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Tecniche di Colture Cellulari - Università degli Studi della Basilicata – A.A. 2000-2001 - 1 -
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DELLA BASILICATA
FACOLTA’ DI AGRARIA Corso di Laurea in Scienze e Tecnologie Agrarie
Tecniche di Colture Cellulari (Nozioni Elementari)
Dispensa delle Lezioni (Docente : Francesco Sunseri)
Anno Accademico 2000-2001
Tecniche di Colture Cellulari - Università degli Studi della Basilicata – A.A. 2000-2001 - 2 -
- Introduzione
- Colture in vitro
- Caratteristiche e tecniche di coltura in vitro
sterilizzazione
mezzo di coltura
ormoni
pH
fattori fisici
contaminazioni latenti
vitrificazione(come aspetto della micro)
altre sostanze
vitalità cellulare
- Induzione di variabilità
variabilità preesistente
variabilità indotta dalla coltura in vitro
-Fecondazione in vitro e coltura di embrioni immaturi
coltura di embrioni immaturi
- Ottenimento di piante aploidi da microspore
- La micropropagazione
fasi della micropropagazione
- Vantaggi e svantaggi della micropropagazione
- Situazione della moltiplicazione in vitro in Italia
- Conservazione del germoplasma
- Colture cellulari
- manipolazione di protoplasti
fusione chimica
elettrofusione
-Risanamento di piante da virus
- La trasformazione genetica
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TECNICHE DI COLTURE IN VITRO
Definizione di coltura in vitro
Lo sviluppo della biologia molecolare degli ultimi vent 'anni è stato possibile
grazie alle conoscenze acquisite sugli organismi ad organizzazione
relativamente semplice (batteri , l ieviti , alghe unicellulari e virus). È stato
successivamente necessario verificare negli organismi superiori sia
l 'universalità delle conoscenze ottenute dallo studio degli organismi più
semplici, sia l 'esistenza di nuovi meccanismi biologici, in relazione anche alla
maggior complessità strutturale ed organizzativa delle strutture pluricellulari . A
tale riguardo si è rivelata di grande importanza la coltivate in vitro di tessuti e
cellule .
La coltura di cellule e tessuti di piante trova il suo fondamento nella teoria
della totipotenza cellulare . In tutte le piante vascolari l 'embrione si evolve in
una struttura allungata bipolare per via della presenza di due meristemi apicali ,
caulinare e radicale. Durante il ciclo vitale della pianta, tali meristemi
producono continuamente nuovi organi (fusti , foglie, radici) che si aggiungono
a quelli prodotti durante l 'embriogenesi. Per via di questo accrescimento
il l imitato, le piante vascolari sono state definite organismi a embriogenesi
ricorrente o a ontogenesi ricorrente . A causa di tale ontogenesi ricorrente,
nelle piante non si assiste, come , invece, accade negli animali, alla separazione
fra linea somatica e linea germinale, solo ad un dato momento dello sviluppo,
gli apici vegetativi si trasformano in apici riproduttivi , cioè producenti
strutture atte alla riproduzione. Per entrambe queste regioni nelle piante
vascolari qualsiasi cellula somatica può considerarsi un progenitore potenziale
di un nuovo individuo.
Una delle prime applicazioni fu quella di Hanning (1904) il quale isolando
embrioni immaturi in vitro ottenne piantine vitali di alcune specie della
famiglia delle crucifere.
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Successivamente, i l successo che le colture in vitro sono riuscite ad ottenere,
nei diversi settori di studio, è stato merito delle nuove acquisizioni scientifiche,
soprattutto in campo fisiologico (scoperta delle funzioni ormonali).
Con il termine colture in vitro si intendono diverse metodologie, sviluppate
negli ultimi trenta anni, che consentono, in molte specie vegetali , la crescita in
vitro di cellule, tessuti ed organi su terreni di coltura sintetici.
Si può indurre la crescita e la moltiplicazione di cellule isolate da organi o
tessuti della pianta, infatti , le cellule, anche se prelevate da tessuti già
differenziati , si sdifferenziano e sviluppano ammassi amorfi, callosi (calli) che
possono essere mantenuti indefinitamente in vitro o possono essere indotti a
rigenerare organi o piante intere, completamente differenziate.
Attualmente cellule prelevate da numerose specie di piante sono facilmente
coltivabili in vitro . In altre parole tutti i vegetali multicellulari possono essere
considerati sorgenti potenziali di cellule per le colture in vitro. Alcune specie
sembrano fare eccezione a tale regola, tuttavia ciò potrebbe essere dovuto ad
una erronea scelta delle condizioni colturali piuttosto che a caratteri genetici
del materiale vegetale. Infatti , pur molto simili per i diversi t ipi di cellule e
tessuti , le condizioni colturali possono mostrare differenze significative per
quanto riguarda la presenza e/o i rapporti di sostanze specifiche (ormoni,
vitamine, aminoacidi, ecc.) e specifiche condizioni ambientali (luce,
temperatura).
Le colture in vitro hanno consentito di ampliare e diversificare il concetto
tradizionale di coltura ed offrono attualmente notevoli vantaggi. L'applicazione
di tali tecniche, tuttavia, richiede profonde conoscenze in vari settori scientifici
(fisiologia, genetica, biologia, ecc).
Le tecniche di coltura in vitro sono applicabili in vari settori delle
biotecnologie vegetali , con diverse finalità:
- induzione di variabilità somaclonale;
- embriocoltura;
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- ottenimento di piante aploidi da microspore;
- colture cellulari;
- manipolazioni di protoplasti (coltura, fusione ed introduzione di nuovo
materiale genetico);
- risanamento di piante da patogeni;
- propagazione clonale rapida (micropropagazione);
- conservazione del germoplasma;
- produzione di metaboliti di interesse farmaceutico, industriale ed agrario.
CARATTERISTICHE DELLE COLTURE IN VITRO
Sterilizzazione
Una delle caratteristiche peculiari delle colture in vitro è quella di operare in
condizioni di assoluta sterili tà. Infatti , per consentire la sopravvivenza e la
crescita degli espianti , è necessario evitare lo sviluppo di microrganismi, i quali
trovano condizioni di crescita ottimali nei substrati nutrit ivi delle cellule
vegetali . I tessuti interni della pianta sono generalmente sterili , mentre la
superficie è ricoperta da vari t ipi di microrganismi. La rimozione di questi
ultimi è pertanto indispensabile se si vuole evitare la contaminazione
dell 'espianto al momento dell ' inizio della coltura in vitro.
In generale, le possibili fonti di inquinamento sono: l 'espianto, l 'ambiente, i l
mezzo nutrit ivo, gli strumenti util izzati nelle varie operazioni e l 'operatore.
Gli espianti rappresentano porzioni derivanti da plantule ottenute in vitro o da
piante prelevate in campo, in quest 'ultimo caso è molto importante la
sterilizzazione delle porzioni prelevate.
La sterilizzazione degli espianti avviene, generalmente, con le seguenti
sostanze chimiche:
• alcool etil ico al 70% che non garantisce l 'eliminazione di microrganismi
ed è in genere seguita dall 'uso di ipoclorito di sodio; non vengono
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util izzate concentrazioni superiori di alcool etil ico in quanto degrada lo
strato superficiale dei tessuti;
• ipoclorito di sodio (NaClO) facilmente reperibile in commercio (Ace), in
concentrazione variabile (5-15%); il prodotto commerciale in genere
viene utilizzato ad una concentrazione del 50-70% per 15 minuti,
concentrazioni superiori possono essere usate nel caso di materiale
vegetale meno sensibile;
• ipoclorito di calcio [Ca(ClO)2] in concentrazione variabile 35-100 g/l per
15-30 minuti, tale sostanza è indicata per materiale vegetale molto
delicato e viene preferito all ' ipoclorito di sodio in quanto penetra più
lentamente nel tessuto vegetale;
• cloruro di mercurio (HgCl2), in soluzione allo 0,01-0,05% per 10-20
minuti. Questa sostanza è molto tossica e va usata con particolare
attenzione in quanto può provocare danni anche all 'operatore, i l
risciacquo deve essere molto accurato al fine di eliminare ogni possibile
residuo dai tessuti .
Ogni operazione, divisione e taglio degli espianti deve essere effettuata in
condizioni di asepsi. Solitamente si opera su superficie sterile (carta da fil tro,
foglio di alluminio, capsula petri , ecc.) e sotto cappa a flusso laminare, dove i
raggi UV preventivamente sterilizzano l 'ambiente e dove il flusso laminare
garantisce l 'espulsione di qualsiasi corpuscolo estraneo, consentendo, così, i l
mantenimento di condizioni di assoluta sterili tà.
La sterilizzazione dei mezzi nutritivi avviene, in genere, con autoclave alla
pressione di 1 atmosfera ad una temperatura di 121°C per 15-20 minuti. Questo
procedimento può comportare dei problemi connessi ai cambiamenti che
avvengono nei mezzi di coltura durante la permanenza in autoclave, soprattutto
in quanto ci si trova in presenza di un notevole numero di componenti che
possono interagire tra di loro. In certi casi i singoli componenti del mezzo
possono venire autoclavati ciascuno per proprio conto e quindi riuniti insieme.
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Quando uno dei componenti del mezzo è termolabile si aggiunge al mezzo
autoclavato, dopo averlo sterilizzato per ultrafiltrazione.
Sia gli strumenti che la vetreria util izzata possono essere sterilizzati in
autoclave a 121°C per 20 minuti, ad elevate temperature, con raggi UV e gamma
o con le stesse sostanze chimiche util izzate per sterilizzare gli espianti . Sotto
cappa a flusso laminare è necessario avere sempre a disposizione uno
sterilizzatore elettrico o un becco bunsen, per consentire la sterilizzazione degli
strumenti dopo ogni uso. Anche l 'operatore può essere fonte di inquinamenti,
pertanto, può essere utile l 'uso di mascherina e guanti sterili .
Vari organi e tessuti della pianta possone essere util izzati per avviare la coltura
in vitro , i r isultati migliori si ottengono usando cellule giovani in attiva
proliferazione.
MEZZO DI COLTURA
I l mezzo di coltura è un parametro fondamentale per la messa a punto della
tecnica di colture in vitro . I l substrato infatti costituisce il mezzo da cui
l 'espianto trarrà tutto ciò che è necessario per il suo accrescimento. È
indispensabile, dunque, che tutti gli elementi siano nella forma più prontamente
assimilabile da parte dei tessuti .
Il substrato contiene normalmente una componente minerale, formata da macro
e microelementi, e da una componente organica costituita da vitamine,
aminoacidi o altri componenti azotati e dai carboidrati .
A circa trenta anni dall’avvio di tali tecniche si conoscono differenti substrati
(Gautheret, White, Murashige e Skoog, Heller, Morel, ecc.) i quali possono
risultare specifici per obiettivi diverisificati (rigenerazione, trasformazione,
micropropagazione, ecc). Generalmente si diversificano per la concentrazione di
macro e microelementi o per l 'aggiunta di sostanze particolari (vitamine, ecc.).
Vi sono alcuni substrati che prevedono un'alta concentrazione di sostanze
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azotate e, fra queste, possono prevalere le forme ammoniacali rispetto alle
nitriche, in relazione al t ipo di espianto che verrà allevato.
Macroelementi
Gli elementi minerali necessari per la crescita delle piante sono: azoto (N),
fosforo (P), potassio (K), calcio (Ca), magnesio (Mg), e zolfo (S), essi vengono
aggiunti nel mezzo come sali .
Il terreno di coltura originale, può essere modificato nella sua composizione per
cercare di ottenere ad es. nella micropropagazione il miglior coefficiente di
moltiplicazione della specie propagata.
Nella scelta della formulazione del substrato di crescita è necessario
considerare:
- i l t ipo di ioni presenti;
- l 'equilibrio fra macroelementi;
- la concentrazione ionica totale del terreno.
La crescita in vitro è notevolmente influenzata dalla disponibilità di azoto e
dalla forma in cui questo è presente.
Lo ione nitrato (NO3_
) è considerato la forma principale di azoto per le colture,
ma per la morfogenesi è necessaria anche la presenza dello ione ammonio
(NH4+). Per avere uno sviluppo omogeneo dei germogli ed evitare fenomeni di
vitrescenza il rapporto fra i due ioni deve essere bilanciato.
Dopo i sali di azoto quelli più rappresentati sono i sali di potassio e di fosforo.
L'influenza positiva del fosforo sul tasso di moltiplicazione è più evidente nel
melo che nel susino e cio dimostra che le singole specie hanno un diverso
fabbisogno di macroelementi. Anche il magnesio influenza positivamente la
proliferazione.
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Microelementi
Sono elementi nutrit ivi necessari in piccole quantità e la loro carenza causa
sintomatologie specifiche, in quanto intervengono nel metabolismo ed entrano a
far parte anche degli enzimi:
CATIONI - ferro (Fe), rame (Cu), zinco (Zn), cobalto (Co), nichel (Ni),
alluminio (Al), sodio (Na);
ANIONI - boro (B), molibdeno (Mo), iodio (I), cloro (Cl);
Un apporto non quantificabile di microelementi può provenire da altri composti
presenti nel substrato.
Il ferro viene aggiunto come chelato (Fe-EDTA) per far si che resti in soluzione
anche nelle condizioni in cui lo ione libero non sarebbe solubile (Tab.5).
Vitamine
I germogli coltivati "in vitro", a differenza di quelli "in vivo", non sono
completamente autotrofi per questi composti .
Le vitamine che generalmente vengono aggiunte al substrato sono:
- Tiamina (B1);
- Acido nicotinico (PP);
- Piridossina (B6);
- Inositolo (Meso);
- Acido pantotenico;
- Biotina (H);
- Acido folico (M);
- Riboflavina (B2);
- Cianocobalamina;
- Colina;
- Tocoferolo (E).
Come i macro ed i microelementi anche le vitamine vengono aggiunte al
substrato in particolari formulazioni.
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Vengono aggiunte in concentrazioni variabili fra 0,1-50 mg/l; soltanto l 'acido
ascorbico viene utilizzato fino a 100 mg/l per i l suo potere antiossidante.
Fra le vitamine, la t iamina è un prodotto critico per l’andamento delle colture
ed è aggiunta alla concentrazione di 0,1-0,4 mg/l, mentre l ' inositolo non è
indispensabile, tuttavia, è bene aggiungerlo alla concentrazione di 100 mg/l.
Carboidrati
Secondo alcuni Autori i tessuti verdi dei germogli coltivati in vitro hanno una
attività fotosintetica minima per la bassa concentrazione di anidride carbonica
(CO2) all ' interno dei contenitori.
Il bilancio della CO2 nell 'atmosfera dei vasi è i l risultato della fotosintesi e
della respirazione e la prima è direttamente correlata all ' intensità luminosa. La
quantità di CO2 presente all ' interno del contenitore raggiunge livelli superiori
al buio perchè alla luce essa viene in parte util izzata per la fotosintesi. Durante
la fase di fotoperiodismo che prevede l’assenza di luce la CO2 può raggiungere
una concentrazione variabile fra 3000 e 9000 ppm in alcune specie ornamentali ,
per ridursi dopo solo 2 ore di luce a 90 ppm.
In alcuni casi si è evidenziato che alla diminuzione della concentrazione di
saccarosio aumenta la capacità fotosintetica. Infatti la pianta, al diminuire della
disponibilità di una delle due fonti di carbonio (CO2 o saccarosio), util izza
maggiormente la forma alternativa o complementare per soddisfare il proprio
fabbisogno (44). La forma esogena di carbonio sotto forma di saccarosio non è
quindi indispensabile per la crescita in vitro della pianta ove mantenuta in
ambienti con elevate intensità luminosa e concentrazione di CO2. Per
quest’ultimo aspetto sono stati effettuati esperimenti che prevedono la
somministrazione di CO2 nei vasi di coltura e tali applicazioni appaiono
frequentemente promettenti . Anche l 'aumento dell ' intensità luminosa potrebbe
incrementare la capacità fotosintetica dei germogli, ma spesso tale applicazione
comporta un aumento della temperatura non sopportabile da alcune specie o
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cultivars. E’ pertanto necessario aggiungere al substrato una fonte di carbonio,
anche se è auspicabile la creazione di sistemi di i l luminazione che stimolino
l 'autotrofismo dei germogli.
Tra gli zuccheri quello più util izzato per la preparazione del substrato è il
saccarosio, che viene utilizzato in concentrazioni comprese fra 1-5%. Altri
zuccheri possono essere util izzati quali: glucosio, fruttosio e maltosio, ma sono
tuttavia meno diffusi e di uso particolare. Il saccarosio viene idrolizzato dalle
invertasi presenti sulle pareti cellulari dei vegetali , o dagli enzimi
extracellulari , in glucosio e fruttosio che sono poi metabolizzati dagli espianti .
Gli zuccheri possono subire delle alterazioni durante la sterilizzazione del
substrato in autoclave, sopratutto se non è stato effettuato un attento controllo
del pH.
A questa soluzione, costituita da costituenti inorganici ed organici, viene
normalmente aggiunta una fonte ormonale, generalmente rappresentata da
auxine, chinetine, più raramente gibberelline.
ORMONI
Gli ormoni svolgono un ruolo di estrema importanza come regolatori della
crescita e della differenziazione negli organismi vegetali , così come in quelli
animali. Sono sostanze chimiche a struttura relativamente semplice che,
prodotte in certe zone delle piante, in risposta ad opportuni stimoli, sia interni
che esterni, vengono traslocate in zone più o meno lontane, ove condizionano le
attività metaboliche delle cellule e quindi lo sviluppo di tutto l 'organismo.
Si definiscono ormoni quelli elaborati dagli stessi vegetali , mentre sono detti
fitoregolatori quelli non prodotti dalle piante, ma capaci di esercitare su di esse
effetti analoghi agli endogeni e di interferire sull 'azione o sulla trasformazione
di questi ultimi. Normalmente i tessuti o i piccoli organi posti in vitro non sono
in grado di sintetizzare una quantità sufficiente di ormoni, quindi è necessario
addizionarli al substrato.
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La crescita e la morfogenesi sono regolate dall ' interazione e dall 'equilibrio fra
fitoregolatori aggiunti al terreno ed ormoni prodotti naturalmente dai tessuti . Le
conoscenze scientifiche sui fitormoni sono ancora frammentarie, a fronte di una
conoscenza sufficientemente approfondita della loro struttura chimica e dei loro
effetti pratici, si conosce molto poco sul sito e sulla regolazione della sintesi
dei diversi ormoni nella pianta, sul meccanismo con cui essi vengono traslocati ,
sull ' identità di eventuali accettori chimici cellulari a cui gli ormoni sono
destinati e sugli aspetti molecolari del meccanismo con cui essi influenzano le
attività cellulari .
Gli ormoni vegetali oggi conosciuti sono classificabili , in base alla loro
funzione, in tre gruppi principali: auxine, gibberelline e citochinine. Gli ormoni
di ciascuno di questi gruppi provocano un largo spettro di risposte biologiche
da parte della pianta e spesso questi si sovrappongono. Altri ormoni vegetali
oggi conosciuti sono l 'acido abscissico e l 'etilene .
Auxine
L'auxina naturale è l 'IAA (acido 3-indolacetico). Per i terreni di coltura
vengono comunemente utilizzati composti di sintesi con funzione auxino-simile,
quali:
-IBA (acido 3-indolbutirrico);
-NAA (acido naftalen-acetico);
- 2,4 D (acido 2,4 diclorofenossiacetico), i l cui impiego è limitato poichè può
espletare anche un effetto mutageno.
La scelta del t ipo di auxina e della sua concentrazione dipendono:
- dal t ipo di crescita che si vuole ottenere;
- dal l ivello di auxine naturali presenti nell 'espianto al momento del prelievo;
- dalla capacità dei tessuti di sintetizzare auxina naturale;
- dalla interazione fra auxine naturali e di sintesi.
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Le auxine naturali (aggiunte in concentrazione variabile tra 0,01-10 mg/l), o
quelle di sintesi (aggiunte in concentrazione compresa fra 0,001-10 mg/l; 33)
determinano:
- l 'allungamento e la distensione cellulare dei tessuti;
- la divisione cellulare;
- la formazione di radici avventizie.
Favoriscono l 'embriogenesi, ma limitano la formazione di germogli ascellari e
avventizi nella fase di proliferazione. Studi sul pesco hanno evidenziato che il
contenuto di auxine è controllato dalle auxino-ossidasi (enzimi appartenenti alle
perossidasi), perciò l 'emissione delle radici, ad esempio, è massima quando la
concentrazione di perossidasi è minima, oppure quando vengono aggiunte
sostanze che hanno una azione sinergica con le auxine, come la quercetina. Nel
processo di rizogenesi, oltre alla concentrazione delle auxine, è importante il
momento in cui questi composti vengono aggiunti al mezzo sintetico.
L'auxina più comunemente utilizzata per la radicazione è l 'acido 3-
indolbutirrico , anche se in alcune specie, come l 'olivo, la percentuale di
germogli radicati è massima quando si util izza acido naftalenacetico e si riduce
sostituendo tale composto con l’acido 3-indolbutirrico o con l’acido
indolacetico. Nel "GF 677" la rizogenesi è rapida ed elevata e gli apparati
radicali sono omogenei se nel substrato è presente 1 mg/l di acido
naftalenacetico.
Le radici formatesi in presenza di acido naftalenacetico sono in genere più corte
e con uno spessore maggiore rispetto a quelle formate in presenza di acido 3-
indolbutirrico, perciò incontrano maggiori difficoltà nella successiva fase di
ambientamento. Inoltre per avere la stessa percentuale di radicazione è
necessaria una maggiore concentrazione di acido naftalenacetico rispetto agli
altri composti auxinici. La proliferazione delle radici è invece influenzata oltre
che dalla presenza di auxine, citochine e gibberelline dal rapporto tra le diverse
classi di fitoregolatori.
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Per ottenere tutti i vantaggi della micropropagazione è quindi molto importante
scegliere, per le singole specie, la concentrazione ed il t ipo di auxina più
appropriata per le diverse fasi. È bene sopratutto non aggiungere al substrato
dosi troppo elevate di auxine perchè non si promuovono la proliferazione o la
radicazione, ma la formazione di callo, i l quale, oltre ad assorbire sostanze
nutritive senza peraltro favorire la moltiplicazione, è facilmente soggetto, a
mutazioni geniche di germogli che da esso derivano possono portare caratteri
fuori t ipo.
Citochinine
Le citochinine naturali sono:
- Kinetina (6-furfurilamminopurina );
- Zeatina (idrossi-3-metil-trans-2-butenilamminopurina);
- 2iP (N-(2-isopentenil)adenina).
Fra le citochinine di sintesi, molto utilizzata è la BAP (6-benzilamminopurina).
Hanno attività simile alle citochinine alcuni composti dell 'urea. Di
recente introduzione nelle colture "in vitro" è una fenilurea, i l thidiazuron
(TDZ).
Le citochinine vengono impiegate in concentrazioni compresa fra: 1-10 mg/l,
per:
- stimolare la divisione cellulare;
- favorire la produzione di germogli avventizi dai tessuti o dal callo e la
crescita di embrioni somatici;
- indurre lo sviluppo di germogli ascellari, perchè inibiscono la dominanza
apicale.
Le citochinine inibiscono anche la formazione e lo sviluppo delle radici. In
segmenti di ipocotile di castagno la benzilamminopurina determina la
formazione di gemme avventizie, dalle quali , successivamente, si sviluppano
Tecniche di Colture Cellulari - Università degli Studi della Basilicata – A.A. 2000-2001 - 15 -
germogli di 3-6 mm. Per il primo stadio è necessaria una quantità superiore di
benzilamminopurina (0,2 mg/1) rispetto al secondo (0,1mg/l).
Nell 'olivo la citochinina che più stimola la proliferazione è, invece, la zeatina
ed a seguire la 2-isopenteniladeina. Identici risultati sono stati ottenuti in
mirtil lo, ma per l 'elevato costo della citochinina naturale per lo più viene
aggiunta al substrato di moltiplicazione la 2-isopenteniladenina.
Gibberelline
La gibberellina più frequentemente impiegata è la GA3 (acido gibberellico), che
favorisce:
- l 'allungamento degli internodi;
- lo sviluppo dei meristemi e delle gemme;
mentre inibisce la formazione di radici avventizie, pertanto è impiegata
sopratutto nella fase di allungamento.
Le gibberelline rompono la dormienza dei semi o degli embrioni isolati da
questi . Per quanto riguarda la radicazione, nel melo, ed in molte altre specie,
esiste una relazione inversa fra la concentrazione di acido gibberellico e la
formazione di radici:quest 'ultima aumenta al diminuire del contenuto di GA3.
La presenza di GA3 nel substrato di proliferazione non è sempre ritenuta
necessaria: alcuni Autori ri tengono che sia in grado di stimolare l 'allungamento
delle gemme ascellari e la moltiplicazione dei germogli, altri Autori hanno
invece osservato che tale composto non influisce sulla attività proliferativa.
Tuttavia tali germogli radicano più difficilmente per un probabile effetto
residuale dell 'acido gibberellico.
Gli ormoni influiscono significativamente sull 'accrescimento dei vari organi. In
considerazione degli effetti , spesso contrastanti , delle varie classi dei
fitoregolatori, la loro util izzazione viene adattata di volta in volta ai diversi
stadi di coltura. Inoltre il grado ed il t ipo di differenziamento indotto sugli
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espianti dipendono dalla concentrazione e dai rapporti ormonali nel substrato,
particolarmente dal rapporto tra auxine e citochinine.
In questi ultimi anni sono stati individuati altri regolatori della crescita.
Attualmente non sono ancora frequentemente utilizzati nella formulazione dei
substrati di coltura, ma sono, comunque, molto interessanti per via del loro
potenziale util izzo futuro:
-acido clorogenico;
-flavonoidi;
-vari inibitori dell 'eti lene;
-vari inibitori della biosintesi delle gibberelline.
pH
I valori del pH del substrato devono essere tali da consentire la crescita dei
tessuti vegetali .
Il pH influenza:
- la solubilità dei sali:se è troppo basso i fosfati ed altri sali con alto peso
molecolare possono precipitare;
- l 'assorbimento degli elementi nutritivi e degli ormoni: con bassi valori di pH
le vitamine del gruppo B e l 'acido pantotenico, le auxine e l 'acido gibberellico
diventano instabili ed, inoltre, viene ritardato l 'assorbimento degli ioni
ammonio;
- la solidificazione dell 'agar.
Per questi motivi i l range di variazione del pH è abbastanza ristretto ed il
valore ottimale per molte specie è compreso fra 5,2-5,8. In questo intervallo i
sali si mantengono nella forma solubile, anche in presenza di elevate
concentrazioni di fosfati , inoltre questi valori sono sufficientemente bassi per
permettere una crescita rapida dei germogli. Durante la sterilizzazione del
substrato il valore del pH subisce un abbassamento di circa 0,2-0,3 punti. Si
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modifica anche durante lo sviluppo della coltura per la metabolizzazione di
alcune sostanze.
In alcune specie il pH scende nelle prime due settimane di coltura per poi
risalire alla fine della subcoltura. Secondo alcuni Autori ciò è dovuto alla CO2
prodotta dalla respirazione dei vegetali , mentre altri sostengono che la
diminuizione del pH è legata all 'assorbimento dei cationi presenti nel mezzo,
mentre il successivo aumento è dovuto alla metabolizzazione degli anioni,
sopratutto quelli nitrici .
Per quanto riguarda la stabilità dell 'agar, un pH troppo acido determina
l ' idrolisi dell 'agente solidificante durante la sterilizzazione in autoclave,
causandone la perdita del potere addensante. Al contrario, un pH troppo
alcalino rende il substrato viscoso e ciò rende più difficile lo sviluppo dei
germogli.
FATTORI FISICI
Il mezzo di coltura può essere solido o liquido, la solidificazione si ottiene
mediante aggiunta di un gelificante, generalmente agar in quantità variabili tra
0,7-0,8 g/l . L'agar ha i seguenti vantaggi:
- non è metabolizzato dalle piante;
- non reagisce con i costituenti del terreno;
- forma con l 'acqua dei gel che si sciolgono a circa 100°C e solidificano a
45°C, per un fenomeno di soprafusione (un terreno agarizzato solidificato resta
tale fino a 72° C, mentre un agar liquido rimane fluido fino a 48° C).
In questo modo un terreno agarizzato è stabile alle normali condizioni di
coltura. Dosi troppo basse di agar, pur essendo economicamente convenienti,
non permettono ai germogli di rimanere eretti , favorendo fenomeni di
vitrescenza dei tessuti e determinando un basso coefficiente di moltiplicazione.
Anche un terreno troppo solido inibisce la crescita e la proliferazione, perchè
riduce la diffusione degli elementi nutrit ivi e degli ormoni e l imita il contatto
Tecniche di Colture Cellulari - Università degli Studi della Basilicata – A.A. 2000-2001 - 18 -
fra germoglio e soluzione; spesso causa anche l 'accumulo di metaboliti tossici.
Agenti solidificanti che possono sostituire l 'agar (composto molto costoso)
sono:
- polimeri sintetici come il Biogel P200 (una poliammide);
- alginati, impiegati sopratutto per colture di protoplasti;
- gerlite, agente gelidificante di sintesi.
- polimeri di amido, che hanno il vantaggio di essere solubili in acqua fredda.
L'uso del mezzo liquido, in alcuni casi, può dare risultati migliori, in quanto
favorisce la rapida dispersione di sostanze tossiche secrete dall 'espianto, che se
rimanessero concentrate attorno ad esso, come accade nei mezzi solidi,
potrebbero causare la morte dei tessuti . In coltura liquida l 'espianto può essere
immerso nel substrato o essere appoggiato su di un ponte di carta da fil tro che,
permettendo un continuo ricambio, t iene l 'espianto in condizione di miglior
arieggiamento. Nel primo caso, invece, le colture devono essere agitate,
continuamente, impiegando un agitatore orizzontale o verticale ad una velocità
di pochi giri al minuto, velocità più elevate vengono impiegate per colture
cellulari .
Lo sviluppo degli espianti in vitro è influenzato anche dalle condizioni
ambientali della camera di crescita. Luce e temperatura sono i parametri più
importanti .
Temperatura
La temperatura controlla l 'accrescimento e lo sviluppo delle piante sia in vivo
che in vitro . Questo controllo si riflette sulla crescita delle singole cellule,
sullo sviluppo degli organi, sulla attività degli enzimi e quindi sul metabolismo
del vegetale. Il range di temperatura ottimale varia in relazione alle specie,
essendo compresa in genere tra 18-25°C. Per le specie tropicali e subtropicali la
temperatura può essere mantenuta a livelli superiori (25-30°C). All 'interno della
cella di climatizzazione la temperatura è solitamente controllata da un
termostato.
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Luce
La luce influenza oltre al processo fotosintetico anche quello di morfogenesi.
Perciò il controllo del fotoperiodo e della intensità luminosa all ' interno della
camera è di fondamentale importanza per ottenere un buon coefficiente di
proliferazione e favorire il processo di rizogenesi. La limitata attività
fotosintetica delle piante mantenute in vitro può essere legata alla mancanza di
organizzazione dei cloroplasti , che si presentano appiatti t i , senza la struttura a
grana nè il caratteristico stroma lamellare, che invece si ri trovano nelle piante
già acclimatate.
Questo aspetto riveste notevole importanza non tanto per l 'accrescimento in
vitro , che avviene prevalentemente in modo eterotrofo utilizzando gli zuccheri
presenti nel substrato, quanto per la fase di ambientamento dove è necessario il
ripristino della condizione di nutrizione autrotofa. Generalmente l ' i l luminazione
si attua con tubi fluorescenti a luce bianca, che assicurano una buona luminosità
e non creano un eccessivo riscaldamento dell 'ambiente. La luce fornita è inoltre
simile a quella dello spettro solare. In relazione al t ipo di luce, Steegmans e
Pierik attribuirono alla luce bianca una azione favorevole sulla proliferazione,
mentre alle lunghezze d'onda dell 'ultravioletto attribuiscono l 'effetto opposto.
Il fotoperiodo e l ' intensità luminosa ottimali variano per le singole specie nelle
varie fasi. Tuttavia nella camera di crescita l ' intensità luminosa ottimale in fase
di moltiplicazione è compresa fra 1000-3000 lux , mentre in fase di radicazione
è necessaria una illuminazione di almeno 3000 lux per abituare i germogli
all 'ambiente esterno.
La luce e la concentrazione di CO2 all ' interno del contenitore sterile di crescita
ha un effetto importante sulla fotosintesi e quindi sulla produzione di biomassa.
Il peso secco totale ed il rapporto peso secco/peso fresco nella fase di
proliferazione in actinidia aumenta all’incremento dell ' intensità luminosa.
Quest 'ultima influenza anche il contenuto di pigmenti fotosintetici: in piante di
lampone con una intensità luminosa di 3000 lux è stato ottenuto il più elevato
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contenuto di pigmenti fotosintetici. Sembra comunque che non esista un
rapporto diretto fra quantità di pigmenti e fotosintesi, anzi ad una diminuizione
della quantità totale di pigmenti, corrisponde, in alcuni casi, un aumento della
loro efficienza.
Il fotoperiodo influenza la morfogenesi e l ' intervallo di buio e di luce ottimale
varia nei singoli taxa. Nella camera di crescita non è necessario controllare
l 'umidità perchè i germogli sono isolati dall 'ambiente esterno attraverso le
pareti dei contenitori. L'umidità all ' interno dei vasi è dovuta all 'acqua aggiunta
al substrato ed alla concentrazione dell 'agente solidificante e, generalmente,
raggiunge valori prossimi al 100%. In camera di crescita normalmente vengono
applicate condizioni standard: 20-25°C, fotoperiodo di 16 ore di luce,
un'intensità luminosa di 1000-3000 lux e lampade fluorescenti a luce bianca.
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CONTAMINAZIONI LATENTI
Per avere un buon cefficiente di moltiplicazione è importante anche la sanità
del materiale di partenza: se le gemme o i giovani germogli presentano infezioni
batteriche o crittogamiche, gli espianti non si svilupperanno in vitro . In questi
casi è necessario prestare particolare attenzione nella fase di stabilizzazione
della coltura asettica mediante una accurata sterilizzazione degli espianti di
partenza.
VITRESCENZA
La vitrificazione è un'alterazione che può manifestarsi a carico di parte o di
tutto l 'espianto che presenta foglie di colore chiaro, tessuti ispessiti , turgidi e
di consistenza vitrea . I germogli vitrescenti presentano quasi sempre un
accrescimento molto lento o nullo, scarso coefficiente di moltiplicazione, foglie
fragili che si distaccano dallo stelo durante la subcoltura. Differenze
anatomiche e fisiologiche tra piante normali e vitrificate sono facilmente
evidenziabili .
In germogli vitrescenti lo sclerenchima perivascolare è ridotto a isolati gruppi
di fibre scarsamente lignificate, lo xilema è poco differenziato, e nella corteccia
si osserva un aumento sia del numero che della grandezza delle cellule. Nelle
foglie non esiste una netta differenzazione fra parenchima a palizzata e
parenchima spugnoso, che presenta ampi spazi intercellulari ed è quindi
responsabile, insieme alla proliferazione delle cellule del parenchima, del
maggiore spessore delle foglie vitrificate (che spesso si presentano ripiegate a
V). I tessuti sono molto acquosi, con un limitato contenuto di clorofilla e
proteine. I germogli vitrescenti radicano difficilmente e la percentuale di
sopravvivenza dopo il trasferimento in serra di tali germogli è molto bassa.
Gli espianti vitrescenti hanno un minor peso secco rispetto a quelli normali per
l 'elevato contenuto di acqua dei tessuti . Geneticamente piante normali e
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vitrescenti non presentano differenze: hanno la stessa quantità di DNA e gli
apici meristematici danno origine a germogli normali.
I fattori che determinano la vitrescenza sono diversi e probabilmente
interagenti, tra questi ricordiamo:
- l 'eccesso di ioni ammonio e/o di cloro nel substrato;
- l 'eccesso di umidità ambientale;
- i l potenziale osmotico elevato;
- alte dosi di auxine e citochinine.
Il rapporto NH+ S riveste un certo ruolo nel fenomeno, la vitrescenza si
evidenzia dopo un numero elevato di subcolture util izzando i sali di MS, mentre
util izzando il substrato di Heller (meno ricco di azoto) questa alterazione non si
manifesta. Anche il rapporto NH4+/NO3- è molto importante, infatti i l
potenziale osmotico superiore delle cellule di tessuti vitrescenti sembra legato
alla scarsa lignificazione dei tessuti , che richiamano più acqua.
L'incremento della concentrazione di agar nel substrato sembra determinare da
solo una diminuizione della vitrescenza, poichè modifica il potenziale osmotico
dell 'acqua rendendola meno disponibile per i germogli in accrescimento. La
vitrescenza può essere limitata cambiando la composizione dei macroelementi,
util izzando ad esempio il substrato di Lepoivre piuttosto che il classico MS si
evitano tali fenomeni in Malus e Prunus .
ALTRE SOSTANZE
Frequentemente ai substrati nutrit ivi viene aggiunto il carbone attivo , derivante
dalla carbonizzazione del legno ad alta temperatura in presenza di vapore
acqueo. È dotato di un' enorme estensione superficiale, su questa area, gli atomi
di carbonio superficiali attraggono molecole, in particolare quelle polari. In
questo modo ogni tipo di sostanza (gas, composti solidi) può essere assorbita. Il
carbone attivo viene purificato al fine di rimuovere ogni tipo di impurità.
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Le funzionalità dell’util izzo del carbone attivo nelle colture in vitro possono
essere così riassunte:
- assorbimento di pigmenti tossici bruni (composti fenolici e melanina) e di
altri composti tossici, bruni, dalla composizione chimica non nota;
- assorbimento di altri composti organici (auxine, citochinine, etilene,
vitamine, chelati di ferro e zinco ecc.);
- la modifica della distribuzione dell ' i l luminazione totale (inscurimento del
substrato), come risultato di questo, la formazione delle radici e il loro
sviluppo può essere modificato;
- promuove l 'embriogenesi somatica e l 'embriogenesi in colture di antere di
Anemone e Nicotiana. Inoltre è stato accertato che l 'aggiunta di carbone attivo,
spesso, ha un effetto di stimolo sullo sviluppo ed organogenesi di specie
legnose;
- stabilizza il pH.
L'utilizzazione del carbone attivo è indispensabile per le piante che, allevate in
vitro , producono pigmenti marroni o neri (di solito polifenoli ossidati e
tannini), che rendono la crescita e lo sviluppo molto difficile. La formazione di
queste sostanze può essere ridotta, oltre che con il carbone attivo
(concentrazione di 0,2-0,3% g/l, util izzando altre sostanze da aggiungere al
mezzo di coltura:
- aggiunta di PVP (concentrazione di 250-1000 mg/l), polimero che assorbe
sostanze del t ipo fenolico;
- aggiunta di composti con funzioni antiossidanti come l 'acido citrico , l 'acido
ascorbico , thiourea o L-cistina . Questi composti impediscono l 'ossidazione dei
fenoli;
- aggiunta dei dietil-ditiocarbonati (DIECA), durante i risciacqui, dopo
sterilizzazione, alla concentrazione di 2 g/l;
- aggiunta di tre aminoacidi (glutamina, arginina, ed asparagina).
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Potrebbe essere utile infine effettuare frequenti subcolture su mezzi freschi, per
rallentare la formazione di pigmenti indesiderati; util izzare mezzi l iquidi nei
quali è più facile e veloce diluire i prodotti tossici; mantenere la base degli
apici al buio durante l 'allevamento in vitro per ridurre l ' imbrunimento
provocato dalla foto-attivazione; util izzare contenitori o tubi con pareti
imbrunite per l imitare la penetrazione della luce; ridurre la superficie di taglio
sugli espianti e la concentrazione dei sali nel mezzo di coltura al fine di
contenere gli essudati;
Va infine ricordato che i regolatori di crescita svolgono un ruolo importante
nell ' imbrunimento del substrato derivante dall 'ossidazione dei fenoli, l imitando
l’util izzo di tali composti si può ridurre l 'ossidazione; i l risciacquo degli
espianti in acqua prima della messa in coltura ha un efficace azione nella
riduzione degli essudati .
VITALITÀ CELLULARE
Periodicamente è necessario determinare la vitalità delle cellule in coltura
ricorrendo all 'osservazione al microscopio della corrente citoplasmatica nelle
cellule, oppure usando specifiche sostanze coloranti (fenosafranina, blu di
Evan, fluoresceina diacetato).
INDUZIONE DI VARIABILITÀ
La colture in vitro possono essere ottenute dalla maggior parte dei tessuti
vegetali: meristemi, gemme ascellari ed apicali , foglie, steli , piccioli , radici,
fiori o loro parti compresi i tessuti aploidi delle antere e degli ovari. La
rigenerazione di piante da tali tessuti può avvenire direttamente dall 'espianto
primario, da callo o da colture cellulari in sospensione, ottenute dall 'espianto
primario.
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Essa può avvenire via organogenesi (formazione di germogli in grado di
radicare) o via embriogenesi somatica (fenomeno che mima lo sviluppo dello
zigote).
Le colture in vitro rappresentano uno strumento molto utile nel miglioramento
genetico delle piante, con tale tecnica, infatti , è possibile indurre nuova
variabilità genetica per il reperimento di nuovi caratteri util i .
Nella maggior parte delle piante propagate a partire da meristemi o gemme
apicali ed ascellari , la variabilità osservata è inferiore o pari a quella osservata
nelle piante propagate vegetativamente con i metodi tradizionali . Un aumento
considerevole della variabilità si osserva quando nel protocollo di rigenerazione
sono previsti uno o più cicli di ridifferenziazione cellulare, come nel caso della
rigenerazione da tessuti somatici, da colture cellulari in sospensione o da
protoplasti .
La variabilità genetica ottenuta con le tecniche di coltura in vitro può essere
ascrivibile a tre principali fenomeni :
1. mutazioni genetiche;
2. riarrangiamento dei tessuti chimerici;
3. modificazioni epigenetiche.
Un altro tipo di classificazione si può effettuare sulla base del momento
presunto dell ' induzione di variabilità che può definirsi come preesistente al
trattamento in vitro del tessuto vegetale , oppure indotta dalla coltura in vitro.
Variabilità preesistente
Chimere . Gli organismi chimerici, costituiti da almeno due famiglie cellulari
portanti differenze genotipiche, sono abbastenza frequenti nelle piante
tradizionalmente propagate per via vegetativa ed in particolare nelle specie
ornamentali . Le condizioni di crescita in vitro possono fornire un vantaggio
selettivo alle cellule con una particolare base genetica. Di conseguenza si può
verificare la rottura o il riarrangiamento della chimera originale.
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Variabilità genica . Quando presente nei tessuti somatici e preesistente la
coltura in vitro è attribuibile a mutazioni spontanee o causate da elementi
trasponibili , ad eventi di crossing over mitotici, ad amplificazione di DNA.
Variabilità genomica e cromosomica . Occasionalmente possono verificarsi in
alcune cellule uno o più cicli di endoreduplicazione, senza il verificarsi della
successiva mitosi. Si raggiungono in questo modo vari l ivelli di endopoliploidia
(polisomatia). Quando cellule polisomatiche entrano ancora in mitosi, ad
esempio sotto lo stimolo dei fattori esterni t ipici delle colture in vitro , si
generano cellule di natura poliploide. La frequenza di endopoliploidia è sotto
controllo genetico, è funzione dell 'età e del t ipo di tessuto. I vari tessuti della
stessa pianta mostrano diversa capacità di accumulo di mutazioni. In genere i
tessuti differenziati presentano un maggior carico di mutazioni genetiche.
Variabilità indotta dalla coltura in vitro
Variabilità somaclonale . La modificazione più frequente a carico delle cellule
allevate in vitro è la poliploidizzazione . Questo fenomeno può veificarsi sia in
conseguenza di endoreduplicazione seguita da mitosi, sia in conseguenza alla
duplicazione cromosomica non seguita dalla divisione cellulare. Un'altra via di
poliploidizzazione è attribuita alla fusione di nuclei in cellule multinucleate.
Dal momento che in queste cellule possono coesistere nuclei con diverso livello
di ploidia quest 'ultimo meccanismo spiega anche la formazione di triploidi ed
esaploidi.
La formazione di cellule aploidi probabilmente avviene secondo due modalità:
la prima, che prevede eventi di meiosi somatica , è stata documentata in
meristemi di radici in vivo ed in alcuni t ipi di tessuti allevati in vitro . In quelle
specie con basso numero di cromosomi la condizione aploide potrebbe essere
determinata dall’allevamento in vitro anche in conseguenza di ripetute mitosi
senza disgiunzione. In cellule con elevato numero di cromosomi questo
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meccanismo di aploidizzazione sembrerebbe poco probabile e porterebbe
piuttosto alla formazione di aneuploidi e peudoaploidi.
Situazioni cromosomiche aneuploidi possono verificarsi in vitro in conseguenza
di segregazioni cromosomiche anormali durante la mitosi o per frammentazione
nucleare (amitosi) seguita da normali mitosi. L'aneuploidia può essere la
conseguenza anche dell 'eliminazione di cromatina a seguito di rotture
cromosomiche.
Per quanto riguarda le modificazioni strutturali dei cromosomi (delezioni,
traslocazioni) esse derivano dalla rottura dei cromatidi nella fase cellulare G1
(aberrazioni di t ipo cromosomico) o nelle fasi S e G2 (aberrazioni
cromatidiche). Queste anomalie sono più frequenti nelle cellule poliploidi.
Molti t ipi di traslocazioni vengono ereditate stabilmente attraverso i successivi
cicli mitotici; tuttavia, le traslocazioni che danno origine ai cromosomi
dicentrici possono continuare ad originare variabilità genetica in conseguenza
dei cicli rottura-fusione-ponte. I cicli terminano e si formano nuovi cromosomi
monocentrici quando avviene la cicatrizzazione delle estremità cromosomiche
interessate.
Altre possibili cause di mutazioni genetiche sono:
• mutazioni spontanee e indotte da componenti mutageni del mezzo di
coltura;
• elementi trasponibili;
• ricombinazione genica somatica;
• scambi tra cromatidi omologhi;
• alterata metilazione con conseguente formazione di zone particolarmente
instabili;
• attivazione e disattivazione di geni in conseguenza di mutazione in
regioni non codificanti.
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Gli elementi trasponibili sono una delle maggiori fonti di mutazioni. Si rit iene
che essi siano particolarmente attivi nelle cellule allevate in vitro poichè
attivati da condizioni di stress presenti in coltura.
La metilazione del DNA produce generalmente delle modificazioni reversibili
dell 'att ività genica. Studi sul riso hanno evidenziato che la metilazione è una
delle cause, sebbene non la maggiore, dell ' induzione di polimorfismi dei
frammenti di restrizione del DNA delle piante rigenerate da protoplasti .
Gli eventi che generano mutazioni si verificano durante l 'allevamento in vitro e
possono interessare anche le informazioni genetiche presenti nel DNA di
organelli citoplasmatici come i cloroplasti e i mitocondri.
La variabilità indotta dalle tecniche di coltura in vitro è sotto il controllo
genetico, ma è anche influenzata da fattori esogeni, quali:
• la metodologia di rigenerazione utilizzata;
• i l t ipo e la concentrazione dei fattori di crescita;
• la concentrazione salina del substrato;
• gli agenti chelanti;
• la presenza di agenti mutageni;
• la frequenza di subcoltura;
• i l t ipo di coltura (mezzo liquido o solido).
Tuttavia è importante sottolineare che il meccanismo di induzione di tale
variabilità non è noto per la quasi totalità dei fattori coinvolti .
Naturalmente non tutte le varianti genetiche ottenute a seguito delle colture in
vitro sono ugualmente competitive. Tra l’altro molte delle mutazioni a carico
delle cellule allevate in vitro non vengono mantenute durante la fase di
rigenerazione di plantule. Tale fenomeno è ascrivibile a due possibili
motivazioni:
• le cellule mutate perdono la capacità rigenerativa;
• le mutazioni indotte in vitro non sono vitali in vivo.
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Attualmente le varianti somaclonali sono di uso decisamente limitato nel
miglioramento genetico delle piante; tuttavia, sono riportati eventi favorevoli
come per esempio il ri trovamento di cloni di patata superiori alla varietà
originaria per produzione, forma del tubero e resistenza alle malattie.
In ogni caso l 'util izzo della tecniche di coltura in vitro sembra destinato a
contribuire sempre più al raggiungimento di specifici obiettivi di miglioramento
genetico, soprattutto se saranno individuati metodi di selezione di cellule
portanti mutazioni util i da cui rigenerare plantule. Allo stato attuale è possibile
esercitare una pressione selettiva a livello cellulare per caratteri che riguardano
la resistenza a tossine, a sostanze chimiche, alla salinità e la resistenza ad
aminoacidi ed analoghi di aminoacidi.
Le tecniche util izzate per la selezione prevedono l 'util izzo di sostanze o
metaboliti a concentrazioni tali da non fare sopravvivere cellule normali ma
solo mutanti tolleranti/resistenti lo stress indotto:
determinata la concentrazione che previene lo sviluppo delle cellule normali , si
adotta un terreno di coltura selettivo 2-3 volte più concentrato e si effettua
l’allevamento in vitro di un gran numero di cellule selezionando per l 'eventuale
insorgenza di mutanti.
Il requisito fondamentale per il successo di tale tecnica è che le cellule
selezionate possano essere capaci di rigenerate plantule in grado di esprimere il
carattere individuato .
FECONDAZIONE IN VITRO
Nei programmi di miglioramento genetico delle piante coltivate al fine
costituire nuovi genotipi spesso è necessario ottenere ibridi derivanti da
fecondazioni che in natura si verificano difficilmente o non si verificano affatto
(incompatibili tà). La coltura in vitro è una tecnica che permette di superare
ostacoli che le piante hanno sviluppato per impedire alcuni t ipi di incrocio,
quali le ibridazioni interspecifiche.
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Per effettuare una fecondazione in vitro è necessario mettere in contatto
gametofiti maschili e femminili perfettamente funzionali e definire le
condizioni di coltura ottimali per assicurare la fusione dei gameti. Inoltre,
bisogna mettere a punto il substrato di coltura che permetterà lo sviluppo del
gametofito femminile dopo la fecondazione fino alla maturità o germinazione
del seme (Devreux & Damiano, 1988).
La fecondazione in vitro può essere realizzata seguendo differenti metodiche.
Nelle piante che possono formare gemme fiorali in vitro , i l processo di fioritura
lo si fa avvenire nel contenitore sterile di coltura in vitro dove avviene anche il
differenziamento dei gameti funzionali. Avviene, dunque, la fecondazione, si
sviluppano i semi, a maturità, disseminano sul mezzo di coltura e germinando
sviluppando le plantule ibride. In questo caso si pone solo il problema di
definire le condizioni della fioritura in vitro , che molto spesso è legata alla
scelta dell 'espianto iniziale, al mezzo di coltura e ovviamente all 'equilibrio
auxine-citochinine. Questa tecnica è applicabile soltanto per le piante autogame
(Devreux & Damiano, 1988).
Un'altra tecnica di fecondazione in vitro conta sulla possibili tà di coltivare
l ' intero gineceo, ovario, sti lo e stimma, effettuando l ' impollinazione in vitro
sullo stimma. Operando in condizioni ottimali questa tecnica permette lo
sviluppo dei semi nell 'ovario, dove essi arrivati a maturità continuano la loro
evoluzione germinando. In questo modo si possono osservare le plantule che
emergono da diverse parti dell 'ovario. Tale fenomeno si osserva in assenza di
maturazione del frutto e permette di superare tutto il periodo di eventuale
dormienza del seme. Tuttavia con tale tecnica di fecondazione in vitro le
barriere naturali alle ibridazioni interspecifiche esistenti a l ivello di stimma e
stilo non possono essere rimosse (Devreux & Damiano, 1988).
Un' ulteriore tecnica di fecondazione che dovrebbe permettere l’ottenimento di
risultati incoraggianti , anche a partire da differenti genotipi, consiste
nell ' impollinazione diretta degli ovuli in vitro . Si procede rimuovendo la parete
Tecniche di Colture Cellulari - Università degli Studi della Basilicata – A.A. 2000-2001 - 31 -
dell 'ovario per mettere a nudo gli ovuli sulla placenta, quindi si pone
direttamente il polline sugli ovuli (Devreux & Damiano, 1988).
Infine, fra le tecniche utilizzabili per la fecondazione in vitro bisogna anche
citare i recenti tentativi di isolamento dei gameti maschili e femminili in
diverse specie vegetali (mais, spinacio, ecc.).
L'util izzo di ciascuna di queste tecniche dipende dal t ipo di barriera genetica
che impedisce la fecondazione.
Nel caso di incompatibilità bisogna distinguere diverse situazioni. Se
l ' incompatibili tà è gametofitica i grani di polline germinano, ma i tubi pollinici
si fermano e scoppiano alla loro estremità dopo aver percorso
approssimativamente un terzo della lunghezza dello stilo. In questo caso è
evidente che l 'autoimpollinazione di un gineceo intero in vitro non potrà dare
risultati util i dal momento che tutti i tubi pollinici soranno fermati nella prima
parte dello stilo anche in vitro . Volendo pertanto ottenere l 'autofecondazione in
specie che hanno questo tipo di controllo genetico, si procede raccorciando lo
stilo e microinnestando lo stimma alla base dello stilo, oppure depositando
direttamente il polline sugli ovuli (Devreux & Damiano, 1988).
D’altra parte se l 'autoincompatibili tà è sporofitica le sostanze di riconoscimento
sono depositate nell 'esina del polline durante la gametogenesi e la reazione di
incompatibili tà avviene a livello dello stimma. In questo caso affinchè
l 'autofecondazione forzata in vitro r iesca si dovrà evitare il contatto polline-
papille stimmatiche e procedere ad un apporto diretto del polline sull 'ovario o
sugli ovuli, oppure portando il polline, germinato artificialmente, direttamente
sullo stilo decapitato dello stimma (Devreux & Damiano, 1988).
Infine, se l 'autoincompatibili tà è post-zigotica, l ' impollinazione potrà essere
effettuata normalmente in vitro o in vivo , ma sarà necessario ricorrere alla
coltura del pro-embrione appena sviluppato.
Nel caso delle ibridazioni interspecifiche esistono numerose barriere i cui
meccanismi vanno studiati per adottare tecniche specifiche di coltura in vitro .
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Spesso si ricorre alla coltura in vitro dell 'embrione immaturo e tale tecnica è
certamente quella che è stata util izzata più spesso ed ha dato risultati pratici
notevoli nella produzione di ibridi interspecifici ed intergenerici. Inoltre ha
permesso il trasferimento di numerosi geni util i da specie selvatiche a specie
coltivate.
COLTURA DI EMBRIONI IMMATURI
L'embrione, come è noto, rappresenta il primo stadio di sviluppo di un nuovo
genotipo diploide risultante dalla fusione dei due gameti, quello maschie e
quello femminile.
La coltura di embrioni separati dal seme è stata intrapresa per diverse ragioni.
La prima vera applicazione della coltura di embrioni a problemi di
miglioramento genetico è stata effettuata da Laibach, i l quale nel 1925 ha
potuto recuperare ibridi interspecifici tra Lilium perenne e L. austriacum . Dopo
questo primo esempio, numerosi altri incroci sono stati recuperati grazie alla
coltura di embrioni.
Altra applicazione importante dell 'embriocoltura è certamente il superamento
della dormienza dei semi di alcune piante, oppure la possibili tà di ottenere lo
sviluppo di embrioni che non possono completare da soli lo sviluppo normale
nel seme. Un caso specifico è quello delle specie arboree a maturazione precoce
dei frutti . Notevoli progressi sono stati ottenuti dai costitutori di varietà di
pesco utilizzando la germinazione in vitro di embrioni immaturi derivanti
dall ' incrocio di due genitori a maturazione molto precoce (Ramming, 1983;
Fideghelli et al . , 1986).
Nelle colture di embrioni è più difficile salvare un embrione molto giovane che
un embrione già differenziato: in generale è più vantaggioso prelevare
l 'embrione non maturo il più tardi possibile dall 'ovulo fecondato, quando, cioè,
l 'embrione ha raggiunto quello che certi autori definiscono "fase autotrofica"
(Zenkteler e Nitzsche, 1985). Quando l 'embrione è prelevato molto giovane è
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spesso necessario modificare il mezzo di coltura in relazione allo sviluppo
embrionale o ancora utilizzare un sistema simile a quello sviluppato da Monnier
nel 1978. Questo metodo consiste nel deporre l 'embrione al centro di una
capsula Petri che contiene al centro un mezzo agarizzato povero di sostanze
ormonali, i l quale a sua volta è circondato da un secondo mezzo più ricco che
diffonde progressivamente nel primo gli ormoni, modificando nel tempo la
composizione del primo mezzo messo a disposizione dell 'embrione (Monnier,
1978).
Le tecniche di embriocoltura in vitro sono state avviate anche per studiare le
necessità nutrizionali , fisiologiche e di ambiente dell 'embrione per realizzare
colture in vitro embriogenetiche. A partire cioè dalla coltura di un callo in
veloce proliferazione o di una sospensione cellulare ottenuta per
sdifferenziamento di un tessuto somatico, è possibile ottenere embrioni somatici
in vitro (Devreux & Damiano, 1988).
Gli embrioni somatici possono essere util izzati per l 'ottenimento di semi
artificiali . Ciascun seme artificiale si ottiene incapsulando un embrione
somatico in un gel di sostanze che ne consentono la conservazione fino alla sua
distribuzione in pieno campo. Le sostanze più diffusamente utilizzate per
l ' incapsulamento sono: sodio alginato+CaCl2; sodio alginato +gelatina +CaCl2;
successivamente si procede ad una ricopertura plastica con un polimero
artificiale.
Attualmente nella preparazione dei semi artificiali si incontrano molte difficoltà
legate alla necessità di rendere quiescente il seme per diversi mesi, di
proteggerlo contro il disseccamento, di ottenere piante in elevata percentuale,
di fornire all 'embrione il necessario mantenimento, anche se i progressi
tecnologici in questo settore, in questi ultimi anni, sono stati notevoli.
In futuro i semi artificiali potrebbero rivelarsi molto interessanti per la
propagazione clonale di ibridi superiori difficili da ottenere per via sessuale,
per particolari ceppi di piante ingegnerizzate, per riprodurre genotipi steril i o
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meioticamente instabili , per riprodurre clonalmente i parentali di ibridi
superiori per i quali si faccia uso di maschiosterili tà, ma non si disponga di
l inee mantenitrici e, in generale, per tutte le specie per le quali la
micropropagazione in vitro è possibile.
Tra i vantaggi forniti dall 'uso dei semi artificiali si può citare la possibili tà di
ottenere su larga scala monocolture di genotipi "elite" e la facili tà di inglobare
nel seme artificiale microrganismi util i alla pianta, ormoni e pesticidi.
Bibliografia citata
Devreux M., Damiano C., 1988. Fecondazione in vitro e coltura di embrioni
immaturi. Agricoltura e Ricerca 151 , 69-76.
Fideghelli C., Damiano C., Antonelli M., Quarta R., Chiariotti A., 1986. Les
techniques de propagation in vitro appliquees a l 'Institut de Fruticulture de
Rome. In: "Colloque Arbres Fruiters et Biotechnologies" Ed. Moet Hennessy.
Paris p.55.
Ramming D., 1983. Embryo culture, In "Methods in fruit breeding". Ed. J.
Moore e J.Janick. Purdue University p.134-144.
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Zenkteler M., Nitzsche w., 1985. In vitro culture of ovules of Triticum aestivum
at early stages of embryogenesis. Plant Cell Reports 4, 168-171.
OTTENIMENTO DI PIANTE APLOIDI DA MICROSPORE
Al fine di ottenere tessuti e plantule rigenerate con un solo corredo
cromosomico è possibile allevare in vitro anche tessuti e cellule aploidi (polline
ed ovulo). Le antere ed in particolare microspore allo stadio mononucleato sono
i tessuti util izzati di frequente. Da questi espianti si possono rigenerare piante
con diverso grado di ploidia, piante diploidi da tessuti somatici dell 'antera e
piante androgenetiche dalle microspore. Le androgenetiche possono risultare sia
Tecniche di Colture Cellulari - Università degli Studi della Basilicata – A.A. 2000-2001 - 35 -
aploidi, cioè con un numero cromosomico ridotto che diploidi, dovuto ad una
endoreplicazione cromosomica che precede la prima divisione della cellula
aploide che originerà l 'embrione. In questo modo le piante saranno omozigoti,
aventi cioè le stesse forme alleliche in tutti i loci.
L'ottenimento di piante aploidi è di rilevante importanza sia per i programmi di
mutagenesi, per evidenziare in prima generazione le mutazioni, che in quelli di
miglioramento genetico per la possibili tà di indurre omozigosi a tutti i loci.
Infatti , mediante tecniche diploidizzanti (uso di colchicina, ecc.), è possibile
raddoppiare il contenuto cromosomico che, non derivando dall 'unione di due
gameti, ma da sintesi diretta di un cromatidio su copia di quello fratello, darà in
questo caso linee pure (a differenza che nel breeding tradizionale tutti i loci
risulteranno omozigoti).
I vantaggi offerti da tale tecnica sono la drastica riduzione del tempo per
ottenere linee pure in specie auto-incompatibili o di difficile riproduzione,
fissazione di mutazioni nelle piante ottenute in vitro , ottenimento di diploidi da
allo- e autopopliploidi.
In numerose specie sono state ottenute piante aploidi: solanacee, cereali e
legumi, in piante arbustive ed arboree come vite e limone, arancio trifogliato,
pioppo, ippocastano, albero della gomma, cacao, caffè. Recentemente, in
alternativa alla coltura di antere ed ovari, sono stati ottenuti aploidi da gameti
femminili , sottoposti ad impollinazione controllata con il polline irradiato con
raggi gamma.
LA MICROPROPAGAZIONE
La micropropagazione è un metodo di propagazione clonale delle piante, a
partire da materiale (soprattutto meristemi caulinari) allevato in vitro ,
realizzando una coltura di apici vegetativi.
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Utilizzando questa tecnica per clone si intende un gruppo di piante originatesi
vegetativamente non solo da una singola pianta ma anche da un singolo gruppo
di cellule.
Ogni parte di pianta può essere impiegata quale espianto iniziale per avviare la
propagazione: porzioni di germogli o di radici, talee uninodali, sezioni di foglia
o di piccioli , in genere, tuttavia, tanto più il materiale è in fase giovanile tanto
più facile è la rigenerazione.
Il materiale di partenza maggiormente util izzato è rappresentato tuttavia da
meristemi apicali , apici vegetativi e tratti di ramo con una gemma.
Tra i fattori che influenzano la reazione degli espianti alle condizioni di coltura
in vitro si ricordano :
• la qualità della piantà madre;
• i l t ipo di tessuto che si preleva per la coltura;
• l’età fisiologica e momento del prelievo.
Questa tecnica fino agli inizi degli anni '70 era prevalentemente impiegata per
la propagazione di specie erbacee, a causa delle difficoltà che si incontravano
(e ancora si incontrano) nella fase di radificazione e nel successivo sviluppo
delle plantule in vivo di diverse specie arboree ed arbustive.
Esistono tre possibili strade per la moltiplicazione vegetativa massale in vitro :
• la proliferazione ascellare dei germogli;
• l’ottenimento di germogli avventizi per organogenesi;
• l’embriogenesi somatica.
Il primo metodo, pur essendo più lento (produzione di 4-10 germogli per
espianto messo a proliferare per ogni subcoltura a seconda delle specie), dà
maggiori garanzie di uniformità del prodotto ed è comunque più rapido dei
metodi tradizionali .
In alcuni casi si osserva la formazione di callo. Tale formazione è legata alla
presenza nel substrato di crescita di auxine e citochinine, oltre che di macro e
microelementi, vitamine e saccarosio. Sono importanti i l pH (compreso fra 5,0-
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6,5) e lo stato fisico del terreno di coltura (liquido o solido), la luce e la
temperatura.
Per la formazione del callo è comunque fondamentale il rapporto fra i due
gruppi di fitormoni: un alto rapporto citochinine/auxine favorisce, infatti , la
rigenerazione dei germogli, mentre un basso rapporto determina la formazione
di radici e con un rapporto intermedio si ha invece uno sviluppo ottimale del
callo.
Nel processo di morfogenesi a partire dal callo si distinguono quattro fasi:
Fase 1 - sdifferenziazione di cellule parzialmente o totalmente differenziate;
Fase 2 - prime divisioni cellulari con formazione di tessuto (detto anche centro
meristematico);
Fase 3 - differenziazione delle cellule con formazione di un particolare tipo di
organo;
Fase 4 - estensione ed allungamento.
Quindi durante la formazione del callo i nuclei subiscono: mitosi,
endoduplicazione seguita da mitosi, frammentazione nucleare e successiva
mitosi. Questi tre processi, diversamente combinati fra loro, rendono il callo
instabile dal punto di vista genetico. Possono esserci infatti delle mutazioni del
materiale nucleare che determinano la formazione di nuove piante
geneticamente e fenotipicamente diverse dalla pianta madre.
Nella coltura di apici vegetativi, pertanto, per mantenere geneticamente stabili
le successive generazioni è consigliabile non utilizzare germogli derivanti da
callo.
FASI DELLA MICROPROPAGAZIONE
L'international Association for Plant Tissue Culture (I.A.P.T.C.) distingue nel
processo di micropropagazione le seguenti fasi:
Fase 0 : selezione e preparazione della pianta madre;
Fase 1 : stabilizzazione o organizzazione della coltura asettica;
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Fase 2 : moltiplicazione;
Fase 3 : radicazione;
Fase 4 : ambientamento;
Fase 0 : Selezione e preparazione della pianta madre
La scelta della pianta da cui prelevare il materiale o espianto di partenza è
importante per assicurare, a fine ciclo propagativo, una produzione di buona
qualità.
La pianta madre che può essere allevata sia in serra che in campo deve
rispondere allo standar varietale, deve essere indenne da patogeni (in
particolare per i fruttiferi , esente da virus), deve essere vigorosa e non deve
aver subito stress ambientali .
Per ridurre il l ivello di contaminazione possono essere eseguiti trattamenti
fi tosanitari , mentre per incentivare la successiva crescita e proliferazione in
vitro degli espianti è utile somministrare fitoregolatori all ' intera pianta o a parti
di essa.
In serra è più facile mantenere le piante sane perchè si possono controllare i
fattori che determinano lo sviluppo dei patogeni e quindi le infezioni. Di grande
importanza è il controllo della percentuale di umidità ambientale, che deve
essere il più basso possibile.
Il materiale di partenza può essere prelevato da piante in attiva crescita o
dormienti a seconda della specie, dell 'età e del metodo di coltura; deve essere
comunque reattivo alla coltura in vitro quindi le gemme, se dormienti, vanno
trattate, ad esempio con il freddo, per rimuovere la dormienza.
Il comportamento della futura coltura di meristemi, come precedentemente
sottolineato, è influenzato da:
• la stagione di prelievo dell 'espianto: le condizioni ambientali di temperatura
e luce (intensità e fotoperiodo) determinano nei tessuti della pianta un
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diverso contenuto di carboidrati di riserva, di proteine, ma soprattutto di
ormoni;
• lo stato fisiologico della pianta madre: un'apice vegetativo in attiva crescita
si sviluppa in vitro più rapidamente rispetto ad uno proveniente da una
gemma, anche se è più difficile conseguire la sua sterilizzazione;
• l’età della pianta madre: per certe specie, prevalentemente forestali , è
indispensabile partire da materiale fisiologicamente giovane, poichè
l 'adattabilità della pianta alla coltura in vitro viene spesso perduta con l 'età.
Al fine di ottenere un ringiovanimento del materiale di partenza si possono fare
innesti su giovani semenzali, oppure si ricorre alla potatura di ringiovanimento.
Fase 1 : Organizzazione della coltura asettica
Questa fase prevede la raccolta del materiale, la sua sterilizzazione, i l prelievo
e la messa in coltura
Raccolta del materiale
Generalmente la coltura parte da meristemi o da apici vegetativi, i quali sono
costituiti da un cono vegetativo, comprendente il meristema, e da alcuni
primordi fogliari subapicali . Gli apici vegetativi possono trovarsi all 'estremità
di un germoglio in attiva crescita, oppure possono essere ottenuti da una gemma
indotta a germogliare in vitro . Di conseguenza il materiale di partenza può
essere: erbaceo, semilegnoso, legnoso.
Le gemme devono essere in fase di germogliamento e non vanno private delle
perule. Il materiale raccolto va conservato in sacchetti di plastica per evitare la
disidratazione e, se è conservato per più giorni , va tenuto in frigorifero a 3-
4°C.
I periodi migliori per prelevare gemme in riposo vegetativo sono: l 'autunno
(prima dell 'entrata in dormienza ) e la fine dell ' inverno (prima della ripresa
vegetativa). Preferibilmente vanno prelevate gemme a legno.
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Sterilizzazione
La sensibilità del materiale durante la fase di sterilizzazione è influenzata dallo
stadio di vegetazione. Un apice vegetativo di un germoglio in attiva di crescita
è infatti più sensibile delle sottostanti gemme ascellari , che sono parzialmente
lignificate.
È molto importante che l 'agente sterilizzante entri in contatto con tutta la
superficie dell 'espianto, sopratutto se questo è dotato esternamente di peli o/e
cere.
In alcuni casi la sterilizzazione di superficie non elimina contaminazioni
interne di batteri patogeni o non patogeni. Se l 'espianto contaminato riesce a
sopravvivere manifesta comunque un rallentamento della crescita e della
proliferazione.
Stabilizzazione
Gli espianti sterili , provenienti dalla fase precedente, vengono trasferiti in
opportuni substrati di coltura. La grandezza degli espianti varia da meno di 1
mm a pochi centimetri: se derivano infatti da meristemi apicali , provenienti da
gemme dormienti o in attività, hanno una lunghezza compresa tra 0,1-1,5 mm,
mentre se derivano da germogli la loro lunghezza è compresa fra 1-3 cm.
L'apice gemmario che viene prelevato contiene una zona di cellule in attività di
crescita ed alcuni primordi fogliari all 'ascella dei quali si differenziano le
gemme ascellari . Dalla crescita ed allungamento di questi abbozzi si ottiene il
germoglio iniziale, più o meno sviluppato, che prende il nome di rosetta .
I fi toregolatori che vengono impiegati in questa fase e che favoriscono lo
sviluppo degli espianti , sono gli stessi util izzati durante la moltiplicazione e
comprendono nella maggior parte dei casi, una auxina ed una citochinina; la
loro concentrazione dipende dalla specie che si propaga e dal t ipo di espianto .
Fra le citochinine quella più util izzata è la benzilamminopurina (BAP).
Generalmente la concentrazione di citochinina impiegata per i meristemi è 0,1
mq/l, mentre per i germogli apicali è pari ad 1 mq/1. Le stesse concentrazioni
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vengono utilizzate per le auxine: acido 3-indolbutirrico (IBA), o meno
frequentemente, acido naftalenacetico (NAA). Durante la fase di stabilizzazione
sono importanti le condizioni di luce e temperatura presenti nella camera di
crescita. Per la maggior parte delle specie il fotoperiodo è di 16 ore e la
temperatura è compresa fra 23-27° C. La durata di questa fase è di 3-6
settimane. La stabilizzazione è spesso difficile e richiede particolari procedure,
sopratutto per evitare la produzione di sostanze che impediscono lo sviluppo
dell 'espianto. Questi composti non sono stati ancora classificati chiaramente,
spesso tuttavia sono tannini condensati o idrolizzabili , o altri composti fenolici,
la cui biosintesi è complessa, ma sembra comunque iniziare dall 'acido
scichimico. Sono naturalmente presenti nei vegetali , in quantità più o meno
abbondante a seconda dello stadio fenologico e dell 'etàdella pianta, come ad
esempio la lignina. L'incremento della produzione di fenoli è associata ad una
diminuizione dell 'accrescimento, della sintesi proteica e ad un'alta
concentrazione di zuccheri.
In generale la concentrazione dei polifenoli aumenta con l 'età dei germogli. Nel
castagno la concentrazione di tannini è bassa all ' inizio del ciclo vegetativo, è
massima nel mese di maggio e a fine estate (prima dell 'entrata in riposo),
mentre è minima nel periodo compreso fra gennaio e marzo.
Poichè la riuscita della crescita in vitro è legata al momento del prelievo
dell 'espianto, nel pesco, per evitare una notevole produzione di tannini dopo il
taglio, questo viene eseguito nel mese di giugno, quando i germogli sono in
attiva crescita. In questo periodo è minore la concentrazione di perossidasi e
polifenolossidasi, mentre è elevato il contenuto di auxine.
Altri composti fenolici, contenuti sopratutto nel vacuolo, sono: flavonoidi,
tannini idrolizzabili , acido caffeico. Tutte queste sostanze svolgono un ruolo
importante perchè favoriscono i processi di cicatrizzazione e sono, inoltre, un
mezzo di difesa contro molti parassiti . I prodotti di ossidazione dei fenoli sono
composti bruni, detti chinoni, tossici e che inibiscono l 'att ività di alcuni enzimi
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provocando il deperimento ed il graduale imbrunimento dell 'espianto fino alla
morte. L'ossidazione è favorita, oltre che dall 'aria, dalla presenza di enzimi
quali perossidasi e polifenolossidasi e causa l ' imbrunimento oltre che dei tessuti
anche del substrato. Questo problema è sentito sopratutto in alcune specie
particolarmente ricche di sostanze polifenoliche, come ad esempio il noce, i l
castagno ed il pesco, l imitanto l 'util izzazione della micropropagazione nei
laboratori commerciali .
Sono state sperimentate diverse tecniche per ridurre la produzione di queste
sostanze da parte degli espianti coltivati in vitro.
Fase 2 : Moltiplicazione o proliferazione.
In questa fase i singoli germogli ottenuti precedentemente vengono posti in
opportuni substrati che favoriscono il loro rapido accrescimento e l 'att ività
delle gemme ascellari e/o avventizie, in modo tale che da ciascuna di esse si
sviluppino altrettanti germogli in un periodo di tempo compreso fra 3-5
settimane a seconda delle specie e delle condizioni di coltura.
I nuovi germogli possono essere:
• inviati direttamente alla successiva fase di radicazione;
• sottoposti ad una fase di allungamento per ottenere una maggiore uniformità
dei germogli che vengono successivamente posti a radicare;
• nuovamente moltiplicati su un substrato fresco per ottenere altri
(subcoltura). In questo modo al termine di questa fase si può ottenere un
numero molto elevato di germogli.
Il rapporto fra il numero di germogli ottenuti al termine di una subcoltura ed il
numero di quelli posti a proliferare prende il nome di coefficiente di
moltiplicazione, che dipende dal t ipo di substrato, dalle condizioni ambientali
di coltura, dalla specie o cultivar moltiplicata. Prolungando la fase di
proliferazione e, conseguentemente il numero di subcolture si possono
manifestare sintomi di invecchiamento, quali: ingiallimento, perdita delle foglie
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basali e necrosi apicale. Ciò può essere legato ad una formulazione non corretta
del substrato di coltura per quanto riguarda i macro ed i microelementi e/o gli
ormoni. Se le condizioni di sviluppo dell 'espianto non sono ottimali può esistere
anche il rischio di mutazioni, sopratutto per le specie che non hanno una buona
stabilità genetica. Esperimenti eseguiti su Actinidia chinensis Pl. hanno
evidenziato che questa specie è adattabile alla coltura in vitro e non perde la
capacità morfologica anche se mantenuta per un lungo periodo nella fase di
moltiplicazione. Inoltre, nelle successive subcolutre, rimane inalterato il
numero cromosomico e, quindi, l 'actinidia dimostra anche una buona stabilità ed
è perciò una specie rispondente alla micropropagazione. Una conferma a quanto
affermato è data dal confronto di germogli derivati rispettivamente da 28 e 3
subcolture successive. I primi mostrano un coefficiente di moltiplicazione più
elevato, producono meno callo ed un numero di radici maggiore rispetto ai
secondi, che hanno invece una maggiore altezza. Ciò può essere legato a fattori
ambientali , come il l imitato volume dei va più che nutrizionale. Se le tecniche
di trapianto non sono eseguite correttamente, o se le condizioni di sterili tà
dell 'ambiente o degli strumenti di lavoro non sono ottimali, si può avere
inquinamento della coltura da funghi o da batteri .
Le contaminazioni da funghi sono facilmente identificabili per lo sviluppo di
muffe, che si evidenziano dopo alcuni giorni. Più difficile è il riconoscimento
delle infezioni batteriche, perchè solo alcune si evidenziano precocemente con
la formazione di colonie ben delimitate sulla superficie del terreno, o di
intorbidamento diffuso del substrato. Le più subdole si manifestano con aloni
alla base dei germogli dopo 20 o più giorni dalla messa in coltura, perciò è
possibile diffondere la contaminazione alle successive subcolture.
Fase 3 : Radicazione
Come precedentemente accennato, la fase di radicazione può essere preceduta
da un periodo di 15-20 giorni, detto periodo di allungamento, in modo da
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ottenere germogli ben sviluppati: Il substrato utilizzato è lo stesso della fase 2,
ma con una concentrazione molto ridotta di citochinine ed una più elevata di
acido giberellico, in modo da evitare l 'att ività delle gemme ascellari ma
favorire l 'allungamento dei germogli. Successivamente ha inizio la fase di
radicazione vera e propria.
Nel processo rizogeno si possono distinguere tre fasi:
• fase di induzione (4 giorni), durante la quale non si osservano variazioni
istologiche;
• fase iniziatrice o di differenzazione (4°-6°giorno), una cellula
parenchimatica comincia a modificarsi aumentando il proprio volume;
• fase di attività meristematica.
Nella seconda fase diminuisce la concentrazione di perossidasi e
conseguentemente aumenta il l ivello di auxine endogene. La radicazione è
influenzata dalla concentrazione degli elementi minerali e dello zucchero, dalla
presenza di carbone attivo, dalla natura del substrato, dal t ipo di auxina, dalla
sua concentrazione e dalla interazione con le altre sostanze ormonali e non
presenti nel terreno di coltura. Fra i fattori fisici e ambientali che influenzano
la radificazione rivestono notevole importanza l ' intensitàluminosa ed il
fotoperiodo. Per quanto riguarda la composizione minerale del substrato di
radificazione, ad esempio nel melo, la concentrazione dei macroelementi viene
dimezzata.
Tra gli ormoni vengono utilizzate soltanto le auxine in concentrazione variabile
a seconda della specie micropropagata e del metodo di somministrazione agli
espianti .
I germogli possono infatti restare in un substrato contenente acido 3-
indolbutirrico, acido naftalenacetico o acido indolacetico per tutto il periodo
necessario alla emissione delle radici, oppure essere trasferiti dopo circa una
settimana (quindi al termine della fase di induzione alla radicazione) in un
mezzo di coltura privo di acido 3-indolbutirrico.
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Nel primo caso per il pesco (una specie che radica con difficoltà "in vitro" per
l 'elevato contenuto di tannini) la concentrazione ottimale di acido indolacetico
e acido naftalacetico è pari a 2,5x10-6 M (dosi maggiori causano deformazione
dei germogli), mentre quella di acido 3-indolbutirrico è 1,5x10-5 M
(concentrazioni maggiori hanno un effetto tossico).
Per il pecan, che presenta le stesse difficoltà di radificazione del pesco, Lazarte
ha impiegato il substrato WPM (Woody Plant Medium) aggiungendovi 3 mq/l di
acido 3-indolbutirrico e il 2% di glucosio.
Nel secondo caso il castagno la dose ottimale da aggiungere al substrato iniziale
è di lmq/l e lo sviluppo delle prime radici si ha dopo 2-3 settimane.
La rizogenesi è possibile limitando il contatto dei germogli con le auxine ad
una sola settimana perchè queste svolgono una azione favorevole nell ' indurre il
processo di radicazione, ma inibiscono l 'accrescimento delle radici neoformate.
Ciò è dimostrato dalle percentuali di radificazione che si ottengono in Actinidia
chinensis immergendo i germogli in una soluzione di acido 3-indolbutirrico
(19mg/l) per un breve periodo di tempo e coltivandoli poi in un substrato privo
di auxina, oppure utilizzando per tutta la fase di radificazione un terreno di
coltura contenente 1mg/l di acido 3-indolbutirrico, che rispettivamente sono
pari al 75% ed al 37,5%.
Un'altra conferma della capacità delle auxine di indurre la radicazione è data
dalle modificazione anatomiche della parte basale di germogli di noce dopo
l 'aggiunta di acido 3-indolbutirrico. Si osserva, infatti , un inspessimento della
corteccia, l 'estroflessione dei fasci parenchimatici e del cilindro centrale; anche
le cellule fusiformi del cambio (cellule meristematiche) subiscono
modificazioni. Questo effetto è evidente aggiungendo 500 pmm di acido 3-
indolbutirrico, anche se il massimo effetto si ottiene aggiungendo 2000 ppm.
Un altro metodo per favorire l 'emissione delle radici è l ' immersione della parte
basale dei germogli (1 cm circa) in una soluzione contenente acido 3-
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indolbutirrico ed il successivo trasferimento dei germogli in un substrato privo
di auxine per l 'emissione delle radici.
Sempre nel castagno, si consegue una ottima radicazione lasciando immersi i
germogli per un tempo variabile fra 2-15 minuti a seconda della concentrazione
di auxina (rispettivamente 1-0,5 mg/l).
In Pinus radiata si è visto che il GA3 inibisce la radificazione se somministrato
all ' inizio della prima fase e ciò è forse dovuto ad una diminuizione della
concentrazione di auxine endogene in questo periodo, mentre stimola la
formazione delle radici se somministrato successivamente.
La rizogenesi è influenzata negativamente dalla presenza di tannini e altre
sostanze fenoliche. Sopratutto nelle specie dove la produzione di questi
composti è notevole, per favorire l 'emmissione delle radici al substrato si
aggiunge carbone attivo, che assorbe anche altre sostanze tossiche. Gli
effetti positivi del carbone presente nel mezzo di coltura sono stati evidenziati
sia sull 'accrescimento in vitro che sulla successiva fase di radificazione dei
germogli in Sequoiadendron giganteum .
Un'altra tecnica che favorisce la radificazione dei germogli è l 'eziolamento
degli stessi per 1-2 settimane all ' inizio della fase di radicazione. Nel melo si
ottengono risultati positivi mantenento gli espianti al buio per 4-7 giorni.
Il mantenimento al buio del materiale vegetale ed il carbone attivo hanno un
effetto sinergico sulla radicazione. Mantenendo infatti germogli di melo al buio
per 8 giorni in un substrato contenente sia acido 3-indolbutirrico che carbone si
ottiene una percentuale di radicazione pari all '86,2% mentre in assenza di
carbone questa percentuale scende al 65%.
Tuttavia durante il periodo di eziolamento è bene che nel substrato non sia
presente il carbone attivo perché può assorbire l 'acido 3-indolbutirrico. Come
supporto fisico per i germogli possono essere impiegati substrati agarizzati ,
terreni l iquidi, torba, vermiculite e agriperlite. Questa fase ha una durata di 3-5
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settimane e l 'emissione di radici funzionali si può rilevare dalla formazione di
nuove foglie.
Fase 4 : Ambientamento
È l 'ultima fase della micropropagazione: le piantine vengono trasferite dalla
camera di accrescimento alla serra quando presentano un apparato radicale
sufficiente a garantire l 'attecchimento "in vivo".
L'ambientamento si distingue in due stadi:
• attecchimento delle piantine nel nuovo substrato di trapianto;
• ambientamento vero e proprio alle condizioni della serra e del campo.
Il primo stadio si favorisce mantenendo umidità e temperatura simili a quelle in
vitro. Dopo alcuni giorni, se gli apici mostrano attività di crescita, inizia il
secondo stadio durante il quale temperatura e umidità vengono portate
lentamente a quelle naturali .
L'ambiententamento è reso difficile dalle caratteristiche dei tessuti in vitro
cresciuti in un ambiente caratterizzato da temperatura uniforme, umidità elevata
e costante. Per permettere ai diversi organi di riacquistare la normale attività,
l 'acclitamento deve quindi essere graduale. Il l ivello di umidità del substrato di
trapianto rappresenta un fattore importante sia per l 'accrescimento delle radici
che per un eventuale attacco di patogeni; perciò devono essere impiegati
substrati capaci di assicurare una sufficiente permeabilità ed areazione del
mezzo e contemporaneamente trattenere una quantità soddisfacente di acqua. I
componenti del terriccio più comunemente utilizzati sono: torba, sabbia e
perlite, in rapporti diversi a seconda delle esigenze delle specie. Attualmente
vengono sperimentate anche schiume sintetiche inerti . Per avere un’umidità
atmosferica simile a quella dei vasi di coltura può essere impiegato un sistema
di spray che incrementa gradualmente gli intervalli di erogazione dell’acqua.
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Con questo metodo si raggiunge spesso un livello di umidità del substrato
eccessivo che può causare asfissia radicale. Perciò è preferibile l ' impiego di
tunnel di plastica posti sopra i bancali , nei quali l 'elevato livello di umidità è
assicurato dalla evaporazione dell 'acqua contenuta nel terreno. La luce e la
temperatura vanno mantenute allo stesso livello della fase precedente. Tuttavia
le diverse tecniche presentano vantaggi e svantaggi in base ai costi delle
strutture ed al fabbisogno di umidità e temperatura delle singole specie.
L'ambientamento determina delle variazioni della struttura e della funzionalità
dei tessuti . La pianta coltivata in vitro presenta, infatti , un metabolismo diverso
rispetto ad una pianta cresciuta in condizioni normali: è essenzialmente
eterotrofa poichè per il suo accrescimento util izza il saccarosio presente nel
substrato di crescita e fissa solo piccole concentrazioni da anidride carbonica.
Uno dei primi problemi incontrati dalle piante ex vitro è l 'eccessiva perdita di
acqua. Questo fenomeno è legato alla consistenza delle foglie dei germogli
sviluppatesi in vitro che sono sottil i , con scarsa formazione del mesofillo e con
il tessuto a palizzata che presenta grandi spazi intercellulari . Presentano anche
poche cere epicuticolari poichè all ' interno del contenitore esiste una elevata
umidità relativa. Gli stomi sono caratterizzati da una scarsa funzionalità. Per
favorire il graduale aumento dello spessore del mesofillo e la riduzione degli
spazi intercellulari e quindi evitare stress di trapianto e difficoltà nel
successivo sviluppo, la pianta va inizialmente mantenuta in condizioni i l più
possibile vicine a quelle della camera di crescita.
In alcune specie le radici formate su substrato agarizzato non presentano un
capillizio radicale e muoiono dopo il trapianto e se ne sviluppano altre ex novo
che assicurano la sopravvivenza della pianta.
Prove eseguite su Acacia koa hanno evidenziato che le radici sviluppatesi su
substrato liquido presentano invece peli radicali ed un sufficiente sistema
vascolare.
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Anche nel noce, sono stati ottenuti migliori risultati util izzando come substrato
per i germogli, precedentemente immersi per 15" in una soluzione di IBA (10
pmm), la vermiculite.
In questo modo si ottiene anche un vantaggio economico poichè le operazioni
inerenti le fasi di radicazione, di trapianto e di ambientamento richiedono un
impiego elevato di manodopera con un costo relativo che si aggira intorno al
56% di quello totale.
Se la radicazione è avvenuta in un substrato agarizzato, le piantine vanno
sciacquate in acqua per eliminare residui del mezzo di coltura che favoriscono
lo sviluppo di batteri e funghi patogeni.
Fattori che influenzano l'attività proliferativa
La fase di moltiplicazione è una delle più importanti della micropropagazione
perchè influenza direttamente l 'economia delle colture in vitro . Una
caratteristica di questo metodo di propagazione è, infatti , la possibilità di
produrre in tempi brevi un numero elevato di germogli. L'attività proliferativa
degli espianti è legata a :
• la composizione del substrato di proliferazione;
• fattori fisici ,
• caratteristiche genetiche della specie o della cultivar;
• contaminazioni batteriche latenti;
• vitrificazione dei tessuti;
• giovanilità.
VANTAGGI E SVANTAGGI DELLA MICROPROPAGAZIONE
Le tecniche tradizionali di propagazione sono in genere piuttosto lente; la
moltiplicazione in vitro delle piante arboree mira a moltiplicare rapidamente ed
a costi contenuti cultivars e selezioni di particolare interesse. La
moltiplicazione più rapida si ottiene per la combinazione di più fattori :
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• elevato tasso di moltiplicazione in vitro , che per alcune specie è di 1:20 ogni
4-5 settimane;
• i l ciclo di ogni generazione è molto breve e la divisione dei germogli in
proliferazione avviene ogni mese;
• la vegetazione è svincolata dai cicli stagionali;
• le colture hanno la massima resa perchè non sono soggette a parassiti ,
patogeni e avversità climatiche presenti , invece, nell 'ambiente esterno e
prelevando porzioni di tessuto meristematico apicale con spessore fra 0,2-0,5
mm si ottengono piante virus-esenti.
Inoltre:
• lo spazio richiesto per ottenere la moltiplicazione dei germogli è l imitato;
• i l materiale può ssere frigoconservato, perciò si può razionalizzare la
produzione in funzione delle esigenze del mercato;
• è necessario un numero limitato di piante madri per moltiplicare genotipi
selezionati;
• è facili tato lo scambio tra i diversi paesi del materiale che, essendo sterile,
rende più semplici le operazioni di quarantena o di ispezioni;
• vengono semplificati i programmi di miglioramento genetico perchè i
risultati sono evidenziabili in tempi più brevi;
• le piante ottenute sono omogenee essendo la micropropagazione un metodo
di clonazione;
• è possibile propagare specie di difficile moltiplicazione con le tecniche
tradizionali .
Tuttavia esistono ancora dei problemi che limitano l 'util izzazione delle colture
in vitro . È infatti difficile applicare convenientemente questa tecnica per la
rigenerzione di colture di specie importanti come leguminose e cereali . Inoltre
in vitro può essere indotta la formazione di mutanti interessanti per
caratteristiche diverse (resistenza a parassiti o a condizioni ambientali
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estreme), ma è possibile che in coltura le piante non conservino queste
caratteristiche e quindi viene meno la possibili tà di rigenerarle.
Un altro problema è la valutazione della stabilità genetica delle piante
micropropagate. La conta del numero dei cromosomi permette di individuare il
l ivello di ploidia (il passaggio in vitro della coltura può determinare un
aumento del l ivello di ploidia, negativo sopratutto per i genotipi selezionati),
ma non è possibile stabilire il fenotipo e, per le specie arboree in particolare, la
valutazione fenotipica in campo richiede un lungo periodo.
Se il materiale di partenza presenta contaminazioni i germogli possono non
svilupparsi in vitro , oppure dopo alcune subcolture , i virus o i batteri passano
dalla fase di latenza a quella infettiva, con la conseguente perdita degli
espianti . Nelle specie che radicano con difficoltà, dopo l ' induzione alla
radicazione, è necessaria una ulteriore fase di crescita su un substrato senza
ormoni per consentire ai primordi radicali di fuoriuscire, allungando cosi ' i l
periodo di coltura ed incidendo sui costi di produzione. In alcuni casi c 'è
vitrificazione dei germogli e nella fase di ambientamento dopo il trapianto in
terriccio sono possibili infezioni fungine per l 'elevata umidità ambientale.
È quindi auspicabile un ulteriore miglioramento delle tecniche di
micropropagazione attuali in modo da ottenere piante di qualità superiore,
perchè controllate geneticamente, esenti da patogeni e con un omogeneo
comportamento agronomico. Ciò è reso indispensabile per i costi che si devono
sostenere nei laboratori di micropropagazione sia per l 'organizzazione dei
laboratori stessi, sia per l 'acquisto di tutti i costituenti del substrato di crescita.
Un'altra voce importante di costo è quella riguardante il personale richiesto nei
laboratori, che deve essere altamente specializzato.
CONSERVAZIONE DEL GERMOPLASMA
In un'ottica di conservazione delle risorse genetiche vegetali è di ri levante
importanza la messa a punto di tecniche che consentano la conservazione di
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specie a propagazione vegetativa e di specie che presentano semi recalcitranti
(cioè non facilmente disidratabili) .
Per quanto attiene le metodologie di conservazione in vitro , schematicamente
distinguiamo :
• coltura di tessuti a crescita normale;
• coltura di tessuti a crescita minima;
• crioconservazione.
Le colture di tessuti possono essere mantenute in condizioni normali di crescita
in modo, virtualmente, indefinito, a condizione che siano forniti i nutrienti
necessari e venga garantito un ambiente ottimale. Si hanno condizioni di coltura
a crescita minima quando gli espianti si accrescono ad un tasso molto ridotto. I
metodi util izzati per indurre una crescita minima possono comprendere:
- l 'alterazione delle condizioni fisiche di coltura, più frequentemente,
mediante una riduzione della temperatura, oppure abbassando la pressione
atmosferica;
- la modificazione del mezzo di coltura riducendo od eliminando uno o più
fattori di crescita;
- l 'util izzazione dei composti ri tardanti la crescita come l 'acido abscissico o
composti ad azione disidratante, in grado di abbassare il potenziale
osmotico.
La conservazione a basse temperature offre, infine, altri vantaggi. Le basse
temperature rallentano la crescita e lo sviluppo in modo naturale e riducono il
numero di subcolture da effettuare. Inoltre il numero di mutazioni che si
verificano sembra essere più basso rispetto a quelle che si verificano in
condizioni normali ad ogni subcoltura.
Inoltre, la conservazione per congelamento (criocoservazione) è,
tradizionalmente, impiegata per le coltura di cellule animali (spermatozoi,
ovari, tessuti embrionali), mentre risulta essere, relativamente recente,
l 'applicazione alle cellule vegetali . Le potenzialità di un tale metodo di
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conservazione, a lungo termine, sono ampie, benchè le ricerche e gli studi, in
questo campo, siano ancora in una fase di messa a punto e verifica della
tecnica.
La crioconservazione si basa sulla riduzione e, conseguente, arresto delle
funzioni metaboliche di materiale biologico sottoposto a bassissime
temperature. Attualmente è possibile combinare differenti tecniche di
crioconservazione ed applicarle a differenti specie vegetali . La
crioconservazione comprende molte fasi, delle quali i l congelamento è solo una.
Molta cura deve esere rivolta alla scelta del materiale, i l quale deve essere
sano, e nel caso di materiale allevato in vitro i parametri di coltura e i
meccanismi legati alla rigenerazione devono essere attentamente ottimizzati
prima di procedere alla crioconservazione.
Sono necessarie alcune forme di crioprotezione del materiale per assicurare il
minimo danno agli espianti alle basse temperature. Durante il congelamento,
infatti , si verifica la formazione di cristalli di ghiaccio, i quali possono
danneggiare i tessuti . Questo tipo di problema è stato risolto util izzando
sostanze con proprietà crioprotettrici. La prima sostanza chimica con tali
proprietà ad essere stata scoperta e stata il glicerolo, e, successivamente, i l
dimetil solfossido (DMSO). I composti ad azione crioprotettrice devono avere
un'alta solubilità ed una bassa tossicità. Essi sono di solito classificati in due
categorie:
- penetranti
- non penetranti .
Al gruppo dei penetranti appartiene il DMSO, il metanolo, i l glicerolo, al
secondo gruppo appartengono alcuni zuccheri, ed alcuni composti ad elevato
peso molecolare come il polivinilpirrolidone, i l destrano. Tra i composti
penetranti i l DMSO penetra nelle cellule più rapidamente del glicerolo,
richiedendo in questo modo trattamenti di più breve durata. Solitamente queste
sostanze esibiscono vari gradi di tossicità se util izzate ad elevate
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concentrazioni. Le concentrazioni più adeguate sono del 5-10% per il DMSO e
del 10-20% per il glicerolo. Aggiungendo al mezzo di coltura sostanze ad
azione osmotica come il mannitolo, sorbitolo, saccarosio o prolina si riesce ad
incrementare la resistenza al congelamento. Tali sostanze svolgono,
principalmente, un'effetto disidratante. Se le cellule sono sufficientemente
disidratate resistono all ' immersione in azoto liquido senza un ulteriore
applicazione di sostanze crioprotettrici.
Tali sostanze, tuttavia, a basse concentrazioni non assicurano un sufficiente
grado di crioprotezione, per questo motivo sono stati messi a punto alcuni
trattamenti al fine di aumentare la sopravvivenza del materiale dopo la fase di
congelamento. Dopo tali trattamenti , gli espianti possono essere portati alla
temperatura dell 'azoto liquido senza dover ricorrere ulteriormente
all 'applicazione di sostanze ad azione crioprotettrice.
Il congelamento dei tessuti si ottiene attraverso un'immersione diretta in azoto
liquido, oppure attraverso un raffredamento progressivo fino alla temperatura
desiderata.
Un aspetto che deve essere preso in considerazione riguarda il mantenimento
dell ' integrità genetica degli espianti conservati in vitro . Tale stabilità genetica
si mantiene durante la conservazione, se si introducono in coltura meristemi,
apici di germogli ed embrioni. Inoltre, questo tipo di espianti rispetto ad altri
sembra mantenere più a lungo il potenziale rigenerativo.
La temperatura alla quale gli espianti vengono scongelati dipende dal metodo di
congelamento utilizzato. Solitamente lo scongelamento si ottiene previa
immersione dei campioni in acqua sterile mantenuta a 40-45°C. In altri casi,
invece, lo scongelamento avviene a temperatura ambiente.
COLTURE CELLULARI
Le colture di cellule in sospensione vengono utilizzate per moltiplicare
rapidamente le cellule di una pianta in modo da ottenere compounds su scala
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industriale senza passare dalla coltura di pieno campo. Le colture in
sospensione si ottengono prevalentemente da callo e le parti friabili vengono
disperse (singole, a coppie o in piccoli aggregati) in un terreno di coltura
liquido. Tali cellule in sospensione possono mantenere o meno la capacità di
rigenerare la pianta. Per il miglioramento genetico hanno interesse solo le
colture nelle quali le cellule hanno conservato la loro capacità rigeneratrice. Al
momento sono stati messi a punto numerosi protocolli per coltivare le cellule in
sospensione in un mezzo liquido.
MANIPOLAZIONE DI PROTOPLASTI
I protoplasti si ottengono a partire da tessuti/cellule vegetali sottoposte ad
azione di enzimi (cellulasi e pectinasi) che digeriscono la parete cellulare. I
protoplasti si possono ottenere direttamente dai tessuti della pianta (ad es. dal
mesofillo) oppure dalle cellule dei calli o dalle sospensioni di cellule. La
quantità e la qualità dei protoplasti isolati sono influenzate dal t ipo di tessuto
utilizzato e dallo stato fisiologico della pianta donatrice.
Nella maggior parte delle dicotiledoni, vengono generalmente utilizzate per
l ' isolamento di protoplasti le giovani foglie, ottenute preferibilmente, da colture
di apici di germoglio.
Nelle monocotiledoni e nelle specie legnose si preferiscono calli embriogenetici
o sospensioni cellulari derivate da embrioni immaturi. I tessuti util izzati
vengono, generalmente, digeriti con un trattamento iniziale in pectinasi che
dissolve la lamella mediana, mentre le cellulasi o emicellulasi degradano la
parete cellulare.
Successivamente i metodi di purificazione dei protoplasti includono la
fil trazione e la centrifugazione, al fine di rimuovere i tessuti e i frammenti
cellulari non digeriti ed, eventualmente, per selezionare i protoplasti . La
vitalità dei protoplasti appena isolati può essere valutata attraverso fluoresceina
diacetato oppure con la fenosafranina. Per ottenere la rigenerazione della parete
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cellulare, i protoplasti purificati devono essere piastrati ad una densità ottimale,
che solitamente oscilla tra 5x103 e 105 protoplasti/mL. Secondo alcuni autori, i
protoplasti possono essere piastrati su un substrato liquido o semisolido, oppure
una combinazione di entrambi. Per la solidificazione si ottengono i risultati
migliori con agarosio piuttosto che con agar. La composizione dei mezzi di
coltura dipende dal genotipo utilizzato, specie per quanto riguarda l 'equilibrio
ormonale. In condizioni ottimali, i protoplasti originano colonie cellulari in
grado di formare callo. La rigenerazione dei germogli generalmente si ottiene
modificando la composizione del mezzo e variando le condizioni ambientali . Le
piante rigenerate ottenute da colture di protoplasti possono mostrare variabilità
che può essere util izzata nei programmi di miglioramento genetico.
La fusione di protoplasti appartenenti a specie diverse consente l 'ottenimento di
piante ibride, difficilmente ottenibili per altra via. L'obiettivo di questa tecnica
è la combinazione, attraverso la fusione di cellule somatiche, di cromosomi di
specie sessualmente incompatibili .
Quando la distanza evolutiva tra le specie parentali aumenta e, con essa,
l ' incompatibiltà genetica, l 'ottenimento di piante ibride diventa più difficile,
poichè se è facile fondere cellule e produrre ibridi cellulari , non altrettanto è
ottenere che questi crescano per successive divisioni mitotiche. La maggior
parte dei problemi è legata alla mancanza di sincronia operativa dei due genomi
parentali . Per superare questo tipo di problemi in alcuni casi si è pensato di
inserire solo parte del DNA della specie donatrice, cercando di ottenere ad
esempio ibridi contenenti i l DNA nucleare di una sola specie ed il DNA degli
organelli citoplasmatici di un'altra (ibridi citoplasmatici). L'util i tà di tale
procedura deriva dal fatto che certi caratteri economicamente importanti , sono
il risultato di una interazione tra i l genoma nucleare e quello citoplasmatico,
come ad esempio la maschiosterili tà genetico-citoplasmatica che è utile nella
produzione commerciale di seme ibrido. Fino a questo momento sono stati
studiati ibridi ottenuti con queste tecniche nel genere Nicotiana e casi di
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combinazione del genoma di colza (Brassica napus) con il citoplasma di
ravanello (Raphanus sativus).
È necessario fornire ai protoplasti condizioni osmotiche di equilibrio fra il
citoplasma e il substrato, addizionando una molecola non polare osmoattiva
(saccarosio, glucosio, mannitolo, sorbitolo), per evitare danni alla membrana
che, nelle cellule intatte, è protetta dalla parete.
I protoplasti possono fondersi spontaneamente durante la digestione enzimatica
della parete. Tale fenomeno è dovuto all 'espansione del plasmodesma delle
cellule contigue e genera protoplasti con due o più nuclei dentro un citoplasma
comune (omocarionti).
Per fondere protoplasti di specie differenti si devono applicare delle
metodologie specifiche miranti a questo scopo. Per quanto riguarda la
metodologia i protoplasti ottenuti da specie diverse possono essere fusi per
mezzo di sostanze chimiche o di impulsi elettrici
Fusione Chimica
Per quanto riguarda la fusione chimica la prima sostanza impiegata con questa
finalità è stata il nitrato di sodio, ormai abbandonata perchè produce fusioni con
frequenze bassissime (0,01%). Successivamente è stato util izzato il
polietilenglicole (PEG), molecola solubile in acqua, di peso molecolare
variabile fra 1500 e 6000. Tale sostanza viene utilizzata in soluzione con sali di
calcio, a pH alcalino. Il suo meccanismo di azione è legato al fatto che
trattandosi di una molecola assai lunga con cariche negative libere, si è pensato
che essa agisca da ponte tra protoplasti contigui. Il Ca++, invece, in soluzione
formerebbe un ponte tra le proteine di membrana polarizzate negativamente e il
PEG. Quando quest 'ultimo viene asportato mediante diluizione, le molecole
ponte vengono disperse. Questo creerebbe una ridistribuzione delle cariche
elettriche su zone di unione di membrane di protoplasti contigui, tali da indurre
la fusione.
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Elettrofusione
Nel 1979 sono noti i primi reports relativi all 'applicazione di campi elettrici per
fondere singole coppie di protoplasti . Nel 1981 alcuni importanti gruppi di
ricerca europea migliorarono tale tecnica. Si avvalsero di un fenomeno chiamato
dielettroforesi e fu dimostrato che era possibile portare in stretto contatto
grandi quantità di protoplasti simultaneamente prima dell 'applicazione
dell ' impulso per la fusione. L'elettrofusione massiva si ottiene in due tappe
successive. Nella prima i protoplasti vengono portati a contatto tramite la
dielettroforesi, nella seconda si produce il collasso elettrico delle membrane
mediante un impulso di corrente continua. Normalemente per effetto del
movimento Browniano e delle forze elettrostatiche create dalla carica negativa
delle membrane, i protoplasti in sospensione non vengono in contatto fra loro.
La dielettroforesi consente, invece, un intimo contatto tra protoplasti in un
campo di corrente alternata non uniforme. Infatti quando il campo elettrico è
uniforme il potenziale è uguale in entrambi i poli dei protoplasti , per cui non
esiste una forza e non si verifica movimento. In un campo non uniforme, invece,
si polarizzano disugualmente e si muovono verso la zona con maggiore
potenziale, formando catene a contatto tra le membrane. Le catene di protoplasti
si formano solo in una soluzione con conduttività minore a quella del
citoplasma. La presenza di elettrolit i crea problemi di riscaldamento e
turbolenza che influenza negativamente la formazione delle catene. Solitamente
si aggiungono al mezzo, oltre a componenti non polari osmoattivi come
mannitolo o sorbitolo, tracce di Ca++ per stabilizzare le membrane. La forza
dielettroforetica deve eccedere le forze di diffusione proprie delle cellule in
sospensione, ma le catene di protoplasti devono formarsi a voltaggi
relativamente bassi per evitare il danneggiamento del citoplasma. In questa fase
si cerca di avere un gran numero di catene di soli due protoplasti ciascuna.
Questo tipo di catene si ottiene con sospensioni di bassa densità e con
potenziali deboli.
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I l collasso elettrico nella zona di contatto delle membrane è il primo processo
responsabile della fusione. Esso si verifica quando lo spessore della membrana
raggiunge circa il 10-20% di quello originario e avviene perchè le forze
elettriche di compressione cambiano più velocemente di quelle elastiche di
restaurazione. In questo modo si formano piccolissimi pori attraverso i quali ,
negli esperimenti di elettroporazione, che hanno come fine l ' introduzione di
DNA esogeno, avviene l ' incorporazione di materiale genetico. La fusione,
invece, si verifica quando i pori delle membrane si formano nei punti di
contatto di due o più protoplasti . Il potenziale necessario per provocare il
collasso della membrana dipende dalla dimensione del protoplasto e dall 'angolo
di un punto della membrana rispetto alla direzione del campo elettrico.
Successivamente alla fusione se i protoplasti vengono incubati in un idoneo
mezzo di coltura, rigenerano le pareti e, attraverso successive divisioni, danno
origine ad una popolazione mista di eterocarionti (prodotti di fusione fra le due
popolazioni), omocarionti e cellule parentali non fuse. Il problema è, allora
individuare gli eterocarionti e distinguerli dalle altre cellule. Per raggiungere
questo scopo è possibile ricorrere a diversi t ipi di approccio. Il sistema più
util izzato si basa sulla complementarità di due popolazioni di protoplasti ,
ciascuna delle quali da sola non riuscirebbe a sopravvivere su un mezzo di
coltura selettivo.
In alcuni casi si fa ricorso a linee mutate e fra le l inee mutanti le più util izzate
negli esperimenti di fusione sono quelle che, per sopravvivere, dipendono dalla
presenza, nel mezzo di coltura, di un determinato componente nutrizionale
perchè sono privi di qualche enzima che ne consente il metabolismo.
Dopo aver individuato i prodotti di fusione, essi non possono essere considerati
ibridi o cibridi fino a che non si ha la certezza della loro origine. Per averne la
conferma esistono diversi metodi che servono a caratterizzare la loro
composizione nucleare o citoplasmatica.
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Tra le tecniche molecolari è possibile util izzare la tecnica degli RFLP.
Utilizzando opportuni enzimi dei restrizione i parentali dovrebbero produrre
frammenti specifici discriminabili nel gel, mentre l ' ibrido, dovrebbe evidenziare
la presenza di quelli di entrambi. Inoltre è possibile fare ricorso alla
citogenetica o alla determinazione del DNA. Il conteggio dei cromosomi e la
misurazione citofotometrica del DNA nucleare sono dei potenti strumenti per
accertare la natura ibrida e la stabilità citologica di un ibrido somatico.
L'ibridazione somatica comporta normalmente la sommatoria dei cromosomi di
enrambi i parentali per cui si formano individui euploidi. In altri casi si
verificano perdite di cromosomi di uno o entrambi i parentali per cui si formano
individui aneuploidi. Il metodo di studio più util izzato ed attendibile è quello
usato per lo studio del cariotipo. Inltre si è potuto osservare che esiste una
buona correlazione tra il numero di cromosomi di una cellula e il contenuto
totale di DNA misurato mediante citometria di flusso. La tecnica util izzata
prevede la colorazione dei nuclei con coloranti fluorescenti specifici che si
legano selettivamente al DNA, la cui fluorescenza è linearmente correlata al
contenuto di DNA.
Infine per l ' identificazione degli ibridi somatici un metodo molto diffuso è il
ricorso al polimorfismo degli isoenzimi. Gli ibridi, normalmente , esprimono le
bande caratteristiche dei due parentali più una banda ibrida, che non si ottiene
con la miscela fisica degli estratti di tessuto dei parentali .
RISANAMENTO DI PIANTE DA VIRUS
Le colture in vitro possono essere utilmente sfruttate per l 'ottenimento di
materiale virus-esente. La procedura di risanamento consiste nel prelevare dalle
piante virosate espianti quanto più piccoli possibile per diminuire la carica
vitale e i l numero di cellule differenziate invase dal virus e con infezione ormai
stabilizzata. Per questo motivo, quando è possibile, si prelevano i soli apici
meristematici con i primi due abbozzi fogliari . Tali espianti vengono allevati su
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substrato artificiale (liquido o solido), oppure vengono microinnestati su
semenzali , sempre ottenuti in vitro.
Attraverso l 'espianto degli apici si effettua di fatto una selezione nell 'ambito
della pianta malata nell ' intento di prelevare solo i tessuti (meristemi) non
raggiunti dal virus che, separati dalla pianta madre, grazie alle loro
caratteristiche di totipotenza, ne rigenerano un'altra sana. Questo metodo
funziona anche nel caso non raro che gli espianti (meristemi inclusi) siano
infetti perchè è la differenziazione degli apici che comporta gli esiti terapeutici
a seguito dell 'antagonismo che si instaura tra metabolismo cellulare e
replicazione virale nel corso dell 'evoluzione dell 'apice in plantule.
In realtà i meccanismi molecolari di tale antagonismo non sono noti ma è
possibile che il trauma stesso della dissezione provochi profonde turbe nel
metabolismo dell 'espianto e sia responsabile, almeno in parte, degli effetti
inibitori. Infine non si può escludere che qualche composto chimico
indispensabile alla differenziazione dell 'apice interferisca sul rapporto virus-
cellula sfavorendo la replicazione virale.
Il risanamento da virus può essere ottenuto utilizzando pratiche diverse, talora
usate in combinazione tra loro. Ad esempio è possibile aggiungere inibitori
della moltiplicazione virale (ribavirina ad es.) ai substrati di crescita degli
espianti , oppure allevare gli espianti a temperature relativamente elevate e poco
confacenti alla replicazione virale (termoterapia).
Un'applicazione del tutto particolare delle colture in vitro è il microinnesto.
Questo metodo, messo a punto da Murashige et al . , (1972), consiste
nell ' innestare sull 'epicotile decapitato di un semenzale allevato sterilmente in
vitro un espianto di 0,4-1,5 mm di lunghezza e lasciarvelo sviluppare.
L'interesse per questa tecnica è cresciuto in relazione alla possibili tà di
sfruttare questa tecnica per l 'eliminazione dei virus. Tale tecnica, infatti , è stata
dapprima utilizzata per i l risanamento degli agrumi per i quali oggi costituisce
uno dei sistemi terapeutici più diffusi, successivamente tale tecnica è stata
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applicata anche ad altre specie arboree. Anche con questa tecnica è possibile
incrementare la percentuale di risanamento allevando i semenzali microinnestati
a temperature moderatamente elevate. Il microinnesto rispetto alla coltura di
tessuti in vitro tradizionale è, sicuramente, più macchinoso nella esecuzione,
ma offre un considerevole vantaggio e cioè mette al sicuro da possibili
modificazioni indotte nelle piante dalla coltura in vitro. Infatti , nel
microinnesto l 'apice meristematico non è mai a diretto contatto con il substrato
artificiale il quale, peraltro, è meno complesso e ricco di fattori di crescita dei
substrati che si adoperano comunemente per indurre la differenziazione degli
espianti messi in coltura.
Quando si procede al risanamento gli esiti terapeutici del microinnesto e della
coltura in vitro tradizionale non possono essere dati per scontati . Per questo è
sempre necessario procedere alla verifica della sanità delle plantule cosi '
ottenute, attraverso accertamenti diagnostici sperimentali (saggi biologici e
sierologici).
LA TRASFORMAZIONE GENETICA IN PIANTA: ASPETTI E CONSIDERAZIONI GENERALI Introduzione Nel settore vegetale si intende per trasformazione genetica l’ottenimento dell’integrazione stabile di un frammento di DNA estraneo nel genoma della cellula vegetale (Bains, 1993). La trasformazione genetica può indurre nelle piante rigenerate, che vengono definite transgeniche , dei cambiamenti fenotipici senza alterare i caratteri preesistenti ed il DNA introdotto, normalmente costituito dalla porzione codificante di uno o più geni, viene detto transgene . Occasionalmente il termine trasformazione viene utilizzato quando il transgene viene introdotto nella cellula ma non riesce ad integrarsi stabilmente nel genoma. Malgrado ciò il transgene può comunque esprimersi per un tempo limitato dando luogo a quel fenomeno definito espressione transitoria , che si descriverà dettagliatamente in seguito.
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La trasformazione richiede pertanto l’util izzo di tecniche di ingegneria genetica per l’isolamento di geni di interesse, la loro clonazione in vettori di espressione in pianta (in genere sono di origine plasmidica o virale) e l’util izzo di tecniche di manipolazione in vitro che rendono possibile l’introduzione del gene isolato e la sua integrazione stabile nel genoma vegetale. L’obiettivo è ottenere un’intera pianta trasformata e fertile che conservi i caratteri dell’individuo di partenza e la presenza del carattere d’interesse espresso dal transgene. La trasformazione genetica viene utilizzata soprattutto nel campo del miglioramento genetico delle piante ed in generale richiede la disponibilità di: • geni marcatori e metodi di selezione affidabili; • vettori adeguati per il trasferimento e l’integrazione del DNA esogeno; • tecniche efficienti di trasformazione; • tecniche di rigenerazione di piante transgeniche. La storia Le prime piante transgeniche sono state ottenute negli anni ottanta a partire da protoplasti di tabacco infettati con Agrobacterium tumefaciens (Horsch et al. , 1984; De Block et al. , 1984). Nella solanacea, util izzata per la sua elevata risposta al trattamento in vitro , è stato introdotto il gene chimerico della neomicina fosfotransferasi (NPTII), che si esprimeva stabilmente e conferiva resistenza all’antibiotico kanamicina sia alle trasformate primarie sia alle loro progenie. Lo sviluppo di successive metodiche di trasformazione mediate da Agrobatterio, a partire da foglie, stelo o altro espianto di rigenerazione, meno complicato dei protoplasti (Horsch et al. , 1985), permise l’util izzo di tale metodica in molte specie vegetali , in particolare dicotiledoni, quale tecnica di routine . Altri metodi di trasformazione diretta del DNA, come il trattamento dei protoplasti con glicolepolietilenico (Krens et al. , 1985), l’elettroporazione (Fromm et al. , 1985), la microiniezione (Neuhaus et al. , 1987) e il bombardamento con microparticle “biobalistico” (Klein et al. , 1987, Wang et al. , 1988) permisero di ampliare il numero delle specie vegetali trasformabili anche a quelle definite recalcitranti alla trasformazione con Agrobacterium tumefaciens , quali le graminacee (Gordon-Kamm et al. , 1990). Il notevole sviluppo delle tecniche di trasformazione genetica in piante modello quali tabacco e Arabidopsis può permettere oggi un’efficace analisi funzionale di nuovi geni clonati . D’altra parte, l’espressione del gene si può controllare
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mediante l’impiego di sequenze promotrici e terminatrici adeguate, che restringono l’espressione a determinati tessuti (Mariani et al. , 1990) . Geni chimerici sono stati legati anche a peptidi di transito che veicolano il prodotto proteico a determinati organuli cellulari (Forsman e Pilon 1995). La possibilità di integrazione del gene estraneo in punti concreti del genoma vegetale per ricombinazione omologa (“gene targeting”) (Offringa et al. , 1990) o mediante l’impiego di MARs (“Matrix Attachmant Regions”) (Mlynàrovà et al. , 1996) risulta ugualmente interessante. Bisogna infine ricordare i notevoli progressi compiuti nel settore agrobiotecnologico nei trascorsi venti anni, ma solo negli anni ’90 sono iniziate le produzioni di sementi transgeniche che adesso sono in continua espansione. Le prime piante transgeniche sono stati commercializzate nella Comunità Europea a partire da metà degli anni ‘90. Dal pomodoro “Flavr Savr” che presenta un ritardo nella maturazione, alla soia “Roundup-Ready” resistente ad un erbicida glucosinato fino al mais resistente al lepidottero piralide . Migliaia di genotipi transgenici sono attualmente in valutazione, per ottenere il requisito preliminare ed indispensabile per l’approvazione e la successiva commercializzazione (APHIS, 1997). Il settore delle agrobiotecnologie, secondo stime di società multinazionali , vede crescere il fatturato dai 2.7 miliardi di dollari del 1989 ai 14 nel 1994 e si prevede che debba raggiungere i 60 miliardi di dollari nel 2000 ed i 150 nel 2005. Nel 1997 si sono stimati circa 14 milioni di ettari coltivati con specie geneticamente modificate (mais, soia, colza, cotone, tabacco, riso, patate, diverse specie di ortaggi come: pomodoro, fragole, angurie etc.). Tali coltivazioni sono concentrate soprattutto negli U.S.A. ed in Canada. Negli U.S.A. la produzione di mais e di soia transgenica ha raggiunto nel 1997 rispettivamente il 14,8% ed il 13,4% della totale quantità raccolta (246 e 73 milioni di tonnellate). Estese superficie si riscontrano anche in Cina (tabacco, riso, pomodoro, angurie) ed in misura minore anche in altri paesi asiatici (es. Giappone). Nei paesi dell’Europa dell’est si riscontrano coltivazioni di colture transgeniche in Bulgaria. Nel campo vegetale gli aspetti studiati tendono ad una vasta gamma di applicazioni: Piante resistenti (soia, riso, colza, patate, mais, frumento, albicocco, tabacco, carciofo) ad erbicidi e/o parassiti (virus, batteri , insetti);
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• Piante con prodotti a lunga conservazione (pomodoro, melone, anguria); • Piante con rendimenti produttivi maggiori (soia, colza, barbabietola); • Piante resistenti alla salinità e alle gelate (riso, molte specie ortive); • Piante con spiccate caratteristiche organolettiche dei frutti (fragole). Nel settore delle biotecnologie operano circa 700 aziende in Europa e 1300 in U.S.A. che hanno suscitato enorme interesse nel mondo finanziario. Solo nel 1996 le aziende europee hanno raccolto nelle varie borse in giro per il mondo 1.2 miliardi di dollari . Si prevede un notevole sviluppo del settore in virtù dell’interesse posto dalle grandi aziende farmaceutiche che tendono a collaborare con i vari isti tuti di ricerca finanziandone la sperimentazione per assicurarsi lo sfruttamento delle scoperte. Infatti la posta della nuova corsa alla frontiera biologica, sia nella produzione alimentare sia in quella farmaceutica, è costituita dagli enormi profitt i che derivano dal dirit to allo sfruttamento commerciale della scoperta per 20 anni. I prodotti vegetali transgenici mostrano una crescita esponenziale perché le colture costituiscono un'innovazione di ril ievo in grado di produrre notevoli effetti sulle rese unitarie (si stima che consentono aumenti medi del 20% rispetto alle colture tradizionali) e sui costi (si stima che consentano riduzioni nei costi di produzione fino al 40%) e di rappresentare inoltre opportunità per l’agricoltura sostenibile. Con l’introduzione e la rapida diffusione di queste moderne tecniche sarà possibile a breve tempo incrementare velocemente le produzioni mondiali di cibo, di fibre e mangimi.
Le differenti tecniche di trasformazione Esistono diverse metodologie di trasformazione che possono essere raggruppate in due categorie principali: la trasformazione indiretta o mediata da agenti o vettori biologici e la trasformazione diretta non mediata da vettori biologici. In Fig. sono riportati i metodi maggiormente util izzati nella trasformazione genetica delle piante e che richiedono l’uso di tecniche di rigenerazione in vitro . I geni marcatori: hanno un ruolo molto importante nel processo di trasformazione. La loro integrazione nel genoma della cellula vegetale ospite conferisce alla stessa un fenotipo diverso dalla cellula non trasformata, permettendo l’identificazione delle cellule trasformate e la successiva valutazione di questi geni (Bower, 1993). Si distinguono due classi di marcatori per la trasformazione:
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• Geni marcatori di selezione, che conferiscono alla cellula trasformata la possibili tà di svilupparsi in presenza di un agente selettivo (antibiotico, erbicida, ecc.) incluso nel mezzo di coltura;
• Geni marcatori informatori, che conferiscono alla cellula una caratteristica morfologica distinguibile.
Un altro aspetto importante è la scelta della sequenza promotrice, ossia la sequenza di DNA che accende i l gene e che ne controlla l’espressione distinguendo tra: promotori costitutivi (gene sempre attivato), tessuto-specifici ed inducibili (attivo solo in risposta a fenomeni quale luce, freddo, siccità o lesioni) (Sala, 2000). La maggior parte dei geni negli organismi superiori è controllata da promotori inducibili . I primi esempi di piante o organismi geneticamente modificate (OGM) avevano transgeni con promotori costitutivi, mentre l’orientamento attuale è quello di produrre piante con promotori tessuto-specifici e/o inducibili da stress biotici. Tra i promotori costitutivi più util izzati ricordiamo il CaMV35S isolato dal virus del mosaico del cavolfiore (Benfey e Chua, 1990; Ho et al. , 1999) e il promotore NOS del gene della Nopalina sintetasi (Herrera-Estrella et al. , 1983). Il promotore costitutivo permette di esprimere il trangene con alta efficienza, ma spesso tale fenomeno implica problemi etico-ambientali . Nel caso del mais-Bt (con introdotto un gene mutagenizzato di Bacillus thuringiensis anti lepidottero) l’alta espressione della tossina-Bt potrebbe alterare gli equilibri delle popolazioni dell’insetto bersaglio con relative conseguenze per la biodiversità, oppure potrebbe favorire la selezione di insetti resistenti . In altre occasioni è preferibile l imitare l’espressione del gene marcatore a certi tessuti , ed è quello che si ottiene ponendo il gene sotto un promotore specifico del tessuto prescelto (Ozcan et al. , 1993). Sono in corso diversi programmi di ricerca finalizzati all’isolamento di promotori che attivano i geni in seguito ad infezione da parassiti , in dati stadi di sviluppo della pianta o in particolari tessuti (Saxena et al. , 1999). a) marcatori di selezione L’utilizzo dei geni marcatori di selezione è consigliabile in modo da impedire o per lo meno di l imitare, lo sviluppo di individui non trasformati (in inglese escapes).Esiste un numero considerevole di questi geni (Croy, 1993) ed uno dei più util izzati è i l gene per la neomicina fosfotransferasi II (NPTII), isolato dal trasposone Tn5 di E. coli , che conferisce resistenza ad antibiotici
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aminoglicosidici, come kanamicina, neomicina, gentamicina (G418) poiché codifica per una proteina che inattiva per fosforilazione tali antibiotici. I geni marker di resistenza ad antibiotici presentano lo svantaggio di dare origine a piante trasformate selezionate per la resistenza a tali sostanze agenti nel mezzo di coltura. Pertanto l’eliminazione dei geni marker dopo la fase di selezione diviene auspicabile (ancorché molto complessa geneticamente) sia in vista della commercializzazione dei prodotti transgenici sia per util izzare lo stesso marcatore di selezione in successivi programmi di trasformazione della medesima linea transgenica o da linee derivate da sue progenie (Yoder e Goldsbrough, 1994). Esistono diversi sistemi di trasformazione che permettono l’eliminazione dei geni marcatori, come la cotrasformazione (Mc Knigth et al. , 1987), l’util izzazione di elementi trasponibili (per esempio la famiglia Ac /Ds del mais; Goldsbrough et al. , 1993) o l’util izzo di sistemi di ricombinazione specifica (per esempio, i l sistema Cre / lox del fago P1; Russel et al. , 1992). Tutti questi metodi richiedono la realizzazione di incroci successivi per eliminare il gene di selezione. Il sistema di selezione positivo (Joersbo and Okkels, 1996) evita l’util izzo di geni di resistenza ad antibiotici o ad erbicidi. Il sistema prevede l’introduzione del gene uidA o GUS come agente doppio (informatore e selettivo), realizzando la selezione in un terreno contenente un glucuronide di benziladenina. Altro sistema è quello della “MultiAutoTrasformazione” (MAT) (Ebinuma et al. , 1997) che utilizza il gene chimerico ipt, inserito nell’elemento trasponibile Ac del mais, come gene di selezione visiva (perdita di dominanza apicale), che permette l’eliminazione spontanea del gene in certi individui rigenerati senza la necessità di ottenere progenie per la sua eliminazione.
Tabella 2 . Elenco dei principali geni marcator i (marker) di selezione. Gene marcatore Enzima codif icato Resistenza ad antibiot ic i NptI I neomicina fosfotransferas i kanamicina, neomicina,
paromomicina, G418 (gentamicina)
Hpt o aph IV igromicina fosfotransferas i igromicina Dhfr da bat ter i o topo
di idrofolato r idut tas i methotrexate
ACC3 e AAC3 (3) gentamicina 3N acet i l t ransferas i gentamicina Aad A aminoglicoside 3’ s teptomicina, spect inomicina
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adeni l t ransferasi Resistenza ad erbicidi Bar fosf inotr ic ina acet i l t ransferas i fosf inotr ic ina Aro A 5-enolpiruvi lshikimato 3-
fosfosinte tas i glyphosato
Geni a ls modif icat i
acetoidrossiacido s inte tas i o acetolat ta to s inte tas i
chlorsulfuron o imidazolone
b) marcatori informatori I geni marker informatori permettono di distinguere le cellule, i tessuti e/o intere piante che hanno incorporato ed espresso il transgene da quelle che non lo contengono con un semplice saggio. Tra i geni di questo tipo disponibili (Croy, 1993), i l più util izzato ad oggi è il gene della β-glucuronidasi (uidA o GUS) isolato da E. coli . La β-glucuronidasi idrolizza β-glucuronidi in acido glucuronico e altri prodotti facilmente saggiabili (Jefferson, 1987). L’analisi della detenzione e dell’espressione del gene può essere tanto qualitativa (istologica) che quantitativa (fluorimetrica). Nel caso di molte specie legnose, l’impiego dei geni marcatori informatori è indispensabile, vista l’alta frequenza di escapes durante il processo di trasformazione genetica anche in presenza di agente selettivo (James et al. , 1989; Pena et al. , 1995a,b; Mourgues et al. , 1996). Sebbene il gene Gus abbia molte proprietà util i , uno degli svantaggi del suo utilizzo è che la colorazione istochimica per l’espressione di GUS è distruttiva e i tessuti transgenici non possono essere recuperati per un'ulteriore proliferazione del callo e la rigenerazione di piante dopo la loro identificazione. Un gene reporter alternativo che fornisce l’opportunità di recuperare i tessuti trasformati dopo l’identificazione è il gene Luc che codifica per l’enzima luciferasi nelle lucciole. (Chia et al.1994). Esistono diverse tecniche che permettono il ri levamento dell’attività del gene luciferasi trattando piante intere o parti con il substrato luciferina e successivamente visualizzando la luce prodotta o per fotografia a contatto (Ow et al. , 1986; Schneider et al. , 1990) o tramite un sistema video di amplificazione di immagine (Wick, 1989; Kay et al. , 1994). Attualmente il gene marcatore alternativo al GUS, più utilizzato che presenta i vantaggi di una colorazione vitale e la semplicità del suo rilevamento nel materiale trasformato è il gene GFP (“Green Fluorescent Protein”). Il gene per la
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proteina fluorescente verde GFP, isolato da Aequorea victoria, una medusa, che emette una luce verde fluorescente (λma x= 509nm, con un picco minore a 540nm), si analizza semplicemente irradiando con luce ultravioletta (λma x = 395nm) o blu (λma x = 475nm) (Heim et al. , 1994; Chalfie et al. 1994; Baulcombe et al 1995, Elliott et al. , 1999).Le proprietà fluorescenti associate al gene GFF lo rendono un marcatore ideale per i processi di trasformazione. Il basso livello di espressione genica e una scarsa produzione della proteina wild-type ha limitato la sua applicazione nelle piante. Questi inconvenienti hanno portato allo sviluppo di molte versioni modificate del gene gfp con una sequenza alterata per migliorare l’espressione e la sostituzione di aminoacidi per spostare le proprietà spettrali o aumentare la solubilità (Chiu et al. , 1996, Heim e Tsien, 1996; Haseloff et al. , 1997, Davis e Vierstra, 1998). La fluorescenza del gene GFP è stata visualizzata in protoplasti di arancio (Niedz et al. , 1995), mais (Hu e Cheng, 1995; Sheen et al. , 1995) e in cellule di foglie e radici bombardate di Arabidopsis (Chiu et al. , 1996; Davis e Vierstra, 1998; Sheen et al. , 1995). Il principale vantaggio dell’util izzo di GFP come gene reporter consiste nel fatto che non è necessario fornire substrati esogeni e cofattori per la fluorescenza, diversamente da quanto accade con GUS e Luc (Ow et al. , 1986).
Tabella 3 . Elenco dei geni informator i ( repor ter) più util izzati . Gene informatore Enzima codif icato CAT cloramfenicolo acet i l t ransferasi GUS β -glucuronidasi luc luciferasi β -gal β -gala t tos idasi GFP p-hydroxybenzyl idene- imidazo- l id inone
cromoforo
Trasformazione indiretta Trasformazione mediata da Agrobacterium tumefaciens. Il metodo di trasformazione più efficace e più diffuso è quello che util izza come vettore i batteri del genere Agrobacterium ( tumefaciens e rhizogenes) . Di fatto la trasformazione genetica nei vegetali cominciò ad essere praticata quando le conoscenze della biologia e della genetica molecolare dei plasmidi Ti e Ri, presenti in questo genere, rivelarono l’esistenza di un flusso di geni dal batterio
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alla pianta. Questo sistema batterico svelò che l’ingegneria genetica vegetale era stata già inventata dalla natura. L’Agrobacterium tumefaciens è un batterio fitopatogeno gram-negativo del suolo con capacità di invadere piante suscettibili all’infezione attraverso ferite e determinare la formazione di tumori del colletto in numerose specie vegetali . Il genoma batterico è costituito da due strutture: cromosoma e plasmide. Durante il processo di infezione, l’Agrobacterium tumefaciens trasferisce una porzione del plasmide Ti (Tumor inducing), denominato T-DNA (DNA transfer) al nucleo della cellula vegetale integrandolo in maniera stabile nel genoma della pianta. L’integrazione e l’espressione di alcuni geni inclusi in questo frammento (oncogeni) inducono la formazione del tumore nella pianta ospite (Zambrynski, 1992). L’Agrobacterium rhizogenes dispone di un meccanismo di infezione simile, con delle differenze che riguardano gli oncogeni trasferiti ; questi provocano, infatti , una sintomatologia diversa dall’A. tumefaciens nella pianta infettata, determinando nel punto di infezione una proliferazione di radici avventizie conosciuta come “hair root” in alcune dicotiledoni. Il plasmide specifico di A . rhizogenes è detto Ri (Root inducing), e comprende il frammento di DNA che si trasferisce nel processo di infezione (T-DNA) (Hooykaas e Schilperoort, 1992). Generalmente, questi plasmidi (Ti, Ri) sono molto grandi, approssimativamente 100-200 kb dei quali solo 20-23 kb si integrano nel genoma della pianta, apparentemente a caso. Plasmide Ti. Come mostra la f igura 2 i l DNA del plasmide di Agrobacterium può essere suddiviso in due regioni: la prima regione, corrispondente al T-DNA, è compresa tra due sequenze ripetute di 24-25 paia di basi che costituiscono gli estremi del T-DNA (RB: Right Border, LB: Left Border). Dall’estremità destra inizia il processo di trasferimento (Wang, 1984a), la sua perdita, infatti , inibisce la capacità oncogena che è, invece, attenuata dall’inversione del bordo stesso. Nel bordo sinistro il numero di nucleotidi può variare e questa sequenza sembra portare il solo messaggio di fine trasferimento. La seconda regione del T-DNA comprende varie sub-regioni: a) sequenze geniche codificanti per i l metabolismo di opine e citochinine b) sequenze di origine e replicazione del plasmide, c) sequenze con funzioni di coniugazione, d) regione Vir codificante per la virulenza .
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Le opine sono dei composti , sintetizzati dal tumore del colletto o da quello della radice e util izzati dal batterio invasore come fonte di carbonio e azoto (Tempè e Goldmann, 1982). In base al t ipo di opine che sono sintetizzate dalla pianta trasformata, i plasmidi sono classificati come di t ipo octopina o nopalina, identificati rispettivamente come pTiAch5 o pTiC58. Il plasmide Ri induce principalmente la sintesi di agropina. Gli oncogeni sono implicati nella sintesi di auxine e citochinine che destabilizzano l’equilibrio ormonale delle cellule vegetali , inducendo la loro sdifferenziazione e proliferazione in modo da formare callo nel caso del plasmide Ti. I tessuti vegetali neoformati trasformati da Agrobacterium tumefaciens e rhizogenes si caratterizzano, infatti , r ispetto agli altri tessuti vegetali , per la loro capacità di continuare l’accrescimento in mezzi di coltura in assenza del batterio e senza l’apporto di auxine e citochinine. La regione Vir codificante per la virulenza del batterio è prossimale al bordo sinistro del T-DNA, è costituita da circa 40 kb e contiene i geni Vir, implicati nella rottura e trasporto del T-DNA. Nel caso del plasmide Ti di t ipo octopina , questa regione è composta da operoni che vanno dal Vir A al Vir H. I prodotti degli operoni Vir A, Vir B, Vir D, Vir G, si riscontrano nella formazione del tumore in tutte le piante infettate, mentre quelli codificati daVir C, Vir E, VirF, VirH, sono complementari alla funzione oncogena degli altri e non sempre sono presenti. Nei plasmidi di t ipo nopalina mancano gli operoni Vir F e Vir H (Melchers et al. , 1990). Nel plasmide Ri di Agrobacterium rhizogenes è presente una regione omologa ai geni Vir del plasmide Ti, conosciuta come regione rol, coinvolta con il T-DNA nella proliferazione delle radici (Spena et al. , 1987; Capone et al. , 1989; Mariotti et al . , 1989; Rugini et al. , 1991). Processo di infezione e trasferimento. Il processo di infezione e trasferimento genetico dal batterio alla cellula vegetale richiede: i l T-DNA, i geni di virulenza Vir entrambi inclusi nel plasmide Ti, e i geni cromosomici di virulenza chv (chvA, chvB), localizzati nel cromosoma di Agrobacterium. La formazione del tumore del colletto implica un gran numero di tappe tutte importanti per ottenere la trasformazione. In primo luogo è necessaria la presenza di una ferita nella pianta che facili t i l’entrata del batterio nella pianta (Braun 1947) che libera nell’ambiente composti fenolici che inducono l’interazione tra pianta e batterio (Lyppincott and Lippincott, 1969; Lippincott, et al.1977),
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dirigendo il batterio verso la zona danneggiata della pianta. Questo fenomeno è noto come chemiotassi. Una volta che si è stabilito il contatto tra batterio e cellula lesionata, è necessaria l’espressione dei geni cromosomici di virulenza chvA (Cangelosi et al.), chvB (Zorreguieta and Ugalde, 1986). Questi geni producono esopolisaccaridi essenziali per l’ancoraggio del batterio alla parete cellulare vegetale (Douglas et al. , 1982; 1985). Inoltre tra i composti fenolici che si l iberano dalle cellule vegetali danneggiate, abbonda l’acetosiringona (AS), che stimola l’espressione dei geni di virulenza Vir A e Vir G (Stachel and Zambriski, 1986a).Occorre ricordare che a seconda del composto fenolico sintetizzato dalla pianta ospite si hanno condizioni di induzione all’infezione diverse per i diversi ceppi di Agrobacterium . Oltre all’acetosiringona infatti le piante possono sintetizzare altri composti induttori quali: la α-idrossiacetosiringona (Stachel et al. , 1985), l’alcool coniferilico e sinapilico, l’acido sinaninico e siringico, la siringaldeide, i l dimetossifenolo e diversi flavonoidi (Spencer et al. , 1988; Melchers et al. , 1989; Zerbak et al. , 1989, Song et al. , 1991). L’inizio della trasposizione della maggior parte dei loci della regione Vir è coordinato e controllato dall’espressione dei geni Vir A e Vir B. La proteina VirA è associata alla membrana interna del batterio e si considerò capace di percepire e riconoscere il segnale extra cellulare di natura fenolica (Leroux et al. , 1987; Winans et al. , 1989) e trasmetterlo all’interno della cellula fosforilando la proteina citoplasmatica codificata dal gene Vir G (Jin et al. , 1990). La proteina Vir G fosforilata agisce da attivatore trascrizionale sul resto dei loci della regione Vir (Pazour and Das, 1990; Tamamoto et al. , 1990). L’attivazione della regione Vir comporta l’apparizione di un unico filamento l ineare di DNA (Fig. ) . Questo ha origine da ciascun taglio dopo la separazione a partire dai bordi RB e LB (Albright et al. , 1987; Wang et al. , 1987). Due prodotti del gene Vir D sono responsabili dell’attività endonucleasica specifica (Yanofsky et al. , 1986). In effetti i bordi delle copie di T-DNA si tagliano grazie all’azione della proteina Vir D2 con l’aiuto della Vir D1 (Lessl e Lanka, 1984). La proteina Vir C incrementa l’efficienza della reazione di taglio del bordo RB unendosi ad una sequenza che intensifica la reazione, localizzata al lato del bordo RB, cio può incrementare il numero di piante infettate (Toro et al. , 1988). Il taglio comporta la formazione di un legame covalente tra il lato 5’ del T-DNA e la proteina Dir D2 che dirige e
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orienta il materiale genetico durante il trasferimento fino al nucleo vegetale (Tinland et al. , 1992; 1995; Rossi et al. , 1993; Hooykaas and Berjersbergen, 1994). La proteina Vir E2 si trasferisce insieme al filamento unico del T-DNA proteggendolo da attacchi enzimatici (Citovsky et al. , 1989, 1992; Guralnick et al. , 1996; Rossi et al. , 1996). Il meccanismo di trasferimento del T-DNA nella cellula vegetale può realizzarsi mediante un meccanismo simile alla coniugazione tra batteri (Winans et al. , 1987). Il T-DNA sembra lasciare l’Agrobacterium grazie a un poro transmembrana prodotto dall’espressione dei geni Vir B e Vir D4 (Hooykaas and Berjersbergen, 1994). La maggioranza delle 11 proteine codificate dall’operone Vir B sono localizzate nella membrana (Berjersbergen et al. , 1994), a eccezione della proteina Vir B1 tutte servono essenzialmente alla tumorogenesi (Berger and Christie, 1994). Le proteine Vir F e Vir H sono anch’esse coinvolte da alcune specie batteriche nel trasferimento del T-DNA ma la loro funzione non è ancora del tutto conosciuta. La proteina Vir F è probabilmente trasportata alle cellule vegetali e sembra sia necessaria al trasporto del T-DNA in alcune specie (Regensburg-Tuink and Hooykaas, 1993). Si è dimostrato, infine, che la regione Vir oltre che a promuovere normalmente la trasmissione genetica del T-DNA contenuto nello stesso plasmide Ti (in posizione Cis), è anche attiva quando le regioni sono separate e presenti in plasmidi diversi (in posizione trans) (Herrera-Estrella et al. , 1983). Il processo di infezione, trasferimento e integrazione del T-DNA nel genoma di piante esposto è simile nelle due specie di Agrobacterium . Limiti del processo di trasformazione con Agrobacterium. Nel trasferimento di geni basato sull’util izzo del sistema Agrobacterium esistono parametri di carattere biologico che interessano sia il processo di trasferimento del T-DNA che il processo di integrazione nella cellula ospite, pertanto il materiale vegetale risulta spesso un fattore determinante per l’ottenimento della pianta transgenica. Il tessuto vegetale o espianto è costituito da un insieme di popolazioni di cellule delle quali solo alcune sono totipotenti , né rispondono in maniera uguale a segnali esterni. In tal senso l’ottenimento di una pianta transgenica risulta possibile solo a partire da cellule competenti alla rigenerazione ed alla trasformazione, simultanea o conseguente.
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Si considera pertanto l’esistenza di quattro distinte popolazioni cellulari (Potrykus, 1991): - popolazioni costituite da cellule competenti sia per la trasformazione sia per la rigenerazione; - popolazioni con una frazione di cellule competenti o per la trasformazione o per la rigenerazione; - popolazioni costituite da cellule potenzialmente competenti (dopo trattamento adeguato raggiungono lo stato di competenza); - popolazioni costituite da cellule non competenti , cellule che in nessun caso raggiungerebbero lo stato di totipotenza. Le dimensioni delle popolazione cellulari suddette in un tessuto sono determinate dalla specie, dal genotipo, dall’organo considerato e dallo stato di sviluppo del frammento di tessuto che si considera, infine bisogna anche considerare la storia della pianta util izzata nella sperimentazione. Nella trasformazione genetica mediata da Agrobacterium affinché cellule potenzialmente competenti guadagnino lo stato di competenza si util izza lo stress meccanico da ferita che provoca una serie di eventi enzimatici che sono alla base dei processi di rigenerazione e proliferazione delle cellule somatiche. Inoltre la ferita provoca la sintesi di composti fenolici che sono importanti nell’interazione pianta-Agrobacterium . In considerazione che differenti cellule di una stessa pianta rispondono in maniera diversa allo stress meccanico da ferita, diversi specie rispondono in modo diverso a questo tipo di stress anche in relazione al tessuto utilizzato quale espianto. Infatti le monocotiledoni, ed in particolare le graminacee, forniscono una risposta biochimica molto rudimentale allo stress meccanico da ferita che potrebbe spiegare il perché queste piante non sembrano interagire con Agrobacterium . Questa ipotesi non si può generalizzare visto che nel mais si sono individuate delle opine nel punto di infezione con Agrobacterium , senza però la formazione del tumore (Graves and Goldman, 1986); in un'altra monocotiledone, la cipolla, (Allium cepa) si è osservata formazione di tumore sia del colletto sia dalla radice dopo che è stata inoculata con Agrobacterium (Dommisse, 1990). In ogni caso, con l’util izzo dei vettori superbinari si sono ottenuti piante transgeniche di riso (Ranieri et al. , 1990; Hiei et al. , 1994; Komari et al. , 1996).
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In base a quanto esposto, la maggioranza delle specie monocotiledoni cosi come le gimnosperme, sono abbastanza recalcitranti a questo sistema di trasformazione, anche se probabilmente con l’acquisizione di nuove conoscenze sugli aspetti molecolari dell’interazione si potrà ampliare il numero di specie vegetali suscettibili alla trasformazione con questo sistema (Hooykass and Shilperoort, 1992). Trasformazione diretta Trasformazione diretta utilizzando protoplasti Viste le l imitazioni dei sistemi di trasformazione indiretta, si sono sviluppate altre tecniche per trasferire i l materiale genetico esogeno in pianta. In alcuni casi si tratta di adattamenti di protocolli messi a punto per trasformare cellule animali e pertanto per la loro util izzazione si richiede l’ottenimento di protoplasti . I protoplasti sono cellule vegetali nelle quali manca la parete cellulare, si ottengono a partire da frammenti di tessuto fogliare o sospensioni cellulari , util izzando trattamenti enzimatici con pectinasi e cellulasi. Le cellule prive di parete sono ideali per la trasformazione genetica visto che l’accesso all’interno della cellula è limitato solo dal plasmalemma. Il processo enzimatico di isolamento dei protoplasti a l ivello cellulare fornisce stimoli simili a quelli della ferita che avviene durante il processo di infezione con il batterio. Pertanto, l’eliminazione della parete induce le cellule in stato di potenziale competenza a trasformarsi in competenti per la rigenerazione o trasformazione. Inoltre, poiché si opera con popolazioni cellulari , si incrementa la probabilità che si abbiano degli eventi di trasformazione indipendenti. E’ importante inoltre sottolineare che l’introduzione del DNA esogeno nei protoplasti è un processo fisico, pertanto non soggetto alle l imitazioni della trasformazione mediata da vettori (Paszkowski et al. , 1984; Karesch, 1991; Potrykus, 1991). L’ottenimento di cellule trasformate a partire da protoplasti può essere definita come una tecnica abbastanza semplice, mentre le l imitazione sono legate alle tecniche di rigenerazione in vitro a partire da tali espianti difficile per molte specie. Esistono diversi trattamenti fisici e chimici per facili tare l’entrata del DNA nei protoplasti:
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- trattamento con glicolepolietilenico (PEG); questa molecola interagisce con i fosfolipidi della membrana plasmatica rendendola permeabile, facili tando in questo modo l’entrata del DNA esogeno (Paszkowski et al. , 1988). - elettroporazione; si tratta di un metodo che impiega scariche elettriche di breve durata per creare pori transitori nella membrana plasmatica. E’ una tecnica utilizzata frequentemente, efficiente negli esperimenti di trasformazione dei protoplasti (Fromm et al. , 1986; Shilli to et al. , 1985). Richiede solo l’ottimizzazione di due variabili , l’intensità del campo elettrico e la costante del tempo che determina quanto tarda la d.d.p. ad abbassarsi del 37% rispetto al suo valore iniziale (Lindsy and Jones, 1990). - sonicazione; tecnica sviluppata inizialmente da Joersbo (1990), util izza ultrasuoni per alterare la permeabilità della parete plasmatica facili tando l’entrata degli acidi nucleici sia nei protoplasti che in cellule vegetali con parete (Joersbo et al. , 1992). - trasferimento con liposomi; i l trasferimento del DNA avviene mediante fusione di protoplasti vegetali con liposomi che includono il DNA da trasferire (Caboche 1990). Trasformazione tramite microiniezione Questo metodo consiste nell’util izzazione di un ago avente un diametro sufficiente per il passaggio della molecola di DNA, ma minore del diametro cellulare. E’ una tecnica che necessita di un’apparecchiatura sofisticata che introduce il DNA e un numero limitato di cellule. Il vantaggio di questa tecnica è che il DNA non ha nessuna barriera per poter entrare nella cellula nella quale si possono quindi avere elevate concentrazioni di plasmide nel citoplasma, questo provoca alti l ivelli di espressione transitoria e parallelamente la possibili tà di integrazione stabile (Kost et al. , 1995). Trasformazione genetica mediata da vettori f isici Metodo Biobalistico Questa tecnica relativamente semplice consiste nello sparare con appositi apparecchi (particle gun) su tessuti bersaglio (cellule, callo, foglie, radici, germogli, meristemi, embrioni, ecc…) il DNA esogeno che si vuole introdurre o altre particelle biologiche (RNA, virus, Batteri). Il DNA viene adeso ad un veicolo solido fisicamente capace di attraversare la parete cellulare. I fori prodotti devono essere sufficientemente piccoli, perché le cellule non subiscano danni
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irreparabili . La tecnica messa a punto da Sanford e coll . nell’Università di Cornell si sviluppò nella metà degli anni ottanta, come mezzo per introdurre geni esogeni nel genoma vegetale; attualmente il metodo è secondo per util izzo solo all’Agrobacterium . Inizialmente l’apparato era molto semplice, l’accellerazione delle particelle si otteneva sparando con una pistola ottenuta modificando una membrana di plastica (macroproietti le), sulla quale si collocava una particella di tungsteno ricoperta di DNA. Il macroproietti le si sosteneva mediante un anello che permetteva l’uscita delle particelle di tungsteno ad alta velocità sul tessuto vegetale. Tuttavia con questi mezzi rudimentali i l tasso di sopravvivenza degli espianti dopo lo sparo risultava molto basso. Klein et al. (1987) con un apparato simile ad un piccolo cannone utilizzarono microparticelle di tungsteno ricoperte di DNA con risultati più incoraggianti, fino alla comparsa in commercio di apparati molto sofisticati ed efficienti . Attualmente si util izzano microparticelle d’oro che si sparano grazie ad un sistema che sfrutta la depressurizzazione brusca di un gas inerte compresso che generalmente è l’elio (Sanford, 1990 - Biolistic PDS-!000/He, Bio-Rad) o una scarica elettrica (ACCELLT M, Agracetus). Questa tecnica è risultata particolarmente utile in studi di espressione transitoria e nella trasformazione di meristemi e semi di piante recalcitranti e difficilmente rigenerabili (Campbell et al. , 1992; Aronen et al. , 1995; Rey et al. , 1996; Galum et al. , 1997). Inoltre la tecnica biobalistica si util izza in combinazione con altri metodi di trasformazione, in particolare con il sistema mediato da Agrobacterium . Si è dimostrato infatti che la frequenza di piante transgeniche si incrementa realizzando piccole lesioni nell’espianto con il bombardamento di microparticelle (Bidney et al. , 1992, Brasileiro et al. , 1996) seguite dall’infezione con A. tumefaciens . La ferita prodotta dalla particella sparata incrementa probabilmente il numero di cellule competenti util i per la rigenerazione o trasformazione. Questa tecnica si impiega anche per introdurre materiale genetico esogeno nei granuli di polline da util izzare come vettore naturale, in modo da evitare il processo di rigenerazione in vitro (Leonne et. al . , 1995). In generale il sistema biobalistico presenta una serie di vantaggi rispetto alla trasformazione con Agrobacterium : • permette la trasformazione efficiente di specie recalcitranti all’infezione con
Agrobacterium come le monocotiledoni;
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• si util izza per studi di espressione transitoria; • semplifica la costruzione del plasmide non richiedendo gli estremi del T-DNA,
né i geni che partecipano alla sua replicazione e trasferimento; • consente un alto tasso di co-trasformazione (inserzione di differenti plasmidi
simultaneamente); • consente l’eliminazione di possibili falsi positivi per crescita batterica; • semplifica i protocolli di trasformazione eliminando i fattori di interazione
pianta-patogeno. Tale sistema contempla ovviamente anche degli svantaggi di seguito elencati: • basso tasso di trasformazione stabile; • alta variabilità nell’efficienza tra diversi esperimenti; • inserzione di copie multiple nel genoma, con problemi di cosoppressione o
silenziamento che tale fenomeno comporta e possibile frazionamento del plasmide;
• costo economico e dipendenza tecnologica.
LA TRASFORMAZIONE GENETICA NEL CONTESTO DELLA BIOTECNOLOGIA VEGETALE
La trasformazione genetica consente di inserire singoli caratteri di interesse in specie coltivate non modificando l’assetto genico preesistente (Gardener, 1993). Tale tecnica consentirebbe pertanto di evitare lunghi programmi di selezione normalmente util izzati nel miglioramento genetico classico. Ad oggi, benchè i tempi necessari sono di medio-lungo periodo, le metodiche di breeding tradizionali sono state util izzate per trasferire con successo caratteri di interesse agronomico in specie coltivate (Van Wettstein, 1989). La trasformazione genetica si propone non solo quale alternativa ai metodi di miglioramento tradizionali , ma come metodica che amplia la fonte di variabilità genetica fino ad includere praticamente tutti gli organismi viventi (Goodmann et al. , 1987). In questo modo si superano limitazioni quali le barriere riproduttive tipiche del miglioramento genetico classico, che impediscono in molti casi, l’util izzo di specie donatrici di geni di interesse. Variabilità genetica può essere indotta durante la manipolazione in vitro di cellule e tessuti vegetali che occasionalmente danno luogo a varianti genetiche (variabilità somaclonale). L’insorgenza di tali fenomeni è stata
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sollecitata mediante l’util izzo di agenti chimici o fisici durante la coltura in vitro al fine di util izzare l’ampia variabilità in programmi di miglioramento genetico (Gavazzi et al. , 1987). Gli svantaggi rispetto alla trasformazione genetica sono evidenti in quanto i nuovi genotipi appaiono a caso e pertanto non sono prevedibili . Dai risultati ottenuti nei primi dieci anni di esperimenti avanzati di trasformazione genetica su vegetali si può affermare che molti geni di interesse che sono stati introdotti in diverse specie coltivate e tali caratteri sono stati ereditati nelle progenie delle piante trasformate e quindi potenzialmente util izzabili per l’ottenimento di nuove varietà. I geni introdotti hanno migliorato caratteri di resistenza/tolleranza a stress biotici (agenti patogeni ed insetti) e abiotici (salinità, inquinanti, freddo, diserbanti) o aspetti dell’habitus vegetativo, della capacità di radicazione, del controllo della maturazione del frutto, del controllo della partenocarpia (finora realizzato in solanacee) e dell’autoincompatibili tà fattorale (delle pomacee). Tantissime sono le strategie che si attuano per raggiungere tali scopi e altrettante sono le pubblicazioni in merito, in questo contesto se ne segnaleranno solo alcune. Strategie di trasformazione per introdurre la tolleranza/resistenza a stress biotici Resistenza ad insetti E’ stato possibile ottenere piante resistenti a differenti famiglie di insetti mediante l’introduzione di geni isolati da Bacillus thuringiensis che codificano per una tossina definita comunemente Bt . Si tratta di una famiglia di tossine provenienti da differenti ceppi del batterio suddetto che pur non mostrando tossicità per uccelli e/o mammiferi, agiscono selettivamente contro le larve di insetti quali i lepidotteri , i ditteri ed i coleotteri (Fishoff et al . , 1987). La tossina Bt esplica la sua azione in presenza di un enzima proteolitico, in un ambiente fortemente alcalino, quale quello dell ' intestino (mesentero) di molti insetti fi tofagi. Si è dimostrato che il cristallo è una prototossina e che la vera tossina è una molecola di peso minore prodotta in seguito a proteolisi nell ' intestino dell 'ospite. Le larve degli insetti fi tofagi sensibili a queste tossine, una volta ingeriti i cristalli batterici, cessano di alimentarsi, anneriscono diventano flaccide e muoiono nell 'arco di pochi giorni .per setticemia. L'effetto tossico aumenta con l 'aumentare della dose ingerita, mentre la sensibili tà maggiore si riscontra nelle
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larve giovani. Allo stato attuale, sono noti vari ceppi di Bacillus thuringiensis classificati comunemente in base alle proprietà antigeniche. Il ceppo più attivo su diversi lepidotteri è noto come Kurstaki . I l ceppo israeliensis è invece attivo sui ditteri mentre i ceppi tenebrionis e San Diego , r isultano attivi contro coleotteri . Nella fase vegetativa il Bacillus thuringiensis produce anche una esotossina termostabile (Beta esotossina), alla quale sono sensibili molti insetti fi tofagi e sembra avere anche effetti mutagenici, sui mammiferi. Negli anni ’90 esistono differenti esempi di introduzione in pianta dei geni codificanti per le tossine Bt ; gli esempi forse più significativi sono stati l’introduzione di geni anti-lepidotteri in mais (Koziel et al , 1993), cotone (Benedict et al , 1996) e pomodoro (Van der Salm et al. , 1994) e di geni anti-coleotteri in patata (Perlak et al. , 1993) e melanzana (Hamilton et al. , 1997; Arpaia et al . , 1997). Le attività di ricerca sono state portate avanti dai differenti gruppi di ricerca fino alla valutazione in campo dei nuovi genotipi (es. Acciarri et al . , 2000), nonché alle ricerche sul cosidetto pest managment (McGaughey and Whalon 1992). Nonostante la strategia che utilizza le tossine Bt sia al momento la più studiata, esistono molte altre famiglie di geni coinvolti in meccanismi di resistenza/tolleranza ad insetti delle quali si ricordano gli inibitori delle proteinasi (es. Graham et al. , 1986), le l ipossigenasi e polifenolossidasi (es. Hildman et al. , 1992), nonché le chinasi, le chitinasi e le perossidasi. In questo contesto si ricordano le attività di ricerca molto avanzate sugli inibitori della proteinasi, che interferiscono con la digestione dell’insetto. I geni che codificano per tali proteine sono stati isolati e clonati da molte specie vegetali tra le quali patata, pomodoro, pisello, tabacco (es. Farmer and Ryan 1990; Farmer et al. , 1992; Bolter, 1993; Kort and Dixon, 1997), nonché in Vigna sp. (Hilder et al. , 1987; 1989). I primi studi sul controllo degli insetti grazie all’espressione transgenica in pianta di tali geni sono stati eseguiti sul tabacco contro le larve di Manduca sexta e Heliothis virescens (Vaeck et al. , 1987; Hilder et al. , 1987). Nelle piante arboree simili risultati sono stati ottenuti nel noce contro larve di un lepidottero (Dandekar et al. , 1994). Resistenza a funghi patogeni Una delle strategie util izzate è rappresentata dalla sovraespressione dei geni delle chitinasi o delle glucanasi nelle piante trasformate. Entrambe le proteine, interferiscono, degradando la parete, con lo sviluppo del fungo. Questo
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meccanismo ha prodotto in alcuni casi resistenze parziali (Broglie et al. , 1991. Melchers et al. , 1993). Si potrebbero ingegnerizzare sequenze che codificano per chitinasi, (Jaynes et al. , 1993), per osmotina oppure per la proteina inibitrice della poligalatturonasi (PGIP) (Cervone et al. , 1989; Toubart et al. , 1992; Stotz et al. , 1994). Resistenza a virus Dall’osservazione (Sequeira, 1984) che la proteina del capside virale gioca un ruolo determinante nel proteggere una pianta infettata da un determinato virus contro le superinfezioni da parte di altri virus correlati (cross protection), sono stati sviluppati numerosi geni chimerici codificanti per capsidi virali (Bevan et al. , 1985). In generale , mediante la trasformazione genetica, è stato pertanto possibile creare le prime piante resistenti al virus del mosaico del tabacco (TMV) (Bevan et al. , 1985; Powell-Abel et al. , 1986), al virus del mosaico dell’erba medica (AIMV) (Tumer et al. , 1987), al virus del mosaico del cetriolo (CMV) (Cuozzo et al. , 1988). Nelle piante arboree da frutto, dove questo approccio è stato esteso recentemente, sono stati introdotti i l gene per la resistenza al virus PPV (“Plum Pox Virus”) in albicocco e susino (Laimer et al. , 1991; Scorza et al. ,1994), quello per la resistenza al virus PRV (“Papaya Ringspot Virus”) in papaya (Fitch et al. , 1993), quelli per la resistenza ai virus GFLV (“Grapevine Fanleaf Virus”) e GCMV (“Grapevine Chroma Mosaic Nepovirus”) nella vite (Le Gall et al. , 1994; Mauro et al. , 1995; Krastanova et al. , 1995) e quelli per la resistenza al CTV (“Citrus Tristeza Virus”) in Citrus (Gutierrez-E et al. , 1997). Tali risultati sono stati ottenuti util izzando differenti strategie: - inserimento di geni per la produzione del capside virale (protezione incrociata modificata), (Powell-Abel et al. , 1986; Van Der Wilk et al. , 1991). - inserimento di geni per la produzione di forme mutate di replicasi; - tecnica dell’ RNA antisenso e senso (Young e Gerlach, 1990; Tavladoraki et al. , 1993). - alterazione delle proteine per i l movimento del virus tra le cellule e per la diffusione sistematica. La protezione incrociata modificata è stata quella maggiormente adottata con un meccanismo di azione ancora non del tutto chiaro (Camara Machado et al. , 1994; Le Gall et al. , 1994; Scorza et al. , 1994, 1995). Recentemente un altro meccanismo, basato sull’espressione in pianta dell’RNA satelli te del virus, è stato adottato per ottenere resistenza al virus del mosaico del
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cetriolo (CMV) in piante di tabacco (Harrison et al. , 1987; McGarvey et al. , 1995; Yie et al. , 1995; Nguyen et al. , 1996; Kaniewski et al. , 1999). La tecnica del silenziamento genico si è impiegata anche per ottenere resistenza a virus, come nel caso di piante di patata resistenti al virus X (Hemenway et al. , 1988). Resistenza a batteri patogeni Tali forme di resistenza si sono realizzate attraverso l’espressione di proteine di origine batterica che determinano resistenza verso la tossina prodotta dallo stesso batterio. E’ il caso della “tabtossina” (acetil transferasi t tr) e del gene argk la cui espressione provoca una riduzione dei sintomi prodotti dall’infezione di ceppi diversi di Pseudomonas syringae (Anzai et al. , 1989; De la Fuente-Martinez et al. , 1992). Nel caso di piante di tabacco, l’espressione di geni di peptidi l i t ici naturali (Cecropina B), conferisce resistenza verso Pseudomonas solanacearum (Jaynes et al. , 1993). Geni di peptidi l i t ici naturali (Norelli et al. , 1994; 1996), quali quelli individuati nell’emolinfa di lepidotteri (cecropina) o nell’endosperma di orzo e frumento (thionina) sono utilizzati nella lotta a Pseudomonas e soprattutto ad Erwinia . Sono state adottate inoltre strategie multigeniche che provocano un accumulo di l ignina e un incremento della sintesi di antibiotici del t ipo fitoalessine (Lamb, 1992). Altre applicazioni Resistenza agli erbicidi Molti erbicidi usati in agricoltura interferiscono con le normali funzioni cellulari attraverso il blocco di vie metaboliche specifiche, in genere implicate nella fotosintesi. In questi ultimi anni le ricerche si sono concentrate soprattutto nella creazione di erbicidi ad alta selettività, bassa tossicità, bassa mobilità nel suolo e rapida biodegradazione, con uno spettro di azione esteso ad un elevato numero di erbe infestanti (Gasser and Fraley, 1989). Uno di questi erbicidi, i l Glifosate (commercialmente conosciuto come Roundup), è capace di bloccare la sintesi degli aminoacidi aromatici ed anni fa è stato identificato in un batterio un enzima alterato insensibile all’azione di questo erbicida (Comai et al. , 1985). E’ stato quindi possibile ottenere piante transgeniche resistenti al Glifosate mediante l’espressione del gene batterico mutato (Fillatti et al. , , 1987). Le strategie per ottenere piante resistenti a tali prodotti consistono quindi: (a) sovraprodurre l’enzima che viene inibito dall’azione dell’erbicida (Shah et al. , 1986); (b)
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introdurre geni che detossificano l’erbicida (D’Halluin et al. , 1990). Seguendo queste strategie, si sono ottenute piante transgeniche resistenti a distinti erbicidi come il glifosate (Fillatti et al. , , 1987) già citato, i l glufosinato e bialafos (D’Halluin et al. , 1992), 2,4-D (Bayley et al. , 1992; Streber e Willmitzer, 1989), clorsulfuron (Mikiet al. , 1990), sulfonilurea (McSheffery et al. , 1992) e bromoxinil (Stalker et al. , 1988). Controllo della maturazione del frutto La qualità e la maturazione dei frutti sono fattori molto importanti dal punto di vista economico e quindi, tenuti in grande considerazione nel miglioramento genetico delle piante arboree da frutto. Molti studi sono inoltre dedicati alla fisiologia del frutto post-raccolta per ridurre i problemi di manipolazione, conservazione e trasporto (Pratella, 1994). Durante la maturazione dei frutto vengono attivati geni, che regolano determinate vie metaboliche e una di queste, molto studiata, porta alla produzione di un ormone fondamentale in questo processo, l’etilene. Piante transgeniche, in grado di produrre frutti con basso contenuto di etilene, potrebbero risolvere i problemi di eccessiva maturazione del frutto, che spesso continua anche durante la frigo conservazione. La via di biosintesi dell’etilene passa attraverso la decomposizione dell’acido 1-ammino-ciclopropano-1-carbossilico (ACC) sintetizzato dall’enzima ACC sintetasi. Inibendo la sintesi di etilene si ottiene un rallentamento della maturazione di frutti climaterici. Questo si è realizzato inibendo a vari l ivelli l’ACC sintetasi (Oeller et al. , 1991), la ACC ossidasi (Shuch et al. , 1989; Hamilton et al. , 1990) o attraverso l’espressione di enzimi che degradano alcuni precursori della sintesi di etilene (Klee et al. , 1991). Altre strategie prevedono l’inibizione di enzimi idrolit ici (poligalatturonasi, cellulasi o pectinasi) di parete, usando RNA antisenso, che producono un ritardo del rammollimento del frutto (Sheehy et al. , 1988: Smith et al. , 1988). Modificazioni dell’habitus vegetativo La forma, la statura e l’architettura sono importanti per la produttività degli alberi da frutto. Razionalizzare gli impianti attraverso, ad esempio, l’introduzione di portinnesti nanizzanti o che inducono un habitus colonnare può far aumentare la produzione e riduce i costi di potatura, diradamento e raccolta (Turini et al. ,1998). Numerosi sono i geni coinvolti nella modificazione dell’habitus, in parte isolati e clonati in vettori binari dal T-DNA di A. tumefaciens e A.
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rhizogenes. Nel caso dei geni derivanti da A. tumefaciens si è osservato che la trasformazione con il gene ipt ( isopentenil transferasi) porta ad un innalzamento del rapporto citochinine auxine con formazione di teratomi, perdita di dominanza apicale e inibizione della formazione di radici (Smigocki and Owens, 1989). I geni rolB e rolC dell’ A. rhizogenes sono quelli più interessanti per cambiare l’architettura di una pianta. E’ stato infatti notato che le piante infettate con A. rhizogenes , oltre ad avere radici aeree, presentano anche un fenotipo accestito con accorciamento degli internodi e conseguente abbassamento della taglia (Zambryski et al. , 1989), cosi come una entrata in ritardo nella fioritura e un apparato radicale molto abbondante e solo parzialmente geotropico (Cardarelli et al. , 1987; Spena et al. , 1987). I geni rolB e rolC codificano per attività β-glucosidasiche che liberano nelle cellule transgeniche auxine (rolB) e citochinine (rolC) responsabili degli effetti morfogenetici (Estrush et al. , 1991). Da queste osservazioni sono emerse potenziali applicazioni della trasformazione di piante arboree con geni rol per aumentare la rizogenesi (rolB) del portinnesto (Rugini et al. , 1991; Lambert and Tepfer, 1992; Negri et al. , 1991; 1998) o per ridurre la nanizzazione (rolC) (Negri et al. , 1991).
PROBLEMATICHE LEGATE ALL’USO DEGLI ORGANISMI GENETICAMENTE MODIFICATI L’argomento è di estrema attualità e certamente per il cittadino comune non è facile orientarsi nel dedalo delle informazioni e disinformazioni inerenti gli organismi geneticamente modificati . Alcuni lo chiamano cibo di Frankenstein e affermano che le piante transgeniche (etichettate collettivamente come OGM, ossia organismi geneticamente modificati o più propriamente, piante GM), sono pericolose per la salute, attentano alla biodiversità del mondo vegetale e uccidono insetti come la farfalla monarca. Affermano che solo i paesi ricchi ne trarranno vantaggio, mentre i paesi poveri saranno ancor più asserviti alle multinazionali che producono le sementi. Il dissenso sulle piante transgeniche tocca le amministrazioni comunali (vi sono Comuni che si definiscono “de-ingegnerizzati “), regionali (alcune regioni i taliane vietano la coltivazione di piante ingegnerizzate) e i governi dell’Unione Europea (che proibiscono di
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coltivarle). Ma non è cosi nel resto del mondo dove vi è una sostanziale accettazione. Tra i paesi più attivi nella ricerca e coltivazione di piante gm vi sono gli Stati Uniti , i l Canada ed il Sud America. Nel 1999 la superficie mondiale coltivata con piante GM è aumentata del 43.5 % rispetto all’anno precedente arrivando ad occupare 39.9 milioni di ettarri di terreno. E nei prossimi 5 anni queste cifre sono destinate ad aumentare vertiginosamente dal momento che numerose piante GM sono ormai pronte per la coltivazione in Cina e in India. Nell’Unione Europea la ricerca nel settore è stata sinora molto attiva, specie nelle Università e nei centri di ricerca pubblici. L’Italia stessa ha sviluppato una notevole attività di ricerca applicata alla protezione e alla valorizzazione dell’agricoltura mediterranea. Tuttavia, in Europa, le l icenze di coltivazione non vengono più accordate, le prove sperimentali controllate sono scoraggiate o addirit tura distrutte, la superficie coltivata è ridotta a pochi ettari , tutti in Spagna e Portogallo.
Come si è arrivati alle piante transgeniche Dall’inizio del secolo tradizionalmente gli approcci al miglioramento genetico delle colture sono stati l’incrocio tra piante sessualmente compatibili e la selezione di mutanti. Dall’inizio degli anni ‘80 la scienza ne ha aggiunto uno nuovo basato sull’integrazione, nel genoma della pianta, di geni clonati da altri organismi viventi come piante non sessualmente compatibili , batteri , animali, funghi o virus. Quest’ultimo approccio è reso possibile dal fatto che il codice genetico è universale: non esistono strutture geniche specifiche per ciascun regno tassonomico. L’uomo è uomo non perché fatto da geni umani, ma perché l’insieme dei suoi geni ne determina il differenziamento in un organismo dalle caratteristiche umane. Tuttavia, un gene clonato dal genoma dell’uomo può essere trasferito ed espresso in un batterio, in un lievito o in una pianta. Per esempio, tutta l’insulina umana per uso medico è oggi prodotta da lieviti geneticamente modificati .
Presente e futuro delle piante transgeniche Ad oggi le specie più importanti che sono state geneticamente modificate sono mais, soia, cotone, colza, patata, pomodoro e alcune altre orticole; per più del
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57% dei casi si tratta di modificazioni che hanno riguardato la resistenza ad alcuni diserbanti (che ha permesso un uso selettivo delle sostanze chimiche e una maggiore efficacia degli interventi), per i l 31% la resistenza ad insetti , per i l 14% la resistenza a virus, mentre solo per 1% del totale riguarda modificazioni delle caratteristiche qualitative e nutrizionali degli alimenti (semi oleosi con una composizione degli acidi grassi migliorata, pomodori e altri ortaggi a migliore conservabilità ecc.). In tab. sono riassunte le attività di ricerca, i controlli e le analisi necessari per la produzione di piante transgeniche. E’ importante notare che si tratta del primo caso nella storia dell’agricoltura , in cui c’è l’obbligo di analizzare tossicità ed effetti sull’ambiente delle nuove varietà. Sono ancora pochi i geni integrati nelle piante di grande interesse. Come già detto si tratta di geni che conferiscono resistenza a insetti , virus e diserbanti o che mantengono i frutti al giusto grado di maturazione. Ma siamo solo agli albori delle biotecnologie vegetali , presto si disporrà di una vasta gamma di geni e di promotori che, grazie a metodologie di trasferimento genico semplificate, permetteranno le più diverse applicazioni. In tabella sono elencati alcuni dei benefici già attualmente percepibili o promessi per i l prossimo futuro delle piante “GM”. La produzione di cibo non sarà l’unico sbocco di tali tecnologie avanzate, anzi, la previsione è che tra 15-20 anni il maggior numero delle applicazioni sarà in altri settori . In Cina il pioppo-bt, resistente agli insetti produrrà legname già dal prossimo anno. Applicazioni in altri settori , come quelli connessi alla sintesi di composti di interesse chimico e farmaceutico saranno di grande attrazione. E’ stato già brevettato un riso-bt capace di produrre albumina del siero umano, alfa-1-antitripsina e antitrombina III, proteine oggi prodotte da cellule umane in coltura. I geni per la loro sintesi, dotati di promotore delle alfa-amilasi, permettono la produzione delle proteine corrispondenti nell’endosperma dei semi in germinazione. La produzione di vaccini in pianta sarà un’altra area di grande interesse, così come saranno economicamente vantaggiose le applicazioni alle piante ornamentali alle quali si potranno conferire forme innovative e diversi colori. Quali rischi dalle piante GM ?
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Affrontando questo scottante argomento occorre fare una premessa: agricoltura non è natura. Da quando è nata, ma soprattutto nell’ultimo secolo, agricoltura significa distruzione di foreste e di luoghi naturali per far posto ai campi, riduzione dellla biodiversità, sovvertimento degli equilibri biologici, inquinamento ambientale. L’aumentata coscienza di tutto ciò ci porta oggi a cercare di l imitare gli aspetti negativi dell’agricoltura intensiva. Le piante transgeniche non sfuggono a questa logica e pertanto possono essere util izzate per risolvere problemi colturali . Nonostante ciò, i l messaggio che arriva dall’opinione pubblica europea è che le piante transgeniche sono troppo pericolose e quindi inaccettabili . Bisogna ammettere che non esiste tecnologia esente da rischi. Accettiamo un’innovazione quando riteniamo che i rischi siano inferiori ai benefici. Non sfugge a questa regola l’agricoltura: avvelena ed inquina l’ambiente con fitofarmaci e fitoregolatori, scatena allergie, trasmette veleni e tossine fungine, riduce la biodiversità vegetale. L’agricoltura biologica sembrerebbe esente da alcuni di tali rischi, la realtà è che i rischi dell’agricoltura fino a questo momento sono stati sempre considerati accettabili in rapporto ai benefici. Perché dunque si pretende che solo le piante transgeniche siano assolutamente esenti da rischi? Sarebbe opportuno che si stabilisca che il massimo livello di rischio accettabile per tale tipo di piante sia lo stesso delle piante tradizionali . Si potrebbe chiedere alle nuove tecnologie di abbassare questo livello, ma è utopistico pretendere che le piante transgeniche siano assolutamente esenti da rischi, questo paradigma in biologia non può esistere !! In tabella vengono riportati i possibili effetti , immediati e a lungo termine, connessi all’immissione nell’ambiente di piante GM e all’uso nell’alimentazione umana di prodotti da esse derivate.
Tabella. Effetti causati dall’util izzo di piante GM.
- Effetti tossici sull’uomo;
- Danni per l’ambiente;
- Inutili tà per i paesi ricchi;
- Incapacità di risolvere il problema della fame nel mondo;
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- Pericolosa gestione commerciale.
Per quanto riguarda i dubbi relativi alla salute dell’uomo, le piante transgeniche vengono accusate di scatenare allergie alimentari. In realtà, ad oggi in tutto il mondo il 2-4% dei bambini e l’1-2% degli adulti soffre di allergie scatenate da proteine contenute nel cibo, soprattutto soia, latte vaccino, uova, farina riso, noci, arachidi, pesci e crostacei. L’unica cura efficace è evitare il cibo a cui si è allergici. Nel caso delle piante transgeniche, i l gene esogeno potrebbe effettivamente codificare per una proteina allergenica, ma le legislazioni dei vari paesi prevedono che si analizzino preventivamente: - la fonte del gene (è derivato da organismo che può implicare effetti allergenici
?); - i parametri chimico-fisici della proteina specificata dal gene (somiglianza con
proteine allergeniche, stabilità alla digestione e alla cottura); - gli effetti del gene esogeno sulla produzione degli allergeni endogeni della
pianta ospite; - i risultati dei saggi in vitro (RAST, ELISA) e in vivo ( test cutanei,
simulazione alimentare). L’efficacia dei controlli è dimostrata dal caso – molto pubblicizzato - di una varietà di soia in cui era stato integrato un gene di noce brasiliana codificante per l’albumina 2S. La soia risultava migliorata dal punto di vista nutrizionale, ma aveva acquisito le proprietà allergeniche dell’albumina. In base alle analisi è stato negato il permesso di coltivazione. Al contrario, le piante GM possono addirittura essere progettate per ridurre il potenziale allergenico degli alimenti. A tale scopo si applica la metodologia del “gene antisenso”: scoperto il gene responsabile dell’attività allergenica della pianta, lo si costruisce con la sequenza di basi invertita e lo si integra nel genoma della pianta. Con questo approccio è stato già prodotto riso non allergenico. Per quanto riguarda la resistenza agli antibiotici, in effetti tutte le piante GM coltivate sono dotate, oltre che del gene di interesse, anche di un gene di selezione che conferisce la resistenza ad antibiotici quali kanamicina, neomicina e derivati . Ciò permette la selezione di cellule trasformate capaci di crescere in un terreno contenente antibiotico, che non consente la proliferazione
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di cellule non trasfromate e quindi sensibili . Questa procedura ha fatto pensare che il gene per la resistenza possa trasferirsi dalla pianta ai batteri dell’intestino, o peggio al genoma umano, rendendo quindi inefficace un’eventuale terapia con quell’antibiotico. L’accusa manca di realismo scentifico: i l fatto che un gene presente in un vegetale e dotato di un promotore vegetale inattivo nei batteri , possa essere trasferito ai batteri del nostro intestino, e da questi passare a batteri patogeni, ha una rilevanza quasi nulla. Infatti nel nostro intestino esistono centinaia di miliardi di batteri , mentre la frequenza di mutazione naturale per la resistenza a un antibiotico è di circa uno su dieci milioni. Possiamo quindi calcolare che, in ogni momento, nel nostro intestino vi siano milioni di batteri resistenti alla neomicina. Pertanto questi geni potrebbero prendere il sopravvento nella popolazione batterica solo se vi fosse la spinta selettiva determinata dalla somministrazione dell’antibiotico. Sappiamo che spesso i medici abusano di antibiotici, ma è meno noto che il 50 % degli antibiotici oggi prodotti nel mondo è usato nell’alimentazione animale. Con tale trattamento gli animali crescono meglio, ma sono contaminati da una flora batterica selezionata per la resistenza agli antibiotici. Tutte le carni crude o insaccate convogliano nel nostro intestino i batteri contenenti geni di resistenza. Nonostante si possa comunque dibattere scientificamente sui problemi legati ai gene marker di resistenza, l’uso di antibiotici per la selezione di piante GM è oggi superato da approcci più moderni come la crescita delle cellule transgeniche in zuccheri che possono essere util izzati selettivamente o grazie ad altri meccanismi. Quanto al rischio che il gene di resistenza o altri geni esogeni passino dalla pianta GM al genoma umano, basti pensare che ogni giorno il nostro intestino è esposto a miliardi di genomi assunti con l’alimentazione. Si sa che il DNA si mantiene integro, ma non attivo nell’inestino per alcune ore prima di essere digerito; in effetti , se cerchiamo un gene di bue o di mela nelle nostre cellule non è possibile individuarlo. Un’altra preoccupazione molto sentita riguarda la diffusione del polline e dei semi nell’ambiente. In effetti molte piante in natura sono sessualmente compatibili con piante transgeniche e vi è quindi possibili tà che il loro polline possa fecondarle trasferendovi il gene esogeno.
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Tali fenomeni sarebbero deleteri in particolare per geni quali terminator, che causa sterili tà o di geni di resistenza agli erbicidi; ma in ogni caso bisogna tenere in considerazione tale fenomeno caso per caso e giudicare la pericolosità in relazione alla possibile trasmissibili tà in specie selvatiche. L’insorgenza di resistenza ad erbicidi in piante infestanti è un evento già verificatosi negli Stati Uniti dove è stato necessario ricorrere alla sostituzione dell’erbicida. In generale, sono tre le condizioni in cui piante transgeniche indesiderate possano infestare l’ambiente naturale o i campi coltivati; i l polline deve essere in grado di spostarsi a opportuna distanza; nel raggio di distribuzione del polline deve essere presente una pianta sessualmente compatibile che acquisisca con il gene un vantaggio selettivo rispetto alla popolazione esistente. Esistono differenti strategie per evitare la diffusione del gene esogeno attraverso il polline. Si può scegliere un integrazione del gene esogeno nel DNA del cloroplasto e non in quello nucleare (la maggior parte delle piante coltivate trasmette i cloroplasti esclusivamente per via materna, quindi i l polline non sarà GM). Si può ipotizzare l’util izzo di piante maschio-sterili (ovviamente non nel caso di piante da seme ma in caso di piante che si riproducono per talea come il pioppo, banano, canna da zucchero). In ogni caso è buona norma il ri lascio del permesso di coltivazione solo in zone ritenute sicure per distanza da piante sessualmente compatibili con la pianta GM. E’ dunque importante che le conseguenze della diffusione del polline transgenico nell’ambiente vengano attentamente valutate, ma sarebbe utile che queste precauzioni venissero prese anche nel caso di piante non transgeniche. Esaminiamo ora i rischi in relazione alla biodiversità, senza però confondere piante naturali e coltivate. Le prime sono messe in pericolo dall’urbanizzazione e dalle altre attività umane, inclusa la trasformazione di foreste in terreni agricoli . Ma ciò non dipende certo dalle biotecnologie vegetali , non vi è nulla nel concetto di piante GM che le renda nemiche della biodiversità naturale. Al contrario, i l fatto che esse promettano un maggior raccolto per unità di superficie fa ritenere che la loro diffusione possa restituire terreni agricoli alle foreste. Nell’ambito delle piante coltivate la biodiversità è posta a rischio già da molto prima dell’avvento delle piante GM, basta osservare che, mentre una
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volta si disponeva di più di 200 varietà di mele, ora la scelta è ridotta a 3 o 4. Ma, anche in questo caso, sono esigenze di mercato a minare la biodiversità. E’ del tutto evidente che, se i rischi delle piante GM sono quelli descritt i dalla letteratura scentifica, non vi sono elementi per chiedere una moratoria globale sulla sperimentazione in campo e sulla coltivazione di questo tipo di piante. Certo si dovranno sviluppare strategie di coltivazione che evitino la diffusione dei geni esogeni e che riducano gli effetti sugli equilibri ecologici. Nel dibattito sulle piante GM, siamo di fronte a una situazione socio-politica molto complessa in cui solo una piccola parte della partita è giocata dalla scienza. Gli argomenti scientifici sono messi troppo spesso in secondo piano da problemi culturali , politici e psicologici. Per ora si è ottenuto l’effetto di bloccare la ricerca scientifica in Europa, soprattutto quella pubblica.