito da me stesso, consumato dalle mie

preoccupazioni e dalla mia routine.

É colpa mia.

É colpa mia, che non ho capito.

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É colpa mia, per aver pensato che lei stesse bene, che non avesse bisogno di me –

più incoraggiamento, più motivazione, una guida – giornalmente. Lei sembrava così

cresciuta, così cambiata, e mi aveva disarmato. Mi accorgo solo ora che quei

momenti sono stati fuorvianti. Lei ha bisogno di più tempo, più opportunità di

solidificare la sua nuova autorità. Ha bisogno di esperienza; e per avere l'esperienza,

ha bisogno di stimoli. Per essere irremovibile, per combattere sempre e solo per se

stessa.

Ha fatto così tanta strada.

Ad oggi è irriconoscibile rispetto alla giovane ragazza che avevo incontrato la

prima volta. E' forte. Non ha più paura della sua ombra. Ma ha solo diciassette anni.

E da poco tempo è diventata Comandante Supremo.

E continuo a dimenticarmene.

Avrei dovuto avvisarla, metterla in guardia, quando mi aveva detto che voleva

assumere il titolo di Comandante Supremo. Avrei dovuto dirglielo. Avrei dovuto

avvisarla del fardello di cui voleva farsi carico. Avrei dovuto dirle che i suoi nemici

avrebbero cercato di toglierle la vita.

Mi costringo a togliere le mani del mio volto. Mi ero stretto così tanto il viso tra le

mani che mi era venuto mal di testa.

Sospiro e mi lascio andare sulla sedia, allungando le gambe mentre la mia testa si

appoggia contro il muro freddo dietro di me. Mi sento insensibile ma, in qualche

modo, nervoso. Arrabbiato. Impotente. Vorrei urlare a qualcuno, a chiunque. Serro i

pugni. Chiudo gli occhi. Lei deve stare bene. Deve stare bene per il mio bene, perché

ho bisogno di lei, e perché voglio tenerla al sicuro...

Un colpo di tosse.

Castle si siede di fianco a me. Non lo guardo.

«Signor Warner» mi dice.

Io non rispondo.

«Come va, figliolo?»

Una domanda idiota.

«Questo», dice lentamente, indicando con una mano stanza di Juliette, «è un

problema più grande di quanto ognuno di noi voglia ammettere. Penso che anche tu

lo sappia.»

Mi irrigidisco.

Lui mi guarda.

Mi giro verso di lui. Noto le rughe intorno ai suoi occhi, sulla sua fronte. I fili

argento nei dread legati con un elastico. Non so quanti anni abbia Castle, ma penso

che potrebbe essere mio padre. «Devi dirmi qualcosa?»

«Non può guidare questa resistenza,» mi dice, strizzando gli occhi. «E' troppo

giovane. Troppo inesperta. Troppo arrabbiata. Lo sai, vero?»

«No.»

«Dovresti farlo tu,» continua Castle. «Segretamente, ci speravo, dal giorno che sei

arrivato al Punto Omega, che lo avresti fatto tu. Che ti saresti unito a noi. E ci avresti

guidato». Scuote la testa. Sei nato per questo. «L'avresti fatto egregiamente.»

«Non voglio questo lavoro», gli rispondo, conciso. «La nostra nazione ha bisogno

di un cambiamento. Ha bisogno di un leader con un cuore, amabile, e io non lo sono.

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A Juliette importa delle persone. Importa delle loro speranze, delle loro paure... e

combatterà per loro in un modo che io non avrei mai fatto.»

Castle sospira. «Non potrà combattere per nessuno da morta, figliolo».

«Juliette starà bene» dico, arrabbiato. «Sta riposando».

Castle sta zitto per un attimo.

Quando riprende il discorso, dice, «è una mia grande speranza il fatto che, molto

presto, tu smetta di far finta di non capirmi. Rispetto troppo la tua intelligenza per

comportarmi nella stessa maniera nei tuoi confronti». Fissa il pavimento,

l'espressione corrucciata. «Sai benissimo cosa intendo.»

«E qual è il punto?»

Si gira a guardarmi. Occhi marroni, pelle marrone, capelli marroni. Un lampo

bianco dei suoi denti, e dice: «la ami?»

Il mio cuore batte furiosamente, lo sento nelle orecchie. E' difficile per me dire

certe cose ad alta voce. Ad uno sconosciuto.

«La ami veramente?» Chiede di nuovo.

«Sì,» sospiro, «la amo.»

«Allora fermala. Fermala tu prima che lo facciano loro. Prima che questo

esperimento la distrugga».

Distolgo lo sguardo, il respiro pesante.

«Non mi credi,» dice lui, «anche se sai che sto dicendo la verità.»

«So solo che tu pensi di dirmi la verità».

Castle scuote la testa. «I suoi genitori stanno venendo a prenderla,» mi dice. «E

quando arriveranno, ti renderai conto che avevo ragione. Ma,» aggiunge, «sarà troppo

tardi.»

«Il tuo ragionamento non ha senso», dico, frustrato, «ho dei documenti, e c'è scritto

che i genitori biologici di Juliette sono morti molto tempo fa.»

Mi guarda storto. «I documenti possono essere falsificati».

«Non in questo caso, dico, «non è possibile.»

«Ti assicuro che lo è.»

Sto ancora scuotendo la testa. «Non credo che tu capisca,» dico. «Ho tutti i file

riguardanti Juliette,» gli spiego, «sui suoi genitori biologici, e le date di morte sono

state riportare con cura. Forse li hai confusi con i suoi genitori adottivi».

«I genitori adottivi hanno avuto in custodia un solo figlio, Juliette, giusto?»

«Sì».

«Quindi come spieghi il secondo figlio?»

«Cosa?» Lo fisso. «Quale secondo figlio?»

«Emmaline, sua sorella maggiore. Ti ricordi di lei, ovviamente.»

Ora sono convinto che Castle sia uno spostato. «Dio mio» dico «hai perso la testa.»

«Ascoltami» mi dice lui. «Hai incontrato Emmaline diverse volte, signor Warner.

Forse non sapevi chi fosse, ma hai fatto parte della sua vita. Hai interagito con lei.

Non puoi non ricordatelo.»

«Ho paura che tu sia mal informato.»

«Cerca di ricordare, figliolo».

«Cerca di ricordare cosa?»

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«Avevi sedici anni. Tua madre stava morendo. C'erano voci sul fatto che tuo padre

stava per essere promosso da Comandante Supremo del Settore 45 a quello di tutto il

Nord America. Sapevi che, in un paio d'anni, anche tu ti saresti dovuto trasferire nella

capitale. Ma non volevi andare. Non volevi lasciare tua madre, quindi ti sei offerto di

prendere il suo posto. Di prendere il controllo del Settore 45. E avresti fatto di tutto.»

Sento il sangue defluire del mio corpo.

«Tuo padre ti ha dato un incarico».

«No» sussurro.

«Ricordi, cosa ti ha fatto fare?»

Fisso le mie mani aperte, vuote. Il battito accelera. La mente vaga.

«Ti ricordi, figliolo?»

«Quanto sai?» Dico, ma la mia faccia sembra paralizzata. «Su di me, su questo.»

«Non quanto ne sai tu. Ma più degli altri.»

Sprofondo nella sedia. La stanza inizia a girare.

Posso solo immaginare cosa direbbe mio padre in questo momento, se fosse vivo.

Patetico. Sei patetico. Non hai nessun altro da incolpare se non te stesso, direbbe.

Rovini sempre tutto, metti le emozioni prima del dovere-

«Da quanto tempo lo sai?» Lo guardo, l'ansia diffonde onde di calore lungo la mia

schiena. «Perché non mi hai mai detto niente?»

Castle cambia posizione sulla sedia. «Non so cosa sia giusto dire, su questa

faccenda. Non so se posso fidarmi di te.»

«Non ti fidi di me?» Dico, perdendo il controllo. «Sei tu che sei sempre ritroso, che

non dici mai nulla,» alzo lo sguardo, realizzando solo in quel momento, «Kishimoto

sa qualcosa?»

«No.»

Mi ricompongo. Sorpreso.

Castle sospira. «Ma lo saprà presto. Come tutti quanti.»

Scuoto la testa, incredulo. «Quindi, mi stai dicendo che... quella ragazza... era sua

sorella?»

Castle annuisce.

«Non è possibile.»

«Ma è così. »

«Come può essere vero?» Dico, cambiando postura. «Lo avrei saputo. Avrei avuto

dei documenti, sarei stato informato...»

«Sei ancora un bambino, signor Warner. A volte lo dimentichi. Dimentichi che tuo

padre non ti ha detto tutto.»

«E quindi come lo sai tu? Come fai a sapere tutto?»

Castle mi squadra. «So che pensi che io sia uno sciocco,» mi dice, «ma mi spiace

deluderti. Anche io, al mio tempo, volevo guidare questa nazione, e durante il periodo

trascorso sotto terra ho fatto anch'io le mie ricerche. Ho speso decenni nella

costruzione del Punto Omega. Pensi che lo avrei fatto se non avessi conosciuto a

menadito i miei nemici? Ho un metro di documenti archiviati per ogni Comandante

Supremo, le loro famiglie, le loro abitudini, i loro colori preferiti.» Spalanca gli

occhi. «Non sono uno sciocco, dopotutto. I Comandanti Supremi hanno un mucchio

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di segreti,» continua Castle, «e io ne conosco solo alcuni. Ma tutte le informazioni

che ho raccolto sin dall'inizio della Restaurazione si sono rivelate fondate.»

Non posso far altro che fissarlo, senza capire.

«Avevo scoperto che una giovane donna con il potere di uccidere chiunque

toccasse era rinchiusa in un manicomio nel Settore 45. Il nostro team ha iniziato a

studiare un piano per salvarla appena abbiamo scoperto della sua esistenza – di

Juliette Ferrars, un alias – perché avrebbe potuto tornarci utile per la nostra causa.

Quindi, al Punto Omega, abbiamo aspettato. Abbiamo preso tempo. Nel mentre,

Kenji si è arruolato. Stava raccogliendo informazioni da diversi mesi, quando tuo

padre ha approvato la tua richiesta di spostare Juliette fuori dal manicomio. Kenji si è

infiltrato nel Settore 45 su mio ordine; la sua missione era di salvare Juliette. Da quel

momento, le mie ricerche si sono spostate su Emmaline. »

«Non capisco,» sussurro.

«Signor Warner,» dice, impaziente, «Juliette e sua sorelle sono state in custodia

della Restaurazione per dodici anni. Le due sorelle fanno parte di un esperimento

genetico, i cui dettagli ancora non mi sono chiari.»

La mia testa potrebbe esplodere.

«Mi credi, ora?» Dice. «Che sono più informato di quanto tu creda?»

Provo a parlare, ma ho la gola secca; le parole mi graffiano la bocca. «Mio padre era

un malato, un sadico,» dico.« Ma non lo avrebbe fatto. Non mi avrebbe fatto questo.»

«Eppure,» risponde Castle, «lo ha fatto. Ti ha permesso di portare Juliette alla base

sapendo benissimo chi fosse. Tuo padre era disturbato, ossessionato dalla tortura e

dagli esperimenti.»

Mi sento scollegato dalla mia mente, dal mio corpo, mentre cerco di respirare.

«Chi sono i suoi veri genitori?»

Castle scuote la testa. «Non lo so. Chiunque essi siano, sono fedelissimi della

Restaurazione. Quelle ragazze non sono state rubate ai loro genitori, dice, «sono state

donate.»

I miei occhi si spalancano. Mi sto per sentire male.

La voce di Castle cambia. Si fa più vicino, studiandomi. «Signor Warner,» mi dice,

«non ti sto confidando queste informazioni perché voglio ferirti. Non è divertente,

neanche per me, credimi.»

Lo guardo.

«Ho bisogno del tuo aiuto» continua «ho bisogno di sapere cosa tu abbia fatto in

questo due anni. Devo sapere i dettagli del tuo incarico, con Emmaline. Cosa dovevi

fare? Perché era tenuta prigioniera? Per cosa veniva usata?»

Scuoto la testa. «Non lo so.»

«Lo sai, dice lui. «Lo devi sapere. Pensaci, figliolo. Prova a ricordare...».

«Non lo so!» Urlo.

Castle si ritrae, sorpreso .

«Non me lo ha mai detto,» dico, ansimando. «Era solo un compito. Seguivo gli

ordini, e basta. Facevo ciò che mi chiedeva la Restaurazione. Per provare la mia

lealtà.»

Castle si lascia andare sulla sedia, desolato. Sembra a pezzi. «Eri la mia ultima

speranza,» mi dice, «pensavo che sarei riuscito finalmente a scoprirlo.»

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Gli lancio un'occhiata, il cuore batte furiosamente. «Non ne ho idea.»

«C'è un motivo per cui nessuno sa niente delle sorelle, signor Warner. C'è una

ragione per cui Emmaline è tenuta sotto controllo, in massima sicurezza. E'

pericolosa, in qualche modo, per la Restaurazione, e non so come e perché. Non so

cosa sia in grado di fare.» Mi guarda fisso negli occhi, il suo sguardo sembra

trapassarmi. «Per favore, mi dice, prova a ricordare. Cosa le facevi? Qualsiasi cosa…

qualsiasi cosa tu ricordi...».

«No» sussurro. Vorrei urlare. «Non voglio ricordare.»

«Signor Warner,» dice. «Capisco che per te sia difficile...»

«Difficile?» Mi alzo in piedi di scatto. Il mio corpo trema di rabbia. I muri, le

sedie, i tavoli attorno a noi tremano. La luce sopra le nostre teste inizia a sfarfallare,

la lampadina sembra impazzita. «Pensi che questo sia difficile per me?»

Castle non dice nulla.

«Quello che mi stai dicendo è che Juliette è stata messa qui, nella mia vita, come

parte di un esperimento più grande,un esperimento di cui mio padre era a conoscenza.

Mi stai dicendo che Juliette non è chi penso che sia. Che Juliette Ferrars non è

neanche il suo vero nome. Mi stai dicendo che non solo i suoi genitori sono vivi, ma

che ho anche passato due anni della mia vita, inconsciamente, a torturare sua sorella.»

Sento un peso nel petto mentre lo fisso. «Giusto, o no?»

«C'è di più.»

Rido, ad alta voce. É una follia.

«La signorina Ferrars lo scoprirà presto,» mi dice Castle. «Quindi ti consiglio di

muoverti in fretta: digli tutto appena possibile. Devi farlo. Ora.»

«Cosa?» Dico, stupito. «Perché io?»

«Perché se non glielo dici tu,» dice, «ti assicuro, signor Warner, che lo farà qualcun

altro e…».

«Non mi interessa,» rispondo. «Glielo dirai tu.»

«Non mi stai ascoltando. E' imperativo che lei lo sappia da te. Lei si fida di te. Lei

ti ama. Se lo scopre da sola, da una fonte meno affidabile, potremmo perderla.»

«Non lascerò che accada. Non lascerò che qualcuno le faccia del male, a costo di

sorvegliarla giorno e notte…».

«No, figliolo.» Castle mi ferma. «Non mi hai capito. Non intendevo fisicamente.»

Sorride, ma è un sorriso strano. Spaventato. «La perderemo. Qui» si tocca la testa

«e qui» si tocca il cuore.

«Cosa intendi?»

«Semplicemente, non puoi vivere nella negazione. Juliette Ferras non è chi pensi

che sia, e non è una cosa da poco. A volte, sembra completamente indifesa. Ingenua.

Innocente. Ma non puoi dimenticarti della rabbia che ha dentro, nel suo cuore.»

La mie labbra si socchiudono, sorprese.

«Hai letto, no? Nel suo diario, dice. «Hai letto dov'era la sua mente … i pensieri

oscuri che…»

«Come hai…»

«E io» dice «l'ho vista. L'ho vista perdere il controllo, liberare la rabbia che si

intravede nei suoi occhi. Ci ha quasi uccisi tutti al Punto Omega, ancora prima di tuo

padre. Aveva spezzato in due il pavimento per una incomprensione,» continua.

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«Perché era arrabbiata dai test che stavamo facendo sul signor Kent. Perché era

confusa, e spaventata. Non ascoltava nessuno… e ci ha quasi uccisi tutti.»

«Era diverso,» dico, scuotendo la testa. «Era molto tempo fa. Ora è cambiata.»

Distolgo lo sguardo, fallendo nel controllare la mia frustrazione di fronte alle sue

accuse poco velate. «Ora è felice».

«Come fa a essere felice se non è mai venuta a patti col suo passato? Non lo ha mai

menzionato… lo ha sempre messo da parte. Non ne mai avuto tempo, o i mezzi, per

esaminarlo. E quella rabbia…quel tipo di rabbia,» dice Castle, scuotendo la testa,

«non scompare e basta. É volatile, imprevedibile. E ricorda le mie parole, figliolo: la

sua rabbia tornerà di nuovo.»

«No.»

Mi guarda. Mi taglia in pezzi, con il suo sguardo. «Non mi credi.»

Non rispondo.

«Signor Warner...».

«Non così» dico. «Se ritorna, non sarà così. Rabbia, sì, ma non furia. Non

incontrollata, implacabile e…».

Castle sorride. É così improvviso, inaspettato, che mi fermo a metà della frase.

«Signor Warner» mi dice. «Cosa pensi che succederà quando scoprirà il suo

passato? Pensi che lo accetterà a basta? Con calma? Se le mie fonti sono corrette, e di

solito lo sono, il nostro tempo sta finendo. L'esperimento sta per finire. Juliette ha

ucciso un Comandante Supremo. Non la lasceranno andare, lei e il suo potere. E ho

sentito che il piano è quello di eliminare il Settore 45.» Esita. «E per quanto riguarda

Juliette, dice, probabilmente la uccideranno, o la trasferiranno.»

La mia testa gira, esplode. «Come lo sai?»

Castle ride. «Non puoi pensare che il Punto Omega sia l'unico gruppo di resistenza

nel Nord America, signor Warner. Ho molti amici. E la teoria regge.» Una pausa.

«Juliette ben presto avrà accesso alle informazioni sul suo passato. E quando lo

scoprirà, in un modo o nell'altro, anche tu ne farai parte.»

Il mio sguardo passa da lui alla stanza, i miei occhi si spalancano, la voce tesa.

«Non capisci» sussurro. Non mi perdonerà mai.»

Castle scuote la testa. «Allora è meglio che scopra da qualcun altro che tu sapevi la

verità, sulla sua adozione? Che le dica qualcun altro che tu hai torturato sua sorella?»

Annuisce. «Sì, è vero, non ti perdonerà mai.»

Per un improvviso, terribile momento, non mi sento più le gambe. Mi devo sedere,

le ossa tremano dentro il mio corpo.

«Ma io non sapevo,» dico, odiando il suono di quelle parole, così infantili. «Non

sapevo chi fosse quella ragazza, non sapevo che Juliette avesse una sorella…non lo

sapevo…».

«Non importa. Senza di te, senza una spiegazione o una scusa da parte tua, per lei

sarà più dura perdonarti. Ma se glielo dici tu e lo fai ora? Forse la vostra relazione ha

ancora una chance.» Scuote la testa. «Ad ogni modo, devi dirglielo, signor Warner.

Perché dobbiamo avvertirla. Deve sapere cosa sta per succedere, e dobbiamo studiare

un piano. Il tuo silenzio porterà solo alla devastazione.»

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CAPITOLO 19 JULIETTE

Traduzione: Layola

Sono una ladra.

Ho rubato questo quaderno e questa penna da uno dei dottori, da uno dei suoi

camici da laboratorio quando non stava guardando, e li ho infilati entrambi nei miei

pantaloni. Questo è successo subito prima che ordinasse a quegli uomini di venire a

prendermi. Quelli con le tute strane, con i guanti spessi e le maschere anti-gas con la

visiera di plastica opaca che gli nascondeva gli occhi. Ricordo di aver pensato che

erano alieni. Ricordo di aver pensato che dovevano essere alieni perché non

potevano essere umani, quelli che mi hanno ammanettato le mani dietro la schiena,

quelli che mi hanno legato alla sedia. Hanno usato dei Taser su di me, sulla pelle, più

e più volte senza nessun’altra ragione che sentirmi urlare, ma io ero muta. Ho

piagnucolato, ma non ho mai detto una parola. Ho sentito le lacrime rigarmi le

guance, ma non stavo piangendo.

Penso di averli fatti arrabbiare.

Mi hanno svegliata prendendomi a schiaffi, anche se avevo gli occhi aperti quando

siamo arrivati. Qualcuno mi ha slegata, lasciandomi ammanettata e mi ha preso a

calci nelle rotule prima di ordinarmi di alzarmi. E ci ho provato. Ci ho provato, ma

non potevo e alla fine sei mani mi hanno spinta fuori dalla porta e la mia faccia ha

sanguinato sul pavimento per un po’. Non riesco a ricordare la parte in cui mi hanno

trascinata all’interno.

Sentivo freddo tutto il tempo.

Mi sentivo vuota, come se non ci fosse niente dentro di me tranne questo cuore

spezzato, l’unico organo rimasto in questo guscio. Sento i battiti rimbombarmi

dentro, riverberare nel mio scheletro. La scienza dice che ho un cuore, la società dice

che sono un mostro. E lo so, certo che lo so. So cosa ho fatto. Non sto chiedendo

compassione. Ma a volte penso, a volte mi chiedo, se fossi un mostro davvero, lo

avrei capito?

Mi sarei sentita arrabbiata e violenta e vendicativa. Conoscerei la rabbia ceca e la

sete di sangue e la necessità di vendetta.

Invece, sento un abisso dentro di me che è così profondo, così oscuro che non

riesco a vedere il fondo; non riesco nemmeno a vedere cosa contiene. Non so cosa

sono o cosa potrebbe succedermi.

Non so cosa potrei fare di nuovo.

- UN ESTRATTO DAL DIARIO DI JIULIETTE NEL MANICOMIO

Ho sognato di nuovo gli uccelli.

Vorrei che se ne fossero già andati. Sono stanca di pensare a loro, sperare in loro.

Uccelli, uccelli, uccelli... perché non se ne vanno? Scuoto la testa come per schiarirla,

ma avverto subito il mio errore. La mia mente è ancora pesante e annebbiata, nuota

nella confusione. Apro lentamente gli occhi sbattendo le palpebre, ma non sembro in

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grado di vedere nessuna luce. Mi ci vuole un po’ per capire che mi sono svegliata nel

mezzo della notte.

Un rantolo.

Sono io, la mia voce, il mio respiro, il mio battito cardiaco accelerato. Dov’è la

mia testa? Perché è così pesante? I miei occhi si chiudono velocemente, sabbia

attaccata alle ciglia, che le incolla insieme. Cerco di schiarirmi le idee, cerco di

ricordare, ma una parte di me si sente ancora intorpidita, come i miei denti e le mie

dita dei piedi e lo spazio tra le mie costole e rido, improvvisamente, e non so perché...

Mi hanno sparato.

I miei occhi si spalancano, la mia pelle si ricopre di un improvviso sudore freddo.

O mio Dio mi hanno sparato, mi hanno sparato mi hanno sparato.

Cerco di sedermi e non riesco. Mi sento così pesante, così pesante con sangue ed

ossa e all’improvviso sto congelando, la mia pelle è gomma fredda e appiccicaticcia

contro il tavolo di metallo su cui sono distesa e all’improvviso

Voglio piangere

All’improvviso sono tornata al manicomio, il freddo e il metallo e il dolore e il

delirio mi confondono e poi sono in lacrime, silenziose, calde lacrime mi scaldano le

guance e non riesco a parlare, ma sono spaventata e li sento, li sento

Gli altri

Urlare

Carne ed ossa rotte nella notte, voci sommesse, attutite...

Urla soppresse... compagni di cella che non ho mai visto...

Chi erano? Mi chiedo.

Non ho pensato a loro per così tanto tempo. Cosa gli è successo. Da dove vengono.

Chi mi sono lasciata dietro?

I miei occhi sono serrati con forza, le mie labbra aperte in un urlo silenzioso. Non

ero perseguitata in questo modo da così tanto tempo tanto tempo

Sono i farmaci, penso. C’era del veleno su quei proiettili.

È per questo che vedo gli uccelli?

Sorrido. Sghignazzo. Li conto. Non solo quelli bianchi, bianchi con strisce dorate

come corone sulle loro teste, ma anche quelli blu e quelli neri e quelli gialli. Li vedo

quando chiudo gli occhi, ma li ho visti anche oggi, sulla spiaggia, e sembravano così

reali, così reali

Perché?

Perché qualcuno cercherebbe di uccidermi?

I miei sensi si svegliano e sono in allerta, più me stessa, il panico schiarisce il

veleno e con un singolo momento di chiarezza sono in grado di alzarmi sugli

avambracci, la testa mi gira, gli occhi selvaggi mentre fisso l’oscurità e sto giusto per

sdraiarmi di nuovo, esausta, quando vedo qualcosa...

«Sei sveglia?»

Inalo bruscamente, confusa, cercando di dare un senso ai suoni. Le parole sono

distorte come se le stessi ascoltando sott’acqua e nuoto verso di loro, cercando,

cercando, il mento mi cade sul petto quando perdo la battaglia.

«Hai visto niente oggi?» Mi dice la voce. «Niente di... strano?»

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«Chi... dove, dove sei...» dico, cercando ciecamente nel buio, gli occhi aperti solo a

metà. Sento una resistenza e ci avvolgo le dita intorno. Una mano? Una mano strana.

È un miscuglio di carne e metallo, un pugno con un bordo affilato di acciaio.

Non mi piace.

Lo lascio andare.

«Hai visto niente oggi?» Dice di nuovo.

Mormoro.

«Cosa hai visto?» Dice.

E io rido, ricordando. Potevo sentirli, sentire i loro pigolii mentre volavano sopra

l’acqua, potevo sentire i loro piccoli piedi camminare sulla sabbia. Ce ne erano così

tanti. Ali e piume, becchi affilati e artigli.

Così tanto movimento.

«Cosa hai visto?» Mi chiede di nuovo la voce, e mi fa sentire strana.

«Ho freddo» dico, e mi stendo di nuovo. «Perché fa così freddo?»

Un breve silenzio. Un fruscio. Sento una coperta pesante poggiarsi sopra il

semplice lenzuolo che copriva il mio corpo.

«Dovresti sapere» mi dice la voce, «che non sono qui per ferirti.»

«Lo so» dico, anche se non capisco perché l’ho detto.

«Ma le persone di cui ti fidi ti stanno mentendo» sta dicendo la voce. «E gli altri

Comandanti Supremi vogliono solo ucciderti.»

Faccio un ampio sorriso, ricordando gli uccelli. «Ciao» dico.

Qualcuno sospira.

«Ci vediamo domani mattina. Parleremo di nuovo» dice la voce. «Quando ti

sentirai meglio.»

Sono così calda ora, calda e stanca e sto annegando di nuovo in strani sogni e

ricordi distorti. Mi sento come se stessi nuotando nelle sabbie mobili e più forte cerco

di uscirne, più velocemente sono divorata e tutto quello a cui riesco a pensare è

Qui

Nei bui, polverosi angoli della mia mente

Sento uno strano sollievo.

Sono sempre la benvenuta qui

Nella mia solitudine, nella mia tristezza

In questo abisso, c’è un ritmo che ricordo. Le lacrime immobili, la tentazione di

ritirarsi, l’ombra del mio passato

La vita che ho deciso di dimenticare non mi ha in pugno ma

mai

e poi mai

si dimenticherà di me

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CAPITOLO 20 WARNER

Traduzione: JulietteFerrars

Stanotte non ho chiuso occhio.

Ci sono milioni di scatole aperte davanti a me, il loro contenuto sparso nella

stanza. Ci sono dei fogli impilati sulla scrivania e sul tavolo, fogli sparsi sul

pavimento. Sono circondato da dossier. Migliaia e migliaia di scartoffie. I vecchi

verbali di mio padre, i suoi lavori, i documenti che dominavano la sua vita…

Ho letto tutto.

In modo ossessivo. In modo disperato.

E ciò che ho trovato in queste pagine non mi conforta, no…

Sono sconvolto.

Sono seduto a gambe incrociate sul pavimento del mio ufficio, soffocato ad ogni

angolo dalla vista di una grafia familiare e dalla scrittura troppo leggibile di mio

padre. La mia mano destra è dietro la testa, vuole disperatamente afferrare una ciocca

di capelli da strappare dal cranio, ma non ne trova alcuna. È molto peggio di quanto

temessi e non so perché io ne sia sorpreso.

Non è la prima volta che mio padre mi tiene nascosto qualcosa.

Dopo che Juliette era scappata dal Settore 45, dopo che era scappata con Kent e

Kishimoto e che mio padre era venuto qui per ripulire quel disastro, è stato allora che

ho imparato, per la prima volta, che mio padre sapeva del loro mondo. Di altre

persone con dei poteri.

Me lo aveva tenuto nascosto per così tanto tempo.

Avevo sentito delle voci, certo, dai soldati, dai civili, di vari avvistamenti e storie

insolite, ma le avevo ignorate, considerandole delle assurdità. Un bisogno umano di

trovare un portale magico per sfuggire al nostro dolore.

E invece, erano tutte vere.

Dopo la rivelazione di mio padre, la mia sete di informazioni era diventata

improvvisamente insaziabile. Dovevo saperne di più, chi erano quelle persone, da

dove erano venute, quanto ne sapevamo…

Ed ho portato alla luce delle verità che vorrei dimenticare ogni giorno.

Ci sono dei manicomi, proprio come quello di Juliette, in tutto il mondo. Gli

Innaturali, così li chiama la Restaurazione, erano imprigionati insieme in nome della

scienza e della ricerca. Ma ora, finalmente, sto iniziando a capire come tutto ha avuto

inizio. Qui, in queste pile di fogli, ci sono tutte le terribili risposte che cercavo.

Juliette e sua sorella sono state le prime Innaturali ad essere state scoperte dalla

Restaurazione. La scoperta delle abilità insolite di queste due ragazze ha portato alla

scoperta di altre persone come loro, in tutto il mondo. La Restaurazione ha continuato

a richiudere tutti gli Innaturali che trovava; ha detto ai civili che li stavano

purificando dalla loro diversità e dalle loro malattie e che li stavano imprigionando in

dei campi per svolgere degli esami medici più da vicino.

Ma la verità era molto più complicata di così.

La Restaurazione si è appropriata in fretta degli Innaturali utili ai propri scopi,

lasciando perdere quelli inutili. Quelli con le abilità migliori sono state assorbiti dal

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sistema, spartiti tra i comandanti supremi di tutto il mondo per il loro uso personale

nella continuazione della devastazione della Restaurazione, mentre si sono

sbarazzavano degli altri. Ciò ha portato all’eventuale ascesa della Restaurazione e,

con essa, i vari manicomi che avrebbero ospitato gli altri Innaturali sulla faccia della

Terra. Per ulteriori studi, avevano detto. Per degli esperimenti.

Juliette non aveva ancora manifestato delle abilità quando è stata donata alla

Restaurazione dai suoi genitori. No. È stata sua sorella ad aver dato inizio a tutto.

Emmaline.

Erano i poteri sovrannaturali di Emmaline ad aver spaventato tutti coloro che le

erano intorno; la sorella, Emmaline, è stata lei ad aver attirato l’attenzione verso sé

stessa e la sua famiglia senza volerlo. I genitori senza nome erano terrorizzati dalle

incredibili e frequenti manifestazioni di telecinesi della figlia.

Erano anche dei fanatici.

Le informazioni nei dossier di mio padre sulla madre e il padre che hanno

volontariamente rinunciato alle loro bambine per le sperimentazioni sono limitate. Ho

cercato in tutti i documenti, ma sono riuscito a capire ben poco delle loro

motivazioni, mettendo insieme infine da vari appunti e dettagli non rilevanti ed un

ritratto allarmante di questi individui. Sembra che queste persone avessero

un’ossessione malsana per la Restaurazione. I genitori biologici di Juliette erano

devoti alla causa già molto prima che essa prendesse slancio come movimento

internazionale e credevano che studiare la loro figlia potesse aiutare a far luce sul

mondo attuale e le sue numerose malattie. Se questo stava accadendo ad Emmaline,

teorizzarono, forse stava accadendo ad altri, e forse, in qualche modo, questa era

un’informazione che poteva essere utilizzata per aiutare a migliorare il mondo. In un

attimo la Restaurazione aveva ottenuto Emmaline in custodia.

Juliette fu presa per precauzione.

Se la sorella maggiore aveva dimostrato di essere capace di imprese incredibili, la

Restaurazione credeva che anche la sorella minore avrebbe potuto farlo. Juliette

aveva solo cinque anni ed era tenuta in stretta sorveglianza.

Dopo un mese passato in un istituto, Juliette non aveva mostrato alcun segno di

abilità speciali. Quindi le fu iniettato un farmaco che avrebbe distrutto parti essenziali

della sua memoria e fu mandata a vivere nel Settore 45, sotto la supervisione di mio

padre. Emmaline aveva mantenuto il suo vero nome, ma la sorella minore,

sguinzagliata nel mondo reale, avrebbe avuto bisogno di uno pseudonimo. La

chiamarono Juliette, le piantarono ricordi fasulli nella sua mente e le assegnarono dei

genitori adottivi che, troppo felici di portare a casa una bambina nella loro famiglia

senza figli, seguirono le istruzioni di non dire mai alla bambina di essere stata

adottata. Inoltre non avevano idea di essere sorvegliati. Di solito gli altri Innaturali

inutili erano uccisi, ma la Restaurazione scelse di monitorare Juliette in un ambiente

più neutro. Speravano che una vita domestica avrebbe scatenato un’abilità latente in

lei. Era troppo preziosa per la consanguineità alla talentuosa Emmaline per

sbarazzarsene così in fretta.

È la parte successiva della vita di Juliette di cui ero più a conoscenza.

Conoscevo i problemi di Juliette a casa, i suoi numerosi trasferimenti. Conoscevo

le visite della sua famiglia in ospedale. Le loro chiamate alla polizia. Le sue

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permanenze in centri minorili di detenzione preventiva. Viveva nella zona che

corrispondeva alla California meridionale prima di stabilirsi in una città che divenne

fermamente parte di ciò che ora è il Settore 45, sempre entro la portata dei suoi

genitori. La sua educazione tra le persone comuni del mondo fu ampiamente

documentata da relazioni di polizia, reclami di insegnanti e dossier medici che

cercavano di capire cosa stesse diventando. Infine, dopo aver finalmente scoperto le

conseguenze del tocco letale di Juliette, le persone che erano state scelte come suoi

genitori adottivi la maltrattarono e alla fine la restituirono alla Restaurazione, che fu

molto felice di riaverla indietro.

Fu la Restaurazione, proprio mio padre, a rimettere Juliette in isolamento. Per altri

test. Una maggiore sorveglianza.

Ed è lì che i nostri mondi entrarono in collisione.

Stanotte, in questi dossier, sono riuscito finalmente a capire il senso di qualcosa di

terribile e preoccupante allo stesso tempo:

I comandanti supremi del mondo conoscono Juliette Ferrars da sempre.

L’hanno vista crescere. Lei e sua sorella sono state consegnate dai loro genitori

psicotici, la cui alleanza con la Restaurazione prevaleva su tutto il resto. Usare queste

ragazze, capire i loro poteri, è ciò che ha aiutato la Restaurazione a dominare il

mondo. La Restaurazione è riuscita a conquistare e manipolare le persone così in

fretta solo attraverso lo sfruttamento di altri Innaturali innocenti.

Questo, ora me ne rendo conto, è il motivo per cui sono stati così pazienti con una

diciassettenne che si è auto-dichiarata la governante di un intero continente. Questo è

il motivo per cui hanno tollerato così in silenzio il fatto che lei abbia massacrato uno

dei loro comandanti.

E Juliette non ne ha idea.

Non ha idea di essere presa in giro e braccata. Non ha idea del fatto che qui non ha

alcun potere vero e proprio. Nessuna possibilità di cambiamento. Nessuna

opportunità di fare la differenza nel mondo. Lei era e sarà per sempre nient’altro che

un giocattolo per loro, un esperimento da guardare attentamente, per far sì che la

mistura non trabocchi troppo presto.

Ma è successo.

Juliette ha fallito i loro test più di un mese fa e mio padre ha provato ad ucciderla

per questo. Ha provato ad ucciderla perché aveva deciso che era diventata una

distrazione. Non era più possibile per questa Innaturale diventare un avversario.

Il mostro che abbiamo allevato ha provato ad uccidere mio figlio. Da allora mi

ha aggredito come un animale feroce, sparandomi ad entrambe le gambe. Non

ho mai visto una sfrenatezza del genere, una rabbia così cieca e disumana. La

sua mente cambia senza avvisaglie. Non ha mostrato alcun segno di psicosi

durante il suo arrivo nella casa, ma si è dissociata da qualsiasi struttura di

pensiero razionale durante la mia aggressione. Aver visto la sua instabilità con

i miei stessi occhi mi rende ancora più certo di cosa dev’essere fatto. Sto

scrivendo questo come decreto dal mio letto d’ospedale e come precauzione per

i miei colleghi comandanti. Nel caso in cui io non mi riprenda da queste ferite e

non sia capace di portare a termine ciò che dev’essere fatto: Tu, che ora stai

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leggendo, devi reagire. Finisci ciò che io non ho potuto fare. La sorella minore

è un esperimento infruttuoso. È, come temevamo, disconnessa dall’umanità.

Peggio, è diventata una distrazione per Aaron. Lui è diventato, in una svolta

dannosa, incredibilmente attratto da lei, senza alcun apparente riguardo verso

la sua sicurezza. Non ho idea di cosa lei abbia fatto alla sua mente. Ora so solo

che non avrei mai dovuto intrattenere la mia curiosità permettendogli di

portarla alla base. È un peccato, davvero, che lei non sia per niente come sua

sorella. Al contrario, Juliette Ferrars è diventata un cancro incurabile che

dobbiamo rimuovere per sempre dalle nostre vite.

-UN ESTRATTO DAL DIARIO DI ANDERSON

Juliette ha minacciato l’equilibrio della Restaurazione.

Era un esperimento infruttuoso. Ed era diventata un ostacolo. Bisognava

rimuoverla dalla faccia della Terra.

Mio padre ha provato così tanto a distruggerla.

E ora mi rendo conto che il suo fallimento ha suscitato grande interesse da parte

degli altri comandanti. I diari di mio padre erano condivisi; tutti i comandanti

supremi condividevano i propri diari l’uno con l’altro. Era l’unico modo per rimanere

costantemente al corrente delle vicende quotidiane degli altri.

Quindi. Conoscevano la sua storia. Sanno ciò che provo per lei.

E hanno l’ordine di uccidere Juliette.

Ma stanno aspettando. E devo supporre che c’è qualcos’altro sotto, qualche altra

spiegazione per la loro esitazione. Forse credono di poterla rieducare. Forse si stanno

chiedendo se Juliette possa ancora essere utile a loro e alla loro causa, proprio come

sua sorella.

Sua sorella.

Vengo improvvisamente perseguitato dal ricordo di lei.

Capelli castani e ossuta. Si muoveva irrefrenabilmente sott’acqua. Lunghe onde

castane sospese, come delle anguille agitate, intorno alla sua faccia. Cavi elettrici

infilati sotto la sua pelle. Numerosi tubi attaccati in modo permanente al suo collo e

al suo torso. Aveva già vissuto per così tanto tempo sott’acqua quando l’ho vista per

la prima volta, che aveva a malapena l’aspetto di una persona. La sua pelle era lattea

e avvizzita, la bocca era tesa a formare una O grottesca, avvolta intorno ad un

erogatore che le buttava aria nei polmoni. È solo un anno più grande di Juliette. Ed è

tenuta prigioniera da dodici anni.

Ancora viva, ma solo a malapena.

Non avevo idea che fosse la sorella di Juliette. Non avevo idea che fosse qualcuno.

Quando ho ricevuto il mio incarico, non aveva un nome. Mi erano solo state date

delle istruzioni e mi era stato ordinato di seguirle. Non sapevo chi o cosa avrei dovuto

supervisionare. Sapevo solo che lei era una prigioniera e sapevo che la stavano

torturando, ma allora non sapevo che c’era qualcosa di soprannaturale nella ragazza.

Ero un idiota. Un bambino.

Sbatto il retro della mia testa contro il muro, una volta. Forte. Serro gli occhi.

Juliette non ha idea del fatto che aveva una vera famiglia, una famiglia orribile,

folle, ma nondimeno una famiglia. E se Castle ha ragione, la Restaurazione sta

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venendo a prenderla. Per ucciderla. Per usarla. Quindi dobbiamo agire. Devo

avvisarla e devo farlo il prima possibile.

Ma come, come faccio a dirle tutto questo? Come faccio a dirglielo senza spiegare

il mio ruolo in tutto questo?

Ho sempre saputo che Juliette è stata adottata, ma non le ho mai detto la verità

semplicemente perché credevo di peggiorare le cose. Credevo che i genitori biologici

di Juliette fossero morti da tempo. Non vedevo come dicendole che aveva dei veri

genitori morti avrebbe migliorato la sua vita.

Ma ciò non cambia il fatto che lo sapevo.

E ora devo confessare. Non solo questo, ma la verità su sua sorella, che è ancora

viva e sotto tortura da parte della Restaurazione. Che ho partecipato alla sua tortura.

O questo:

Che sono un vero mostro, completamente e interamente indegno del suo amore.

Chiudo gli occhi, premo il palmo della mano sulla bocca e sento il mio corpo

andare in pezzi dentro di me. Non so come liberarmi dal casino creato da mio padre.

Un casino di cui ero complice senza volerlo. Un casino che, dopo essere stato svelato,

distruggerà la poca felicità che sono riuscito a mettere insieme nella mia vita.

Juliette non mi perdonerà mai e poi mai.

La perderò.

E questo mi ucciderà.

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CAPITOLO 21 JULIETTE

Traduzione: JulietteFerrars

Mi chiedo cosa stiano pensando. I miei genitori. Mi chiedo dove siano. Mi chiedo

se stiano bene ora, se siano felici ora, se abbiano finalmente ottenuto ciò che

volevano. Mi chiedo se mia madre avrà un altro figlio. Mi chiedo se qualcuno sarà

mai abbastanza gentile da uccidermi e mi chiedo se l’inferno sia migliore di questo

posto. Mi chiedo che aspetto abbia la mia faccia ora. Mi chiedo se respirerò mai aria

fresca di nuovo.

Mi chiedo così tante cose.

A volte resto sveglia per giorni contando tutto ciò che trovo. Conto le pareti, le

crepe nel muro, le dita delle mani e dei piedi. Conto le molle del letto, i fili della

coperta, i passi che servono per attraversare la stanza e tornare indietro. Conto i

miei denti e i singoli capelli sulla mia testa e il numero di secondi per cui riesco a

trattenere il fiato.

Ma a volte mi stanco così tanto che dimentico il fatto che non mi è più permesso

desiderare delle cose e mi ritrovo a desiderare l’unica cosa che ho sempre voluto.

L’unica cosa che ho sempre sognato.

Desidero un amico.

Lo sogno. Immagino come sarebbe. Sorridere e qualcuno che ricambi il sorriso.

Avere una persona con cui confidarti, qualcuno che non mi lancerebbe delle cose

addosso o che non metterebbe le mie dita nel fuoco o che non mi picchierebbe per

essere nata. Qualcuno che saprebbe che sono stata gettata via e che proverebbe a

trovarmi, che non avrebbe mai paura di me.

Qualcuno che saprebbe che non proverei mai a fargli del male.

Mi raggomitolo in un angolo della stanza e sotterro la faccia nelle ginocchia e

dondolo avanti e indietro e avanti e indietro e avanti e indietro e vorrei e vorrei e

vorrei e sogno cose impossibili fin quando non mi addormento piangendo.

Mi chiedo come sarebbe avere un amico.

E poi mi chiedo chi altro è chiuso in questo manicomio. Mi chiedo da dove

provengano le altre urla.

Mi chiedo se stiano venendo a prendermi.

-UN ESTRATTO DAL DIARIO DI JULIETTE NEL MANICOMIO

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Questa mattina mi sento strana.

Mi sento lenta, come se stessi nuotando nel fango, come se le mie ossa si fossero

riempite di piombo e la mia testa, oh…

Trasalisco.

La mia testa non è mai stata così pesante.

Mi chiedo se siano gli ultimi residui del veleno che mi infestano ancora le vene,

ma c’è qualcosa che non va in me oggi. I ricordi del tempo passato nel manicomio

sono improvvisamente troppo presenti, troppo in prima linea nella mia mente.

Credevo di essere riuscita a cacciar via quei ricordi dalla testa ma no, eccoli di nuovo,

riportati alla luce dall’oscurità. 264 giorni in completo isolamento. Quasi un anno

senza accesso o sbocchi all’esterno. Ad un altro essere umano.

Così tanto, così tanto, così tanto, tanto tempo senza il calore del contatto umano.

Rabbrividisco senza volerlo. Sobbalzo verso l’alto.

Cosa c’è che non va in me?

Sonya e Sara devono aver sentito il mio movimento dato che ora sono in piedi

davanti a me, le loro voci chiare ma in qualche modo vibranti. Echeggianti tra le

mura. Le mie orecchie non smettono di ronzare. Strizzo gli occhi per vedere meglio

le loro facce ma vengo colta improvvisamente dalle vertigini, disorientata, come se il

mio corpo fosse di traverso o forse disteso sul pavimento o forse sono io quella che

ha bisogno di essere distesa sul pavimento, o oh

oh credo di sentirmi male…

«Grazie per il secchio» dico, ancora nauseata. Cerco di sedermi e per qualche

motivo non ricordo come fare. Sto sudando freddo. «Cosa c’è che non va in me?»

dico, «Credevo che mi aveste… guarita… »

Svengo di nuovo.

La testa mi gira.

Gli occhi chiusi contro la luce. Le grandi vetrate che abbiamo installato non

riescono a bloccare il sole dall’invadere la stanza e non riesco a fare a meno di

chiedermi quando io abbia mai visto il sole splendere così tanto. Nel corso

dell’ultimo decennio il nostro mondo è crollato su sé stesso, l’atmosfera

imprevedibile, il tempo che cambia repentinamente e drasticamente. Nevica dove non

dovrebbe; piove dove prima non era possibile; le nuvole sono sempre grigie; gli

uccelli sono spariti per sempre dal cielo. Le foglie degli alberi e dei prati che un

tempo erano verde intenso ora sono spente e fragili e in declino. Ora è marzo e anche

se ci stiamo avvicinando alla primavera, il cielo non mostra alcun segno di

cambiamento. La terra è ancora fredda, ancora ghiacciata, ancora scura e fangosa.

O almeno, lo era ieri.

Qualcuno mette uno straccio fresco sulla mia fronte e il freddo è ben accetto; la

mia pelle si sente infiammata anche mentre tremo. Lentamente, i miei muscoli si

rilassano. Ma vorrei che qualcuno facesse qualcosa riguardo la luce del sole,

accecante. Strizzo gli occhi anche se li ho chiusi e ciò non fa che peggiorare il mio

mal di testa.

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«La ferita è guarita completamente.» sento dire da qualcuno, «ma sembra che il

veleno non sia stato ancora eliminato dal suo sistema… »

«Non capisco» dice un’altra voce. «Com’è possibile? Perché non riuscite a guarirla

completamente?»

«Sonya» riesco a dire, «Sara?»

«Sì?» Le sorelle gemelle rispondono contemporaneamente e riesco a sentire il

trambusto dei loro passi, forte come il suono di un tamburo nella la mia testa, mentre

si avvicinano in fretta al mio letto.

Cerco di indicare le finestre. «Possiamo fare qualcosa riguardo al sole?» Dico.

«C’è troppa luce.»

Mi aiutano a sedermi e sento le vertigini che iniziano a calmarsi. Apro gli occhi

con grande difficoltà proprio quando qualcuno mi porge un bicchiere d’acqua.

«Bevi» dice Sonya «Il tuo corpo è gravemente disidratato.»

Mando giù l’acqua in fretta, sorpresa dalla mia sete. Mi porgono un altro bicchiere.

Bevo anche quello. Devo bere cinque bicchieri d’acqua prima di riuscire a tenere la

testa alta senza grandi difficoltà.

Quando mi sento finalmente meglio, mi guardo intorno. Occhi spalancati. Ho un

mal di testa terribile, ma gli altri sintomi stanno iniziando ad affievolirsi.

Vedo Warner per primo.

È in piedi in un angolo della stanza, con gli occhi iniettati di sangue, i vestiti

sgualciti di ieri e mi sta fissando con uno sguardo che mostra una paura evidente che

mi sorprende. Non è per niente da lui. Warner mostra raramente le sue emozioni in

pubblico.

Vorrei poter dire qualcosa, ma non sembra il momento giusto. Sonya e Sara mi

stanno ancora guardando attentamente, con i loro occhi nocciola luminosi rispetto

alla pelle marrone. Ma qualcosa in loro sembra diverso. Forse è perché non le avevo

mai viste così da vicino, non sottoterra, ma alla luce brillante del sole che ha

rimpicciolito le loro pupille come delle punture di spillo e fa sembrare i loro occhi

diversi. Più grandi. Nuovi.

«La luce è così strana oggi.» Non riesco a trattenermi dal dire. «C’è mai stata così

tanta luce?»

Sonya e Sara danno un’occhiata fuori dalla finestra, mi guardano e poi aggrottano

le sopracciglia guardandosi a vicenda. «Come ti senti?» Dicono. «La testa ti fa ancora

male? Hai le vertigini?»

«La testa mi sta uccidendo,» dico, e cerco di ridere. «Cosa c’era in quei proiettili?»

Pizzico il ponte del naso con il pollice e l’indice. «Sapete se il mal di testa mi passerà

presto?»

«Sinceramente… Non siamo sicure di cosa stia succedendo ora,» dice Sara.

«La tua ferita è guarita» aggiunge Sonya. «Ma sembra che il veleno sia ancora in

circolo, almeno nella tua mente. Non sappiamo dirti per certo se è riuscito a causare

danni permanenti prima di curarti.»

Alzo lo sguardo. Sento la schiena irrigidirsi. «Danni permanenti?» Dico. «Al

cervello? È davvero possibile?»

Annuiscono. «Ti terremo d’occhio da vicino per le prossime settimane per esserne

sicure. Le allucinazioni che vedi potrebbero non essere gravi.»

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«Cosa?» Mi guardo intorno. Guardo Warner, che ancora non dice una parola.

«Quali allucinazioni? Ho solo mal di testa.» Strizzo di nuovo gli occhi, dando le

spalle alla finestra. «Accidenti. Scusate» dico, stringendo gli occhi contro la luce. «È

passato così tanto tempo da quando abbiamo avuto dei giorni così luminosi» rido.

«Credo di essere più abituata al buio.» Metto la mano sugli occhi a mo’ di visiera,

«Abbiamo davvero bisogno di mettere delle tende su queste finestre. Qualcuno mi

ricordi di dirlo a Kenji.»

Warner è diventato grigio. Sembra fatto di ghiaccio.

Sonya e Sara si guardano, preoccupate.

«Cosa c’è?» Dico, con lo stomaco che affonda mentre li guardo. «Cosa c’è che non

va? Cosa non mi state dicendo?»

«Il sole non c’è oggi» dice Sonya a bassa voce. «Sta nevicando di nuovo.»

«È buio e nuvoloso, come ogni giorno» mormora Sara.

«Cosa? Ma che state dicendo?» Dico, ridendo e accigliandomi allo stesso tempo.

Riesco a sentire il calore del sole sul mio viso. Lo vedo riflesso nei loro occhi, con le

pupille che si dilatano quando si muovono nell’ombra. «State scherzando, vero? Il

sole è così forte che riesco a malapena a guardare fuori dalla finestra.»

Sonya e Sara scuotono la testa.

Warner sta fissando il muro, con le mani attorcigliate dietro la nuca.

Sento il cuore che inizia a battere più velocemente. «Quindi vedo delle cose?»

chiedo, preoccupata. «Ho le allucinazioni?»

Annuiscono.

«Perché?» Dico, cercando di non andare nel panico, «Cosa mi sta succedendo?»

«Non lo sappiamo,» dice Sonya, guardandosi le mani, «Ma speriamo che questi

effetti siano solo temporanei.»

Cerco di calmare il mio respiro. Cerco di rimanere calma. «Va bene. Beh. Devo

andare. Posso andare? Ho mille cose da fare… »

«Forse dovresti rimanere qui un altro po’,» dice Sara, «lascia che ti controlliamo

per un altro paio d’ore.»

Ma sto facendo no con la testa. «Ho bisogno di un po’ d’aria, devo uscire… »

«No… »

È la prima cosa che Warner ha detto da quando mi sono svegliata e per poco non

urla questa parola. Ha le mani giunte in una supplica silenziosa.

«No, tesoro», dice, sembrando strano, «non puoi uscire di nuovo. Non… non

ancora. Per favore.»

La sua espressione mi spezza il cuore.

Rallento, sento il battito rallentare mentre lo guardo. «Mi dispiace così tanto,»

dico. «Mi dispiace di aver spaventato tutti. È stato un attimo di stupidità ed è stata

tutta colpa mia. Ho abbassato la guardia solo per un secondo,» sospiro. «Credo che

qualcuno mi stesse tenendo d’occhio, aspettando il momento giusto. In ogni caso, non

succederà di nuovo.»

Cerco di sorridere e lui non si muove. Non ricambia il sorriso.

«Davvero,» riprovo. «Non ti preoccupare. Avrei dovuto capire che ci sarebbero

state delle persone pronte ad uccidermi non appena sembrassi vulnerabile, ma… »

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rido, «credimi, starò più attenta la prossima volta. Richiederò persino più guardie che

mi seguano ovunque.»

Lui scuote la testa.

Lo studio, il suo terrore. Non lo capisco.

Cerco di alzarmi. Indosso delle calze e un camice da ospedale e Sonya e Sara si

affrettano a darmi una vestaglia e delle pantofole. Le ringrazio per tutto ciò che hanno

fatto e mi stringono le mani.

«Siamo qui fuori se ti serve qualcosa,» dicono all’unisono.

«Grazie ancora» sorrido «ci farò sapere come va con, uhm,» mi indico la testa, «le

strane visioni.»

Annuiscono e spariscono.

Faccio un passo incerto verso Warner.

«Ehi» dico dolcemente «starò bene. Davvero.»

«Avrebbero potuto ucciderti.»

«Lo so» dico «Mi sono sentita così strana ultimamente… Non riflettevo. Ma è

stato un errore che non ripeterò mai più.» Una breve risata «Davvero.»

Alla fine sospira. Rilassa le spalle. Si passa la mano sul viso, sulla nuca.

Non l’ho mai visto così prima d’ora.

«Mi dispiace così tanto di averti spaventato» dico.

«Per favore, non scusarti con me, tesoro. Non devi preoccuparti per me» dice,

scuotendo la testa, «Ero preoccupato per te. Come ti senti?»

«A parte le allucinazioni, intendi?» Faccio un mezzo sorriso. «Mi sento bene. Mi ci

è voluto un po’ per ritornare in me questa mattina, ma mi sento molto meglio ora.

Sono sicura che anche le allucinazioni spariranno presto.» Faccio un grande sorriso,

più per lui che per me. «Comunque, Delalieu vuole vedermi il prima possibile per

parlare del discorso che farò al simposio, quindi credo che forse dovrei andare da lui.

Non riesco a credere che sia domani.» Scuoto la testa. «Non posso permettermi di

sprecare altro tempo. Anche se… » mi do un’occhiata. «Forse dovrei prima farmi una

doccia? Mettermi dei vestiti veri?»

Cerco di sorridergli di nuovo, per convincerlo che mi sento bene, ma sembra

incapace di parlare. Si limita a guardarmi, con gli occhi arrossati e penetranti. Se non

lo conoscessi direi che ha pianto.

Sto per chiedergli cosa c’è che non va, quando dice

«Tesoro»

e per qualche motivo trattengo il respiro.

«Devo parlarti» dice.

In realtà lo sussurra.

«Va bene» dico ed espiro «parliamo.»

«Non qui.»

Sento lo stomaco rovesciarsi. Il mio istinto mi dice di andare nel panico. «Va tutto

bene?»

Gli ci vuole un po’ per dire «Non lo so.»

Lo guardo, confusa.

Anche lui mi guarda, con gli occhi di un verde così pallido nella luce che, per un

momento, non sembra neanche umano. Non dice nient’altro.

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Faccio un respiro profondo. Cerco di restare calma. «Va bene» dico «Okay. Ma se

torniamo in stanza, posso almeno farmi prima una doccia? Vorrei davvero togliermi

questa sabbia e questo sangue di dosso.»

Annuisce. Ancora senza emozione.

E ora sto davvero iniziando a farmi prendere dal panico.

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CAPITOLO 22

WARNER

Traduzione: Layola

Sto camminando avanti e indietro lungo il corridoio davanti alla nostra stanza

mentre aspetto impazientemente che Juliette finisca di fare la doccia. La mia mente è

devastata. L’isteria mi attanaglia da ore. Non ho idea di cosa mi dirà. Di come reagirà

a quello che ho bisogno di dirle. E sono così terrorizzato da quello che sto per fare

che non sento nemmeno chiamare il mio nome finché non mi toccano.

Mi giro troppo velocemente, i miei riflessi più veloci anche della mia mente. Ho

stretto la sua mano intorno al polso, l’ho piegata dietro la sua schiena e l’ho

schiacciato con il petto contro il muro prima ancora di realizzare che è Kent. Kent,

che non sta rispondendo ai colpi, sta solo ridendo e mi dice di lasciarlo andare.

Lo faccio.

Lascio andare le sue braccia. Attonito. Scuoto la testa per schiarirla. Non mi

ricordo di chiedere scusa.

«Stai bene?» Mi dice qualcun altro.

È James. È ancora alto come un bambino, e per qualche ragione questo mi

sorprende. Prendo un respiro profondo. Le mie mani stanno tremando. Non mi sono

mai sentito meno bene di così, e sono troppo confuso dalla mia ansia per ricordarmi

di mentire.

«No,» gli dico. Faccio un passo indietro, colpendo il muro dietro di me e

lasciandomi cadere a terra. «No,» ripeto, e questa volta non so con chi sto parlando.

«Oh. Vuoi parlarne?» James sta ancora blaterando. Non so perché Kent non lo fa

smettere.

Scuoto la testa.

Ma questo sembra solo incoraggiarlo. Si siede vicino a me. «Perché no? Penso che

dovresti parlarne» dice.

«Dai, amico.» Gli dice Kent finalmente. «Forse dovremmo lasciare a Warner un

po’ di privacy.»

James non si fa convincere. Mi scruta il viso. «Stavi piangendo?»

«Perché fai tutte queste domande?» Sbotto, lasciando cadere la testa su una mano.

«Cos’è successo ai tuoi capelli?»

Sollevo lo sguardo su Kent, scioccato. «Puoi per favore riprendertelo?»

«Non dovresti rispondere ad una domanda con un’altra domanda,» mi dice James,

e mette una mano sulla mia spalla. Salto quasi fuori dalla mia pelle.

«Perché mi stai toccando?»

«Sembri aver bisogno di un abbraccio,» dice. «Vuoi un abbraccio? Gli abbracci mi

fanno sempre sentire meglio quando sono triste.»

«No,» dico, velocemente e con voce affilata. «Non voglio un abbraccio. E non

sono triste.»

Kent sembra star ridendo. È in piedi a pochi passi da noi con le braccia incrociate,

senza far niente per migliorare la situazione. Lo guardo.

«Beh, sembri triste,» dice James.

«In questo momento,» dico rigidamente. «Tutto quello che sento è irritazione.»

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«Beh, ti senti meglio quindi, no?» James sorride. Mi dà delle pacche sul braccio.

«Vedi, te l’avevo detto che parlarne aiuta.»

Sbatto gli occhi, sorpreso. Lo fisso.

La sua teoria non è esattamente corretta, ma stranamente, mi sento effettivamente

meglio. Essere irritato da lui in questo momento, mia ha aiutato a schiarire e a

focalizzare i miei pensieri. Le mie mani sono ferme. Mi sento un po’ lucido.

«Beh,» dico. «Grazie per essere irritante.»

«Ehi.» Si corruccia. Si alza in piedi, togliendosi la polvere dai pantaloni. «Non

sono irritante.»

«Sei decisamente irritante,» gli dico. «Specialmente per un bambino della tua

taglia. Perché non hai ancora imparato ad essere più silenzioso? Quando avevo la tua

età parlavo solo quando venivo interpellato.»

James incrocia le braccia. «Aspetta un secondo... cosa intendi con per un bambino

della tua taglia? Cosa c’è che non va con la mia taglia?»

Gli strizzo l’occhio. «Quanti anni hai? Nove?»

«Sto per compierne undici!»

«Sei piuttosto piccolo per avere undici anni.»

E poi mi dà un pugno. Forte. Nella coscia.

«Owwwwwww,» piagnucola, accalorato nella sua esagerazione di un semplice

suono. Scuote le dita. Mi guarda male. «Perché le tue gambe sembrano delle pietre?»

«La prossima volta,» dico, «dovresti provare a batterti con qualcuno della tua

taglia.»

Mi guarda ad occhi stretti.

«Non preoccuparti,» gli dico. «Sono sicuro che presto diventerai più alto. Io ero

come te fino a dodici o tredici anni – anche tu magari crescerai fra un paio d'anni - se

mi assomigli in qualche modo... »

Kent si schiarisce la gola, forte e io mi correggo.

«Cioè, se assomigli in qualche modo, ah, a tuo fratello, sono sicuro che starai

bene.»

James si gira a guardare Kent e sorride, il goffo cazzotto apparentemente

dimenticato. «Spero davvero di essere come mio fratello,» dice James, ora raggiante.

«Adam è il migliore, non è vero? Spero di essere proprio come lui.»

Sento il sorriso comparire sul mio viso. Questo ragazzino. È anche mio, mio

fratello, e potrebbe non saperlo mai.

«Non è vero?» dice James, ancora sorridendo.

Sono colto di sorpresa. «Scusami?»

«Adam,» dice. «Non è il migliore, Adam? È il miglior fratello maggiore del

mondo.»

«Oh... si,» gli dico, schiarendomi la gola. «Si, certo. Adam è, ah, il migliore. O

un’approssimazione di ciò. In ogni caso, sei molto fortunato ad averlo.»

Kent mi lancia un’occhiata, ma non dice niente.

«Lo so,» dice James, imperterrito. «Sono molto fortunato.»

Annuisco. Sento qualcosa aggrovigliarsi nello stomaco. Mi alzo in piedi. «Si, beh,

se volete scusarmi... »

«Già. Ricevuto.» Kent annuisce. Mi saluta con la mano. «Ci vediamo in giro, eh?»

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«Certamente.»

«Ciao!» dice James mentre Kent lo spinge lungo il corridoio. «Sono contento che ti

senti meglio!»

In qualche modo mi sento peggio.

Entro nella stanza non più nel panico come prima, ma più cupo. E sono così

distratto che quasi non noto Juliette uscire dal bagno mentre io entro nella stanza.

Non indossa nient’altro che un asciugamano.

Le sue guance sono arrossate dalla doccia. I suoi occhi sono grandi e luminosi

mentre mi sorride. È così bella. Così incredibilmente bella.

«Devo solo prendere alcuni vestiti puliti,» dice, ancora sorridendo. «Ti dispiace?»

Scuoto la testa. Riesco solo a fissarla.

In qualche modo, la mia reazione è insufficiente. Lei esita. Accigliata mentre mi

guarda. E poi, finalmente, si muove verso di me.

Sento i miei polmoni funzionare male.

«Ehi,» dice.

Ma tutto quello a cui riesco a pensare è quello che devo dirle e a come potrebbe

reagire. C’è una piccola, disperata speranza nel mio cuore che sta ancora cercando di

essere ottimista riguardo al risultato.

Forse lei capirà.

«Aaron?» Si avvicina ancora, annullando la distanza tra noi. «Hai detto che volevi

parlarmi, vero?»

«Si,» dico, sussurrando la parola. «Si.» Mi sento disorientato.

«Può aspettare?» dice. «Solo fino a quando mi cambio?»

Non so cosa provare.

Disperazione. Desiderio. Paura.

Amore.

Mi colpisce con una forza dolorosa, il ricordo. Di quanto la amo.

Dio, amo tutto di lei. Le sue stranezze, le sue esasperazioni. Amo quanto è gentile

con me quando siamo da soli. Quanto può essere soffice e delicata nei nostri momenti

di calma. Come non esita mai a difendermi.

La amo.

Ed è in piedi davanti a me ora, con una domanda negli occhi, e non riesco a

pensare a nient’altro che a quanto la voglio nella mia vita, per sempre.

Non dico ancora niente. Non faccio niente.

E lei non se ne andrà.

Realizzo, con un sussulto, che sta ancora aspettando una risposta.

«Si, certo» dico velocemente. «Certo che può aspettare.»

Ma sta cercando di leggere la mia espressione. «Cosa c’è che non va?» dice.

Scuoto la testa e le prendo la mano. Delicatamente, così delicatamente. Si avvicina,

e le mie mani si chiudono gentilmente sulle sue spalle nude. È un piccolo, semplice

movimento, ma lo sento quando le sue emozioni cambiano. Trema improvvisamente

quando la tocco, le mie mani viaggiano lungo le sue braccia e la sua reazione inonda i

miei sensi. Mi uccide, tutte le volte, mi lascia senza fiato ogni volta che reagisce a

me, al mio tocco. Sapere che prova qualcosa per me. Che mi vuole.

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Forse capirà, penso. Abbiamo affrontato così tante cose insieme. Abbiamo

superato così tante cose. Forse anche questo sarà superabile.

Forse capirà.

«Aaron?»

Il sangue scorre nelle mie vene, caldo e veloce. La sua pelle è soffice e profuma di

lavanda e mi allontano, solo di un centimetro. Solo per guardarla. Sfioro il suo labbro

inferiore con il pollice, prima che la mia mano scivoli dietro al suo collo.

«Ciao» dico.

E lei mi incontra qui, in questo momento, in un istante.

Mi bacia senza inibizioni, senza esitazione, e avvolge le braccia attorno al mio

collo e sono sopraffatto, perso in una ventata di emozioni...

E l’asciugamano scivola dal suo corpo.

Sul pavimento.

Faccio un passo indietro, sorpreso, accogliendo la vista di lei. Il cuore mi sta

battendo furiosamente nel petto. Riesco a malapena a ricordare cosa stessi cercando

di fare.

Poi lei fa un passo avanti, in punta di piedi mi attira a se, tutta calore e dolcezza e

la tiro contro di me, drogato dalla sensazione di lei, perso nella liscia distesa della sua

pelle nuda. Sono ancora completamente vestito. Lei è nuda tra le mie braccia. E in

qualche modo questa differenza tra noi rende questo momento ancora più surreale.

Mi sta spingendo indietro gentilmente, anche mentre continua a baciarmi, anche

mentre cerca il mio corpo attraverso il tessuto e io cado all’indietro sul letto,

ansimando.

Si arrampica su di me.

E penso di aver perso la mia dannata ragione.

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CAPITOLO 23 JULIETTE

Traduzione: JulietteFerrars

Questo, penso, è il modo giusto per morire.

Potrei annegare in questo momento e non me ne pentirei mai. Potrei prendere

fuoco con questo bacio e diventare felicemente cenere. Potrei vivere qui, morire qui,

proprio qui, contro i suoi fianchi, le sue labbra. Nell’emozione dei suoi occhi mentre

affonda dentro di me, i battiti del cuore indistinguibili dai miei.

Questo. Per sempre. Questo.

Mi bacia di nuovo, i suoi respiri affannosi caldi contro la mia pelle e lo assaggio, la

sua bocca, il suo collo, la linea dura della sua mascella e lui trattiene un gemito, si

ritrae, dolore e piacere si confondono mentre si muove più in profondità, più forte, i

muscoli contratti, il suo corpo solido contro il mio. Ha una mano sulla mia nuca,

l’altra sotto la mia coscia e mi siamo un tutt'uno, incredibilmente più vicini,

sopraffacendomi con un piacere straordinario che non somiglia a nient’altro che abbia

mai conosciuto. Non ha nome. È inconoscibile, impossibile da prevedere. È diverso

ogni volta.

E c’è qualcosa di selvaggio e bellissimo in lui oggi, qualcosa che non riesco a

spiegare nel modo in cui mi tocca, nel modo in cui si sofferma con le dita sulle mie

scapole, percorrendo la curva della mia schiena, come se potessi evaporare da un

momento all’altro, come se questo fosse il primo e l’ultimo momento in cui ci

tocchiamo.

Chiudo gli occhi.

Mi lascio andare.

Le linee dei nostri corpi si sono unite. Onda dopo onda di ghiaccio e calore, si

sciolgono e prendono fuoco ed è la sua bocca sulla mia pelle, le sue forti braccia che

mi avvolgono nell’amore e nel calore. Sono sospesa a mezz’aria, sott’acqua, nello

spazio, tutto contemporaneamente e gli orologi sono bloccati, le inibizioni sono fuori

dalla finestra e non mi sono mai sentita così al sicuro, così amata o così protetta come

in questo momento, nella fusione privata dei nostri corpi.

Perdo la cognizione del tempo.

Perdo la cognizione della mia mente.

So solo che voglio che questo duri per sempre.

Mi sta dicendo qualcosa, mentre fa correre le mani sul mio corpo, e le sue parole

sono leggere e disperate, vellutate come la seta contro il mio orecchio, ma riesco a

sentirlo a malapena con il suono del mio cuore che mi batte nel petto. Ma lo vedo,

quando i muscoli delle sue braccia si sforzano contro la sua pelle, mentre cerca di

rimanere qui, con me…

Ansima ad alta voce, strizzando gli occhi mentre allunga le braccia, afferra un

pugno di lenzuola e seppellisco la faccia nel suo petto, seguo la linea del suo collo col

naso e lo respiro e sono contro di lui, ogni centimetro della mia pelle caldo e

infiammato con desiderio e bisogno e

«Ti amo» sussurro

anche mentre sento la mia mente staccarsi dal corpo

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anche mentre le stelle esplodono dietro ai miei occhi e il calore mi inonda le vene e

vengo sopraffatta, sono scioccata e sopraffatta ogni volta, ogni volta

È un torrente di sentimenti, un assaggio simultaneo ed effimero di morte e gioia e

chiudo gli occhi, il calore rovente lampeggia dietro alle mie palpebre e devo lottare

contro il bisogno di urlare il suo nome anche mentre sento che stiamo andando in

frantumi insieme, distrutti e ricomposti allo stesso momento e lui ansima

Dice, «Juliette… »

Amo la vista del suo corpo nudo.

Specialmente in questi momenti silenziosi e vulnerabili. Queste parentesi di tempo

spillate tra sogno e realtà sono le mie preferite. C’è una dolcezza in questa coscienza

esitante, un ritorno attento e dolce della forma all’attività. Ho scoperto di amare

questi minuti soprattutto per il modo delicato con cui si realizzano pian piano. È

tenero.

A rallentatore.

Il tempo che si allaccia le scarpe.

E Warner è così immobile, così delicato. Così indifeso. Il suo viso è tranquillo, la

sua fronte è distesa, le sue labbra si chiedono se socchiudersi o meno. E i primi

secondi dopo aver aperto gli occhi sono i più dolci. A volte sono abbastanza fortunata

da alzare lo sguardo prima di lui. Oggi lo vedo muoversi. Lo vedo aprire gli occhi e

orientarsi. Ma poi, nel tempo impiegato per trovarmi, il modo in cui il suo viso si

illumina quando mi vede, quella parte è come musica per me. Tutto ciò che importa è

il modo in cui mi guarda in quel momento.

E oggi, qualcosa è diverso.

Oggi, quando apre gli occhi sembra improvvisamente disorientato. Sbatte le

palpebre e si guarda intorno, mettendosi seduto troppo in fretta come se volesse

scappare e non si ricordasse come. Oggi, c’è qualcosa che non va.

E quando salgo sul suo grembo si immobilizza.

E quando gli prendo il mento tra le mani si gira dall’altra parte.

Quando lo bacio, delicatamente, chiude gli occhi e qualcosa dentro di lui si

scioglie, qualcosa si rilassa nelle sue ossa e quando apre di nuovo gli occhi sembra

terrorizzato e ho un senso improvviso di nausea.

C’è qualcosa che non va.

«Cosa c’è?» dico, le mie parole emettono a malapena un suono, «Cos’è successo?

Cosa c’è che non va?»

Lui scuote la testa.

«È colpa mia?» mi batte forte il cuore, «Ho fatto qualcosa di male?»

Lui spalanca gli occhi. «No, no, Juliette… sei perfetta. Sei… Dio, sei perfetta.»

dice. Si tocca la nuca, guarda il soffitto.

«Allora perché non mi guardi?»

Allora incontra il mio sguardo. E non riesco a fare a meno di meravigliarmi di

quanto ami il suo viso, anche adesso, anche la sua paura. È così bello. Così

straordinariamente bello, anche così: con i capelli rasati, corti e morbidi; con la faccia

non rasata, un’ombra biondo-dorata gli circonda le linee già dure del viso. I suoi

occhi sono di una sfumatura assurda di verde. Intensi. Sbatte le palpebre. E poi…

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Chiude gli occhi.

«Devo dirti una cosa.» dice a bassa voce. Ha lo sguardo basso. Solleva la mano per

toccarmi e le sue dita mi sfiorano il petto. Delicate. Terrorizzate. «Una cosa che avrei

dovuto dirti prima.»

«Cosa intendi?» Appoggio la schiena alla testiera del letto. Appallottolo una parte

delle lenzuola e la stringo forte contro il mio corpo, sentendomi improvvisamente

vulnerabile.

Lui esita troppo a lungo. Espira. Si passa la mano sulla bocca, sul mento, sulla

nuca…

«Non so da dove iniziare.»

Ogni istinto nel mio corpo mi sta dicendo di scappare. Di infilarmi del cotone nelle

orecchie. Di dirgli di smettere di parlare. Ma non posso. Sono pietrificata.

E ho paura.

«Inizia dal principio.» dico, meravigliandomi di essere riuscita a parlare. Non

l’avevo mai visto così prima d’ora. Non riesco ad immaginare cosa debba dirmi. Ora

unisce le mani così forte che temo possa rompersi le dita per sbaglio.

E poi, alla fine. Lentamente.

Inizia a parlare.

«La Restaurazione,» dice, «ha iniziato a fare campagna elettorale quando avevi

sette anni. Io ne avevo nove. Ma avevano iniziato ad incontrarsi e a fare piani molti

anni prima.»

«Va bene.»

«I fondatori della Restaurazione,» dice, «un tempo erano uomini e donne

dell’esercito diventati membri della difesa. E sono i responsabili, in parte, dell’ascesa

del complesso industriale militare che ha gettato le fondamenta degli stati militari de

facto che fanno parte di ciò che ora è la Restaurazione. I loro piani erano pronti già da

molto tempo prima che questo regime salisse al potere.» dice, «Il loro lavoro aveva

reso loro possibile avere accesso ad armi e tecnologie di cui nessuno aveva mai

sentito nominare. Avevano un’ampia sorveglianza, strutture completamente

equipaggiate, acri di proprietà privata, accesso illimitato alle informazioni, tutto già

da anni prima che tu nascessi.»

Il cuore mi batte forte nel petto.

«Avevano scoperto gli Innaturali, un termine usato dalla Restaurazione per

indicare coloro che hanno delle abilità soprannaturali, qualche anno dopo. Avevi

circa cinque anni» dice, «quando hanno fatto la prima scoperta,» guarda il muro, «da

lì hanno iniziato a raccogliere dati, fare degli esperimenti e usare le persone con delle

abilità per velocizzare il loro piano di dominare il mondo.»

«Tutto questo è molto interessante.» dico, «Ma sto un po’ andando nel panico e ho

bisogno che tu arrivi alla parte in cui mi dici cosa tutto questo abbia a che fare con

me.»

«Tesoro,» dice, incontrando finalmente il mio sguardo, «tutto questo ha a che fare

con te.»

«Come?»

«C’è una cosa della tua vita che ho sempre saputo, ma che non ti ho mai detto.»

dice. Deglutisce. Si guarda le mani quando dice, «Sei stata adottata.»

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La rivelazione è come un tuono.

Inciampo alzandomi dal letto, stringo le lenzuola sul mio corpo e sto lì in piedi,

guardandolo, attonita. Cerco di mantenere la calma anche mentre la mia mente

prende fuoco.

«Sono stata adottata.»

Annuisce.

«Quindi stai dicendo che le persone che mi hanno cresciuta, torturata, non sono i

miei veri genitori?»

Scuote la testa.

«I miei genitori biologici sono ancora vivi?»

«Sì,» sussurra.

«E non me l’hai mai detto?»

No, si affretta a rispondere

No, no, non sapevo che erano ancora vivi, dice

Non sapevo nulla tranne il fatto che sei stata adottata, dice, Ho scoperto solo ieri

che i tuoi genitori sono ancora vivi, perché Castle, dice, Castle mi ha detto…

Ed ogni rivelazione seguente è come un’onda d’urto, una detonazione improvvisa e

inattesa che implode dentro di me…

BOOM

La tua vita è stata un esperimento, dice

BOOM

Hai una sorella, dice, è ancora viva

BOOM

I tuoi genitori biologici hanno dato te e tua sorella alla Restaurazione per degli

esperimenti

ed è come se il mondo si sia ribaltato, come se io fossi stata lanciata dalla Terra e

sia diretta verso il sole,

come se io stessi bruciando viva e in qualche modo, riesco ancora a sentirlo, anche

mentre la mia pelle si scioglie verso l’interno, mentre la mia mente si capovolge e ciò

che ho sempre saputo, ciò che credevo fosse vero su chi sono e da dove provengo

s v a n i s c e

Mi allontano lentamente da lui, confusa e inorridita e incapace di formare delle

parole, incapace di parlare.

E lui dice che lui non lo sapeva, e gli si rompe la voce quando lo dice, quando dice

che non lo sapeva fino a ieri che i miei genitori biologici sono ancora vivi, non lo

sapeva fin quando Castle non gliel’ha detto, non sapeva come dirmi che sono stata

adottata, non sapeva come l’avrei presa, non sapeva se avrei avuto bisogno di quel

dolore, ma Castle gli ha detto che la Restaurazione sta venendo a prendermi, che

stanno venendo per riportarmi indietro

e tua sorella, dice

ma ora sto piangendo, incapace di vederlo attraverso le lacrime e non riesco ancora

a parlare e

tua sorella, dice, si chiama Emmaline, è un anno più grande di te, è molto, molto

potente, è di proprietà della Restaurazione da dodici anni

Non riesco a smettere di scuotere la testa

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«Basta» dico

«No» dico

Per favore non farmi questo…

Ma lui non si ferma. Dice che devo sapere. Dice che devo saperlo ora, che devo

sapere la verità…

SMETTILA DI DIRMI QUESTE COSE, urlo

Non sapevo che fosse tua sorella, sta dicendo,

Non sapevo che tu avessi una sorella

Giuro che non lo sapevo

«Sono stati quasi venti uomini e donne ad aver fondato la Restaurazione» dice.

«Ma c’erano solo sei comandanti supremi. Quando l’uomo che era stato inizialmente

scelto per il Nord America è diventato un malato terminale, stavano considerando

l'idea di rimpiazzarlo con mio padre. Avevo sedici anni. Vivevamo qui, nel Settore

45. A quei tempi mio padre era il Capo Comandante e Reggente. E diventare

Comandante Supremo avrebbe significato trasferirsi e voleva portarmi con sé. «Mia

madre,» dice, «doveva essere lasciata qui.»

Per favore non dirmi nient’altro

Per favore non dirmi nient’altro, lo imploro

«Era l’unico modo per convincerlo a darmi questo lavoro» dice, ora disperato. «A

permettermi di rimanere qui, per controllarla da vicino. È entrato in carica come

Comandante Supremo quando avevo diciotto anni. E mi ha fatto trascorrere i due

anni in mezzo…»

«Aaron, per favore» dico, sentendomi isterica, «non voglio saperlo… Non ti ho

chiesto di dirmelo… Non voglio saperlo… »

«Ho perpetuato la tortura di tua sorella» dice, la sua voce è rauca, rotta. «La sua

reclusione. Mi era stato ordinato di sovrintendere la sua prigionia continua. Ho dato

ordine che la tenessero lì. Ogni giorno. Non mi era mai stato detto perché fosse lì o

cosa ci fosse di sbagliato in lei. Mi era stato detto di tenerla d’occhio. Questo è tutto.

Le erano permesse solamente quattro pause di venti minuti dalla vasca d’acqua ogni

ventiquattro ore e lei gridava… Mi implorava di lasciarla andare» dice, con la voce

affannata «voleva pietà e non gliel’ho mai data.»

E mi fermo

Mi gira la testa

Faccio cadere le lenzuola mentre corro, corro via

Mi sto vestendo il più in fretta possibile e quando torno in stanza, mezza selvaggia,

imprigionata in un incubo, vedo anche lui mezzo vestito, senza maglia, solo con i

pantaloni e non parla neanche mentre lo guardo, attonita, con una mano che mi copre

la bocca mentre scuoto la testa, le lacrime mi rigano velocemente le guance e non so

cosa dire, non so se riuscirò mai a dirgli qualcosa, mai più…

«È troppo» dico, mi strozzo con le parole, «È troppo… è troppo… »

«Juliette… »

E scuoto la testa, con le mani tremolanti mentre raggiungo la porta e

«Ti prego» dice e le lacrime gli rigano silenziosamente le guance e sta visibilmente

tremando quando dice, «devi credermi. Ero giovane. E stupido. Ero disperato.

Credevo di non avere niente per cui valesse la pena vivere… Non m’importava nulla

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se non salvare mia madre ed ero disposto a fare qualsiasi cosa per restare qui, vicino a

lei… »

«Mi hai mentito!» esplodo, la rabbia mi fa strizzare gli occhi mentre mi allontano

da lui, «mi hai mentito per tutto questo tempo, mi hai mentito, su tutto… »

«No» dice, tutto terrore e disperazione, «l’unica cosa che non ti ho detto è la verità

sui tuoi genitori, te lo giuro… »

«Come hai potuto tenermelo segreto? Per tutto questo tempo, tutto questo, tutto,

non hai fatto altro che mentirmi… »

Scuote la testa quando dice No, no, io ti amo, il mio amore per te non è mai stato

una bugia…

«Allora perché non me l’hai detto prima? Perché non me l’hai detto?»

«Pensavo che i tuoi genitori fossero morti molto tempo fa… Non credevo ti

avrebbe aiutato sapere di loro. Credevo che ti avrebbe solo fatto soffrire sapere di

averli persi. E non sapevo,» dice, scuotendo la testa, «non sapevo nulla dei tuoi veri

genitori o di tua sorella, per favore credimi… Ti giuro che non lo sapevo, non fino a

ieri… »

Il suo petto si sta sollevando così forte che il suo corpo si curva, ha le mani

piantate sulle ginocchia mentre cerca di respirare e non mi guarda quando dice,

sussurra, «mi dispiace così tanto. Sono così tanto dispiaciuto.»

«Basta… Smettila di parlare… »

«Ti prego… »

«Come… C-come potrò mai… Mai fidarmi di nuovo di te?» Ho gli occhi

spalancati e terrorizzati che lo guardano per trovare una risposta che ci salverà

entrambi ma non risponde. Non può. Non mi lascia nulla a cui aggrapparmi. «Come

potremo mai tornare indietro?» dico, «Come puoi aspettarti che io dimentichi tutto

questo? Che mi hai mentito riguardo ai miei genitori? Che hai torturato mia sorella?

C’è così tanto di te che non so,» dico, con la voce sottile e rotta, «così tanto… E non

posso… Non posso farlo… »

E lui alza lo sguardo, pietrificato, mi guarda come se stesse finalmente capendo

che non fingerò che questo non sia mai accaduto, che non posso continuare a stare

con qualcuno di cui non posso fidarmi e riesco a vederlo, riesco a vedere la speranza

lasciare i suoi occhi. Ha la mascella tesa; la faccia una maschera d'orrore,

improvvisamente pallida e fa un passo verso di me, perso, disperato, implorandomi

con gli occhi

ma devo andare.

Sto correndo per il corridoio e non so dove sto andando fin quando non ci arriverò.

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CAPITOLO 24 WARNER

Traduzione: JulietteFerrars

Quindi è questa…

È questa l’agonia.

Questo è ciò di cui parlano quando parlano del cuore spezzato. Credevo di sapere

cosa fosse. Credevo di sapere, con estrema chiarezza, come fosse avere il cuore

spezzato, ma ora… Ora capisco, finalmente.

Prima? Quando Juliette non riusciva a decidersi tra me e Kent? Quel dolore?

Quello era un gioco da ragazzi.

Ma questo.

Questa è vera sofferenza. Questa è una totale tortura. E non ho nessuno da

incolpare di questo dolore che me stesso, il che rende impossibile dirigere la mia

rabbia in qualsiasi altro posto al di fuori del mio io. Se non fossi abbastanza

informato, crederei di star avendo un vero e proprio infarto. È come se un camion mi

fosse passato sopra, come se avesse rotto ogni singolo osso nel mio petto e ora sono

bloccato qui, col peso che mi frantuma i polmoni. Non riesco a respirare. Non riesco

neanche a vedere bene.

Il cuore mi sta battendo nelle orecchie. Il sangue sta scorrendo nella mia testa

troppo in fretta e mi sta causando febbre e vertigini. Vengo soffocato fino a non

riuscire a parlare, intorpidito fin dentro le ossa. Sento solo un’immensa e assurda

pressione che mi sta distruggendo il corpo. Cado all’indietro, forte. Ho la testa contro

il muro. Cerco di calmarmi, di calmare il mio respiro. Cerco di essere razionale.

Questo non è un infarto, mi dico. Non è un infarto.

Lo so bene.

Sto avendo un attacco di panico.

Mi è successo solo una volta prima d’ora e poi il dolore si era materializzato come

da un incubo, dal nulla, senza avvisare. Mi ero svegliato nel cuore della notte colto da

un violento terrore che non riuscivo ad esprimere, convinto senza ombra di dubbio

che stessi morendo. Alla fine l’episodio è passato, ma l’esperienza non mi ha mai

abbandonato.

E ora, questo…

Credevo di essere preparato. Credevo di essermi preparato al possibile esito della

conversazione di oggi. Mi sbagliavo.

Sento che mi sta divorando.

Questo dolore.

Ho sofferto di ansia occasionalmente nel corso della mia vita, ma in generale sono

riuscito a gestirla. In passato, le mie esperienze erano sempre state associate a questo

lavoro. A mio padre. Ma più crescevo e meno impotente diventavo e ho trovato dei

modi per gestire i fattori scatenanti; ho trovato i posti sicuri nella mia mente; mi sono

istruito sulle terapie cognitivo-comportamentali; e col passare del tempo, ho imparato

a superarla. L’ansia si manifestava con intensità e frequenza minori. Ma molto

raramente, si trasforma in qualcos’altro. A volte sfugge completamente al mio

controllo.

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E non so come salvarmi questa volta.

Non so se sono abbastanza forte per combatterla ora, non quando non so più per

cosa sto combattendo. E sono appena crollato, supino sul pavimento, con la mano

premuta sul dolore nel mio petto, quando la porta si apre all’improvviso.

Sento il mio cuore riavviarsi.

Sollevo la testa di un centimetro e aspetto. Sperando contro la speranza.

«Ehi, amico, dove diavolo sei?»

Abbasso la testa con un lamento. Tra tutte le persone.

«C’è nessuno?» dei passi «So che ci sei. E perché c’è tutto questo casino qui?

Perché ci sono scatole e lenzuola ovunque?»

Silenzio.

«Amico, dove sei? Ho appena visto Juliette e stava dando di matto, ma non voleva

dirmi perché e so che il tuo culo da teppista si sta nascondendo qui come un

piccolo… »

E poi eccolo qui.

Con gli stivali proprio accanto alla mia testa.

Mi sta fissando.

«Ciao» dico. È l’unica cosa che riesco a dire al momento.

Kenji mi sta guardando dall’alto, attonito.

«Ma che cazzo ci fai lì a terra? Perché non hai dei vestiti addosso?» e poi,

«Aspetta… stavi piangendo?»

Chiudo gli occhi, prego di morire.

«Cosa sta succedendo?» La sua voce è di colpo più vicina di prima e realizzo che

dev’essersi accovacciato accanto a me. «Cos’hai, amico?»

«Non riesco a respirare» sussurro.

«Cosa intendi con non riesco a respirare? Ti ha sparato di nuovo?»

Quel ricordo mi trafigge. Un dolore fresco, feroce.

Dio, lo odio così tanto.

Deglutisco, forte. «Per favore. Vattene.»

«Uh, no.» Sento il fruscio del movimento che fa quando si siede accanto a me.

«Cos’è questo?» dice, indicandomi, «Cosa ti sta succedendo?»

Alla fine, mi arrendo. Apro gli occhi. «Sto avendo un attacco di panico, coglione

inconsiderato che non sei altro», cerco di fare un respiro, «e vorrei un po’ di

privacy.»

Alza le sopracciglia. «Stai avendo un che?»

«Attacco» respiro, «di panico.»

«Che diavolo è?»

«Ho delle medicine. In bagno. Per favore.»

Mi lancia un’occhiata strana, ma fa ciò che gli dico. Ritorna in un attimo con il

flacone giusto e sono sollevato.

«È questo?»

Annuisco. Non ho mai preso questa medicina prima, ma ho tenuto la prescrizione

sotto richiesta del medico. In caso di emergenza.

«Vuoi dell’acqua?»

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Scuoto la testa. Agguanto il flacone con le mani tremolanti. Non ricordo la dose

giusta, ma dato che ho raramente un attacco così grave, provo ad indovinare. Mi

metto tre pillole in bocca e le mastico, forte, accogliendo il sapore amaro e disgustoso

sulla lingua.

Solo parecchi minuti dopo, dopo che la medicina inizia a fare effetto, il camion

metaforico viene finalmente sollevato dalla sua posizione sul mio petto. Le costole si

ricuciono magicamente. I polmoni si ricordano di fare il loro lavoro.

E mi sento improvvisamente fiacco. Esausto.

Lento.

Mi tiro su, incespico.

«Adesso vuoi dirmi che sta succedendo?» Kenji mi sta ancora fissando, con le

braccia conserte sul petto. «Oppure dovrei fare di testa mia e presumere che tu abbia

fatto qualcosa di orribile e che io ti debba prendere a calci in culo?»

All’improvviso mi sento così stanco.

Una risata mi nasce nel petto e non so da dove provenga. Riesco a trattenere la

risata, ma fallisco nel nascondere un sorriso stupido e inspiegabile mentre dico,

«probabilmente dovresti prendermi a calci in culo.»

Era la cosa sbagliata da dire.

L’espressione di Kenji cambia. Di colpo ha gli occhi genuinamente preoccupati e

temo di aver detto troppo. Questo farmaco mi sta rallentando, mi sta addormentando i

sensi. Mi tocco la bocca con la mano, le imploro di rimanere chiuse. Spero di non

aver preso troppe pillole.

«Ehi» dice Kenji dolcemente, «cos’è successo?»

Scuoto la testa. Chiudo gli occhi. «Cos’è successo?» Ora rido per davvero. «Cos’è

successo, cos’è successo.» Apro gli occhi abbastanza a lungo per dire, «Juliette mi ha

lasciato.»

«Cosa?»

«Cioè, credo di sì?» Mi fermo. Mi acciglio. Tamburello col dito sul mento.

«Immagino che sia il motivo per cui è scappata via urlando.»

«Ma… Perché avrebbe dovuto lasciarti? Perché stava piangendo?»

Dopodiché rido di nuovo. «Perché io» dico, indicando me stesso, «sono un

mostro.»

Kenji sembra confuso. «Non mi sembra una novità.»

Sorrido. È spiritoso, penso. È un tipo spiritoso.

«Dove ho lasciato la camicia?» borbotto, sentendomi improvvisamente intorpidito

in un modo completamente nuovo. Incrocio le braccia. Strizzo gli occhi. «Hmm?

L’hai vista da qualche parte?»

«Amico, sei ubriaco?»

«Cosa?» Do uno schiaffo all’aria. Scoppio a ridere. «Io non bevo. Mio padre è un

alcolizzato, non lo sapevi? Io non tocco quella roba. No, aspetta.» alzo un dito, «Era

un alcolizzato. Mio padre era un alcolizzato. Ora è morto. Abbastanza morto.»

E poi sento Kenji sussultare. Lo fa in modo rumoroso e strano e sussurra, «Porca

puttana!» e ciò è abbastanza da farmi affinare i sensi per un secondo.

Mi giro per guardarlo.

Sembra terrorizzato.

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«Che c’è?» dico, infastidito.

«Cosa ti è successo alla schiena?»

«Oh.» distolgo lo sguardo, ancora più irritato. «Quello.» Le numerose cicatrici che

compongono tutta la mia schiena sfigurata. Faccio un respiro profondo. Espiro.

«Quelli sono solo, sai, dei regali di compleanno dal mio caro vecchio paparino.»

«Regali di compleanno da tuo padre?» Kenji sbatte le palpebre in modo veloce. Si

guarda intorno, parlando al vento. «Ma in che diavolo di soap opera mi sono

cacciato?» si passa una mano tra i capelli e dice, «Perché vengo sempre coinvolto

nella merda personale delle altre persone? Perché non mi faccio semplicemente i fatti

miei? Perché non tengo semplicemente la bocca chiusa?»

«Sai,» gli dico, inclinando leggermente la testa, «Mi sono sempre chiesto la stessa

cosa.»

«Chiudi il becco.»

Faccio un grande sorriso. Luminoso come una lampadina.

Kenji sgrana gli occhi, sorpreso e scoppia a ridere. Indica la mia faccia con un

cenno e dice, «Ah, hai le fossette. Non lo sapevo. Che carino.»

«Stai zitto.» Aggrotto le sopracciglia. «Vattene.»

Lui ride più forte. «Credo che tu abbia preso troppe pillole,» mi dice, prendendo il

flacone che avevo lasciato sul pavimento. Osserva l’etichetta. «Qui dice che dovresti

prenderne una ogni tre ore.» Ride di nuovo. Questa volta più forte. «Cazzo, amico, se

non sapessi che sei in un mondo di dolore adesso, ti filmerei.»

«Sono molto stanco.» gli dico, «Per favore, vai direttamente all’inferno.»

«Non se ne parla, fenomeno da baraccone. Questa proprio non me la perdo.» Si

appoggia al muro. «E poi non vado da nessuna parte se prima il tuo culo ubriaco non

mi dice perché tu e J vi siete lasciati.»

Scuoto la testa. Finalmente riesco a trovare una camicia e la indosso.

«Sì, l’hai messa al contrario» mi dice Kenji.

Gli lancio un’occhiataccia e mi butto sul letto. Chiudo gli occhi.

«Allora?» dice, sedendosi accanto a me. «Devo prendere i popcorn? Che sta

succedendo?»

«Sono informazioni riservate.»

Kenji emette un suono di incredulità. «Quali informazioni? Il motivo per cui vi

siete lasciati? Oppure vi siete lasciati a causa di informazioni riservate?»

«Sì.»

«Dammi un cavolo di aiutino.»

«Ci siamo lasciati» dico, premendomi un cuscino sugli occhi, «a causa di

informazioni che ho condiviso con lei, le quali sono, come ho detto, riservate.»

«Cosa? Perché? Non ha alcun senso.» Una pausa. «A meno che… »

«Oh, bene, riesco praticamente a sentire il rumore dei piccoli ingranaggi che girano

nel tuo piccolo cervello.»

«Le hai mentito riguardo qualcosa?» dice, «Qualcosa che avresti dovuto dirle?

Qualcosa di riservato… che riguarda lei?»

Ondeggio una mano nell’aria. «Quest’uomo è un genio.»

«Oh, merda.»

«Sì» dico, «merda.»

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Esala un lungo e forte sospiro. «Sembra brutta.»

«Sono un idiota.»

Si schiarisce la gola. «Quindi, uh, hai davvero mandato tutto a puttane questa

volta, huh?»

«Abbastanza, temo.»

Silenzio.

«Aspetta… Ripetimi perché ci sono tutte queste lenzuola a terra?»

Al che mi tolgo il cuscino dalla faccia. «Secondo te perché sono a terra?»

Un momento di esitazione e poi,

«Oh, ma che… Dai, amico, ma che diamine.» Kenji salta dal letto disgustato.

«Perché mai mi hai lasciato sedere qui?» Si allontana dall’altra parte della stanza.

«Ma siete proprio, ma Gesù, non va affatto bene… »

«Cresci un po’.»

«Io sono cresciuto.» Mi guarda in malo modo. «Ma Juliette è come una sorella per

me, amico, non voglio pensare a questa merda… »

«Beh, non preoccuparti» gli dico, «Sono sicuro che non succederà mai più.»

«Ok, ok, primadonna, calmati. E parlami di questa roba riservata.»

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CAPITOLO 25 JULIETTE

Traduzione: Layola

Corri, mi dico.

Corri finché i tuoi polmoni collasseranno, finché il vento frusterà e strapperà i tuoi

vestiti laceri, finché sarai una macchia che si mescola allo sfondo.

Corri, Juliette, corri più veloce, corri finché le tue ossa si romperanno e le tue tibie

si spaccheranno e i tuoi muscoli si atrofizzeranno e il tuo cuore morirà perché è

sempre stato troppo grande per il tuo petto e batte troppo forte troppo a lungo e

corri.

Corri corri corri finché non riuscirai più a sentire i tuoi passi dietro di te. Corri

finché abbasseranno i loro pugni e le loro urla si dissolveranno nel vento. Corri con

gli occhi aperti e la bocca chiusa e argina il fiume che sta scorrendo dai tuoi occhi.

Corri, Jiuliette.

Corri finché cadrai morta.

Sii certa che il tuo cuore si fermi prima che ti abbiano raggiunta. Prima che ti

tocchino.

Corri, ho detto.

-UN ESTRATTO DAL DIARIO DI JIULIETTE NEL MANICOMIO

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I miei piedi sbattono contro la terra dura e compatta, ogni passo invia scariche di

dolore elettrico lungo le mie gambe. I polmoni mi bruciano, i miei respiri sono veloci

e dolorosi, ma spingo attraverso lo sfinimento, i miei muscoli che lavorano più

duramente di quanto abbiano fatto da molto tempo, e continuo a muovermi. Non sono

mai stata brava in questo. Ho sempre avuto problemi con la respirazione. Ma ho fatto

molto allenamento cardio e ai pesi da quando ci siamo trasferiti alla base, e sono

diventata molto più forte.

Oggi, quegli allenamenti mi stanno ripagando.

Ho corso già almeno un paio di miglia, il panico e la rabbia mi hanno fatto da

carburante per la maggior parte del percorso, ma adesso devo sfondare la mia stessa

resistenza per mantenere lo slancio. Non posso fermarmi. Non mi fermerò.

Non sono ancora pronta per iniziare a pensare.

È una giornata fastidiosamente bella oggi; il sole brilla alto, impossibili uccelli

cinguettano allegramente su alberi mezzi fioriti e sbattono le loro ali nel cielo blu.

Indosso una maglietta di cotone leggero. Jeans blu scuro. Un altro paio di scarpe da

tennis. I miei capelli, lunghi e sciolti, formano onde dietro di me, intrappolati in una

battaglia con il vento. Riesco a sentire il sole scaldarmi il viso; sento gocce di sudore

colarmi lungo la schiena.

Può tutto questo essere reale? Mi chiedo.

Qualcuno mi ha sparato con quei proiettili avvelenati di proposito? Per provare a

dirmi qualcosa?

O le mie allucinazioni sono un problema di tutt’altro genere?

Chiudo gli occhi e spingo le gambe ancora più forte, invitando me stessa a

muovermi più velocemente. Non voglio pensare ancora. Non voglio smettere di

muovermi.

Se mi fermo, la mia mente potrebbe uccidermi.

Un’improvvisa folata di vento mi colpisce il faccia. Riapro gli occhi, ricordandomi

di respirare. Sono tornata nei territori non regolamentati, i miei poteri completamente

accesi, l’energia che ronza attraverso di me anche ora, in movimento perpetuo. Le

strade del vecchio mondo sono asfaltate, ma butterate da buche e pozzanghere. Gli

edifici sono abbandonati, alti e freddi, le linee elettriche penzolano attraverso lo

skyline come i pentagrammi di canzoni mai finite, ondeggiando dolcemente nella

luce pomeridiana. Corro sotto un cavalcavia pericolante e giù per diverse rampe di

scale di cemento, presidiate da entrambi i lati da palme spettinate e lampioni bruciati,

i loro corrimano irregolari e con la vernice scrostata. Vado su e giù lungo alcune

strade secondarie e poi sono circondata, da tutti i lati, dallo scheletro di una vecchia

autostrada, larga dodici corsie, una struttura di metallo enorme collassata al centro

della strada. Do un’occhiata più da vicino e contro tre enormi segnali verdi, di cui

solo due sono ancora in piedi. Leggo le parole...

405 SOUTH LONG BEACH

... e mi fermo.

Mi piego in avanti, i gomiti sulle ginocchia, le mani intrecciate dietro alla testa, e

combatto l’urgenza di collassare sulla strada.

Inspiro.

Espiro.

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Ancora e ancora e ancora

Alzo lo sguardo, mi guardo intorno.

Un vecchio autobus giace non distante da me, le sue numerose ruote impantanate

in una pozza di acqua stagnante, marcio, mezzo arrugginito, come un bambino

abbandonato che giace nella sua stessa sporcizia. Segnali autostradali, vetri infranti,

gomme squarciate, e paraurti dimenticati sporcano ciò che resta della telaio

danneggiato.

Il sole mi trova e brilla nella mia direzione, un riflettore per la ragazza a pezzi

ferma nel mezzo del nulla e sono catturata nei suoi raggi caldi, sciogliendomi

lentamente dall’interno, collassando silenziosamente mentre la mia mente raggiunge

il mio corpo come un asteroide che si abbatte sulla terra.

E poi mi colpisce...

La memoria come un'eco

I ricordi come mani intorno alla mia gola

Ci siamo

Eccola

in frantumi di nuovo.

Sono raggomitolata su me stessa contro il retro dell’autobus lurido ed ho una mano

schiacciata sulla bocca per cercare di trattenere le urla ma il loro disperato tentativo

di uscire dalle mie labbra sta combattendo contro una marea di lacrime non versate

che non riesco più a trattenere e...

respira

Il mio corpo trema di emozioni trattenute.

Il vomito mi risale l’esofago.

Va via, sussurro, ma solo nella mia testa

va via, dico

Per favore muori

Ho incatenato la ragazzina terrorizzata del mio passato in qualche posto

sconosciuto dentro di me dove lei e le sue paure sono state attentamente

immagazzinate, sigillate.

I suoi ricordi, soffocati.

La sua rabbia, ignorata.

Non le parlo. Non oso guardare nella sua direzione. La odio.

Ma in questo momento la posso sentire piangere.

In questo momento posso vederla, quest’altra versione di me stessa, posso vederla

graffiare con le sue unghie sporche le pareti del mio cuore, spillando sangue. E se

potessi raggiungerla dentro di me e strapparla via con le mie mani, lo farei.

Strapperei il suo piccolo corpo a metà.

Lancerei i suoi arti maciullati in mare.

Sarei libera da lei allora, pienamente e veramente, sarei sbiancata per sempre dalla

sua macchia sulla mia anima. Ma si rifiuta di morire. Rimane dentro di me, un'eco.

Infesta le stanze del mio cuore e della mia testa, e sebbene la ucciderei con gioia per

una possibilità di libertà, non posso. È come cercare di strangolare un fantasma.

Quindi chiudo gli occhi e imploro me stessa di essere coraggiosa. Prendo respiri

profondi. Non posso lasciare che la ragazza spezzata dentro di me spazzi via tutto

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quello che sono diventata. Non posso tornare indietro ad un’altra versione di me. Non

andrò in frantumi, non ancora, nella scia di un terremoto emotivo.

Ma da dove inizio?

Come vengo a patti con anche solo una di queste cose? Queste ultime settimane

sono stata già fin troppo per me; troppo da gestire. È stato difficile ammettere che non

sono qualificata, che sono in difficoltà, ma l’ho fatto. Ero disposta a riconoscere che

tutto questo, questa nuova vita, questo nuovo mondo, avrebbero richiesto tempo ed

esperienza. Ero disposta a spenderci del tempo, a fidarmi della mia squadra, a cercare

di essere diplomatica. Ma ora, alla luce di tutto...

La mia intera vita è stata un esperimento.

Ho una sorella. Una sorella. E tutto un altro mondo di genitori, genitori biologici,

che non mi hanno trattato diversamente dai miei genitori adottivi, donando il mio

corpo alla ricerca come se non fossi niente più di un esperimento scientifico.

Anderson e gli altri comandanti supremi hanno sempre saputo di me. Castle ha

sempre saputo la verità riguardo a me. Warner sapevo che ero stata adottata.

E ora, sapere che coloro di cui mi sono fidata di più mi hanno mentito,

manipolato...

Mi stavano tutti usando...

Un grido improvviso si strappa dai miei polmoni. Si libera dal mio petto senza

avviso, senza permesso, ed è un grido così forte, così penetrante e violento che mi fa

cadere in ginocchio. Le mie mani sono premute contro l’asfalto, la testa mezza

piegata tra le gambe. Il suono della mia agonia si perde nel vento, portato via della

nubi.

Ma qui, tra i miei piedi, il suolo si è aperto.

Salto in piedi, sorpresa, e guardo in basso, mi giro intorno. All’improvviso non

riesco a ricordare se quella frattura fosse già lì.

La forza della mia frustrazione e confusione mi spinge indietro verso l’autobus,

dove espiro e mi appoggio contro la porta posteriore, in cerca di un posto dove

riposare la testa, tranne per il fatto che le mie mani e la testa sfondano la parete

esterna come se fosse di carta, e cado pesantemente sul pavimento lurido, le mani e le

ginocchia attraversano il metallo sotto ai miei piedi.

In qualche modo questo mi fa arrabbiare ancora di più.

Il mio potere è fuori controllo, attizzato dalla mia mente incauta, dai miei pensieri

selvaggi. Non riesco a focalizzare la mia energia nel modo che mi ha insegnato Kenji,

ed è ovunque, tutto intorno a me, dentro e fuori di me e il problema è che non me ne

importa più niente.

Non mi importa, non adesso.

Allungo il braccio senza pensare e strappo via uno dei sedili dell’autobus dai

bulloni, e lo tiro, forte, attraverso il parabrezza. Il vetro si infrange ovunque; una

grande scheggia mi colpisce in un occhio e diverse altre volano nella mia bocca

aperta e arrabbiata; sollevo un braccio per trovare frammenti incastrati nelle mie

maniche, luccicanti come piccoli ghiaccioli. Sputo i pezzi dalla bocca. Rimuovo i

frammenti di vetro dalla maglietta. E poi tiro fuori un pezzo di vetro lungo un pollice

dall’interno della mia palpebra e lo tiro al suolo con un piccolo tintinnio.

Gonfio il petto.

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Cosa, penso mentre strappo via un altro sedile dai bulloni, faccio ora? Tiro questo

sedile dritto attraverso il finestrino, rompendo altro vetro e strappando altre parti

meccaniche. Solo l’istinto mi fa alzare le braccia a proteggermi il viso dai detriti

volanti, ma non batto ciglio. Sono troppo arrabbiata per fregarmene. Sono troppo

potente al momento per sentire dolore. Il vetro rimbalza sul mio corpo. Nastri di

acciaio sottili come rasoi mi rimbalzano sulla pelle. Desidero quasi di sentire

qualcosa. Qualsiasi cosa.

Cosa faccio?

Tiro un pugno alla parete, ma non provo sollievo; la mia mano la attraversa

facilmente. Tiro un calcio ad un sedile, ma non provo conforto; il mio piede strappa il

rivestimento scadente. Urlo ancora, per metà indignata, per metà col cuore spezzato,

e questa volta guardo mentre una lunga, pericolosa crepa si forma lungo il soffitto

Quella è nuova.

Ed ho a malapena il tempo di pensarlo che l’autobus ha un improvviso sussulto e

con una profondo scossa si divide a metà.

Le due metà collassano ai miei lati, facendomi inciampare all’indietro. Cado su un

mucchio di metallo maciullato e vetro sporco e bagnato e sbalordita, inciampo nei

miei piedi.

Non ho idea di cosa sia appena successo.

Sapevo di essere in grado di proiettare le mie abilità, la mia forza quantomeno, ma

non sapevo che ci fosse qualche potere di proiezione nella mia voce. Vecchie

abitudini mi fanno desiderare di aver qualcuno con cui parlarne. Ma non ho più

nessuno ormai.

Warner è fuori questione.

Castle è complice.

E Kenji... che dire di Kenji? Anche lui sapeva dei miei genitori e di mia sorella?

Castle glielo avrebbe detto?

Il problema è che non posso più essere sicura di niente.

Non è rimasto nessuno di cui fidarsi.

Ma quelle parole, il semplice pensarle, mi scatena improvvisamente un ricordo. È

qualcosa di nebuloso che devo raggiungere. Gli stringo le mani intorno e tiro. Una

voce? Una voce femminile, ora mi ricordo. Che mi diceva...

Ansimo.

Era Nazeera. La scorsa notte. Nell’ala medica. Era lei. Ora ricordo la sua voce,

ricordo di aver allungato il braccio e toccato la sua mano, ricordo di aver sentito i

tirapugni di metallo che indossa sempre e lei che diceva...

«... le persone di cui ti fidi ti stanno mentendo e gli altri comandanti supremi

vogliono solo ucciderti... »

Mi giro troppo velocemente, cercando qualcosa di cui non so il nome.

Nazeera stava cerando di mettermi in guardia. Mi conosce a malapena e la scorsa

notte stava cercando di dirmi la verità molto prima di chiunque altro...

Ma perché?

Proprio in quel momento, qualcosa di duro e rumoroso atterra pesantemente sulla

struttura di acciaio piegata a metà che blocca la strada. I vecchi segnali della

tangenziale tremano e oscillano.

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La scena si svolge davanti ai miei occhi,i in tempo reale, fotogramma per

fotogramma, eppure sono talmente scioccata da quello che vedo che mi dimentico di

parlare.

È Nazeera, a sedici metri di altezza, seduta beatamente in cima ad un segnale che

dice 10 EAST LOS ANGELES

e mi sta salutando con la mano. Indossa un largo cappuccio di pelle marrone

attaccato ad una fondina che aderisce perfettamente alle sue spalle. Il cappuccio di

pelle copre i suoi capelli e le nasconde gli occhi in modo che solo la metà inferiore

del suo volto è visibile da dove mi trovo. Il piercing di diamanti sotto al suo labbro

inferiore prende fuoco alla luce del sole.

Sembra una visione arrivata da un tempo immemorabile.

Non ho ancora idea di cosa dire.

Naturalmente, lei non condivide il mio problema.

«Sei pronta a parlare ora?» mi dice.

«Come... come hai... »

«Si?»

«Come sei arrivata qui?» mi giro, guardando a distanza. Come sapeva che ero qui?

Sono stata seguita?

«Ho volato.»

Mi giro di nuovo a guardarla. «Dov’è il tuo aereo?»

Ride e salta giù dal segnale stradale. È una caduta lunga e difficile che avrebbe

ferito una persona normale. «Spero vivamente che tu stia scherzando,» mi dice, e poi

mi afferra attorno al petto e salta su nel cielo.

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CAPITOLO 26 WARNER

Traduzione: Ylenia Prestieri

Ho visto un sacco di cose strane nella mia vita, ma non ho mai pensato che avrei

avuto il piacere di vedere Kishimoto zitto per più di 5 minuti. E adesso, eccoci qua. In

qualunque altra situazione mi gusterei questo momento. Purtroppo, non mi è possibile

assaporare oltre questo piccolo piacere.

Il suo silenzio è snervante.

Sono passati più di quindici minuti da quando ho finito di raccontargli ciò che ho

condiviso poco prima con Juliette, e lui non ha proferito parola. É seduto tranquillo in

un angolo, con la testa appoggiata al muro, accigliato, e muto. Si limita a fissare un

punto invisibile nell'aria.

Ogni tanto sospira.

Siamo stati qua più o meno due ore, solo io e lui. Parlando. E di tutte le cose che

avrei creduto potessero accadere oggi, certamente non avrei pensato che questo

avrebbe comportato che Juliette scappasse via da me, e una conversazione

amichevole con questo idiota.

Oh, al diavolo i piani ben pensati.

Finalmente, dopo quello che mi pare un tempo tremendamente lungo, parla.

«Non posso credere che Castle non me lo abbia detto,» è la prima cosa che dice.

«Tutti abbiamo i nostri segreti.»

Alza lo sguardo e mi guarda negli occhi. Non è piacevole. «Hai altri segreti che

dovrei conoscere?»

«No, nessuno che dovresti conoscere.»

Ride , ma sembra triste. «Non ti sei ancora reso conto di cosa stai facendo, vero?»

«Reso conto di cosa?»

«Ti stai preparando a soffrire, fratello. Non puoi continuare a vivere così. Così»

dice, indicandomi il viso, «come il vecchio te. Questo tizio incasinato che non parla

mai e non sorride mai e non dice mai niente di carino e non permette a nessuno di

conoscerlo davvero - non puoi essere così se vuoi avere un qualche tipo di relazione.»

Alzo un sopracciglio.

Scuote la testa. «Non puoi, amico. Non puoi stare con qualcuno e nascondergli

tanti segreti.»

«Non è mai stato un problema, prima.»

A questo punto Kenji esita. Allarga gli occhi, giusto un poco. «Cosa intendi con

prima?»

«Prima» dico « nelle altre relazioni.»

«Quindi, uhm, hai avuto altre relazioni? Prima di Juliette?»

Inclino la testa verso di lui. «Trovi sia difficile da credere.»

«Sto ancora provando ad accettare il fatto che hai dei sentimenti, quindi sì, lo trovo

difficile da credere.»

Mi schiarisco piano la gola. Distolgo lo sguardo.

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«Quindi – uhm – tu - uhm» lui ride, nervosamente. «Scusami ma Juliette sa che hai

avuto altre relazioni? Perché lei non me ne ha mai parlato e penso che sarebbe, come

dire? Rilevante?»

Mi volto verso di lui. «No.»

«No, cosa? »

«No, non lo sa.»

«Perché no? »

«Non me lo ha mai chiesto.»

Kenji mi guarda a bocca aperta. «Chiedo scusa ma, lo sei davvero, stupido come

sembri? O ti stai prendendo gioco di me? »

«Ho quasi vent’anni,» gli dico, irritato. «Davvero credi che sia così strano che sia

stato con altre donne?»

«No» dice, «personalmente non me ne frega un cazzo con quante donne tu sia

stato. La cosa che mi sembra strana è che non hai mai detto alla tua fidanzata che sei

stato con altre donne. E per essere sinceri, mi sto chiedendo se la tua relazione non

fosse già diretta all’inferno.»

«Non hai idea di quello di cui stai parlando.» I miei occhi lampeggiano. « Io la

amo. Non avrei mai fatto nulla per ferirla.»

«Allora perché dovresti mentirle? »

«Perché continui a tornare su questo argomento? Chi se ne frega se sono stato con

altre donne? Non significavano niente per me…»

«Sei proprio incasinato amico.»

Chiudo gli occhi, sentendomi tutto a un tratto esausto.

«Di tutte le cose che ho condiviso con te oggi, questo è quello di cui sei più

interessato a discutere?»

«Penso solo che sia importante, sai, se tu e J volete provare a riparare questo

strappo. Devi venire a patti con la tua situazione.»

«Cosa intendi per riparare questo strappo?» Dico, lasciando vagare lo sguardo.

«L’ho già persa. Il danno è fatto.»

A queste parole sembra sorpreso. «Quindi è tutto? Ti dai per vinto? Tutti questi

discorsi, la amo e blah blah blah e basta?»

«Lei non vuole stare con me. Non proverò a convincerla che ha torto.»

Kenji ride. «Dannazione,» dice. «Penso che tu abbia proprio bisogno di fare pace

con te stesso.»

«Scusa?»

Si alza in piedi. «Comunque, fratello. La tua vita. I tuoi affari. Mi piacevi di più

quando eri strafatto di medicine.»

«Dimmi una cosa, Kishimoto…»

«Cosa?»

«Perché dovrei ricevere consigli da te sulle relazioni? Che cosa ne sai visto che

non ne hai mai avute?»

Un muscolo gli si contrae sulla mascella. «Wow.» Annuisce, distoglie lo sguardo.

«Sai cosa?» Punta un dito nella mia direzione. «Non far finta di sapere cazzate su

di me, amico. Non mi conosci.»

«Nemmeno tu mi conosci.»

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«So che sei un idiota.»

Improvvisamente, inspiegabilmente, ammutolisco.

Impallidisco. Mi sento instabile. Non ho più forza per combattere e nessun

interesse a difendermi. Sono un idiota. So chi sono. Le cose terribili che ho fatto.

Sono indifendibile.

«Hai ragione,» dico, ma lo dico piano. «E sono sicuro che hai ragione sul fatto che

anche io non so molto di te.»

Qualcosa in Kenji sembra rilassarsi.

I suoi occhi sono comprensivi quando dice, «davvero non credo che tu debba

perderla. Non così. Non per questo. Quello che hai fatto è stato , tipo… sì beh,

orribile. Torturare sua sorella? Andiamo. Si. Assolutamente. Tipo che dieci su dieci

probabilmente andrai all’inferno per quello.»

Sussulto.

« Ma é successo prima che tu la conoscessi, vero? Prima di tutto questo…» agita

una mano nell'aria «sai, qualunque cosa sia successa tra voi é successa. E la

conosco… so cosa prova per te. Potrebbe esserci ancora qualcosa da salvare. Non

perderei la speranza. Non ancora.»

Forse sorrido. Forse rido. Non lo so nemmeno io.

Invece, dico, «ricordo che Juliette mi ha detto che avevi fatto un discorso simile a

Kent poco dopo che si erano lasciati. Senza il suo permesso. Hai detto a Kent che lo

amava ancora, che voleva tornare con lui. Gli hai detto l’esatto contrario di ciò che lei

sentiva. Ed era furiosa.»

«Era diverso.» Kenji si acciglia. «Stavo solo cercando di aiutare. Perché,

concretamente, la situazione era davvero complicata…»

«Apprezzo il tuo tentativo di aiutarmi,» gli dico. «Ma non la pregherò di tornare

con me. Non se non è quello che lei vuole.»

Distolgo lo sguardo.

«In ogni caso, ha sempre meritato di stare con qualcuno migliore di me. Forse

questa è la sua occasione.»

«Uh uhm». Kenji alza un sopracciglio. «Quindi se domani lei si mette con un altro

ti limiterai ad alzare le spalle e ad essere…come dire? Quello che stringe la mano al

suo nuovo ragazzo? Quello che li porta fuori a cena? Sul serio?»

È solo un’idea.

Uno scenario ipotetico.

Ma la possibilità si fa spazio nella mia mente: Juliette che sorride, che ride con un

altro… E poi ancora: le sue mani sul suo corpo, gli occhi socchiusi per il desiderio…

All’improvviso mi sento come se fossi stato preso a pugni nello stomaco. Chiudo gli

occhi. Cerco di calmarmi.

Ma ora non riesco a smettere di immaginarlo: qualcun altro che la conosce nel

modo in cui l’ho conosciuta io, al buio, nelle ore tranquille prima dell’alba… i suoi

dolci baci, i suoi gemiti di piacere nell’intimità…

Non ce la faccio. Non ce la faccio.

Non riesco a respirare.

«Ehi, mi dispiace, era solo una domanda.»

«Credo che dovresti andare.» Dico in un sussurro. « Dovresti andartene.»

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«Sì, sai una cosa? Sì. Ottima idea.» Annuisce più volte. «Nessun problema.»

Tuttavia, non si muove.

«Cosa c'è?» Scatto.

«Solo…» si dondola sui talloni «Mi chiedevo... hai bisogno di altre di quelle

medicine? Prima che io vada.»

«Vattene. Adesso.»

«Va bene amico, nessun problema, stavo solo…»

Improvvisamente qualcuno bussa alla porta.

Alzo gli occhi. Mi guardo intorno.

«Dovrei, uhm…» Kenji mi guarda, una domanda negli occhi. «Vuoi che me ne

vada?»

Lo guardo.

«Sì, capisco» dice, e corre ad aprire la porta.

È Delalieu, in preda al panico.

Ci vuole uno sforzo enorme, ma riesco a ricompormi.

«Non potevi chiamare, tenente? Non è a questo che servono i telefoni?»

«Ho provato, signore, per più di un’ora, ma nessuno ha risposto, signore…»

Alzo il collo e sospiro, allungando i muscoli mentre si irrigidiscono di nuovo.

Colpa mia.

Ho staccato il telefono ieri sera. Non volevo distrazioni mentre guardavo i file di

mio padre e nella follia del mattino ho dimenticato di ricollegare la linea. Stavo

iniziando a chiedermi come mai avevo così tanto tempo libero senza interruzioni.

«Va bene.» Dico, interrompendolo.

«Qual è il problema?»

«Signore,» dice, deglutendo a fatica, « ho provato a contattarvi entrambi, sia lei

che la Signora Suprema, ma nessuno dei due era disponibile, e…»

«Che succede tenente?»

«Il comandante Supremo d’Europa ha mandato sua figlia, signore. Si è presentata

senza preavviso un paio di ore fa, e temo che l’essere ignorata la stia facendo alterare

e non ero sicuro di cosa fare…»

«Beh, dille di sedersi e aspettare.» Dice Kenji, irritato. « Cosa ce ne importa se si

sta alterando? Abbiamo un sacco di faccende da sbrigare, qui.»

Ma all’improvviso divento di ghiaccio. Come se il sangue nelle vene si fosse

congelato.

«Giusto, no?» Kenji sta dicendo, dandomi una gomitata. « Qual è il problema,

amico? Delalieu,» dice ignorandomi. «Dille solo di rilassarsi un attimo. Che saremo

da lei tra poco. Questo ragazzo ha bisogno di farsi una doccia e di mettersi una

camicia pulita. Falle mangiare qualcosa, ok? Saremo lì tra un attimo.»

«Si, signore» dice piano Delalieu. Sta parlando con Kenji ma mi guarda

preoccupato. Non rispondo. Non sono sicuro di cosa dire. Le cose stanno accadendo

troppo in fretta. Fissione e fusione tutto insieme, tutto in una volta.

È solo quando Delalieu se n’è andato e la porta é chiusa che Kenji alla fine dice:

« Di cosa si trattava? Perché sei così strano?»

E mi scongelo. Mi torna la sensibilità negli arti.

Mi giro per guardarlo in faccia.

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«Davvero pensi,» gli dico attentamente «che devo dire a Juliette delle altre donne

con cui sono stato?»

«Uhm, si,» dice, « ma cosa c’entra questo con…»

Lo fisso.

Lui guarda la porta. La sua bocca si spalanca. «Intendi che, con questa ragazza,

quella del piano di sotto…?»

« I figli dei Comandanti Supremi,» provo a spiegare, stringendo gli occhi mentre lo

dico «noi…in pratica siamo cresciuti tutti insieme. Conosco la maggior parte di

queste ragazze da tutta la vita.» Lo guardo con nonchalance. «Era inevitabile,

davvero. Non dovrebbe sorprenderti.»

Ma le sopracciglia di Kenji sfiorano il cielo. Sta cercando di non ridere mentre di

da una pacca sulla schiena, troppo forte. «Oh, sei proprio nella merda fratello. Una

marea. Di. Merda.»

Scuoto la testa. «Non è necessario renderlo drammatico. Juliette non deve saperlo.

Al momento non sembra intenzionata a parlarmi. »

Kenji ride. Mi guarda impietosito. « Non sai proprio niente delle donne, vero?»

Quando non rispondo dice: «Fidati di me, amico, scommetto che dovunque J sia in

questo momento, là fuori da qualche parte, lo sa già. E se non lo sa, lo saprà presto.

Le ragazze parlano di tutto.»

«Com’è possibile?»

Lui scrolla le spalle.

Sospiro. Mi passo una mano tra i capelli.

«Bene,» dico. «Ha davvero importanza? Non abbiamo cose più importanti di cui

discutere invece dei dettagli sulle mie relazioni precedenti?»

«Normalmente? Si. Ma quando il Comandante Supremo del Nord America è la tua

ragazza, e si sente già sotto pressione per il fatto che le hai mentito? E poi

all’improvviso si presenta la tua ex fidanzata e Juliette non la conosce nemmeno? E

capisce che ci sono altre mille cose su cui le hai mentito…»

«Non le ho mai mentito su nulla di tutto questo,» intervengo. «Non ha mai

chiesto…»

«…e allora il nostro potentissimo Comandante Supremo, giustamente, si incazza?»

Kenji scrolla le spalle. «Non lo so, amico, ma non vedo come possa finire bene.»

Mi prendo la testa tra le mani.

Chiudo gli occhi. « Ho bisogno di una doccia.»

« E… sì, questo è il mio segnale per andare.»

Alzo lo sguardo, all’improvviso. «C’è qualcosa che posso fare?» Dico. «Per

impedire che le cose peggiorino? »

«Ohh, quindi ora mi stai chiedendo consiglio?»

Combatto l’impulso di alzare gli occhi al cielo.

«Non lo so davvero, amico,» dice Kenji sospirando. «Penso che questa volta tu

deva affrontare le conseguenze della tua stupidità.»

Distolgo lo sguardo, trattengo una risata e annuisco più volte mentre dico «Vai

all’inferno Kishimoto.»

«Sono proprio dietro di te, fratello.» Mi fa l’occhiolino. Solo uno. Poi scompare.

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CAPITOLO 27 JULIETTE

Traduzione: Marlene

C’è qualcosa che sta ribollendo dentro di me.

Qualcosa a cui non ho mai avuto il coraggio di attingere, qualcosa che ho paura

di riconoscere. C’è una parte di me che sta lottando per liberarsi dalla gabbia in cui

l’ho intrappolata, bussando alle porte del mio cuore implorando di essere liberata.

Implorando di essere lasciata andare.

Ogni giorno mi sento come se stessi vivendo lo stesso incubo. Apro la bocca per

urlare, per combattere, per sbattere i pugni ma le mie corde vocali sono tagliate, le

mie braccia pesanti e bloccate come intrappolate nel cemento fresco e sto urlando

ma nessuno può sentirmi, nessuno può raggiungermi e sono intrappolata. E ciò mi

sta uccidendo.

Ho sempre dovuto rendermi servile, sottomettermi, schiacciata come un

supplichevole, passivo zerbino solo per far sentire tutti gli altri al sicuro e a loro

agio. La mia esistenza è diventata una lotta per provare che sono innocua, che non

sono una minaccia, che sono capace di vivere in mezzo ad altri umani senza far loro

del male.

E sono così stanca sono così stanca sono così stanca sono così stanca e a volte mi

sento così arrabbiata

Non so che cosa mi sta succedendo.

- UN ESTRATTO DAL QUADERNO DI JULIETTE AL MANICOMIO

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Atterriamo su un albero.

Non ho idea di dove ci troviamo, non so nemmeno se sono mai stata così in alto, o

così vicina alla natura, ma Nazeera non sembra affatto colpita.

Sto ansimando mentre mi giro per affrontarla, adrenalina e stupore che collidono,

ma lei non mi sta guardando. Sembra calma… felice, persino, mentre guarda il cielo,

un piede appoggiato al ramo di un albero mentre l’altro è sospeso e dondola

dolcemente avanti e indietro nella brezza fresca. Il braccio sinistro è fermo sul suo

ginocchio sinistro e la mano è rilassata, quasi troppo tranquilla, mentre si apre e

richiude intorno a qualcosa che non posso vedere. Alzo la testa, apro la bocca per fare

la mia domanda quando mi interrompe.

«Sai,» dice all’improvviso, «non avevo mai mostrato a nessuno quello che posso

fare.»

Sono presa alla sprovvista.

«Nessuno? Mai?» dico, sorpresa.

Scuote la testa.

«Perché no?»

Rimane in silenzio per un minuto prima di dire, «la risposta a quella domanda è

una delle ragioni del perché volevo parlarti.» Tocca con mano assente il piercing sul

suo labbro, colpendo con la punta di un dito la superficie brillante. «Quindi,» dice.

«Sai niente di vero sul tuo passato?»

E il dolore è rapido, come acciaio freddo, come dei coltelli nel petto. Un doloroso

promemoria delle rivelazioni di oggi. «So alcune cose,» dico finalmente. «La

maggior parte le ho scoperte questa mattina, in realtà.»

Annuisce. «Ed è per questo che sei scappata in quel modo.»

Mi giro per guardarla. «Mi stavi osservando?»

«Ti stavo seguendo, sì.»

«Perché?»

Sorride, ma sembra stanca. «Davvero non ti ricordi di me, vero?»

La fisso, confusa.

Lei sospira. Dondola entrambe le gambe sotto di lei e guarda in lontananza. «Non

importa.»

«No, aspetta… che intendi? Dovrei ricordarmi di te?»

Lei scuote la testa.

«Non capisco.» dico.

«Dimenticatene,» dice. «Non è niente. Sembri solo molto familiare, e per una

frazione di secondo ho pensato che ci fossimo già incontrate prima.»

«Oh,» dico. «Okay.» Ma ora non vuole guardarmi e ho la strana sensazione che stia

evitando di dirmi qualcosa.

Ancora, non dice niente.

Sembra persa nei suoi pensieri, morsicandosi il labbro mentre guarda in

lontananza, e non dice nulla per quello che sembra molto tempo.

«Uhm. Scusa? Mi hai messa su un albero,» dico finalmente. «Cosa diavolo ci

faccio qui? Che cosa vuoi?»

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Si gira per guardarmi. E allora che realizzo che l’oggetto che tiene in mano è in

realtà una busta di piccole caramelle. La tende verso di me, indicando con la testa che

dovrei prenderne una.

Ma non mi fido di lei. «No grazie,» dico.

Lei alza le spalle. Scarta una delle caramelle colorate e se la mette in bocca.

«Quindi,» dice. «Cosa ti ha detto Warner oggi?»

«Cosa vuoi sapere?»

«Ti ha detto che hai una sorella?»

Sento un nodo di rabbia iniziare a formarsi nel petto. Non dico niente.

«Lo prendo come un sì,» dice. Morde violentemente la caramella che ha in bocca.

Mastica silenziosamente dietro di me. «Ti ha detto qualcos’altro?»

«Che cosa vuoi da me?» dico. «Chi sei?»

«Cosa ti ha detto dei tuoi genitori?» chiede, ignorandomi anche se mi guarda con la

coda dell’occhio. «Ti ha detto che sei stata adottata? Che i tuoi genitori biologici sono

ancora vivi?»

Mi limito a fissarla.

Alza la testa. Mi studia. «Ti ha detto i loro nomi?»

Spalanco gli occhi automaticamente.

Nazeera sorride, e l’azione le illumina il viso. «Eccolo qua,» dice, annuendo

trionfante. Scarta un’altra caramella e se la mette in bocca. «Hmm.»

«Ecco cosa?»

«Il momento,» dice, «dove finisce la rabbia e inizia la curiosità.»

Sospiro, irritata. «Tu sai il nome dei miei genitori?»

«Non ho mai detto questo.»

Mi sento esausta all’improvviso. Impotente. «Sanno tutti più della mia vita di quanto

ne sappia io?»

Mi lancia un’occhiata. Distoglie lo sguardo. «Non tutti,» dice. «Quelli tra noi

abbastanza in alto nella Restaurazione ne sanno molto, sì,» aggiunge.

«È affar nostro saperlo. Specialmente per noi,» dice, incrociando il mio sguardo per

un secondo. «I ragazzi, intendo. I nostri genitori si aspettano che prenderemo il potere

un giorno. Ma no, non tutti sanno tutto.» Sorride a qualcosa, uno scherzo noto solo a

lei, quando dice, «La maggior parte delle persone non sa un cazzo, in realtà.» E poi,

si acciglia. «Anche se immagino che Warner sappia più di quello che pensavo

sapesse.»

«Quindi,» dico. «Conosci Warner da molto tempo.»

Nazeera sposta il cappuccio indietro leggermente in modo che io possa vederla

meglio in faccia, si appoggia a un ramo e sospira. «Ascolta,» mi dice piano. «So

solamente quello che nostro padre ci ha detto di voi, e adesso che sono qui so che la

maggior parte delle voci che ho sentito su di voi sono senza senso. Però…»

Esita. Si morde le labbra ed esita.

«Dillo e basta,» le dico, scuotendo la testa. «Ho sentito già abbastanza gente dire che

sono pazza per esseri innamorata di lui. Non saresti la prima.»

«Cosa? No,» dice, e ride. «Non penso che tu sia pazza. Insomma, capisco perché le

persone pensino che porti solo guai, ma lui fa parte dei nostri, no? Conoscevo i suoi

genitori. Anderson fa sembrare mio padre un brav’uomo. Siamo tutti un po’

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incasinati, è vero, ma Warner non è una cattiva persona. Sta solo cercando di trovare

un modo per sopravvivere a tutta questa pazzia, come il resto di noi.»

«Oh,» dico. Sorpresa.

«Comunque,» mi dice con un’alzata di spalle, «no, capisco perché lui ti piaccia. E

anche se non lo capissi, insomma… non sono cieca.» Alza un sopracciglio

ammiccando. «Ti capisco, ragazza.»

Sono ancora sbalordita. Questa potrebbe essere la prima volta che ho sentito qualcuno

all’infuori di me prendere le parti di Warner.

«No, quello che sto cercando di dire è che penso che potrebbe essere un buon

momento per concentrarti su te stessa per un po’. Prenderti una pausa. Lena sarà qui a

momenti, quindi è probabilmente meglio per te stare alla larga da questa situazione il

più a lungo possibile.» Mi tira un’altra occhiata consapevole. «Penso davvero che tu

non abbia bisogno di altri drammi nella tua vita, e tutta quella…» fa un gesto in aria

«…cosa, sta per diventare, sai, davvero brutta.»

«Cosa?» mi acciglio. «Quale cosa? Che situazione? Chi è Lena?»

La sorpresa di Nazeera è così rapida, così vera, che non posso fare a meno di sentirmi

immediatamente preoccupata. I miei battiti accelerano mentre Nazeera si gira

completamente verso di me e dice, molto lentamente, «Lena. Lena Mishkin. È la

figlia del Comandante Supremo d’Europa.»

La fisso. Scuoto la testa.

Gli occhi di Nazeera si spalancano. «Ragazza, che diavolo?»

«Cosa?» dico, ora spaventata. «Chi è?»

«Chi è? Sei seria? È la ex fidanzata di Warner.»

Per poco non cado dall’albero.

È divertente, perché pensavo che avrei reagito in modo diverso.

La vecchia Juliette avrebbe pianto. La Juliette rotta si sarebbe spaccata a metà per

l’impatto improvviso di tutte le rivelazioni terribili di oggi, per le atroci bugie di

Warner, per il dolore di sentirsi così profondamente tradita. Ma questa nuova versione

di me si rifiuta di reagire; al contrario, il mio corpo si sta spegnendo.

Sento le braccia addormentarsi mentre Nazeera mi offre i dettagli della vecchia

relazione di Warner… dettagli che non voglio sentire. Dice che Lena e Warner erano

una coppia importante per il mondo della Restaurazione e all’improvviso tre dita

della mia mano destra iniziano a contrarsi senza il mio permesso. Dice che la mamma

di Lena e il papà di Warner erano emozionati all’idea di un’alleanza tra le loro

famiglie, dall’idea di un legame che avrebbe reso il loro regime solo più forte, ed è

come se corrente elettrica scorresse giù per le mie gambe, shoccandomi e

paralizzandomi tutta in una volta.

Dice che Lena era innamorata di lui, davvero innamorata, ma che Warner le ha

spezzato il cuore, che non l’ha mai trattata con vero affetto e lei l’ha odiato per

questo, che «Lena è infuriata da quando ha sentito le storie su come lui si è

innamorato di te, specialmente perché tu saresti dovuta essere, insomma, appena

uscita da un manicomio, no? A quanto pare è stato un grosso colpo per il suo ego» e

sentirlo non fa niente per calmarmi. Mi fa sentire strana ed estranea, come un

campione in un laboratorio, come se fossi un attore in un film diretto da estranei e

sento un vento gelido soffiare con costanza nel mio petto, un’amara brezza che

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circonda il mio cuore e chiudo gli occhi mentre un gelone calma il mio dolore, le sue

mani ghiacciate che si chiudono intorno alla ferita che infetta la mia carne.

Solo allora

Solo allora respiro, crogiolandomi nella separazione da questo dolore.

Guardo in alto, sentendomi rotta e nuova, occhi freddi e insensibili mentre sbatto le

palpebre lentamente e dico, «Come fai a sapere tutto questo?»

Nazeera stacca una foglia da un ramo vicino e la piega tra le dita. Alza le spalle. «È

un piccolo, incestuoso circolo, quello dove ci muoviamo. Conosco Lena da sempre.

Lei ed io non siamo mai state vicine, in realtà, ma ci muoviamo nello stesso mondo.»

Un’altra alzata di spalle. «Era davvero presa da lui. Era tutto quello di cui voleva

parlare. E ne parlava a tutti.»

«Quanto tempo sono stati insieme?»

«Due anni.»

Due anni.

La risposta è così sorprendentemente dolorosa che si fa breccia nelle mie nuove

difese.

Due anni? Due anni con un’altra ragazza e non ne ha mai fatto parola. Due anni con

qualcun’altra. E con quante altre? Uno shock di dolore cerca di raggiungermi, di

aggirare il mio nuovo, freddo cuore, ma riesco a respingerlo quasi interamente.

Eppure, un poco di quel dolore - caldo e orribile - si insinua nel mio petto.

Non gelosia, no.

Inferiorità. Inesperienza. Innocenza.

Quanto altro ancora imparerò sul suo conto? Quanto ancora mi ha tenuto nascosto?

Come farò a fidarmi ancora di lui?

Chiudo gli occhi e sento la perdita e la rassegnazione insinuarsi in profondo dentro di

me. Le mie ossa si spostano, sistemandosi per fare spazio a questo nuovo dolore.

Questa ondata di rabbia fresca.

«Quando si sono lasciati?» chiedo.

«Tipo… otto mesi fa?»

Ora smetto di fare domande.

Voglio diventare un albero. Un filo d’erba. Voglio diventare fango o aria o niente.

Niente. Sì. Non voglio diventare niente.

Mi sento davvero una stupida.

«Non capisco perché non te l’abbia mai detto,» Nazeera mi sta dicendo ora, ma non

posso davvero sentirla; «è assurdo. È stata una notizia abbastanza importante nel

nostro mondo.»

«Perché mi stavi seguendo?» cambio argomento con zero tatto. I miei occhi sono

mezzi chiusi. I pugni serrati. Non voglio più parlare di Warner. Mai più. Voglio

strapparmi il cuore dal petto e gettarlo nel nostro oceano pieno di piscio per tutto

quello che mi è mai stato fatto.

Non voglio più sentire niente.

Nazeera si siede, sorpresa. «Sanno succedendo un sacco di cose al momento,» dice.

«Ci sono molte cose di te che non sai ancora, un sacco di segreti che devi ancora

scoprire. Insomma… diamine, qualcuno ha provato a ucciderti ieri.» Scuote la testa.

«Sono solo preoccupata per te.»

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«Non mi conosci nemmeno. Perché perdere tempo a preoccuparti per me?»

Questa volta, non risponde. Si limita a fissarmi. Lentamente, scarta un’altra

caramella. Se la getta in bocca e distoglie lo sguardo.

«Mio padre mi ha costretta a venire qua,» dice piano. «Non volevo avere niente a che

fare con tutto questo. Non ho mai voluto. Odio tutto quello in cui crede la

Restaurazione. Ma mi sono detta che se fossi dovuta venire qui, avrei badato a te.

Quindi è quello che sto facendo. Sto badando a te.»

«Beh, non sprecare il tuo tempo,» le dico, insensibile «Non mi serve la tua pietà o la

tua protezione.»

Nazeera si zittisce. Finalmente, sospira. «Ascolta… mi dispiace sul serio,» dice

«Pensavo davvero che sapessi di Lena.»

«Non mi importa di Lena,» mento. «Ho cose più importanti di cui preoccuparmi.»

«Giusto,» dice. Si schiarisce la gola. «Lo so. Mi dispiace comunque.»

Non dico niente.

«Ehi,» dice Nazeera «Davvero. Non era mia intenzione farti preoccupare. Voglio solo

che tu sappia che non sono qui per farti del male. Sto cercando di occuparmi di te.»

«Non mi serve. Sta andando tutto bene.»

Ora alza gli occhi al cielo. «Non ti ho appena salvato la vita?»

Mormoro qualcosa di stupido sottovoce.

Nazeera scuote la testa. «Devi riprenderti, ragazza, oppure non riuscirai ad uscirne

viva,» mi dice «Non hai idea di cosa stia succedendo dietro le quinte o cosa gli altri

comandanti abbiano in serbo per te.» Quando non rispondo, dice «Lena non sarà

l’ultima di noi ad arrivare qui, sai. E nessuno di loro avrà intenzione di fare il bravo.»

Alzo lo sguardo verso di lei. I miei occhi sono vuoti di ogni emozione. «Bene,» dico

«Falli venire.»

Ride, ma non c’è vita dietro. «Quindi tu e Warner avete qualche problema e ora non ti

importa più di niente? Davvero maturo.»

Del fuoco mi attraversa. I miei occhi si assottigliano. «Se sono turbata in questo

momento è perché ho appena scoperto che tutte le persone che mi sono vicine non

hanno fatto altro che mentirmi. Usarmi. Manipolandomi per i loro scopi. I miei

genitori,» dico arrabbiata «sono ancora vivi, e a quanto pare non sono molto meglio

dei mostri che mi hanno adottata. Mia sorella è al momento tenuta sotto tortura per

mano della Restaurazione… e non sapevo nemmeno della sua esistenza. Sto cercando

di accettare il fatto che niente nella mia vita sarà più lo stesso per me, mai più, e non

ho idea di chi potermi fidare o di come andare avanti. Quindi sì,» dico, quasi urlando

le parole «in questo momento non mi importa di niente. Perché non so più per cosa

sto lottando. E non so chi siano i miei amici. In questo momento,» dico, «sono tutti

miei nemici, inclusa tu.»

Nazeera è tranquilla. «Potresti lottare per tua sorella,» dice.

«Non so nemmeno chi sia.»

Nazeera mi lancia uno sguardo pieno di incredulità. «Non è abbastanza il fatto che sia

una ragazza innocente che stanno torturando? Pensavo ci fosse un bene superiore per

il quale stavi lottando.»

Alzo le spalle. Distolgo lo sguardo.

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«Sai cosa? Non deve per forza importarti,» dice «Ma a me sì. Mi importa ciò che la

Restaurazione ha fatto a persone innocenti. Mi importa che i nostri genitori siano tutti

in branco di psicopatici. Mi importa parecchio di quello che la Restaurazione ha fatto,

in particolare, alle persone come noi che hanno delle abilità. E per rispondere alla tua

domanda di prima: non ho mai detto a nessuno dei miei poteri perché ho visto quello

che fanno alle persone come me. Come le hanno rinchiuse. Torturate e come hanno

abusato di loro,» mi guarda negli occhi. «E non voglio essere il prossimo

esperimento.»

Qualcosa dentro di me si svuota. Si rilassa. All’improvviso mi sento vuota e triste.

«Mi importa,» le dico finalmente «Mi importa troppo, probabilmente.»

E la rabbia di Nazeera svanisce. Sospira.

«Warner ha detto che la Restaurazione mi rivuole indietro,» dico.

Annuisce. «Mi sembra giusto.»

«Dove vogliono portarmi?»

«Non ne sono sicura,» dice. Alza le spalle. «Potrebbero anche solo ucciderti.»

«Grazie per l’incoraggiamento.»

«Oppure,» mi dice, sorridendo leggermente, «ti manderanno in un altro continente,

magari. Nuova identità. Nuovi posti.»

«Un altro continente?» dico, curiosa nonostante tutto. «Non sono mai stata su un

aeroplano prima d’ora.»

In qualche modo, ho detto la cosa sbagliata.

Nazeera sembra quasi colpita per un secondo. Del dolore entra ed esce dai suoi occhi

e lei distoglie lo sguardo. Si schiarisce la gola. Ma quando riposa lo sguardo su di me

è di nuovo normale. «Sì. Bene. Non ti perdi molto.»

«Viaggi molto?» chiedo.

«Già.»

«Da dove vieni?»

«Settore 2. Continente Asia.» E poi, quando vede il mio sguardo: «Ma sono nata a

Baghdad.»

«Baghdad,» dico, quasi a me stessa. Mi sembra familiare, e sto provando a ricordare,

provando a posizionarlo su una mappa, quando dice

«Iraq.»

«Oh,» dico. «Wow.»

«È parecchia roba, eh?»

«Già,» dico, piano. E poi, odiandomi anche se lo dico comunque, non posso fermarmi

dal chiedere, «Da dove viene Lena?»

Nazeera ride, «Pensavo avessi detto che non ti importa di Lena.»

Chiudo gli occhi. Scuoto la testa, mortificata.

«È nata a Peterhof, un sobborgo di San Pietroburgo.»

«Russia,» dico, sollevata di riuscire finalmente a riconoscere una città. «Guerra e

Pace.»

«Un bel libro,» dice Nazeera annuendo. «Peccato che sia ancora nella lista da

bruciare.»

«Lista da bruciare?»

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«Per essere distrutto,» dice. «La Restaurazione ha grandi piani per resettare la lingua,

la letteratura e la cultura. Vogliono creare un nuovo tipo di, non so,» dice, facendo un

gesto a caso con la mano «umanità universale.»

Annuisco, leggermente inorridita. Lo sapevo già. L’avevo già sentito dire da Adam

poco dopo essere stato assegnato come mio compagno di cella nel manicomio. E

l’idea di distruggere l’arte, la cultura, tutto quello che rende gli umani così diversi e

bellissimi…

Mi fa sentire male di stomaco.

«Comunque,» dice, «è ovviamente uno schifoso, grottesco esperimento, ma

dobbiamo metterci in moto. Ci erano state assegnate liste di libri da controllare, e

dobbiamo leggerli, scrivere resoconti, decidere cosa tenere e di cosa liberarci» esala.

«Ho finalmente finito di leggere la maggior parte dei classici un paio di mesi fa… ma

all’inizio dell’anno scorso hanno voluto che analizzassimo come la cultura gioca un

ruolo nella manipolazione dello stesso testo.» Esita, ricorda. «È stato sicuramente più

divertente da leggere in francese. Ma penso, alla fine, che sia meglio in russo. Tutte le

altre traduzioni, specialmente quella inglese, mancano della necessaria… toska. Sai

cosa intendo?»

Rimango leggermente a bocca aperta.

È il modo in cui lo dice… come se non fosse chissà cosa, come se stesse dicendo

qualcosa di perfettamente normale, come se chiunque potesse leggere Tolstoj in

cinque lingue diverse e finire il libro in un pomeriggio. È la semplice, facile sicurezza

che ha di sé che mi fa sgonfiare il cuore. A me ci è voluto un mese per leggere

Guerra e Pace. In inglese.

«Giusto,» dico, e distolgo lo sguardo. «Sì. È, uhm, interessante.»

Sta diventando troppo familiare, questo senso di inferiorità. Troppo potente. Ogni

volta che penso di aver fatto progressi nella vita sembra che mi venga ricordato

quanta strada ancora ho da fare. Anche se credo non sia colpa di Nazeera se il resto di

questi ragazzi siano stati cresciuti per essere enormi geni.

«Quindi,» dice, battendo una volta le mani. «C’è qualcos’altro che vorresti sapere?»

«Sì,» dico. «Qual è il problema di tuo fratello?»

Sembra sorpresa. «Haider?» Esita. «Cosa intendi?»

«Intendo, insomma…» mi acciglio «è fedele a tuo padre? Alla Restaurazione? Ci si

può fidare di lui?»

«Non so se potrei definirlo affidabile,» dice, sembrando pensierosa. «Ma penso che

ognuno di noi abbia dei legami complicati con la Restaurazione. Haider non vuole

stare qui più di quanto lo voglia io.»

«Davvero?»

Annuisce. «Warner probabilmente non ci considera suoi amici, ma Haider sì. E

Haider ha passato davvero un brutto periodo lo scorso anno.» Fa una pausa. Stacca

un’altra foglia da un ramo vicino. La piega e la ripiega tra le dita mentre dice, «mio

padre gli stava mettendo un sacco di pressione, forzandolo a fare un allenamento

molto duro, i dettagli Haider ancora non me li vuole dire, e qualche settimana dopo

ha iniziato a perdere il controllo. Stava mostrando istinti suicidi. Si faceva del male. E

mi sono spaventata molto. Ho chiamato Warner perché sapevo che Haider lo avrebbe

ascoltato.» Scuote la testa. «Warner non ha detto una parola. È semplicemente saltato

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sul primo aereo disponibile. È rimasto con noi per un paio di settimane. Non so cosa

abbia detto a Haider,» dice. «Non so cosa abbia fatto o come lo abbia fatto uscire da

quello stato ma…» guarda in lontananza, alza le spalle «è difficile dimenticare una

cosa del genere. Anche se i nostri genitori continuano a metterci uno contro l’altro.

Stanno cercando di impedirci di diventare troppo buoni.» Ride. «Ma è solo

un’enorme cazzata.»

Sto barcollando, incredula.

Ci sono così tante cose da scartare che non so nemmeno da dove iniziare. Non sono

sicura di volerlo. Tutti questi commenti di Nazeera su Warner sembrano solo colpirmi

al cuore. Mi fanno sentire la sua mancanza.

Mi fanno venire voglia di perdonarlo.

Ma non posso lasciare che le emozioni prendano il controllo su di me. Non ora. Mai

più. Così spingo questi sentimenti in basso, fuori dalla mia testa, e invece dico,

«Wow. E io che pensavo che Haider fosse solo uno stronzo.»

Nazeera sorride. Sventola una mano assente. «Ci sta lavorando.»

«Ha qualche… abilità speciale?»

«Non che io sappia.»

«Ah.»

«Già.»

«Ma tu puoi volare,» dico.

Annuisce.

«Interessante.»

Sorride, ampiamente, e si gira per guardarmi. I suoi occhi sono grandi e illuminati in

maniera bellissima dalla luce che filtra tra i rami, e la sua felicità è così pura che fa

venir voglia a qualcosa dentro di me di seccarsi e morire.

«È molto più che interessante,» dice, ed è allora che sento la fitta che accompagna

qualcosa di nuovo:

Gelosia.

Invidia.

Risentimento.

Le mie abilità sono sempre state una maledizione… una fonte di dolore infinito e di

conflitti. Tutto dentro di me è progettato per uccidere e distruggere ed è una verità

che non sono mai riuscita ad accettare pienamente. «Deve essere bello,» dico.

Si gira di nuovo, sorridendo al vento. «La parte migliore?» dice. «È che posso anche

fare questo…»

Nazeera diventa improvvisamente invisibile.

Mi allontano di colpo.

E poi ritorna, raggiante. «Non è fantastico?» dice, con gli occhi che brillano di

emozione. «Non ho mai potuto condividerlo con qualcuno prima d’ora.»

«Uh… sì.» Rido ma suona falso, troppo acuto. «Molto bello.» E poi, più piano,

«Kenji si arrabbierà parecchio.»

Nazeera smette di sorridere. «Che cosa c’entra lui ora con tutto questo?»

«Beh…» muovo la testa verso di lei. «Insomma, quello che hai appena fatto? È la

roba che fa Kenji. E non è molto bravo a condividere i riflettori, in genere.»

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«Non pensavo ci potesse essere qualcun altro con il mio stesso potere,» dice,

visibilmente amareggiata. «Com’è possibile?»

«Non lo so,» dico, e sento l’improvvisa voglia di mettermi a ridere. È così

determinata a non farsi piacere Kenji che sto iniziando a chiedermi perché. E poi mi

ricordo, all’improvviso, delle orribili scoperte di oggi, e il sorriso viene spazzato via

dalla mia faccia. «Quindi,» dico velocemente, «dovremmo far ritorno alla base? Ho

ancora un sacco di cose da capire, incluso come farò a occuparmi di questo stupido

simposio domani. Non so se dovrei filarmela o semplicemente…»

«Non filartela.» Nazeera mi interrompe. «Se te la fili potrebbero pensare che sai

qualcosa. Non mostrare le tue carte,» dice. «Non ancora. Basta che segui la corrente

finché non avrai messo a punto il tuo piano.»

La fisso, studiandola. Alla fine, dico «Okay.»

«E una volta che avrai deciso cosa fare, fammelo sapere. Posso sempre aiutarti ad

evacuare le persone. Difenderti. Combattere. Qualsiasi cosa. Basta che tu me lo

dica.»

«Cosa…» mi acciglio. «Evacuare le persone? Di cosa stai parlando?»

Sorride, mentre scuote la testa. «Ragazza, ancora non ci arrivi, vero? Perché pensi

siamo qui? La Restaurazione sta pianificando di distruggere il Settore 45.» Mi fissa.

«E tutti quelli al suo interno.»

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CAPITOLO 28

WARNER

Traduzione: Layola

Non sono mai arrivato al piano inferiore.

Ho a malapena un secondo per indossare la maglietta quando sento qualcuno bussare

alla porta.

«Mi dispiace, amico» sento dire a Kenji, «non mi ha ascoltato...»

E poi,

«Apri la porta, Warner. Prometto che farà solo un po' male.»

La sua voce è sempre la stessa. Morbida. Falsamente delicata. Sempre un po’ acida

alla fine.

«Lena,» dico «che bello sentirti di nuovo.»

«Apri la porta, stronzo.»

«Non ti sei mai trattenuta con i complimenti.»

«Ho detto apri la porta.»

Molto attentamente, lo faccio.

E poi chiudo gli occhi.

Lena mi schiaffeggia così forte che lo sento risuonare nelle orecchie. Kenji urla

brevemente, e io prendo un respiro profondo. Alzo lo sguardo su di lei senza

sollevare la testa. «Hai finito?»

I suoi occhi si allargano, arrabbiati ed offesi, e realizzo di averla nuovamente

stuzzicata. Si muove senza riflettere ma anche così è un pugno eseguito

perfettamente. Il colpo mi romperebbe quantomeno il naso, ma non posso più

permetterle di procurarmi del dolore fisico. I miei riflessi sono più rapidi dei suoi, lo

sono sempre stati, e trattengo il suo polso un attimo prima dell’impatto. Il suo braccio

vibra per l’intensità dell’energia non rilasciata e lei dà uno strattone all’indietro,

gridando mentre si libera.

«Figlio di puttana» dice, respirando pesantemente.

«Non posso lasciarmi prendere a pugni in faccia, Lena.»

«Ti farei di peggio.»

«E ancora ti domandi perché tra noi non ha funzionato.»

«Sempre così freddo,» dice e qualcosa nella sua voce si spezza mentre lo dice.

«Sempre così crudele.»

Mi sfrego il retro della testa e sorrido, senza gioia, al muro. «Perché sei venuta fino

alla mia stanza? Perché affrontarmi in privato? Sai che non ho più niente da dirti.»

«Non mi hai mai detto niente,» urla improvvisamente. «Due anni,» dice, il respiro

affannato «due anni e hai lasciato un messaggio a mia madre per dirmi che la nostra

relazione era finita..»

«Non eri a casa,» dico strizzando gli occhi. «Pensavo fosse più efficiente...»

«Sei un mostro...»

«Si,» dico. «Si, lo sono. Vorrei che ti dimenticassi di me.»

I suoi occhi diventano lucidi in un istante, pieni di lacrime non versate. Mi sento in

colpa di non sentire niente. Posso solo guardarla di rimando, troppo stanco per

litigare. Troppo occupato a curare le mie ferite.

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La sua voce è sia arrabbiata che triste quando dice «Dov’è la tua nuova ragazza?

Muoio dalla voglia di incontrarla.»

A questo, distolgo ancora lo sguardo, il cuore che mi si spezza nel petto. «Dovresti

andare a sistemarti,» dico. «Anche Nazeera a Haider sono qui da qualche parte. Sono

sicuro che avrete molte cose di cui parlare.»

«Warner...»

«Per favore, Lena,» dico, sentendomi veramente esausto. «Sei arrabbiata, lo capisco.

Ma non è colpa mia se ti senti così. Non ti amo. Non ti ho mai amata. E non te l’ho

mai lasciato credere.»

Resta in silenzio così a lungo che alla fine la guardo, realizzando troppo tardi che in

qualche modo ho peggiorato le cose, di nuovo. Sembra paralizzata, gli occhi

spalancati, la bocca aperta, le mani che tremano leggermente ai lati del suo corpo.

Sospiro.

«Devo andare,» dico. «Kenji ti mostrerà la tua stanza.» Do un’occhiata a Kenji che

annuisce. La sua faccia è inaspettatamente cupa.

Lena non dice ancora niente.

Faccio un passo indietro, pronto a chiudere la porta tra noi quando mi salta addosso

con un pianto improvviso, le sue mani strette attorno alla mia gola così

inaspettatamente che mi fa quasi cadere. Mi sta urlando in faccia, spingendomi

indietro ed tutto quello che posso fare è cercare di mantenere la calma. A volte il mio

istinto è troppo affilato, è difficile per me impedirmi di reagire ad una minaccia fisica,

e mi sforzo, muovendomi lentamente mentre rimuovo le sue mani dal mio collo. Mi

sta ancora spingendo, tirando diversi calci ai miei stinchi quando riesco finalmente a

domare le sue braccia e tirarla più vicina.

Improvvisamente, è immobile.

Le mie labbra sono vicine al suo orecchio quando pronuncio il suo nome gentilmente.

Deglutisce forte mentre incontra i miei occhi, tutta fuoco e vendetta. Anche se

avverto la sua speranza. La sua disperazione. La sento domandarsi se ho cambiato

idea.

«Lena,» dico di nuovo, ancora più delicatamente. «Davvero, dovresti saperlo che

queste tue azioni non ti renderanno migliore ai miei occhi.»

Si irrigidisce.

«Per favore, vattene,» dico e chiudo velocemente la porta tra noi.

Cado all’indietro sul letto, facendo una smorfia mentre lei calcia violentemente la

porta, e cullandomi la testa tra le mani. Devo reprimere un improvviso, inspiegabile

impulso di rompere qualcosa. È come se il mio cervello volesse fuoriuscire e liberarsi

dal mio cranio.

Come sono arrivato a questo?

Alla deriva. Disordinato e distratto.

Quando mi è successo?

Non ho concentrazione, non ho controllo. Sono ogni delusione, ogni fallimento, ogni

cosa inutile che mio padre diceva che fossi. Sono debole. Sono un codardo. Ho

lasciato le mie emozioni vincere troppo spesso e ora ho perso tutto.

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Tutto sta cadendo a pezzi. Juliette è in pericolo. Ora più che mai, lei ed io abbiamo

bisogno di stare insieme. Ho bisogno di parlarle. Ho bisogno di avvertirla. Ho

bisogno di proteggerla, ma se ne è andata. Mi detesta di nuovo.

E io sono ancora qui.

Nell’abisso.

Dissolvendomi lentamente nell’acido delle mie emozioni.

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CAPITOLO 29

JULIETTE

Traduzione: Layola

La solitudine è una cosa strana.

Ti si avvicina silenziosamente, calma e tranquilla, si siede al tuo fianco nel buio, ti

accarezza i capelli mentre dormi. Si avvolge intorno alle tue ossa, stringendo così

forte che quasi non respiri, quasi non riesci a sentire le tue pulsazioni aumentare,

mentre si arrampica velocemente sulla tua pelle e ti tocca con le labbra i capelli

soffici sul retro del collo. Lascia menzogne nel tuo cuore, si sdraia vicino a te la

notte, prosciuga la luce da ogni angolo. È una compagna costante, ti stringe la mano

solo per tirarti giù quando stai cercando di rialzarti, raccoglie le tue lacrime solo per

spingertele in fondo alla gola. Ti spaventa semplicemente stando al tuo fianco.

Ti svegli la mattina e ti domandi chi sei. Non riesci a dormire la notte e tremi nella

tua pelle. Dubiti dubiti dubiti

Io

Io non

Dovrei

Perché non

E anche quando sei pronto a lasciar andare. Quando sei pronto a liberarti. Quando

sei pronto ad essere completamente nuovo. La solitudine è una vecchia amica che ti

sta vicino mentre ti specchi, ti guarda negli occhi, sfidandoti a vivere la tua vita senza

di lei. Non riesci a trovare le parole per combattere te stesso, per combattere le

parole che urlano che non sei abbastanza mai abbastanza mai abbastanza.

La solitudine è una compagna amara e miserabile.

A volte semplicemente non ti lascia andare.

- UN ESTRATTO DAL QUADERNO DI JIULIETTE AL MANICOMIO

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La prima cosa che faccio dopo essere tornata alla base è ordinare a Delalieu di

spostare tutte le mie cose nelle vecchie stanze di Anderson. Non ho pensato

veramente a come farò a vedere Warner tutto il tempo. Ancora non ho considerato

come comportarmi vicino alla sua ex-ragazza. Non ho idea di come sarà tutto questo

e in questo momento quasi non me ne importa niente.

Sono troppo arrabbiata.

Se devo credere a Nazeera, allora tutto quello che abbiamo cercato di fare qui, tutti i

nostri sforzi di mostrarci carini, essere diplomatici, ospitare una conferenza

internazionale di leader, è stato vano. Tutto quello per cui abbiamo lavorato è

spazzatura. Ha detto che stanno pianificando di spazzare via tutto il Settore 45. Ogni

persona. Non solo quelle che vivono nel nostro quartier generale. Non solo i soldati

che si sono schierati dalla nostra parte. Ma anche tutti i civili. Donne, bambini, tutti.

Stanno per far scomparire il Settore 45.

E improvvisamente mi sento fuori controllo.

Le vecchie stanze di Anderson sono enormi, fanno sembrare le stanza di Warner

ridicola a confronto, e dopo che Delalieu mi ha lasciata da sola sono libera di farmi

sommergere da tutti i privilegi che questo finto ruolo di comandante supremo della

Restaurazione ha da offrire. Due uffici. Due sale riunioni. Una cucina. Un’enorme

stanza padronale. Tre bagni. Quattro armadi completamente pieni, tale padre tale

figlio realizzo, e innumerevoli altri dettagli. Non ho mai passato molto tempo in

queste stanze prima; le dimensioni sono troppo vaste. Ho bisogno solo di un ufficio e

di solito è lì che trascorro il mio tempo.

Ma oggi mi prendo del tempo per guardarmi attorno, e lo spazio che attira

maggiormente il mio interesse è uno che non ho mai notato prima. È quello

posizionato più vicino alla camera da letto: un’intera stanza dedicata alla sconfinata

collezione di alcolici di Anderson.

Non ne so molto di alcolici.

Non ho mai fatto le esperienze tradizionali di un’adolescente; non ho mai avuto feste

a cui partecipare; non sono stata mai esposta al condizionamento di gruppo di cui ho

letto nei romanzi. Nessuno mi ha mai offerto droghe o un superalcolico, e

probabilmente a buona ragione. In ogni caso, sono stupefatta dalla miriade di

bottiglie perfettamente allineate sugli scaffali di vetro che circondano la stanza buia

rivestita di pannelli di legno. L’unico arredo sono due grandi poltrone di pelle

marrone e il tavolino da caffè pesantemente laccato posizionato tra loro. Sopra al

tavolo da caffè c’è una bottiglia piena di un qualche liquido ambrato; c’è un unico

bicchiere lì di fianco. Tutto qui dentro è scuro, vagamente deprimente, e puzza di

legno e di qualcosa di antico, stantio, vecchio.

Allungo il braccio, passando le dita lungo i pannelli di legno e conto. Tre delle

quattro pareti ospitano varie bottiglie antiche, 637 in totale, la maggior parte delle

quali sono piene dello stesso liquido ambrato; solo un paio di bottiglie sono piene di

un liquido chiaro. Mi avvicino per controllare le etichette e apprendo che le bottiglie

chiare sono piene di vodka, questa è una bevanda di cui ho sentito parlare, ma il

liquido ambrato è chiamato in modo diverso su bottiglie diverse. Gran parte è Scotch.

Ci sono sette bottiglie di tequila. Ma la maggior parte di quello che Anderson tiene in

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questa stanza è bourbon, 523 bottiglie in totale, una sostanza di cui non so niente. Ho

sentito solo di persone che bevono vino, birra o margarita, e non ce ne sono qui.

L’unica parete in cui non ci sono alcolici è piena di diverse scatole di sigari e altri

bicchieri bassi con lo stesso taglio intricato. Sollevo un bicchiere e quasi lo faccio

cadere; è molto più pesante di quanto sembri. Mi domando se siano fatti di cristallo

vero.

E poi non posso fare a meno di domandarmi quale sia il motivo per cui Anderson ha

progettato questo spazio. È un’idea così strana dedicare un’intera stanza a delle

bottiglie di alcolici. Perché non metterle in una dispensa? O in un frigorifero?

Mi siedo in una delle poltrone e sollevo lo sguardo, distratta dal gigantesco

lampadario luccicante appeso al soffitto.

Non so perché sono entrata in questa stanza. Ma qui dentro mi sento completamente

sola. Separata da tutto il rumore e la confusione della giornata. Mi sento veramente

isolata qui, tra queste bottiglie, in un modo che mi colpisce. E per la prima volta in

tutto il giorno, mi rilasso. Mi sento ritirarmi. Rifugiarmi. Scappare lontano dagli

angoli bui della mia mente.

C’è una strana forma di libertà nell’arrendersi.

C’è libertà nell’essere arrabbiati. Nel vivere da soli. E la cosa più strana: qui dentro,

tra le mura del vecchio rifugio di Anderson, mi sembra di riuscire finalmente a

capirlo. Finalmente capisco come era in grado di vivere la vita nel modo che faceva.

Non si è mai permesso di provare qualcosa, non ha mai permesso a se stesso di farsi

ferire, non ha mai fatto entrare le emozioni nella sua vita. Non era in obbligo con

nessuno tranne se stesso e questo lo ha liberato.

Si è liberato egoisticamente.

Allungo il braccio verso la bottiglia di liquido ambrato, rimuovo il tappo di sughero e

riempio il bicchiere di cristallo. Fisso il bicchiere per un momento e lui mi fissa di

rimando.

Alla fine lo sollevo.

Un sorso e quasi lo sputo, tossendo violentemente appena un po’ del liquido mi arriva

alla gola. La scelta di alcolici di Anderson è disgustosa. Come morte e fuoco e olio e

fumo. Mi sforzo di prenderne un altro sorso veloce prima di appoggiare di nuovo il

bicchiere, i miei occhi annacquati mentre l’alcol fa il suo dovere dentro di me. Non

sono sicura del perché l’ho fatto, perché volevo provarlo o cosa spero che farà per

me. Non ho nessun tipo di aspettativa.

Sono solo curiosa.

Mi sento noncurante.

E i secondi passano, i miei occhi si sforzano di rimanere aperti nel silenzio e faccio

scorrere un dito lungo le labbra, conto di nuovo le bottiglie e sto iniziando a pensare

che il terribile sapore del bourbon non è così terribile quando lentamente,

allegramente, un bocciolo di fuoco spunta dal mio profondo e srotola raggi di calore

dentro alle mie vene.

Oh, penso

oh

La mia bocca sorride un po’ storta e non me ne importa, non realmente, e nemmeno

che la mia gola sembri un po’ intorpidita. Sollevo il bicchiere ancora pieno e prendo

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un altro bel sorso di fuoco e questa volta non ho paura. È piacevole perdersi così,

riempirmi la testa con nuvole e vento e nient’altro. Mi sento lenta e un po’ sgraziata

mentre mi alzo, ma è bello, è bello e caldo e piacevole e mi ritrovo a vagare verso il

bagno, sorridendo mentre cerco qualcosa nei cassetti

qualcosa

dov’è

e poi lo trovo, un rasoio elettrico, e decido che è arrivato il momento di tagliarmi i

capelli. I miei capelli mi disturbano da sempre. Sono troppo lunghi, troppo lunghi,

una reliquia, un ricordo del mio periodo al manicomio, troppo lunghi dopo tutti

quegli anni in cui ero stata dimenticata e lasciata a marcire all’inferno, troppo spessi,

troppo soffocanti, troppo questo, troppo quello, troppo irritanti

Le mie mani frugano alla ricerca della presa elettrica, ma alla fine riesco ad

accenderlo, la piccola macchina ronza nella mia mano e penso che probabilmente

avrei prima dovuto togliermi i vestiti, non voglio avere capelli ovunque, quindi

dovrei sicuramente prima togliermi i vestiti

E poi sono in piedi in biancheria intima, pensando a quanto segretamente ho sempre

voluto farlo, a come ho sempre pensato che sarebbe stato bello, liberatorio...

E faccio scorrere il rasoio sulla mia testa con un movimento leggermente a zigzag.

Una volta.

Due volte.

Ancora e ancora e ancora e sto ridendo mentre i miei capelli cadono sul pavimento,

un mare di onde brune troppo lunghe che si raccolgono ai miei piedi e non mi sono

mai sentita così leggera, così scioccamente scioccamente felice

Lascio cadere il rasoio ancora ronzante nel lavandino e faccio un passo indietro,

ammirando il mio lavoro allo specchio mentre tocco la mia nuova testa rasata. Ora ho

lo stesso taglio di capelli di Warner. Lo stesso mezzo centimetro di capelli appuntiti,

tranne che la mia testa è scura mentre la sua è chiara e che improvvisamente sembro

molto più grande. Più dura. Seria. Ho degli zigomi. Una mascella. Sembro arrabbiata

e un po’ spaventosa. I miei occhi sono luminosi, enormi sul mio viso, il centro

dell’attenzione, grandi e affilati e lo adoro.

Lo adoro.

Sto ancora sogghignando mentre barcollo lungo il corridoio, vagando verso la stanza

di Anderson in biancheria intima, sentendomi più libera di quanto lo sia stata da anni.

Mi lascio cadere sulla grande poltrona di pelle e finisco il resto del bicchiere in due

sorsi.

Anni, secoli, vite intere passano e si attenuano, sento il suono di colpi alla porta.

Lo ignoro.

Sono seduta di traverso sulla poltrona, le gambe poggiate sopra il bracciolo, inclinata

all’indietro per guardare il lampadario girare...

Stava girando anche prima?

... e troppo presto la mia fantasticheria è interrotta, troppo presto sento un coro di voci

che vagamente riconosco e non mi muovo, a malapena strizzo gli occhi, giro solo la

testa verso il suono.

«Oh merda, J...»

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Kenji marcia dentro la stanza e si paralizza sul posto quando mi vede.

Improvvisamente, mi ricordo debolmente che sono in biancheria intima, e che

un’altra versione di me stessa preferirebbe che Kenji non mi vedesse così, ma non è

abbastanza per motivarmi a muovermi. Kenji, comunque, sembra molto allarmato.

«Oh merda merda merda...»

È solo in quel momento che noto che non è da solo.

Kenji e Warner sono in piedi davanti a me, fissandomi terrificati, come se avessi fatto

qualcosa di male e questo mi fa arrabbiare.

«Cosa?» Dico, irritata. «Andate via.»

«Juliette, amore, cosa hai fatto...»

E poi Warner si sta inginocchiando vicino a me. Cerco di guardarlo, ma

improvvisamente è difficile mettere a fuoco, difficile vedere chiaramente. La vista mi

si appanna e devo sbattere gli occhi diverse volte per far smettere alla sua faccia di

muoversi, ma poi lo sto guardando, guardando veramente e qualcosa dentro di me sta

cercando di ricordare che sono arrabbiata con Warner, che non mi piace più e non

voglio vederlo o parlargli ma poi mi tocca il viso...

E sospiro

Riposo la guancia contro il suo palmo e ricordo qualcosa di bello, qualcosa di gentile,

e uno sprazzo di sentimenti mi attraversa e

«Ciao,» dico.

E lui sembra così triste così triste e sta per rispondermi ma Kenji dice, «amico, penso

che abbia bevuto, non so, tipo un intero bicchiere di quella roba. Forse mezza pinta?

E col suo peso?» Impreca sotto voce. «Tutto quel whisky mi distruggerebbe.»

Warner chiude gli occhi. Sono affascinata dal modo in cui il suo pomo d’Adamo di

muove su e giù per la sua gola e allungo un braccio, passando le dita lungo il suo

collo.

«Tesoro,» sussurra, gli occhi ancora chiusi. «Perché...»

«Lo sai quanto ti amo?» dico. «Ti amo... ti amavo così tanto.»

Quando apre di nuovo gli occhi sono luminosi. Luccicanti. Non dice niente.

«Kishimoto,» dice debolmente. «Per favore apri l’acqua nella doccia.»

«Vado.»

E Kenji se ne è andato.

Warner ancora non dice niente.

Tocco le sue labbra. Mi piego in avanti. «Hai una bocca così bella,» sussurro.

Cerca di sorridere. Sembra triste.

«Ti piacciono i miei capelli?» dico.

Annuisce.

«Davvero?»

«Sei bellissima,» dice, ma riesce a malapena a tirare fuori le parole. E la sua voce si

spezza quando dice, «Perché l’hai fatto, amore? Stavi cercando di farti del male?»

Cerco di rispondere, ma sento improvvisamente la nausea. Mi gira la testa. Chiudo gli

occhi per alleviare la sensazione ma non si placa.

«La doccia è pronta,» sento gridare a Kenji. E poi, improvvisamente, la sua voce è

più vicina. «Ce la fai, amico? O vuoi che me ne occupi io ora?»

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«No.» Una pausa. «No, puoi andare. Mi assicurerò che stia bene. Per favore, dì agli

altri che non mi sento bene stasera. Porgigli le mie scuse.»

«Ok. Nient’altro?»

«Caffè. Diverse bottiglie d’acqua. Due aspirine.»

«Consideralo fatto.»

«Grazie.»

«Quando vuoi, amico.»

E poi mi sto muovendo, tutto si sta muovendo, tutto è di traverso e apro gli occhi e li

chiudo velocemente mentre il mondo si appanna davanti a me.

Warner mi sta portando in braccio e affondo il viso nella piega del suo collo. Il suo

profumo è così familiare.

Sicuro.

Voglio parlare, ma mi sento lenta. Come se ci volesse un’eternità per dire alle mie

labbra di muoversi, come se lo facessero in slow motion, come se le parole affluissero

insieme mentre le pronuncio, ancora e ancora

«Già mi manchi,» mormoro contro la sua pelle. «Mi manca questo, mi manchi tu, mi

manchi tu» e poi mi mette giù, mi stabilizza sui miei piedi e mi aiuta ad entrare nella

doccia.

Quasi urlo quando l’acqua mi colpisce.

I miei occhi si spalancano, la mia mente diventa mezza sobria in un istante, mentre

l’acqua gelida mi scorre addosso. Sbatto gli occhi velocemente, respirando

affannosamente mentre mi appoggio contro la parete della doccia, fissando

selvaggiamente Warner attraverso il vetro distorto. L’acqua mi scorre lungo la pelle,

si raccoglie sulle mie ciglia, nella mia bocca aperta. Le mie spalle rallentano il loro

tremore mentre il mio corpo si abitua alla temperatura e i minuti passano,

guardandoci a vicenda senza dire niente. La mia mente è ferma, ma non sgombra, una

nebbia ancora la invade anche mentre allungo il braccio per girare il rubinetto,

riscaldando l’acqua di diversi gradi.

Riesco ancora a vedere il suo viso, bellissimo anche distorto dal vetro tra noi, quando

dice «Stai bene? Ti senti meglio?»

Faccio un passo avanti, studiandolo in silenzio, e non dico niente mentre slaccio il

reggiseno e lo lascio cadere sul pavimento. Non c’è risposta da lui tranne il leggero

allargarsi dei suoi occhi, il leggero movimento del suo petto ed esco dalla mia

biancheria intima, calciandola dietro di me e lui sbatte gli occhi diverse volte e

indietreggia, guardando altrove, guardandomi di nuovo.

Apro la porta della doccia.

«Entra,» dico.

Ma ora non mi guarda.

«Aaron...»

«Non ti senti bene,» dice.

«Sto benissimo.»

«Tesoro, per favore, hai appena bevuto il tuo peso in whisky...»

«Voglio solo toccarti,» dico. «Vieni qui.»

Finalmente si gira a guardarmi, i suoi occhi si muovono lentamente su per il mio

corpo e lo vedo, lo vedo accadere quando qualcosa dentro di lui sembra spezzarsi.

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Sembra dolorante e vulnerabile e deglutisce forte mentre mi si avvicina, il vapore ora

ha riempito la stanza, gocce di acqua calda cadono sui miei fianchi nudi e le sue

labbra si separano mentre mi guarda, mentre allunga un braccio, e penso che potrebbe

veramente entrare quando

invece

chiude la porta tra di noi e dice

«Ti aspetto in salotto, amore.»

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CAPITOLO 30

WARNER

Traduzione: Shadow211

Juliette stava dormendo.

Uscita dalla doccia, si era accoccolata accanto a me e si era addormentata

immediatamente con la testa nascosta nell’incavo della mia spalla, mentre borbottava

qualcosa di cui ero assolutamente sicuro si sarebbe pentita domani. Dovetti farmi

forza per allontanarmi dal suo abbraccio, dal suo corpo caldo, ma non so come ci

riuscii. Le rimboccai le coperte e me ne andai, ma allontanarmi da lei fu doloroso

come strapparmi la mia stessa pelle. Mi pregò di restare, ma finsi di non sentire. Mi

disse che mi amava, ma non riuscii a risponderle.

Pianse mentre dormiva.

Ma non potevo essere sicuro che intendesse davvero quello che diceva o faceva, visto

il suo stato; no, non ero così ingenuo. Benché non l’avessi mai vista ubriaca prima,

sapevo che una volta tornata sobria, non mi avrebbe voluto lì. Né avrebbe voluto

sapere quanto si fosse dimostrata vulnerabile con me. Non so neanche se si sarebbe

ricordata qualcosa.

E per quanto riguardava me, ero ben oltre la disperazione.

Sono le tre del mattino e mi sembra di non dormire da una vita. Non riesco nemmeno

a chiudere gli occhi perché non sopporto di restare solo con la mia mente e le mie

debolezze. Sono un oggetto rotto, tenuto insieme dalla necessità.

Ho provato più volte a parlare di tutte queste emozioni incasinate con qualcuno… con

Kenji, che voleva sapere cosa fosse successo dopo che ce ne siamo andati; con

Castle, che mi ha placcato tre ore fa per sapere che cosa le avessi detto; persino con

Kent, che sembrava compiaciuto che la mia nuova relazione fosse già andata a

puttane.

Volevo solo scomparire.

Non potevo tornare nella nostra stanza – la mia stanza – dove la sua presenza era

ovunque, ancora tangibile; e non potevo neppure rifugiarmi nella stanza delle

simulazioni, visto che era ancora piena di quei soldati ricollocati qui a causa delle

nuove costruzioni.

Non trovavo tregua dalle conseguenze delle mie azioni.

Non trovavo neppure un posto dove potermi riposare per più di un minuto, prima di

essere scoperto e ripreso a dovere.

Da Lena, che mi rise in faccia mentre mi oltrepassava nel corridoio.

Da Nazeera che scosse la testa nei miei confronti, mentre davo la buona notte a suo

fratello.

Da Sonya e Sara, che mi lanciarono sguardi gelidi quando mi trovarono accoccolato

in un angolo dell’ala medica in costruzione. Da Brendan, Winston, Lily, Alia e Ian,

che uscirono dalle loro nuove stanze e mi fermarono con le loro troppe domande,

richieste con una tale veemenza e con voci così alte che persino un intontito James

venne a cercarmi, tirandomi un lembo della maglia e chiedendomi ancora e ancora se

Juliette stesse bene.

Quand’era diventata così la mia vita?

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Chi erano tutte quelle persone che continuavano a vantare diritti sulla mia vita?

Sono tutti così giustamente preoccupati per Juliette, per la salute mentale del nostro

nuovo comandante supremo, che io, che sono la causa della sua sofferenza, non ho un

attimo di tregua dagli sguardi gelidi, da quelli curiosi o da quelli di compatimento.

Era sconvolgente avere tutte quelle persone che controllavano ogni singolo aspetto

della mia vita.

Quando le cose tra noi andavano bene, non dovevo rispondere a tutte queste

domande, né ero oggetto di così tanti sguardi. Era Juliette che manteneva questi

rapporti, a me non interessavano. Non ho mai voluto niente del genere. Non volevo

questa responsabilità. Non mi interessava nulla delle amicizie. Volevo solo Juliette.

Volevo il suo amore, il suo cuore, le sue braccia intorno a me. E questo era il prezzo

da pagare per il suo amore: la presenza di queste persone. Le loro domande. Il loro

evidente disprezzo per la mia esistenza.

Per cui, ero diventato uno spettro.

Infestavo questi corridoi silenziosi. Rimanevo nell’ombra, immobile nell’oscurità, ad

aspettare qualcosa. Ma cosa aspettassi, non lo so.

Il pericolo.

L’oblio.

Qualsiasi cosa potesse suggerirmi cosa fare.

Volevo un nuovo obiettivo, qualcosa su cui focalizzarmi, un lavoro da fare. E

all’improvviso, mi ricordai che ero il capo comandante e reggente del Settore 45, che

avevo milioni di cose da negoziare e controllare… ma non mi bastavano. I compiti di

una giornata non bastavano a distrarre la mia mente; la mia precedente routine era

stata distrutta; Delalieu cominciava a soccombere all’erosione delle mie emozioni e

non potevo fare a meno di pensare a mio padre in continuazione…

A come avesse ragione su di me.

Aveva sempre avuto ragione.

Mi ero lasciato distruggere dalle emozioni, una volta dopo l’altra. Erano state loro a

farmi accettare ogni lavoro, anche i più infimi, per stare vicino a mia madre. Erano

state loro a portarmi da Juliette, quando cercavo una cura per lei. Ed erano state loro a

farmi innamorare, a farmi sparare e a farmi perdere la testa, a farmi diventare quel

ragazzo spezzato che sono adesso… capace di mettersi in ginocchio e di pregare

inutilmente il proprio crudele padre di risparmiare la donna che amava. Erano state

loro, queste fragili emozioni, a farmi perdere tutto.

Non avevo più pace. Né obiettivi.

Perché diamine non mi ero strappato via questo inutile cuore tanto tempo fa?

Ma comunque, avevo del lavoro da fare.

Mancavano meno di dodici ore al simposio e non ero ancora riuscito a rivedere gli

ultimi dettagli con Juliette. Non pensavo che le cose sarebbero andate così. Non

pensavo che gli affari sarebbero andati avanti normalmente dopo la morte di mio

padre. Pensavo fossimo vicini ad una guerra imminente; pensavo che gli altri

comandanti supremi ci avrebbero attaccato prima ancora di riuscire a consolidare il

nostro controllo sul Settore 45. Non avevo mai pensato che avessero in mente un

piano più subdolo. Non avevo pensato, quindi, a prepararla per le formalità degli

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incontri, per questa routine monotona, che caratterizzava la vita della Restaurazione.

Ma avrei dovuto prevederlo. Avrei dovuto aspettarmelo. Avrei potuto impedirlo.

Pensavo che la Restaurazione sarebbe caduta.

Ma mi sbagliavo.

Il nostro comandante supremo aveva ancora qualche ora per prepararsi, prima di

dover parlare di fronte ad una stanza di altri 554 comandanti e reggenti dell’America

del Nord. Si aspetteranno che li comandi. Che si occupi della negoziazioni di intricati

trattati di diplomazia nazionale e internazionale. E Haider, Nazeera e Lena saranno

pronti a riferire ogni singolo dettaglio ai loro crudeli genitori. Io sarei dovuto stare al

suo fianco, per aiutarla, guidarla e proteggerla. Invece, non sapevo nemmeno in che

condizioni sarebbe uscita Juliette dalle stanze di mio padre. Non sapevo cosa

aspettarmi da lei, come mi avrebbe trattato o a cosa avrebbe pensato.

Non sapevo che cosa sarebbe accaduto.

E non potevo incolpare nessuno tranne me stesso.

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CAPITOLO 31 JULIETTE

Traduzione: JulietteFerrars

Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza.

Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza.

Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza.

Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza.

Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza.

Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza.

Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza.

Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza.

Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza.

Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza.

Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza.

Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza.

Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza.

Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza.

Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza.

Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza.

Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza.

Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza.

Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza.

Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza.

Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza.

Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza.

Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza.

Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza.

Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza.

Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza. Non sono pazza.

Non sono pazza. Non sono pazza.

-UN ESTRATTO DAL DIARIO DI JULIETTE NEL MANICOMIO

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Quando apro gli occhi, mi ritorna tutto in mente. Le prove sono qui, in questo mal di

testa martellante, in questo sapore amaro in bocca e nello stomaco, in questa sete

insopportabile, come se ogni cellula del mio corpo fosse disidratata. È una sensazione

stranissima. È orribile.

Ma la cosa peggiore di tutto sono i ricordi. Leggeri ma intatti, ricordo tutto. Quando

ho bevuto il bourbon di Anderson. Quando ero in piedi davanti a Kenji indossando

solo biancheria intima. E poi, con un sussulto improvviso e doloroso…

Quando mi sono spogliata nella doccia. Quando ho chiesto a Warner di unirsi a me.

Chiudo gli occhi mentre vengo colta da un’ondata di nausea, minacciando di

capovolgere lo scarso contenuto del mio stomaco. Vengo inondata da un senso di

mortificazione con un’efficienza che per poco non mi toglie il fiato, fabbricando

dentro di me una sensazione di totale disprezzo verso me stessa che non riesco a

togliermi di dosso. Alla fine, in modo riluttante, apro gli occhi di nuovo e noto che

qualcuno mi ha lasciato tre bottiglie d’acqua e due piccole pillole bianche.

Assumo tutto con gratitudine.

È ancora buio in questa stanza, ma in qualche modo so che è mattina. Mi tiro a sedere

troppo in fretta e il mio cervello oscilla, dondolando nel cranio come un pendolo e mi

sento ondeggiare anche se resto ferma, tenendomi al materasso.

Mai, penso. Mai più. Anderson era un idiota. È una sensazione terribile. E solo

quando vado in bagno ricordo, con una chiarezza improvvisa e intensa, che mi sono

rasata i capelli.

Resto pietrificata di fronte allo specchio, con ancora dei resti delle mie onde lunghe e

castane sul pavimento, e guardo il mio riflesso con ammirazione. Orrore. Fascino.

Premo l’interruttore della luce e trasalisco, le lampadine fluorescenti innescano

qualcosa di doloroso nel mio cervello diventato stupido da poco e mi serve un minuto

per abituarmi alla luce. Metto in funzione la doccia, lasciando che l’acqua si riscaldi

mentre studio la nuova me.

Con cautela, tocco la rasatura morbida dei pochi capelli che mi sono rimasti. Al

secondo tentativo divento più coraggiosa, avvicinandomi così tanto allo specchio che

il naso urta il vetro. Così strana, così strana ma presto il mio timore si affievolisce.

Non importa quanto tempo io guardi me stessa, non riesco a destare un sentimento

appropriato di rimorso. Stupore, sì, ma…

Non so.

Mi piace davvero, davvero tanto.

Ho sempre avuto degli occhi grandi a metà tra il blu e il verde, delle miniature del

mondo in cui abitiamo, ma non li avevo mai trovati particolarmente interessanti

prima. Ma ora, per la prima volta, trovo la mia faccia interessante. Come se fossi

uscita dalle ombre di me stessa; come se la tenda dietro la quale mi nascondevo fosse

stata finalmente scostata.

Sono qui. Proprio qui.

Guardatemi, sembro urlare senza parlare.

Il vapore riempie la stanza con esalazioni lente e attente che annebbiano il mio

riflesso e alla fine sono costretta a distogliere lo sguardo. Ma quando accade, sto

sorridendo.

Perché per la prima volta nella mia vita mi piaccio davvero.

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Ho chiesto a Delalieu di far spostare il mio guardaroba negli alloggi di Anderson

prima del mio arrivo di ieri e mi ritrovo in piedi lì davanti, esaminandone la

profondità con occhi nuovi. Questi sono gli stessi vestiti che vedevo ogni volta che

aprivo queste porte; ma all’improvviso li vedo in modo diverso.

Ma a dire il vero, mi sento diversa.

Prima i vestiti mi lasciavano perplessa. Non riuscivo a capire come creare un outfit

come faceva Warner. Pensavo fosse una scienza che non avrei mai compreso;

un’abilità al di là di ogni mia capacità. Ma ora capisco che il mio problema era che

non ho mai saputo chi fossi; non capivo come vestire l’impostore che viveva nella

mia pelle.

Cosa mi piaceva?

Come volevo essere percepita?

Per anni il mio obiettivo era minimizzarmi, piegarmi e ripiegarmi in un poligono di

nullità, essere troppo insignificante per essere ricordata. Volevo apparire innocente;

volevo essere vista come una ragazza silenziosa e innocua; mi preoccupavo sempre di

come la mia vera esistenza fosse terrificante per gli altri e facevo tutto il possibile per

sminuire me, la mia luce, la mia anima.

Volevo disperatamente placare gli ignoranti. Volevo così tanto tranquillizzare gli

stronzi che mi giudicavano senza conoscermi che nel frattempo ho perso me stessa.

Ma ora?

Ora, scoppio a ridere. Ad alta voce.

Ora, non me ne frega un cazzo.

CAPITOLO 32

WARNER

Traduzione: Layola

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Quando la mattina dopo Jiuliette ci raggiunge, è quasi irriconoscibile.

Sono stato obbligato, nonostante ogni buon proposito a tenermi occupato con altri

compiti, ad unirmi al nostro gruppo oggi per rendere conto di quello che ormai è

evidente fosse inevitabile, cioè l’arrivo dei nostri tre ultimi ospiti. I figli gemelli del

comandante supremo del Sud America e il figlio del comandante supremo dell’Africa

sono arrivati questa mattina presto. Il Comandante Supremo dell’Oceania non ha

figli, quindi immagino che questi siano i nostri ultimi visitatori. E sono arrivati tutti

in tempo per accompagnarci al simposio. Molto conveniente.

Avrei dovuto capirlo.

Ero nel mezzo delle presentazioni per Castle e Kenji, che è sceso ad accogliere i

nostri ospiti, quando Juliette ha fatto la sua prima comparsa del giorno. Sono passati

meno di trenta secondi da quando è entrata, e sto ancora cercando di accogliere

processare la sua comparsa.

È stupenda.

Indossa un semplice maglione nero a trecce; jeans aderenti grigio scuro; e un paio di

anfibi alla caviglia bassi e neri. I suoi capelli sono sia scomparsi che non; è come una

corona soffice e scura che le dona in un modo che non mi sarei mai aspettato.

Senza la distrazione dei suoi lunghi capelli, i miei occhi non hanno nient’altro su cui

concentrarsi tranne il suo volto. E lei ha un viso incredibilmente bello, occhi grandi e

accattivanti, e una struttura ossea che non è mai stata più pronunciata.

Sembra sorprendentemente diversa.

Ruvida.

Ancora bellissima, ma affilata. Più dura. Non è più una ragazza con la coda di cavallo

in un maglione rosa. Somiglia molto di più alla giovane donna che ha assassinato mio

padre e poi ha bevuto quattro dita del suo scotch più costoso.

Sposta lo sguardo da me alle espressioni stupefatte di Castle e Kenji, alle facce

piuttosto confuse dei nostri tre nuovi ospiti, e sembriamo tutti incapaci di parlare.

«Buongiorno,» dice finalmente, ma non sorride quando lo dice. Non c’è calore, né

gentilezza nei suoi occhi mentre si guarda attorno e io vacillo.

«Dannazione principessa, sei veramente tu?»

Juliette valuta Kenji per un attimo, ma non risponde.

«Chi siete voi tre?» dice, annuendo verso i nuovi arrivati. Loro si alzano in piedi

lentamente. Insicuri.

«Questi sono i nostri nuovi ospiti,» dico, anche se non riesco a guardare nella sua

direzione. Ad affrontarla faccia a faccia. «Li stavo giusto presentando a Castle e

Kishimo...»

«E non pensavi di includermi?» dice una nuova voce. «Anche a me piacerebbe

incontrare il nuovo Comandante Supremo.»

Mi giro per vedere Lena in piedi davanti alla porta, a non più di un metro da Juliette,

che si guarda attorno come se non fosse mai stata più deliziata nella sua vita. Sento il

mio cuore accelerare, la mia mente correre. Non ho idea se Juliette sa chi è Lena, o

cosa eravamo insieme.

E gli occhi di Lena sono luminosi, troppo luminosi, il suo sorriso ampio e felice.

Mi attraversa un brivido.

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Vedendole vicine, non posso fare a meno di notare che le differenze tra loro sono

quasi troppo ovvie. Mentre Juliette è minuta, Lena è alta. Juliette ha capelli scuri ed

occhi profondi, mentre Lena è pallida in ogni modo possibile. I suoi capelli sono

quasi bianchi, i suoi occhi sono azzurro chiarissimo, la sua pelle è quasi traslucida,

tranne che per le numerose lentiggini che le ricoprono le guance e il naso. Ma quello

che le manca in colori, lo maschera con la sua presenza; è sempre stata rumorosa,

aggressiva, ricca di difetti. Juliette al confronto, è cambiata quasi radicalmente

stamattina. Non tradisce nessuna emozione, non un accenno di rabbia o gelosia. Sta

in piedi ferma e tranquilla, studiando silenziosamente la situazione. La sua energia è

silenziosa. Pronta ad esplodere.

E quando Lena si gira a guardarla, sento tutti nella stanza irrigidirsi.

«Ciao,» dice Lena ad alta voce. Falsa felicità trasfigura il suo sorriso, trasformandolo

in qualcosa di crudele. Solleva la mano e dice, «è bello conoscere finalmente la

fidanzata di Warner.» E poi: «Oh, aspetta, mi spiace. Intendevo la ex-fidanzata.»

Trattengo il respiro mentre Juliette la guarda dall’alto in basso.

Si prende il suo tempo, piegando la testa mentre divora Lena con gli occhi e posso

vedere la mano tesa di Lena iniziare a irrigidirsi, le dita aperte iniziare a tremare.

Juliette non sembra colpita.

«Puoi chiamarmi Comandante Supremo del Nord America,» dice.

E poi si allontana.

Sento una risata isterica crescermi nel petto; devo abbassare lo sguardo, sforzarmi di

mantenere un’espressione composta. E poi torno sobrio, all’improvviso, dalla

realizzazione che Juliette non è più mia. Non è più mia da amare, mia da adorare. In

tutto il tempo che la conosco, non sono mai stato più attratto da lei di così e non c’è

niente, niente che possa fare a riguardo. Il mio cuore batte più forte mentre lei si

inoltra nella stanza, una Lena dalla bocca spalancata lasciata in disparte, e sono

scosso dal rimpianto.

Non posso credere che sono riuscito a perderla. Due volte.

Che mi amava. Una volta.

«Per favore identificatevi,» dice ai nostri tre ospiti.

Stephan parla per primo.

«Sono Stephan Feruzi Omondi,» dice, allungando il braccio per stringerle la mano.

«Sono qui in rappresentanza del Comandante Supremo dell’Africa.»

Stephan è alto, solenne e formale, e nonostante sia nato e cresciuto in quella che era

Nairobi, ha studiato inglese all’estero e ora parla con un accento britannico. E dal

modo in cui gli occhi di Juliette scorrono sul suo volto, posso dire che le piace ciò

che vede.

Qualcosa si irrigidisce nel mio petto.

«Anche i tuoi genitori ti hanno mandato a spiarmi, Stephan?» dice, ancora immobile.

Stephan sorride, il movimento anima il suo intero volto, e improvvisamente lo odio.

«Siamo qui solo per salutare,» dice. «Solo una piccola riunione amichevole.»

«Uh-uh. E voi due?» Si gira verso i gemelli. «La stessa cosa?»

Nicolás, il gemello più grande, le sorride e basta. Sembra deliziato. «Sono Nicolás

Castillo,» dice, «figlio di Santiago e Martina Castillo, e questa è mia sorella

Valentina...»

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«Sorella?» lo interrompe Lena. Ha trovato un’altra opportunità per essere crudele e io

non l’ho mai odiata di più. «Lo sta facendo ancora?»

«Lena,» dico, con un avvertimento nella voce.

«Cosa?» Mi guarda. «Perché tutti continuano a comportarsi come se questo fosse

normale? Un giorno il figlio di Santiago decide che vuole essere una ragazza e noi

cosa facciamo? Guardiamo dall’altra parte?»

«Vaffanculo, Lena,» è la prima cosa che dice Valentina da tutta la mattina. «Avrei

dovuto tagliarti le orecchie quando ne ho avuto la possibilità.»

Gli occhi di Juliette si spalancano.

«Uh, scusate,» Kenji sporge la testa in avanti, gesticolando con la mano, «mi sono

perso qualcosa?»

«A Valentina piace giocare a fingersi qualcun altro,» dice Lena.

«Cállate la boca, cabrona,» la aggredisce Nicolás.

«No, sai cosa?» dice Valentina, poggiando una mano sulla spalla del fratello. «Va

bene. Lasciala parlare. Lena pensa che mi piaccia fingermi qualcun altro, però non

starò fingendo cuando cuelge su cuerpo muerto en mi cuarto.»

Lena alza gli occhi al cielo.

«Valentina,» dico. «Per favore, ignorala. Ella no tiene ninguna idea de lo que está

hablando. Tenemos mucho que hacer y no debemo...»

«Dannazione, amico,» mi interrompe Kenji. «Parli anche spagnolo?» Si passa una

mano tra i capelli. «Dovrò abituarmici.»

«Parliamo tutti molte lingue,» dice Nicolás, una nota di irritazione ancora evidente

nella sua voce. «Dobbiamo essere in grado di comunica...»

«Ascoltate ragazzi, non me ne importa niente dei vostri drammi personali,» dice

Juliette all’improvviso, pizzicandosi il ponte del naso. «Ho un terribile mal di testa e

un milione di cose da fare oggi, e mi piacerebbe iniziare.»

«Por su puesto, señorita.» Nicolás inclina leggermente la testa.

«Cosa?» dice lei, sbattendo gli occhi. «Non so cosa significa.»

Nicolás sorride. «Entonces deberías aprender como hablar español.»

Quasi rido, anche mentre scuoto la testa. Nicolás sta facendo il difficile di proposito.

«Basta ya,» gli dico. «Dejala sola. Sabes que ella no habla español.»

«Cosa state dicendo?» chiede Juliette.

Nicolás sorride ancora di più, i suoi occhi blu increspati con delizia. «Niente di grave,

Madam Suprema. Solo che siamo felici di conoscerti.»

«E immagino che parteciperete tutti al simposio oggi?» dice.

Un altro leggero inchino. «Claro que sí.»

«È un sì,» le dico.

«Quali altre lingue parli?» dice Juliette, girandosi per guardarmi, e sono così sorpreso

che si rivolga a me in pubblico che mi dimentico di rispondere.

È Stephan che dice «Ci hanno insegnato molte lingue da quando eravamo piccoli. Era

fondamentale che tutti i comandanti e le loro famiglie potessero comunicare tra loro.»

«Ma pensavo che la Restaurazione volesse eliminare tutte le lingue,» dice. «Pensavo

che steste lavorando ad una singola lingua universale...»

«Sí, Madam Suprema,» dice Valentina annuendo leggermente. «È vero. Ma prima

dovevamo essere in grado di parlarci, no?»

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Juliette sembra affascinata. Ha scordato la sua rabbia abbastanza a lungo da essere di

nuovo sbalordita dalla vastità del mondo; posso vederlo nei suoi occhi. Il suo

desiderio di evadere. «Da dove venite?» dice, la domanda piena di innocenza;

curiosità. Qualcosa che mi spezza il cuore. «Prima che il mondo fosse rimappato,

quali erano i nomi dei vostri paesi?»

«Siamo nati in Argentina,» dicono Nicolás e Valentina nello stesso momento.

«La mia famiglia proviene dal Kenia,» dice Stephan.

«E andavate a trovarvi a vicenda?» Dice, girandosi a guardare le nostre facce.

«Viaggiavate tra i vostri continenti?»

Annuiamo.

«Wow,» dice a bassa voce, principalmente a se stessa. «Deve essere incredibile.»

«Devi venire a visitarci, Madam Suprema,» dice uno Stephan sorridente. «Ci

piacerebbe molto averti con noi. Dopo tutto, sei una di noi ora.»

Il sorriso di Juliette svanisce. Lo sguardo distante e malinconico sul suo viso se ne è

andato troppo velocemente. Non dice niente, ma posso sentire la rabbia e la tristezza

ribollire dentro di lei.

Troppo improvvisamente dice,

«Warner, Castle, Kenji?»

«Si?»

«Si, Miss Ferrars?»

A malapena la guardo.

«Se qui abbiamo finito, mi piacerebbe parlare con voi tre da sola, per favore.»

CAPITOLO 33 JULIETTE

Traduzione: JulietteFerrars

Continuo a pensare di dover mantenere la calma, che è tutto nella mia testa, che

andrà tutto bene e che qualcuno adesso aprirà la porta, qualcuno mi farà uscire di

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qui. Continuo a pensare che accadrà. Continuo a pensare che deve accadere, perché

queste cose non succedono in questo modo. Non succede. Le persone non vengono

dimenticate in questo modo. Non vengono abbandonate in questo modo.

Non succede in questo modo.

Ho la faccia incrostata di sangue dopo che mi hanno buttata a terra e mi tremano

ancora le mani mentre lo scrivo. Questa penna è il mio unico sfogo, la mia unica

voce, perché non ho nessun altro con cui parlare, nessun’altra mente oltre la mia in

cui annegare e le scialuppe di salvataggio sono state già prese e tutti i giubbotti di

salvataggio sono rotti e non so come nuotare non so nuotare non so nuotare e sta

diventando così difficile. Sta diventando così difficile. È come se ci fossero un milione

di urla imprigionate nel mio petto ma devo tenerle tutte dentro perché qual è il senso

di urlare se nessuno ti sentirà mai e nessuno mi sentirà mai qui dentro. Nessuno mi

sentirà mai più.

Ho imparato a fissare le cose.

I muri. Le mie mani. Le crepe nei muri. Le linee sulle mie dita. Le sfumature di grigio

nel cemento. La forma delle mie unghie. Scelgo una cosa e la fisso per ciò che

devono essere ore. Tengo il conto del tempo contando i secondi mentre scorrono.

Tengo il conto dei giorni nella mia mente scrivendoli. Oggi è il secondo giorno. Oggi

è il secondo giorno. Oggi è un giorno.

Oggi.

Fa così freddo. Fa così freddo fa così freddo.

Per favore per favore per favore

UN ESTRATTO DAL DIARIO DI JULIETTE NEL MANICOMIO

Li sto ancora fissando aspettando una conferma, quando all’improvviso Kenji apre

bocca con un sussulto.

«Uh, sì… Non, uh, non c’è problema» dice.

«Certamente,» dice Castle.

E Warner non dice niente, guardandomi come se riuscisse a vedermi attraverso e per

un attimo tutto ciò che riesco a ricordare sono io, nuda, mentre lo imploro a unirsi a

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me nella doccia; io, raggomitolata tra le sue braccia piangendo, dicendogli quanto mi

manchi; io, mentre gli tocco le labbra…

Faccio una smorfia, mortificata. Tutto il mio corpo viene colto da un vecchio istinto,

e arrossisco.

Chiudo gli occhi e mi volto, girandomi bruscamente mentre lascio la stanza senza

proferire parola.

«Juliette, tesoro… »

Sono già a metà del corridoio quando sento la sua mano sulla mia schiena e mi

irrigidisco, il mio battito accelera in un attimo. Quando mi giro vedo la sua faccia

cambiare, i suoi lineamenti mutano da spaventati a sorpresi in meno di un secondo e

mi fa così arrabbiare il fatto che abbia questa abilità, questo potere di riuscire a

sentire le emozioni degli altri, perché sono sempre così trasparente ai suoi occhi, così

totalmente vulnerabile ed è esasperante, esasperante.

«Che c’è?» dico. Cerco di usare un tono duro, invece mi riesce tutt’altro. Una voce

ansante. Imbarazzante.

«Volevo solo… » ma gli cade la mano. I suoi occhi catturano i miri e di colpo il

tempo si ferma. «Volevo dirti… »

«Cosa?» E ora questa parola è silenziosa e nervosa e terrorizzata, tutto in una volta.

Faccio un passo indietro per salvarmi la vita e scorgo Castle e Kenji che camminano

troppo lentamente in fondo al corridoio; stanno mantenendo le distanze di proposito,

dandoci spazio per parlare. «Cosa vuoi dirmi?»

Ma ora gli occhi di Warner si stanno muovendo, studiandomi. Mi guarda con

un’intensità tale da chiedermi se sia al corrente del fatto che lo stia facendo. Mi

chiedo se sappia che quando mi guarda così riesco a sentirlo così intensamente che è

come se la sua pelle nuda fosse contro la mia, che muove qualcosa dentro di me

quando mi guarda così e mi fa diventare pazza, perché odio il fatto che non riesca a

controllarlo, che questa connessione tra di noi resti integra e alla fine dice,

dolcemente,

qualcosa

qualcosa che non riesco a sentire

perché gli sto guardando le labbra e sento la mia pelle accendersi con dei ricordi di

lui ed era solo ieri, solo ieri quando era mio, quando sentivo la sua bocca sul mio

corpo, quando riuscivo a sentirlo dentro di me…

«Come?» riesco a dire, sbattendo le palpebre.

«Ho detto che mi piace molto ciò che hai fatto ai capelli.»

E lo odio, lo odio perché sta facendo questo al mio cuore, odio il mio corpo per essere

così debole, perché lo vuole, gli manca, nonostante tutto e non so se piangere o

baciarlo o dargli un calcio nei denti, quindi gli dico, senza incontrare il suo sguardo

«Quando volevi dirmi di Lena?»

Allora si blocca; immobile in un attimo. «Oh… » si schiarisce la voce, «non avevo

capito che avessi sentito parlare di Lena.»

Assottiglio lo sguardo, non fidandomi abbastanza di me stessa per parlare e sto

ancora cercando di decidere il modo migliore quando dice

«Kenji aveva ragione,» ma sussurra le parole, perlopiù tra sé e sé.

«Come?»

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Alza lo sguardo. «Perdonami,» dice dolcemente, «Avrei dovuto dirtelo prima. Ora lo

capisco.»

«Allora perché non l’hai fatto?»

«Io e lei,» dice, «eravamo… Non eravamo nulla. Era una relazione di convenienza e

di semplice compagnia. Non ha significato niente per me. Davvero,» dice, «devi

sapere che… Se non ho mai detto niente a riguardo, era solo perché non ho mai

pensato a lei abbastanza a lungo da persino considerare l’idea di parlarne.»

«Ma siete stati insieme per due anni… »

Scuote la testa prima di dire, «non è come credi. Non era niente di serio. Non sono

stati neanche due anni di comunicazione continua.» Sospira, «Amore, lei vive in

Europa. Ci vedevamo poco e sporadicamente. Era solo una cosa fisica. Non era una

vera relazione… »

«Solo una cosa fisica,» dico, scioccata. Indietreggio, quasi inciampando da sola e

sento le sue parole lacerarmi la carne con un violento dolore fisico che non mi

aspettavo. «Wow. Wow.»

E ora non riesco a pensare ad altro che ai loro corpi, intrecciati, i due anni che lui ha

passato nudo tra le braccia di lei…

«No… Per favore,» dice, l’insistenza nelle sue parole mi riporta al presente. «Non

intendevo quello. È solo che… Sono… Non so come spiegarlo» continua, frustrato

come mai prima d’ora. Scuote la testa, forte. «Prima di incontrarti era tutto diverso

nella mia vita. Ero perso e solo. Non mi importava di nessuno. Non volevo

avvicinarmi a nessuno. Non ho mai… Tu sei stata la prima persona a… »

«Basta,» dico, scuotendo la testa. «Smettila, va bene? Sono così stanca. La testa mi

sta uccidendo e non ho le energie per sentire altre cose.»

«Juliette… »

«Quanti altri segreti hai?» Gli chiedo. «Quante altre cose verrò a sapere su di te? Su

di me? Sulla mia famiglia? Sulla mia storia? Sulla Restaurazione e sui dettagli della

mia vera vita?»

«Ti giuro che non ho mai voluto ferirti» dice. «E non voglio tenerti nascoste delle

cose. Ma tutto questo è così nuovo per me, amore. Questo tipo di relazione è così

nuovo per me e non… Non so come… ».

«Mi hai già tenuto nascoste così tante cose,» gli dico, sentendo le forze venir meno,

sentendo il peso di questo mal di testa martellante che spezza la mia corazza,

sentendo troppo, troppo in una volta sola quando dico «ci sono così tante cose di te

che non so. Così tante cose che non so del tuo passato. Del nostro presente. E non ho

idea a cosa credere ora.»

«Chiedimi qualsiasi cosa,» dice, «Ti dirò qualsiasi cosa tu voglia sapere…».

«Tranne la verità su di me? Sui miei genitori?»

Warner sembra improvvisamente pallido.

«Me l’avresti tenuta nascosta per sempre,» gli dico, «non avevi intenzione di dirmi la

verità. Che sono stata adottata. Vero?»

I suoi occhi sono agitati, pieni di emozioni.

«Rispondi alla domanda» dico. «Almeno dimmi solo questo.» Faccio un passo in

avanti, così vicina che riesco a sentire il suo respiro sul mio viso; così vicina che

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riesco quasi a sentire il suo cuore che gli batte forte nel petto. «Me l’avresti detto

prima o poi?»

«Non lo so.»

«Dimmi la verità.»

«Onestamente, tesoro,» dice, scuotendo la testa, «con tutta probabilità, te l’avrei

detto.» E sospira di colpo. L’azione sembra logorarlo. «Non so come convincerti del

fatto che credevo che ti stessi risparmiando il dolore di quella particolare verità.

Credevo davvero che i tuoi genitori biologici fossero morti. Ora mi rendo conto che

mantenere questo segreto non era la cosa giusta da fare, comunque, di solito non

faccio mai la cosa giusta,» dice a bassa voce, «ma devi credermi, non ho mai voluto

farti del male. Non ho mai voluto mentirti o tenermi intenzionalmente delle

informazioni per me. E credo davvero che con il tempo ti avrei detto ciò che sapevo

fosse la verità. Stavo solo aspettando il momento giusto.»

All’improvviso non sono sicura di cosa provare.

Lo guardo, i suoi occhi rivolti verso il basso, il movimento nella sua gola mentre

ingoia nuovamente le sue emozioni. E qualcosa va in pezzi dentro di me. Qualche

misura di resistenza inizia a sgretolarsi.

Sembra così vulnerabile. Così giovane.

Faccio un respiro profondo ed espiro, lentamente, poi alzo lo sguardo, guardo di

nuovo il suo viso e lo vedo, vedo il momento in cui lui percepisce il cambiamento nei

miei sentimenti. Qualcosa si ravviva nei suoi occhi. Fa un passo in avanti e ora siamo

così vicini che ho paura di parlare. Il cuore mi sta battendo troppo forte nel petto e

non devo fare assolutamente nulla per ricordarmi tutto, ogni momento, ogni tocco che

ci siamo scambiati. Il suo profumo mi circonda. Il suo calore. Il suo respiro. Ciglia

dorate e occhi verdi. Gli tocco il viso, quasi senza volerlo, con delicatezza, come se

potesse essere un fantasma, come se questo potesse essere un sogno e gli sfioro la

guancia con la punta delle dita, traccio la linea della sua mascella e mi fermo quando

il suo respiro accelera, quando il suo corpo trema quasi in modo impercettibile

e ci avviciniamo l’uno all’altra come istintivamente

chiudiamo gli occhi

le labbra si toccano appena

«Dammi un’altra possibilità,» sussurra, appoggiando la fronte alla mia.

Mi fa male il cuore, mi martella nel petto.

«Ti prego,» dice dolcemente e ora è più vicino in qualche modo, le sue labbra

toccano le mie quando parla e mi sento bloccata dall’emozione, incapace di

muovermi mentre preme le parole contro la mia bocca, le sue mani sono morbide e

titubanti intorno al mio viso e dice, «lo giuro sulla mia vita» dice, «non ti deluderò.»

e mi bacia

Mi bacia

proprio qui, nel bel mezzo di tutto, davanti a tutti e vengo inondata, invasa

dall’emozione, mi gira la testa mentre lui mi stringe contro la linea dura del suo corpo

e non posso salvarmi da me stessa, non posso fermare il suono che emetto quando

schiude le labbra e sono persa, persa nel suo sapore, persa nel suo calore, avvolta

nelle sue braccia e

devo separarmi da lui

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tirandomi indietro così in fretta che per poco non inciampo. Sto respirando troppo in

fretta, ho il viso arrossato, le emozioni in preda al panico.

E lui riesce solo a guardarmi, con il petto che si alza e si abbassa con un’intensità che

riesco a sentire da qui, da un metro di distanza, e non riesco a pensare a qualcosa di

giusto o di sensato da dire riguardo a ciò che è appena successo o a ciò che sento

tranne

«Non è giusto» sussurro. Delle lacrime minacciano di uscire, mi pungono gli occhi.

«Non è giusto.»

E non aspetto la sua risposta, scappo via per il corridoio, correndo per il resto del

tragitto fino ai miei alloggi.

CAPITOLO 34

WARNER Traduzione: Shadow211

«Problemi in paradiso, signor Warner?»

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Vedo lo shock apparire sul suo volto, quando si ritrova un secondo dopo sbattuto al

muro mentre lo tenevo per la gola. «Tu.» Dico arrabbiato. «Mi hai infilato tu in

questa situazione. Perché?»

Castle cerca di deglutire, inutilmente, i suoi occhi sono spalancati, ma non mostrano

paura nei miei confronti. Quando finalmente parla, le sue parole mi giungono rauche

e flebili. «Perché doveva farlo lei.» Risponde. «Doveva succedere prima o poi.

Qualcuno doveva avvertirla e quel qualcuno doveva essere lei.»

«Non ti credo!» Gli urlo contro, mentre lo sbatto con violenza contro il muro una

seconda volta. «Non so nemmeno perché mai mi sono fidato di te.»

«Ti prego, figliolo. Lasciami andare.»

Allento la presa di poco e lo vido respirare profondamente per alcuni minuti prima di

dire: «Non ti ho mai mentito, signor Warner. Doveva sapere la verità. E se glielo

avesse detto qualcun altro, non ti avrebbe mai perdonato. Stando così le cose…» Si

schiarisce la gola. «col tempo, potrebbe farlo. Era l’unico modo per assicurarle

un’occasione per essere felice.»

Non dice altro, si limita a massaggiarsi la gola e a fissarmi intensamente. Poi, dopo

un’eternità, aggiunge: «Pensi davvero che non sappia cosa ti ha fatto tuo padre? Che

cosa ti ha fatto passare?»

Indietreggio.

«Pensi che non conosca la tua storia, figliolo? Pensavi davvero che ti avrei permesso

di entrare nel mio mondo, ti avrei accolto tra la mia gente, se avessi davvero pensato

che avresti potuto farci del male?»

Non riusco a respirare, le sue parole mi hanno reso confuso e vulnerabile.

«Non sai niente di me.» E mentre le parole escono dalla mia bocca, già so che non è

la verità.

Castle mi risponde con un sorriso amaro. «Sei solo un ragazzo.» Dice sottovoce. «Hai

solo diciannove anni, signor Warner, anche se ti comporti come se non lo sapessi.

Non hai ancora capito di essere al mondo da così poco tempo e che hai tutta una vita

di fronte a te.» Sospira. «Ho provato a dire le stesse cose a Kenji, ma siete simili.

Testardi come muli.» Dice.

«Non sono come lui.»

«Sai che hai un anno meno di lui?»

«L’età non c’entra nulla. Quasi tutti i miei soldati sono più vecchi di me.»

Castle ride alle mie parole.

«Tutti voi…» Dice, scuotendo la testa. «avete sofferto così tanto. Avete assistito a

tutte questi orribili e tragici eventi. A queste personalità volatili. Ho sempre voluto

aiutarvi…» Aggiunge. «Ho sempre voluto cambiare le cose. Rendere il mondo

migliore per voi.»

«Beh, puoi andare a cambiare il mondo da un’altra parte.» Rispondo. «E sentiti pure

libero di continuare a fare da mamma chioccia a Kishimoto. Ma io non sono una tua

responsabilità. Non ti devi preoccupare per me.»

Castle alza lo sguardo su di me. «Mi preoccuperò sempre per lei, signor Warner.»

Serro la mascella.

«Voi ragazzi…» Aggiunge, con lo sguardo perso nel vuoto, «mi ricordate i miei

figli.»

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Rimango a guardarlo a bocca aperta. «Hai dei figli?»

«Sì.» Risponde. E un’ondata di dolore mi travolge quando aggiunge: «Avevo.»

Indietreggio, travolto dalla potenza del suo dolore. Non riesco a distogliere lo

sguardo. Sono sorpreso. Curioso.

Dispiaciuto.

«Ehi.»

Mi volto di scatto, spaventato, quando sento la voce di Nazeera. Lei e Haider ci

stanno osservando seri.

«Che c’è?» Chiedo.

«Dobbiamo parlare.» Si rivolge poi a Castle. «Lei è Castle, giusto?» Lui annuisce.

«Bene, sappiamo che un esperto, Castle, quindi avremo bisogno anche del suo aiuto.»

Dice Nazeera, indicando con le sue dita tutti e quattro i presenti. «Dobbiamo parlare,

adesso.»

CAPITOLO 35 JULIETTE

Traduzione: Layola

È una cosa strana, non sapere cos’è la pace. Sapere che non importa dove vai, non

c’è un posto sicuro. Che la minaccia del dolore è sempre a distanza di un sospiro.

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Non sono al sicuro rinchiusa tra queste 4 mura, non ero al sicuro lasciando la mia

casa e non mi sono mai sentita al sicuro nei 14 anni che ho vissuto a casa. Il

manicomio uccide le persone ogni giorno, al mondo è già stato insegnato di temermi

e la mia casa è lo stesso posto dove mio padre mi chiudeva a chiave nella mia stanza

ogni notte e mia madre mi urlava contro per essere l’abominio che era stata costretta

a crescere.

Lei diceva sempre che era il mio viso.

C’era qualcosa nel mio viso, diceva, che non riusciva a guardare. Qualcosa nei miei

occhi, il modo in cui la guardavo, anche il solo fatto che esistessi. Mi diceva sempre

di smettere di guardarla. Lo urlava sempre. Come se potessi attaccarla. Smettila di

guardarmi, urlava. Smettila di guardarmi, urlava.

Una volta mi ha messo le mani nel fuoco.

Solo per vedere se mi sarei bruciata, diceva. Solo per controllare se era una mano

normale, diceva.

Avevo 6 anni.

Lo ricordo perché era il mio compleanno.

- UN ESTRATTO DAL QUADERNO DI JIULIETTE AL MANICOMIO

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«Non importa» è tutto quello che dico quando Kenji si presenta alla mia porta.

«Non importa cosa?» Kenji infila il piede nella porta per impedirmi di chiuderla.

Ora sta facendo forza per entrare. «Che succede?»

«Non importa, non voglio parlare con nessuno di voi. Per favore, va via. O magari

potete andare tutti all’inferno. In realtà non mi importa.»

Kenji sembra sbalordito, come se lo avessi appena schiaffeggiato. «Sei... aspetta, sei

seria in questo momento?»

«Io e Nazeera andremo al simposio tra un’ora. Devo prepararmi.»

«Cosa? Che sta succedendo, J? Cosa c’è che non va?»

Mi giro a guardarlo. «Cosa c’è che non va? Oh, come se tu non lo sapessi?»

Kenji si passa una mano tra i capelli. «Voglio dire, ho sentito cosa è successo con

Warner, ma sono abbastanza sicuro di avervi appena visti pomiciare nel corridoio,

quindi sono veramente confuso...»

«Mi ha mentito, Kenji. Mi ha mentito per tutto questo tempo. Riguardo a così tante

cose. E anche Castle. E anche tu...»

«Aspetta, cosa?» Mi afferra il braccio mentre mi giro. «Aspetta, non ti ho mentito

riguardo a niente. Non mettermi in mezzo a questo casino. Non ho niente a che fare

con questa storia. Diavolo, non ho ancora capito cosa dire a Castle. Non posso

credere che mi abbia tenuto all’oscuro di tutto questo.»

Mi immobilizzo immediatamente, chiudo i pugni mentre la rabbia cresce e si spezza,

portando veloce un’improvvisa speranza. «Tu non c’entri niente in tutto questo?»

dico. «Con Castle?»

«Assolutamente no. Non avevo nessuna idea di questa follia fino a quando Warner

me lo ha detto ieri.»

Esito.

Kenji alza gli occhi al cielo.

«Beh, come faccio a fidarmi di te?» dico, la mia voce che si alza di tono come un

bambino. «Mi hanno mentito tutti...»

«J,» dice, scuotendo la testa. «Avanti. Mi conosci. Sai che non dico stronzate. Non è

il mio stile.»

Deglutisco forte, sentendomi improvvisamente piccola. Sentendomi improvvisamente

rotta dentro. I miei occhi bruciano e combatto l’impulso di piangere. «Lo giuri?»

«Ehi,» dice delicatamente. «Vieni qui ragazzina.»

Faccio un passo avanti esitante e lui mi avvolge tra le sue braccia, caldo, forte e

sicuro e non sono mai stata così grata per la sua amicizia, per la sua presenza stabile

nella mia vita.

«Andrà tutto bene,» sussurra. «Lo giuro.»

«Bugiardo.»

«Beh, c’è il cinquanta percento di possibilità che abbia ragione.»

«Kenji?»

«Mmm?»

«Se scopro che mi hai mentito riguardo a qualcosa di tutto questo, giuro su Dio che ti

romperò tutte le ossa del corpo.»

Una breve risata. «Già, ok.»

«Sono seria.»

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«Uh-uh.» Mi dà delle pacche sulla testa.

«Lo farò.»

«Lo so, principessa. Lo so.»

Passano diversi secondi di silenzio.

E poi

«Kenji,» dico a bassa voce.

«Mmm?»

«Distruggeranno il Settore 45.»

«Chi?»

«Tutti.»

Kenji si allontana. Solleva un sopracciglio. «Tutti chi?»

«Tutti gli altri comandanti supremi,» dico. «Nazeera mi ha detto tutto.»

Inaspettatamente sul viso di Kenji si apre un enorme sorriso. «Oh, quindi Nazeera è

una dei buoni, eh? È nella nostra squadra? Cerca di aiutarti?»

«Oh mio Dio, Kenji, per favore concentrati...»

«Sto solo dicendo,» dice, tenendosi le mani. «Sto solo dicendo che la ragazza sta

benissimo.»

Alzo gli occhi al cielo. Cerco di non ridere mentre asciugo delle lacrime vaganti.

«Quindi.» Inclina la testa verso di me. «Qual è l’accordo? Quali sono i dettagli? Chi

sta arrivando? Quando? Come? Et cetera?»

«Non lo so,» dico. «Nazeera sta ancora cercando di capirlo. Pensa forse la prossima

settimana o qualcosa del genere? I ragazzini sono qui per monitorarmi e inviare

informazioni, ma verranno al simposio, specificatamente, perché apparentemente i

comandanti vogliono sapere come i leader degli altri settori reagiranno nel vedermi.

Nazeera crede che le informazioni li aiuteranno a programmare le loro prossime

mosse. Immagino che sarà una questione di giorni.»

Gli occhi di Kenji si allargano, pieni di panico. «Oh, merda.»

«Già, ma quando decideranno di spazzare via il Settore 45, il loro piano è anche

quello di farmi prigioniera. La Restaurazione vuole riprendermi, apparentemente.

Qualsiasi cosa questo significhi.»

«Riprenderti?» Kenji si immobilizza. «Per cosa? Altri test? Torture? Cosa vogliono

fare con te?»

Scuoto la testa. «Non ne ho idea. Non so chi siano queste persone. Mia sorella,» dico,

le parole sembrano strane mentre le pronuncio. «apparentemente viene ancora testata

e torturata da qualche parte. Quindi sono abbastanza sicura che non vogliono

riprendermi per fare una grande riuonione di famiglia, sai?»

«Wow.» Kenji si sfrega la fronte. «Questo è un dramma di tutt’altro livello.»

«Già.»

«Quindi cosa farai?»

Esito. «Non lo so, Kenji. Stanno venendo ad uccidere tutti nel Settore 45. Non penso

di avere una scelta.»

«Cosa vuoi dire?»

Alzo lo sguardo. «Voglio dire che sono piuttosto sicura che dovrò ucciderli per

prima.»

CAPITOLO 36

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WARNER

Traduzione: Shadow211

Il mio cuore sta battendo all’impazzata. Le mie mani tremano e sono sudate. Ma non

ho tempo per preoccuparmi di questo. Quello che mi ha detto Nazeera mi sta facendo

impazzire. Posso solo sperare che si sbagli. Posso solo sperare disperatamente che

abbia torto perché non c’è tempo per preoccuparci di questo. Non posso più perdere

tempo per queste fragili e inaffidabili emozioni umane.

Devo concentrarmi sul presente.

E devo farlo da solo.

Oggi sarò solo un soldato, un robot perfetto se serve, con spalle dritte e uno sguardo

che non rivelerà nessuna emozione mentre il nostro comandante supremo Juliette

Ferrars entrerà sul palco.

Siamo tutti qui oggi, un piccolo squadrone posto alle sue spalle come un gruppo di

guardie personali – io, Delalieu, Castle, Kenji, Ian, Alia, Lily, Brendan e Winston – e

persino Nazeera, Haider, Lena, Stephan,Valentina e Nicolàs sono insieme a noi,

fingendosi solidali mentre lei parla. Mancano solo Sonya, Sara, Kent e James, che

sono rimasti a presidiare la base. A Kent non importa nient’altro che tenere al sicuro

James ultimamente e non posso certo biasimarlo. Certe volte mi trovo a desiderare di

rinunciare a questa vita pure io.

Stringo gli occhi, cercando di ricompormi.

Non vedo l’ora che finisca.

La scelta del luogo dove svolgere il simposio semestrale è molto flessibile e,

solitamente, a rotazione. Ma, visto che avevamo un nuovo Comandante Supremo,

l’evento era stato spostato al Settore 45 ed eravamo riusciti ad organizzare tutto solo

grazie a Delalieu. Riesco a sentire varie emozioni propagarsi dal nostro gruppo, ma

sono talmente mischiate che non riesco a distinguere chi prova paura da chi è

indifferente. Mi concentro sul gruppo di spettatori e sul nostro capo, dopotutto sono

le uniche reazioni importanti in questo momento. E benché avessi partecipato a buona

parte di questi simposi nel corso della mia vita, non avevo mai percepito una tale

scarica elettrica provenire dagli spettatori.

Non sono presenti solo gli altri 554 capi comandanti e reggenti, ma anche le loro

mogli e molti membri dei loro staff. É un evento senza precedenti: tutti hanno

accettato il loro invito. Nessuno voleva perdersi l’opportunità di incontrare il nuovo

leader diciassettenne dell’America del Nord, no. Erano curiosi, affamati. Lupi

travestiti da umani, pronti a fare a pezzi una ragazzina che avevano già sottovalutato.

Se i poteri di Juliette non l’avessero resa sostanzialmente immortale, sarei

terrorizzato a pensarla da sola e senza protezione di fronte a tutti i suoi nemici. I civili

di questo settore tifano per lei, certo, ma il resto del continente non è interessato allo

sconvolgimento che stava portando sulla loro terra… o alla minaccia che lei

costituiva per il loro rango nella Restaurazione. Gli uomini e le donne che ha di

fronte oggi, sono pagati per restare fedeli ad un'altra fazione. Non si rivedono nella

sua causa e nella sua lotta per la gente comune.

Non so quanto potrebbero lasciarla parlare prima di farla a pezzi.

Ma non devo aspettare molto per scoprirlo.

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Juliette ha appena iniziato il suo discorso, accennando ai problemi della

Restaurazione e al bisogno di un nuovo inizio, quando gli spettatori iniziano ad

agitarsi. Scattano in piedi, alzando i loro pugni e urlando contro di lei e la mia mente

si disconnette mentre vedo a rallentatore la situazione cambiare di fronte a me. Lei

non reagisce.

Uno dopo l’altro, sedici persone si alzano in piedi, ma lei non smette di parlare. Metà

della stanza inveisce contro di lei e posso sentire la rabbia e la frustrazione propagarsi

dal suo corpo, ma non so come, mantiene il controllo. Più le urla aumentano, più si

rafforza la sua voce; il tono con cui parla è così alto che sta quasi urlando. Passo lo

sguardo da lei alla folla, cercando di decidere cosa fare. Lo sguardo di Kenji cattura il

mio e ci capiamo senza il bisogno di parole.

Dobbiamo intervenire.

Juliette ha denunciato il piano della Restaurazione di eliminare le lingue e la

letteratura, parla della sua speranza di spostare i civili fuori dalle basi e sta iniziando

a trattare la sua preoccupazione per il clima quando esplode un colpo di pistola nella

stanza.

Un minuto di silenzio e poi…

Juliette estrae il proiettile dalla sua fronte e lo getta a terra. La stanza viene scossa dal

soave rumore del metallo che sbatte sul marmo.

Ed ecco il caos.

Centinaia e centinaia di persone si alzano, gridano verso di lei, minacciandola e

puntandole le pistole contro e riesco a sentire che siamo ad un passo dal perdere il

controllo della situazione.

Ci sono altri spari e quando riusciamo ad elaborare un piano, è già troppo tardi.

Brendan cade a terra con un improvviso e orribile gemito. Winston lo prende al volo,

urlando.

Eccoci.

Juliette si irrigidisce e la mia mente mi fa di nuovo vedere a rallentatore quello che

sta accadendo intorno a noi.

Riesco a vederlo prima ancora che accada: sento il cambiamento nell’aria. Il calore si

propaga intorno a lei, le lingue di potere si dipanano come saette pronte a colpire e

non posso fare altro che trattenere il respiro, quando…

Urla.

Un urlo lungo, fragoroso e violento.

Il mondo si offusca per un secondo e per un attimo tutto rimane immobile: i corpi

contorti, le facce sconvolte dalla rabbia; tutto rimane immobile…

Le assi del pavimento si staccano da terra e si schiantano contro il muro con un suono

simile ai tuoni in una tempesta. Le luci oscillano orribilmente, prima di schiantarsi al

suolo.

E poi, tocca alle persone.

Ogni singolo essere umano di fronte a lei. 554 persone e i loro invitati.

I loro volti, i loro corpi, persino le sedie dov’erano seduti vengono sventrate come

pesci. La loro pelle si protende verso l’esterno, gonfiandosi lentamente mentre un

rivolo costante di sangue crea delle pozze ai loro piedi.

E alla fine, muoiono tutti.

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CAPITOLO 37

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JULIETTE

Traduzione: Rossi14

Ho iniziato ad urlare oggi

-UN ESTRATTO DAL QUADERNO DI JULIETTE AL MANICOMIO

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Eri felice

Eri triste

Eri spaventata

Eri folle

La prima volta che hai urlato?

Stavi combattendo per la tua vita per il tuo pudore per la tua dignità per la tua

umanità

Quando qualcuno adesso ti tocca, tu urli?

Quando qualcuno adesso ti sorride, tu gli sorridi di rimando?

Ti diceva di non urlare - ti ha picchiata quando hai pianto?

Aveva un naso due occhi due labbra due guance due orecchie due sopracciglia.

Era un essere umano proprio come te.

Definisci la tua personalità. Forme e dimensioni sono differenti.

Il tuo cuore è un’anomalia.

Le tue azioni

sono

le sole

tracce

che ti lasci

alle spalle.

-UN ESTRATTO DAL QUADERNO DI JULIETTE AL MANICOMIO

Page 176: The Books We Want To Readthebookswewantoread.altervista.org/wp-content/uploads/...Sbatto le palpebre e lui ancora non mi sta baciando. «Ed è mia sincera speranza» dice, «che tu

A volte penso che le ombre si muovano.

A volte penso che qualcuno stia osservando.

A volte questa idea mi spaventa e a volte questa idea mi rende così assurdamente

felice che non posso fare a meno di piangere.

E dopo a volte penso che non ho idea di quando ho iniziato a perdere il senno qui

dentro.

Nulla sembra più reale e non so se sto urlando ad alta voce o soltanto nella mia

testa.

Non c’è nessuno qui che mi senta.

Che mi dica che non sono morta.

-UN ESTRATTO DAL QUADERNO DI JULIETTE AL MANICOMIO

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Non so quando è cominciata.

Non so perché sia cominciata.

Non so niente di niente a parte che le urla.

Mia madre che urla quando capisce di non potermi più toccare.

Mio padre che urla quando capisce cosa ho fatto a mia madre.

I miei genitori che urlano mi chiudono dentro la mia stanza e mi dicono di essere

grata. Per il loro cibo. Per il trattamento umano che riservano a questa cosa che non

è impossibile sia la loro bambina.

Per il metro che usano per misurare la distanza a cui mi devo mantenere.

Ho rovinato le loro vite, è ciò che mi dicevano.

Ho rubato la loro felicità.

Distrutto la speranza di mia madre di avere ancora figli.

Non riuscivo a capire cosa avevo fatto?

Era quello che mi chiedevano.

Non riuscivo a capire che avevo rovinato tutto?

Ho provato così tanto a sistemare ciò che avevo rovinato.

Ho provato ogni singolo giorno ad essere ciò che volevano.

Ho sempre provato ad essere migliore ma non ho mai realmente saputo come fare.

Sapevo soltanto che gli scienziati si sbagliavano.

La terra è piatta.

Lo so perché sono stata buttata al di fuori dal bordo e sto provando a resistere da

diciassette anni. Sto provando a risalire da diciassette anni ma è quasi impossibile

sconfiggere la gravità quando nessuno è disposto a darti una mano.

Quando nessuno vuole rischiare, toccandoti.

-UN ESTRATTO DAL QUADERNO DI JULIETTE AL MANICOMIO

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Sono già pazza?

È già successo?

Come potrò mai saperlo?

-UN ESTRATTO DAL QUADERNO DI JULIETTE AL MANICOMIO

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C’è un momento di puro, perfetto silenzio prima che ogni cosa, ogni cosa esploda.

All’inizio non realizzo neanche cosa ho fatto. Non capisco cosa sia appena successo.

Non intendevo uccidere questa gente…

E poi, improvvisamente

Mi colpisce.

La schiacciante consapevolezza di aver appena massacrato una stanza di seicento

persone.

Sembra impossibile. Sembra falso. Non ci sono proiettili. Nessun eccesso di forza,

nessuna violenza. Solo un lungo rabbioso grido.

«Basta» urlo. Ho chiuso forte gli occhi e gridato, la rabbia e il dolore e la

stanchezza e la schiacciante devastazione riempiono i miei polmoni. Era il peso delle

ultime settimane, il dolore di tutti questi anni, l’imbarazzo di tutte le false speranze

costruite nel mio cuore, il tradimento, la perdita-

Adam. Warner. Castle.

I miei genitori, reali e immaginari.

Una sorella che non dovrei conoscere. Le bugie che costituiscono la mia vita. Le

minacce contro la popolazione innocente del Settore 45. La morte certa che mi

attende. La frustrazione di avere così tanto potere, così tanto potere e sentirsi

assolutamente, completamente impotente.

«Per favore» urlo. «Per favore, basta.»

E adesso…

Adesso questo.

Le mie membra sono intorpidite dall’incredulità. Le mie orecchie sono piene di

vento, la mia mente disconnessa dal corpo. Non potevo aver ucciso così tante

persone, penso, non potevo aver appena ucciso tutte queste persone non è possibile,

penso, non è possibile, penso, non è possibile, non è possibile che io abbia aperto la

bocca e poi questo.

Kenji sta provando a dirmi qualcosa, qualcosa che suona come dobbiamo

andarcene da qui, veloce, dobbiamo andare adesso…

Ma sono intorpidita, sono debole, sono incapace di mettere un piede davanti

all’altro e qualcuno mi sta trascinando, mi sta costringendo a muovermi e sento

esplosioni.

E improvvisamente la mia mente diventa lucida.

Boccheggio e mi giro intorno cercando Kenji, ma lui non c’è più. La sua maglietta

è intrisa di sangue, viene trascinato via in lontananza, i suoi occhi chiusi a metà e…

Warner in ginocchio, con le mani ammanettate dietro la schiena.

Castle è privo di sensi, a terra, il sangue che fuoriesce dal suo petto.

Winston sta ancora gridando, anche se qualcuno lo sta trascinando via.

Brendan è morto.

Lily, Ian, Alia, morti.

Ed io sto provando a riconnettere la mia mente, sto provando a superare il tremito

che scuote il mio corpo, e la mia testa gira, gira e vedo Nazeera con la coda

dell’occhio, con la testa tra le mani e qualcuno mi tocca e sussulto.

Mi allontano.

«Che sta succedendo?» dico a nessuno in particolare. «Che succede?»

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«Hai fatto uno splendido lavoro, tesoro. Ci hai resi veramente fieri. La

Restaurazione è veramente grata del sacrificio che hai fatto.»

«Chi sei?» chiedo, alla ricerca della voce.

E dopo li vedo, un uomo e una donna inginocchiati di fronte a me, ed è solo dopo

che realizzo che sono sdraiata al suolo, paralizzata.

Le mie braccia e le mie gambe sono legati da pulsanti fili elettrici.

Provo a liberarmene ma non ci riesco.

I miei poteri sono stati disattivati.

Guardo in alto verso questi sconosciuti, occhi grandi e spaventosi. «Chi siete?»

chiedo di nuovo, lottando ancora contro ciò che mi immobilizza. «Che cosa volete da

me?»

«Sono il Comandante Supremo dell’Oceania» la donna mi dice, sorridendo. «Tuo

padre ed io siamo venuti per portarti a casa.»

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CAPITOLO 38 WARNER

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CAPITOLO 39

JULIETTE

Traduzione: Layola

Perché non ti uccidi e basta? mi ha chiesto qualcuno a scuola un volta.

Penso che fosse il tipo di domanda intenzionalmente crudele, ma è stata la prima

volta che ne ho veramente contemplato la possibilità. Non sapevo cosa rispondere.

Forse ero pazza a considerarlo, ma avevo sempre sperato che se fossi stata

abbastanza brava, se avessi fatto tutto nel modo giusto, se avessi detto le cose giuste

o non avessi detto niente, pensavo che i miei genitori avrebbero cambiato idea.

Pensavo che mi avrebbero finalmente ascoltata quando cercavo di parlare. Pensavo

che mi avrebbero dato una possibilità. Pensavo che avrebbero finalmente potuto

amarmi.

Ho sempre avuto questa stupida speranza.

-UN ESTRATTO DAL QUADERNO DI JIULIETTE AL MANICOMIO

Page 183: The Books We Want To Readthebookswewantoread.altervista.org/wp-content/uploads/...Sbatto le palpebre e lui ancora non mi sta baciando. «Ed è mia sincera speranza» dice, «che tu

Quando apro gli occhi, vedo le stelle.

A dozzine. Piccole stelle di plastica attaccate al soffitto. Brillano debolmente alla

luce fioca e io mi siedo, la testa che pulsa, mentre cerco di orientarmi. C’è una

finestra alla mia destra; una tenda trasparente filtra nella stanza i raggi arancioni e

rossi del tramonto ad una strana angolazione. Sono seduta su un letto. Alzo lo

sguardo, mi guardo intorno.

È tutto rosa.

Coperta rosa, cuscini rosa. Tappeto rosa sul pavimento.

Mi alzo in piedi e mi giro, confusa, e mi accorgo che c’è un altro letto identico qui

dentro, ma le lenzuola sono viola. I cuscini sono viola.

La stanza è divisa da una linea immaginaria, ogni metà un’immagine allo specchio

dell’altra. Due scrivanie: una rosa, una viola. Due sedie: una rosa, una viola. Due

armadi, due specchi. Rosa, viola. Fiori dipinti su una parete. Un piccolo tavolo e delle

sedie da una parte. Una rastrelliera di costumi per travestirsi. Una scatola di tiare sul

pavimento. Una piccola lavagna su un cavalletto in un angolo. Un bidone sotto alla

finestra, straripante di bambole e animali di pezza.

Questa è la stanza di un bambino.

Sento il cuore accelerare i battiti. La mia pelle diventa calda e fredda.

Posso ancora sentire una mancanza dentro di me, la consapevolezza che i miei

poteri non funzionano, e realizzo solo in quel momento che ci sono delle manette

elettriche luminose intorno ai miei polsi e caviglie. Le strattono, uso ogni grammo

della mia forza per cercare di aprirle, ma non si spostano.

Il mio panico aumenta ogni minuto che passa.

Corro alla finestra, alla ricerca disperata di orientarmi, di una spiegazione su dove

mi trovo, di prove che questa non è una qualche allucinazione, ma vengo delusa, la

vista fuori dalla finestra mi confonde. C’è una vista spettacolare. Colline senza fine.

Montagne in lontananza. Un gigantesco lago luccicante che riflette i colori del

tramonto. È bellissimo.

Faccio un passo indietro, sentendomi improvvisamente ancora più terrorizzata.

I miei occhi si muovono tra la scrivania rosa e la sedia, cercando qualche indizio.

Ci sono solo pile di quaderni colorati. Una tazza di porcellana piena di pennarelli e

penne glitterate. Diverse pagine di adesivi fluorescenti.

Mi tremano le mani mentre apro un cassetto.

Dentro ci sono un mucchio di vecchie lettere e Polaroid.

All’inizio riesco solo a fissarle. Il battito cardiaco mi rimbomba in testa, pulsando

così forte che riesco quasi a sentirlo in gola. Il respiro accelera, le inspirazioni

superficiali. Mi gira la testa e sbatto gli occhi una, due volte, sforzandomi di essere

forte. Di essere coraggiosa.

Lentamente, molto lentamente, sollevo la pila di lettere.

Tutto quello che devo fare è guardare l’indirizzo postale, per sapere che queste

lettere sono antecedenti alla Restaurazione. Sono state tutte inviate all’attenzione di

Evie e Maximillian Sommers. In una strada a Glenorchy, Nuova Zelanda.

Nuova Zelanda.

E poi mi ricordo, con un sussulto improvviso, le facce dell’uomo e della donna che

mi hanno portata via dal simposio.

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Sono il comandante supremo dell’Oceania, ha detto lei. Io e tuo padre siamo

venuti per portarti a casa.

Chiudo gli occhi e delle stelle esplodono dietro alle mie palpebre, lasciandomi

intontita. Senza fiato. Apro gli occhi. Le mie dita sono intorpidite, goffe mentre apro

la lettera in cima alla pila.

La nota è breve. È datata dodici anni fa.

M & E –

Va tutto bene. Le abbiamo trovato una famiglia adatta. Ancora nessun segno di

poteri, ma la terremo d’occhio. Di nuovo, devo ricordarvi di togliervela dalla mente.

Abbiamo cancellato i ricordi suoi e di Emmaline. Non chiedono più di voi. Questo

sarà il mio ultimo aggiornamento.

P. Anderson

P. Anderson

Paris Anderson. Il padre di Warner.

Mi guardo intorno nella stanza con occhi nuovi, sentendo un brivido risalirmi la

schiena mentre i pezzi di questa follia si incastrano nella mia mente.

Rischio di vomitare. Mi trattengo.

Ora sto fissando il mucchio di Polaroid, intoccate, dentro al cassetto aperto. Penso

di aver perso la sensibilità su parte del viso. Di nuovo, mi sforzo di sollevare il

mucchio.

La prima è una foto di due ragazzine con indosso vestiti gialli abbinati. Entrambe

sono magre e con i capelli castani, si tengono per mano in un giardino. Una delle due

guarda verso la macchina fotografica, l’altra si guarda i piedi.

Giro la foto.

Il primo giorno di scuola di Ella

Il mucchio di foto mi cade dalle mani tremanti, spargendosi. Ogni mio istinto sta

urlando, suonando sirene d’allarme, implorandomi di scappare.

Va via, cerco di urlare a me stessa. Va via di qui.

Ma la curiosità non mi lascia andare.

Alcune foto sono cadute a faccia in su sulla scrivania, e non riesco a smettere di

fissarle, il cuore che mi rimbomba nelle orecchie. Attentamente, le sollevo.

Tre bambine dai capelli scuri sono in piedi vicino a biciclette leggermente troppo

grandi per loro. Si stanno guardando a vicenda, ridendo per qualcosa.

Giro la foto.

Ella, Emmaline e Nazeera. Niente più rotelle.

Ansimo, il suono mi strozza mentre mi lascia il petto. Sento i polmoni comprimersi

e allungo il braccio, appoggiandomi alla scrivania con una mano per stabilizzarmi.

Mi sembra di galleggiare, instabile.

Intrappolata in un incubo.

Giro le foto con disperazione ora, la mia mente lavora più velocemente delle mani

mentre rovisto, cercando e fallendo a dare un senso a quello che sto guardando.

La foto successiva è di una bambina che tiene la mano ad un uomo.

Emmaline e Papà, dice sul retro.

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Un’altra foto, in questa entrambe le bambine si arrampicano su un albero.

Il giorno che Ella si è storta la caviglia.

Un’altra, facce sfocate, cupcake e candeline...

Il quinto compleanno di Emmaline.

Un’altra, questa volta una foto di una coppia attraente...

Paris e Leila, in visita per Natale

Mi immobilizzo

sconvolta

sentendo l’aria lasciare il mio corpo.

Ora ho in mano solo una foto, e devo impormi, implorare me stessa di guardare la

Polaroid quadrata che oscilla nella mia mano tremante.

È una foto di un bambino in piedi vicino ad una bambina. Lei è seduta sulle scale.

Lui la guarda mentre lei mangia una fetta di torta.

La giro.

Aaron ed Ella

è tutto quello che dice.

Faccio un passo indietro, inciampando e cado sul pavimento. Il mio intero corpo

sta tremando di terrore, di confusione, di incredulità.

Improvvisamente, come fosse un segno, qualcuno bussa alla porta. Una donna, la

donna di prima, una versione più vecchia della donna nelle foto, mette la testa nella

stanza, sorridendomi e dicendo, «Ella, tesoro, non vuoi uscire? La cena sta

diventando fredda.»

E sono sicura di essere diventata pazza.

La stanza mi gira intorno.

Vedo delle macchie

mi sento ondeggiare

e poi...

improvvisamente

Il mondo diventa nero.