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SAPIENZA UNIVERSITA’ DI ROMA
DOTTORATO DI RICERCA IN DIRITTO PUBBLICO DELL’ECONOMIA (IUS/10)
Curriculum amministrazione pubblica europea e comparata
TESI DI DOTTORATO
SUSSIDIARIETA’ E MODELLI DI
SVILUPPO NELLA POLITICA EUROPEA DI
COESIONE ECONOMICA E SOCIALE
Tutor Dottorando Ch.mo Prof. Maurizio Orlandi Andrea Perrotta
Coordinatore Ch.mo Prof. Roberto Miccù
ANNO ACCADEMICO 2010/2011
- 3 -
Indice
Capitolo I
Il principio di sussidiarietà nell’ordinamento comunitario: nascita ed
evoluzione
1. Il principio di sussidiarietà fra scienza sociale e dottrina della Chiesa pag. 7
2. L’idea della sussidiarietà nel diritto comunitario: gli anni ‘70 » 13
3. Il dibattito nella Commissione europea: il Rapporto Tindemans ed
il Rapporto McDougall » 18
4. I lavori parlamentari: il Progetto Spinelli e le risoluzioni dei primi anni ’90 » 22
5. La codificazione del principio di sussidiarietà nei Trattati di revisione:
dall'Atto Unico europeo al Trattato sull'Unione europea » 27
6. Da Amsterdam a Lisbona: i meccanismi di applicazione del principio
contenuti nel Trattato CE » 35
Capitolo II
Sussidiarietà e coesione economico - sociale
1. Coesione, convergenza ed integrazione: un modello di amministrazione
dello sviluppo » 50
2. La sussidiarietà fra competenze concorrenti e assetti strutturali di
amministrazione congiunta nell’ambito della politica di sviluppo regionale » 55
- 4 -
3. La sussidiarietà e gli altri principi generali dell' acquis communautaire
nel Regolamento CE 1083/2006: una forma di governo multilivello » 60
4. La peculiare interazione tra sussidiarietà e partenariato nel modello
disciplinato dal Regolamento generale sui Fondi strutturali » 66
5. Il procedimento amministrativo comunitario nell’ambito della politica
di coesione economica e sociale » 71
6. Sussidiarietà e partenariato nella fase di programmazione della politica
di coesione » 75
7. Sussidiarietà e partenariato nella fase di gestione, controllo e sorveglianza » 81
8. Fondi strutturali e sussidiarietà: la posizione della Corte di Giustizia » 85
9. Sussidiarietà e giusto procedimento nel governo della politica di coesione » 90
Capitolo III
Sussidiarietà e politiche nazionali di sviluppo regionale
1. Coesione economica e sociale e aiuti di stato a finalità regionale » 96
2. Coerenza tra aiuti di stato a finalità regionale e aree obiettivo
dei fondi strutturali » 103
3. Sussidiarietà e concentrazione tra fondi strutturali e aiuti a finalità regionale » 106
4. I limiti della coerenza negli Orientamenti sugli aiuti a finalità regionale » 116
5. La sintesi tra politica regionale comunitaria e politica regionale italiana:
il Quadro strategico nazionale » 121
6. Concentrazione tematica e sussidiarietà regolamentata nel futuro della
politica di coesione? » 131
- 5 -
Capitolo IV
Il futuro della politica di coesione e il ruolo della sussidiarietà
1. Il V Rapporto sulla coesione e la Strategia Europa 2020 » 140
2. Le proposte della Commissione per la nuova politica di coesione:
il contratto di partnership per lo sviluppo e gli investimenti » 147
3. Una diversa dimensione della coesione: la territorialità e il ruolo
degli enti locali » 153
4. Quale modello di attuazione per la politica di coesione post 2013?
La proposta del Comitato delle Regioni » 162
5. Il patto territoriale nell’esperienza gestionale italiana: struttura e contenuti » 170
6. Patti territoriali ed altri strumenti di concertazione nella
programmazione regionale dei fondi europei: le esperienze passate » 181
7. Il futuro della sussidiarietà nell’ambito della politica di coesione:
uno scenario possibile. » 186
8. Conclusioni » 192
Bibliografia pag. 198
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CAPITOLO I
Il principio di sussidiarietà nell’ordinamento comunitario: nascita ed
evoluzione
1. Il principio di sussidiarietà fra scienza sociale e dottrina della Chiesa.
2. L’idea della sussidiarietà nel diritto comunitario: gli anni ’70. 3. Il dibattito
nella Commissione europea: il Rapporto Tindemans ed il Rapporto McDougall
4. I lavori parlamentari: il Progetto Spinelli e le risoluzioni dei primi anni ’90
5. La codificazione del principio di sussidiarietà nei Trattati di revisione:
dall'Atto Unico europeo al Trattato sull'Unione europea. 6. Da Amsterdam a
Lisbona: i meccanismi di applicazione del principio contenuti nel Trattato CE.
1. Il principio di sussidiarietà fra scienza sociale e dottrina della Chiesa
Il principio di sussidiarietà è, prima ancora che un principio organizzativo del
potere, un principio antropologico che esprime una concezione globale
dell'uomo e del suo ruolo all’interno della società, in virtù del quale fulcro
dell'ordinamento giuridico è la persona umana, intesa sia come individuo che
come legame relazionale all’interno di una comunità organizzata; esso pertanto
nasce insieme al formarsi delle scienze politiche e sociologiche prima di
assumere connotati più rigorosamente giuridici(1).
Il contenuto sociale di tale principio consiste essenzialmente nel
riconoscimento del carattere primario del ruolo giocato dal singolo all’interno
della società, da cui deriva l'attribuzione a questi di una ricca sfera di diritti,
(1) Il termine sussidiarietà deriva dal latino subsidium e nella terminologia militare romana stava ad indicare le truppe di riserva che rimanevano dietro al fronte, pronte a intervenire in aiuto alle corti che combattevano nella prima acies.
- 8 -
nonché di garanzie che ne permettono il completo godimento. Sotto il primo
aspetto, emerge l’elemento della partecipazione diretta ed indiretta
dell'individuo stesso al potere statuale; sotto il secondo, invece, emergono le
numerose opportunità organizzative e gestionali volte a contenere il potere
statale frazionandolo fra più centri di imputazione, sia a livello centrale sia a
livello periferico, in modo da garantire un ottimale esercizio delle funzioni
pubbliche grazie ad una diversificazione dei livelli decisionali più opportuni(2).
Più nel dettaglio questo principio ha in se un duplice significato: da un
lato esprime chiaramente, tutelandola, l'autonomia del singolo individuo
dall'invadenza di organismi maggiori, quali ad esempio le istituzioni, intese ai
vari livelli; dall'altro implica e favorisce l'intervento di tali livelli maggiori
qualora i minori (posti sullo stesso piano dell'individuo) non siano in grado di
dare risposte adeguate al soggetto stesso: si può pertanto dire che il principio di
sussidiarietà comporta per il potere pubblico, contemporaneamente, in alcuni
casi, un dovere di astensione ed, in altri, un dovere di intervento.
In sostanza, le diverse istituzioni pubbliche devono creare le condizioni
che permettano alla persona e alle aggregazioni sociali di agire liberamente e
non devono sostituirsi ad essi nello svolgimento delle loro attività, consentendo
al singolo di esprimere le proprie capacità. Lo Stato deve dunque consentire
che i singoli ed i gruppi intermedi possano impegnare la loro creatività,
iniziativa e responsabilità, impostando ogni ambito del loro vissuto come
meglio credono ed in linea con le loro aspettative: l’intervento pubblico è
quindi ammesso solo in via sussidiaria, vale a dire quando il singolo soggetto-
gruppo sociale non è in grado di soddisfare le proprie primarie necessità.
(2) DE PASQUALE P., Il principio di sussidiarietà nell’ordinamento comunitario, Napoli 2006.
- 9 -
Tuttavia non solo tale intervento deve essere temporaneo e durare
esclusivamente per il tempo necessario ai corpi sociali per tornare ad essere
indipendenti ma anche sviluppato al livello più vicino al cittadino, tramite le
istituzioni a questi più prossime, con una gradualità di intervento che garantisca
efficacia ed efficienza.
Applicando questo principio lo Stato si mette al servizio dei cittadini,
aiutando la formazione di un individuo attivo ed autonomo, che non sia un
"suddito" passivo e sempre bisognoso di assistenza. Per questo si può parlare,
utilizzando un termine inglese, di sussidiarietà come empowerment
(letteralmente "incremento", "aumento"), inteso come accrescimento di
possibilità dei singoli e delle comunità di controllare e gestire attivamente la
propria vita sociale, lavorativa, famigliare e politica(3).
In relazione alla sua applicazione sociale, i primi cenni di una riflessione
su un principio analogo sono già presenti nel pensiero aristotelico e vengono
poi ripresi e rielaborati da San Tommaso quale elemento di una precisa
concezione del bene comune, risultato di una pluralità di apporti in un contesto
comunitario, solidaristico e non conflittuale, all'interno del quale alla
personalità umana è offerta la possibilità di svilupparsi ed esprimere
compiutamente le proprie potenzialità.
Strumento, questo della sussidiarietà, che nella speculazione tomistica
non riveste alcun elemento di idealità ma si cala nel concreto tessuto sociale per
estrinsecarne modelli istituzionali efficienti e flessibili(4).
(3) Utilizzando sempre un termine inglese si può citare il concetto di compassion (letteralmente "compassione", nel senso positivo del termine), ovvero impegno soggettivo, crescita personale, ma anche autogoverno e responsabilità individuale per se stessi e per gli altri. (4) VILLEY M., Questions de Saint Thomas d’Aquin sur le droit e la politique, Paris 1987; WILKE M., WALLACE H., Subsidiarity: Approaches to Power-Sharing in the European Community, London, 1990, pag. 13 ss.; MATTINA E., Subsidiarité, démocratie et transparence, in Revue du Marché Unique Européen, 1992, pag. 204 ss.
- 10 -
Un’elaborazione più articolata e matura del principio è successivamente
rinvenibile nell'opera di Tocqueville, certamente condizionata dall'esperienza
costituzionale degli Stati Uniti d'America(5). In particolare, il Tocqueville
ritiene che gli elementi essenziali per l'organizzazione ottimale di uno Stato
sono rintracciabili nel decentramento e nell'autonomia locale; in questo senso il
principio di sussidiarietà si configura come principio di organizzazione delle
strutture, dal momento che le collettività sovraordinate possono assumere le
sole competenze che al loro livello vengono esercitate meglio o con la stessa
efficacia che dalle collettività subordinate.
L’analisi del principio trova un ulteriore sviluppo nell'opera di
Proudhon, il quale per primo compiutamente, nel suo saggio Del principio
federativo (1863), evidenzia il legame sussistente fra sussidiarietà e
federalismo. L’autore chiarisce come il livello federale disponga delle sole
competenze che gli enti federati non possono compiutamente esercitare
singolarmente, in modo che le decisioni siano prese il più vicino possibile ai
cittadini, attraverso un contenimento del potere decisionale al livello
apicale(6).
Ma è certamente nella dottrina socio-religiosa protestante e soprattutto
(5) In particolare, nel saggio De la démocratie en Amérique, Libro I, Capitolo 7, (1963, Paris), il principio di sussidiarietà è configurato come criterio-guida per una ripartizione di poteri tra Stato federale e Stati federati: "Il s'agissait de partager la souveraineté de telle sorte que les différents États qui formaient l'Union continuassent à se gouverner eux-mêmes dans tout ce qui ne regardait que leur prospérité intérieure, sans que la nation entière, représentée par l'Union, cessât de faire un corps et de pourvoir à tous ses besoins généraux... Les devoirs et les droits du Gouvernement fédéral étaient simples et assez faciles à définir parce que l'Union avait été formée dans le but de répondre à quelques grands besoins généraux. Les devoirs et Ies droits du gouvernement des Etats étaient au contraire multiples et compliqués parce que ces gouvernements pénétraient dans tous les détails de la vie sociale". (6) SANTER J., Quelques réflexions sur le principe de subsidiarité, in Subsidiarité: défi du changement (Actes du colloque Jacques Delors, organisé par l'IEAP, les 21 et 22 mars 1991), Maastricht, 1991, pag. 21 ss.; RAUX J., Le principe de subsidiarité, in La documentation française, 1992, pag. 33 ss.; ORSELLO G., Il principio di sussidiarietà nella prospettiva dell'attuazione del Trattato sull'Unione Europea, Roma, 1993, pag. 22 ss.
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cattolica, che il principio di sussidiarietà viene esaltato come criterio per
assicurare il buon funzionamento delle relazioni tra l'individuo e la società e tra
i diversi gruppi sociali. Queste posizioni sono chiaramente espresse
nell'Enciclica Rerum Novarum, del 1891 ed in particolare nell'Enciclica
Quadragesimo Anno, del 1931(7), che esalta la sussidiarietà nella sua
dimensione orizzontale quale criterio di articolazione delle attribuzioni fra
società civile e pubblici poteri. Sebbene l'Enciclica abbia avuto come cornice
una realtà internazionale strutturalmente differente da quella attuale, è possibile
riscontrare nei suoi contenuti numerosi elementi ancora oggi attuali(8); in
particolare è definito il principio secondo il quale le strutture superiori devono
intervenire solo ed esclusivamente nel caso in cui siano in grado di risolvere
criticità ed affrontare tematiche in maniera più efficace delle strutture
subordinate.
Il principio di sussidiarietà esalta quindi le peculiarità dello specifico
tessuto sociale fino a divenire elemento incentivante dell’autonomia del singolo
rispetto al raggiungimento delle finalità affidate alla comunità. Dunque, suo
scopo principale è quello di garantire la promozione del bonum e dell'utile per
l'individuo attraverso una specifica definizione delle sfere di competenza del
singolo, della famiglia, della collettività locale e dello Stato. Ne emerge con
chiarezza che lo Stato ed in prospettiva le organizzazioni di dimensioni più
ampie si collocano alla base di una ideale scala gerarchica alla cui sommità è
posto invece il singolo individuo.
(7) "...siccome non é lecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le loro forze e l'industria propria per affidarlo alla comunità, così é ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare." Ne deriverebbe "un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società" poiché "l'oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa é quello di aiutare in maniera suppletiva (subsidium afferre) le membra del corpo sociale, non già distruggerle ed assorbirle." (8 )DE PASQUALE P., Op. cit.
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La stessa impostazione si riscontra nell'Enciclica Mater et Magistra del
1962, nel momento in cui limita l'intervento statale nella vita economica alle
situazioni in cui è necessario per incentivare l'iniziativa privata e per garantire
un’equa distribuzione della ricchezza(9); egualmente l'Enciclica Centesimus
Annus, del 1991 ribadisce che una società di ordine superiore deve intervenire
in una di ordine inferiore solo per supportarla e per coordinare la sua azione
verso il raggiungimento del bene comune(10).
La dottrina sociale cattolica, dunque, ricostruisce, in primo luogo, il
principio di sussidiarietà in termini prevalentemente negativi impedendo
all'autorità superiore di assumere funzioni che non le competono; la portata di
tale dottrina non si limita tuttavia a tale postulato ma assume anche un aspetto
positivo di grande portata, nel momento in cui si impone all'autorità superiore
di intervenire quando è necessario o anche semplicemente opportuno, per
meglio perseguire il "bene dell'individuo"(11).
Inoltre, da tale principio deriva la possibilità di modulare l'intervento
dell'autorità superiore sulla capacità di autogestione dell'ente subordinato: in
sostanza, l'autorità superiore può ritenere di aver svolto in maniera efficace il
proprio operato e, quindi, di aver raggiunto il suo scopo istituzionale nel
momento in cui l'entità inferiore è stata messa nelle condizioni di agire
autonomamente.
(9) "Sebbene tale principio fosse un elemento perturbatore dell'ordine sociale per il trasferimento di competenze che possono essere esercitate da organi di livello più basso, e dunque sussidiario, verso un livello più alto di una più vasta collettività, è pur vero che l'intervento delle autorità pubbliche, che incoraggia, stimola, regola, aggiunge e completa, è basato proprio su tale principio" (10) "In questo contesto è conveniente rispettare anche il principio di sussidiarietà: una società di ordine superiore non deve intervenire in una società di ordine inferiore togliendo a questa le sue competenze, bensì appoggiarla in caso di bisogno e aiutarla a coordinare Ia sua azione con quella degli elementi che la compongono per il conseguimento del bene comune" (11) DE PASQUALE P., Op. cit.
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2. L’idea della sussidiarietà nel diritto comunitario: gli anni ‘70
Dalle riflessioni appena illustrate emerge chiaramente che il principio di
sussidiarietà regola e definisce un sistema di comportamenti e di azioni
assicurando che l'esercizio del potere da parte delle autorità preposte risponda
sempre al bene dell'individuo. Tale principio si concretizza, pertanto, in una
formula elastica ed estremamente controversa, dal momento che il suo
presupposto - obiettivo, vale a dire il bene dell'individuo, presenta un’intrinseca
dualità di significati; dualità che rende la sussidiarietà da un lato elemento di
accentuazione delle spinte centripete, dirette ad accrescere l’ambito di
intervento del livello di governo superiore, qualora questo sia più idoneo allo
scopo, dall’altro elemento di garanzia e valorizzazione dell'azione dei livelli
inferiori di governo, nel caso in cui fosse dimostrata, invece, la loro più efficace
attitudine.
L'ambivalenza di significati è ribadita dall’analisi degli ordinamenti
giuridici nei quali hanno trovato attuazione istituti che a tale principio devono
essere ricondotti; ed è alla base del dibattito sul tema del federalismo che tanto
ha influenzato il lungo ed articolato processo di integrazione europea(12).
Il principio di sussidiarietà ha trovato espressa attuazione in talune
costituzioni di tipo federale, soprattutto europee, nella parte in cui è ammesso e
disciplinato l'intervento della Federazione per i settori in cui essa non ha
competenza esclusiva. È ben noto, infatti, che tra le competenze esclusive della
Federazione e quelle destinate agli Stati federati esiste proprio una zona grigia,
nella quale coesistono le competenze concorrenti, per la disciplina delle quali la
sussidiarietà è risultato il criterio di attribuzione più duttile ed efficace ma non
sempre compiutamente definito.
(12) DE PASQUALE P., Op. cit.
- 14 -
Proprio in questo tracciato deve collocarsi la genesi e la successiva
applicazione del principio in disamina nell’ambito dell’ordinamento giuridico
comunitario: il processo di integrazione comunitaria ha evidenziato difatti, in
ogni sua fase, la problematicità della distribuzione verticale delle competenze
tra la Comunità e gli Stati membri; nonché la necessità di un efficace strumento
di regolamentazione del loro esercizio da parte delle istituzioni dell’Unione
stessa.
Tale strumento era stato individuato, in una prima fase, con il
compromesso di Lussemburgo del 1966 nell’unanimità prevista per l’adozione
delle decisioni all’interno del Consiglio; tuttavia la progressiva estensione del
voto a maggioranza qualificata (operata dai vari Trattati di revisione) rendeva
necessario un approccio diverso e più elastico, in grado di “resistere” alle
eventuali riforme in materia di procedimenti decisionali degli organi istitutivi, e
funzionale rispetto agli obiettivi specifici delle singole politiche comuni: è in
questa cornice che si inserisce il principio di sussidiarietà così come definito dal
Trattato di Maastricht quale meccanismo generale per una corretta articolazione
delle competenze concorrenti ed una maggiore aderenza delle politiche
comunitarie alle esigenze dei diversi territori rappresentati(13).
Nell'ambito della Comunità europea, tuttavia, non sempre il principio di
sussidiarietà ha risposto in maniera adeguata alle istanze sottostanti la sua
introduzione; lumeggiano in questa direzione le parole di Mary Robison, allora
Presidente dell'Irlanda, secondo la quale: “the chief advantage of (subsidiarity)
seems to be its capacity to mean all things to all interested parties —
simultaneously”.
La vaghezza della formulazione prescelta per la codificazione del
(13) IPPOLITO F., Fondamento, attuazione e controllo del principio di sussidiarietà nel diritto della comunità e dell’Unione Europea, Milano 2007.
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principio nel Trattato CE (sostanzialmente inalterata nel processo di revisione
dei Trattati fino alla svolta di Lisbona) ha consentito, difatti, alla sussidiarietà di
orientare l'esercizio delle competenze a titolarità condivisa, sia nella direzione
statale che in quella della Comunità stessa(14). Tale neutralità ne ha favorito
un'alterna interpretazione da parte della Corte di giustizia ed un'utilizzazione, a
volte ingiustificata, da parte del legislatore comunitario. Da qui la necessità di
una migliore definizione del contenuto del principio culminata dapprima nel
Protocollo n. 30, allegato al Trattato di Amsterdam e seguita a distanza di un
decennio dalla più limpida enunciazione contenuta nel Trattato di Lisbona, che
sembra rappresentare, seppur parzialmente, il compimento di un lungo percorso
di riflessioni e dibattiti sia a livello politico che giurisprudenziale e di
dottrina(15).
(14) HOFFMANN L., SHAw J., Constitutionalism and Federalism in the Future Europe Debite: The German Dimension, Federal Trust, Online paper n. 03/04; MARQUARDT P., Subsidiarity and Sovereignty in the European Union, in FILI, pag. 616, 1994. (15) Tra i principali contributi si ricordano: BERMANN G.A., Taking subsidiarity seriously: federalism in the European Community and the United States, in Columbia Law Rev., 1994, pag. 331 ss.; BRIBOSIA H, Subsidiarité et répartition des compétences entre la Communauté et ses Etats membres. Commentaire sur l'article 3B du Traité de Maastricht, in Rev. Marché Unique eur., 1992, pag. 165 ss; CASS D., The word that saves Maastricht: the principle of subsidiarity and the division of powers within the European Community, in Common Market Law Rev., 1992, pag. 1112 ss.; DE COCKBORNE, DEFALQUE L., DURAND C.F., PRAHL H., VANDER-SANDEN G., Le principe de subsidiarité, in Commentaire Mégret, Bruxelles, 1992, pag. 425; CONSTANTINESCO V., La subsidiarité comme principe constitutionnel de l'intégration européenne, in Swiss Rev. of Int. Economie Relations, 1991, pag. (457) 225 - (458) 226; CONSTANTINESCO V., Le principe de subsidiarité: un passage obligé vers l'Union européenne, in Mélanges Boulouis, Paris, 1991, pag. 35 ss; DELHOMBRE J., La subsidiarité et son péché originel, in Rev. politique et parlam., 1992, pag. 63 ss.; GAUDISSART M., La subsidiarité: facteur de (des)intégration européenne?, in JT, 1993, pag. 173 ss.; LAMBERS H.J., Subsidiarietat in Europa-Allheihnittel order juristische Leerformel?, in Eur, pag. 229 ss., 1993; LENAERTS
K, VAN YPERSELE P, Le principe de subsidiarité et son conteste: étude de l'article 3 B du Traité CEE, in Cah. Dr. eur., 1994, pag. 3 ss; MERTENS DE WILMARS J., Du bon usage de la subsidiarité, in Rev. Marché Unique eur., 1992, pag. 193 ss; ORSELLO P, Il principio di sussidiarietà nella prospettiva dell'attuazione del Trattato sull’Unione europea, Roma, 1993; SCHILLING T., A New Dimension of Subsidiarity: Subsidiarity as a Rule and a Principle, in Yearbook Eur. Law., 1994, pag. 203 ss; STROZZI G., Il ruolo del principio di sussidiarietà nel sistema dell'Unione europea, in Riv. it. dir pubbl. com., 1993, pag. 59 ss., Id, Le principe de subsidiarité dans la perspective de l'intégration européenne: une énigme et beaucoup d'attentes, in Rev. trim. droit eur., 1994, pag. 373
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È all'inizio degli anni novanta che il principio di sussidiarietà trova
espressa consacrazione nell'ordinamento giuridico comunitario: citato nel
Preambolo e nell'art. 1 Trattato UE firmato a Maastricht, oltre che definito
nell'art. 3B Trattato CE.
La nascita della sussidiarietà in ambito comunitario non è tuttavia da
ricondurre esclusivamente al Trattato di Maastricht; sin dagli anni settanta,
infatti, se ne era delineata una prima idea sia a livello istituzionale che a livello
più strettamente politico, come dimostrano alcuni documenti istituzionali mai
tradottisi poi in diritto positivo, dai quali è opportuno avviare la ricostruzione
storico-giuridica del principio oggetto della presente ricerca.
E’ proprio nel corso degli anni ‘70 che sia la Commissione che il
Parlamento europeo, pur con approcci differenti, elaborano una serie di
"Progetti" e "Rapporti" dai quali risulta in un primo momento la dimensione
essenzialmente solo politica del dibattito, cui, in una seconda fase, si
accompagnerà una più decisa impostazione tecnico-giuridica, consacrata
definitivamente con il Trattato di Maastricht(16).
ss.; TOTH A.G., The principle of subsidiarity in the Maastricht Treaty, in Common Market Law Rev., 1992, pag. 1079 ss.; TOTH A.G., A Legal Analysis of Subsidiarity, in D. O'Keeffe, P.M. Twomey, (eds.), Legal issues of the Maastricht Treaty, United Kindom-North America, 1994, pag. 37 ss.; VANDERSANDEN G., Considerations sur le principe de subsidiarité, in Melanges Velu., 1992, pag. 193 ss. (16) IPPOLITO F., Op.cit . pag. 40 ss. La scissione tra le due dimensioni, politica e giuridica, e cioè tra la dimensione del "principio" e quella della "regola di diritto", riveste particolare importanza in quanto, a seconda che a venire in rilievo sia la prima ovvèro Ia seconda, la funzione cui la sussidiarietà può assolvere è diversa. Tendenzialmente, il profilo della "regola di diritto" disciplina l'esercizio delle competenze condivise e le rela-tive concrete modalità, laddove la dimensione politica opera, invece, nella fase prodromica dell’allocazione costituzionale delle competenze tra Stati e Comunità. Non è mancato, tuttavia, in dottrina, chi già nella stessa "regola" (cioè nella portata tecnico-giuridica della sussidiarietà) abbia ravvisato la capacità di incidere sulla ripartizione delle competenze, in virtù della sua potenziale idoneità alla disarticolazione delle competenze attribuite. Il principio di sussidiarietà, in altri termini, sarebbe idoneo a produrre effetti sul riparto delle competenze in veste di criterio esegetico delle disposizioni del Trattato: la sussidiarietà, infatti, annoverandosi tra i principi generali di diritto comunitario che improntano l'intero sistema ed, in particolare, tra quelli dotati di natura costituzionale, costituirebbe un elemento alla luce del quale interpretare le altre disposizioni dei Trattati.
- 17 -
Tutto questo perché nel lungo periodo della sua progressiva definizione,
il sistema comunitario è stato oggetto di numerose modifiche ed innovazioni
che hanno interessato anche gli Stati membri, il loro assetto costituzionale ed
amministrativo, nonché le loro competenze e, soprattutto, dall'attribuzione di
ulteriori e più penetranti poteri di azione, rispetto a quelli originariamente
previsti alle istituzioni comunitarie in settori di rilevante interesse per il
processo di integrazione europea.
In questo senso un apporto decisivo è stato fornito certamente dalla
Corte di giustizia, la quale, attraverso un'interpretazione dinamica ed estensiva,
ha valorizzato tutte le potenzialità della normativa comunitaria. In particolar
modo, però, il frequente ricorso all'art. 235 del Trattato CE (divenuto art.308
CE) ha comportato un ampliamento ed un rafforzamento delle competenze della
Comunità: gli effetti se da un lato sono andati tanto al di là delle più rosee
aspettative dei “padri fondatori” dall’altro hanno finito per attribuire poteri in
materie non contemplate dai Trattati istitutivi o rispetto alle quali il dettato dei
Trattati era più prudente se non ambiguo(17).
La comunitarizzazione di settori strategici, quale la politica monetaria, e
l’insorgere di competenze concorrenti in politiche fondamentali come quella dei
trasporti, della ricerca, dell’agricoltura, dell’industria e dell’ambiente ha finito
inevitabilmente per spingere gli Stati membri a cercare nuovi equilibri e a
riservarsi un ruolo comunque propulsivo lungo il cammino dell'integrazione
Sulla stessa linea, altra parte della dottrina ha rinvenuto nella dimensione giuridica del principio in parola un vero e proprio criterio di attribuzione di un potere di intervento generale e prevalente e, dunque, un fattore di spostamento delle competenze. Né l’una né l’altra posizione sono condivisibile, nel momento in cui travalicano la funzione della sussidiarietà finendo per svuotare di contenuti il principio di attribuzione delle competenze, formalmente codificato sin dal Trattato di Roma. (17) Sulla ricostruzione e sull'evoluzione delle competenze materiali della Comunità cfr., soprattutto, TIZZANO A., Lo sviluppo delle competenze materiali delle Comunità Europee, in Rivista di diritto europeo, 1981, pag. 139 ss.
- 18 -
europea: lo strumento più idoneo, almeno potenzialmente, è parso ai più quello
della sussidiarietà.
3. Il dibattito nella Commissione europea: il Rapporto Tindemans ed il
Rapporto McDougall
Nei primi anni settanta già emerge l'esigenza di una rivisitazione del com-
plesso delle relazioni esistenti tra gli Stati membri e la Comunità al fine di
dare un nuovo impulso alle politiche comuni ed al processo di integrazione:
per rispondere a tale necessità, il Consiglio europeo di Parigi del 1974, investe
la Commissione europea della redazione di un Rapporto sull'Unione
europea(18), dal quale emerge che la sussidiarietà sarebbe stato lo strumento
ideale per una più compiuta riorganizzazione dei rapporti fra enti locali, Stati
membri e Comunità Europea. Essa, in particolare, sembra il giusto antidoto
alla creazione di “un super Stato accentratore”, avvicinando il livello
decisionale agli interessi reali dei territori ed alle esigenze della collettività da
questi rappresentata. Inoltre il criterio della sussidiarietà avrebbe reso più
indolore il passaggio di ulteriori “pezzi” di sovranità dagli Stati stessi alla
Comunità.
Nel rispetto del principio in parola, il Rapporto della Commissione
attribuisce alla Comunità la competenza ad intervenire nei settori in cui gli Stati
membri non siano in grado di farlo efficacemente, definendo, pertanto, la
(18) Rapporto della Commissione sull'Unione europea in Boll. CE, suppl. n. 5/1975, pag. 9 ss. Per un commento in dottrina si veda: DE PASQUALE P., Il principio di sussidiarietà nella Comunità europea, Napoli, 2000, pag. 42 ss.; DICKMANN R., Sussidiarietà, sovranità e regionalismo. Il ruolo delle assemblee parlamentari, in Diritto e Società, 1994, pag. 283 ss.; CASS D., The word that saves Maastricht: the principle of subsidiarity and the division of powers within the European Community, pag. 1112 ss.; 7. BURNER J., Rapport Tindemans: une tentative mort-née de faire l'union politique de l’Europe, in Rev. marché commun, 1976, pag. 548 ss.; TIZZANO A., Il Rapporto Tindemans, in Studi in onore di Giorgio Balladore Pallieri, Milano, 1978, vol. I, pag. 614 ss.
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sussidiarietà come criterio-guida nell'attribuzione delle competenze19 e
contestualmente come parametro di legittimità dell’azione comune in politica
economica.
E’ interessante notare come la Commissione giustifichi, in particolare,
un intervento sussidiario della Comunità in presenza di una semplice inefficacia
dell’azione statale. In questo modo l'azione comunitaria — a differenza di
quanto sarebbe poi stato codificato dal Trattato di Maastricht — può
estrinsecarsi (in quanto maggiormente efficace di quella nazionale) anche
laddove quest'ultima sia ipoteticamente sufficiente alla realizzazione delle
finalità assegnate alla Comunità, ma meno adeguata di quella comunitaria.
Dunque un’ impostazione concettualmente divergente da quella propria di
numerosi sistemi federali e legata a quella vis espansiva che spesso ha animato
gli interventi della Commissione nel corso degli anni
Ispirato dal Rapporto della Commissione del 1975, ma in parte meno
ambizioso di quest'ultimo, il successivo Rapporto Tindemans propone invece
una più intensa integrazione a livello decisionale in alcuni settori prioritari
quali: la politica estera e l'unione economico-monetaria(20). Pur non facendo
alcun riferimento esplicito al principio di sussidiarietà, il Rapporto Tindemans è
parso risultarne significativamente improntato, in particolare, per la ripartizione
delle competenze operata tra gli Stati membri e la nuova Unione. Il
trasferimento di competenze in capo alla Comunità deve avvenire, infatti, a
causa dell'incapacità degli Stati di agire, per la presenza di ridotti poteri delle
(19) D’AGNOLO G, La sussidiarietà nell’Unione europea pag. 39, Padova 1998; VIPIANA
P., Il principio di sussidiarietà verticale: attuazione e prospettive, Milano, 2002, pag. 56 (20) In tal senso il Rapporto finale sull'Unione europea, 29 dicembre 1975, in Boll. CE, suppl. n. 1/1976 stilato dal primo ministro belga Leo Tindemans su incarico conferito alla Commissione, alla Corte di Giustizia ed al Parlamento europeo dal Consiglio europeo durante il vertice di Parigi de1 1974; per un commento al riguardo si rinvia a: BURNER J., Rapport Tindemans, une tentative mort-née de l'Union européenne, cit., pag. 548 ss.
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strutture nazionali: l’azione comunitaria è preordinata, quindi, al più efficace
raggiungimento dell’interesse collettivo in un contesto in cui ancora non è con
chiarezza definito il campo delle competenze concorrenti fra Stati membri e
Comunità. Proprio a tal fine particolare rilievo riveste la proposta della
Commissione di destinare all'Unione tre tipi di competenza, differenti per
natura e portata: esclusive, concorrenti e potenziali. L'esercizio delle
competenze esclusive non impedirebbe che gli Stati, "mandatari dell'Unione"
esercitino poteri sussidiari, sempreché coordinati dall'Unione stessa. Le
competenze concorrenti, invece, sarebbero esercitate solo in presenza di una
necessità effettiva; all'Unione, in ogni caso, spetterebbe il potere di definire, per
ogni materia, una legislazione quadro che definisca l’azione comunitaria
rispetto a quella degli Stati membri. Infine le competenze potenziali sarebbero
temporaneamente gestite dagli Stati per essere solo successivamente trasferite
all’Unione, allo scadere di un termine prestabilito(21).
Sempre nel corso degli anni ’70 la Commissione istituisce un Comitato
di economisti per definire, sotto il profilo della finanza pubblica, le aree della
politica economica da affidare all'esclusiva gestione comunitaria, ed i margini
di azione per un intervento della Comunità, nei settori lasciati, invece, ad una
regolamentazione concorrente con il livello statale: settori questi che sempre
più assumono un carattere portante nel contesto del processo di integrazione e
che ben presto avrebbero coinvolto anche la politica di sviluppo regionale ed in
genere i fondi destinati alla coesione economica e sociale.
Nel c.d. Rapporto McDougall(22), così come strutturato da tale gruppo
di economisti, non sono presenti riferimenti specifici al principio di
(21) DE PASQUALE P, Op. cit. (22) Report of the Study Group on the Role of Public Finance in European Integration, Report McDougall dal nome del presidente del gruppo, in Boll. CE, suppl. n. 2/1977.
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sussidiarietà; eppure, come per il Rapporto Tindemans, sono rinvenibili tracce
di quelli che ne saranno i presupposti operativi. Muovendo dall’assunto di un
possibile parallelismo tra modello europeo e modello americano, in virtù dei
potenziali vantaggi del federalismo sul sistema economico, il Rapporto propone
la conciliazione dell'accentramento, con la difesa delle diversità. Ciò sulla base
del fatto che “only through a comprehensive and consistent allocation of
authority and initiative to appropriate level of government would the
integration process in the Western Europe proceed sensibly”. Pertanto, sul
presupposto di una scelta del livello di governo più adeguato in funzione delle
specifiche esigenze del momento, il Rapporto individua i criteri sulla base dei
quali la distribuzione delle competenze, tra il livello centrale e quello locale,
dovrebbe avvenire.
Tra questi una posizione centrale merita il criterio dell'esternalità degli
effetti dell'azione, in base al quale, tramite il cosiddetto spillover test, sarebbero
di competenza comunitaria le sole politiche macro-economiche in grado di
produrre effetti transfrontalieri e, di converso, di esclusiva pertinenza nazionale,
settori quali l'istruzione, la sanità pubblica, i servizi sociali e la sicurezza
sociale. Proprio lo spillover test, che affida la gestione di una politica all'azione
della Comunità, a seconda dell'intensità degli effetti transfrontalieri che essa sia
capace di determinare, pare aver ispirato uno dei principali indicatori
dell'applicazione del principio di sussidiarietà rinvenibili a partire dal
Protocollo allegato al Trattato di Amsterdam.
Difatti il criterio dell’esternalità degli effetti di una politica o azione
comporta che la dimostrazione della maggiore efficacia dell’intervento
comunitario, avvenga principalmente sulla base della presenza di effetti
transfrontalieri dell'azione medesima. In sostanza laddove l’azione sia in grado
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di produrre effetti a livello europeo, e quindi non esaurisca la propria incidenza
all’interno di un singolo territorio nazionale, senz’altro dovrebbe trovare spazio
un intervento della Comunità: l’elemento transfrontaliero inizia quindi a
configurarsi come indice di applicazione della sussidiarietà a favore
dell’Unione(23) .
Nel corso degli anni ‘70, la sussidiarietà, oltre che venire in rilievo per
quella che è la sua dimensione "negativa", lo ha fatto anche nella sua
dimensione "positiva", che pure le è propria: le azioni comunitarie, avviate nel
contesto della politica regionale a favore delle aree economicamente più
arretrate degli Stati membri, ed il potenziamento del Fondo Sociale Europeo
rappresentano proprio chiari esempi di intervento del livello superiore a
sostegno di quello inferiore, ove necessario, come nel caso della crisi
economica che aveva colpito numerosi Stati membri tra il 1971 e 1973.
4. I lavori parlamentari: il Progetto Spinelli e le risoluzioni dei primi anni
‘90
Anche il Parlamento europeo elabora un suo Progetto di Trattato sull'Unione
europea(24), fortemente voluto dall'euro-parlamentare Altiero Spinelli: la
versione approvata, nel febbraio del 1984, con un largo consenso della
maggioranza assembleare, viene preceduta da un progetto preliminare
contenuto in una risoluzione specifica del Parlamento stesso(25).
(23) L'indicatore degli effetti transfrontalieri prima ancora che nel Protocollo allegato al Trattato di Amsterdam è presente nel Progetto Spinelli del 1984.
(25) Già nella Risoluzione sugli orientamenti del Parlamento europeo concernenti la riforma dei Trattati e la realizzazione dell'Unione europea, del 6 luglio 1982, il Parlamento aveva precisato che: "il principio di sussidiarietà, che è uno dei principi essenziali dell'Unione, implica che: a) l'Unione assumerà unicamente i compiti che possono essere svolti in maniera più efficace congiuntamente che dagli Stati membri separatamente o quelli la cui soluzione esige il contributo dell'Unione; b) l'Unione agirà esclusivamente in settori chiaramente determinati; c) le competenze dell'Unione terranno
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Numerose sono le analogie, in tema di sussidiarietà, tra il c.d. Progetto
Spinelli ed il rapporto della Commissione del 1975: già nel Preambolo è
specificato che “conformemente al principio di sussidiarietà, alla Comunità
spettano soltanto quelle competenze necessarie ad assolvere i compiti che le
istituzioni possono realizzare in modo più soddisfacente che non gli Stati
isolatamente”. E’ in primo luogo la dimensione politica del principio di
sussidiarietà, quale criterio di ripartizione verticale delle competenze, quella
che emerge dal Progetto, nel quale il Parlamento riserva l'azione alle istituzioni,
a condizione che possano assolvere i compiti in maniera più soddisfacente
rispetto agli Stati: la disposizione di cui al Preambolo del Progetto Spinelli
dev'essere letta in combinato disposto con l'art. 12, che si riferisce, appunto,
all'azione comunitaria in termini di efficacia. Anche la definizione della
maggiore efficacia dell'azione europea rispetto a quella nazionale in base al
criterio dell'esternalità dei suoi effetti riproduce un'analogia con l'approccio
della Commissione, e specificamente allo spill over test ideato qualche anno
prima.
Diversamente però dalla Commissione, il Parlamento introduce anche
una dimensione giuridica della sussidiarietà, quale criterio regolatore l'esercizio
delle competenze concorrenti (art. 12, secondo comma). Dimensione giuridica
che si ricollega esclusivamente al criterio dell’efficienza dell’azione
comunitaria, diversamente da quanto poi sarebbe stato sancito nelle successive
riforme dei Trattati, in cui il discrimine operativo verrà segnato esclusivamente
dal criterio della necessità(26).
rigidamente conto della ripartizione dei compiti e dei settori di attività tra l'Unione e gli Stati membri; d) la ripartizione dei compiti, dei settori di attività e delle competenze terrà conto non solo dello stadio attuale, ma anche delle prospettive e dell'inevitabile evoluzione dell'Unione" (GUCE C 238, del 13.9.1982).
(26) Per una interpretazione della sussidiarietà come criterio di esercizio delle competenze non esclusive si veda: CRICHARRO LAZARO A., El principio de subsidiariedad en la Union
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Le riflessioni svolte in seno al Parlamento europeo rispetto alla
sussidiarietà proseguono, sulla scia del Progetto Spinelli, nel corso degli anni
’90 attraverso alcune Risoluzioni elaborate in vista della negoziazione del
Trattato di Maastricht e, dunque, dell'espressa introduzione del principio stesso
all’interno dell’ordinamento giuridico comunitario.
In particolare, la risoluzione dell'11 luglio 1990, sugli orientamenti del
Parlamento europeo relativi ad un Progetto di Costituzione per l'Europa(27),
ripropone l'idea della sussidiarietà quale parametro per l'individuazione e la
distribuzione delle competenze, ricordando come “la determinazione delle
competenze future dell'Unione dovrà ispirarsi al principio delle competenze di
attribuzione nonché a quello di sussidiarietà”(28).
Se, dunque, della sussidiarietà ad essere esaltata è la funzione di
indirizzo nella ripartizione delle sfere d'azione e dei rispettivi poteri, non per
questo ne viene omessa la dimensione tecnico-giuridica quale fondamento per
l'esercizio delle competenze concorrenti, come dimostrato dal passaggio della
Risoluzione in cui si afferma che l'Unione è tenuta a: “svolgere i compiti che,
per le loro dimensioni, o per i loro effetti, o per l'efficacia della loro attuazione,
possono essere svolti meglio dalle istituzioni dell'Unione piuttosto che dai
Europea, Pamplona, 2001, pag. 61 ss.; D’AGNOLO G., La sussidiarietà nell'Unione europea, cit., pag. 45; THOMAS F., Le principe de subsidiarité en droit communautaire, Centre universitarie de Luxembourg, 1998, pag. 70 ss.; VIPIANA P., Il principio di sussidiarietà verticale, cit., pag. 58 ss.; CLERGERIE JL., Le principe de subsidiarité, Paris, 1997, pag. 60; EMILIOU N., Subsidiarity: an effective barrier against “the enterprises of ambition?, in European Law Review 17, 1992, pag. 383 ss,; CAPOTORTI P., HILF M., JACOBS F., JACQUÉ JP., Art. 12, in Le Traité sur l'Union européen. Commentaire du Projet adopté par le Parlement européen, 1985, pag. 73; NICKEL D. , Le projet de traité instituant l'Union européenne, in Cah. Dr: eur., 1984, pag. 511 ss. In senso contrario, (rectius, diverso) DELORS J., The Principle of Subsidiarity: Contribution to the Debite, in Jacques Delors Colloquium, 1991, pag.. 7 ss., spec., pag. 9, sostiene la duplice funzione per il principio in parola di “repartition of competences” e “permanent constraint in the effective exercise of those competences transferred to the centre”. (27) Risoluzione del Parlamento europeo basata sul documento A3-165190, pubblicata in GUCE C 231 del 17 settembre 1990, pag. 91. (28) Punto H della risoluzione.
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singoli Stati”.
Anche la risoluzione del 12 luglio 1990(29), ispirata al Rapporto di
V. Giscard D'Estaing, considera il principio di sussidiarietà sia nella sua
dimensione politica, relativa al momento dell'allocazione costituzionale delle
competenze, sia in quella tecnico-giuridica, relativa all'effettivo esercizio delle
competenze concorrenti. Rispetto al Progetto Spinelli però la Risoluzione adotta
un approccio più elastico(30), dal momento che l'attribuzione di un potere
d’intervento all'Unione non è più limitato al verificarsi di effetti transfrontalieri,
bensì ricondotto più ampiamente al fatto che l'Unione possa perseguire
obiettivi, non attuabili dai singoli Stati in maniera egualmente efficace.
Inoltre, manca la previsione del requisito (procedurale) relativo
all'applicazione del principio di sussidiarietà, contenuto, invece, insieme a
quello sostanziale, nel progetto Spinelli, in cui la possibilità d'azione della
Comunità nei settori di competenza concorrente, è subordinata all'utilizzazione
della c.d. legge organica, da adottarsi con maggioranza qualificata sia in
Parlamento che nel Consiglio(31).
Anche la risoluzione del 21 novembre 1990(32), d’altra parte, si
avvicina alla definizione del principio che verrà poi utilizzata all'interno dei
Trattati. E’ in essa che, infatti, si ritrova la proposta di introdurre nel Trattato un
art. 3-bis, volto a definire le modalità dell'azione comune nell'ambito primario
di quei compiti attribuiti all'Unione ma, alla stessa, affidati in maniera non
(29) Risoluzione del Parlamento europeo basata sul documento A3-163/90, pubblicata in GUCE C 231 del 17 settembre 1990, pag. 163. (30) In tal senso si rinvia a: CHICHARRO LAZARO A., El principio de subsidiariedad, pag. 73; ROUMELIOTIS P., The Subsidtarity principle: the View of the European Parliament, in The Principle of Subsidiarity: Contribution of the Debite, in Jacques Delors Colloquium, Maastricht: European Institute of Public Administration, pag. 33 ss. (31) IPPOLITO F., Op.cit (32) Risoluzione del Parlamento europeo del 21 novembre 1990 sul principio di sussidiarietà, basata sul documento A3-267/90, pubblicata in GUCE C324 del 24 dicembre 1990.
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esclusiva: “La Comunità interviene solo per l'adempimento dei compiti che le
sono stati assegnati dai Trattati e per il conseguimento degli obiettivi in essi
definiti. Se a tal fine sono assegnate alla Comunità competenze in modo non
esclusivo o non definitivo, essa interviene nella misura in cui la realizzazione di
tali obiettivi renda necessaria la partecipazione comunitaria, in quanto le
dimensioni o gli effetti degli obiettivi stessi oltrepassano le frontiere degli Stati
membri, oppure la Comunità può attuare le finalità in questione più
efficacemente che non. gli Stati membri operanti separatamente”.
Un primo aspetto in comune con la formulazione del principio di cui
all'art. 5 Trattato CE è, quindi, la scelta di privilegiare il contenuto tecnico-
giuridico della sussidiarietà, limitandone, in particolare, il raggio di
applicazione alle competenze non esclusivamente attribuite all'Unione..
Inoltre, la legittimazione dell'intervento comunitario è strettamente
legata alla necessità di un'azione a livello sopranazionale, in funzione delle
dimensioni e degli effetti transfontalieri degli obiettivi da perseguire o
alternativamente della dimostrazione della maggiore efficacia di un'azione
congiunta, rispetto ad un'azione nazionale unilaterale: proprio la partecipazione
delle istituzioni comunitarie alla effettiva realizzazione dell'obiettivo assegnato
all'Unione sembra rappresentare, oltre al secondo elemento di similitudine con
la successiva formulazione del principio, l'elemento di novità più evidente
rispetto alle prime definizioni della sussidiarietà elaborate nei documenti dalle
istituzioni, fin qui analizzati. A ciò si aggiunga poi la dinamica delle modalità
attuative del controllo del rispetto del principio stesso; difatti, sebbene la
Risoluzione del 21 novembre 1990 richiami il contenuto di quella dell' 11 luglio
1990, affidando il controllo alla Corte di giustizia, viene introdotta anche una
duplice limitazione operativa riguardo alle modalità con cui tale controllo
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dovrebbe avvenire. Più specificamente, l’intervento della Corte è collocato solo
nella fase successiva l’adozione dell’atto e non anche in occasione della
presentazione della proposta da parte della Commissione, ovvero delle altre
istituzioni detentrici del diritto di iniziativa(33). Infine, la legittimazione ad
agire viene circoscritta unicamente agli Stati membri ed alle istituzioni
comunitarie, ad esclusione, invece, delle giurisdizioni supreme degli
ordinamenti nazionali.
5. La codificazione del principio di sussidiarietà nei Trattati di revisione:
dall'Atto Unico europeo al Trattato sull'Unione europea
La prima formalizzazione, sia pure indiretta, della sussidiarietà nei Trattati è
quella contenuta nell'Atto Unico Europeo dove, limitatamente alla politica
ambientale, l'art. 130 R, quarto comma, Trattato CEE prevedeva che la
Comunità fosse legittimata ad agire nella misura specifica in cui gli obiettivi
fissati dal Trattato “possano essere realizzati meglio a livello comunitario”,
piuttosto che a livello dei singoli Stati membri.
Una prima formalizzazione che dunque non viene in alcun modo
ricondotta ad una costruzione federalista dell'ordinamento comunitario nel suo
insieme, ma trova un esplicito richiamo solo nell'ambito di una specifica
politica, che sarebbe divenuta poi modello di riferimento per inquadrare le
relazioni tra Comunità e Stati membri in altri settori di competenza comunitaria,
quali quello della ricerca e dello sviluppo tecnologico e quello della coesione
economica e sociale, pur sempre comunque nell’alveo delle competenze
concorrenti.
Più in particolare l’azione comunitaria nell’ambito della politica
(33) IPPOLITO F., Op.cit
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ambientale si fonda sulla combinazione di efficacia e migliore attitudine
dell’intervento comunitario, configurando un primo ed effettivo approccio di
tipo sussidiario nel rapporto fra Stati membri e Comunità (34).
La procedura da seguire per l'adozione di un atto comunitario in materia
ambientale, così come stabilito dall'Atto unico europeo (art.130S del Trattato
CE), prevede che, su proposta della Commissione, il Consiglio si esprima
sempre e solo all'unanimità, previa consultazione del Parlamento europeo e del
Comitato economico e sociale. L'unanimità richiesta rappresenta una garanzia
procedurale del rispetto del principio in parola, sebbene come noto numerose
questioni potessero essere già deliberate a maggioranza qualificata.
La vaghezza delle espressioni utilizzate dal legislatore europeo non
fornisce tuttavia un parametro chiaro per stabilire quando l'azione comunitaria
risulti effettivamente necessaria in ambito ambientale; di conseguenza è
plausibile affermare che seppur timidamente codificato il principio di
sussidiarietà, così come applicabile alla materia ambientale, si fonda
essenzialmente sull’utilizzo di un criterio negativo, legato di volta in volta
all'accertamento dell'impossibilità per gli Stati membri di assicurare la tutela
dell'ambiente con la medesima efficacia della Comunità.
In tal senso anche la giurisprudenza della Corte di giustizia inizia a
fornire contorni più propriamente giuridici alla sussidiarietà chiarendo che la
competenza della Comunità va esercitata se gli obiettivi di tutela ambientale
non possono essere meglio perseguiti a livello nazionale e configurando, quindi
l’applicazione del principio di sussidiarietà come vero e proprio limite ai poteri
(34) Gli artt.130R-130T del Trattato CE (divenuti art. 174-176 CE) introdotti dall'Atto unico europeo rappresentano, quindi, la semplice formalizzazione dell'azione comunitaria diretta alla soluzione delle maggiori questioni ambientali: azione autorizzata solo qualora ricorra il presupposto che a quel livello possa essere meglio attuato l'obiettivo prestabilito.
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della Comunità, tenuta in sostanza a dimostrare preventivamente la maggiore
validità dell'azione da essa intrapresa (35).
Dunque la prima codificazione del principio, comporta che nel settore
ambientale sia necessario di volta in volta, trovare il livello d'intervento più
efficace (regionale, nazionale, comunitario) a seconda delle esigenze da
soddisfare e degli specifici caratteri dell’azione richiesta. Tale principio,
espresso fin dal Primo programma d'azione in materia ambientale, è stato ri-
preso dall'Atto unico che ha così evitato di ripartire a priori, in base all'oggetto
o allo scopo dell'intervento da effettuare, le competenze tra Comunità, Stati ed
altri enti, preferendo un "criterio flessibile" che in questa materia assume una
connotazione di maggiore concretezza(36).
Elasticità confermata anche dalle prime pronunzie della Corte di
giustizia europea essenzialmente concentrate ad individuare le necessarie
motivazioni per cui un atto sia adottato dalla Comunità piuttosto che da uno
Stato membro.
E’ proprio in questa logica che si inserisce l’adozione di uno “storico”
strumento di finanziamento per l’ambiente: il Life(37). Con tale programma la
Comunità intende favorire lo sviluppo e l'applicazione della normativa, e più in
generale della politica comunitaria, nel settore dell'ambiente, mediante il
(35) Inoltre, l'orientamento giurisprudenziale delineatosi sembra favorire l'emanazione di provvedimenti comunitari che si limitino ad una tutela minimale, considerando legittima, tra le diverse misure astrattamente adottabili, quella meno invasiva e proporzionata rispetto all'obiettivo proposto, sì da lasciare piena libertà agli Stati membri di integrare e specificare queste misure. (36) BRINKHORST L., La subsidiarité et la politique européenne de l' environnement, in Subsidiarité, 1992, pag. 95 ss.; SCHAEFER G.F., Le principe de subsidiarité et la politique européenne de l’environnement, ibidem, pag. 109 ss.; PAPPAS S.A., De la base juridique de l'action à entreprendre par la Connnunauté européenne en matière d'environnement, ibidem, pag. 131 ss.; GRADO V., Tendenze evolutive della politica comunitaria dell'ambiente in relazione al quinto programma d'azione, in RDE, 1993. (37) Regolamento 1973/92 del 21 maggio 1992, in GUCE L 206, del 22.7.1992
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finanziamento di azioni prioritarie di interesse comune, mentre agli Stati
membri è lasciato il compito di finanziare interventi a carattere specifico(38).
L'individuazione dei settori d’intervento che possono essere finanziati
dal Life è effettuata, così come indicato nel quinto "considerando" del
regolamento istitutivo, in base al principio "chi inquina paga" e a quello della
sussidiarietà: in sostanza laddove un intervento a sostegno dell’ambiente può
essere più efficacemente attuato a livello nazionale e/o regionale il Life
dovrebbe lasciare spazio agli strumenti di finanziamento nazionali, così da
garantire una ripartizione ottimale delle risorse disponibili (39).
E’ quindi certamente la portata giuridica della sussidiarietà quella che
viene introdotta come criterio regolatore dell’esercizio delle competenze
nell’ambito della politica ambientale, con un chiaro richiamo ai contenuti dei
primi Rapporti della Commissione, in cui sussidiarietà è sinonimo di maggior
efficacia dell’azione intrapresa.
Con il passaggio dall'Atto Unico Europeo al Trattato di Maastricht(40) viene
invece finalmente codificato il principio di sussidiarietà, ampliandone e allo
stesso tempo definendone meglio la portata: in particolare, pari è il rilievo che è
attribuito al criterio dell'insufficienza e a quello dell'inefficacia dell’azione da
intraprendere. L'art. 5 del Trattato CE prevede, infatti, l'intervento della
Comunità “nei settori che non sono di sua competenza esclusiva, soltanto se e
(38) DE PASQUALE P., Op. cit. (39) Proprio su questi profili nel corso del III capitolo verrà sviluppata un’ipotesi ricostruttiva della sussidiarietà letta “in combinato disposto” con i principi della complementarietà e della coerenza ampiamente richiamati nei work programme dei programmi europei di finanziamento. (40) Sebbene la sussidiarietà sia entrata in modo esplicito nel diritto comunitario soltanto dal 1992 grazie al Trattato di Maastricht, essa trova le sue origini nel contesto europeo addirittura negli anni '50. Bisogna infatti risalire al 1951 quando nacque la prima comunità europea: la CECA (Comunità Economica del Carbone e dell'Acciaio). Nel suo Trattato istitutivo (firmato a Parigi il 18 aprile 1951) si trova un primo riferimento al principio di sussidiarietà nell'articolo 5 il quale afferma che “la Comunità può intervenire per disciplinare la produzione solamente quando le circostanze lo esigano”.
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nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere
sufficientemente realizzati dagli Stati membri, e possono dunque, a motivo delle
dimensioni o degli effetti dell'azione in questione, essere realizzati meglio a
livello comunitario”(41). La necessità dell'introduzione di una specifica dispo-
sizione, quale quella citata è senz’altro da ricondurre all’opportunità di
implementare un nuovo e più funzionale criterio di esercizio delle competenze
concorrenti(42) e all'esigenza di bilanciare l'attribuzione di nuove competenze
alla Comunità, specie alla luce di certa giurisprudenza della Corte di Giustizia,
incline ad estendere la portata dei c.d poteri impliciti della Comunità stessa(43).
(41) Anche nel Preambolo del Trattato sull’Unione Europea si chiarisce che gli Stati membri vogliono creare un’Unione sempre più stretta tra i popoli e prendere decisioni il più vicine possibili ai cittadini, conformemente al principio di sussidiarietà. (42) I trattati non hanno previsto in modo espresso quale fosse la ripartizione di competenze tra Comunità e Stati membri ma dal sistema complessivamente considerato, tuttavia, si evince con chiarezza che la Comunità agisce soltanto nei limiti delle competenze e degli obiettivi che le sono espressamente conferite dai trattati. Ciò significa che nelle Comunità opera il c.d. principio delle competenze di attribuzione secondo il quale, la Comunità, non essendo un soggetto originario di diritto internazionale ma un soggetto derivato, dispone solo di quei poteri che gli Stati membri hanno deciso di conferirle. A conferma di ciò è previsto l’obbligo di motivazione per l’adozione di tutti gli atti derivati ad efficacia vincolante, rendendo in questo modo necessaria l’indicazione di una base giuridica su cui la Comunità trae la sua competenza a deliberare su quel dato argomento. La rigidità del principio della competenza di attribuzione è stata mitigata dagli interventi della Corte di giustizia che hanno dato un’interpretazione estensiva ai poteri delle istituzioni comunitarie; d’altronde, lo stesso art. 308 riconosce alla Comunità il potere di utilizzare tutti i mezzi a sua disposizione per raggiungere gli scopi previsti dal Trattato anche quando tali mezzi non sono espressamente previsti nel Trattato (c.d. teoria dei poteri impliciti). Quest’ultima doveva essere una norma di applicazione eccezionale, limitata al funzionamento del mercato comune ma l’espansione delle competenze comunitarie, ha portato ad una applicazione sempre maggiore dell’art. 308. La prassi ha portato a distinguere tre diverse ipotesi in cui è possibile ricorrere a tale articolo: • quando il Trattato non abbia previsto effettivamente nulla in materia • quando, pur essendo presente nel Trattato una disposizione ad hoc, questa non è più applicabile (ad esempio perché era valida solo per un periodo transitorio) oppure non è sufficiente a garantire il risultato voluto • quando, pur essendo previste specifiche disposizioni nel Trattato, queste non sono reputate sufficienti per tutte le azioni che si intende intraprendere; in questo caso il ricorso all’art. 308 risulta complementare ed integrativo. (43) Ampliamento delle competenze della comunità realizzatosi particolarmente
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L’intervento in via sussidiaria è quindi soggetto a diversi presupposti: in
primo luogo esso è previsto solo per le materie che non rientrano nella
competenza esclusiva della CE, per le quali la Comunità non è tenuta a
dimostrare che l’adozione di un determinato atto si configuri come
indispensabile per la realizzazione degli obiettivi perseguiti; in secondo luogo
per le materie di competenza concorrente la Comunità, alla luce dell’art. 5 TCE
(oggi art. 5 TUE), deve valutare, caso per caso, la necessità della sua azione. A
tal fine è necessario tener conto della dimensione europea e degli effetti
dell’intervento da intraprendere; e solo quando l’azione comunitaria si profili
come la più efficace, la Comunità potrà operare in luogo degli Stati membri.
L’intervento della Comunità, inoltre, in applicazione del principio di
proporzionalità, non deve andare al di là di quanto necessario per il
raggiungimento degli obiettivi del Trattato, seguendo quindi un criterio di
proporzionalità dell’intervento necessitato(44).
Il principio di sussidiarietà quale criterio di regolazione delle
competenze concorrenti assume, a ben vedere, una portata per certi aspetti
ambivalente.
Da un lato, infatti, è volto a salvaguardare l’ambito di competenza
statale contro ogni ingerenza comunitaria che non sia necessaria; dall’altro, si
pone invece come principio che giustifica l’intervento della Comunità anche in
attraverso: a) un ampio ricorso alle misure di armonizzazione ai sensi dell'art. 100 A (introdotto dall'AUE); b) l'utilizzazione indiscriminata dell'art. 235 Trattato CEE (poi art. 308 Trattato CE); c) l'interpretazione della Corte di giustizia ad un tempo, estensiva dell'art. 235 CEE, e finalistica delle competenze attribuite alla Comunità dai Trattati istitutivi (35); e d) l'estensione dei settori di azione attribuiti alla Comunità, prodotta dai Trattati di revisione. In dottrina, in questo senso: WETLER J.H., The Transformation of Europe, in 100 Yale Law Journal, No. 8, Symposium: International law, Jun 1991, pag. 2403-2483; SCHILLING
T., A New Dimension of Subsidiarity: Subsidiarity as a Rule and a Principle, cit., pag. 209; VERHOEVEN J., Analyse du contenu et de la portée du principe de subsidiarité, in DELPEREE F. (dir.), Le principe de subsidiarité., Bruxelles, 2002, pag. 375 – 385. (44) TESAURO G., Diritto Comunitario, Padova 2008
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aree sino al momento riservate alla competenza degli Stati membri, specie per
l’assenza di una specifica elencazione delle materie a competenza condivisa.
D’altro canto l’ambivalenza del principio in esame è evidente anche
nelle espressioni usate dai capi di Stato e di governo nel Consiglio europeo di
Edimburgo del dicembre 1992 laddove si pone in evidenza che: “La
sussidiarietà è un concetto dinamico che dovrebbe essere applicato sulla scorta
degli obiettivi enunciati dal Trattato. Esso consente di estendere le azioni della
Comunità quando lo richiedono le circostanze e, viceversa, di restringerle o di
interromperle quando esse non sono più giustificate”.
Tale dualità(45) non ha comunque impedito ai capi di Stato e di governo
presenti ad Edimburgo di individuare nel criterio della sussidiarietà un nuovo
principio fondamentale dell’ordinamento giuridico comunitario così come
specificamente indicato nelle conclusioni(46) del Consiglio stesso: collocazione
che riconduce il principio di sussidiarietà, prima ancora che tra i principi che
presiedono all'elaborazione del diritto, tra quelli di portata generale del diritto
comunitario, così come ricavabile dal Trattato di Maastricht: la sussidiarietà è
(45) Anche la Commissione con la comunicazione del 27 ottobre 1992 tenta di specificare i principali profili applicativi del neo codificato principio: in particolare viene chiarito che è agli stessi Trattati che si deve la determinazione delle competenze dell'Unione e della Comunità, e non al principio di sussidiarietà, il quale non interviene nell'allocazione costituzionale delle competenze, bensì nel momento (successivo) della regolamentazione del loro esercizio. Quanto alla ripartizione delle competenze, la Comunicazione rileva, tra l'altro, l'inutilità di un catalogo di quelle riservate agli Stati membri: l'art. 5 Trattato CE potendo essere letto, infatti, nel senso che la competenza comunitaria rappresenti l'eccezione rispetto a quella nazionale. La Comunicazione chiarisce in particolare l'operatività del principio di sussidiarietà, quale criterio orientativo della necessità dell'azione comunitaria (Sezione III), nonché parametro della sua intensità (Sezione IV). E’ proprio il principio codificato all'art. 5 che diviene uno strumento necessario al rispetto della correttezza dell'azione della Comunità, costituendo l'unico filtro tra l'esistenza di una competenza ed il suo concreto esercizio. (46) Cfr. in Boll. CE, n. 12/1992. Il documento allegato alle conclusioni del Consiglio si articola in tre parti: una prima intitolata “Principi fondamentali”, la quale pone una definizione e classificazione del principio di sussidiarietà; una seconda parte intitolata “Orientamenti” che contiene alcuni criteri guida nell'applicazione del principio in parola ed una terza parte, “Procedure e prassi”, che fissa e regolamenta i criteri che devono guidare la Commissione, Parlamento e Consiglio nella corretta attuazione del principio nell'esercizio delle rispettive competenze.
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così entrata a far parte dei principi generali scritti, regole caratterizzanti il
sistema comunitario, applicabili in qualsivoglia settore d'azione della Comunità,
data la loro valenza trasversale e non esclusivamente settoriale.
La codificazione della sussidiarietà ha, dunque, definitivamente e
formalmente annoverato il principio tra quelli generali del diritto comunitario,
consentendo anche al Tribunale di primo grado ed alla Corte di Giustizia di
procedere ad uno scrutinio sulla legittimità degli atti delle istituzioni europee
anche in funzione del rispetto della sussidiarietà(47).
Le conclusioni del Consiglio europeo di Edimburgo sono state riprese e
completate dall’Accordo interistituzionale tra Parlamento Europeo, Consiglio e
Commissione relativo alle procedure per l’attuazione del principio di
sussidiarietà, siglato a Lussemburgo il 25-26 ottobre 1993.
In particolare il documento si sofferma sulla necessità che le tre
istituzioni, nell’esercizio delle proprie competenze, tengano conto del principio
di sussidiarietà e ne giustifichino il rispetto: la Commissione nell’esercizio del
suo diritto d’iniziativa, dando giustificazione di ogni sua proposta; il Consiglio,
invece, accogliendo le richieste di ogni Stato membro che esiga l’esame di
questioni relative alla corretta applicazione della sussidiarietà.
Il rispetto del principio di sussidiarietà è, inoltre, sottoposto ad un
controllo effettuato nell’ambito delle procedure comunitarie ordinarie,
(47) La giurisprudenza, prima della specifica codificazione del principio di sussidiarietà, aveva cercato comunque di ricondurre lo stesso nell’alveo del principio di proporzionalità, acconsentendo ad una applicazione dello stesso in linea soprattutto con gli orientamenti della giurisprudenza tedesca. In tal senso: CAPELLI E., I principi come fonte del diritto, in Dir. com e scambi int., 1986, pag. 546 ss.; LUGATO M., Principio di proporzionalità e invalidità di atti comunitari nella giurisprudenza comunitaria, in Dir com. e scambi int., 1991, pag. 67 ss.; SALERNO E., Principi generali di diritto (diritto internazionale), in Digesto, Disc. Pubbl., 1996, pag. 546. Per una puntuale ricostruzione del principio di proporzionalità, quale principio generale di diritto comunitario, e la relativa giurisprudenza di riferimento, si veda, in dottrina: CICIRIELLO M.C., Il principio di proporzionalità nel diritto comunitario, Napoli, 1999; USHER J.A., General Principles of EC Law, London-New York, 1998, pag. 37 ss.; EMILIOU E., The principle of proportionality in European Law, The Hague-Boston, 1996.
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conformemente alle regole previste dai trattati, ed è oggetto di una relazione
elaborata dalla Commissione e discussa in seno al Parlamento europeo: il
tentativo da parte delle istituzioni europee preposte di fornire contorni operativi
e precisi al principio in parola, porterà poi ad una ulteriore elaborazione dello
stesso tramite il Trattato di Amsterdam e più specificamente il Protocollo n.. 30
ad esso allegato(48).
6. Da Amsterdam a Lisbona: i meccanismi di applicazione del principio
contenuti nel Trattato CE
Anche il Trattato di Amsterdam si colloca dunque nella prospettiva di una più
compiuta specificazione dei contenuti del principio di sussidiarietà., la cui
effettività è, come detto, affidata ad uno strumento di pari rango del Trattato: il
Protocollo n. 30(49). Benché detto Protocollo, relativo all'applicazione dei
(48) Al riguardo gli Stati hanno ben presto assunto posizioni diverse. Infatti, sulla definizione del principio di sussidiarietà, ad esempio, la Germania aveva proposto di eliminare l'inciso del 2° comma dell'art. 3B del Trattato CE ove è sancito che l'intervento comunitario è legittimato qualora gli obiettivi dell'azione possano "a motivo delle dimensioni o degli effetti dell'azione in questione, essere meglio realizzati a livello comunitario" (cfr. la Relazione sulle posizioni degli Stati membri dell'Unione europea nella prospettiva della Conferenza intergovernativa del 1996, elaborata dalla task-force, Conferenza intergovernativa del Segretariato generale del Parlamento europeo. 3° aggiornamento, Lussemburgo 1995, pag. 24.) Il Belgio, invece, aveva richiesto l'introduzione di una definizione più positiva del principio di sussidiarietà. E, il Comitato delle Regioni era favorevole ad un esplicito riferimento agli enti locali e regionali nell'art. 3B del Trattato CE. A tali proposte si sono poi aggiunte iniziative dirette a modificare sostanzialmente il quadro delle competenze comunitarie. Infatti, il governo tedesco chiedeva di inserire nel Trattato elenchi di competenze; proposta che ha incontrato l'ostilità di Belgio, Spagna ed Italia; mentre il governo danese proponeva di indicare espressamente nel Trattato le materie sottratte all'intervento della Comunità. Infine, il negoziato ha accolto soluzioni più modeste, ma di più semplice realizzazione; si è così deciso di tradurre in un apposito allegato l'Impostazione generale, accogliendo la proposta emersa in seno al Gruppo di riflessione (Relazione di tappa sulla Conferenza intergovernativa del 1996, del 27 settembre 1995, in RIDPC, 1996, pag. 838), condivisa in breve da molti Stati. (49) In dottrina, sull'analisi delle singole disposizioni del Protocollo per un confronto con le precedenti formulazioni, si. vedano: CATEADRIGA C., Il Protocollo sull'applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità, in Dir. Un. eur., 1998, pag. 361 ss.; CONSTANTINESCO V, Les clauses de "coopération renforcée", in Riv. Trim. Dir. Un. Eur., 1997, pag. 765 ss.; FERAL P.A., Le principe de subsidiarité à la lumière du Traité d'Amsterdam, in Rev. aff. eur., 1998, pag. 76 ss.
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principi di sussidiarietà e proporzionalità, abbia essenzialmente ripreso i criteri
già elaborati nel documento annesso alle Conclusioni del Consiglio europeo di
Edimburgo del 1992, esso ha fornito al complesso delle disposizioni in oggetto
tutt’altro valore giuridico, sulla scorta della parificazione del Protocollo al
Trattato ex art. 51 TUE(50): le disposizioni previste nel Protocollo sono dunque
perfettamente azionabili dinanzi agli organi giurisdizionali comunitari, i quali
devono in particolare verificare che la Commissione e il Consiglio svolgano
ampie consultazioni con i Parlamenti nazionali e le autorità regionali e locali
prima di adottare un provvedimento in materie a “competenza concorrente”.
Nel Protocollo si specifica poi che la sussidiarietà è un concetto
dinamico che consente di variare il livello al quale è più opportuno agire in
funzione delle circostanze; ogni proposta di atto legislativo deve essere
accompagnata da una dichiarazione sulle sue conseguenze in relazione al
principio di sussidiarietà; la forma dell'azione comunitaria deve essere la meno
vincolante possibile, compatibilmente con un soddisfacente conseguimento
dell'obiettivo voluto (ossia: a parità di condizioni, vanno preferite le direttive ai
regolamenti).
Lo sforzo di una piena applicazione del principio di sussidiarietà è frutto
certamente della ricerca di un maggiore coinvolgimento degli organi legislativi
nazionali e regionali, nelle materie di competenza di questi ultimi, nel tentativo
(50) Il valore giuridico dei protocolli annessi al Trattato è stato richiamato, in più circostanze, innanzi la Corte di giustizia. Essa, come pure gli Avvocati Generali nelle loro conclusioni, ha ritenuto debba coincidere con quella del Trattato stesso di cui fanno parte. Cfr., per tutte, le conclusioni dell'Avvocato Generale Reischl relative alla causa Roquette, 138/79, in Racc., spec., pag. 3366 e la sentenza Corte giust., 22 ottobre 1987, 314185, Foto-Frost, in Racc., pag. 4199. In dottrina, anche FERAL P.A., Le principe de subsidiarité à la lumière du Traité d'Amsterdam, cit., pag. 76 ss., ha sostenuto l'identità del valore giuridico dei Protocolli rispetto al Trattato CE in quanto, conformemente al diritto internazionale, è concesso alle Parti Contraenti di attribuire agli annessi ed ai Protocolli il medesimo valore giuridico che intendano attribuire al Trattato stesso. Cfr., al riguardo, gli artt. 2, primo comma, e 31, secondo comma, Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969.
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di colmare un certo deficit rappresentativo-democratico(51) nelle scelte delle
istituzioni europee; ma senza dubbio è da ricondurre anche alla necessità di un
criterio regolatore funzionale nell’ambito delle politiche comunitarie, che limiti
l’erosione di competenze cui gli Stati membri andavano incontro. In particolare
il protocollo propone tre principi guida in base ai quali valutare se le condizioni
per l'intervento della Comunità ricorrano effettivamente: a) l'azione presenta
aspetti transnazionali che non possono essere disciplinati in maniera
soddisfacente dagli Stati membri; b) l'azione dei soli Stati membri o la
mancanza di un'azione comunitaria contravverrebbe alle prescrizioni del
Trattato; C) l'azione a livello comunitario produrrebbe evidenti vantaggi. Allo
stesso fine sono ispirati anche i paragrafi 6 e 7 del Protocollo, nella parte in cui
stabiliscono che l'azione comunitaria deve essere "quanto più possibile
semplice". Infatti, la semplificazione deve assumere a riferimento il prodotto
finale alla cui formazione concorrono, in varia misura e in vario modo, il diritto
comunitario e il diritto nazionale. Naturalmente, la tecnica di elaborazione e
redazione dell'atto deve essere coerente con le motivazioni che hanno guidato la
sua scelta: anche una migliore qualità della produzione normativa comunitaria,
in termini di più semplice recepimento negli ordinamenti giuridici nazionali,
concretizza, latu senso, la sussidiarietà, come estrinsecazione, in questo caso,
del principio di proporzionalità e di adeguatezza.
I meccanismi e le procedure di applicazione del principio di sussidiarietà
sono ulteriormente specificati dal Trattato che istituisce una Costituzione per
(51) Sul nesso tra sussidiarietà e democrazia, in generale, si veda MACORMIK N., Democracy and Subsidiarity, in Dir, pubbl., 1999, pag. 49 ss.; NEWAHL N.A., A Europe dose to the citizen? The 'trinity concepts' of subsidiarity, transparency and democracy, in A. Rosas, N.W. Barber, The Limited Modesty of Subsidiarity, 2004, pag. 308 ss. che evidenzia come il principio di sussidiarietà sia un principio inerente al funzionamento della democrazia.
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l'Europa(52), comunemente definito Costituzione europea, che come noto, non
ha superato due referendum popolari ma ha comunque preparato il terreno per
la conclusione del Trattato di Lisbona. Lo scopo della Costituzione europea,
oltre a quello di sostituire i diversi trattati esistenti che al momento costituivano
la base giuridica dell'Unione Europea, è principalmente quello di dare all'UE un
assetto giuridico chiaro riguardo alle sue istituzioni, alle sue competenze, alle
modalità decisionali, alla politica estera. A dispetto del nome, non si tratta di
una vera costituzione che sancisce la nascita di un nuovo soggetto a sovranità
territoriale (come la costituzione federale degli Stati Uniti d'America), bensì di
una sorta di Testo unico, in cui vengono solo recepiti e riordinati testi giuridici
preesistenti.
In questo senso si inserisce anche l’ulteriore procedimentalizzazione
del principio di sussidiarietà che verrà poi in larga misura recepita dal
successivo Trattato di Lisbona: già nel 2004, durante il Consiglio di Laeken
emerge l’esigenza di una revisione del sistema che ponga particolare attenzione
(52) Sulla natura giuridica della Costituzione europea, si veda: CANNIZZARO E., La Costituzione pluralista. A proposito della natura giuridica del Trattato costituzionale, in Il Diritto dell’Unione Europea, 2005; MAUS D., Traité ou constitution? A chacun sa vérité, in Rev. politique et parlam., 2004, pag. 180 ss.; MONDAL P.Y., Le projet de traité établissant une Constitution pour l'Europe: quels fondements théoriques pour le droit constitutionnel de l'Union européenne?, in Rev. trim. droit eur., 2004, pag. 443 ss.; PICCHIO FORLATI L., Il fondamento giuridico dell'Unione europea: Trattato o Costituzione?, in Studi Arangio-Ruiz, Napoli, 2004; TRIGGIANI E., Un Trattato per la futura "Unità europea'', in E. TRIGGIANI (a cura di), Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa, Bari, 2004, pag. 9 ss.; FOIS P., La questione della transizione dal Trattato - Costituzione alla Costituzione europea, in S. Labiuola (a cura di), Ripensare lo Stato, Milano 2003, pag. 113 ss.; TIZZANO A., Prime note sul progetto di Costituzione europea, in Dir. Un. eur., 2003, pag. 249 ss.; DA BURLA G., The Constitutional challange of a near governance in the European Union, in Eur. Law Rev., 2003, pag. 814 ss.; AMATO G., Verso la Costituzione europea, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2003, pag. 291 ss.; ROSSI L.S., "Costituzionalizzazione" dell'UE e diritti fondamentali, in L. S. Rossi (a cura di), Carta dei diritti fondamentali e Costituzione dell'Unione europea, Milano, 2002, pag. 249 ss.; PERNICE I., Multilevel constitutionalism and the Treaty of Amsterdam: European constitution-making revisited?, in Common Market Law Rev., 1999, pag. 703 ss.; PNUS S., L'Union européenne a-t-elle une Constitution? Lui en faut-il une?, in Rev. Trim droit eur., 1999, pag. 599 ss.
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a: a) una migliore ripartizione e definizione delle competenze; b) la
semplificazione degli strumenti normativi dell'Unione; c) maggiore democrazia,
trasparenza ed efficienza dell'Unione europea: contestualmente anche la
Dichiarazione 1123 allegata al Trattato di Nizza pone al centro del dibattito
politico il problema della definizione delle modalità attraverso cui deve essere
stabilita e preservata una ripartizione delle competenze tra l'Unione e gli Stati
membri che sia conforme al principio di sussidiarietà.
Quanto poi agli aggiustamenti effettivamente apportati al principio di
sussidiarietà dal Trattato costituzionale, essi, in linea con la prospettiva
contenuta nel Trattato di Amsterdam e nel Protocollo ad esso allegato, mirano
ad un miglioramento della procedura di controllo, per mezzo di un maggior
coinvolgimento dei Parlamenti nazionali e degli enti locali, nell’iter di verifica
del necessario interevento della Comunità: maggior coinvolgimento degli enti
locali che diventa parametro di legittimità anche del successivo eventuale
vaglio degli organi giurisdizionali.
In particolare il criterio ispiratore è quello di un coinvolgimento il più
tempestivo possibile dei Parlamenti, in fase di adozione di un atto da parte delle
Istituzioni comunitarie competenti: quanto più precocemente si tenga conto,
infatti, del principio di sussidiarietà nel processo decisionale, tanto più è
suscettibile di derivarne una sua più efficace applicazione.
Per questo motivo è stato previsto un coinvolgimento diretto dei
parlamenti nazionali nella procedura decisionale attraverso il cosiddetto
meccanismo di "allarme preventivo” (art.6 Protocollo sull’applicazione dei
principi di sussidiarietà e di proporzionalità): questi possono ormai avvertire
pubblicamente le istituzioni europee, ma anche il loro governo, in merito a ogni
progetto di atto legislativo europeo che a loro avviso contravvenga al principio
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di sussidiarietà. A tal fine, essi dispongono di un termine di sei settimane dalla
data di trasmissione di un progetto di atto legislativo europeo; ogni parlamento
nazionale può dunque riesaminare tali progetti ed emettere un parere motivato,
ogniqualvolta ritenga che il principio di sussidiarietà non sia stato rispettato, se
un terzo dei parlamenti condivide lo stesso parere, la Commissione o
l'istituzione che ha presentato il progetto deve riesaminare la sua proposta. Al
termine di questo riesame, la Commissione o qualsiasi altra istituzione
interessata può decidere di ritirare la sua proposta oppure di mantenerla o di
modificarla, ma è comunque tenuta a motivare la sua scelta; ai parlamenti
nazionali è inoltre conferita la facoltà di presentare alla Corte, attraverso il
proprio Stato membro, un ricorso per violazione del principio di sussidiarietà da
parte di un atto legislativo. Infine viene confermato che i progetti di atti
legislativi europei devono essere motivati rispetto al principio di sussidiarietà e
che è raccomandato l'utilizzo della c.d. scheda di sussidiarietà che riunisce tutti
gli elementi relativi alla valutazione dell'aderenza al principio (art.5 Protocollo
sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità).
Il Trattato costituzionale impone infine che la Commissione inoltri
contemporaneamente ai parlamenti nazionali degli Stati membri e al legislatore
dell'Unione tutti i suoi progetti di atti legislativi e i progetti modificati. Subito
dopo l'adozione, anche le risoluzioni legislative del Parlamento europeo e le
posizioni del Consiglio dei ministri devono essere da questi inviate ai
Parlamenti nazionali; qualora poi la Commissione decida di non procedere a
consultazioni pubbliche, in caso di urgenza eccezionale, essa è comunque
tenuta a motivare tale decisione nella sua proposta(53).
(53) Il Protocollo n. 2, allegato al successivo Trattato di Lisbona, prevede una serie di obblighi a carico delle istituzioni dell’Unione europea finalizzati a rendere le loro azioni conformi ai principi di sussidiarietà e di proporzionalità. Tali obblighi sono però previsti solo per quanto attiene agli atti legislativi, una limitazione che non è invece prevista
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Lo spirito della Costituzione, in materia di sussidiarietà, troverà poi la
sua compiuta codificazione all’interno dell’ordinamento giuridico comunitario,
tramite il nuovo art. 5 del Trattato sull’Unione Europea, così come riformato a
Lisbona(54), entrato in vigore nel dicembre del 2009, il quale recepisce il
meccanismo dell’allarme preventivo (artt. 69, 70, 85)(55) ideato pochi anni
dall’art. 5 TUE (più precisamente riguardano i progetti di atto legislativo, ove per «progetto di atto legislativo» si deve intendere, ai sensi dell’art. 3 del Protocollo, la proposta della Commissione, l’iniziativa di un gruppo di Stati membri, l’iniziativa del Parlamento europeo, la richiesta della Corte di giustizia, la raccomandazione della Banca centrale europea e la richiesta della Banca europea per gli investimenti, intese all’adozione di un atto legislativo). Ne consegue che il Protocollo n. 2 non dovrebbe essere considerato esaustivo della disciplina del principio di sussidiarietà, mancando tutta la parte relativa agli atti non legislativi, che pure possono essere molto rilevanti e incisivi nei confronti delle competenze statali. (54) La modifica delle fonti fondamentali del diritto europeo – i Trattati istitutivi – ha incontrato, com’è noto, rilevanti difficoltà di natura politica. L’ambizioso progetto iniziale di dotare l’Unione europea di una Costituzione è stato dapprima ridotto alla stipulazione di un nuovo Trattato costituzionale e poi, dopo i fallimenti dei referendum sulla ratifica in Olanda e in Francia, declassato all’adozione di un Trattato che non sostituisce i Trattati previgenti, ma si limita a modificarli, pur nel quadro di una riorganizzazione complessiva del sistema delle fonti che coinvolge i Trattati stessi. L’esito del processo di ripensamento – reso necessario dall’allargamento dell’Unione europea agli attuali 27 membri – è stato l’entrata in vigore, il 1° dicembre 2009, del Trattato di Lisbona, in forza del quale l’Unione si ritrova oggi ad avere due fonti fondamentali: il Trattato sull’Unione europea (TUE) e il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), tra loro in rapporto di pariordinazione. In più, occorre prendere in considerazione la Carta dei diritti che, pur non essendo inclusa in nessuno dei Trattati, è richiamata all’art. 6 del TUE, che le attribuisce lo stesso valore giuridico dei Trattati (dunque le fonti fondamentali sono in realtà non due, ma tre). (55) Il trattato di Lisbona riconosce e rafforza il ruolo dei parlamenti nazionali che, nel rispetto del ruolo delle istituzioni europee, possono partecipare maggiormente all’attività dell’UE. Una nuova disposizione stabilisce chiaramente i diritti e i doveri dei parlamenti nazionali in ambito europeo per quanto riguarda la loro informazione, il controllo del principio di sussidiarietà, i meccanismi di valutazione nell’ambito dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia o la revisione dei trattati. Le maggiori innovazioni apportate dal trattato di Lisbona riguardano soprattutto il controllo del principio di sussidiarietà. Secondo tale principio, nei settori che non sono di sua esclusiva competenza l'Unione europea interviene soltanto quando la sua azione è considerata più efficace di quella intrapresa a livello nazionale. Ogni parlamento nazionale può precisare perché, a suo avviso, una proposta non rispetta tale principio. Si avvia allora un meccanismo in due fasi: • se un terzo dei parlamenti nazionali ritiene che una proposta non sia conforme al principio di sussidiarietà, la Commissione è tenuta a riesaminare la sua proposta e può decidere di mantenerla, modificarla o ritirarla; • se la maggioranza dei parlamenti nazionali condivide questa opinione e la Commissione decide comunque di mantenere la propria proposta, viene avviata una
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prima ed esalta il ruolo delle autonomie locali, nel processo decisionale,
ampliando notevolmente le competenze del Comitato delle regioni.
Più in particolare, ai sensi del citato art. 5 TUE, l’Unione europea
esercita solo le competenze che le sono espressamente attribuite; tutte le altre
rimangono in capo agli Stati membri: “In virtù del principio di sussidiarietà,
nei settori che non sono di sua competenza esclusiva l'Unione interviene
soltanto se e in quanto gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere
conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a livello centrale né a
livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti
dell'azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione”.
Dunque là dove il testo normativo nulla dice, la competenza dovrebbe
essere statale. In realtà, però, l’art. 352 TFUE integra la rigidità del criterio di
ripartizione delle competenze introducendo una clausola di flessibilità in forza
della quale, in tutti i casi in cui un Trattato attribuisce un obiettivo all’Unione
senza accompagnarlo espressamente con la previsione delle azioni necessarie a
conseguirlo, l’Unione può egualmente adottare tutte le misure necessarie (pur
se con particolari cautele procedurali: è necessaria la proposta della
Commissione e l’approvazione del Consiglio europeo – all’unanimità – e del
Parlamento europeo). L’unico ambito nel quale la clausola di flessibilità non
può trovare applicazione è la politica estera e di sicurezza comune (PESC). In
tutte le restanti materie, ivi compreso lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia,
la ripartizione delle competenze risulta quindi fissata con elasticità. Il TFUE si
preoccupa di determinare concretamente quali competenze spettano all’Unione
europea. Sono previsti tre tipi di competenze (art. 2 TFUE): 1) le competenze
che spettano all’Unione in via esclusiva (art. 3 TFUE): nelle materie che
procedura specifica. La Commissione deve esporre le sue motivazioni e spetta quindi al Parlamento europeo e al Consiglio decidere se proseguire o meno la procedura legislativa.
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rientrano in tale categoria (tassativamente elencate nel Trattato: unione
doganale; definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento
del mercato interno; politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è
l’Euro; conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica
comune della pesca; politica commerciale comune; conclusione di accordi
internazionali) solo l’Unione può adottare atti vincolanti, gli Stati possono
intervenire solo su delega o in attuazione; 2) le competenze che spettano
all’Unione in concorrenza con gli Stati (art. 4 TFUE): nelle materie che
rientrano in tale categoria (il Trattato si limita a indicare i principali settori in
cui vige tale tipo di competenza, ma precisa che rientra in quest’ambito
qualsiasi competenza attribuita dai Trattati all’Unione europea non rientrante
nell’elenco delle competenze esclusive) la concorrenza viene intesa in due
modi: (a) nella maggior parte delle materie (mercato interno; politica sociale;
coesione economica, sociale e territoriale; agricoltura e pesca; ambiente;
protezione dei consumatori; trasporti; reti transeuropee; energia; spazio di
libertà, sicurezza e giustizia; problemi comuni di sicurezza in materia di sanità
pubblica) la concorrenza è sull’esercizio della competenza: gli Stati perdono la
competenza se questa viene esercitata dall’Unione; (b) nelle restanti materie
(ricerca; sviluppo tecnologico; spazio; sviluppo e aiuto umanitario) la
concorrenza prevede che sia l’Unione sia gli Stati adottino atti normativi
(l’Unione opera, in particolare, adottando programmi); 3) le azioni che spettano
all’Unione per il sostegno, il coordinamento e il complemento delle azioni degli
Stati membri (art. 6 TFUE): nei settori tassativamente previsti (tutela e
miglioramento della salute umana; industria; cultura; turismo; istruzione,
formazione professionale, gioventù e sport; protezione civile; cooperazione
amministrativa) l’Unione può intervenire a sostegno degli Stati , anche con atti
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vincolanti, ma che non possono comportare un’armonizzazione delle
disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri.
Per quanto riguarda poi le modalità applicative del principio di
sussidiarietà il Trattato di Lisbona richiama, completandolo, l’impianto previsto
nella Costituzione europea; gli artt. 5 e 12 TUE e l’art. 69 TFUE prevedono che
i Parlamenti nazionali vigilino sul rispetto del principio di sussidiarietà,
secondo le modalità previste sempre dal Protocollo n. 2. A tal fine l’art. 4 del
Protocollo n. 2 prevede che le istituzioni europee informino con regolarità i
Parlamenti nazionali in merito alle loro attività, e più precisamente che:
a) la Commissione trasmetta i progetti di atti legislativi, anche modificati, ai
Parlamenti nazionali;
b) il Parlamento europeo trasmetta i propri progetti di atti legislativi, anche
modificati, ai Parlamenti nazionali;
c) il Consiglio trasmetta i progetti di atti legislativi, anche modificati,
presentati da un gruppo di Stati membri, dalla Corte di giustizia, dalla
Banca centrale europea o dalla Banca europea per gli investimenti ai
Parlamenti nazionali.
I successivi artt. 6 e 7 del Protocollo n. 2 disciplinano la procedura
attraverso la quale i Parlamenti nazionali possono far valere le proprie
osservazioni sull’eventuale mancato rispetto del principio di sussidiarietà da
parte delle istituzioni europee. L’art. 6 assegna a ciascun Parlamento nazionale
(o a ciascuna Camera, in caso di assemblee legislative bicamerali) un termine di
otto settimane dalla data di trasmissione del progetto entro il quale inviare ai
presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione un parere
motivato contenente le ragioni per le quali si ritiene che il progetto in questione
non sia conforme al principio di sussidiarietà (spetterà poi al Presidente del
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Consiglio inviare il parere ai presentatori qualora essi non siano la
Commissione, il Parlamento europeo o il Consiglio stesso).
Ai sensi dell’art. 7, il ricevimento di pareri critici da parte dei Parlamenti
nazionali (o di una delle loro camere) obbliga il Parlamento europeo, il
Consiglio e la Commissione (o gli eventuali altri presentatori) a tenerne
genericamente conto. Se però la critica proviene da almeno un terzo (un quarto
in materia di libertà, sicurezza e giustizia) dei Parlamenti nazionali, allora il
progetto deve essere obbligatoriamente riesaminato e la conseguente decisione
(di conferma, modifica o ritiro) deve essere motivata. Se poi, sempre ai sensi
dell’art. 7, in sede di procedura legislativa ordinaria (vale a dire nei casi in cui la
Commissione presenta una proposta di atto legislativo a Parlamento europeo e
Consiglio: art. 294 TFUE), i pareri contrari risultano pervenire addirittura dalla
metà dei Parlamenti nazionali, allora la Commissione non solo è tenuta a
riesaminare la proposta, ma, qualora decida di mantenerla, deve spiegare in un
parere motivato perché ritiene il proprio atto conforme al principio di
sussidiarietà. Tale parere della Commissione, unitamente ai pareri dei
Parlamenti nazionali, sarà quindi trasmesso al Parlamento europeo e al
Consiglio affinché ne tengano conto esaminando la compatibilità della proposta
legislativa con il principio di sussidiarietà. Inoltre, se il 55% dei membri del
Consiglio o la maggioranza dei voti espressi in sede parlamentare ritiene che la
proposta non sia compatibile con il principio di sussidiarietà, l’esame sulla
proposta legislativa non può ulteriormente proseguire.
In questa fase di coinvolgimento dei Parlamenti statali, l’art. 6 del
Protocollo n. 2 prevede che ciascuna camera dei Parlamenti nazionali possa
consultare, all’occorrenza, i Parlamenti regionali con poteri legislativi. Il
coinvolgimento delle assemblee legislative regionali è dunque previsto non
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attraverso pareri rivolti direttamente alle istituzioni europee, bensì attraverso
osservazioni presentate ai Parlamenti nazionali (su loro richiesta, stando al
tenore letterale della disposizione del Protocollo) e sulla base delle quali, si
presume, i Parlamenti nazionali potranno, a loro volta, decidere il proprio
orientamento.
Si tratta, com’è facile intuire, di una previsione che non troverà
facilmente un’efficace applicazione, non solo perché non configura un reale
potere in capo alle assemblee regionali (spetta ai Parlamenti statali attivare il
loro coinvolgimento), ma soprattutto in considerazione del brevissimo termine
entro cui le regioni potranno esercitare le loro prerogative: il loro eventuale
parere dovrà infatti pervenire al Parlamento nazionale ben prima della scadenza
del termine di otto settimane previsto dall’art. 6, se si vuole consentire al
Parlamento stesso di pronunciarsi tenendone conto.
Si tenga presente che, nella pratica (che ha avuto inizio nel febbraio
2010), il Parlamento italiano si è sinora pronunciato su poche decine di atti di
provenienza comunitaria (sui 4-500 che vengono trasmessi ogni anno, e che
vengono tutti comunque esaminati per capire se sono o meno inerenti il
principio di sussidiarietà) e non ha mai riscontrato problemi inerenti la
sussidiarietà. Secondo l’organizzazione che si è data il Senato della Repubblica,
le nuove proposte di atti europei vengono annunciate in aula e poi assegnate, in
sede referente, alle Commissioni competenti per materia, nonché, in sede
consultiva, alla Commissione affari esteri e alla Commissione politiche
dell’Unione europea. Le Commissioni in sede consultiva hanno quattro
settimane di tempo per rendere il loro parere; le Commissioni in sede referente
ne hanno sei. Le ultime due settimane sono riservate a un’eventuale discussione
in aula.
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Il Trattato di Lisbona migliora, infine, la posizione che le regioni e le
città occupano nel sistema politico dell'Unione europea: in particolare per la
prima volta i rappresentanti regionali e locali europei possono impugnare
davanti alla Corte di giustizia i nuovi atti legislativi dell'Unione che violino, a
loro avviso, il principio di sussidiarietà, ovvero il principio in base al quale le
decisioni dovrebbero essere prese al livello più vicino possibile ai cittadini(56);
a ciò si aggiunga che a Lisbona viene rafforzato, in tutto il processo legislativo,
la funzione istituzionale del Comitato delle regioni, massimo organo
rappresentativo delle autonomie locali. Oltre infatti a moltiplicare i casi in cui il
CdR deve essere consultato nel processo di adozione della legislazione
comunitaria, il Trattato gli conferisce, nei settori in cui è prevista la
consultazione obbligatoria, anche il diritto di adire la Corte di giustizia dell'UE
in due casi: primo, per difendere le proprie prerogative istituzionali e, secondo,
per chiedere l'annullamento di un atto legislativo comunitario che ritiene violi il
principio di sussidiarietà (art. 230 TFUE e art.8 Protocollo sull’applicazione dei
principi di sussidiarietà e di proporzionalità).
In futuro, qualora il CdR consideri che un atto legislativo in merito al
quale il Trattato prevede la sua consultazione obbligatoria violi tale principio il
suo Presidente, o quello della commissione responsabile del parere su tale atto,
potrà proporre di adire la Corte di giustizia europea (art. 53 Regolamento
Interno Comitato delle regioni). Successivamente il CdR, in una delle sue
cinque sessioni plenarie annue, dovrà pronunciarsi in merito alla proposta, a
(56) Dopo aver finalmente ottenuto, grazie al Trattato, questo diritto che sollecitava da quindici anni, il Comitato delle regioni (CdR) ha immediatamente provveduto a definirne le modalità di applicazione già pochi giorni dopo l'entrata in vigore del nuovo Trattato. Nella sessione plenaria svoltasi a Bruxelles il 3 e 4 dicembre i membri del CdR hanno in particolare stabilito che la decisione di adire la Corte di giustizia qualora ritengano che un atto legislativo dell'UE violi il principio di sussidiarietà verrà presa a maggioranza semplice.
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maggioranza dei voti espressi. In caso di approvazione, spetterà al Presidente
adire la Corte per conto del Comitato (artt. 36 e 53 Regolamento CDR).
Qualora, nel termine di due mesi fissato dal Trattato di Lisbona non si
riesca a adottare nessuna decisione in sessione plenaria, sarà l'Ufficio di
presidenza del Comitato delle regioni a pronunciarsi, sempre a maggioranza dei
voti espressi, sulla proposta del Presidente o della commissione del CdR. Una
volta adottata la decisione, spetterà al Presidente avviare, a nome del Comitato,
il procedimento dinanzi alla Corte, e chiedere alla successiva sessione plenaria
di confermare la decisione.
Considerando che l’obbligo di consultazione del Comitato riguarda
materie strategiche quali la coesione economica e sociale, le reti transeuropee,
la sanità pubblica, l’istruzione, la cultura, la politica dell'occupazione, la
politica sociale, l’ambiente, la formazione professionale e i trasporti, non vi è
dubbio che un ruolo fondamentale nel valutare la corretta applicazione del
principio anche in quei provvedimenti finalizzati all’allocazione delle risorse
finanziarie destinate alle varie politiche comuni spetterà proprio al Comitato
delle regioni.
Un avvicinamento ulteriore del legislatore comunitario alle esigenze dei
territori passerà, pertanto, anche attraverso la reale capacità dei Parlamenti
nazionali e del Comitato delle regioni di influenzare, attraverso il vaglio della
sussidiarietà, la migliore gestione delle risorse finanziarie e una corretta
regolazione delle competenze in materia di fondi europei.
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CAPITOLO II
Sussidiarietà e coesione economico-sociale
1. Coesione, convergenza ed integrazione: un modello di amministrazione dello
sviluppo 2. La sussidiarietà fra competenze concorrenti e assetti strutturali di
amministrazione congiunta nell’ambito della politica di sviluppo regionale 3.
La sussidiarietà e gli altri principi generali dell' acquis communautaire nel
Regolamento CE 1083/2006: una forma di governo multilivello. 4. La peculiare
interazione tra sussidiarietà e partenariato nel modello disciplinato dal
Regolamento generale sui Fondi strutturali. 5. Il procedimento amministrativo
comunitario nell’ambito della politica di coesione economica e sociale.
6. Sussidiarietà e partenariato nella fase di programmazione della politica di
coesione. 7. Sussidiarietà e partenariato nella fase di gestione, controllo e
sorveglianza. 8. Fondi strutturali e sussidiarietà: la posizione della Corte di
Giustizia. 9. Sussidiarietà e giusto procedimento nel governo della politica di
coesione.
1. Coesione, convergenza ed integrazione: un modello di amministrazione
dello sviluppo
La sussidiarietà così come definita nel capitolo precedente resta, in primo
luogo, un criterio di allocazione delle competenze concorrenti fra Stati membri
ed Unione; un criterio di distribuzione finalizzato alla migliore attuazione degli
obiettivi economico-sociali, che l’Unione sin dal proprio atto fondativo si è
prefissata di raggiungere: essendo poi tali obiettivi strettamente connessi con le
politiche comuni e lo sviluppo delle stesse, è di tutta evidenza che il principio di
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sussidiarietà caratterizza fortemente le modalità di attuazione delle politiche in
oggetto sia in fase di programmazione che di attuazione.
L'evoluzione e la sempre maggiore complessità dell'ordinamento
comunitario e, in generale, del sistema di integrazione dell'Unione europea
allargata hanno generato, come noto, conseguenze significative sui processi di
elaborazione e gestione delle politiche europee.
Ciò risulta tanto più importante in quanto si assiste oggi, con sempre
maggiore intensità, a fenomeni di "territorializzazione" delle politiche stesse,
accompagnati, inoltre, da progressivi e estesi processi di decentramento
istituzionale ed amministrativo ancora oggi in itinere all'interno di numerosi
Stati membri.
Appare significativo, quindi, verificare come tali fenomeni abbiano
comportato conseguenze rilevanti in specie sul piano della definizione ed
organizzazione interna delle politiche comunitarie regionali ovvero degli
interventi lato sensu di c.d.."amministrazione dello sviluppo" dell’Unione
europea: intendendo, con tale espressione, essenzialmente il "sistema" della
politica di coesione economica e sociale, come attualmente articolato dalla più
recente normativa comunitaria, oltre che dalla stessa esperienza gestionale dei
connessi strumenti finanziari maturata nel corso degli ultimi cicli pluriennali di
programmazione(57).
(57) La coesione economica e sociale dà espressione alla solidarietà tra gli Stati membri e le regioni dell’Unione europea e favorisce lo sviluppo equilibrato del territorio comunitario, la riduzione dei divari strutturali tra le regioni comunitarie, nonché la promozione di pari opportunità reali tra i cittadini. Essa prende forma attraverso diversi interventi finanziari, nello specifico nell’ambito dei Fondi strutturali e del Fondo di coesione. Ogni tre anni, la Commissione europea presenta una relazione sui progressi conseguiti nel perseguimento della coesione economica e sociale e su come vi abbiano contribuito le politiche comunitarie. In ambito europeo, le origini della coesione economica e sociale risalgono al trattato di Roma (1957) il cui preambolo faceva riferimento all’equiparazione dei diversi livelli di sviluppo tra le regioni. Negli anni ’70, sono state intraprese iniziative comunitarie volte a coordinare ed integrare economicamente gli strumenti d’intervento nazionali. Con l’andar del tempo, tuttavia,
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E’ proprio in questo cruciale ambito che la sussidiarietà gioca un ruolo
rilevante nel definire le dinamiche "istituzionali" degli interventi comunitari per
il riequilibrio dei territori, passando da puro criterio di distribuzione delle
competenze concorrenti a elemento distintivo per possibili forme o modelli di
amministrazione della coesione economica e sociale osservate, tra l’altro,
attraverso il filtro fornito dall'analisi dei principi generali dell’acquis
communautaire di tale politica.
Più in particolare proprio il principio generale della sussidiarietà e
quello del partenariato(58) contribuiscono insieme a modellare un vero e
queste misure si sono rivelate insufficienti in un contesto comunitario in cui, contrariamente alle previsioni, la creazione del mercato interno non aveva eliminato i divari fra le regioni. Nel 1986, oltre al mercato unico, l’Atto unico europeo ha introdotto l’obiettivo della coesione economica e sociale vera e propria, istituzionalizzata infine come politica dal trattato di Maastricht (1992) negli articoli da 158 a 162 del trattato CE. La coesione economica e sociale viene perseguita essenzialmente tramite la politica regionale dell’Unione europea. Insieme alla riforma della politica agricola comune e all’allargamento ai paesi dell’Europa centrale e dell’est, nel 2004 la politica regionale è stata uno dei temi più dibattuti dell’Agenda 2000 per il periodo 2000-2006, in particolare in ragione delle implicazioni finanziarie. Con una dotazione di 348 miliardi di euro per il periodo 2007-2013, la politica regionale dell'Unione europea rappresenta attualmente la seconda voce di spesa del bilancio dell’UE. L’allargamento dell’Unione a 27 Stati membri, avvenuto nel gennaio 2007, ha cambiato le carte in tavola: la superficie dell’Unione è aumentata più del 25%, la popolazione più del 20%, la ricchezza solo del 5%. Il PIL medio pro capite dell’Unione europea è diminuito più del 10% mentre le disparità regionali sono raddoppiate. Dal momento che circa il 60% delle regioni in ritardo di sviluppo è localizzato negli Stati membri che hanno aderito dopo il 2004, il centro di gravità della politica regionale si è spostato inevitabilmente verso est. Per il periodo 2007-2013, la coesione economica e sociale è destinata a concentrarsi sempre più sugli aspetti cruciali dello sviluppo in materia di crescita economica e di occupazione, continuando tuttavia a sostenere le regioni che non avranno ancora completato il processo di convergenza. D’altro canto, le aree che si trovano a far fronte a specifiche difficoltà strutturali (aree industriali in fase di riconversione, aree urbane, rurali o dipendenti dalle attività di pesca, aree con gravi svantaggi naturali o demografici) continuano a necessitare di interventi strutturali. La prossima riforma della politica regionale per il periodo 2007-2013 sarà imperniata infine sulla semplificazione e sulla decentralizzazione della gestione degli strumenti finanziari della politica regionale (Fondi strutturali e Fondo di coesione). (58) “The thematic evaluation of the partnership principle: final synthesis report”, Tavistock Institute, 1999; “A Study on the Efficiency of the Implementation Methods for Structural Funds”, ÖIR in associazione con LRDP e IDOM, 2003; Parere del Comitato economico e sociale europeo sul tema “Il partenariato quale strumento di attuazione dei fondi strutturali”, CESE, 2003; e BAUER M.W. The EU partnership principle: still a sustainable governance device across multiple administrative arenas?, in Public Amministration 2002, vol. 80, n. 4, pag. 769-789.
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Il principio del partenariato è stato formalizzato per la prima volta nella riforma dei fondi strutturali del 1988. L’applicazione del principio implica una stretta concertazione tra la Commissione e tutte le competenti autorità nazionali, regionali e locali designate da ciascuno Stato membro: tale concertazione va applicata sia nella fase di programmazione che in quella di gestione dei programmi. Gli orientamenti strategici comunitari in materia di coesione riconoscono l’importanza di coinvolgere gli attori e le parti sociali regionali e locali, in particolare in aree in cui è essenziale una maggiore prossimità, quali l’innovazione, l’economia della conoscenza e le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, l’occupazione, il capitale umano, l’imprenditorialità, il sostegno alle piccole e medie imprese (PMI) e l’accesso al mercato dei capitali. Il principio del partenariato è sancito dall’art.11 del Regolamento 1083/2006 per il periodo di programmazione 2007-2013: “1. Gli obiettivi dei Fondi sono perseguiti nel quadro di una stretta cooperazione, (in seguito:“partenariato”), tra la Commissione e ciascuno Stato membro. Ciascuno Stato membro organizza, se del caso e conformemente alle norme e alle prassi nazionali vigenti, un partenariato con autorità ed organismi quali: a) le autorità regionali, locali, cittadine e le altre autorità pubbliche competenti; b) le parti economiche e sociali; c) ogni altro organismo appropriato in rappresentanza della società civile, i partner ambientali, le organizzazioni non governative e gli organismi di promozione della parità tra uomini e donne. Ciascuno Stato membro designa i partner più rappresentativi a livello nazionale, regionale e locale, nei settori economico, sociale e ambientale o in altri settori (di seguito: “i partner”), conformemente alle norme e alle prassi nazionali, tenendo conto della necessità di promuovere la parità tra uomini e donne e lo sviluppo sostenibile tramite l’integrazione di requisiti in materia di tutela e miglioramento dell’ambiente. 2. Il partenariato è condotto nel pieno rispetto delle competenze istituzionali, giuridiche e finanziarie di ciascuna categoria di partner di cui al paragrafo 1. Il partenariato verte sulla preparazione, attuazione, sorveglianza e valutazione dei programmi operativi. Gli Stati membri associano, se del caso, ciascuno dei pertinenti partner, in particolare le regioni, alle varie fasi della programmazione, nel rispetto delle scadenze fissate per ciascuna di esse. 3. Ogni anno la Commissione consulta le organizzazioni che rappresentano le parti economiche e sociali a livello europeo in merito all’intervento dei Fondi”. Per quanto attiene specificamente la parte preparatoria, gli adempimenti principali da attuarsi col metodo del partenariato sono: • contribuire alla preparazione del quadro di riferimento strategico nazionale (QRSN) tramite la partecipazione attiva al processo consultivo (art. 27 RG); • contribuire alla preparazione dei programmi operativi (PO) tramite la cooperazione con gli organismi designati alla redazione degli stessi (art. 32 RG). Nella valutazione dei QRSN e dei PO, la Commissione esamina, conseguentemente, l’approccio partenariale adottato, verificando: • i singoli partner e gli altri attori coinvolti, le responsabilità di ogni parte e la definizione dell’entità della partecipazione; • se l’individuazione delle parti più rappresentative abbia rispettato il principio della trasparenza e sia stata resa pubblica; • le azioni intraprese allo scopo di agevolare un ampio coinvolgimento e una partecipazione attiva. In fase di attuazione della programmazione il principio del partenariato è particolarmente collegato al principio della sussidiarietà, in base al quale le decisioni dovrebbero essere assunte al livello più adeguato a eseguirle, nel contesto di una ampia rete collaborativa in grado di mettere in comune risorse ed esperienze. Negli ultimi anni, diverse valutazioni dell’impatto del partenariato sui Fondi strutturali hanno attirato l’attenzione sul beneficio e sul valore aggiunto che il partenariato può assicurare nell’attuazione della politica di coesione, potenziandone la legittimità, incrementando il coordinamento, garantendo
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proprio sistema originale di amministrazione concorrente (statale-europea)
degli interventi strutturali, che richiama categorie e nozioni distinte,
sperimentate nel terreno della scienza dell'amministrazione o della scienza della
politica (come quella, spesso mutuata, di Multilevel Governance), e
particolarmente interessanti al fine della costruzione di un modello teorico di
riferimento.
La politica di coesione “economica, sociale e territoriale” (essendo tale
ultima dizione quella introdotta nei testi di riforma di Roma e poi Lisbona),
tipicamente interessata dalla progressiva moltiplicazione dei livelli di governo e
di responsabilità, sembra infatti idonea ad essere rappresentata tramite formule
giuridiche complesse ed articolate: l'evoluzione normativa delle logiche
istituzionali, difatti, in ambito di politica di coesione per la riduzione degli
squilibri territoriali, prospetta chiaramente la costruzione di un originale sistema
di relazioni tra organi e momenti dell'amministrazione all'interno dei singoli
Stati membri e tra questi ultimi e l'organizzazione comunitaria, sistema tuttavia
non ancora del tutto sperimentato nei suoi potenziali sviluppi(59).
E’ in questo ambito che si inserisce e trova una peculiare applicazione il
principio della sussidiarietà, quale criterio assai rilevante nel contribuire alla
definizione di un modello teorico di intervento della "coesione economica e
sociale", idoneo a ordinare e sciogliere i non pochi nodi giuridici che la gestione
concreta degli interventi ha posto e pone(60).
Il principio di sussidiarietà coordinato con quelli del partenariato e della
trasparenza e favorendo l’assorbimento dei fondi tramite una migliore selezione dei progetti e una più capillare divulgazione delle informazioni ai potenziali beneficiari. (59) DI STEFANO A., Coesione e diritto nell'Unione Europea. La nuova disciplina dei fondi strutturali comunitari nel regolamento 1083/2006, Catania 2008, pag. 12 ss. (60) In tal senso rilevano, anche interessanti studi politologici, fra cui spicca LEOPARDI
R., Convergence, Cohesion and Integration in the European Union, London 1995, trad. it. di Raffaella Y. Nanetti, Coesione, convergenza ed integrazione nell’Unione Europea, Bologna 1998.
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complementarietà contribuisce, secondo quanto dedotto nella presente ricerca,
alla decifrazione dei vari elementi critici di interesse giuridico che l'intervento
dei Fondi strutturali postula, in termini di attribuzioni delle responsabilità ai
singoli organismi e momenti dell'amministrazione, come pure di tutela delle
posizioni soggettive individuali: sulla base di tali principi è difatti possibile sia
analizzare lo status quo sia teorizzare un metodo per la costruzione di modelli
quali strumento d'analisi dell'interazione e della concorrenza di competenze e di
responsabilità nel contesto della politica di sviluppo regionale.
Una verifica sulle modalità di applicazione del principio di sussidiarietà
nel campo delle politiche comuni e dei fondi ad essi collegati non può
d’altronde prescindere da una ricerca sulle implicazioni giuridiche dell'esercizio
congiunto di competenze, eterogenee quanto a struttura e appartenenza
(comunitarie, statali, sub-statali, pubbliche, private, imprenditoriali),
nell’ambito della politica di sviluppo regionale e degli strumenti operativi da
questa offerti.
2. La sussidiarietà fra competenze concorrenti e assetti strutturali di
amministrazione congiunta nell’ambito della politica di sviluppo regionale
L'adozione del Regolamento CE del Consiglio n. 1083/2006 dell'1l luglio 2006,
recante disposizioni generali sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul
Fondo sociale europeo e sul Fondo di coesione (61) e che abroga il
(61) Al termine del 2006 sono stati approvati e pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea i Regolamenti che definiscono le regole base di funzionamento dei nuovi fondi strutturali ed è stata avviata dai vari stati membri la complessa fase di elaborazione dei documenti di programmazione per l'utilizzo di tali fondi. Il pacchetto di regolamenti comprende un Regolamento generale, che stabilisce una serie di norme comuni per tutti gli strumenti, oltre ai regolamenti specifici per il Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr), il Fondo sociale europeo (Fse) e il Fondo di coesione (Fdc). Per il nuovo periodo di programmazione comunitaria 2007-2013 è quindi necessario fare riferimento alle norme previste dai seguenti cinque Regolamenti: 1) Reg. CE n. 1080/2006, G.U.U.E. L. 210 del 31 luglio 2006: istituisce il Fondo europeo
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Regolamento CE n. 1260/1999, ha rappresentato il coronamento di un articolato
negoziato sulle prospettive future degli interventi comunitari di “politica
regionale”, chiudendo, almeno per il momento, una stagione di intensa
sperimentazione degli assetti generali di tale politica.
Il testo, come definito in sede di discussione tra i principali protagonisti
di sviluppo regionale (Fesr), definendone l'intervento negli Obiettivi di convergenza, competitività regionale e occupazione, cooperazione territoriale europea. Il Regolamento del Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr) specifica il proprio ruolo e i propri campi di intervento nella promozione degli investimenti pubblici e privati, al fine di ridurre le disparità regionali nell'Unione. Nello specifico il Fesr sostiene programmi in materia di sviluppo regionale, di cambiamento economico, di potenziamento della competitività e di cooperazione territoriale su tutto il territorio dell'Unione europea (Ue). Tra le priorità di finanziamento vi sono la ricerca, l'innovazione, la protezione dell'ambiente e la prevenzione dei rischi, mentre anche l'investimento infrastrutturale mantiene un ruolo importante soprattutto nelle regioni in ritardo di sviluppo. 2) Reg. CE n. 1081/2006, G.U.U.E. L. 210, 31 luglio 2006: istituisce il Fondo sociale europeo (Fse), strumento finanziario attuato in linea con la strategia europea per l'oc-cupazione, che si concentra su quattro ambiti chiave: accrescere l'adattabilità dei lavoratori e delle imprese, migliorare l'accesso all'occupazione e alla partecipazione al mercato del lavoro, rafforzare l'inclusione sociale combattendo la discriminazione e agevolando l'accesso dei disabili al mercato del lavoro nonché promuovere partenariati per la riforma nel campo dell'occupazione e dell'inclusione. 3) Reg. CE n. 1082/2006, G.U.U.E. L. 210, 31 luglio 2006: introduce il nuovo istituto del Gruppo europeo di cooperazione territoriale (Gect). L'obiettivo di questo nuovo strumento è quello di agevolare la cooperazione transfrontaliera, transnazionale e interregionale tra le autorità regionali e locali. Queste ultime saranno dotate di personalità giuridica per l'attuazione dei programmi di cooperazione territoriale sulla base di una convenzione tra le autorità nazionali, regionali, locali o di altro genere partecipanti ai programmi. 4) Reg. CE n. 1083/2006, G.U.U.E. L. 210, 31 luglio 2006: fissa sia le disposizioni comuni e di attuazione (principi, regole e standard comuni) relative ai tre strumenti finanziari della Politica di coesione 2007-2013 (Fondi strutturali: Fondo europeo di sviluppo regionale, Fondo sociale europeo e Fondo di coesione), nonché le norme riguardanti gli orientamenti strategici comunitari per la Politica di coesione, gli standard comuni per la gestione, il controllo e la valutazione finanziaria. Tali standard si riferiscono all'Obiettivo convergenza (a cui è assegnata una dotazione pari all'81,54% dei totale), all'Obiettivo competitività regionale e occupazionale (con dotazione finanziaria pari al 15,95% del totale), e all'Obiettivo cooperazione territoriale europea (a favore della quale sono destinate risorse per il 2,52% dello stanziamento complessivo). 5) Reg. CE n. 1084/2006, G.U.U.E. L. 210, 31 luglio 2006: istituisce il Fondo di coesione (FdC), che ha l'obiettivo di rafforzare la coesione economica e sociale della Comunità in una prospettiva di promozione dello sviluppo sostenibile. Il Fondo di coesione contribuisce a interventi nei settori dell'ambiente e delle reti di trasporti transeuropee. Esso si attiva per Stati membri aventi un reddito nazionale lordo (Rnl) inferiore al 90% della media comunitaria e copre, quindi, i nuovi Stati membri, come anche la Grecia e il Portogallo. La Spagna sarà ammessa a fruire del Fondo di coesione su base transitoria. Nel nuovo periodo, il Fondo contribuirà, assieme al Fesr, all'attuazione dei programmi pluriennali di investimento gestiti in modo decentrato, invece di occuparsi di progetti individuali approvati dalla Commissione.
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della politica di coesione europea, non presenta modificazioni sostanziali
rispetto la precedente disciplina, intervenendo piuttosto con talune correzioni in
itinere nel procedimento, ormai consolidato durante le pregresse strategie di
programmazione, di elaborazione e attuazione degli interventi strutturali,
procedendo soprattutto ad una certa semplificazione degli strumenti operativi
disponibili(62).
Ne risulta confermata, in primo luogo, la tendenza a promuovere una
migliore e più efficace gestione degli interventi programmati entro un quadro
(62) Sull’argomento si vedano le interessanti riflessioni di SAPIENZA R, Sussidiarietà e partenariato nel nuovo modello di intervento dei Fondi strutturali comunitari, in Studi in onore di V.Starace, Vol II, pag. 1201 ss., Napoli 2008; ZERBONI N., Finanziamenti europei 2007-2013, pag. 6 ss. Milano 2007 La nuova Politica di coesione, pur confermando comunque i principi fondamentali sviluppati nel tempo dall'Ue (programmazione pluriennale, partenariato, gestione condivisa, ecc.), introduce in ogni caso un fattore di equilibrio tra il rafforzamento della dimensione strategica e la semplificazione del sistema di attuazione: per fare ciò opera in particolare tramite la riduzione del numero di Fondi, la semplificazione della programmazione, il chiarimento dei ruoli degli Stati membri e della Commissione a livello della gestione finanziaria e del controllo, nonché tramite un adeguamento delle modalità di attuazione, in funzione soprattutto dell'intensità del contributo comunitario. Tra le principali novità apportate dalla Commissione alla Politica di coesione spicca quella relativa alla semplificazione, sia per quanto riguarda la struttura generale degli obiettivi, sia per gli strumenti finanziari messi a disposizione. Tale semplificazione si traduce in primo luogo nella definizione di tre obiettivi (convergenza, competitività regionale e occupazione, cooperazione territoriale europea) e, in secondo luogo, nella istituzione di tre strumenti finanziari (Fondo europeo di sviluppo regionale — Fesr, Fondo sociale europeo — Fse e Fondo di coesione), a fronte dei nove obiettivi e dei sei strumenti della programmazione precedente. Le novità principali consistono in: avvio di un dialogo strategico annuale con gli Stati membri in seno al Consiglio e con. il Parlamento europeo, il Comitato economico e sociale europeo e il Comitato delle regioni, per assicurare il rispetto delle priorità europee nel corso dell'intero periodo di programmazione; pieno riconoscimento e sostegno finanziario più cospicuo alle zone penalizzate da svantaggi naturali, nonché una maggiore attenzione alla dimensione urbana; maggiore attribuzione di responsabilità agli Stati membri e alle regioni, anche in materia di controllo, preservando il rigore finanziario; riduzione del numero di strumenti finanziari in materia di coesione (tre invece di sei); integrazione nelle priorità dei Programmi operativi nazionali o regionali del campo di intervento delle iniziative comunitarie Urban e Equal e delle azioni innovative; finanziamento dei programmi operativi nell'ambito di un unico fondo (programmi “mono-fondo” che fanno riferimento a Fesr o Fse), salvo in caso di programmi “infrastrutturale” per i quali è previsto un intervento congiunto del Fesr e del Fondo di coesione; adozione della programmazione pluriennale e delle stesse norme in vigore per i fondi strutturali anche per quanto riguarda il Fondo di coesione; possibilità per tutti i territori e i cittadini dell'Unione di beneficiare della nuova Politica di coesione, incentrata sui soggetti più svantaggiati ma modulata in funzione delle specifiche
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definito, semplificato e flessibile di competenze concorrenti.
Si è chiaramente cercato di definire, alla luce dei criteri della
sussidiarietà e del partenariato, inteso quale principio di concertazione, un
insieme di assetti modulabili di gestione delle azioni di coesione attraverso il
riconoscimento di notevoli margini di cessione - riappropriazione di funzioni
condivise.
Ciò si è tentato al fine di semplificare la complessa gestione degli
interventi, anche se un alto grado di flessibilità, pur necessario, non è esente da
incongruenze di altro tipo. Come, ad esempio, quello di facilitare possibili abusi
da parte delle Amministrazioni centrali in sede di esecuzione dei programmi
ovvero quello – opposto – di lasciare definitivamente a se stesse
amministrazioni territoriali e locali politicamente e culturalmente"deboli" o
arretrate, private così della sicura regia di una normativa meglio dettagliata
sulla dimensione e i margini delle rispettive competenze; il tutto con
conseguenti riduzioni delle chances di successo in termini di "coesione
territoriale" e probabili forme di inefficienza amministrativa non meno deleteria
di un possibile monopolio centralistico da parte della Commissione.
Ne consegue un quadro articolato e complessivamente problematico:
assetti definiti di competenze, ma anche rilevanti margini di "mobilità" nella
gestione concreta degli interventi di coesione in funzione di esigenze di
prossimità, efficienza amministrativa, urgenza, piuttosto variabili e dunque non
compiutamente predeterminabili una volta per tutte, né suscettibili di in-
quadramento in "forme" procedimentali generali e totalmente “cristallizzate”.
Proprio alla luce di valutazioni di questo genere, la disciplina generale
dei Fondi strutturali del 1999, come pure, e di più, quella novellata del 2006,
sembrano prestarsi bene ad una rilettura in funzione dei principi del
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partenariato, della partecipazione e soprattutto della sussidiarietà: principi che
appaiono svolgere, quindi, in ultima analisi anche una funzione schiettamente
organizzativa e procedimentali(63). L'impostazione sistematica della disciplina
comunitaria sui Fondi sembra realmente strutturata in modo tale da assicurare,
in sede di programmazione e gestione degli interventi, un avvicendamento
"costruttivo" di funzioni e poteri, indirizzato a facilitare istanze propositive,
decisionali, ed esecutive da parte delle istituzioni nazionali e sub-nazionali
piuttosto autonome tali da rassicurare in termini di risultato(64).
Il momento comunitario della coesione economica e sociale,
inizialmente ideato al solo scopo di coordinare ed indirizzare a livello europeo
funzioni diversificate di governo dell'economia, è oggi invece completamente
funzionale al buon esito dell'intervento in termini di "autodeterminazione"
amministrativa delle risorse socio-economiche locali, risultando indispensabile
una effettiva ottimizzazione e concentrazione delle risorse disponibili in
funzione delle reali esigenze dei territori dell’Unione. La sussidiarietà delle
azioni di intervento strutturale(65), normata nei regolamenti, appare misurata e
condizionata proprio in rapporto all'effettività degli esiti programmatori nelle
(63) Cfr, VITALE G, I principi generali del Regolamento 1260/1999. Sussidiarietà, partenariato e addizionalità, in Rivista giuridica del Mezzogiorno, 2002, pag. 1371 ss. (64) DI STEFANO A., Op. cit. (65) Sulla sussidiarietà nell’ambito della Politica di coesione economica e sociale cfr., in particolare, BIANCHI G., GROTE R.J., PIERACCI S., Dalla coesione economica alla coesione istituzionale. Sussidiarietà funzionale e reti socio-istituzionali nelle politiche regionali, in G. Gorla, O. Vito Colonna (a cura di), Regioni e sviluppo. modelli, politiche e Riforme, pag. 305 ss. Milano 1995; CANNIZZARO E., Sussidiarietà ed interventi di riequilibrio del mercato comune, in A. Predieri (a cura di), Fondi strutturali e coesione economica e sociale nell'Unione Europea, pag. 135 ss., Milano 1996; SAPIENZA R., La politica comunitaria di coesione economia e sociale e il principio di sussidiarietà, in Rivista Giuridica del Mezzogiorno, 1996, pag. 425 ss; ALEMANNO G.S., Il principio di sussidiarietà. Il rapporto tra livelli istituzionali e partecipazione attiva.. Fondi strutturali e programmi integrati territoriali, in Nuova rassegna, 2001, pag. 663 ss.; DI STEFANO A., Le politiche strutturali dell’Unione europea e il principio di sussidiarietà, in R. Sapienza (a cura di), Politica comunitaria di coesione economica e sociale e programmazione economica regionale, pag. 51 ss., Milano 2003,
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aree territoriali interessate: essa giustifica, quindi, la limitazione del concreto
esercizio di competenze da parte della Commissione in situazioni di sufficiente
"recettività" (in termini di autonomia amministrativa e funzionale) dei sistemi
territoriali e locali, e, al contrario, l'estensione del raggio d'azione e dei poteri
direttivi e di coordinamento dell'istituzione comunitaria in fattispecie pato-
logiche di incapacità strutturale delle amministrazioni territoriali o degli attori
economico-sociali, non in grado di farsi soggetti attivi e responsabili del
procedimento.
In tali ultimi casi, la politica comunitaria si presta a supplire essa stessa
a gravi e significative insufficienze istituzionali e politiche prima ancora che
economiche e sociali: in questo senso si configura un primo “scambio
sussidiario” di attribuzioni che parrebbe caratterizzare il “nostro principio”
quale criterio di attribuzione di competenze-funzioni concorrenti nell’ambito
specifico della politica di sviluppo regionale europea.
3. La sussidiarietà e gli altri principi generali dell' acquis communautaire
nel Regolamento CE 1083/2006: una forma di governo multilivello
Con riferimento alla riformata disciplina generale sui Fondi strutturali, è senza
dubbio opportuno analizzare i profili giuridici ed i principi cardine di quello che
si potrebbe definire l’acquis communautaire della coesione economica e
sociale, come derivante dalle previsioni del Capo IV del Titolo 1 del
Regolamento n.1083/2006. I termini della nuova regolamentazione sembrano
consolidare l'assetto precedente, vale a dire il "sistema" già delineato dal
Regolamento generale n. 1260 del 1999, enfatizzando la necessità di strategie di
concertazione e cooperazione fra i differenti livelli amministrativi e di governo
coinvolti, allo scopo di consentire un fruttuoso coordinamento di competenze
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entro schemi simili a modelli di cd. “Governo multilivello”(66). In questo
senso lumeggia il recente Rapporto Barca(67) in cui la sussidiarietà si configura
(66) HOOGE L., Multilevel Governance and European Integration, Oxford 2001 (67) Come contributo al dibattito sulla futura politica di coesione, Danuta Hubner commissario europeo alla politica regionale, ha affidato a Fabrizio Barca, direttore generale presso il ministero italiano dell'Economia e delle Finanze, l'incarico di preparare un rapporto indipendente che contenga una valutazione dell'efficacia della politica di coesione come ad oggi attuata, nonché una serie di proposte su come riformarla per il periodo successivo al 2013. Il rapporto, dal titolo “Un'agenda per la riforma della politica di coesione”, elaborato in piena autonomia rispetto alla Commissione e con il contributo di esperti accademici e di funzionari delle pubbliche amministrazioni nazionali illustra quindi i principi di una politica europea di coesione e formula raccomandazioni per un'ampia riforma basata su dieci "pilastri": 1) Concentrarsi sulle priorità fondamentali. L'Unione europea, secondo il rapporto Barca, dovrebbe concentrare il 65% delle sue risorse su tre o quattro priorità essenziali, ripartendole in misura variabile in funzione delle necessità delle strategie degli Stati membri e delle regioni. I criteri di attribuzione dei finanziamenti resterebbero sostanzialmente quelli attuali, che fanno principalmente riferimento al prodotto interno lordo pro capite. Una o due di queste priorità fondamentali dovrebbero riguardare l'inclusione sociale, per consentire lo sviluppo di una "agenda sociale territorializzata". 2) Un nuovo quadro strategico. II dialogo strategico tra la Commissione e gli Stati membri (o in casi le regioni) deve essere potenziato e basarsi su un quadro strategico europeo per lo sviluppo, che definisca con precisione principi, indicatori e obiettivi in base ai quali valutare i risultati ottenuti. 3) Una nuova relazione contrattuale. Un nuovo tipo di accordo contrattuale tra la Commissione e gli Stati membri (un contratto strategico nazionale per Io sviluppo), incentrato sui risultati e su impegni verificabili. 4) Una gestione rigorosa delle priorità fondamentali. La Commissione deve determinare le condizioni che le istituzioni nazionali devono soddisfare e a cui è subordinata la destinazione delle risorse a priorità specifiche e deve valutare i progressi conseguiti nel raggiungimento degli obiettivi. 5) Promuovere una spesa addizionale innovativa e flessibile. La Commissione deve rafforzare il principio dell'addizionalità, secondo cui la spesa comunitaria non sostituisce la spesa pubblica nazionale, ma viene ad aggiungersi ad essa, stabilendo un legame diretto con il patto di stabilità e crescita. Un impegno contrattuale è necessario per assicurare che le misure siano innovative e aggiungano valore. 6) Promuovere la sperimentazione e mobilitare gli attori locali. La Commissione e gli Stati membri devono favorire la sperimentazione e conciliare l'incentivazione delle iniziative locali con l'esigenza di evitare la loro "confisca” da parte di gruppi di interesse. 7) Promuovere il processo di apprendimento verso una valutazione dell'impatto possibile. La definizione e l'applicazione di metodi migliori che permettano di stimare quali sarebbero state le conseguenze di un mancato intervento consentirebbero di capire meglio che cosa funziona e potrebbero orientare le azioni da intraprendere. 8) Rafforzare il ruolo della Commissione come centro di competenza. La Commissione deve sviluppare competenze più specialistiche e rafforzare il coordinamento tra le direzioni generali per poter assumere più estese funzioni e responsabilità nella politica di coesione. Questo implica notevoli investimenti in risorse umane e cambiami organizzativi. 9) Migliorare la gestione e il controllo delle risorse finanziarie. Rendere più efficiente la gestione dei Fondi strutturali portando avanti la semplificazione già in atto e studiando altri mezzi per ridurre i costi e gli oneri gravanti sulla Commissione, gli Stati membri e i beneficiari.10) Rafforzare il sistema di equilibrio dei poteri ad alto livello politico. Rafforzare l'equilibrio dei poteri tra Commissione, Parlamento e Consiglio con la creazione di un Consiglio per la politica di coesione. Stimolare il dibattito sui contenuti, i risultati e gli effetti della politica di
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come criterio cardine di una gestione multivello delle risorse strutturali nella
politica di coesione: “Subsidiarity of tasks and multilevel governance The shift
from a separation of responsibilities in terms of types of services to one in terms
of tasks in their provision can be appreciated by reference to the concept of
subsidiarity, the general principle according to which authorities should
perform only those activities which cannot be performed effectively at a more
local level. In the context of place-based policies, subsidiarity needs to be
interpreted with reference to responsibility not for whole sectors, but for whole
tasks. The subsidiarity criterion, therefore, needs to govern the allocation of
tasks. The architecture of policy-making which implements this more modern
arrangement has come to be called multi-level governance, a system by which
the responsibility for policy design and implementation is distributed between
different levels of government and special-purpose local institutions (private
associations, joint local authority bodies, cooperation across national borders,
public-private partnerships and so on). In this architecture, it is up to the top
levels of government to set general goals and performance standards and to
establish and enforce the “rules of the game”. It is up to the lower levels to
have “the freedom to advance the ends as they see fit”. Special-purpose local
institutions, comprising both public and private actors with responsibility for
delivering specific services, or bundles of services, play a decisive role in
eliciting the knowledge and preferences of citizens of specific places;. Since
they are formed through the policy process, they often define what a “place” is.
In their absence, multi-level governance can degenerate into a system of
negotiation between bureaucracies representing different elites, with an
authority defined by purely jurisdictional boundaries. EU cohesion policy is
coesione.
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where multi-level governance has flourished, responding both to a strong
cultural tradition supporting an active role of local governments and
communities and to the awareness of the limits of the Commission in directly
managing interventions. In order to assess below how far cohesion policy has
lived up to the model that it helped establish, four key aspects can be singled
out which together determine how successful multi-level governance is: a) the
allocation of tasks among levels of government and the role of jurisdictional
Regions; b) contracts between levels of governments; c) decision processes at
local level; d) public debate being focused on objectives, learning and
counterfactual impact evaluation”(68).
(68) Il Rapporto Barca certamente si ispira ai risultati di una ricca ed internazionale speculazione dottrinaria sul tema del governo multilivello e degli esiti che questo approccio ha sulle politiche europee; fra gli altri si vedano i contributi che dalla metà degli anni 90’ e per il successivo decennio hanno “preparato” il contesto politico-culturale affinché la Commissione facesse suo questo tipo di approccio per l’attuazione delle proprie politiche strutturali: KOHLER-KOCH B., The Transformation of Governance in the European Union, London, 1999; LE GALÈS P. e LEQUESNE C., Regions in Europe, London, 2002; MARKS G., Structural Policy in the European Community, in A. Sbragia (a cura di), Euro-politics. Institutions and Policymaking in the “New” European Community, Washington, DC, The Brookings Institution, pag. 191-225; MARKS, G., Structural Policy and Multi-Level Governance in the EC, in A. Cafruny e G. Rosenthal eds, The State of the European Community. Vol. 2, The Maastricht Debates and Beyond, Boulder, CO: Lynne Rienner, pag. 391-410, 1993; MARKS G., HOOGHE L. e BLANK K., European Integration from the 1980s: State-Centric v. Multi-Level Governance in Journal of Common Market Studies, 1996, pag. 341-78; PETERS G. e PIERRE J., Developments in intergovernmental relations: towards a multi-level governance in Politics & Policy, 2001, pag. 131-135; PIATTONI S., Multi-level governance: sfide analitiche, empiriche, normative in Rivista Italiana di Scienza Politica, 2005, pag. 417-445; PIATTONI S., Development of the EU Structural Funds: A Success Story? in T. Conzelmann and R. Smith eds: Multi-Level Governance in the European Union: Taking Stock and Looking Ahead, Baden-Baden, 2008; POLLACK M., Regional actors in an inter-governmental play: the making and implementation of EC Structural Funds, in J. Richardson and S. Mazey eds: The State of The European Union, vol. 3 Bulding a European Polity? p 361-390, Boulder, CO, 1995; RUZZA C. E DELLA SALA
V. Governance and Civil Society in the European Union, volume I. Normative Perspectives, Manchester, 2007; SCHARPF F.W., Community and Autonomy: Multi-level Policy-making in the European Union, in Journal of European Public Policy, 1994, pag. 219-242.; SCHARPF, F.W., Introduction: The Problem-Solving Capacity of Multi-level Governance, in Journal of European Public Policy, 1997, pag. 520-38; WISHLADE F., EU Cohesion Policy: Facts, Figures, and Issues, in L. Hooghe ed, Cohesion Policy and European Integration: Building Multi-Level Governance, pag. 27-58, Oxford, 1996; JACHTENFUCHS M., Theoretical Perspectives on European Governance, in European Law Review, 1995. pag. 115-133; HOOGHE L., Cohesion Policy and European Integration.
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Dimensione multilivello di allocazione e gestione di competenze, che si
inserisce in un tessuto normativo dove spicca, secondo differenti modulazioni,
l'idea di integrazione e coordinamento delle stesse. Così, l'articolo 9
(Complementarità, coerenza, coordinamento e conformità) ripropone, al primo
paragrafo, una nozione di complementarità che giustifica l'intervento dei Fondi
strutturali sull'esigenza di un sostegno aggiuntivo rispetto ad interventi interni
di livello nazionale, regionale o locale, con l'obiettivo di integrare le priorità
comunitarie nelle strategie nazionali: “I Fondi intervengono a complemento
delle azioni nazionali, comprese le azioni a livello regionale e locale,
integrandovi le priorità Comunitarie…La Commissione e gli Stati membri
provvedono affinché l’intervento dei Fondi sia coerente con le attività, le
politiche e le priorità comunitarie e complementare agli altri strumenti
finanziari della Comunità. Tali coerenza e complementarità sono indicate, in
particolare, negli orientamenti strategici comunitari per la coesione, nel
quadro di riferimento strategico nazionale e nei programmi operativi”(69).
Basti poi richiamare, in particolare, l'articolo 11 del Regolamento, il
quale propone una significativa formulazione del principio del partenariato per
indicare la "stretta cooperazione" tra la Commissione ed ogni Stato membro
nelle distinte fasi di programmazione e gestione degli interventi, come anche, in
Building Multi-Level Governance, Oxford, 1996; HOOGHE L. e KEATING M., The politics of European Union regional policy, in Journal of European Public Policy, 1994, pag. 367-393. (69) Complementarietà che troviamo spesso richiamata anche nei Regolamenti istitutivi dei programmi a gestione diretta; così ad esempio l’articolo 15(2) della decisione n. 1067/2006/CE che istituisce un programma comunitario per l’occupazione e la solidarietà sociale – PROGRESS: “La Commissione e gli Stati membri garantiscono la coerenza, la complementarità e l’assenza di doppioni fra le attività condotte nell’ambito del programma e altre azioni pertinenti dell’Unione e della Comunità, in particolare nell’ambito dei Fondi strutturali e segnatamente del Fondo sociale europeo”. Con ciò, si intende proporre un approccio in grado di affrontare il rischio (potenziale o percepito) di duplicazione dei finanziamenti, ponendo l’accento sull’opportunità di adottare un approccio sinergico delle risorse. In particolare, al fi ne di centrare gli obiettivi della complementarità e della coerenza, viene proposto un meccanismo strutturato, basato sulla trasparenza e contemporaneamente teso a evitare inutili duplicazioni dei finanziamenti per la stessa azione.
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sede statale, una formula organizzatoria di coinvolgimento e consultazione (“se
del caso e conformemente alle norme e alle prassi nazionali vigenti”) di autorità
e organismi regionali, locali, altre autorità pubbliche competenti, parti
economiche e sociali, vale a dire organismi ed altri enti rappresentativi della
società civile.
L'intervento comunitario dunque, complementare a quelli nazionali nel
raggiungimento degli obiettivi primari della coesione, si attua nel quadro di una
forte collaborazione tra Commissione e Stati membri e con la necessaria
partecipazione, variamente declinata, di altri enti di rango sub-statale o di varia
natura.
Tale assetto, che presuppone a diversi livelli una vincolante
cooperazione tra momento comunitario e momento statale entro un quadro di
competenze concorrenti, risulta poi confermato anche dalla effettiva attuazione
della strategia "integrata" degli interventi, disciplinata secondo una procedura
che risulta più semplice e meglio definita rispetto a quella della precedente
programmazione, nel tentativo complessivamente riuscito di chiarire ruoli e
competenze
Il riferimento ai diversi principi dell'acquis communautaire della
coesione economica e sociale(70) costituisce la premessa per comprendere il
(70) Riguardo la politica comunitaria di coesione economica e sociale esiste una letteratura ricca e complessa, di significativo valore scientifico e legata a differenti approcci metodologici. Astraendo ovviamente da quella di puro interesse divulgativo, diamo qui conto degli scritti utili ad approfondire la tematica, con particolare riferimento a quelli di interesse tecnico-giuridico. Sono ancora interessanti e attuali le considerazioni di GLAESNER A., Der Grundsatz des wirtschaftlichen und sozialen Zusammenhalts im Recht der Europäischen Wirtschaftsgemeinschaft, Baden-Baden 1990, che studia per la prima volta il principio di coesione quale principio fondamentale del diritto .comunitario. PREDIERI A., Europeità dei fondi strutturali compendio e metafora, in A. Predieri (a cura di), Fondi strutturali e coesione economica e sociale cit., pag. 3 ss., presenta un’acuta ricostruzione del sistema della coesione all'interno di un contesto generale dei rapporti tra diritto comunitario e diritto interno che è rimasta però isolata in dottrina. Tra i contributi più recenti nella dottrina italiana, SAPIENZA R., La politica comunitaria di coesione economica e sociale,
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ruolo degli stessi e di questi in relazione al principio cardine della sussidiarietà
nel contesto della politica di coesione, al fine di prospettare un modello
giuridico di gestione e sviluppo ed in modo tale da individuare un possibile
criterio sistematico per l’interazione di tali "clausole generali" nel procedimento
di programmazione degli interventi finanziati dai Fondi strutturali.
4. La peculiare interazione tra sussidiarietà e partenariato nel modello
disciplinato dal Regolamento generale sui Fondi strutturali
Il testo della nuova disciplina regolamentare presenta, con riferimento
all’articolazione del sistema di amministrazione degli interventi, interessanti
innovazioni che inducono ad una migliore precisazione dei rapporti tra il
principio del partenariato e il principio di sussidiarietà.
Così, ed in prima istanza, nessuna disposizione del Regolamento
generale del 2006 contiene, diversamente dal testo previgente, un riferimento
espresso al principio della sussidiarietà; non è quindi riproposta la formula
dell'articolo 8, par. 3 del Regolamento 1260/99, nella quale appariva un
espresso richiamo al principio in oggetto: “In applicazione del principio di
sussidiarietà la responsabilità per l'attuazione degli interventi compete agli
Stati membri, al livello territoriale appropriato, in base alla situazione
specifica di ciascuno Stato membro, e salve le competenze della Commissione,
segnatamente in materia di esecuzione del bilancio generale delle Comunità
Bologna 2000, sulla basa di uno scrupoloso esame del Regolamento (CE) n. 1260/99, costruisce il modello c.d. della Commissione regina della coesione, modello assunto anche da DI STEFANO A., Le politiche strutturali dell'Unione europea e il principio di sussidiarietà cit., ma rivisitato alla luce di una differente considerazione del valore del principio di sussidiarietà. CASTRIC O., Quel Partenariat pour les Régions de l’Union Européenne? Paris 2002, offre un lavoro insostituibile per la elaborazione di una teoria giuridica del partenariato. Più attento ai profili di diritto interno appare in particolare CLARONI A., Le politiche di coesione, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo speciale, Milano, 2003, pag. 3793 ss.
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europee”. Il riferimento alla sussidiarietà ricorre invece e rimane nei
considerando, continuando a proporsi come modello concettuale di sintesi del
sistema di amministrazione comunitaria per lo sviluppo; così il considerando
25: “Poiché gli obiettivi «Convergenza», «Competitività regionale e
occupazione» e «Cooperazione territoriale europea» non possono essere
realizzati in maniera sufficiente dagli Stati membri, a causa delle eccessive
disparità e delle limitate risorse finanziarie degli Stati membri e delle regioni
ammissibili all'obiettivo «Convergenza», e possono dunque essere realizzati
meglio a livello comunitario tramite la garanzia pluriennale dei finanziamenti
comunitari, che consente alla politica di coesione di concentrarsi sulle priorità
della Comunità, la Comunità può intervenire, nel rispetto del principio di
sussidiarietà sancito dall'articolo 5 del trattato. Il presente regolamento si
limita a quanto è necessario per conseguire tali obiettivi in ottemperanza al
principio di proporzionalità enunciato nello stesso articolo”(71). Come dire
che tale sia pur limitato riferimento testuale pare conferire, comunque, al nostro
principio una portata normativa che sembra superare la tradizionale funzione di
organizzazione e (prima ancora) di fondazione dell'esercizio di competenze
concorrenti (articolo 5 del Trattato UE), ricollegandosi direttamente, nel "si-
stema multilivello" degli interventi strutturali, alla disciplina delle modalità e
dei limiti dell'intervento delle istanze competenti; lumeggia in questa direzione
la lettura congiunta dei considerando 60 e 65, dai quali traspare una più ampia
dimensione del principio in parola: “Conformemente al principio di
sussidiarietà e fatte salve le eccezioni previste dal regolamento (CE) n.
1080/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, relativo
(71) Si veda anche il considerando 27 del citato Regolamento generale: “È opportuno rafforzare la sussidiarietà e la proporzionalità dell'intervento dei Fondi strutturali e del Fondo di coesione”.
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al Fondo europeo di sviluppo regionale, dal regolamento (CE) n. 1081/2006
del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, relativo al Fondo
sociale europeo (2), e dal regolamento (CE) n. 1084/2006 del Parlamento
europeo e del Consiglio, dell'11 luglio 2006, relativo al Fondo di coesione (3),
dovrebbero vigere norme nazionali sull'ammissibilità delle spese
(Considerando 60)”… “Conformemente ai principi di sussidiarietà e
proporzionalità, gli Stati membri hanno la responsabilità primaria
dell'attuazione e del controllo degli interventi (Considerando 65)”. Appare
evidente, quindi, come il principio di sussidiarietà nell’ambito della politica di
sviluppo regionale non si configura più solamente come limite alle azioni delle
istituzioni comunitarie, secondo la ben nota formula dell’art. 5 del Trattato
istitutivo, ma si palesa in positivo quale canone di organizzazione della
coesistenza delle competenze di enti diversi ma ugualmente chiamati a
cooperare per il raggiungimento del fine ultimo della coesione economica e
sociale(72).
D'altronde questa ulteriore caratterizzazione del principio di
sussidiarietà risulta tanto più evidente se verificata alla luce dell'interazione del
principio con altri due canoni generali della coesione economico-sociale
chiaramente ripresi dalla recente disciplina generale sui Fondi: il principio del
partenariato (articolo 11)(73) e quello della proporzionalità (articolo 13)(74).
(72) VITALE G., I principi generali del regolamento n.1260 del 1999, Sussidiarietà, partenariato e addizionalità, in Rivista giuridica del Mezzogiorno, 2005, pag. 1371 ss. (73) (Art. 11 Reg 1083/2006): “1. Gli obiettivi dei Fondi sono perseguiti nel quadro di una stretta cooperazione, (in seguito: «partenariato»), tra la Commissione e ciascuno Stato membro. Ciascuno Stato membro organizza, se del caso e conformemente alle norme e alle prassi nazionali vigenti, un partenariato con autorità ed organismi quali: a) le autorità regionali, locali, cittadine e le altre autorità pubbliche competenti; b) le parti economiche e sociali; c) ogni altro organismo appropriato in rappresentanza della società civile, i partner ambientali, le organizzazioni non governative e gli organismi di promozione della parità tra uomini e donne. Ciascuno Stato membro designa i partner più rappresentativi a livello nazionale, regionale e locale, nei settori economico, sociale e ambientale o in altri settori (di seguito: «i partner»), conformemente alle norme e alle
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In essi ritroviamo infatti confermate le idee del riparto di competenze e
di coordinamento e concertazione nell'esercizio delle stesse entro un quadro
flessibile di integrazione che si collega strettamente al principio di
sussidiarietà(75): ed è indubbio che quelli della sussidiarietà e del partenariato
siano diffusamente riconosciuti quali principi cardine, istituzionali o addirittura
di struttura della politica di coesione economica e sociale; ad essi, e alla loro
complessa e variegata interazione, risulta ispirato l'intero assetto della disciplina
regolamentare in materia di fondi strutturali.
In questa ottica, la sussidiarietà, principio generale dell'ordinamento
comunitario destinato a disciplinare l'esercizio di competenze cui
contribuiscono più livelli di governo, si configura quale parametro essenziale
del legittimo ed equilibrato perseguimento degli obiettivi dello sviluppo
regionale, imponendo verifiche costanti e rinnovate della necessità, sufficienza
ed efficacia dei relativi contenuti e delle forme di intervento richieste: in questo
senso la sussidiarietà è da intendersi quale canone interpretativo della stessa
prassi nazionali, tenendo conto della necessità di promuovere la parità tra uomini e donne e lo sviluppo sostenibile tramite l'integrazione di requisiti in materia di tutela e miglioramento dell'ambiente. 2. Il partenariato è condotto nel pieno rispetto delle competenze istituzionali, giuridiche e finanziarie di ciascuna categoria di partner di cui al paragrafo 1. Il partenariato verte sulla preparazione, attuazione, sorveglianza e valutazione dei programmi operativi. Gli Stati membri associano, se del caso, ciascuno dei pertinenti partner, in particolare le regioni, alle varie fasi della programmazione, nel rispetto delle scadenze fissate per ciascuna di esse”. (74) (Art.13 Reg. 1083/2006) “Le risorse finanziarie e amministrative utilizzate dalla Commissione e dagli Stati membri nell'attuazione dei Fondi riguardo: a) alla scelta degli indicatori di cui all'articolo 37, paragrafo 1, lettera c), b) alla valutazione di cui agli articoli 47 e 48, c) ai principi generali relativi ai sistemi di gestione e di controllo di cui all'articolo 58, lettere e) e f), d) ai rapporti di cui all'articolo 67, sono proporzionali all'importo complessivo della spesa destinata ad un programma operativo. 2. Inoltre, nell'articolo 74 del presente regolamento sono indicate specifiche disposizioni inerenti alla proporzionalità in materia di controlli”. (75) DI STEFANO A., Coesione e diritto nell'Unione Europea. La nuova disciplina dei fondi strutturali comunitari nel regolamento 1083/2006, pag. 20 ss, Catania 2008. Sul tema si veda ancora la stessa autrice in I principi generali del modello comunitario di amministrazione per lo sviluppo:un’analisi empirica. Sussidiarietà e partenariato nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, in Rivista giuridica del Mezzogiorno, 2005, pag. 61ss.; BONELLI E., Principi costituzionali comuni, sussidiarietà e proporzionalità: esperienze europee a confronto, in Il diritto costituzionale comune europeo, 2002.
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normativa regolamentare di settore. Non può sfuggire allora la dimensione del
“nostro principio” nell’intera dinamica della pianificazione ed attuazione delle
azioni strutturali, in cui l’intervento dei Fondi di finanziamento deve svolgersi,
secondo la disciplina regolamentare, in stretta concertazione fra la
Commissione europea, lo Stato membro interessato e le autorità competenti da
quest'ultimo designate a livello nazionale, regionale o locale: questo è quello
che potremmo denominare sussidiarietà coniugata al partenariato(76) .
Fondamentale espressione del modello cooperativo di interazione tra
amministrazioni o livelli di governo, il partenariato della coesione economica e
sociale si afferma come criterio generale della programmazione e gestione dei
Fondi strutturali, aprendo altresì la strada alla realizzazione di un meccanismo
efficiente di partecipazione dei diversi soggetti coinvolti nelle fasi “ascendente
e discendente” di attuazione della politica comunitaria di riequilibrio
territoriale(77).
Dal consolidamento del metodo partenariale entro assetti di competenze
determinati dalla logica sussidiaria deriva cosi, in prima approssimazione, un
originale sistema di regolamentazione dei rapporti tra diversi livelli di governo,
(76) Per un’analisi approfondita del tema del partenariato, si veda, in generale, ALESSANDRINI S., La partnership nella gestione delle politiche di sviluppo regionale, in Il Risparmio, 1993, pag. 181 ss,; CARANTA R., I rapporti tra Regioni e Comunità europea: verso un nuovo modo di tutela degli interessi nazionali, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, 1997, pag. 1219 ss.; TURATO G., Partnership and Structural Funds: Set up and Conditionings no Regional Participation, in The European Union Review, 2003, vol. 8, n. 3, pag. 65 ss. Sul principio in oggetto, con riferimento alla politica di coesione economica e sociale, si segnala, in particolare, CASTRIC O., op. cit. Cfr. alcuni documenti del CNEL, Secondo Rapporto sulle politiche di coesione e i modelli di partenariato, Roma, 2000; CNEL – Gruppo di Lavoro Mezzogiorno, Rapporto sullo stato della Partnership per l'attuazione del Qcs. 2000-2006 per le Regioni dell'Obiettivo 1, Roma, 18 giugno 2002, ed anche la Comunicazione del Presidente della Commissione europea su “Obiettivi strategici 2005-2009”, Europa 2010: un partenariato per il rinnovamento europeo – Prosperità, solidarietà e sicurezza (Bruxelles, 26 gennaio 2005), COM (2005) 12 def. (77) DI STEFANO A., I principi generali del modello comunitario di amministrazione per lo sviluppo:un’analisi empirica. Sussidiarietà e partenariato nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, in Rivista giuridica del Mezzogiorno, 2005, pag. 61 ss.
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i quali cooperano nel procedimento di programmazione e gestione dei Fondi in
qualità di partners allo scopo di perseguire un obiettivo comune. Metodo che
trova il suo corollario con il criterio generale della proporzionalità, puntual-
mente disciplinato dal Regolamento generale, tramite il quale sono meglio
chiarite le dimensioni e i limiti degli apporti dei distinti livelli di
amministrazione coinvolti nella gestione concreta degli interventi.
5. Il procedimento amministrativo comunitario nell’ambito della politica di
coesione economica e sociale
Il Regolamento 1083/2006 definisce e consolida l’acquis comunitario della
coesione economica e sociale, definendo i contenuti e l’assetto giuridico-
applicativo dei relativi principi ispiratori in formule organizzatorie o di struttura
tipiche di un procedimento integrato, originale del sistema multilivello di
amministrazione per lo sviluppo.
Si tratta, con specifico riferimento alla politica di coesione, della
disciplina generale di una fattispecie ampiamente sperimentata di procedimento
amministrativo comunitario, definito “composto” in quanto specifica
espressione di integrazione funzionale tra amministrazioni(78).
Variamente strutturata in fasi specifiche (di pertinenza comunitaria e
(78) Per una trattazione sistematica delle questioni concernenti i procedimenti europei cfr. in generale nella dottrina italiana PREDIERI A., Fondi strutturali, Milano, 1996; CHITI E.- FRANCHINI C, L'integrazione amministrativa europea, Bologna, 2003; CHITI M.P., Diritto Amministrativo Europeo, Milano, 2004; DELLA CANANEA G, L'amministrazione europea, in S Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo generale, Vol II, Milano II ed., 2003, pag. 1797 ss.; FRANCHINI C., Amministrazione italiana e amministrazione comunitaria, Padova, 1993; Id., La Commissione delle Comunità Europee e le Amministrazioni nazionali: dalla ausiliarietà alla coamministrazione, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, 1993, pag. 669 ss; Id., I principi applicabili ai procedimenti amministrativi europei, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, 2003, pag. 1037 ss.; PICCOZZA E., Diritto Amministrativo e Diritto Comunitario, Torino, 1997.
- 72 -
nazionale) secondo moduli organici di “coamministrazione”, tale tipologia
procedimentale risulta caratterizzata per molti versi da una regolamentazione a
tratti lacunosa, solo in parte codificata adeguatamente e spesso affidata pertanto
alla elaborazione dei principi generali dell'organizzazione e del procedimento
amministrativo da parte della giurisprudenza dei giudici di Lussemburgo.
L'architettura composita di questo peculiare genere di procedimento
amministrativo – già sperimentata anche al di fuori del confine settoriale delle
politiche regionali – presenta questioni piuttosto delicate in relazione alle
garanzie funzionali degli interessi coinvolti, specie con riferimento agli aspetti
della tutela giurisdizionale dei soggetti interessati(79).
Così, come già evidenziato, l'azione comunitaria di politica regionale è
complementare rispetto alle corrispondenti azioni nazionali e vi contribuisce
basandosi su una stretta concertazione o partenariato tra la Commissione, lo
Stato membro, le autorità pubbliche locali e le altre parti economiche e sociali a
diverso titolo competenti.
L’individuazione dei soggetti più rappresentativi sia a livello
istituzionale che sociale è quindi di pertinenza dei singoli Stati membri
nell'ambito dei relativi ordinamenti giuridici: tutte le istanze coinvolte nella
concertazione (incluse, tra l'altro, quelle dedicate alla promozione di pari
opportunità, sviluppo sostenibile, protezione dell'ambiente, ricerca e
competitività del sistema industriale) sono in questo modo invitate direttamente
(79) CHITI M.P., Diritto amministrativo europeo, pag. 82-86, Milano 2004. Sulle caratteristiche della cooperazione procedimentale si confronti, in generale, PORCHIA O., Principi dell’ordinamento europeo. La cooperazione pluridirezionale, Bologna 2008. Si veda in generale, FRANCHINI C., Amministrazione italiana e amministrazione comunitaria. La coamministrazione nei settori di interesse comunitario, Padova 1993; Id., La Commissione delle Comunità Europee e le amministrazioni nazionali: dalla ausiliarietà alla coamministrazione, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 1993, pag. 669 ss.
- 73 -
ad assumere veste partecipativa in ognuno degli stadi dì avanzamento del
procedimento di amministrazione dei Fondi, ciascuna al pertinente livello
territoriale o funzionale. Salve le competenze della Commissione in materia di
esecuzione del bilancio comunitario, gli Stati membri restano inoltre investiti
della responsabilità cruciale in ordine all'attuazione delle azioni strutturali
programmate.
La normativa della programmazione degli interventi di cofinanziamento
strutturale insinua nella sua architettura il canone della sussidiarietà, attraverso
l’uso di un processo modulato per fasi successive di organizzazione, decisione e
finanziamento e volto ad attuare, su base pluriennale, l'azione congiunta della
Comunità e degli Stati membri con lo scopo di conseguire gli obiettivi primari
della politica di sviluppo regionale. La disciplina del Regolamento generale
richiama con immediatezza il senso proprio dei finanziamenti comunitari, come
sistema procedurale strutturato in forme partecipative attraverso il
coinvolgimento di attori eterogenei titolari di competenze funzionalmente
definite in rapporto agli obiettivi specifici delle misure finanziate.
Tale complesso sistema trova riscontro a livello normativo in un insieme
codificato di atti tipici e di interventi coordinati nel contesto di un procedimento
articolato in fasi successive ed ulteriori subprocedimenti (o procedure): ad una
fase preliminare, c.d. ascendente in quanto funzionale alla programmazione
vera e propria degli interventi, seguono una fase propriamente esecutiva o
gestionale (c.d. discendente), contraddistinta dalla puntuale attuazione ed
amministrazione delle misure programmate, nonché la valutazione e la verifica
finale della relativa efficacia e attinenza in relazione agli obiettivi prestabiliti.
La logica normativa si risolve qui nell'esigenza di rafforzare, alla luce dei criteri
di sussidiarietà e partenariato, l'interazione fra sistemi strutturalmente e
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funzionalmente decentrati di amministrazione condivisa delle iniziative
finanziate.
Gli attori locali – e prima di tutto i livelli regionali di governo – sì
trovano così direttamente coinvolti e titolari di responsabilità condivise in sede
di procedimento programmatorio, acquisendo competenze rilevanti a
cominciare dal livello preliminare della progettazione iniziale delle proposte
(analisi e rappresentazione dei deficit strutturali di un dato territorio e delle
relative opportunità di sviluppo socio - economico) e fino a quello finale della
gestione concreta delle risorse e degli interventi.
Ogni fase del procedimento è quindi scandita da una serie
predeterminata di atti che ne determinano la funzione delimitando competenze e
poteri di tutti i soggetti a vario titolo coinvolti, come promotori o destinatari dei
relativi effetti: titolari di interessi qualificati agli interventi di riequilibrio
territoriale, intervengono così nella programmazione e attuazione degli
interventi di coesione socio-economica, modulando l'intensità del relativo
coinvolgimento in rapporto al diverso grado di vicinanza degli interessi
rappresentati allo stadio di avanzamento del relativo iter procedurale come pure
a primarie necessità di efficacia delle misure da realizzare.
La configurazione sussidiaria del modello funzionale della coesione
economica e sociale escogitato in sede di regolamento generale emerge dunque
chiaramente alla luce della disciplina di un assetto di competenze concorrenti
comunitarie e nazionali, ispirato da esigenze di semplificazione procedimentale
e decentramento amministrativo dell'operare dei Fondi.
Lo si verifica facilmente già da una valutazione complessiva delle
principali categorie di atti propri del modello anzidetto, la qualificazione e
regolamentazione dei quali traducono in assetti giuridicamente strutturati quelle
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esigenze fondamentali di coordinamento di sistemi che la formula sussidiaria
compendia efficacemente, come già evidenziato, in termini di multilevel
governance delle politiche di amministrazione dello sviluppo(80).
6. Sussidiarietà e partenariato nella fase di programmazione della politica
di coesione.
Gli atti tipici della programmazione e gestione dei finanziamenti strutturali sono
(80) L’ Unione Europea ha definito il suo concetto di governance facendo riferimento alle dimensioni giuridica, sociale ed economica della stessa. Il White Paper on European Governance (COM -2001-428, del 5 agosto 2001), definisce il termine governance come “the rules, processes and behaviour that affect the way in which powers are exercised at European level, particularly as regards openness, participation, accountability, effectiveness and coherence. These five "principles of good governance" reinforce those of subsidiarity and proportionality”. Il dibattito sulla governance europea, sviluppatosi a partire dalla preparazione del libro bianco, quindi, riguarda tutte le regole, le procedure e le pratiche relative all’esercizio del potere all’interno dell’Unione. Un primo scopo è quello di incrementare la qualità della legislazione europea, attraverso la partecipazione della società civile; la valutazione dell’impatto delle politiche europee; il decentramento legislativo ed esecutivo da realizzarsi attraverso le agenzie; la convergenza delle politiche nazionali, attraverso l’ampio utilizzo del metodo aperto di coordinamento; l’efficace applicazione della legislazione comunitaria. In secondo luogo, l’Unione vuole favorire il decentramento geografico, sviluppando la dimensione regionale e locale del sistema di governance europeo attraverso il dialogo permanente con le associazioni e le rappresentanze delle regioni e delle città, e per mezzo della conclusione di contratti d’area o di settore. Infine, l’Unione mira a rinforzare la democrazia e a consolidare la legittimazione delle istituzioni europee, attraverso il maggior coinvolgimento dei cittadini e della società civile nella definizione e implementazione delle politiche europee. Una delle principali critiche mosse al funzionamento delle strutture di governo a livello europeo era, infatti, proprio quella di scarsa democraticità. I successivi cinque principi di ispirazione per la governance europea sono in gran parte tesi a migliorare questo aspetto: 1) Apertura. Le istituzioni devono operare in modo più aperto: assieme agli Stati membri, devono adoperarsi attivamente per spiegare meglio, con un linguaggio accessibile e comprensibile al grande pubblico, che cosa fa l’Unione europea e in che consistono le decisioni che essa adotta. 2) Partecipazione. La qualità, la pertinenza e l’efficacia delle politiche dell’Unione dipendono dall’ampia partecipazione che si saprà assicurare lungo tutto il loro percorso, dalla prima elaborazione all’esecuzione. 3) Responsabilità. I ruoli all’interno dei percorsi legislativi ed esecutivi vanno definiti con maggiore chiarezza. 4) Efficacia. Le politiche dell’UE devono essere efficaci e tempestive, producendo i risultati attesi in base a obiettivi chiari, alla valutazione del loro impatto futuro e , ove possibile, delle esperienze acquisite in passato. 5) Coerenza. Le politiche e gli interventi dell’Unione devono essere coerenti e di facile comprensione. […] La coerenza richiede una leadership politica e una decisa assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni, così da assicurare una impostazione coerente all’interno di un sistema complesso.
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identificati dalla disciplina regolamentare con specifico riferimento ad ambiti
normativi individuati di volta in volta dall'appartenenza ad un dato ordinamento
e dal riferimento ad uno o più soggetti titolari delle relative competenze, sia
pure entro logiche di sistema ispirate al metodo della gestione congiunta degli
interventi comunitari ed al coordinamento finalisticamente orientato di
competenze di matrice eterogenea.
Il momento autenticamente programmatorio del procedimento
individuato come fase preparatoria o ascendente, è disciplinato dagli articoli 25-
28 del Regolamento generale e si caratterizza per la predisposizione concertata
di due atti programmatici: gli Orientamenti strategici comunitari (Osc)(81) e il
Quadro strategico nazionale (Qsn); in stretta collaborazione con gli Stati
membri, la Commissione europea propone gli Orientamenti strategici in materia
di coesione, quali fondamento della politica regionale comune e sulla base dei
quali gli Stati membri adattano la loro programmazione successiva in funzione
degli obiettivi prioritari ivi indicati: (art. 25) “Il Consiglio stabilisce a livello
(81) Come già emerso nei precedenti paragrafi, la nuova programmazione 2007-2013 ha introdotto significative novità rispetto al precedente periodo 2000-2006 per quanto riguarda il processo di attuazione dei Fondi strutturali. I principali cambiamenti sono legati all'adozione da parte delle Istituzioni comunitarie dei nuovi Orientamenti strategici comunitari (Osc) per la Politica di coesione: le linee guida contenenti i principi e le priorità nazionali che le autorità nazionali e regionali devono adottare e rispetto alle quali si devono allineare nella predisposizione e redazione dei documenti di programmazione, per la gestione ed attuazione dei fondi strutturali. Gli Osc sono stati ufficialmente adottati con Decisione del Consiglio dell'Ue il 6 ottobre 2006 e pubblicati sulla G. U. U.E. L. 219 del 21 ottobre 2006. Le indicazioni riportate dagli Ocs hanno determinato la definizione di un nuovo approccio, sia per quanto riguarda la fase di programmazione relativa alla stesura dei documenti di programmazione prodotti a livello nazionale e regionale, sia per quanto riguarda le modalità di gestione ed attuazione degli stessi. Il nuovo quadro di riferimento venutosi a definire ha permesso così da un lato di rivisitare gli obiettivi e suoi strumenti finanziari, dall'altro di rendere maggiormente efficace la poli-tica regionale adottata dallo Stato e dalle regioni, in coerenza con le finalità previste dai nuovi regolamenti dei fondi strutturali. Tali modifiche sono state apportate nel pieno rispetto del principio di sussidiarietà inteso quale elemento di governance multilivello, e in base al principio di integrazione degli strumenti e delle risorse.
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comunitario orientamenti strategici concisi per la coesione economica, sociale
e territoriale, definendo un contesto indicativo per l'intervento dei Fondi,
tenuto conto delle altre politiche comunitarie pertinenti. Per ciascuno degli
obiettivi dei Fondi, detti orientamenti recepiscono in particolare le priorità
della Comunità al fine di promuovere uno sviluppo equilibrato, armonioso e
sostenibile della Comunità come indicato all'articolo 3, paragrafo 1….. (art.
26) La Commissione propone, in stretta cooperazione con gli Stati membri, gli
orientamenti strategici ccomunitari sulla coesione di cui all'articolo 25 del
presente regolamento…..Se necessario, per tener conto di eventuali
cambiamenti rilevanti delle priorità della Comunità, gli orientamenti strategici
comunitari per la coesione possono essere oggetto, in stretta cooperazione con
gli Stati membri, di una revisione intermedia”.
Sulla base dei suddetti orientamenti strategici, ogni Stato membro
elabora un Quadro di riferimento strategico nazionale (Qrsn o Qsn), che
definisce il piano di sviluppo scelto dallo Stato stesso e condiviso dalla
Commissione, tramite il quale si costruisce il contesto di riferimento per la
preparazione dei successivi Programmi operativi (PO) da parte delle autorità
nazionali e regionali per ciascun obiettivo e per ciascun fondo: (art. 27) “Lo
Stato membro presenta un quadro di riferimento strategico nazionale che
assicura la coerenza dell'intervento dei Fondi con gli orientamenti strategici
comunitari per la coesione e che identifica il collegamento con le priorità della
Comunità, da un lato, e con il proprio programma nazionale di riforma,
dall'altro…….(art. 28) 1. Il quadro di riferimento strategico nazionale è
preparato dallo Stato membro, previa consultazione con i pertinenti partner
conformemente all'articolo 11, mediante la procedura che considera più
appropriata e in base al proprio ordinamento. Esso copre il periodo dal 1°
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gennaio 2007 al 31 dicembre 2013. Lo Stato membro elabora il quadro di
riferimento strategico nazionale in dialogo con la Commissione, al fine di
garantire un approccio comune. 2. Ciascuno Stato membro trasmette il quadro
di riferimento strategico nazionale alla Commissione entro cinque mesi
dall'adozione degli orientamenti strategici comunitari per la coesione. La
Commissione prende atto della strategia nazionale e dei temi prioritari
prescelti per l'intervento dei Fondi e formula le osservazioni che ritiene
opportune entro tre mesi dalla data di ricezione del quadro di riferimento”.
Infine tramite i Programmi operativi, valutati in ultima istanza dalla
Commissione europea allo scopo di verificare se essi contribuiscano al
conseguimento degli obiettivi e delle priorità del quadro di riferimento
strategico nazionale e degli orientamenti strategici comunitari in materia di
coesione, viene data concreta attuazione, a livello locale, agli interventi di
sviluppo strutturale finanziati: allo Stato membro e alle Regioni spetta poi il
compito di attuare tali programmi tramite la pubblicazione di bandi per
l’erogazione dei finanziamenti, la selezione dei progetti, il controllo e la
valutazione degli stessi attraverso le autorità di gestione incaricate per ciascun
paese e/o Regione.
Non è discutibile che l’iter procedurale appena richiamato, a partire dalla
c.d. fase propositiva del processo programmatorio, è realizzato secondo il
modulo operativo partenariale, e quindi tramite il coinvolgimento attivo di tutti i
soggetti interessati – autorità comunitarie, statali, sub-statali e soggetti e
organismi non istituzionali – così valorizzando il momento partecipativo in
rapporto alla 'definizione interna degli assetti di competenze rilevanti.
Il metodo della concertazione procedimentale o del partenariato,
interpretato quale sintesi funzionale del principio di sussidiarietà nel contesto
- 79 -
normativo dì riferimento, disciplina pertanto e definisce tipicamente i tratti del
complesso sistema di rapporti tra autorità nazionali e comunitarie sin dalla fase
programmatoria in senso stretto del procedimento(82).
I due atti tipici della programmazione – Orientamenti strategici e
Quadro strategico nazionale – assumono in tale ambito valore paradigmatico
dell’originale architettura negoziale dell'amministrazione comunitaria dello
sviluppo territoriale: costruita su logiche prettamente sussidiarie di riparto di
competenze concorrenti, essa ha progressivamente elaborato e rafforzato
moduli partenariali di cogestione volti ad integrare efficacemente funzioni e
istituti giuridicamente distinti in funzione di obiettivi comuni.
L’intervento congiunto della Comunità e dello Stato membro coinvolto
attua in questo modo e presuppone dinamiche programmatorie integrate in
rapporto a competenze peculiari degli ordinamenti di volta in volta interessati.
Un atto statale di programmazione e proposta adottato su iniziativa e
previa verifica del livello sovranazionale coesiste pertanto in relazione di
reciproca integrazione con un provvedimento di origine comunitaria negoziato
esso stesso con il referente statale e destinato a concretizzare successive fasi di
partnership istituzionale nelle competenti sedi nazionali dell'attuazione, della
valutazione e del controllo dei programmi operativi.
La successiva gestione degli interventi programmati comporta difatti
l’inizio di una serie articolata di procedimenti i quali presuppongono anch’essi,
con varie modalità, uno svolgimento inevitabilmente concertato delle
competenze ad essi inerenti; significativa in questa direzione è la valutazione
congiunta Regione/Stato/Commissione di efficacia ed adeguatezza delle misure
(82) DI STEFANO A., I principi generali del modello comunitario di amministrazione per lo sviluppo:un’analisi empirica. Sussidiarietà e partenariato nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, in Rivista giuridica del Mezzogiorno, 2005, pag. 66 ss.
- 80 -
programmate all’interno di ciascun asse dei Programmi operativi, e il coinvolgi-
mento attivo e complessivo di tutti gli enti e organismi interessati al buon esito
degli interventi strutturali..
Il regolamento generale sui Fondi strutturali riserva poi grande
attenzione agli strumenti di sorveglianza e valutazione, cogliendo nel controllo
e nel monitoraggio le garanzie imprescindibili per testare la reale incidenza
socio-economica degli interventi programmati. Alla Commissione europea è
inoltre riservato dalla disciplina regolamentare un ruolo cruciale di supervisione
generale e valutazione conclusiva delle misure finanziate, e ciò anche in
rapporto al più pregnante grado di responsabilizzazione attribuito in tale
contesto alle istituzioni decentrate ed agli attori locali nel processo di attuazione
degli interventi strutturali.
Una tale complessa regolamentazione del procedimento di am-
ministrazione dei finanziamenti strutturali ha tuttavia sollevato dubbi e
difficoltà interpretative in sede di concreta attuazione delle azioni.
programmate. E ciò con riferimento soprattutto alle modalità di interazione ed
articolazione degli interventi degli attori istituzionali e sociali cui fanno capo le
competenze dettate dal Regolamento generale (1083/2006): si tratta,
precipuamente, di questioni legate alla interpretazione degli effettivi assetti
funzionali di competenze, nel contesto della politica comunitaria di coesione
economica e sociale, individuati dalla disciplina regolamentare secondo i
canoni generali della sussidiarietà e del partenariato.
Va in primo luogo evidenziato come la giurisprudenza comunitaria
abbia assunto in tal senso posizioni sostanzialmente univoche e coerenti con la
primaria esigenza di attribuire spazi e forme di tutela giurisdizionale agli
- 81 -
amministrati nel completo rispetto delle logiche di cooperazione e integrazione
giuridica proprie di un sistema giudiziario articolato e multilivello quale quello
europeo: prospettando in questo modo una interpretazione del procedimento di
programmazione e gestione dei Fondi strutturali del tutto indirizzata ad esaltare
il tema cruciale della sussidiarietà in modo tale da identificare precisamente
tempi e modi di esercizio delle competenze rilevanti.
7. Sussidiarietà e partenariato nella fase di gestione, controllo e
sorveglianza.
Il. nuova sistema di gestione, controllo e sorveglianza dei programmi operativi
risponde ad una logica di salvaguardia del principio della sana gestione
finanziaria, cui funge da parte degli Stati membri la predisposizione di
strumenti di controllo e percorsi gestionali idonei per un’adeguata realizzazione
degli interventi, in coerenza con quanto stabilito in sede programmatica(83).
Tale sistema è disciplinato dal Titolo VI del Regolamento (articoli 58-
74), dove è fatto espresso richiamo, in apertura (articolo 58), ad un insieme di
principi generali sulla gestione e il controllo, intesi a meglio definire contenuti e
modalità operative delle funzioni richiamate, precisando le relative
responsabilità delle autorità competenti.
Per ogni programma operativo, lo Stato membro è chiamato a nominare,
ai sensi dell'articolo 59 del testo novellato, un'autorità di gestione(84),
(83) ZERBONI N., Finanziamenti europei 2007-2013, fondi strutturali, finanziamenti diretti e contributi per la politica agricola, pag. 68 ss. Milano, 2007. (84) L'Autorità di gestione è responsabile della gestione e attuazione del programma operativo, sovrintende all'efficacia e alla regolarità gestionale dell'intervento, ed è responsabile dell'attivazione di sistemi di controllo allo scopo di garantire l'osservanza delle prescrizioni regolamentari ed in particolare di assicurare una «sana gestione finanziaria» del programma. In particolare, ai sensi dell'art. 60, Reg. CE n. 1083/2006, e dell'art. 13, Reg. CE n. 1828/2006, l'Adg è tenuta a: 1) garantire che le operazioni destinate a beneficiare di un finanziamento siano selezionate conformemente ai criteri applicabili al programma
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incaricata in via principale dell'attuazione del programma, un'autorità di
certificazione(85), deputata a certificare appunto le dichiarazioni di spesa e le
operativo e siano conformi alle norme comunitarie e nazionali applicabili per l'intero periodo di attuazione; 2) verificare l'effettiva erogazione dei prodotti e dei servizi cofinanziati nonché l'esecuzione delle spese dichiarate dai beneficiari e Ia conformità di tali spese alle norme comunitarie e nazionali; 3) garantire l'esistenza di un sistema informatizzato di registrazione e conservazione dei dati contabili relativi a ciascuna operazione svolta nell'ambito del programma operativo, nonché 1a raccolta dei dati relativi all'attuazione necessari per la gestione finanziaria, la sorveglianza, le verifiche, gli audit e la valutazione; 4) garantire che i beneficiari e gli altri organismi coinvolti nell'attuazione delle operazioni mantengano un sistema di contabilità separata o una codificazione contabile adeguata per tutte le transazioni relative all'operazione, ferme restando le norme contabili nazionali; 5) garantire che le valutazioni dei programmi operativi di cui all'art. 48, par. 3 (valutazioni connesse alla sorveglianza dei programmi e allo scostamento degli obiettivi) siano svolte in conformità dell'art. 47 (disposizioni generali sulla valutazione); 6) stabilire procedure per far sì che tutti i documenti relativi alle spese e agli audit necessari per garantire una pista di controllo adeguata siano conservati secondo quanto disposto dall'art. 90 (a disposizione della Corte dei conti e della Commissione per tre anni successivi alla chiusura parziale o totale del programma); 6) garantire che l'Autorità di certificazione riceva tutte le informazioni necessarie in merito alle procedure e verifiche eseguite, in relazione alle spese ai fini della certificazione; 7) guidare i lavori del Comitato di sorveglianza e trasmettergli i documenti per consentire un controllo qualitativo dell'attuazione del programma operativo, tenuto conto dei suoi obiettivi specifici; 8) elaborare e presentare alla Commissione, previa approvazione del Comitato di sorve-glianza, i rapporti annuali e finali di esecuzione; 9) garantire il rispetto degli obblighi in materia di informazione e pubblicità previsti all'art. 69; 10) trasmettere alla Commissione le informazioni che le consentano di valutare i grandi progetti. L'Autorità di gestione assicura altresì l'impiego di sistemi e procedure per garantire l'adozione di un'adeguata pista di controllo, nonché di procedure di informazione e di sorveglianza per le irregolarità e il recupero degli importi indebitamente versati. (85) L'Autorità di certificazione è responsabile della certificazione corretta delle spese erogate per l'attuazione del programma operativo. L'Adc adempie a tutte le funzioni corrispondenti a quanto definito dal Reg. CE del Consiglio n. 1803/2006, secondo le modalità attuative definite dal Reg. CE della Commissione n. 1828/2006. In particolare, ai sensi dell'art. 61, Reg. CE n. 1083/2006, essa è incaricata dei compiti seguenti: 1) elaborare e trasmettere alla Commissione le dichiarazioni certificate delle spese e le domande di pagamento; 2) certificare che: la dichiarazione delle spese è corretta, proviene da sistemi di contabilità affidabili ed è basata su documenti giustificativi verificabili; le spese dichiarate sono conformi alle norme comunitarie e nazionali applicabili e sono state sostenute in rapporto alle operazioni selezionate per il finanziamento conformemente ai criteri applicabili al programma e alle norme comunitarie e nazionali; 3) garantire, ai fini della certificazione, di aver ricevuto dall'Adg le informazioni adeguate in merito alle procedure seguite e alle verifiche effettuate in relazione alle spese figuranti nelle dichiarazioni di spesa; 4) tener conto, ai fini della certificazione, dei risultati di tutte le attività di audit svolte dall'autorità di audit o sotto la sua responsabilità; 5) mantenere una contabilità informatizzata delle spese dichiarate alla Commissione; 6) tenere una contabilità degli importi recuperabili e degli importi ritirati a seguito della soppressione totale o parziale della partecipazione a un'operazione. Gli importi recuperati sono restituiti al bilancio generale dell'Unione europea prima della chiusura del programma operativo detraendoli dalla dichiarazione di spesa successiva.
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domande di pagamento alla Commissione e un'autorità di audit(86), organismo
operativamente indipendente responsabile della verifica del corretto funziona-
mento del sistema di gestione e di controllo. Allo stesso modo, un comitato di
sorveglianza è creato per ogni programma operativo da ciascuno Stato membro
“d'intesa con l'autorità di gestione e previa consultazione dei partner” (articolo
63) al fine di accertare l'efficacia e la qualità dell'attuazione dei programma. Un
rappresentante della Commissione può, su propria iniziativa, prendere parte ai
lavori di quest’ultimo organismo con voto consultivo (articolo 64); in modo tale
che il momento comunitario dell'amministrazione dei programmi, garantito
(86) L'Autorità di audit (Ada) è responsabile di verificare l'efficace funzionamento dei sistemi di gestione e controllo. Le funzioni dell'Ada sono disciplinate dall'art. 62, Reg. CE n. 1083/2006, nonché dalle ulteriori specificazioni presenti negli artt. 16, 17, 22 e 24, Reg. CE n. 1828/2006. In particolare, l'Ada è responsabile dei seguenti compiti: 1) garantire che le attività di audit siano svolte per accertare l'efficace funzionamento del sistema di gestione e di controllo del programma operativo; 2) garantire che le attività di audit siano svolte su un campione di operazioni adeguato per la verifica delle spese dichiarate; 3) presentare alla Commissione, entro nove mesi dall'approvazione del programma operativo, una strategia di audit riguardante gli organismi preposti alle attività di audit di cui alle lett. a) e b), la metodologia utilizzata, il metodo di campionamento per le attività di audit sulle operazioni e la pianificazione indicativa delle attività di audit al fine di garantire che i principali organismi siano soggetti ad audit e che tali attività siano ripartite uniformemente sull'intero periodo di programmazione. Nel caso in cui un sistema comune si applichi a più programmi operativi, può essere comunicata una strategia unica di audit. La Commissione trasmette le proprie osservazioni in merito alla strategia di audit, al massimo entro tre mesi dal suo ricevimento. In mancanza di osservazioni entro tale periodo, Ia strategia si considera accettata. L'Ada è inoltre tenuta entro il 31 dicembre di ogni anno, dal 2008 al 2015 a: 1) presentare alla Commissione un rapporto annuale di controllo che evidenzi le risultanze delle attività di audit effettuate nel corso dei periodo precedente di 12 mesi che termina il 30 giugno dell'anno in questione conformemente alla strategia di audit del programma operativo e le carenze riscontrate nei sistemi di gestione e di controllo del programma; 2) formulare un parere, in base ai controlli ed alle attività di audit effettuati sotto la propria responsabilità, in merito all'efficace funzionamento del sistema di gestione e di controllo, indicando se questo fornisce ragionevoli garanzie circa la correttezza delle dichiarazioni di spesa presentate alla Commissione e circa la legittimità e regolarità delle transazioni soggiacenti; 3) presentare, nei casi previsti dall'art. 88, una dichiarazione di chiusura parziale in cui si attesti la legittimità e la regolarità della spesa in questione. L'autorità di audit è tenuta inoltre ad assicurare che il lavoro di audit tenga conto degli standard internazionalmente riconosciuti. Qualora i controlli e le attività di audit vengano effettuati da un organismo diverso dall'Ada, quest’ultima deve accertare in via preliminare che gli organismi coinvolti dispongano dell'indipendenza funzionale necessaria.
- 84 -
dalla succitata partecipazione dell'istituzione europea ai lavori dell'organo
misto, da obbligatorio diventa puramente facoltativo.
Significativo è anche il Capo IV (articoli 70-74) del Titolo in esame,
destinato alla disciplina dei controlli, non poco innovativo rispetto al
meccanismo precedente. Il nuovo regime è basato su una tendenziale
condivisione di responsabilità degli Stati membri e della Commissione e
chiaramente disciplinato alla luce del principio di proporzionalità. Gli Stati
membri sono in prima persona responsabili della corretta ed equilibrata gestione
finanziaria dei programmi operativi e della legalità e trasparenza delle relative
transazioni. Essi pertanto si occupano anche della prevenzione e correzione
delle irregolarità, relazionando costantemente la Commissione dei procedimenti
amministrativi e giudiziari più significativi.
Gli Stati sono altresì responsabili del corretto andamento dei propri
meccanismi di gestione e controllo dei programmi operativi e sono tenuti a
trasmettere .alla Commissione una dettagliata descrizione degli stessi
accompagnata dalla relazione di un organismo indipendente "di valutazione
della conformità" (articolo 71). Allo stesso modo, l'istituzione comunitaria è
tenuta a controllare e accertate la congruità dei sistemi interni di gestione e
controllo alle relative disposizioni del Regolamento e collabora con le autorità
di audit dei programmi operativi, coordinandone l’operato e le linee strategiche.
Essa, come nella precedente programmazione, può sempre effettuare controlli
in loco o pretendere dallo Stato membro di procedervi, con la possibilità di
prendervi parte, ovvero ancora dar luogo, con riferimento a fattispecie
particolari, a regimi semplificati di verifica e controllo (articolo 72).
Ulteriori disposizioni dettate dal criterio della proporzionalità sono
infine specificamente racchiuse nell'articolo 74, secondo un modulo di
- 85 -
graduazione dell'incisività delle misure di controllo funzionalmente collegato
all'entità del cofinanziamento.
Il collegamento con la proporzionalità in funzione della diversa
consistenza e cogenza dei regimi statali e comunitari di gestione e controllo
rende in sostanza il modello del 2006 decisamente più flessibile di quello
previgente, consentendo la possibilità di un arretramento del controllo esterno a
favore di strumenti e regole nazionali di garanzia. Non può sfuggire anche in
questo ambito una certa presenza del criterio della sussidiarietà in senso
“esteso”, quale canone ispiratore della politica di coesione, come politica che
utilizza gli strumenti giuridici-gestionali-operativi più vicini al livello
territoriale di riferimento.
Un richiamo conclusivo, inoltre, deve essere dedicato al novellato
sistema cautelare e sanzionatorio, disciplinato dal Titolo VII del Regolamento,
intitolato alla "Gestione finanziaria". Sia sufficiente richiamare, in tal senso,
come il regime delle misure cautelari è stato proficuamente arricchito dalle
disposizioni del Regolamento inerenti l’interruzione, la trattenuta e la
sospensione dei pagamenti (articoli 91 e 92) nonché rinviare alle novità relative
al procedimento di chiusura parziale di un programma operativo (articolo 97) e
al sistema di rettifiche finanziarie della Commissione (articoli 99-102).
8. Fondi strutturali e sussidiarietà: la posizione della Corte di Giustizia
Il principio di sussidiarietà, criterio funzionale di ordinamento di competenze
concorrenti in capo alle entità più vicine alle dinamiche di sviluppo dei territori
europei, definisce pertanto la sintesi giuridico-normativa del valore della
partecipazione procedimentale, indirizzando in modo garantistico gli stessi
canoni esegetici del giudice sovranazionale.
- 86 -
Lumeggia in questa direzione una nota sentenza della Corte di Giustizia
emessa il 22 gennaio nel procedimento C-271/01(87) relativa alla concessione,
con decisione della Commissione, di un contributo finanziario del FEAOG,
nell'ambito del programma operativo multiregionale “Miglioramento delle
produzioni tipiche del Mezzogiorno e sviluppo delle colture alternative”, sulla
base dei regolamenti nn. 2052/88 e 4253/88.
L'ordinanza di rinvio della giurisdizione nazionale prospetta al giudice
comunitario una complessa questione interpretativa sollevata nell'ambito di una
controversia tra il Consorzio Produttori Pompelmo Italiano Soc. Coop. a.r.l.
(“COPPI”) e il Ministero per le Politiche Agricole e Forestali, avente ad oggetto
la decisione di quest'ultimo di revocare, a causa di rilevate irregolarità, un
decreto ministeriale (7 agosto 1993, n. 485), ai sensi del quale era stato
attribuito al COPPI un contributo finanziato dal Fondo europeo agricolo di
orientamento e di garanzia (FEAOG), sezione “orientamento”.
A seguito di un'ordinanza del TAR Lazio (adito con ricorso dalla
cooperativa di produttori) di annullamento del citato decreto di revoca, motivata
dalla asserita incompetenza del Ministero ad esigere la restituzione dell'aiuto,
(87) Si tratta, nella specie, della sentenza (sesta sezione) della Corte di Giustizia emessa, il 22 gennaio 2004, nel procedimento C-271/ 01, Ministero delle. Politiche Agricole e Forestali e Consorzio Produttori Pompelmo Italiano Soc. Coop. a r.l.(Coppi), avente ad oggetto una domanda di pronuncia pregiudiziale proposta al giudice comunitario, ai sensi dell'articolo 234 CE, dal Consiglio di Stato italiano e vertente sull'interpretazione di un sistema di norme applicabili nella fattispecie all'esame del giudice nazionale, ed in particolare dell'art. 19 del regolamento (CEE) del Consiglio 15 febbraio 1977, n. 355 e successive modificazioni, relativo a un'azione comune per il miglioramento delle condizioni di trasformazione e di commercializzazione dei prodotti agricoli, dell'art. 23 del regolamento (CEE) del Consiglio 19 dicembre 1988, n. 4253, recante disposizioni dì applicazione del regolamento (CEE) n. 2052/88 per quanto riguarda ìl coordinamento tra gli interventi dei vari. Fondi strutturali, da un lato, e tra tali interventi e quelli della Banca europea per investimenti e degli altri strumenti finanziari esistenti, dall'altro, come modificato dal regolamento (CEE) del Consiglio 20 luglio 1993, n. 2082, e dell'art. 8 del regolamento (CEE) del Consiglio 21 aprile 1970, n. 729, relativo al finanziamento della politica agricola comune.
- 87 -
quest’ultimo propone appello al Consiglio di Stato contro il provvedimento del
giudice di prime cure, asserendo la legittimità dell'esercizio dei relativi poteri di
revoca e ripetizione del contributo finanziario sulla base della norma contenuta
nell’articolo 23 del regolamento n. 4253/88.
Il giudice amministrativo di ultima istanza ritiene la questione
interpretativa rilevante ai fini della causa de qua, risultando il contesto
normativo comunitario di riferimento piuttosto incongruo nel prevedere da una
parte per la Commissione la possibilità di azioni sia preventive che repressive di
eventuali irregolarità e nel sottolineare dall'altra il carattere sussidiario del
relativo intervento a fronte di autonome iniziative statali di repressione e
sanzione degli abusi.
Come emerge dalla vicenda giudiziaria interna che ha causato il rinvio
pregiudiziale, gli elementi critici sollevati dall'applicazione del diritto
comunitario rispetto a procedimenti amministrativi composti di erogazione di
contributi comunitari riposano principalmente nell'esatta definizione degli
ambiti rispettivi di competenza delle istituzioni comunitarie e nazionali e delle
correlate, concorrenti o autonome, responsabilità, soprattutto in vista della
tutela giurisdizionale degli interessati.
L’occasione si è dimostrata esemplare per verificare in sede
pregiudiziale quali possano essere le concrete implicazioni procedimentali dei
principi generali di sussidiarietà e di partenariato secondo l’interpretazione
della Corte di Giustizia; l'intervento della Corte, infatti, nel caso di specie
illustra bene quale sia il prevalente orientamento giurisprudenziale, almeno fino
allo scorso ciclo di programmazione, circa il ruolo delle istituzioni comunitarie
rispetto a profili critici di organizzazione di interventi c.d strutturali
cofinanziati, delineando in maniera inequivoca la sussidiarietà quale canone
- 88 -
interpretativo elastico e prevalente nell’ambito della gestione di questi ultimi:
“l’art. 23 n.1 del regolamento n.4253/88 deve essere interpretato nel senso che,
nell’ambito di un programma di azioni finanziate dal FEAOG, qualora un
esame riveli una violazione delle condizioni prescritte per la realizzazione delle
azioni di un programma uno Stato membro che abbia attribuito un contributo
finanziario del FEAOG può revocarlo e chiederne la restituzione parziale ai
beneficiari finali, al fine di prevenire e sanzionare le irregolarità”.
Ne emerge, alla luce delle citate conclusioni della sentenza sulla
pregiudiziale interpretativa, la competenza “naturale” delle autorità nazionali ad
assumere, in presenza di eventuali irregolarità o violazioni di obblighi
comunitari, provvedimenti di revoca e ripetizione di contributi finanziari anche
in assenza di una precedente autorizzazione della Commissione, e ciò “... in
virtù del principio di sussidiarietà” e purché il criterio del partenariato sia stato
comunque e formalmente soddisfatto nelle specifiche fasi di programmazione,
finanziamento, controllo e valutazione degli interventi.
Il modello procedimentale definito dalle consolidate pronunzie
giurisprudenziali risulta, anche verificando la prassi consolidata nei pregressi
cicli di programmazione, alquanto carente sul piano dell'integrazione funzionale
tra livelli e momenti distinti di amministrazione e decisamente condizionato da
una sbilanciata attuazione della sussidiarietà, che sembra prevalere sulla fitta
rete degli altri principi generali dell’acquis communautaire.
Canone generale per natura inidoneo – data l'intrinseca vaghezza dei
suoi criteri definitori – a focalizzare assetti definiti di competenze e poteri, il
principio di sussidiarietà si limita piuttosto a segnare, nell'interpretazione
giurisprudenziale, linee di tendenza indirizzate verso l'esercizio concreto delle
competenze entro modalità flessibili e solo in parte strutturate.
- 89 -
Il sistema integrato delle fasi procedimentali di governo degli interventi
impone in tale prospettiva (e ciò è quanto basta per il giudice comunitario) che
tale esercizio di competenze rifletta e rispetti il modulo sussidiario della
prossimità della funzione, a garanzia dell'effettività e legittimità del
procedimento medesimo.
I questo senso, la verifica della concreta attribuzione dei relativi poteri ai
diversi livelli di amministrazioni competenti nelle differenti fasi della
programmazione, attuazione e controllo dei contributi finanziari sembra
prevalere, nell’orientamento giurisprudenziale, su valutazioni relative
l’ottemperanza formale del canone infraprocedimentale della
compartecipazione o partnership.
Quest'ultimo, in conclusione, pur esprimendo un complesso di effetti ed
implicazioni, fin qui compressi dalla prioritaria attenzione che la Corte rivolge
al principio di sussidiarietà, è risultato, almeno fin’ora, ancora insuscettibile di
determinare valutazioni di legittimità sostanziale del procedimento
amministrativo comunitario.
Una coerente impostazione del procedimento di amministrazione dei
finanziamenti comunitari non può dunque prescindere, in concreto, dal
riferimento alla clausola sussidiaria quale strumento di individuazione
funzionale degli ambiti di intervento in relazione ai differenti livelli di
competenza politica, gestionale e finanziaria di volta in volta coinvolti nel
sistema integrato di amministrazione dello sviluppo.
Se ne ricava, nella prospettiva giurisprudenziale, una rilettura
problematica del testo regolamentare funzionale a una gestione efficiente delle
procedure e intesa alla ricerca costante di un giusto equilibrio procedimentale
tra i due estremi alternativi del coordinamento dall'alto e dell'autonomia
- 90 -
amministrativa dei livelli territoriali minori.
9. Sussidiarietà e giusto procedimento nel governo della politica di coesione
Quanto fin qui sostenuto si presta ad alcune valutazioni complessive, con
specifico riferimento alle soluzioni offerte dalla giurisprudenza comunitaria.
L'amministrazione degli interventi della politica comunitaria di coesione
economica e sociale nei trascorsi cicli di programmazione ha alimentato un
interessante e significativo contenzioso in sede sovranazionale, inerente delicati
profili di competenze e responsabilità del complesso sistema di gestione e
controllo dei cofinanzamenti strutturali.
In tale ambito, l'orientamento giurisprudenziale dei giudici comunitari
palesa l’evidente tentativo di costruire formule o assetti istituzionali equilibrati
di amministrazione condivisa dello sviluppo regionale al fine di definire un
modulo procedimentale di integrazione tra livelli – comunitario e nazionale –
rispettoso dell’acquis communautaire della coesione in funzione dei canoni
fondamentali del procedimento amministrativo comunitario.
Le fattispecie tipiche e più frequenti sottoposte al giudizio della CGE in
tema di erogazione, verifica e sanzione di benefici finanziari evidenziano
proprio una serie di momenti critici di quel particolare modello di procedimento
europeo, relativamente alla fase della concreta gestione delle competenze
concorrenti, dal momento che la sovrapposizione, ancora non perfettamente
coordinata, di diversi livelli di governo ha creato non poche incertezze presso
gli operatori di settore.
La giurisprudenza comunitaria riflette, in questo contesto, un'esigenza
fondamentale di bilanciamento della rilevanza dei principi dì sussidiarietà,
addizionalità e concertazione dei finanziamenti strutturali e dì quelli dì legalità,
- 91 -
proporzionalità, informazione e accesso delle parti, contraddittorio
procedimentale, motivazione degli atti, leale collaborazione, buona
amministrazione, imparzialità e legittimo affidamento in sede, specialmente, di
gestione e controllo delle misure cofinanziate. Principi, questi ultimi,
tradizionalmente ricondotti al canone generale del giusto procedimento ed in
questo senso configurabili come elementi essenziali dell' acquis
communautaire.
Le risultanze di questo contenzioso europeo ripresentano inoltre con
sempre maggiore frequenza la questione critica della insufficienza e parziale
inadeguatezza della disciplina materiale delle misure dì cofinanziamento dei
fondi comunitari, nelle sue rinnovate versioni, in particolare nel senso di buona
amministrazione comunitaria e di efficacia ed efficienza delle fasi nazionali del
procedimento in cui si snoda tutta la gamma delle competenze concorrenti di
sostegno strutturale: il tutto con certe e chiare ripercussioni in relazione agli
ulteriori profili della responsabilità e della tutela giurisdizionale dei soggetti
interessati, coinvolti a vario titolo nel meccanismo di intervento Commissione-
autorità nazionali, quali titolari di cc.dd. diritti procedimentali, destinatari di atti
endoprocedìmentali ovvero di provvedimenti finali od ancora beneficiari ultimi
degli interventi finanziati.
Il dato significativo è dunque quello della persistente fluidità di un
modello potenzialmente partenariale di azione amministrativa, in parte ancora
inadeguato anche in relazione al profilo della compiuta codificazione delle fasi
procedimentali ed in questo senso ancora, almeno in parte, affidato ad una
normazione di derivazione pretoria.
Giuridicamente basato sul principio di sussidiarietà, tale modello, sia
pur in fase di progressivo assestamento, resta tuttavia ancora in parte carente;
- 92 -
alla luce del filtro giurisprudenziale, del suo stesso presupposto essenziale,
l'integrazione forte, vale a dire, delle sfere comunitaria e nazionale di intervento
nella formula complessa dell'amministrazione comune di fasi distinte di un
unico procedimento: il ruolo del partenariato in sostanza, ampiamente
richiamato nei nuovi testi regolamentari, ancora deve misurarsi con i
comportamenti delle amministrazioni coinvolte e il giudizio della Corte. Solo in
questo modo si capirà realmente l’efficienza di questo nuovo modello
procedimentale in cui la sussidiarietà si coniuga con la concertazione.
Non è possibile eludere il passaggio appena richiamato anche in
considerazione del fatto che ci si trova in presenza di un ordinamento
amministrativo multilivello rispetto al quale trovano applicazione i canoni
tradizionali del procedimento interno, con un problema in più da risolvere:
quello dell’individuazione dell'ente o istituzione titolare di competenze in ogni
singola fase dell'iter procedurale e quindi del soggetto responsabile ultimo della
regolarità della procedura e titolare di poteri demolitori di atti o parti del
percorso amministrativo-contabile illegittimamente compiuto.
I giudici di Lussemburgo sono così assai spesso chiamati ad interpretare
le disposizioni essenziali della disciplina comunitaria di amministrazione dello
sviluppo di aree regionali depresse con lo scopo di controllare la titolarità di
obblighi e responsabilità in capo alle istituzioni comunitarie ed alle competenti
autorità nazionali nell’ambito del procedimento complesso di gestione,
controllo e sanzione dei finanziamenti erogati.
Ne emerge evidentemente un modello originale di integrazione tra livelli
amministrativi di intervento e di distribuzione di oneri e responsabilità di
gestione e controllo finalizzati all’efficacia delle azioni cofinanziate ed alla
stessa tutela degli interessi finanziari e programmatici dell'Unione.
- 93 -
In questo contesto, il principio di sussidiarietà può configurarsi come
sintesi giuridica dei fondamenti della coesione economica e sociale: esso
definisce infatti chiaramente il senso politico essenziale della governance dei
processi integrati di amministrazione congiunta dello sviluppo territoriale. E
così pure compone e risolve, attraverso strategie tipizzate di intervento
(addizionalità, programmazione, partenariato verticale e orizzontale,
decentramento, monitoraggio valutazione, premialità) questioni cruciali di
competenza e responsabilità del procedimento: chi e come decide, con quale
intensità ed in che tempi; in tal modo proponendosi quale originale canone di
giudizio della legittimità e del merito di atti e provvedimenti frutto di un
esemplare modello di sperimentazione di formule partenariali di governo del
territorio, orientate dal basso su molteplici livelli ordinamentali di intervento.
Il sindacato giurisprudenziale di Lussemburgo sul nesso nomo-genetico
complementarietà sussidiarietà partenariato all'interno del modulo
procedimentale tipico dell'amministrazione per lo sviluppo individua, in
conclusione una «metodologia» delle politiche sovranazionali ed interne dì
coesione economico-sociale integralmente ispirata e regolata dal criterio
politico-giuridico della sussidiarietà comunitaria.
In generale, dunque, l'ispirazione sussidiaria del modello di
amministrazione comunitaria dello sviluppo si ripropone in ogni singola fase
dell'intervento dei Fondi, dalla programmazione alla gestione, alla sorveglianza
e al controllo, disegnando, oggi più chiaramente che in passato, i contorni
essenziali di una formula multilivello di amministrazione delle azioni
programmate.
Il che si giustifica, riteniamo, anche in ragione dell'esigenza (acutamente
avvertita dalla giurisprudenza comunitaria e prima ancora nazionale) di meglio
- 94 -
ordinare il sistema degli interventi di coesione al fine di garantire una più chiara
determinazione della natura dei relativi atti e delle competenze dei relativi
attori; e di riflesso, una migliore delimitazione di competenze tra giurisdizioni
(anch'esse, in certo senso, multilivello) statali e comunitaria in sede di tutela
delle posizioni giuridiche soggettive coinvolte.
La prassi applicativa degli interventi di programmazione e gestione dei
Fondi strutturali, caratterizzata dalla progressiva moltiplicazione dei livelli di
governo e di responsabilità, ha sollevato, come detto, non pochi profili
problematici di interesse giuridico. Ben note esperienze tratte dalla prassi
giurisprudenziale comunitaria e nazionale rivelano infatti tutta una serie di
questioni, tuttora irrisolte, inerenti alle garanzie giurisdizionali di situazioni
giuridiche individuali interessate dall'esercizio concorrente-integrato di
competenze tra più livelli di amministrazione(88).
L'assetto complessivo determinato dalla nuova disciplina sui Fondi
potrà, probabilmente, contribuire a risolvere i nodi assai delicati del riparto di
competenze giurisdizionali in sede di tutela dagli abusi di un modello di
amministrazione ancora assai poco sperimentato sul piano delle garanzie
fondamentali dei soggetti lesi; ma di questo potrà darsi contezza solo col tempo.
(88) SAPIENZA R., Sussidiarietà e partenariato nella programmazione degli interventi dei Fondi strutturali. Prime considerazioni sulle ordinanze 15 marzo 2004 del Tribunale di prima istanza sui ricorsi degli Istituti greci di formazione professionale, in Rivista giuridica del Mezzogiorno, 2004, pag. 473 ss.
- 96 -
Capitolo III
Sussidiarietà e politiche nazionali di sviluppo regionale
1. Coesione economica e sociale e aiuti di stato a finalità regionale. 2.
Coerenza tra aiuti di stato a finalità regionale e aree obiettivo dei fondi
strutturali. 3. Sussidiarietà e concentrazione tra fondi strutturali e aiuti a
finalità regionale. 4. I limiti della coerenza negli Orientamenti sugli aiuti a
finalità regionale. 5. La sintesi tra politica regionale comunitaria e politica
regionale italiana: il Quadro strategico nazionale. 6. Concentrazione tematica
e sussidiarietà regolamentata nel futuro della politica di coesione?
1. Coesione economica e sociale e aiuti di stato a finalità regionale
Le caratteristiche che il principio di sussidiarietà assume nell’ambito della
politica di sviluppo regionale europea trovano peculiare realizzazione
all’interno degli ordinamenti giuridici degli Stati membri; in tal senso è
significativo verificare come nell’ordinamento italiano, l’acquis
communautaire della coesione, filtrato attraverso la sussidiarietà, abbia una sua
specifica attuazione; in particolare dall’analisi della politica regionale italiana si
possono trarre spunti interessanti sia in funzione di un’applicazione rigidamente
formalistica del principio in parola sia una sua interpretazione alla luce del
principio di coerenza che “anima” la dialettica tra aiuti di stato a finalità
regionale e fondi strutturali, vale a dire i due principali strumenti di
finanziamento che gli Stati membri hanno a disposizione per ridurre gli
squilibri territoriali all’interno dei loro confini, e attuare quindi le finalità
“costituzionali” del Trattato di Roma. Non vi è dubbio infatti che l’obiettivo
- 97 -
della coesione economica e sociale costituisca la pietra angolare tanto della
politica europea di sviluppo regionale quanto della politica regionale dei
singoli Stati membri, che specie in periodi di crisi come l’attuale, sono
chiamati, ad intervenire in maniera significativa per incentivare lo sviluppo e
correggere gli squilibri economici e sociali dei territori di riferimento.
Gli aiuti di Stato a finalità regionale sono stati da sempre uno dei più
significativi ed incisivi strumenti di intervento da parte degli Stati membri
dell’Unione e la loro portata è dimostrata dal fatto che sin dal Trattato
costitutivo(89), hanno rappresentato una delle più rilevanti deroghe al noto
divieto di aiuti, che il legislatore comunitario ha posto quale caposaldo generale
a tutela della libera concorrenza nel mercato comune. Ai fini della presente
ricerca, volta ad individuare l’incidenza e le modalità attuative del principio di
sussidiarietà nell’attuazione della coesione economico-sociale, appare
particolarmente significativo verificare se e come la sussidiarietà caratterizzi
l’uso degli aiuti a finalità regionale ed il loro rapporto con i fondi strutturali: in
sostanza capire se e come sia possibile una reductio ad unum degli interventi
strutturali nazionali con quelli comunitari, per il raggiungimento del fine
costituzionale della coesione, e se in tal senso giochi un ruolo il principio di
sussidiarietà.
Con il 2007, nell'ambito dell'ordinamento comunitario, si è avviata una
nuova fase, che riguarda contestualmente la disciplina della politica di coesione
e quella degli aiuti di Stato a finalità regionale. Nel corso del 2006 sono stati
approvati, come noto, i regolamenti che disciplinano il fondo europeo di
(89) Cfr in generale sul tema CERRI A., Gli aiuti di Stato nel quadro degli interventi pubblici in economia, in G. Luchena – S.Prisco (a cura di) Aiuti di Stato tra diritto e mercato – Nova Juris Interpretatio, n.3/2006, 2007. DE VINCENTI C., Mercato e intervento pubblico nei settori di pubblica utilità, in C. De Vincenti e A. Vigneti (a cura di) Le virtù della Concorrenza, Bologna, 2006.
- 98 -
sviluppo regionale, il fondo sociale europeo e il fondo di coesione per il ciclo
2007-2013: anche se in presenza di considerevoli profili di continuità, questi
hanno carattere certamente innovativo rispetto alla precedente
regolamentazione. Allo stesso tempo, la Commissione ha adottato, tramite
comunicazione, i nuovi orientamenti in tema di aiuti di Stato a finalità
regionale(90), che sostituiscono il precedente testo del 1998: anche questi
stanno avendo attuazione per il settennio 2007-2013; a ciò si aggiunga il
Regolamento 800/2008 di esenzione generale, che nel disciplinare
dettagliatamente gli aiuti esenti da notifica alla Commissione, ha
sostanzialmente riprodotto, in materia di aiuti a finalità regionale, quanto già
previsto dagli Orientamenti stessi.
Questo significativo parallelismo, di natura non solo temporale, porta a
valutare la questione della dialettica, nella costituzione economica comunitaria,
tra divieto di aiuti di Stato, da un lato, e coesione economica e sociale,
dall'altro; dialettica che come accennato riguarda la coerenza stessa degli
strumenti a disposizione degli Stati membri per attuare una efficace e bilanciata
politica di sviluppo regionale. Il divieto di aiuti di Stato appartiene, come noto,
al disegno originario del Trattato di Roma, e la logica ne è pienamente
comprensibile: è evidente, infatti, come un regime di aiuto a vantaggio delle
imprese o di certe imprese nazionali possa tramutarsi in una consistente
discriminazione indiretta nei riguardi delle imprese concorrenti di altri paesi, e
quindi in un ostacolo sul percorso del mercato comune.
Il divieto, tuttavia, nasce come relativo, e presenta alcune deroghe, tra le
quali emergono certamente quelle destinate agli aiuti a finalità regionale; tali
deroghe sono, come noto, di due tipi, automatiche o condizionate alla potestà
(90) Orientamenti in materia di aiuti di stato a finalità regionale, pubblicati in GUE 4.3.2006, C 54.
- 99 -
discrezionale della Commissione: gli aiuti a finalità regionale appartengono al
secondo gruppo. In particolare, l'art. 107 TFUE, co. 3, lett. a), ha ad oggetto gli
aiuti a favore di regioni in cui il tenore di vita sia anormalmente basso o vi sia
una situazione di grave disoccupazione; la lett. c), invece, riguarda gli aiuti a
favore di zone non affette da un sottosviluppo grave(91), e cioè “gli aiuti
destinati ad agevolare lo sviluppo di talune attività o di talune regioni
economiche sempre che non alterino le condizioni degli scambi in misura
contraria al comune interesse”. Come la Corte di giustizia, ormai da tempo, ha
avuto modo di chiarire, nell'esenzione prevista alla lett. a), l'uso dei termini
anormalmente e grave significa che questa riguarda esclusivamente le aree la
cui situazione economica è particolarmente sfavorevole rispetto alla Comunità
nel suo insieme. L'esenzione di cui alla lett. c), invece, è più estesa, giacché non
è ristretta alle condizioni di cui alla lett. a), e attribuisce alla Commissione il
potere di autorizzare aiuti finalizzati a rafforzare lo sviluppo economico di aree
svantaggiate rispetto alla media nazionale.
Dunque già nel Trattato di Roma, era proprio questa una delle più
evidenti affermazioni dell'elemento dello sviluppo regionale, che sin dalle
origini appariva alquanto contraddittoria(92): da quali valutazioni, infatti, la
Commissione si sarebbe fatta indirizzare nell'esercizio del potere di consentire
(91) Per quanto riguarda la definizione delle aree ammissibili agli aiuti di Stato a finalità regionale, vengono seguiti due metodi distinti a seconda che il riferimento sia alla lettera a) oppure alla lettera c) dell'articolo 107 TFUE. Infatti le due deroghe fanno riferimento a problemi regionali di natura ed intensità diversa (più grave la fattispecie di cui alla lettera a). La definizione delle aree ammissibili agli aiuti di Stato di cui alla lettera a) viene effettuata dalla Commissione sulla base di un confronto tra il p.i.l. pro capite regionale (media degli ultimi 3 anni) e quello medio della Comunità. Il criterio è identico a quello utilizzato per l'individuazione delle aree obiettivo convergenza. Una volta stabilito dalla commissione il plafond di popolazione ammissibile agli aiuti di Stato e sottratto a questo la popolazione ammissibile secondo l'art. 87, § 3, lett. a), si ottiene l'ammontare di popolazione ammissibile agli aiuti di Stato secondo l'art. 107, par. 3, lett. c). A questo stadio lo stato membro, procede ad individuare la mappa delle aree ammissibili agli aiuti (92) GILIOLI F., Coesione economica e sociale e aiuti di stato a finalità regionale, in Il Diritto dell’Economia, 2007, pag. 79-98.
- 100 -
questo o quel regime di aiuti? Dalla tutela della concorrenza e della costruzione
del mercato interno, o magari dall'intenzione di indirizzare gli aiuti degli Stati
in modo tale da costruire, in via negativa, una politica regionale europea?(93) In
sostanza le deroghe previste ex art. 107 TFUE (al tempo 87 TCE) sono un mero
strumento a tutela della concorrenza, un’eccezione che conferma la regola,
oppure concretizzano un reale, seppur indiretto, potere di intervento sulle scelte
di politica regionale dei singoli Stati membri, da parte della Commissione
stessa? Ed in caso di risposta affermativa con quale criterio quest’ultima deve
modulare il proprio potere discrezionale(94)?.
La Corte di giustizia, secondo un'impostazione risalente al caso Philip
Morris del 1980 ma mai contraddetta, ha valutato le deroghe al divieto di aiuti,
e in particolare quelle a finalità regionale, in termini di compensatory justi-
fication, stabilendo che affinché l'aiuto sia ammissibile, la distorsione che esso
determina alla concorrenza deve essere compensata in termini di crescita e
sviluppo economico. Nella prospettiva del giudice comunitario, tale
interpretazione garantiva una logica, nel sistema giuridico del Trattato di Roma,
alle deroghe in oggetto e, sempre in quel sistema, risultava come una soluzione
equilibrata, idonea a tradurre in senso prescrittivo quella ricerca dello sviluppo
armonioso che doveva sostenere la nascita del mercato unico europeo.
Ad oggi, tuttavia, questa soluzione si presenta come sostanzialmente
incompleta; non è più sufficiente, difatti, ragionare in termini di compensatory
justification nel momento in cui il Trattato, a più riprese, ed in particolare all’art
(93) “Tale disciplina si pone al confine tra l'integrazione negativa, fondata su semplici divieti, e l'integrazione positiva. L'attività di controllo della Commissione, infatti, si traduce, nella sostanza, in una canalizzazione dell'intervento pubblico verso obiettivi di politica industriale che siano in sintonia con gli interessi comunitari” così TESAURO C., Diritto comunitario, pag. 742-743, Milano, 2003. (94) Cfr in generale sul tema LUCHENA G., Politica degli aiuti alle imprese: divieto aprioristico o coordinamento funzionale?, in G. Luchena e S.Prisco (a cura di) Aiuti di Stato tra diritto e mercato, Nova Juris Interpretatio, n.3/2006, 2007.
- 101 -
174 TFUE e seguenti, prevede un obiettivo di coesione economica e sociale (e
territoriale): “Per promuovere uno sviluppo armonioso dell'insieme
dell'Unione, questa sviluppa e prosegue la propria azione intesa a realizzare il
rafforzamento della sua coesione economica, sociale e territoriale. In
particolare l'Unione mira a ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie
regioni ed il ritardo delle regioni meno favorite. Tra le regioni interessate,
un'attenzione particolare è rivolta alle zone rurali, alle zone interessate da
transizione industriale e alle regioni che presentano gravi e permanenti
svantaggi naturali o demografici, quali le regioni più settentrionali con
bassissima densità demografica e le regioni insulari, transfrontaliere e di
montagna”.
La Commissione, da parte sua, formalmente rispettosa degli
orientamenti della Corte, ha in realtà esercitato negli anni il potere di concedere
o negare le deroghe anche con l’intento di indirizzare e “modulare” le politiche
regionali degli Stati membri.
Si può in sostanza affermare che la Commissione ha sviluppato due
politiche regionali parallele: una attuata in negativo dalla direzione generale
della concorrenza, tramite il dosaggio delle deroghe ex art. 107 TFUE; un’altra
operata in positivo dalla direzione generale della politica regionale, attraverso il
FESR e gli altri strumenti finanziari di sostegno per l’attuazione della coesione
economico-sociale(95).
Non va tralasciata, tuttavia, una diversità operativa dal punto di vista
degli strumenti giuridici; mentre la politica regionale comunitaria, nonostante
una fase iniziale nella quale prevalse una tendenza verso il soft law, è stata
attuata sin dall'inizio tramite strumenti vincolanti di diritto derivato, in primis
(95) GILIOLI F., Op. cit.
- 102 -
regolamenti, ciò non vale di certo per l'attuazione delle regole sugli aiuti a
finalità regionale. In quest'ultima circostanza, infatti, a partire dai principi
fissati nella prima risoluzione del 1971 in materia di aiuti a finalità
regionale(96), si è verificato un costante utilizzo di strumenti giuridicamente
non vincolanti, specie comunicazioni, con i quali, nella prospettiva di una
sempre maggiore trasparenza, la Commissione ha espresso i criteri per
l'ammissione alle deroghe.
A ciò si aggiunga che l’intera disciplina del Trattato sugli aiuti di Stato è
stata per anni priva di un'attuazione normativa, tanto che il regolamento di
procedura, esecutivo dell'allora art. 88 TCE, risale, come noto, solo al 1999(97).
Tale differenza rilevante risiede giuridicamente nel fatto che, mentre la
materia degli aiuti di stato è positivamente disciplinata dal Trattato (con norme
che, tramite il filtro della discrezionalità della Commissione, sono direttamente
applicabili nei confronti degli Stati), lo stesso non può dirsi per la politica
regionale, inizialmente costruita in base all'art. 235 TCE, e di seguito
legittimata grazie ad un titolo sulla coesione economica e sociale, il quale,
strutturalmente condizionato ad un intervento legislativo, prevede
espressamente la necessità di norme attuative, stabilendo a tal fine procedure e
competenze (art. 177 TFUE): “Fatto salvo l'articolo 178, il Parlamento
europeo e il Consiglio, deliberando mediante regolamenti secondo la
procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico
e sociale e del Comitato delle regioni, definiscono i compiti, gli obiettivi
prioritari e l'organizzazione dei fondi a finalità strutturale, elemento
(96) Prima risoluzione del 20 ottobre 1971, dei rappresentanti degli stati membri, riuniti in sede di consiglio, relativa ai regimi generali di aiuti a finalità regionale, in GUCE, 4.11.1971, C 111, pag. 1. La risoluzione risulta imputabile formalmente al Consiglio, ma il testo, in realtà, era stato preparato dalla Commissione. (97) Reg. 22 marzo 1999, n. 659, in GUCE, 27.3.1999, L 83, p. 1.
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quest'ultimo che può comportare il raggruppamento dei fondi. Sono inoltre
definite, secondo la stessa procedura, le norme generali applicabili ai fondi,
nonché le disposizioni necessarie per garantire l'efficacia e il coordinamento
dei fondi tra loro e con gli altri strumenti finanziari esistenti”.
2. Coerenza tra aiuti di stato a finalità regionale e aree obiettivo dei fondi
strutturali
Le potenzialità chiaramente contenute nelle deroghe agli aiuti di Stato, previste
dal Trattato, e da interpretarsi anche come strumento di indirizzo delle politiche
regionali degli Stati membri, hanno comportato e tutt’ora comportano il
problema del rapporto tra aiuti a finalità regionale e politica di sviluppo
regionale europea, in particolare, relativamente alla vicenda delle carte degli
aiuti di Stato a finalità regionale, e quindi sul piano della c.d. “coerenza” fra gli
strumenti finanziari in gioco.
La politica di coesione comunitaria, contenitore della politica regionale,
è ad oggi in larga parte territoriale, e si basa su mappe elaborate in sede
comunitaria secondo criteri tendenzialmente oggettivi: nel ciclo di
programmazione 2000-2006 vi erano due mappe: quella dell'obiettivo 1 e quella
dell'obiettivo 2. Anche gli aiuti regionali in deroga ex art. 107, comma 3, lett.
a), e art. 107, comma 3, lett. c), si basano su due mappe adottate dalla
Commissione per ciascun Stato membro. È quindi evidente che nel momento in
cui, a seguito della riforma del 1988, sono state elaborate anche le mappe della
politica regionale, è sopraggiunta la questione del coordinamento tra le une e le
altre.
In precedenza, infatti, visto che la politica regionale comunitaria
cofinanziava la politica regionale dello Stato membro, e visto che le deroghe in
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questione erano proprio finalizzate a consentire che gli Stati membri
conducessero, sotto il controllo della Commissione, una politica regionale
efficace, anche grazie a misure qualificabili come aiuti di Stato, non vi era una
questione di coerenza/coordinamento tra i due tipi di intervento:
schematicamente, si verificava che lo Stato membro si rivolgeva alla direzione
generale IV, competente per la concorrenza, per avere la deroga al divieto di
aiuti a vantaggio delle regioni che avrebbero fatto parte della sua politica
regionale, e poi chiedeva alla direzione generale XVI, competente per la
politica regionale, il cofinanziamento, tramite il FESR, dei progetti che
rientravano nella programmazione della propria politica territoriale.
Dal momento in cui però la Comunità, con i regolamenti del 1988, ha
iniziato invece a predefinire i criteri di individuazione delle aree beneficiarie dei
fondi, le quali non corrispondevano più necessariamente alle aree beneficiarie
delle politiche regionali nazionali come individuate dalla Commissione insieme
allo Stato membro nel rispetto delle deroghe dell'allora art. 87, comma 3, si è
iniziata a porre la questione della coerenza tra le due mappe, ed in sostanza fra i
due strumenti di finanziamento. Una vicenda che ha risvolti concreti rilevanti:
da un lato, infatti, i nuovi fondi strutturali spingevano verso forme di
investimento produttivo, con un ruolo significativo degli aiuti di Stato;
dall'altro, invece, il nuovo regolamento generale chiariva che solo gli aiuti
precedentemente notificati e approvati dalla Commissione in ossequio agli
articoli 87 e 88 TCE potevano essere valutati per il cofinanziamento.
Fin da subito si registrarono posizioni differenziate sull' an e sul
quantum di coerenza tra aree ammissibili agli aiuti a finalità strutturale e al
sostegno dei fondi strutturali, sulla base di argomentazioni essenzialmente non
giuridiche; un confronto anomalo, dal momento che i principali contendenti non
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sono, come spesso accade, la Comunità e gli Stati membri o due diverse
istituzioni comunitarie, bensì le due direzioni generali della Commissione
coinvolte, rispettivamente quella della politica regionale e quella della
concorrenza. Più in particolare, la direzione generale della politica regionale
affermava la necessità della coerenza, evidenziando come la modifica al
Trattato attuata dall'atto unico imponesse alla politica della concorrenza di
incentivare la politica regionale comunitaria. La direzione generale della
concorrenza, invece, evidenziava la diversità di obiettivi delle due politiche,
sottolineando che si potessero legittimamente seguire criteri differenti per la
designazione delle aree interessate. Inoltre, era anche messa in discussione la
correttezza dei criteri richiesti per l'ammissione al supporto dei fondi, per nulla
convincenti da un punto di vista tecnico giuridico ed economico.
In una fase successiva, si configurò una nuova articolata situazione
condizionata dai regolamenti sui fondi strutturali del 1999 e, soprattutto, dagli
orientamenti della Commissione del 1998 in materia di aiuti di Stato a finalità
regionale: il commissario alla concorrenza, nel corso delle trattative per la
formazione delle proposte di regolamento relativo al ciclo di programmazione
2000-2006, adottò una comunicazione, poi sostituita dai nuovi orientamenti del
marzo 2006, con la quale riformulava i criteri per l'applicazione dell'art. 87,
comma 3, lett. a) e c). Dal lato della coerenza, si ribadiva l'identità tra il criterio
base (anche se non più esclusivo) per l'ammissione all'obiettivo 1 dei fondi
strutturali e quello per l'ammissione alla deroga di cui all'art. 87, co 3, lett. a), e
cioè la soglia del 75 % del p.i.l. rispetto alla media comunitaria; restavano
invece differenti i presupposti per l'obiettivo 2, non necessariamente coincidenti
con quelli che la Commissione definiva per l'ammissione alla deroga di cui
all'art. 87, co 3, lett. c). Veniva tuttavia chiarito che anche le regioni ammissibili
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ai fondi strutturali potevano avvantaggiarsi di tale deroga, al fine di garantire la
coerenza.
Si deve tuttavia sottolineare che anche a livello dei singoli Stati membri
la non perfetta coincidenza territoriale tra i due canali permetteva di includere
nell'uno o nell'altro regime un numero di aree complessivamente superiore di
quanto non sarebbe accaduto nel caso in cui la coerenza fosse stata completa, ed
offriva agli Stati la possibilità di evitare situazioni di contrasto con un territorio
escluso da una parte, permettendogli di farlo rientrare dall'altra; inoltre proprio
la tendenza a fare coincidere i cicli di programmazione dei fondi strutturali con
i periodi di validità delle carte degli aiuti a finalità regionale permetterebbe di
attuare compensazioni contestuali tra aree ammesse (o non ammesse) all'uno o
all'altro regime.
3. Sussidiarietà e concentrazione tra fondi strutturali e aiuti a finalità
regionale
La questione del coordinamento e della coerenza tra aree ammissibili agli aiuti
a finalità regionale e quelle ammissibili all’intervento dei fondi strutturali è
quindi certamente significativa da un punto di vista operativo e politico e
sembra comunque trovare una composizione funzionale giuridicamente corretta
proprio nei riformati Trattati.
La coesione economica e sociale, così come delineata dall'art. 175
TFUE, si manifesta su tre livelli, i primi due dei quali, in particolare, ci
riguardano ai fini della presente ricerca: il coordinamento delle politiche
nazionali; l'elaborazione e attuazione delle politiche e azioni comunitarie;
l'azione dei fondi strutturali. La stessa coesione economica e sociale è poi
divenuta un obiettivo generale dell’Unione europea, prospettandosi così due
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dimensioni di coerenza: tra Unione e Stati membri e tra azioni svolte
dall’Unione stessa.
In relazione alla prima dimensione, si ritiene correttamente che gli aiuti
in deroga a finalità regionale corrispondano alla politica regionale degli Stati
membri, mentre gli interventi previsti all'interno del sistema dei fondi strutturali
rappresentino la politica regionale comunitaria. I due aspetti, tuttavia, sono
radicalmente connessi; in primo luogo, poiché la coesione economica e sociale
costituisce un obiettivo comune sia agli Stati, che conducono e coordinano la
loro politica anche al fine di raggiungere gli obiettivi dell'art. 174, sia
all’Unione. Non è eccessivo affermare che gli Stati non sono più liberi, ad oggi,
di costruire una propria politica regionale, la quale, pur nel rispetto formale
delle disposizioni del TFUE in materia di concorrenza, non sia anche
indirizzata, in senso sostanziale, al perseguimento della coesione così come
intesa dall’ordinamento comunitario. Inoltre, nell'attuazione che il Trattato ha
avuto sul punto, i principi della programmazione, del partenariato, della
concentrazione e dell'addizionalità hanno plasmato un modello di politica
regionale comunitaria strettamente legata agli Stati membri, al punto che questi
ultimi, e in particolare l'Italia, hanno utilizzato le regole di origine comunitaria
anche per la loro politica regionale.
Con riferimento alla seconda dimensione, si può rilevare che dall’art
175 TFUE, in specie quando quest'ultimo così afferma: “L'elaborazione e
l'attuazione delle politiche e azioni comunitarie, nonché l'attuazione del
mercato interno tengono conto degli obiettivi dell'art. 174 e concorrono alla
loro realizzazione”, è corretto desumere che la Commissione, nel concedere le
deroghe per gli aiuti a finalità regionale, deve avere dinnanzi il faro della
coesione economica e sociale, chiaramente cristallizzato dall’art. 174 TFUE:
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“Per promuovere uno sviluppo armonioso dell'insieme dell'Unione, questa
sviluppa e prosegue la propria azione intesa a realizzare il rafforzamento della
sua coesione economica, sociale e territoriale. In particolare l'Unione mira a
ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni ed il ritardo delle
regioni meno favorite”.
Anzi: la base, in precedenza principalmente politico-economica, delle
deroghe in questione, ha trovato in questo modo un credibile supporto
giuridico, rammentando anche che l'art. 174, co. 2, specifica che “la Comunità
mira a ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni ed il ritardo
delle regioni meno favorite”. Qualora non fosse sufficiente il dato testuale del
Trattato sul funzionamento, potremmo richiamare, applicandola
scrupolosamente, la sentenza del 1999 Portogallo c. Commissione(98), e la
portata ermeneutica attribuita dalla Corte di giustizia alla coesione economica e
sociale in quanto obiettivo generale dell’Unione.
Sempre con riferimento a questa seconda dimensione, emerge un
ulteriore elemento quando l'art. 175 TFUE afferma che “l’Unione appoggia
questa realizzazione anche con l'azione che essa svolge attraverso i fondi a
finalità strutturale etc.”. Risulta, perciò, che lo sforzo indirizzato verso la
coesione economica e sociale si debba tradurre in una prospettiva a carattere
complessivo, all'interno della quale l'azione dei fondi strutturali è sì un
elemento centrale e determinante, ma non esclusivo.
Ciò che si deduce dalle valutazioni appena articolate è che, in linea di
principio, vi debba essere identità di obiettivi, anzi di obiettivo, tra la politica
(98) Corte giust., Portogallo c. commissione, 23 novembre 1999, C-149/96. In quella sede la Corte ha così statuito: “Le disposizioni controverse presentano un carattere programmatico, di modo che l'obiettivo della realizzazione della coesione economica e sociale deve essere il risultato delle politiche e delle azioni della Comunità nonché degli Stati membri”.
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regionale degli Stati, consentita nei limiti previsti dall'art. 107 TFUE e seguenti,
e la politica regionale comunitaria, ma non necessariamente identità di
strumenti o di mappe. Non si può tuttavia trascurare un elemento, quello che la
politica regionale comunitaria, attraverso i fondi strutturali, ambisce ad essere
non uno dei tanti strumenti, ma lo strumento comunitario, onnicomprensivo, per
la riduzione delle disparità regionali(99).
Senza procedere con argomentazioni di politica economica ma restando
saldamente legati al dato giuridico, si pone dunque la questione di quale sia la
giustificazione, appunto giuridica, per il fatto che, mentre per un'azione della
Comunità finalizzata all'obiettivo della coesione economica e sociale, certe
regioni sono meritevoli di attenzione, per un'altra azione della Comunità stessa
finalizzata al medesimo obiettivo, invece, le stesse regioni non lo sono. La
contraddizione è piuttosto evidente nel momento in cui nelle regioni ammesse
agli aiuti di stato a finalità regionale ma non al sostegno dei fondi, lo stato
membro interessato può, oltre che porre in essere veri e propri aiuti, anche
effettuare investimenti (come le infrastrutture) che non sono ascrivibili a tale
categoria. Nelle regioni ammesse invece al sostegno dei fondi, e quindi
beneficiarie di cofinanziamenti comunitari, ma non ammesse agli aiuti, questi
ultimi continueranno ad essere, in linea generale, vietati.
Risulta evidente un certo difetto di logicità, probabilmente dovuto alla
circostanza che il divieto di aiuti di stato e relative deroghe è nato prima della
politica regionale comunitaria e della coesione economica e sociale; di modo
che queste ultime vi si sono sostanzialmente sovrapposte senza che sia mai
intervenuto un coordinamento teorico. Difetto di logicità che potrebbe essere
giustificato secondo una risalente argomentazione della direzione generale della
(99) GILIOLI F., Op. cit.
- 110 -
concorrenza, per la quale, essendo gli obiettivi delle due politiche differenti,
anche i presupposti per individuare le aree interessate possono essere differenti.
Tale impostazione, tuttavia, condivisibile prima dell'atto unico europeo,
oggi è difficilmente accettabile, poiché, se si afferma che l'obiettivo della
coesione economica e sociale è alla base di entrambe le politiche, questo non
può che essere condiviso se non addirittura concertato. Diversamente,
dovremmo ammettere che il fine della politica di concorrenza sia sempre e
comunque solo la tutela della concorrenza stessa, e non anche il perseguimento
della coesione; e tuttavia le stesse deroghe al divieto di aiuti di Stato
consentono di porre dei limiti alla concorrenza, quindi l'opzione non sembra
credibile. Ecco allora che la tutela della sola concorrenza risulta centrale finché
la Commissione deve verificare esclusivamente che l'aiuto non incida sugli
scambi tra stati membri, decidendo di vietarlo o meno; quando però si tratta di
valutare le deroghe (in particolare quelle non automatiche), emerge chiaramente
che il legislatore comunitario aveva in mente altri obiettivi (si pensi al limite del
comune interesse citato dall'art. 107, § 3, lett. c).: è quindi più che plausibile,
per non dire certo, che alla base delle deroghe in tema di aiuti a finalità
regionale, ci sia come obiettivo quello del raggiungimento della coesione fra i
territori dell’Unione.
Oltre che nell'obiettivo della coesione, la base giuridica della coerenza è,
più in specifico, riscontrabile nel principio di concentrazione(100), il quale,
(100) Il riferimento alla concentrazione era più frequente nella regolamentazione della politica di coesione del 2006. Ciò non toglie che questo resti a fondamento anche delle regole che presiedono al ciclo 2007-2013, lumeggia in tal senso l’art. 4. del Reg. 1081/2006: “Gli Stati membri provvedono affinché le azioni sostenute dal Fondo siano coerenti con la strategia europea per l'occupazione e contribuiscano alle azioni avviate nel contesto di quest'ultima. Essi accertano in particolare che la strategia contenuta nel quadro di riferimento strategico nazionale e le azioni contenute nei programmi operativi promuovano gli obiettivi, le priorità e i traguardi della strategia in ciascuno Stato membro nel quadro dei programmi nazionali di riforma e dei piani d'azione nazionali per l'inclusione sociale. Gli Stati membri concentrano inoltre il sostegno, laddove il Fondo
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letto insieme all'art 175 TFUE, potrebbe finalmente ancorare la politica
regionale degli Stati membri alla politica regionale comunitaria. La
concentrazione, tuttavia, in quanto principio che specifica e attua la coesione, è
definita solo a livello di diritto derivato come concentrazione tematica su
obiettivi prioritari al fine di evitare una dispersione delle azioni, come
concentrazione geografica su regioni o zone maggiormente in difficoltà, come
concentrazione finanziaria nell’ambito della dotazione decisa dalla
Commissione per ciascun obiettivo prioritario al fine di destinare i
finanziamenti sulle regioni più arretrate. Non c’è in sostanza un richiamo
“costituzionale” nei Trattati alla concentrazione in se e per se, tale da garantire
una piena coerenza al “rapporto” fra fondi strutturali ed aiuti di Stato a finalità
regionale.
Questa coerenza “costituzionale” può invece essere riscontrata dalla
lettura congiunta di alcuni articoli dei due novellati Trattati: quello sull’Unione
europea (TUE) e quello sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). L'art.
3 TUE, come sappiamo, pone la promozione della coesione economica e
sociale tra i compiti della Comunità. L'art. 5 TUE introduce il principio di
sussidiarietà quale necessario parametro per l'esercizio delle competenze
concorrenti della Comunità stessa; l'art. 4 TUE prevede invece il principio di
leale collaborazione tra Stati membri e Comunità.
può contribuire alle politiche, sull'attuazione delle pertinenti raccomandazioni in materia di occupazione di cui all'articolo 128, paragrafo 4, del trattato, nonché dei pertinenti obiettivi della Comunità relativi all'occupazione in materia di inclusione sociale, istruzione e formazione. Gli Stati membri procedono in tal senso all'interno di un quadro di programmazione stabile. 2. Nell'ambito dei programmi operativi le risorse sono canalizzate dove la necessità è maggiore e si concentrano sui settori nei quali il sostegno del Fondo può contribuire significativamente al conseguimento degli obiettivi del programma. Per massimizzare l'efficacia del sostegno del Fondo, i programmi operativi tengono particolarmente conto, se del caso, delle regioni e delle località colpite dai problemi più gravi, quali le zone urbane svantaggiate e le regioni ultraperiferiche, le zone rurali in declino e le zone dipendenti dalla pesca, e quelle particolarmente colpite dagli effetti negativi delle delocalizzazioni di imprese…”.
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In primo luogo, occorre evidenziare il legame che unisce l'art. 3 TUE,
l'art. 4 TUE e gli articoli 174-175 TFUE. Seguendone l'ordine, emerge che la
realizzazione della coesione è compito dell’Unione (art. 3 TUE), che gli Stati
membri devono supportarla nell'adempimento dei suoi compiti (art. 4 TUE),
nonché astenersi dal prendere qualsiasi decisione che rischi di compromettere la
realizzazione degli scopi del Trattato (art. 4 TUE). L’Unione, poi, per
promuovere uno sviluppo armonioso nel suo complesso, deve sviluppare e
perseguire un'azione volta al rafforzamento della coesione economica e sociale
(art. 174 TFUE, comma 1), con particolare riferimento alla riduzione del
divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni e il ritardo delle regioni più
arretrate (art. 174 TFUE, comma 2): gli Stati membri, pertanto, devono
condurre e coordinare le loro politiche anche al fine di raggiungere questi
obiettivi, alla realizzazione dei quali devono compartecipare, oltre che tenerne
conto, nel contesto dell'elaborazione e attuazione delle politiche comunitarie, in
vista dell’'attuazione del mercato interno (art. 175 TFUE, comma 1).
L’Unione, inoltre, sempre ai sensi dell'art. 175 TFUE, deve perseguire
tale obiettivo anche attraverso l’utilizzo dei fondi strutturali e degli altri
strumenti finanziari disponibili, quindi tramite una politica specifica, la quale,
avendo dinanzi il contesto sopra delineato, integra ictu oculi un'azione di tipo
concorrente. Ecco quindi, ancora una volta nell’ambito della coesione, venire in
gioco il principio di sussidiarietà, che, come noto, richiede una duplice
valutazione: da un lato, che gli obiettivi dell’azione prevista non possano essere
adeguatamente realizzati dagli Stati membri e, dall'altro, che essi, a causa delle
dimensioni o degli effetti dell'azione stessa, possano essere meglio attuati a
livello comunitario (art. 5 TUE, comma 3).
Il disegno, piuttosto articolato, delineato dai novellati Trattati porta alla
- 113 -
diretta conclusione che la coesione economica e sociale deve essere perseguita,
parallelamente e contestualmente sia dall’Unione che dagli Stati membri, e che
la prima debba inoltre supportare i secondi in ossequio al principio di
sussidiarietà. L'armonizzazione, in termini concreti e giuridicamente
ineccepibili, di tutto ciò, ossia la sua reductio ad unum, non può avvenire se
non tramite il principio di concentrazione, inteso come espressione e
applicazione specifica della sussidiarietà.
Difatti se la coesione è obiettivo dell’Unione e quindi anche degli Stati,
che vi devono contribuire sia in base al principio di leale collaborazione, sia in
base all'art. 175 TFUE, è chiaro che l'azione in questo ambito dell’Unione deve
manifestarsi sia attraverso le sue varie politiche ed azioni, sia attraverso
l'utilizzo dei fondi strutturali, nei limiti in cui ciò sia necessario e giustificato
secondo il principio di sussidiarietà. La politica di coesione, perciò, deve
intervenire solo laddove l'azione degli Stati non sia sufficiente a centrare tale
obiettivo e, aggiungiamo, anche quando le altre politiche dell’Unione non siano
a loro volta idonee e adeguate: resta inteso però che la coesione, è pur sempre
una, e così il suo oggetto, indipendentemente dalla provenienza o dalla natura
degli strumenti adottati, essendo un obiettivo sotteso all’esistenza stessa
dell’Unione e quindi scopo istituzionale di quest’ultima, ed indirettamente degli
Stati membri che la animano.
Gli Stati, d'altronde, non possono liberamente intervenire per gli
obiettivi di cui agli articoli 3 TUE e 174 TFUE, poiché rischierebbero di violare
le norme in materia di concorrenza: ecco allora che le deroghe ex art. 107
TFUE §3, lett. a) e c), consentono loro di realizzare, previa valutazione positiva
della Commissione, una più efficace e coordinata azione a vantaggio delle
proprie regioni e quindi della coesione nel suo complesso. Tali deroghe, perciò,
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andranno interpretate come strumenti atti a consentire, nel rispetto dei principi
di leale collaborazione e di sussidiarietà, il perseguimento della coesione
economica e sociale da parte degli Stati membri, come loro imposto dall'art.
159 TFUE(101).
Il principio di concentrazione, allora, si configura come espressione del
principio di sussidiarietà, difatti l’Unione, nel momento in cui interviene con
una politica di sostegno strutturale, deve supportare gli Stati laddove la loro
azione non sia adeguata e si renda perciò necessario un intervento a livello
comune, vale a dire nelle regioni in ritardo di sviluppo o comunque
svantaggiate, che devono in ogni caso rientrare tra quelle oggetto degli
interventi nazionali e dell'art. 107, § 3, lett. a) e c).
Tra l'altro, una lettura delle deroghe al divieto di aiuti di Stato in chiave
di coesione economica e sociale, e perciò la riconduzione, rafforzata dal
principio di concentrazione, di queste ultime e della politica di coesione
(almeno nella sua componente regionale) ad una comune ratio, ci consente
anche di riconciliare le diverse “anime” dell’ordinamento comunitario,
allontanando il pericolo di una certa illogicità dello stesso.
Possiamo così individuare una doppia responsabilità, degli Stati e della
Commissione, pretesa dall'art.159 TFUE e da quanto si è espresso finora, a
concentrare, per quanto possibile, le rispettive azioni sugli stessi territori,
secondo modalità convergenti, tipiche dello stesso concetto di coesione, senza
perciò pretendere che l’Unione stanzi somme sufficienti per beneficiare con i
suoi fondi strutturali tutte le regioni e i territori destinatari delle politiche
regionali degli stati membri; anzi, l'art. 176 TFUE assegna al FESR il compito
di contribuire alla correzione dei principali squilibri regionali (ulteriore
(101) GILIOLI F., Op. cit.; SPATRI O., Le politiche per lo sviluppo tra diritto interno e diritto comunitario, Torino, 2002.
- 115 -
manifestazione della concentrazione, nell'ottica della sussidiarietà comunitaria),
e non di qualsiasi squilibrio(102).
Dunque mentre il principio di sussidiarietà sarebbe la chiave di volta per
l’attuazione della politica di sviluppo regionale europea attraverso un
procedimento comunitario complesso, che si è analizzato nel capitolo II, e che
ci conduce verso la definizione di un sistema di governo multilivello, lo stesso
principio assumerebbe una connotazione diversa nel momento in cui si analizza
il rapporto fra politica regionale europea e quella dei singoli Stati membri,
segnatamente in funzione del loro principale strumento di intervento, vale a dire
gli aiuti a finalità regionale.
Se infatti riconosciamo che la coesione può essere solo una, seppur nelle
sue molteplici sfaccettature, non possiamo prescindere dal ricercare coerenza e
coordinamento tra gli strumenti disponibili, il che, come visto, sarebbe
perfettamente consentito anche dall’applicazione rigorosa dei Trattati.
Tale coordinamento sarebbe senz’altro agevolato dalla contestuale e
congiunta individuazione delle aree ammesse agli aiuti a finalità regionale e di
quelle ammesse al sostegno dell'azione territoriale dei fondi strutturali. In
secondo luogo, mentre è plausibile ed accettabile che, in base al principio di
sussidiarietà, alcune aree non ammesse al sostegno dei fondi siano invece
ammesse agli aiuti a finalità regionale, pare giuridicamente insostenibile il
contrario. Come potrebbero, infatti, gli Stati indirizzare e coordinare la loro
politica verso il raggiungimento del comune scopo della coesione qualora la
Commissione impedisse loro di dispiegare l'azione della propria politica a
favore di aree che la Commissione stessa ha reputato includersi tra i principali
squilibri?
(102) Sul tema cfr MANZELLA G. P., La nuova politica regionale europea, in Rivista giuridica del Mezzogiorno, n. 1, 2007.
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4. I limiti della coerenza negli Orientamenti sugli aiuti a finalità regionale
I nuovi orientamenti della Commissione sugli aiuti di Stato a finalità regionale
(2006/C54/08) del marzo 2006 rappresentano un passaggio controverso sulle
questioni in analisi, se da un lato infatti sembrano rafforzare la coerenza e
concentrazione degli strumenti disponibili nell’ambito della politica di
coesione, dall’altro introducono profili di incertezza e contraddittorietà.
Innanzi tutto e finalmente i nuovi Orientamenti riconoscono in maniera
chiara il legame tra gli aiuti regionali, che si caratterizzano, rispetto ad altre
forme di aiuti orizzontali, per la loro specificità regionale, e la coesione:
“Poiché sono volti a colmare gli svantaggi delle regioni sfavorite, gli aiuti di
stato a finalità regionale promuovono la coesione economica, sociale e
territoriale degli stati membri e dell'Unione europea nel suo complesso”. Lo
stesso principio di concentrazione vi trova spazio in modo definitivamente
chiaro: “Gli aiuti a finalità regionale possono svolgere un ruolo efficace solo se
utilizzati in modo parsimonioso e proporzionato e se concentrati nelle regioni
più svantaggiate dell'Unione europea”, mentre è mantenuto fermo il principio
della compensatory justification.
La coerenza sembra dunque essere finalmente codificata in maniera
solenne ed in effetti gli orientamenti in tema di aiuti di stato a finalità regionale
2007-2013 sono stati elaborati prestando grande attenzione ai regolamenti in
materia di politica di coesione per lo stesso ciclo e con uno spiccato sforzo di
coordinamento.
Le regioni ammissibili alla deroga ex art. 107, § 3, lett. a), vengono
confermate come quelle aventi un reddito pro-capite, calcolato in base al p.i.l.,
inferiore al 75 % della media comunitaria, analogamente all’obiettivo
convergenza. La Commissione, inoltre, aggiunge: “Onde garantire la maggiore
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coerenza possibile tra la designazione delle regioni ammissibili alla deroga
prevista dall'articolo 107 TFUE, paragrafo 3, lettera a) nel quadro dei presenti
orientamenti e le regioni ammissibili all'obiettivo della convergenza nel quadro
delle norme relative ai fondi strutturali, la Commissione ha utilizzato il
medesimo p.i.l. pro capite per designare le regioni ex articolo 107, paragrafo
3, lettera a) e le regioni della convergenza ai sensi della normativa sui fondi
strutturali”. A ciò si aggiunga che sono fatte rientrare in tale deroga, a
prescindere dal livello del p.i.l., le regioni ultraperiferiche, anch'esse oggetto del
primo obiettivo dei fondi; inoltre, secondo quanto già contemplato nel nuovo
regolamento generale sui fondi, è previsto uno specifico regime transitorio per
le regioni soggette al penalizzante c.d. “effetto statistico”.
Anche per le regioni ammissibili alla deroga ex art. 107, § 3, lett. c), è
sottolineato il principio della concentrazione geografica(103), oltre alla
necessità che esse siano oggetto di una ben specifica politica regionale
nazionale: in pratica, dal 2007 vi è una forte riduzione dei territori assisiti in
base a tale deroga, analogamente a quanto si verifica per i fondi specifici
dell'obiettivo competitività e occupazione della politica di coesione; emerge
però chiaramente che mentre vi è una sostanziale corrispondenza territoriale tra
le aree dell’obiettivo convergenza e le aree individuate come destinatarie di
(103) Per stimare quanti cittadini europei potranno beneficiare della deroga ex art. 107, par. 3, lett. c), si consideri che le regioni interessate dalla deroga ex art. 107,par 3, lett. a) riguardano il 27.7 % della popolazione comunitaria, cui va aggiunto il 3,6 % delle regioni interessate dall'effetto statistico. Le due categorie rientranti direttamente nella seconda de- roga corrispondono al 4,0 % della popolazione, mentre le altre regioni ammissibili all'art.. 107, par 3, lett. c), sono determinate in base ad un complesso calcolo, che tiene conto del p.i.l. pro capite, del tasso di disoccupazione, ma anche delle aree che, nello Stato membro interessato, rientrano nell'art. 87, par 3, lett. a), posto un limite totale del 42% della popolazione comunitaria (si vedano i dati richiamati negli ultimi Orientamenti in materia di aiuti di stato a finalità regionale, specie l'allegato IV). Per l'Italia, la popolazione ammissibile alla seconda deroga, il 3,9 %, è inferiore alla media comunitaria, a causa della ingente percentuale di popolazione ammissibile alla prima deroga (29,2 %, oltre all'1 % nell'ambito dell'effetto statistico): in totale, potrà essere interessata agli aiuti a finalità regionale il 34,1 % della popolazione italiana.
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aiuti in deroga ex art 107 TFUE § 3 lett. a), lo stesso non può dirsi in questa
seconda situazione.
L’autonomia lasciata agli Stati membri nella scelta delle regioni da so-
stenere è difatti assai ridotta, mentre l’obiettivo competitività è stato
sostanzialmente “deterritorializzato”(104). In tema di aiuti, infatti, sono fissati
criteri stringenti che non si riscontrano nei regolamenti dedicati ai fondi
strutturali; da un lato, il principio di concentrazione porterebbe a procedere di
pari passo sui due fronti, dall'altro, però, una simile scelta implicherebbe, in
sostanza, di interpretare le disposizioni di un regolamento in conformità ad un
atto formalmente non vincolante (una comunicazione), emanato dalla
Commissione in un ambito e per una finalità diversa, il che, dal punto di vista
giuridico, è senz’altro inaccettabile.
Risulta dunque che per le regioni dell’obiettivo competitività e
occupazione la situazione sia proprio l’opposto di quella che si prospettava
come auspicabile ed in linea con le previsioni del Trattato in tema di coerenza
fra strumenti al servizio della coesione economico sociale: vale a dire, rendere
le aree supportate dai fondi strutturali un sottogruppo di quelle ammissibili agli
aiuti a finalità regionale. Nel nuovo sistema, infatti, mentre vi è coincidenza tra
regioni dell'obiettivo convergenza e regioni dell'art. 107, § 3, lett. a), l'obiettivo
competitività riguarda, al contrario, territori più estesi di quelli ex art. 107, § 3,
(104) Da un lato, difatti, vi è il limite complessivo per le due deroghe del 42% della popolazione comunitaria; dall'altro, vi sono alcune regioni che vengono automaticamente fatte ricadere nella deroga in questione, e cioè: quelle che, pur essendo state ricomprese dagli orientamenti del 1998 nell'art. 107 TFUE, par. 3, lett. a), non beneficiano dell'effetto statistico (le c.d. regioni dello “sviluppo economico”); le regioni a bassa densità di popolazione, che nell'ambito dei fondi strutturali sono interessate dall'obiettivo convergenza. Effettuate tutte le sottrazioni necessarie, la cifra rimanente è divisa tra gli Stati membri, secondo un complesso calcolo illustrato nell'allegato IV degli orientamenti. A fini di trasparenza e per evitare distorsioni della concorrenza contrarie al comune interesse, i paragrafi 30 ss. degli orientamenti fissano specifici criteri per l'individuazione, da parte degli Stati, delle aree ammissibili alla deroga.
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lett. c), così come individuati dalla Commissione negli esaminati orientamenti.
Dunque almeno limitatamente alle regioni dell’obiettivo competitività
l’applicazione del criterio della coerenza sembrerebbe essere lasciato ad una
analisi discrezionale degli Stati membri e quindi parzialmente depotenziato; ciò
però non deve condizionare l’ulteriore spinta, almeno in termini di
impostazione generale, che la Commissione ha dato con il Regolamento di
esenzione 1628/2006, poi racchiuso in quello di esenzione generale 800/2008,
attraverso il quale la Commissione ha sottratto all’obbligo di notificazione gli
aiuti a finalità regionale che rispettano la carta approvata dalla stessa. Difatti il
regolamento nel riconoscere l’esenzione ai soli regimi trasparenti di aiuti per
investimenti a finalità regionale (vale a dire quelli per i quali è possibile
calcolare l'equivalente sovvenzione lordo in percentuale della spesa ammissibile
senza dovere effettuare una valutazione di rischio ex art. 2, lett. i), conferma in
maniera espressa il legame tra aiuti regionali e coesione: “Essendo volti a
sopperire alle carenze delle regioni svantaggiate, gli aiuti di stato a finalità
regionale promuovono la coesione economica, sociale e territoriale degli stati
membri e della comunità nel suo complesso” (3° considerando).
Inoltre il fatto che la durata del Regolamento sia parametrata a quella
della programmazione dei fondi strutturali, vale a dire fino al 2013, ciclizza
ancora di più l’utilizzo di questo strumento, avvicinandolo ulteriormente ai
fondi stessi. Il terzo e più significativo aspetto consiste nell'aver disciplinato
con un atto di natura normativa la materia degli aiuti regionali e nell'aver
definito criteri specifici da seguire per gli Stati nella loro gestione. E’ infatti
evidente che la Commissione, nel momento in cui esenta alcuni aiuti dal regime
di notificazione preventiva, non detta esclusivamente una regola
procedimentale, ma propone anche un giudizio di merito, con una chiara
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indicazione agli Stati sulla tipologia di aiuti da porre in essere in via
preferenziale, per l’appunto quelli trasparenti. La disciplina degli aiuti in deroga
assume in questo modo una fisionomia molto più delineata in positivo e, in
definitiva, meno soggetta agli apprezzamenti discrezionali della
Commissione(105).
Alla luce di quanto sopra, e come già chiarito, non possiamo non
considerare la coesione economica e sociale quale base della disciplina degli
aiuti regionali: il ruolo “costituzionale” di obiettivo dell’Unione, da questa
ricoperto, è ora ribadito anche negli atti concernenti gli aiuti a finalità regionale.
La ricerca della coerenza tra le due azioni, nonostante la complessità e le
spinte centrifughe che ne contraddistinguono l’attuazione, dimostra sempre più
questa ispirazione unitaria; il principio di concentrazione, poi, anch'esso
desumibile dalle disposizioni degli stessi Trattati, fornisce un ulteriore, solido,
fondamento ad argomentazioni che, diversamente, potrebbero essere facilmente
accusate di astrazione.
Di fronte ad un quadro così articolato, riveste, in particolare,
un'importanza strategica l'azione degli Stati: spetta loro, difatti, rendere effettiva
l'azione convergente della politica di coesione e degli aiuti a finalità regionale,
garantendone in questo modo la coerenza. In tal senso, significativa è la scelta
assunta dal nostro Paese, nel dicembre 2006, con l'adozione del Quadro
strategico nazionale per il settennio 2007-2013 della politica di coesione(106):
quale termine e coronamento di un percorso di convergenza iniziato da anni, è
stata formalmente unificata la programmazione della politica regionale
nazionale e di quella comunitaria; è questo, senz’altro, un ulteriore passo verso
(105) GILIOLI F., Op. cit. (106) Ministero dello sviluppo economico – Dipartimento per le politiche di sviluppo e di coesione, Quadro strategico nazionale per la politica regionale di sviluppo 2007-2013, adottato il 22 dicembre 2006.
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il definitivo affermarsi di una coerenza che, del resto, è già codificata da tempo
nella costituzione europea.
5. La sintesi tra politica regionale comunitaria e politica regionale italiana:
il Quadro strategico nazionale(107)
In Italia è senz’altro la Costituzione ad introdurre il concetto di coesione sociale
stabilendo con il novellato articolo 119 comma 5 la possibilità per lo Stato di
intervenire al fine di “promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la
solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali”(108). Tale
(107) Così il Qsn italiano 2007-2013 in apertura della sezione dedicata proprio alla coerenza e complementarietà della politica regionale con le politiche nazionali e comunitarie. “Gli Orientamenti Strategici Comunitari, previsti per la prima volta dai nuovi Regolamenti sui Fondi strutturali, riflettono la volontà di attribuire un approccio strategico alla Politica di Coesione per il 2007-2013 e di renderla funzionale alle priorità dell’intera Unione. Questa scelta, che mira ad accrescere l’efficacia e la visibilità della politica di coesione, riflette anche la richiesta, fatta dall’Italia sin dal I Memorandum230 sul futuro della politica di coesione, di rendere più forte ed esplicito l’indirizzo di tale politica come strumento per accrescere la competitività dell’Unione Europea. L’unitarietà programmatica realizzata contribuisce, inoltre, a rafforzare gli obiettivi e le priorità strategiche fissate a livello europeo dagli Orientamenti stessi e dalle Agende di Lisbona e Goteborg. Gli obiettivi di coesione economica, sociale e territoriale e di competitività territoriale, nonché le azioni per perseguirli, diventano, infatti, comuni alle due politiche. Gli elementi fondanti della strategia, realizzata con risorse comunitarie e nazionali, e diretta a coniugare gli obiettivi di riduzione dei divari territoriali con gli obiettivi di crescita dell’Unione nel suo complesso, da un lato, riconoscono quindi, il ruolo indispensabile, per quanto complementare, della politica di coesione per la competitività ed equità del sistema europeo nel suo complesso e, dall’altro, assumono quelle sinergie con l’Agenda di Lisbona che sono anche condizioni di successo per la stessa politica di coesione. È questa impostazione, basata sul riconoscimento di una correlazione biunivoca tra coesione e crescita, della quale la tensione verso il rafforzamento della competitività costituisce l’elemento unificante, che ha guidato l’impegno dell’Italia, in primo luogo già nella revisione di metà periodo della programmazione 2000-2006 e, successivamente, nell’azione svolta per la riforma della politica di coesione”. (108) Il principio di riequilibrio economico-finanziario appartiene alla nostra Costituzione; la sua concreta applicazione è disciplinata dal Titolo V, parte seconda, del testo costituzionale, in particolare agli artt. 116, 117, 119 e 120, così come modificati dalla legge costituzionale 18 Ottobre 2001 n. 3. Il nuovo art. 119 riformula il sistema di finanziamento degli enti territoriali, con l’intento di rafforzarne l’autonomia finanziaria. La struttura del novellato articolo, configura un preciso modello normativo che presenta tre articolazioni fondamentali. La prima, oggetto dei primi quattro commi, delinea la modalità di finanziamento delle attività degli enti territoriali. La seconda, comma 5 dell’articolo, specifica un’attività di intervento finanziario dello Stato a integrazione delle risorse ordinarie degli enti territoriali. Essa è riferita in ultima analisi a finalità di solidarietà e di
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principio è dettato dalla conformazione territoriale del Paese, nel quale sono
evidenti grandi disparità a livello socio economico tra le aree più sviluppate e
quelle che presentano maggiori criticità ed arretratezza.
In questa direzione il sistema di governo policentrico che si è andato
formando, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, ha
comportato una progressiva traslazione di responsabilità in capo alle autorità
regionali, in ossequio a quel principio di sussidiarietà che, come visto,
caratterizza l’intero impianto della politica europea di sviluppo regionale(109).
In Italia, il complesso della politica di sviluppo si è andato articolando in
due distinte componenti una nazionale o ordinaria, l’altra più spiccatamente
regionale: entrambe hanno ad un tempo respiro strategico nazionale e attenzio-
ne all'articolazione territoriale, ed entrambe possono essere gestite tanto a
livello statale che regionale: la differenza risiede nella finalità e nell'origine
delle risorse finanziarie che le sostengono.
La finalità della politica ordinaria di sviluppo sta nell'assicurare, per
ogni livello di governo e compatibilmente con il vincolo delle pubbliche
finanze, il massimo benessere e le migliori condizioni di contesto possibili,
trascurando le differenze nei livelli di sviluppo; la politica ordinaria agisce,
quindi, come se tutti i territori interessati fossero caratterizzati da condizioni
ordinarie.
sviluppo che integrano e si aggiungono, ma non certo sostituiscono, quanto è previsto a salvaguardia dei diritti fondamentali garantiti nei commi precedenti. La terza articolazione, comma 6, regola, tra l’altro, con norma generale la capacità di indebitamento ‘autonoma’ degli enti territoriali limitandola alle spese di investimento. (109) E’ certamente solo con la complessiva rielaborazione del Titolo V della Costituzione, avvenuta con le due leggi costituzionali 1/99 e 3/01 che può dirsi effettivamente compiuto quel processo riformatore iniziato con la legge Bassanini. Non c’è dubbio che le due leggi, appena citate, non solo abbiano dato piena attuazione alla riorganizzazione amministrativa della Repubblica, ma abbiano fornito un contributo essenziale per una diversa distribuzione delle competenze legislative fra i vari livelli di governo in ossequio al principio di sussidiarietà.
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La finalità della politica regionale di sviluppo, o unitaria, nasce al
contrario dalla piena considerazione delle differenti condizioni dei territori,
ossia delle diversità regionali di sviluppo: tale politica è quindi rivolta a
garantire che gli obiettivi di competitività siano conseguiti da tutti i territori,
anche da quelli che presentano squilibri economico-sociali, ritardi o situazioni
di crisi legate alla perdita di vantaggi comparati.
Sulla base di questa distinzione è quindi comprensibile come, con il
concetto di politica regionale unitaria, venga indicato quell'insieme di politiche
di sviluppo disposte attraverso il coordinamento tra le Amministrazioni centrali
e finalizzato al superamento delle disparità economico-strutturali all’interno del
territorio nazionale.
La politica regionale unitaria è quindi tesa a pianificare l'impiego degli
strumenti di programmazione e gli aiuti finanziari ed il loro coerente
coordinamento: per politica regionale si intende quella parte della politica per lo
sviluppo rivolta alla coesione, al riequilibrio economico-sociale, alla
competitività di specifici territori. La politica regionale è quella parte della
politica di sviluppo che si aggiunge all'azione ordinaria condotta sia dal centro
sia dalle regioni; essa si distingue dalla politica ordinaria di sviluppo per
finalità e per origine delle risorse finanziarie che la alimentano.
E’ dunque all’interno della politica regionale di sviluppo che i diversi
strumenti di finanziamento devono trovare un loro coordinamento in funzione
di obiettivi coerenti gli uni con gli altri: è questo il tema rilevante della coerenza
fra fondi strutturali ed aiuti di stato a finalità regionale; coerenza che secondo il
modello prospettato in questa ricerca viene anch’essa garantita
dall’applicazione del principio di sussidiarietà accompagnato da un modello
gestionale di tipo partenariale.
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Alla luce di quanto sopra risulta evidente che la politica regionale, per
poter essere efficace, non solo debba essere pienamente distinta sul piano
finanziario e programmatico dalla politica ordinaria (a garanzia della sua
aggiuntività), ma debba al contempo essere fortemente integrata con questa
attorno a comuni obiettivi di competitività.
Queste finalità sono peraltro perfettamente compatibili con gli
orientamenti della politica di coesione comunitaria, dove il conseguimento della
competitività regionale costituisce un passaggio determinante, sul quale è
importante concentrare non solo gli sforzi degli attori interessati alla politica
regionale ma anche una serie di strumenti e politiche innovative, in un’ ottica di
rafforzamento del ruolo dell'Europa e delle sue istituzioni; significativo in tal
senso sembra essere l'intervento della Commissaria per la Politica regionale,
Danuta Hubner, quando afferma che “la Politica di coesione nel quadro del
sistema di governance economica dell'Ue, non rappresenta uno strumento
ridistribuivo, ma favorisce la diversificazione delle economie locali e
contribuisce a stabilizzare la performance della zona dell'Euro attraverso il
sostegno all'aggiustamento strutturale su scala regionale” .
In relazione a tali orientamenti ed indicazioni, la programmazione della
politica regionale per il 2007-2013 assume indirizzi strategici unitari, sia per
quanto riguarda la coerenza nell'ambito dei diversi documenti di
programmazione, che per quanto riguarda le fonti finanziarie che la supportano,
assicurando l'unitarietà, sia in fase di programmazione, sia in fase attuativa,
della politica regionale realizzata con fondi comunitari o nazionali e
perseguendo la coerenza fra politica regionale e politica ordinaria per lo
sviluppo: di tutto ciò se ne dà attuazione tramite i documenti di
programmazione dei diversi livelli di governo, nei loro atti strategici
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cooperativi e monitorandone i distinti valori finanziari, sia negli impegni giu-
ridici, sia nella spesa(110).
Ecco quindi emergere la necessità di inserire tale programmazione
all'interno di un documento, che funga da raccordo tra gli orientamenti
comunitari e quelli della politica regionale: tale livello intermedio è costituito,
come già accennato, dal Quadro strategico nazionale (Qsn) che si sviluppa con
lo scopo di rendere pienamente coerente e compatibile la politica regionale di
sviluppo con quella comunitaria di coesione. Ciò anche nell'osservanza delle
Linee guida comunitarie, dove è espressamente previsto che il Quadro
strategico nazionale (Qsn) debba riferirsi ad entrambe le politiche; avendo
quest’ultimo il compito di tradurre le strategie nazionali degli Stati membri in
un approccio programmatico strategico e di sviluppare un raccordo organico
con la Politica di coesione comunitaria, definendo così da un punto di vista
operativo le indicazioni e gli indirizzi previsti dal Regolamento generale sui
fondi strutturali.
In relazione all'integrazione tra i due livelli di programmazione è
necessario prevedere anche specifiche ed adeguate risorse finanziarie,
comunitarie e nazionali, da destinare alla politica regionale. Oggi questa risulta
infatti finanziata da risorse aggiuntive, comunitarie e nazionali, provenienti
rispettivamente, dal bilancio europeo e dal bilancio nazionale, come
(110) II percorso per attuare e realizzare una politica regionale unitaria, in grado di mettere a sistema e guidare sia le politiche regionali, che quelle comunitarie e nazionali, è stato avviato nella fase di definizione della nuova programmazione 2007-2013. Il processo di programmazione ha comportato un confronto tra Unione Europea, Stato e regioni che si è formalmente concluso nella predisposizione del Qsn; la predisposizione di questo documento ha comportato l'attuazione di un percorso di pianificazione, sviluppatosi sulla base dei nuovi orientamenti comunitari e del rinnovato slancio dato alla Politica di coesione: ciò ha permesso una generale semplificazione e convergenza della governance delle due politiche, a cominciare dalle strutture amministrative preposte in ogni Amministrazione, ridefinendo quindi i ruoli e gli impegni dei diversi livelli di governo.
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dimostrato dal Quadro Strategico Nazionale che comprende, oltre alle risorse
previste per i Fondi strutturali comunitari, anche le risorse del Fondo aree
sottosviluppate (Fas) e le risorse ordinarie «convergenti», allo scopo di
configurare un quadro unitario della Politica di coesione comunitaria e della
Politica di coesione nazionale. Dette priorità ed elementi vengono inoltre
correlati, all'interno del Qsn, anche con quei criteri di proporzionalità, propri
delle altre politiche che operano nel territorio nazionale (dalla politica di
sviluppo rurale alla politica nazionale, ad esempio, per le opere pubbliche
inerenti ai Trasporti).
Il Qsn pur rimanendo un documento programmatico unitario, origina
meccanismi attuativi distinti, ma coordinati, volti a favorire una migliore
integrazione con le politiche regionali: una parte “comunitaria”, cofinanziata
dai Fondi ed attuata attraverso i Programmi operativi regionali, nazionali ed
interregionali, nonché soggetta alla verifica vincolante della Commissione, e
una parte nazionale, cofinanziata dal Fas e da altri strumenti agevolativi,
approvata dal Cipe e dalla Conferenza Stato-regioni; analogamente, le strategie
di sviluppo sono articolate in una componente comunitaria e in una componente
regionale nazionale(111).
(111) Per attuare la strategia generale della politica regionale di coesione unitaria il processo di programmazione, oltre ad avere seguito l'iter previsto dalle linee guida, si è sviluppato e delineato secondo Ia seguente articolazione: a) il livello di programmazione della strategia specifica (territoriale e/o settoriale) della politica regionale unitaria: a questo livello é associata, per ogni Amministrazione centrale e regionale che partecipa al processo, la definizione delle modalità con cui si concorre agli obiettivi generali e all'individuazione delle priorità del Qsn. A queste ultime si rifanno i fondi comunitari (in modo che i singoli Programmi operativi siano distinguibili, al livello di dettaglio richiesto dai relativi Regolamenti) e le altre risorse della politica regionale di coesione unitaria (parimenti esplicitando la destinazione programmatica delle risorse Fas); b) il livello della condivisione istituzionale delle priorità, degli obiettivi, degli strumenti e delle responsabilità nell'ambito dell'Intesa istituzionale di programma: che definisce, anche tenendo in considerazione la programmazione comunitaria, le priorità da conseguire in ambito di cooperazione istituzionale Stato-regione e/o fra più regioni; le modalità e le regole di cooperazione istituzionale; le specifiche responsabilità attuative e i conseguenti strumenti di attuazione della politica regionale unitaria.
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In considerazione dei meccanismi e delle interazioni sopra brevemente
descritte, appare evidente che il nuovo periodo di programmazione intende
contribuire a consolidare anche un processo di riforma nella pubblica
amministrazione italiana, per quanto riguarda la programmazione e l'attuazione
delle politiche di sviluppo territoriale. L'unificazione della strategia che guida la
politica regionale, comunitaria e nazionale, consentirà di dare la scala e la cer-
tezza necessarie al conseguimento degli obiettivi delineati dalla Politica di
coesione. Infatti, l'unificazione delle due componenti della politica regionale,
quella comunitaria e quella nazionale, all'interno del Quadro strategico
nazionale consente non solo di dare piena attuazione alla programmazione
generale, ma anche di dare una maggiore coerenza a tutti gli atti centrali e
regionali previsti nella programmazione operativa, sia per quanto riguarda l'u-
nitarietà delle responsabilità di attuazione, che per quanto riguarda ogni livello
di governo(112).
(112) Nell'ambito della programmazione strategica territoriale e/o settoriale, ogni amministrazione centrale e regionale che partecipa al processo definisce le priorità con cui concorre agli obiettivi generali con le sue fonti finanziarie aggiuntive, e le modalità con cui intende attuare i requisiti fissati dal Qsn A tal fine ogni regione è chiamata a definire, ove mancante, un documento unitario di programmazione della Politica regionale di sviluppo (Prs). A sua volta, ciascuna Amministrazione centrale che concorre al conseguimento degli obiettivi della politica regionale, indipendentemente dal fatto che sia titolare di programmi operativi, redige uno specifico documento strategico, eventualmente all'interno deI proprio piano o programma, dove definisce le priorità e le modalità con cui concorre, in primo luogo nell'ambito della politica ordinaria di propria responsabilità, alla politica regionale di sviluppo. Si tratta di un percorso articolato, basato sul confronto tra i vari soggetti istituzionali coin-volti, che comporta la predisposizione dei seguenti documenti di programmazione: a) Documento strategico preliminare nazionale (Dspn): in base alle “Linee Guida”
approvate da Stato centrale, regioni ed enti locali con intesa della Conferenza Unificata del 3/2/2005 e alla successiva delibera Cipe n. 77/2005, dodici Amministrazioni centrali incaricate, raccolte in un Comitato coordinato dal MISE – Dipartimento per le Politiche di sviluppo e coesione, hanno predisposto, attraverso valutazioni tecniche e un confronto con le parti istituzionali, economiche e sociali, il Documento strategico preliminare nazionale (Dspn). Assieme ai Documenti strategici predisposti dalle singole regioni e al Documento strategico per il Mezzogiorno, predisposto dalle otto regioni del Sud, il Documento ha avuto il compito di veicolare il confronto tecnico e amministrativo per la predisposizione del Qsn 2007-2013. Anticipando in parte i contenuti successivamente formalizzati nel Qsn, il Dspn
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Proprio l’attuazione di una politica regionale nazionale attraverso un
modello sostanzialmente partenariale nell’individuazione e successiva
attuazione delle priorità strategiche dei singoli territori interessati rappresenta
individua diagnosi e scenari, determina continuità e discontinuità da perseguire rispetto all'esperienza 2000-2006, fissa nove priorità e delinea la dimensione ter-ritoriale delle politiche, riportandole ai sistemi urbani, ai sistemi produttivi locali e ai sistemi rurali:
b) Documento strategico del Mezzogiorno (Dsm), il quale si concentra sugli elementi più collettivi e comuni della strategia di sviluppo delle regioni meridionali, fornendo anche indicazioni sugli strumenti e su alcune regole e criteri comuni per l'attuazione delle singole strategie regionali e proposte comuni per l'interlocuzione ed il confronto con le amministrazioni centrali. Il Dsm individua priorità ed opportunità, nonché ambiti di progettualità interregionale. I contenuti essenziali del Dsm sono: 1) le grandi questioni di contesto: economia, società, ambiente, infrastrutture e amministrazione; 2) il quadro finanziario delle politiche 2000-2006; 3) le lezioni apprese e l'impostazione della programmazione 2007-2013; 4) gli obiettivi comuni e le proposte per l'impostazione della programmazione futura nel 2007-2013; 5) proposte per il rafforzamento della capacità dell'amministrazione e un governo efficace dell'attuazione delle scelte.
c) Documenti strategici preliminari regionali (Dspr): i Documenti Strategici prodotti dalle Amministrazioni regionali, nell'ambito del processo di definizione del Quadro strategico nazionale, sono documenti programmatici: hanno anch'essi il compito di dare attuazione alle strategie degli orientamenti comunitari, assicurando una corretta integrazione con le componenti regionali e nazionali. Per ogni regione la strategia della politica regionale unitaria esplicita ed evidenzia i seguenti temi: 1) un'analisi del contesto e dello scenario regionale; 2) un'analisi del processo di programmazione in corso e dello sviluppo della governance nel periodo di programmazione 2000-2006; 3) le finalità strategiche e gli obiettivi generali della politica regionale di coesione unitaria, con particolare riferimento alle priorità delle Strategie di Lisbona e di Giiteborg nonché con gli orientamenti strategici previsti per la Politica comunitaria di coesione; 4) e modalità previste per il coinvolgimento del partenariato istituzionale e socioeconomico; — le scelte programmatiche in atto; 5) gli obiettivi della strategia di coesione e competitività regionale per il 2007-2013; 6) le priorità di intervento e ove possibile, gli obiettivi specifici per il cui conseguimento si individuano come necessari e/o opportuni livelli di cooperazione istituzionale verticali e/o orizzontali; 7) l'integrazione finanziaria, ovvero il quadro di programmazione finanziaria unitario delle risorse che concorrono al conseguimento degli obiettivi della politica regionale di coesione, secondo modalità che rendano distinguibile, rispetto alle priorità di intervento, il contributo e la conseguente programmazione finanziaria dei singoli Programmi operativi; 8) l'integrazione programmatica attraverso un'indicazione delle modalità e dei criteri di individuazione previsti per gli specifici strumenti di attuazione; 9) l'integrazione della politica regionale di coesione con quella nazionale e comunitaria e con le politiche nazionali di settore e di rete; 10) la governance e il miglioramento delle capacità istituzionali attraverso l'individuazione delle modalità di attuazione ovvero delle regole e delle procedure nonché delle eventuali misure organizzative e di governance necessarie per l'attuazione dell'insieme della politica regionale di coesione; 11) il partenariato, la sussidiarietà, il decentramento, i dispositivi di attuazione.
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un possibile percorso di riferimento per l’uso coerente dei fondi comunitari
rispetto agli interventi strutturali di portata regionale concessi sotto forma di
aiuto. Ed ancora, è proprio il richiamato principio di concentrazione che infatti
può trovare una sua esemplare attuazione nel modello policentrico italiano, così
come costruito a partire dalla riforma del Titolo V della Costituzione; un
modello interistituzionale "a rete" secondo il quale tanto lo Stato, quanto gli
altri livelli istituzionali sono, nella loro rispettiva autonomia organizzativa,
normativa e politica, elementi costitutivi della Repubblica italiana.
Una novellata cornice costituzionale dunque che prospetta un vero
"mutamento di fase" nel nostro ordinamento nel quale non si può più parlare di
"Legislazione" ma di "Legislazioni", non di "Amministrazione" ma di
"Amministrazioni", non di "Legislatore" ma di "Legislatori" non di "Governo"
ma di "Governi".
Un ordinamento che ha fatto certamente un passo avanti forte nel senso
di un più accentuato federalismo ma che soprattutto vede l’"esplosione" del
precedente sistema sostanzialmente unitario e la sua "trasformazione" in un
sistema "policentrico"; un sistema più articolato e meno coeso ma anche
potenzialmente più elastico e flessibile, e quindi anche più adatto a favorire lo
sviluppo del Paese nel quadro di un processo di integrazione europea e di glo-
balizzazione mondiale che chiede sempre più flessibilità e adattabilità alle
amministrazioni e in genere agli apparati pubblici.
Non vi è dubbio,tuttavia,che un sistema di questo genere ha bisogno di
sviluppare rapidamente forti e innovativi momenti e forme di collaborazione e
di raccordo fra i diversi soggetti; ed in questo senso le dinamiche di attuazione
della politica di sviluppo regionale rappresentano forse uno dei modelli più
sviluppati ed originali, attraverso il coinvolgimento di molteplici attori tanto
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nella fase di adozione dei programmi operativi, quanto in quella di attuazione
degli stessi e monitoraggio- rendicontazione dei costi ammissibili a questi
imputabili.
Forme che non necessariamente potranno ripetere il modello classico
delle fonti normative, delle leggi, dei regolamenti, delle circolari ma che do-
vranno sviluppare invece forme nuove di soft legislation, di raccordi proce-
dimentali, di cabine e tavoli di regia. In una parola, nuove; forme di governance
nell'ambito delle quali trovare modi di intesa e di collaborazione pragmatici
ispirati, come detto, al principio di sussidiarietà e, per quanto ritenuto in questa
ricerca, anche a quello del partenariato(113).
(113) Sul tema della riforma del titolo V ricchissima ed autorevole è la bibliografia di riferimento, se ne riporta, senza pretesa di essere esaustivi, quella che ai fini della presente ricerca è apparsa più significativa. ANZON A., I poteri delle regioni dopo la riforma costituzionale. Il nuovo regime e il modello originario a confronto, Torino, 2002; ATRIPALDI V.–BIFULCO R., Federalismi fiscali e costituzioni, Torino, 2001. BARTOLE S.; BIN R., FALCON G., TOSI R., Diritto regionale. Dopo le riforme, Milano, 2003; BOTTARI
C. (a cura di), La riforma del titolo V, Parte II della Costituzione, Rimini, 2003; BUZZACCHI C., Uniformità e differenziazioni nel sistema delle autonomie, Milano, 2003; CARAVITA B., La Costituzione dopo la riforma del titolo V. Stato, regioni e autonomie fra Repubblica e Unione Europea, Torino, 2002; CAVALIERI P. E LAMARQUE E. (a cura di), L’attuazione del nuovo Titolo V, parte seconda, della Costituzione, Torino, 2004; FERRARI G.F. E PARODI G. La revisione costituzionale del Titolo V tra nuovo regionalismo e federalismo, Padova, 2003. FLORENZANO D., L’autonomia regionale nella dimensione internazionale, 2004; GAMBINO S. (a cura di), Il nuovo ordinamento regionale. Competenze e diritti, Milano, 2003; PINTO F., Diritto degli enti locali, Torino, 2004; POGGI A., Le autonomie funzionali tra sussidiarietà verticale e sussidiarietà orizzontali, Milano, 2002; ROZO ACUÑA E. (a cura di), Lo Stato e le autonomie. Le Regioni nel nuovo Titolo V della Costituzione. L’esperienza italiana a confronto con altri paesi, Urbino, 2003; VIRGA P., Diritto amministrativo – Amministrazione locale, Milano, 2003; BILANCIA P. e DE MARCO E. (a cura di), La tutela multilivello dei diritti. Punti di crisi, problemi aperti, momenti di stabilizzazione, Milano, 2004; BASSANINI F., (a cura di), Legge La Loggia. Commento alla L. 5 giugno 2003, n. 131 di attuazione del Titolo V della Costituzione, Rimini, 2003; D’ATENA A. e GROSSI P. (a cura di), Diritto, diritti e autonomie, Milano, 2003. COVINO F. Costituzione e federalismo fiscale in nove ordinamenti dell’Unione Europea, in www.federalismi.it, n. 16, 2005.
- 131 -
6. Concentrazione tematica e sussidiarietà regolamentata nel futuro della
politica di coesione?
Come evidenziato nei paragrafi precedenti la sussidiarietà rappresenta il
fondamento costituzionale della concentrazione territoriale degli interventi di
sostegno comunitari e di quelli nazionali, riuscendo a rendere il più possibile
coerenti strumenti di finanziamento di origini diverse, e nati nell’ambito di
politiche spesso divergenti. Gli sforzi che gli Stati membri hanno profuso,
compresa l’Italia, per tentare di creare “pacchetti” di interventi sui territori di
riferimento che fossero convergenti su medesimi obiettivi e funzionali al reale
superamento delle disparità socio-economiche delle regioni europee, si sono
tuttavia dovuti confrontare negli ultimi due anni con la fase di pesante
recessione economica mondiale.
Le discussioni attualmente in corso sul rafforzamento della governance
economica dell’UE, provocate dalla crisi greca, e più ampiamente dalla
situazione economica, finanziaria e di bilancio europea, pesano in modo del
tutto nuovo sul bilancio comunitario attuale e sulle prospettive finanziarie post
2013. Questa situazione si tradurrà molto probabilmente in un blocco del
bilancio dell’UE per i prossimi anni ma anche nell’esigenza di “spendere
meglio” e quindi in probabili importanti cambiamenti nel modo di utilizzare le
risorse del bilancio comunitario.
Nell’ambito dei negoziati sul futuro della Politica di coesione post 2013,
il tradizionale dibattito sul bilancio, la sua struttura e la ripartizione delle
dotazioni finanziarie tra le varie categorie di regioni, va ormai di pari passo con
una discussione sui modi per aumentare il valore aggiunto di questa politica
ottimizzandone i risultati e il corrispondente ritorno su investimento.
- 132 -
L’iniziativa di questo dibattito spetta alla Commissione europea, la
quale nelle conclusioni del 5° rapporto sulla Coesione pubblicato nel mese di
ottobre 2010, propone in effetti di incentrare la futura Politica di coesione sui
risultati e di attuare le riforme necessarie per conseguirli. Se questo approccio
qualitativo non è nuovo, le proposte concrete presentate dalla Commissione per
porlo in atto gli conferiscono una portata fino ad oggi mai avuta. Ciò si spiega
non solo con l’esigenza di una maggiore efficacia della spesa pubblica, ma
anche con la necessità di una maggiore coerenza nell’utilizzo delle risorse
europee rispetto a quelle nazionali. Il tema della coerenza/concentrazione è
dunque cruciale, specie in una fase di crisi come l’attuale, affinché possano
darsi risposte convincenti agli obiettivi strategici della coesione e la
Commissione proprio da una versione rivisitata della concentrazione intende
ripartire per rimodulare la propria politica di sviluppo regionale. In effetti, fra i
diversi elementi di valutazione, la già parziale ed evidenziata divergenza fra
aree beneficiare dei fondi strutturali ed aree beneficiarie degli aiuti regionali ex
art 107 TFUE, specie per ciò che riguarda le aree in deroga ex lettera c) del
precitato articolo, ha spinto la Commissione ad insistere su un’accezione
tematica, piuttosto che territoriale, del principio di concentrazione. La
concentrazione tematica, introdotta per la prima volta nel 2007, risulta dalla
constatazione del sostanziale fallimento della Strategia di Lisbona e dal legame
che è stato quindi stabilito tra la Politica di coesione e la Strategia globale
dell’UE. Il sistema di destinazione specifica degli stanziamenti (c.d.
earmarking) introduce un primo grado di concentrazione degli interventi
finanziati dalla Politica di coesione su una lista limitata di tematiche decise a
livello europeo e in linea con la Strategia di Lisbona, definite “categorie di
spesa”.
- 133 -
Per avere un effetto maggiormente significativo sulla coesione e sulla
competitività dei territori, gli interventi volti alla riduzione degli squilibri
economici, sociali e territoriali devono fondarsi su azioni integrate, definite
tenuto conto della dimensione territoriale dei problemi, realizzate mediante una
gestione integrata e modalità di attuazione coerenti con le specificità dei
territori.
Se da un lato le Regioni dell’obiettivo Convergenza dovranno
concentrare come minimo il 60% della loro dotazione finanziaria su queste
categorie di spesa, le Regioni dell’obiettivo competitività regionale e
occupazione dovranno impegnare il 75% della loro dotazione finanziaria su una
lista ridotta di categorie
Le proposte presentate dalla Commissione europea nelle conclusioni del
5° rapporto sulla coesione tendono principalmente a migliorare l’efficacia della
Politica di coesione, esaltando la c.d. concentrazione tematica, attraverso
l’indirizzo degli interventi della politica regionale esclusivamente sugli obiettivi
della strategia di Europa 2020, e riducendo così la lista attuale di categorie di
spesa a un “menu” di 14 temi di intervento in linea con gli obiettivi della
strategia stessa. In questo modo le regioni di tipo "convergenza" potrebbero
finanziare operazioni su tutti i temi di intervento, mentre le altre regioni
dovrebbero concentrare la totalità della loro dotazione finanziaria su un numero
limitato di priorità; la Commissione propone inoltre di rendere obbligatori
alcuni temi di intervento.
Le proposte della Commissione europea in materia di concentrazione
tematica rappresentano una svolta importante per la Politica di coesione; se
infatti da un lato non ne modificano le fondamenta, dall’altro implicano
cambiamenti radicali nel modo di attuarle, attraverso una nuova lettura del
- 134 -
principio di sussidiarietà. Sulla base di questo principio, i livelli nazionali e
regionali, ritenuti come più competenti del livello europeo per identificare le
priorità d’intervento strutturali adeguate alle esigenze del territorio, dispongono
oggi di un ampio margine d’azione nell’utilizzo dei fondi strutturali, e ciò
nonostante la restrizione imposta dall’earmarking dal 2007. Il livello di
concentrazione tematica proposto dalla Commissione europea limita
notevolmente la rosa delle possibilità d’intervento, in particolare per le Regioni
fuori dall’obiettivo convergenza. Le condizionalità accentuano questa
limitazione introducendo una serie di possibili barriere qualitative all’utilizzo
dei Fondi, corredate da sanzioni finanziarie. Misure di questo tipo decise al
livello europeo, e quindi imposte top-down, sono in contrasto con
l’applicazione tradizionale della sussidiarietà nell’ambito della Politica di
coesione: si passa da una sussidiarietà di diritto ad una regolamentata, negoziata
in ogni ambito nazionale con la Commissione europea all’interno di un
Contratto di partenariato sullo sviluppo e gli investimenti (CPSI, al posto degli
attuali Quadri di riferimento strategici nazionali – Qsn), destinata ad aumentare
la responsabilizzazione politica degli attori nazionali e regionali che pongono in
atto la politica di coesione sul campo.
Dunque la concentrazione tematica potrebbe aprire le porte ad una
rivisitazione del principio di sussidiarietà, ad una sua limitazione “negoziale”
propedeutica alla creazione di strumenti programmatici innovativi, più snelli e
meno estesi, appunto i Contratti di programma, per certi versi assimilabili ad
alcune esperienze già maturate in Italia, come ad esempio i Patti territoriali.
Questo orientamento andrebbe nella direzione già in qualche modo emersa con
la sostanziale deterritorializzazione dell’Obiettivo competitività, di una ricerca
di coerenza degli interventi non tanto in relazione alla dimensione territoriale
- 135 -
degli stessi, quanto piuttosto sulla scelta di temi prioritari. Temi – obiettivi
appunto negoziati preventivamente e quindi in questo senso svincolati da
un’applicazione strettamente formale del principio di sussidiarietà, in modo da
rendere più efficaci, concentrati, in una parola coerenti gli interventi finanziati
con risorse comunitarie e quelli attuati sotto forma di aiuti a finalità regionale.
Gli Stati membri e le Regioni hanno dimostrato scarso entusiasmo di
fronte a queste proposte: vari Stati e Regioni si sono mobilitati a favore di una
maggiore flessibilità nell’uso dei Fondi strutturali e sembrano titubanti e divisi
su questo nuovo approccio tematico della concentrazione, temendo soprattutto
un sostanziale depotenziamento in termini operativi della sussidiarietà.
Non c’è dunque da stupirsi se gli Stati e le Regioni abbiano adottato
questa posizione: a prima vista e a breve termine, l’attuazione di queste misure
implica molti vincoli a livello politico, finanziario ed amministrativo e sembra
offrire, in cambio, pochi vantaggi. Dal punto di vista sostanziale, sono invece
proprio queste misure ad avere le maggiori probabilità di garantire l’efficacia
della Politica di coesione affinché sia legittimata, nel suo formato attuale, a
medio e lungo termine. In effetti, questo nuovo approccio dà corpo
compiutamente al legame tra la Politica di coesione e la Strategia Europa 2020
– e più ampiamente ad un maggiore coordinamento delle spese europee e
nazionali – approvato da una grande maggioranza di attori europei, fornendo in
questo modo anche risposte chiare alle dure critiche di cui è oggetto da vari
anni la politica di coesione (qualità degli interventi e ritorno su investimento
perfettibili). In altri termini, la Commissione rispetta l’impegno preso dopo la
crisi finanziaria del 2008 consistente nel porre termine al “business as usual” e
in questo caso lo applica alla Politica di coesione.
- 136 -
Opporsi al principio stesso di queste misure, o cercare di ridurle al
minimo, vorrebbe dire esporre la Politica di Coesione a nuovi attacchi prima dei
prossimi negoziati. L’efficacia della Politica di Coesione rischierebbe quindi di
essere rimessa in discussione e gli attori europei, nazionali e regionali
verrebbero accusati di essere incapaci di riformarla in profondità quando
necessario. Diventa quindi molto probabile che la Politica di coesione così
come la conosciamo oggi, ovvero una politica di sviluppo regionale integrata
destinata a tutte le Regioni europee e dotata di un bilancio importante, scompaia
a vantaggio di un approccio più settoriale nel quale la dimensione territoriale
viene considerata poco o nulla e le autorità subnazionali sono in buona parte
escluse dalla sua attuazione.
La mobilitazione delle Regioni europee nell’ambito del dibattito sul
futuro della politica regionale sarebbe allora motivata da un duplice obiettivo:
in primo luogo difendere una politica di coesione quanto più possibile
ambiziosa ed efficace dopo il 2013; in secondo luogo essere considerate come
partner responsabili ed essere associate formalmente e il più intimamente
possibile alla preparazione e all’attuazione di questa politica.
Accettando dunque questa sussidiarietà regolamentata, le Regioni
europee potrebbero porsi come partner credibili della Commissione e degli Stati
dimostrando la loro volontà di assumere una maggiore responsabilità politica
nell’ambito della Politica di Coesione dopo il 2013.
Molte delle misure proposte dimostrano tuttavia la scarsa considerazione
della Commissione e degli Stati nei confronti delle Regioni nella preparazione
ed attuazione della politica regionale post 2013; lo dimostra il fatto che nella
proposta della Commissione il ruolo delle Regioni nell’identificazione delle
priorità di intervento sulla base del menu tematico non è definito in modo
- 137 -
chiaro: sarà compito del livello nazionale o regionale definire queste priorità, in
particolare nelle Regioni al di fuori della convergenza? Se sono decise al livello
regionale, in che misura il governo centrale potrà modificarle, proponendo ad
esempio un menu tematico ridotto al livello nazionale?
Malgrado le recenti riflessioni sulla Governance multilivello(114), la
Commissione pare non proporre alcun concreto passo avanti in questa
direzione. Eppure, nell’ottica del rafforzamento dell’efficacia della Politica
regionale, l’esistenza di un partenariato politico chiaro tra la Commissione, gli
Stati e le autorità regionali e locali parti in causa nell’attuazione della politica di
coesione, è fondamentale. Sfide quali la lotta al cambiamento climatico,
l'approvvigionamento energetico, la globalizzazione, il rapporto tra aree urbane
e rurali e il cambiamento demografico hanno un impatto territoriale fortemente
differenziato e, pertanto, necessitano di soluzioni progettate e attuate a livello
regionale e locale nel rispetto del principio di sussidiarietà. Il successo degli
interventi nazionali ed europei non può, pertanto, prescindere dalla capacità di
mobilitare le autorità regionali e locali e le componenti più significative della
società civile. Risulta, quindi, indispensabile il coinvolgimento, oltre che delle
amministrazioni centrali, anche delle regioni, degli enti locali, così come delle
parti economiche e sociali e del terzo settore sia nella fase di pianificazione che
nelle fasi di programmazione ed implementazione degli interventi
Questi partenariati dovranno costituire il fondamento dei nuovi CPSI
(contratti di partenariato sullo sviluppo e gli investimenti), prevedendo un
effettivo coinvolgimento delle Regioni nel processo di definizione dei contenuti
tematici e dei meccanismi volti a garantire la coerenza degli interventi
(114) FRAGOLA M., La Costituzione dell’unione Europea ripropone la questione sulla natura della governance: una nuova forma di federalismo?, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 2007, n.3.
- 138 -
progettati. Una responsabilizzazione di questo tipo, ovviamente
contrattualizzata, andrebbe anche nel senso di una maggiore semplificazione
nell’attuazione della politica di coesione, un obiettivo questo caro a tutti gli
attori in campo.
In questo modo, un approccio tematico della politica di coesione ed una
sussidiarietà in qualche modo regolamentata potrebbero allora non per forza di
cose essere sinonimo di scollamento dai territori di riferimento, quanto piuttosto
nuove modalità operative per cogliere al meglio le effettive esigenze di questi
ultimi.
- 140 -
CAPITOLO IV
Il futuro della politica di coesione e il ruolo della sussidiarietà
1. Il V Rapporto sulla coesione e la Strategia Europa 2020. 2. Le proposte della
Commissione per la nuova politica di coesione: il contratto di partnership per
lo sviluppo e gli investimenti. 3. Una diversa dimensione della coesione: la
territorialità e il ruolo degli enti locali. 4. Quale modello di attuazione per la
politica di coesione post 2013? La proposta del Comitato delle Regioni.
5. Il patto territoriale nell’esperienza gestionale italiana: struttura e contenuti.
6. Patti territoriali ed altri strumenti di concertazione nella programmazione
regionale dei fondi europei: le esperienze passate. 7. Il futuro della
sussidiarietà nell’ambito della politica di coesione: uno scenario possibile. 8.
Conclusioni.
1. Il V Rapporto sulla coesione e la Strategia Europa 2020
Nel novembre del 2010 la Commissione europea ha presentato la V Relazione
sulla coesione economica e sociale(115), alla quale sono seguiti i contributi in
merito dei singoli Stati membri ed il V Forum sulla Coesione che si è concluso
lo scorso 1° febbraio: il contesto in cui si sta programmando la nuova politica di
coesione è quello di un’Europa gravemente condizionata dalla recessione
economico-finanziaria mondiale, e fortemente concentrata nella definizione di
nuove strategie per il rilancio complessivo della propria economia e
dell’occupazione. In questo ambito l’Unione Europea ha adottato nel giugno del
2010 la Strategia Europa 2020 per il perseguimento di una crescita intelligente,
(115) COM (2010) 642/3
- 141 -
inclusiva e sostenibile; ancor più della precedente Strategia di Lisbona, Europa
2020 sottolinea la necessità di innovazione, occupazione e inclusione sociale,
nonché di una risposta decisa alle sfide ambientali e al cambiamento climatico,
al fine di superare la fase attuale di grave crisi: queste tre priorità di crescita,
che si rafforzano a vicenda, delineano il quadro dell'economia di mercato
sociale europea per il XXI secolo. È opinione diffusa che l'UE debba
individuare un numero limitato di obiettivi principali per il 2020 onde
indirizzare ed ottimizzare le risorse disponibili: questi obiettivi devono
rispecchiare il tema di una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, devono
essere misurabili, riflettere la diversità delle situazioni degli Stati membri e
basarsi su dati sufficientemente attendibili tali da consentire una verifica
costante dei progressi ottenuti. Su tali basi sono stati selezionati, nell’ambito
della nuova Strategia di sviluppo, cinque traguardi, la cui realizzazione è
fondamentale per il successo dell’Europa da qui al 2020: 1) il tasso di
occupazione delle persone di età compresa tra 20 e 64 anni dovrebbe passare
dall'attuale 69% ad almeno il 75%, anche mediante una maggior partecipazione
delle donne e dei lavoratori più anziani e una migliore integrazione dei migranti
nella popolazione attiva; 2) l'obiettivo attuale dell'UE per gli investimenti in
R&S, pari al 3% del PIL ha avuto il merito di richiamare capitali pubblici e
privati nei settori di riferimento, senza tuttavia aver centrato, per il momento,
l’obiettivo stabilito; Europa 2020, puntando in particolare sul rafforzamento
della ricerca finanziata da privati, conferma questo ambizioso traguardo,
definendo al tempo stesso una serie di indicatori affidabili tali da misurare
l'intensità in termini di R&S ed innovazione; 3) ridurre le emissioni di gas a
effetto serra almeno del 20% rispetto ai livelli del 1990 o del 30%, se sussistono
le necessarie condizioni; portare al 20% la quota delle fonti di energia
- 142 -
rinnovabile nel consumo finale di energia e migliorare del 20% l'efficienza
energetica; 4) un obiettivo in termini di livello d'istruzione che affronti il
problema dell'abbandono scolastico riducendone il tasso dall'attuale 15% al
10% e aumentando la quota della popolazione di età compresa tra 30 e 34 anni
che ha completato gli studi superiori dal 31% ad almeno il 40% nel 2020; 5) il
numero di Europei che vivono al di sotto delle soglie di povertà nazionali
dovrebbe essere ridotto del 25%, facendo uscire dalla povertà più di 20 milioni
di persone.
Questi obiettivi sono rappresentativi delle tre priorità della Strategia
(crescita intelligente, sostenibile e inclusiva), ma la loro portata è più ampia e
coinvolge il sistema Europa nel suo insieme. Per favorire il conseguimento di
tali obiettivi sono state predisposte dalla Commissione sette iniziative faro:
1) "L'Unione dell'innovazione" per migliorare le condizioni generali e l'accesso
ai finanziamenti per la ricerca e l'innovazione, facendo in modo che le idee
innovative si trasformino in nuovi prodotti e servizi tali da stimolare la crescita
e l'occupazione; 2) "Youth on the move" per migliorare l'efficienza dei sistemi
di insegnamento e agevolare l'ingresso dei giovani nel mercato del lavoro; 3)
"Un'agenda europea del digitale" per accelerare la diffusione dell'internet ad
alta velocità e sfruttare i vantaggi di un mercato unico del digitale per famiglie e
imprese; 4)"Un'Europa efficiente sotto il profilo delle risorse" per contribuire a
scindere la crescita economica dall'uso delle risorse, favorire il passaggio a
un'economia a basse emissioni di carbonio, incrementare l'uso delle fonti di
energia rinnovabile, modernizzare il settore dei trasporti e promuovere
l'efficienza energetica; 5) "Una politica industriale per l'era della
globalizzazione" onde migliorare il clima imprenditoriale, specialmente per le
PMI, e favorire lo sviluppo di una base industriale solida e sostenibile in grado
- 143 -
di competere su scala mondiale; 6) "Un'agenda per nuove competenze e nuovi
posti di lavoro" onde modernizzare i mercati occupazionali e consentire alle
persone di migliorare le proprie competenze in tutto l'arco della vita al fine di
aumentare la partecipazione al mercato del lavoro e di conciliare meglio
l'offerta e la domanda di manodopera, anche tramite la mobilità dei lavoratori;
7) La "Piattaforma europea contro la povertà" per garantire coesione sociale e
territoriale in modo tale che i benefici della crescita e i posti di lavoro siano
equamente distribuiti e che le persone vittime di povertà e esclusione sociale
possano vivere in condizioni dignitose e partecipare attivamente alla società.
Queste sette iniziative faro vedranno impegnati sia l'UE che gli Stati
membri: gli strumenti dell'UE, in particolare il mercato unico, gli strumenti
finanziari e gli strumenti della politica esterna, saranno mobilitati integralmente
per eliminare le cd. “strozzature” e conseguire gli obiettivi di Europa 2020.
Come priorità immediata, la Commissione individua le misure da
adottare per definire una strategia di uscita credibile, portare avanti la riforma
del sistema finanziario, garantire il risanamento del bilancio ai fini di una
crescita a lungo termine e intensificare il coordinamento con l'Unione
economica e monetaria.
Entro la fine di aprile 2011, tutti i governi nazionali dell'UE hanno
presentato i rispettivi programmi nazionali di riforma(116), attraverso i quali
sono state indicate le modalità di attuazione di Europa 2020 a livello nazionale,
(116) Per l’Italia il Consiglio dei Ministri del 13 aprile 2011 ha deliberato il Documento di economia e finanza 2011 - DEF 2011, documento di programmazione finanziaria e di bilancio previsto dalla L. 7 aprile 2011 n. 39 presentato dal Governo nell'ambito delle nuove regole adottate dall'Unione Europea in materia di coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri. Il DEF è articolato in tre sezioni: 1) Programma di Stabilità dell'Italia; 2) Analisi e tendenze della Finanza pubblica e allegata Nota metodologica sui criteri di formulazione delle previsioni tendenziali 3) Programma Nazionale di Riforma.
- 144 -
e le possibili forme di governance della strategia, sulle quali Commissione
europea e Consiglio europeo stanno sviluppando le rispettive valutazioni(117).
Delle tre dimensioni della crescita, previste dalla nuova Strategia,
certamente quella inclusiva, richiama più di tutte l’obbiettivo “costituzionale”
della coesione economica, sociale e territoriale; ed in questo senso la nuova
politica di coesione diventa strumento propulsivo per il raggiungimento dei
traguardi stabiliti da Europa 2020, anzi quasi possiamo affermare che proprio la
politica di coesione risulta lo strumento più potente a disposizione dell’Unione
per centrare tali nuovi traguardi. Lumeggiano in tal senso le dichiarazioni del
Presidente della Commissione Barroso: “La coesione economica, sociale e
territoriale rimarrà al centro della strategia Europa 2020 per garantire che
tutte le energie e tutte le capacità vengano mobilitate e orientate verso la
realizzazione delle priorità della Strategia stessa. La politica di coesione e i
fondi strutturali, già importanti di per sé, sono meccanismi fondamentali per
realizzare le priorità di una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva negli
Stati membri e nelle regioni. Scopo di Europa 2020 è fare dell’economia
(117) Con la Comunicazione del 3 marzo 2010 COM(2010) 2020, la Commissione ha chiarito poi che per ottenere risultati occorrerà una governance politico-economica più forte che consenta ad Europa 2020 di poggiare su due pilastri: l'approccio tematico sopra descritto, che combina priorità e obiettivi principali, e le relazioni sui singoli Paesi, che aiuteranno gli Stati membri a elaborare le proprie strategie per ripristinare la sostenibilità della crescita e delle finanze pubbliche. A livello dell'UE saranno adottati orientamenti integrati che coprano le priorità e i traguardi dell'Unione, mentre agli Stati membri verranno rivolte raccomandazioni specifiche. Una risposta inadeguata potrebbe dar luogo ad avvertimenti strategici. Le relazioni nell'ambito di Europa 2020 e la valutazione del patto di stabilità e crescita saranno contemporanee, ferme restando la separazione degli strumenti e l'integrità del patto. Il Consiglio europeo si assumerà la piena titolarità della nuova strategia, di cui costituirà l'elemento centrale. La Commissione valuterà i progressi verso il conseguimento degli obiettivi, agevolerà gli scambi politici e presenterà le proposte necessarie per orientare gli interventi e far progredire le iniziative faro dell'UE. Il Parlamento europeo avrà un ruolo determinante per mobilitare i cittadini e fungerà da colegislatore per le iniziative principali. Questo approccio di partenariato dovrebbe essere esteso ai comitati dell'UE, ai parlamenti nazionali e alle autorità nazionali, locali e regionali, alle parti sociali, alle parti interessate e alla società civile, affinché tutti partecipino al conseguimento dei traguardi fissati.
- 145 -
europea un’economia leader, competitiva e prospera, incentrata sulla
conoscenza, interconnessa, più verde e più partecipativa, un’economia
sostenibile in grado di crescere più velocemente e in modo duraturo e di
generare elevati livelli di occupazione e di progresso sociale”.
In questa direzione va letta la V Relazione sulla coesione nel momento
in cui sottolinea proprio il ruolo di Stati e Regioni per il soddisfacimento di
un’agenda tanto ambiziosa come quella di Europa 2020, attraverso la
costruzione di una governance multilivello(118) in grado di garantire il
(118) La V Relazione sulla coesione sembra aver tratto spunto anche dalle recenti ed acute riflessioni in materia di governance multilevello fornite dalla dottrina europea; in particolare si vedano: PIATTONI S., The Theory of Multi-Level Governance. Conceptual, Empirical, and Normative Challenges, Oxford, 2010; e sempre la stessa autrice, Multi-Level Governance in the EU: The Theoretical Challenge, in Journal of European Integration, 2009, n. 2; KNILL C. e LENSCHOW A, Modes of Regulation in the Governance of the European Union: Towards a Comprehensive Evaluation, in European Union online Papers, 2003, 7, 1; MARKS G. e HOOGHE L., Contrasting visions of multi-level governance, in I. Bache and M. Flinders eds: Multi-Level Governance: Inter-disciplinary Perspectives, pag. 15-30, Oxford 2004; MAK J. E VAN TATENHOVE J., Informal Governance, (special issue) in Perspectives on European Politics and Society, 2006, pag. 1-131; HOOGHE L. e MARKS G., Types of Multi-Level Governance, in Cahiers européens de Sciences Po, 3 (June), 2002; HOOGHE L. E MARKS G., Unraveling the Central State, but How? Types of Multi-Level Governance, in American Political Science Review, 2003, 97(2), pag. 233-43; DELLA SALA V.e CARLO RUZZA C., Governance and Civil Society in the European Union, volume II. Exploring Policy Issues, Manchester, 2007; EBERLEIN B. E KERWER D., Theorising the New Modes of European Union Governance, in European Union online Papers, 2002, 6, 5; EBERLEIN B., New Governance in the European Union: A Theoretical Perspective, in Journal of Common Market Studies, 2004, pag. 121-42; ELIAS A., Introduction: Whatever Happened to the Europe of the Regions? Revisiting the Regional Dimension of European Politics, in Regional & Federal Studies (special issue), 2008, pag. 483-492; BENZ A., Two Types of Multi-Level Governance: Intergovernmental Relations in German and EU Regional Policy, Regional and Federal Studies, 2000; BENZ A E ZIMMER
C, The EU’s Competences: The vertical’ perspective on the multilayered system, in Living Review on European Governance, 2008; BOVENS M., Analysing and Assessing Accountability: A Conceptual Framework, in European Law Journal (special issue), 2007, pag. 447-468; BUKOWSKI J., PIATTONI S., SMYRL M. Between Europeanization and Local Societies. The Space for Territorial Governance, Lanham, 2003; CITI M. E RHODES M., New Modes of Governance in the EU: Common Objectives versus National Preferences, in European Governance Papers (EUROGOV), 2007; BACHE I., The Politics of European Regional Policy. Multi-Level Governance or Flexible Gatekeeping? Sheffield, 1998; BACHE I., Europeanization and Multi-Level Governance. Cohesion Policy in the European Union and Britain, Lanham, 2008; BACHE I. and Matthew Flinders eds, Multi-Level Governance, Oxford, 2004; BARTOLINI S., Exit options, boundary building, political structuring: sketches of a theory of large-scale territorial and membership "retrenchment/differentiation" versus "expansion/integration": with reference to the
- 146 -
superamento degli squilibri territoriali all’interno dell’Unione, la crescita
occupazionale, il progresso economico, una maggiore inclusione sociale. Inoltre
la diversità regionale in seno all'Unione, costituita da territori con
caratteristiche, opportunità ed esigenze molto diverse tra loro, impone il
superamento di politiche a "taglia unica" a favore di un approccio che
conferisca alle regioni la capacità progettuale e i mezzi per l'attuazione di
politiche che soddisfino i loro bisogni: questo è ciò che offre appunto la politica
di coesione tramite l'approccio dal basso che la contraddistingue.
Già con la Strategia di Lisbona la coesione economica-sociale era stata
inserita in un meccanismo di più ampio respiro, attraverso la previsione di
specifici stanziamenti finalizzati al raggiungimento degli obiettivi stabiliti a
Lisbona. Ciò non è stato tuttavia sufficiente a causa di un divario a livello di
governance tra i due processi strategici; l’obiettivo della nuova
programmazione dei fondi strutturali è dunque proprio quello di allineare
meglio e più strettamente la politica di coesione alla Strategia Europa 2020: ciò
richiede anzitutto chiare linee guida a livello europeo e un'impostazione più
strategica dei negoziati e delle attività di follow-up.
Come indicato nella revisione del bilancio dell'Unione europea occorre
in particolare compiere progressi in alcuni settori d'importanza cruciale:
concentrare le risorse sugli obiettivi e i traguardi di Europa 2020, impegnare gli
Stati membri ad attuare le riforme necessarie per rendere efficace la politica di
coesione e, infine, migliorare l'efficacia della politica prestando una maggiore
attenzione ai risultati. L'esplicito rapporto tra politica di coesione ed Europa
2020 fornisce un'occasione concreta per continuare ad aiutare le regioni più
European Union, EUI Working Paper, SPS 98/1, 1998; BARTOLINI, S., Restructuring Europe. Centre Formation, System Building, and Political Structuring between the Nation and the European Union, Oxford, 2005.
- 147 -
deboli dell'UE a recuperare il ritardo accumulato, per facilitare il
coordinamento tra le politiche comunitarie e per favorire lo sviluppo della
coesione politica promuovendo la crescita, anche in termini qualitativi,
dell'intera Unione, affrontando al tempo stesso le sfide di natura sociale come
l'invecchiamento demografico e i cambiamenti climatici(119).
2. Le proposte della Commissione per la nuova politica di coesione: il
contratto di partnership per lo sviluppo e gli investimenti.
Attraverso la revisione del bilancio dell'Unione(120) la Commissione ha
delineato una nuova programmazione strategica per la politica di coesione,
sostanzialmente confermata il 6 ottobre scorso dalla proposta complessiva di un
nuovo insieme di regole, condizioni e meccanismi, che la stessa Commissione
prospetta per il nuovo periodo di programmazione 2014-2020 dei fondi
(119) La relazione si articola in quattro capitoli. Il primo è incentrato sulla situazione e sulle tendenze economiche, sociali e territoriali dell'UE, ed analizza le modalità per la promozione di competitività e convergenza economica, le strategie per migliorare il benessere, ridurre l'esclusione sociale e favorire la sostenibilità ambientale. Il secondo capitolo valuta l’apporto dato delle politiche nazionali alla coesione. Il terzo presenta una panoramica dei contributi forniti alla coesione da altre politiche comunitarie. L'ultimo capitolo riassume infine le evidenze degli effetti positivi della politica di coesione per il rafforzamento dei suoi obiettivi, segnalando al contempo le aree con margini di miglioramento (120) Come previsto, il 29 giugno u.s. la Commissione europea ha reso pubbliche le proprie proposte per il quadro finanziario pluriennale post 2014. In particolare, è stata presentata la Comunicazione COM (2011) 500 “A Budget for Europe 2020”, corredata dalle schede di policy (parte II). La Commissione ha peraltro predisposto la proposta di Accordo interistituzionale, una bozza di regolamento sul quadro finanziario pluriennale, nonché definito le proposte di Decisione del Consiglio e di Regolamento sul sistema delle risorse proprie per finanziare il nuovo budget. Fra le notazioni preliminari, si osserva come la proposta risulti essere in linea con lo scenario già disegnato nella Comunicazione “Revisione di bilancio” sebbene, fra le diverse opzioni possibili e a suo tempo prospettate, la Commissione si sia orientata verso un approccio “conservativo” e non abbia percorso piste di radicale innovazione. Sembrano fermi, per quanto attiene alle politiche di coesione, i principi delineati nella V relazione sulla Coesione economica sociale e territoriale. In estrema sintesi comunque i principi alla base della proposta di bilancio sono: 1) perseguire priorità politiche chiave; 2) valore aggiunto europeo; 3) focalizzazione su impatti e risultati; 4) sviluppare benefici reciproci all’interno dell’Unione Europea
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strutturali e per l’ottimale integrazione di questi ultimi con la strategia Europa
2020.
La Commissione propone per questi fondi una dotazione complessiva di
376 miliardi di euro, una cifra che dovrà ora essere negoziata con gli Stati
membri e approvata con il nuovo quadro pluriennale di bilancio per il settennio
2014-2020. Il pacchetto appena presentato comprende, fra l'altro, un
regolamento generale con le disposizioni comuni per tutti i Fondi interessati, tre
regolamenti specifici per ciascuno degli strumenti finanziari più importanti (il
Fondo europeo per lo sviluppo regionale, il Fondo sociale europeo e il Fondo di
coesione), più altri regolamenti specifici per il Fondo sulla globalizzazione, il
Programma per l'innovazione sociale e i programmi di cooperazione territoriale.
Le risorse dei fondi strutturali saranno attribuite secondo una chiave di
ripartizione basata su tre categorie di regioni: quelle "meno sviluppate", in cui il
Pil pro capite è inferiore al 75% della media Ue; le regioni "in transizione", con
un Pil pro capite fra il 75 e il 90 per cento della media Ue; e le regioni "più
sviluppate" con un Pil pro capite oltre il 90% della media Ue. Per l'Italia, fanno
parte della prima categoria quattro regioni del Mezzogiorno (Puglia, Calabria,
Sicilia e Campania), mentre ne sono uscite e sono ora "in transizione" le altre
quattro: Sardegna, Basilicata, Abruzzo e Molise.
Le novità, rispetto ai periodi di programmazione precedenti, sono
soprattutto tre: innanzitutto, una maggiore concentrazione dei programmi su
pochi obiettivi prioritari, per evitare la dispersione a pioggia dei finanziamenti,
con un particolare accento su innovazione, ricerca e competitività, su energie
rinnovabili ed efficienza energetica, sugli investimenti nel capitale umano e
nell'inserimento sociale. In secondo luogo, vi sarà una revisione del sistema di
controllo dell'efficacia dei programmi, con la possibilità di ritirare i
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finanziamenti quando non sono rispettati gli obiettivi intermedi, un fondo di
riserva pari al 5% del bilancio totale che premierà con finanziamenti aggiuntivi
gli Stati membri e le regioni che utilizzano meglio i fondi comunitari, e una
valutazione del raggiungimento degli obiettivi finali fissati dai programmi
basata "non sulle fatture emesse, ma sui risultati concreti realizzati", come ha
precisato il commissario agli Affari sociali, Laszlo Andor; in altri termini,
"bisognerà dimostrare che i programmi abbiano realmente modificato la
situazione sul terreno".
Infine, è previsto un collegamento “più automatico” fra l'erogazione dei
fondi comunitari e il rispetto, da parte dello Stato membro interessato, delle
nuove regole imposte dalla riformata governance economica europea.
Sostanzialmente, i fondi verranno tagliati, come forma di sanzione, ai Paesi che
non seguiranno le raccomandazioni Ue in materia di politica macroeconomica e
di disciplina di bilancio(121).
Da una primissima lettura delle proposte della Commissione, alla luce
anche di quanto prospettato nella V Relazione sulla Coesione, l’obiettivo di una
ottimizzazione delle risorse, di una maggiore concentrazione delle stesse su
limitate priorità tematiche, di un miglior coordinamento fra fondi strutturali e
fondi settoriali, trova la più evidente rappresentazione attraverso una
significativa riforma della governance della politica di coesione stessa(122).
(121) Per quanto riguarda, specificamente, l'Italia, come chiarito dal commissario alle politiche regionali Johannes Hahn, la Commissione europea intende "concentrarsi sullo sviluppo del Mezzogiorno e che nel suo complesso l’Italia non perderà finanziamenti, ma anzi potrebbe anche guadagnarne…l'Italia inoltre ha una grande potenzialità d'investimento per rendere più competitiva la sua economia. Sarà necessario investire in modo intelligente, con un intervento anche da parte del settore privato". (122) Circa la concentrazione tematica la V Relazione sulla coesione evidenzia che “dalle valutazioni ex post della politica di coesione è emersa la necessità di concentrare in misura maggiore le risorse per raggiungere la massa critica ed avere un impatto concreto. In futuro occorrerà garantire che gli Stati membri e le regioni concentrino le risorse nazionali e dell'Unione su pochi obiettivi prioritari per far fronte alle specifiche sfide che la situazione presenta. Questo obiettivo potrebbe essere raggiunto stabilendo, nei
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In questo senso spiccano le innovative proposte di un Quadro
strategico comune e di un contratto di partnership sullo sviluppo e gli
investimenti. Si tratta dei due nuovi strumenti di programmazione che tuttavia
presentano elementi di significativa discontinuità rispetto al ciclo ancora in
corso. In particolare attraverso il Quadro strategico comune, che andrebbe a
sostituire gli attuali Orientamenti strategici comunitari, la Commissione intende
tradurre gli obiettivi e i traguardi di Europa 2020 in priorità di investimento,
secondo un criterio di forte concentrazione tematica ed ottimizzazione delle
risorse disponibili: il Quadro strategico, specifico per ogni Stato membro,
coinvolgerebbe tutti i fondi strutturali spendibili nel Paese interessato; per
l’Italia questo riguarderebbe pertanto il Fondo europeo di sviluppo regionale, il
Fondo sociale europeo, il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale e il
Fondo europeo per la pesca.
Tale programmazione congiunta di tutti i fondi strutturali si inserisce in
un’ottica di maggiore complementarietà nell’utilizzo dei mezzi finanziari
disponibili e si giustifica, insieme al già citato obiettivo di concentrazione su
tematiche prioritarie, anche con la necessità di evitare un’inutile
sovrapposizione o parallelismo di interventi finanziabili. Il Quadro comunitario
di sostegno dovrebbe stabilire i principi e i criteri fondamentali, specifici per
ogni Stato membro, cui gli interventi dovranno ispirarsi; tali criteri potrebbero
essere legati, ad esempio, al recepimento di determinate norme comunitarie
regolamenti riguardanti la politica di coesione, una lista di priorità tematiche legate agli obiettivi prioritari, orientamenti integrati e iniziative faro nella strategia Europa 2020. I Paesi e le regioni dovrebbero concentrare la propria attenzione su un numero maggiore o minore di obiettivi prioritari in funzione dell'entità del finanziamento UE richiesto. Agli Stati membri e alle regioni che ricevono meno aiuti verrebbe così richiesto di destinare tutte le risorse ottenute a due o tre obiettivi prioritari, mentre alle amministrazioni che ricevono un maggiore sostegno finanziario sarebbe consentita una scelta più ampia; alcuni obiettivi prioritari sarebbero comunque obbligatori”.
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nell'ordinamento nazionale, al finanziamento di progetti strategici per l’Unione,
o alla capacità amministrativa, istituzionale e di valutazione. E’ su questa base
che si dovrebbero concordare con ogni Stato membro precise condizioni
vincolanti nei settori direttamente legati alla politica di coesione, all'inizio del
ciclo di programmazione nei relativi documenti (ossia i contratti di partnership
per lo sviluppo e gli investimenti e i programmi operativi), nell'ambito di un
approccio coordinato con tutte le pertinenti politiche dell'UE. Il loro
adempimento potrebbe costituire un prerequisito per l'erogazione dei fondi
strutturali all'inizio del periodo di programmazione o nel corso di un riesame in
cui la Commissione andrebbe a valutare i progressi compiuti nel realizzare le
riforme e gli investimenti concordate.
Al Quadro strategico si affianca, come anticipato, nella proposta della
Commissione, un nuovo strumento di natura negoziale: il Contratto di
partnership sullo sviluppo e gli investimenti che, basandosi sul Quadro
Strategico Comune, andrebbe a stabilire le priorità di investimento,
l'allocazione delle risorse nazionali e dell'Unione europea tra i settori e i
programmi prioritari, le condizioni concordate e gli obiettivi da raggiungere. Il
contratto sarebbe così il risultato dei negoziati tra gli Stati membri, le Regioni e
la Commissione sulla strategia di sviluppo presentata nei Programmi nazionali
di riforma di ogni singolo Paese.
In capo allo Stato membro si andrebbe in questo modo a formare una
sorta di obbligazione di natura contrattuale, in cui la prestazione dovuta alla
Commissione, sarebbe misurabile e condizionata al raggiungimento di specifici
risultati/target individuati nel contratto di partenariato. Appare evidente il
cambio di prospettiva della Commissione: se infatti la fase di programmazione
della politica di coesione per il periodo 2007-2013, come evidenziato nel
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capitolo II della presente ricerca, si configura sostanzialmente come un
procedimento amministrativo misto comunitario/nazionale, in cui la formazione
dei documenti programmatici è frutto di un iter sostanzialmente
procedimentalizzato ed uniforme a livello europeo, la proposta di un contratto
di partenariato fra Stato membro e Commissione, non solo segna il passaggio
da un metodo procedimentale ad uno schiettamente negoziale, ma chiarisce
pure come la politica di coesione voglia darsi una dimensione più prettamente
legata al singolo territorio ed alle sue priorità, nell’ottica generale della
realizzazione degli obiettivi di Europa 2020.
Si passa, in sostanza, da una gestione procedimentalizzata dei fondi
strutturali ad una negoziata e per giunta condizionata al rispetto di specifici
parametri, che costituiscono parte significativa del contenuto del contratto di
partenariato. Sarebbero poi i programmi operativi nazionali e regionali a
tradurre in concreto le obbligazioni assunte dallo Stato verso l’Unione, per il
raggiungimento degli obiettivi di Europa 2020, definendo priorità
d’investimento e garantendo la coerenza con gli altri mezzi di finanziamento
nazionali. Per quanto riguarda poi l’insieme dei contenuti stessi del contratto,
nella proposta della Commissione, questi devono richiamare i Piani nazionali di
Riforma, interpretati alla luce del Quadro Strategico: è questo il momento,
relativamente alla fase di programmazione, in cui trova spazio il principio di
sussidiarietà, sia nella sua dimensione verticale che in quella orizzontale: non vi
è dubbio infatti che i Piani nazionali di riforma, dovrebbero essere adottati
attraverso la partecipazione attiva dei vari livelli di governo del territorio, in
ossequio, tra l’altro, anche a quella nuova dimensione della coesione economica
e sociale, vale a dire la territorialità, che già da Lisbona è stata
istituzionalizzata.
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D’altra parte la stessa Relazione sottolinea come: “L’attuazione di
Europa 2020 richieda un sistema di gestione che coinvolga gli attori del
cambiamento negli Stati membri e che colleghi i livelli amministrativi europeo,
nazionale, regionale e locale. Al fine di mobilitare pienamente tutti gli
interessati occorrerà potenziare la rappresentanza dei soggetti locali e
regionali, delle parti sociali e della società civile sia nel dialogo politico che
nell'attuazione della politica di coesione. In quest'ottica occorre continuare a
sostenere il dialogo tra i soggetti pubblici e privati, inclusi i partner
socioeconomici e le organizzazioni non governative” ed ancora “E’ cruciale
che la politica di coesione sia programmata ed attuata al più adeguato livello
territoriale, in armonia con gli ordinamenti istituzionali ed in coerenza con il
principio di sussidiarietà, è quindi cruciale che venga esteso, valorizzato e
rafforzato il ruolo delle regioni nella gestione degli strumenti di coesione…
E’opportuno rafforzare la cooperazione con tutti i possibili stakeholders:
istituzionali, territoriali, sociali. Particolare importanza dovrà assumere in tale
processo partecipativo il ruolo dei soggetti privati anche eventualmente tramite
forme di compartecipazione finanziaria per la realizzazione degli interventi”.
3. Una diversa dimensione della coesione: la territorialità e il ruolo degli
enti locali
Il Titolo XVIII del novellato Trattato sul funzionamento dell’Unione è dedicato
alla coesione economica, sociale e territoriale; quest’ultima accezione della
coesione rappresenta una significativa novità introdotta a Lisbona, e comporta,
come già prospettato dal Libro verde sulla Coesione Territoriale del 2008, un
arricchimento dell’obbiettivo costituzionale della coesione economica e
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sociale(123). La diversità territoriale dell’Unione, le notevoli differenze in
termini di morfologia, reti, collegamenti, fra una zona e l’altra dell’Europa
possono rappresentare un ostacolo assai rilevante al raggiungimento della
coesione economica e sociale; ecco perché la costituzionalizzazione della
dimensione territoriale della coesione comporta la presa di coscienza che tali
diversità possono divenire punti di forza del progetto comune europeo solo se
inserite all’interno di programmi ambiziosi che uniscano i vari territori
attraverso nuove forme di cooperazione, coordinamento e partnership.
Osservare la coesione da un punto di vista territoriale porta l’attenzione
a temi quali lo sviluppo sostenibile e l’accesso ai servizi; evidenzia inoltre che
molte questioni non rispettano i confini amministrativi e potrebbero necessitare
di una risposta coordinata da diverse regioni o Paesi, mentre altre devono essere
affrontate a livello locale o tra Stati vicini. L’approccio territoriale integrato
della politica sulla coesione è ideale per rispondere a questioni complesse e
fortemente localizzate, quali lo sviluppo regionale, ma per massimizzare le
sinergie è necessario un migliore coordinamento anche con le altre politiche
settoriali: in particolare con quelle dell’ambiente, dell’energia, dei trasporti,
della ricerca ed innovazione.
(123) Il dibattito sullo sviluppo territoriale è iniziato nei primi anni ’90 con la pubblicazione di due relazioni: Europa 2000 ed Europa 2000+. Ma il concetto vero e proprio di coesione territoriale e apparso soltanto nel 1995, durante una riunione dell’Assemblea delle Regioni europee ad Anversa. Due anni dopo la dimensione territoriale è stata inclusa nel Trattato di Amsterdam (Articolo 7d) e nel 1999 gli Stati membri hanno adottato la Prospettiva di sviluppo del territorio europeo (ESDP). Frequenti riunioni fra i Ministri responsabili dell’assetto territoriale e dello sviluppo regionale dei vari governi hanno portato all’adozione dell’Agenda territoriale, che definisce le tre priorità della coesione: a) orientare le politiche di sviluppo territoriale nazionali e regionali al massimo sviluppo delle risorse territoriali; b) potenziare i collegamenti e l’integrazione dei territori attraverso la promozione della cooperazione e gli scambi; c) rafforzare l’integrazione delle politiche UE che hanno un impatto territoriale. L’accento sulla coesione territoriale a livello intergovernativo dimostrava che il dibattito era abbastanza maturo per puntare a una visione comune di come la coesione rientri nelle politiche comunitari. Dopo un anno di formulazione e stato pubblicato il Libro verde nell’intento di consolidare le opinioni e delineare la strada da seguire.
- 155 -
Per quanto attiene più strettamente la futura programmazione 2014-2020
della politica di sviluppo regionale non c’è dubbio che la presenza rimarcata di
una forte componente territoriale, spinga decisamente verso forme di
partenariato con una spiccata dimensione locale, in grado di garantire una
progettazione e implementazione delle politiche basate sulle conoscenze locali.
In sostanza l’aver rimarcato ed enfatizzato la componente territoriale
della coesione, testimonia, la volontà da parte del legislatore europeo da un lato
di sviluppare politiche regionali meno “generiche” e più calate sulle specifiche
realtà territoriali, dall’altro la necessità di sviluppare partenariati fortemente
radicati sul territorio, che contribuiscano sia alla fase di programmazione della
politica di coesione, sia alla successiva fase di attuazione della stessa.
D’altronde la proposta della Commissione di introdurre un vero e
proprio contratto di partenariato per la crescita e lo sviluppo dei territori,
sembra possa leggersi proprio nella direzione appena individuata; specie se,
come pare ormai certo, lo strumento contrattuale verrà poi riprodotto da ogni
singolo Stato membro con le proprie regioni; ed anche la concentrazione
tematica sembra inserirsi in questa nuova cornice: la crisi economica e la
conseguente necessità di ottimizzare le risorse disponibili portano
inevitabilmente sia ad una razionalizzazione degli obiettivi di sviluppo da
perseguire, sia ad una programmazione e gestione dei fondi strutturali più
aderente ai territori di riferimento e maggiormente efficace(124).
In questo contesto non solo il principio di sussidiarietà continua a
dispiegare la sua funzione, ma la necessità di attuare più efficacemente la tanto
invocata governance multilivello appare una conditio sine qua non per poter
(124) Le Conclusioni della V Relazione sulla Coesione a pag. 9 lumeggiano in tal senso: “Occorrerà potenziare la rappresentanza dei soggetti locali e regionali….sia nel dialogo politico che nell’attuazione della politica di coesione”.
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usufruire dei finanziamenti stanziati: se infatti il contratto di partenariato verrà
attuato, come allo stato dell’arte appare più probabile, esso prevedrà vere e
proprie penali in caso di mancata realizzazione degli interventi contrattualizzati
e condizioni sospensive dell’efficacia del contratto stesso, ad esempio nel caso
di ingiustificati ritardi nell’utilizzo dei fondi stanziati. Ecco quindi che un
coinvolgimento effettivo, sia in fase di programmazione, che di successiva
gestione, degli stakeholders, intesi come rappresentanze degli enti locali, delle
imprese e delle parti sociali, risulta l’unica via possibile per cercare di
adempiere all’obbligazione assunta dallo Stato membro, ed attuare così gli
interventi programmati.
Non è da oggi, d’altra parte, che la Commissione europea, e non solo, ha
indicato la governance multilivello come unico possibile modello di attuazione
della politica di sviluppo regionale europea; il che vale naturalmente anche per
l’Italia, ormai, tra l’altro, avviata verso forme avanzate di federalismo
istituzionale e fiscale Un corretto e appropriato dialogo tecnico e politico fra
tutti i soggetti istituzionali coinvolti nella programmazione e attuazione delle
politiche di coesione, ed in primis con gli Enti locali titolari in Italia della
generalità delle funzioni amministrative, consentirebbe non solo di rimuovere
buona parte degli ostacoli “burocratici” posti sulla strada di una veloce
attuazione degli interventi, ma anche di conseguire più efficacemente i risultati
in termini di miglioramento degli obiettivi dei servizi (peraltro in gran parte
collegati a competenze delle autorità locali) da offrire a cittadini e imprese. La
centralità della corretta ed efficace applicazione di strumenti di governance
multilivello è peraltro riconosciuta in tutte le recenti Comunicazioni della
Commissione europea sul futuro della politica di coesione e sugli obiettivi della
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Strategia “Europa 2020”(125) e da ultimo, senza dubbio, nelle “Conclusioni
della V Relazione sulla coesione” .
L’assunzione di misure per migliorare il sistema di governance
multilivello è stata inoltre individuata come prioritaria già nella Relazione
strategica nazionale sull’attuazione della politica di coesione 2007-2013, che
indicava la mancata completa applicazione di tale sistema come una perdurante
criticità nella programmazione ed attuazione delle politiche di coesione in
Italia. In quella sede, si evidenziava anche come la sostenibilità delle regole
indicate dal Quadro Unitario di Sostegno richiedessero, fra l’altro, una
compiuta attuazione appunto della governance multilivello: ecco perché il
Partenariato istituzionale degli enti locali e le rappresentanze delle parti sociali
e delle imprese, dovrebbero essere coinvolti realmente fin dal processo di
programmazione, analisi e applicazione del quadro normativo comunitario e,
successivamente, nella definizione e programmazione delle policy e degli
interventi, in modo da migliorare l’impatto delle politiche comunitarie verso le
amministrazioni locali sotto il profilo normativo e della programmazione
economica.
Gli strumenti di governance multilivello nazionali dovrebbero poi essere
consolidati e ristrutturati anche in sede di attuazione degli interventi, in modo
da consentire alle amministrazioni locali di svolgere le funzioni attuative
richieste dal ruolo riconosciuto loro dal Titolo V della nostra Costituzione. Tale
impostazione, nell’ultimo periodo, avrebbe dovuto implicare la partecipazione
qualificata del sistema dei comuni italiani all’iter di concertazione sul futuro
(125) COM(2010)110 def del 31.03.2010 “Politica di coesione: Relazione strategica 2010 sull’attuazione dei programmi 2007-2013 ”, pag. 4; COM(2010) 135 def. del 31.03.2010 “Comunicazione della commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni - Programma di lavoro della Commissione per il 2010 - È ora di agire”.
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della politica di coesione, tramite il coinvolgimento degli Enti locali in tutti i
processi che sono stati avviati a livello nazionale ed europeo per la
programmazione delle politiche di coesione post 2013 ed anche attraverso il
coinvolgimento nella definizione degli obiettivi “nazionali” per Europa 2020.
Al contrario, le autorità nazionali competenti hanno sino ad oggi sottovalutato il
ruolo delle amministrazioni locali e del loro partenariato istituzionale che, ad
es., proprio di recente non è stato coinvolto nella predisposizione del rilevante
documento intitolato “Contributo dell’Italia sulle Conclusioni della V
Relazione” e proposto alle autorità europee come posizione italiana sul futuro
della politica di coesione(126). Nel documento di posizione citato viene
espressamente ammesso come esso sia stato approvato dal partenariato delle
Amministrazioni centrali e regionali e dal partenariato economico e sociale;
dunque, senza il coinvolgimento del partenariato istituzionale degli enti locali.
Ne deriva un documento debole proprio sul fronte delle proposte per il
rafforzamento effettivo degli strumenti di governance multilivello nonché del
riconoscimento del ruolo che città ed aree urbane devono svolgere nello
sviluppo delle strategie di coesione europea, così come voluto e auspicato dalla
Commissione.
Il superamento dell’adesione solo formale dell’Italia al principio di
governance multivello e l’applicazione sostanziale dello stesso dovrebbero
rappresentare, invece, la priorità delle autorità nazionali responsabili del
coordinamento delle politiche di coesione. E’ormai acquisito, infatti, come i
principali insuccessi e ritardi fatti registrare in Italia sul tema dell’efficacia delle
(126) Un medesimo trattamento, peraltro, era stato riservato agli EELL in sede di predisposizione dell’ultimo “Programma Nazionale di Riforma” che ha rappresentato lo strumento principale per coordinare gli interventi delle politiche nazionali con gli obiettivi delle politiche di coesione e della Strategia Europa 2020.
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politiche di coesione risiedano in un’applicazione solo formale del principio di
leale cooperazione fra i diversi livelli istituzionali presenti nell’ordinamento.
Ciò sia in relazione ai rapporti fra Stato e Regioni, titolari delle funzioni
di programmazione, per lo più definiti in modo impreciso e poco chiaro; sia nei
confronti degli enti locali, i quali, pur essendo costituzionalmente responsabili
in via generale delle competenze amministrative e gestionali nelle materie in
questione, sono considerati, al contrario, quasi esclusivamente meri soggetti
beneficiari di interventi, privati di qualsiasi autonomia decisionale e gestionale.
Con l’introduzione della citata terza dimensione della coesione, quella
“territoriale”, la Commissione attribuisce alle città e alle aree urbane, ormai
esplicitamente, un ruolo fondamentale nella impostazione ed attuazione delle
politiche di coesione(127). La posizione italiana sul futuro delle politiche di
coesione risulta carente invece proprio su questo aspetto. La risposta che il
documento citato “Contributo dell’Italia” prospetta sui contenuti della
governance multilivello si limita ad una petizione di principio (ancora, solo
formale) e ad un vago richiamo alla ownership delle strategie di sviluppo
ovvero alla condivisione di impegni e responsabilità comuni. Nessuna
indicazione viene data, invece, sulle modalità concrete per rendere effettivi tali
principi ed in particolare per garantire lo svolgimento da parte delle
amministrazioni locali di funzioni attuative degli interventi. Essenziali
quest’ultime, come già richiamato in precedenza, per la responsabilizzazione
delle autorità locali anche sui risultati specie alla luce dell’obiettivo generale
(127) Conclusioni della V Relazione sulla coesione, pag. 8: “La coesione territoriale è diventata uno degli obiettivi principali insieme alla coesione economica e sociale. Occorre pertanto affrontare questo obiettivo nei nuovi programmi, dando in particolare risalto al ruolo delle città”.
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della futura politica di coesione, a più riprese ribadito, di miglioramento della
valutazione, delle prestazioni e dei risultati(128).
Sarebbe necessario in primo luogo, prendere atto della necessità di
semplificare e rendere più efficiente l’organizzazione dei rapporti multilivello,
specie in sede di attuazione degli interventi integrati di area vasta. La
significativa complessità di tale organizzazione è stato uno dei fattori che hanno
condizionato negativamente l’efficacia dei progetti integrati territoriali
sperimentati in Italia nei passati cicli di programmazione europea. Allo stesso
tempo si dovrebbero coinvolgere anche città ed aree urbane a partire già
dall’analisi e dalle valutazione dell’impatto territoriale degli interventi da
programmare, attuando effettivamente le indicazioni prodotte nel “Libro Bianco
sulla Governance multilivello” della Commissione.
Il Libro Bianco insiste difatti sulla necessità della partecipazione dei
soggetti regionali e locali nella programmazione ed attuazione delle politiche
territoriali, in quanto essenziale per contemplare effettivamente le specifiche
realtà locali. E si sottolinea come, in mancanza di un siffatto approccio, sarebbe
difficile ideare policy territoriali realmente orientate ai risultati e attuare le
stesse in maniera appropriata ed efficace. Analogamente, il già richiamato
“Rapporto indipendente sull’efficacia della politica di coesione” (presentato ad
(128) Su questo punto anche un’altra posizione del documento risulta ampiamente deludente. Sono infatti respinte soluzioni di soglie minime di finanziamento (ring-fencing) per gli interventi di sviluppo urbano. Mentre proprio questo meccanismo potrebbe contribuire a rendere veramente responsabili le autorità urbane circa i propri progetti di sviluppo. Da identificare, naturalmente, nell’ambito della programmazione nazionale e regionale e fatti salvi eventuali poteri sostitutivi nel caso di inadempimento dei connessi obblighi gestionali ovvero per i casi di gravi ritardi nell’attuazione. Inoltre, i requisiti indicati quali condizioni per l’attivazione di interventi di sviluppo urbano (definizione territori di progetto, adeguata capacità di selezione delle iniziative) sembrano rispondere piuttosto alla preoccupazione di incanalare in rigidi schemi l’operatività delle autorità urbane, di cui sostanzialmente si diffida, che a delimitare utilmente l’ambito e la natura delle azioni di sviluppo urbano.
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aprile 2009 dalla Commissione, più noto come Rapporto Barca) indica una
politica di sviluppo place-based come la ottimale strategia di lungo termine
finalizzata ad affrontare le ricorrenti sottoutilizzazioni di risorse potenziali e
ridurre i persistenti fenomeni di esclusione sociale, grazie ad una governance
multilivello. Emerge così che, in tal caso, l’intervento pubblico si fonderebbe
sulla conoscenza locale e sarebbe verificabile e sottoponibile a valutazione.
In un parere sul futuro delle politiche di coesione, anche il Comitato
delle Regioni(129) ha di recente individuato l’intervenire in partenariato con gli
enti regionali e locali, che meglio hanno cognizione delle realtà locali e degli
ostacoli nell'attuazione dei progetti, come il metodo più efficace per stabilire
misure condivise al fine di migliorare l'efficacia della politica di coesione e la
sua gestione, per rafforzare le responsabilità e per garantire una corretta
gestione finanziaria.
Ruolo degli enti regionali e locali che è stato sottolineato ulteriormente
nel parere sul contributo della politica di coesione alla strategia Europa
2020(130) in cui si afferma che l'approccio orizzontale della politica di
coesione è l’unico atto a garantire la partecipazione attiva di tutte le regioni
europee alla strategia Europa 2020, attraverso un patto territoriale con gli enti
regionali e locali che stabilisca la loro partecipazione all'attuazione della
strategia stessa, nonché la loro partecipazione strutturata, secondo le rispettive
competenze. Le nostre autorità nazionali dovrebbero quindi concentrarsi da un
lato, sull’implementazione ed il miglioramento di metodi e processi di
coinvolgimento del partenariato istituzionale, nel contesto di tutte le fasi e di
tutti i livelli (nazionale ed europeo) di impostazione ed attuazione delle
(129) COTER-V-007 Parere del Comitato delle Regioni "Politica di coesione: relazione strategica sull’attuazione dei programmi 2007-2013”. (130) COTER-V-008 Parere del Comitato delle Regioni “Il contributo della politica di coesione alla Strategia Europa 2020”
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politiche territoriali; dall’altro dovrebbero perseguire il rafforzamento del ruolo
di città ed aree urbane, per ridurre le criticità che hanno caratterizzato, nel
recente passato, le politiche di coesione, quali la concentrazione del processo
decisionale, la diluizione dei risultati e dell’impatto economico, l’inadeguata
incidenza sociale ed ambientale.
4. Quale modello di attuazione per la politica di coesione post 2013? La
proposta del Comitato delle Regioni
Mentre il dibattito sulla politica di coesione post 2013 è in corso, e la
Commissione ha appena presentato le sue proposte di Regolamento in materia,
il quadro giuridico ed operativo della nuova programmazione 2014-2020 inizia
a delinearsi in modo più chiaro, in particolare appare acquisito che
l’introduzione della coesione territoriale fra gli obiettivi istituzionali
dell’Unione, pretenda una forte svolta in senso partenariale sia della
programmazione che della futura gestione degli interventi finanziati.
In questo senso appare condivisibile la proposta del Comitato delle
regioni di utilizzare lo strumento del Patto territoriale, quale compiuta
espressione di una governance pienamente multilivello, sia in fase di adozione
dei Piani nazionali di riforma, sia successivamente per l’attuazione dei progetti
finanziati attraverso i fondi strutturali: “gli enti regionali e locali svolgono un
ruolo importante in determinati settori d'intervento cruciali per il
conseguimento degli obiettivi di Europa 2020. Per attivare le sinergie e gli
effetti sistemici necessari al conseguimento di una crescita intelligente,
sostenibile e inclusiva, è necessario, dunque, che le loro politiche in questi
ambiti siano coordinate con quelle attuate dai rispettivi governi nazionali. A tal
fine e alla luce del proprio Libro bianco sulla governance multilivello, il
- 163 -
Comitato delle regioni propone che la Strategia Europa 2020 sia attuata in
partenariato da tutti i pertinenti livelli di governo attraverso l'istituzione di
appositi Patti Territoriali tra autorità nazionali, regionali e locali degli Stati
membri dell'UE”(131).
Lo strumento del Patto territoriale trova supporto anche presso le tre
maggiori istituzioni europee: Commissione, Parlamento e Consiglio: "Il mio
obiettivo è sempre stato quello di attuare la strategia Europa 2020 insieme ad
un ampio ventaglio di partner; sono perciò assolutamente favorevole alla
vostra idea dei Patti territoriali. Compirò ogni sforzo per convincere gli Stati
membri ad accettare il coinvolgimento di tutte le parti attraverso patti di questo
tipo” (Josè Manuel Barroso, Presidente della Commissione Europea); “Il
Parlamento europeo … chiede che il principio della governance multilivello sia
integrato in tutte le fasi della definizione e dell'attuazione della strategia
Europa 2020 al fine di garantire che le autorità regionali e locali, le quali sono
responsabili della sua attuazione, detengano l'effettiva proprietà dei risultati;
ricorda in tale contesto la proposta relativa a un «patto territoriale delle
autorità locali e regionali concernente la strategia Europa 2020», inteso ad
incoraggiare le regioni e i comuni a contribuire al successo della realizzazione
degli obiettivi della strategia Europa 2020" (Parlamento europeo, Risoluzione
sulla sana gestione in materia di politica regionale dell'Unione europea,
dicembre 2010); “L'idea dei Patti territoriali … è un valido stimolo alle nostre
riflessioni sulla strategia Europa 2020 e potrebbe dare un contributo
(131) Così Mercedes Bresso, Presidente del CDR: “Il partenariato ad ampio raggio richiesto dalla Strategia Europa 2020 deve essere realizzato in ciascun territorio mediante misure concrete ed una ripartizione delle responsabilità. Vi invito quindi a stipulare dei Patti Territoriali, nel cui ambito i fondi strutturali avranno con tutta evidenza una loro funzione da svolgere, con i governi dei vostri Paesi”.
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rilevantissimo alla sua attuazione" (Herman Van Rompuy, Presidente del
Consiglio Europeo).
Possiamo definire il Patto territoriale, nella versione proposta dal
Comitato delle regioni, un accordo di governance multilivello di natura
contrattuale, attraverso il quale gli Stati membri, con la collaborazione di
Regioni, Enti locali e Rappresentanze della società civile, danno attuazione agli
obiettivi contenuti nei Piani nazionali di riforma ed alle iniziative faro di
Europa 2020, così come contestualizzate attraverso il contratto di partnership
sottoscritto con la Commissione.
Tenuto conto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità, le istituzioni
dell'UE sosterranno i Patti territoriali stabilendo l'ordine di priorità delle proprie
azioni politiche alla luce degli obiettivi della strategia Europa 2020, attraverso
una focalizzazione ed un coordinamento rafforzati e una maggiore
semplificazione amministrativa nella gestione degli strumenti d'intervento e dei
canali di finanziamento dell'UE, un monitoraggio strutturato e regolare delle
modalità di attuazione dei programmi nazionali di riforma, nonché un ricorso
più ampio alla valutazione dell'impatto territoriale. Il contributo della politica di
coesione agli obiettivi Europa 2020, ferma restando la missione di solidarietà
che essa svolge, sarà determinante per poter trarre il massimo da questa
strategia(132).
La strategia Europa 2020 per una crescita intelligente, sostenibile e
inclusiva necessita dunque di un partenariato stabile e costruttivo fra tutti i
(132) I Programmi nazionali di riforma dei singoli Stati membri sono stati adottati nel mese di aprile scorso, con essi, tenendo conto della situazione iniziale del Paese, sono state indicate le misure d'intervento necessarie per la realizzazione di Europa 2020 a livello nazionale. In particolare, sono stati elencati gli obiettivi di respiro nazionale che concorrono al conseguimento delle cinque finalità principali della strategia Europa 2020 e le misure d'intervento correlate. Tra queste ultime rientrano il contributo nazionale alle iniziative faro dell'UE e i provvedimenti necessari per eliminare le strozzature esistenti (a livello del mercato interno e delle infrastrutture).
- 165 -
livelli di governo coinvolti, dall'Unione europea agli enti regionali e locali,
passando per i governi nazionali; tutto ciò è in linea sia con il ruolo assegnato
agli enti regionali e locali dal Trattato di Lisbona, alla luce dei principi di
sussidiarietà e proporzionalità, sia con la condizione che in numerosi Stati
membri ciascun livello di governo dispone di competenze e strumenti
d'intervento in almeno alcuni dei settori strategici chiave e tali competenze e
strumenti vanno coordinati e integrati per attivare le sinergie e gli effetti
sistemici indispensabili per il raggiungimento degli obiettivi di Europa 2020.
Questa dimensione contrattualizzata della governance multilivello, sotto
la forma di Patto territoriale, se attuata, potrebbe consentire di allineare le
agende UE, nazionali, regionali e locali, nonché gli strumenti d'azione e le
risorse finanziarie a essi correlati alle finalità e agli obiettivi principali della
strategia Europa 2020. Tutti i livelli di governo interessati ne ricaverebbero una
maggiore titolarità della strategia divenendo anche soggetti attivi nella
programmazione e successiva attuazione degli intereventi strutturali di
riequilibrio dei territori europei.
I Patti territoriali non potranno comunque seguire un formato standard,
in ragione del fatto che ogni Nazione presenta una situazione iniziale
particolare, sia sotto il profilo socioeconomico e territoriale sia sul piano
dell'assetto costituzionale e della ripartizione delle competenze tra i vari livelli
di governo(133). Va parimenti osservato che la crisi economico-finanziaria ha
(133) Sebbene l'ambito d'azione dei Patti territoriali per Europa 2020 possa sembrare ambizioso, negli ultimi dieci anni sono stati conclusi, in diversi Stati, accordi multilivello con obiettivi socioeconomici: ad esempio in Austria (Patti territoriali per l'occupazione 2007-2013), Belgio (Fiandre in azione, Patto 2020), Regno Unito (The Greater Nottingham Partnership), Francia (Patto territoriale per l'inclusione), Germania (Iniziativa per l'innovazione Regioni imprenditoriali del ministero federale tedesco dell’Istruzione e della ricerca) e Spagna (Patti territoriali della Catalogna per il mondo rurale). Tali accordi variano sensibilmente sulla base di elementi quali: i livelli delle amministrazioni coinvolte (locale, regionale, nazionale, europeo); la natura del partenariato (verticale od orizzontale),; il tipo di competenze (definizione di orientamenti o conseguimento di
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colpito i territori dell'Unione europea in maniera disomogenea e che, pertanto,
la necessità di assicurare la coesione territoriale contemplata nel Trattato di
Lisbona è passata in testa alle priorità dell'UE. Alla luce di ciò, i Patti in parola
andrebbero visti come un modo per conferire alla nuova strategia una
dimensione territoriale al pari di una titolarità territoriale, ossia per esprimere la
diversità attraverso politiche concepite in un'ottica locale, ispirate ai tre pilastri
della strategia (crescita intelligente, sostenibile e inclusiva) e sostenute da
indicatori e obiettivi territoriali (anche del tipo "Non solo PIL"). Per definire il
contenuto dei Patti territoriali e le modalità attraverso le quali gli enti regionali
e locali possono attuare la strategia Europa 2020 in collaborazione con le
autorità nazionali, sarebbe bene tenere in considerazione le esperienze in atto
che vedono tali enti coinvolti nell'amministrazione e nella gestione dei fondi
strutturali.
Fermo restando che il contenuto sarà deciso da ciascuno Stato membro
con il coinvolgimento delle sue amministrazioni nazionali, regionali e locali, in
virtù del principio di sussidiarietà, il CdR raccomanda che i Patti territoriali
soddisfino alcuni specifici requisiti: innanzitutto, è indispensabile che i Patti
territoriali siano istituiti con una certa urgenza sotto forma di partenariato equo
tra governo nazionale ed enti regionali e locali, in modo da consentire a tutti i
diretti interessati di condividere l'attuale processo di definizione dei principali
obiettivi nazionali, di progettazione delle iniziative faro e di elaborazione del
programma di riforma nazionale. In secondo luogo, ogni Patto dovrebbe
risultati); l'ambito di intervento (molto ampio o specifico); i settori interessati (ad es. erogazione di servizi ai cittadini o alle imprese e promozione della semplificazione amministrativa); la durata dell'accordo (temporaneo o permanente); il finanziamento (europeo, nazionale, locale o privato, nessun finanziamento). Tali differenze riflettono non solo obiettivi diversi ma anche differenze concrete tra i Paesi interessati e la loro diversità socioeconomica, culturale, istituzionale e ambientale
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istituire un sistema di monitoraggio e valutazione e prevedere i necessari
meccanismi al fine di accompagnare l'intero ciclo politico della strategia Europa
2020 e, all'occorrenza, di adeguarlo. In terzo luogo, gli accordi sottoscritti
nell'ambito di un Patto territoriale dovrebbero essere di natura contrattuale,
laddove opportuno ed esclusivamente su base volontaria, nel pieno rispetto del
quadro legislativo nazionale, e rispecchiare il più possibile lo schema di
contratto di partenariato per lo sviluppo e gli investimenti sottoscritto dallo
Stato membro con la Commissione. A tali contenuti essenziali il Comitato delle
Regioni aggiunge anche che, tramite lo strumento del patto territoriale,
bisognerebbe fornire un impulso tanto alla concentrazione degli strumenti
finanziari nazionali ed europei su obbiettivi condivisi, quanto all’uso coerente
di questi ultimi in modo da incentivare ulteriormente la coesione
territoriale(134).
Questo approccio "contrattuale", sostenuto da adeguati indicatori e
obiettivi condivisi da tutti i partner, consentirebbe di attivare le sinergie e gli
effetti sistemici di cui gli Stati hanno bisogno per il raggiungimento degli
obiettivi di Europa 2020. I Patti territoriali aiuterebbero quindi a colmare il
divario tra gli obiettivi della nuova strategia e ciò che il documento annuale di
analisi della crescita della Commissione (Annual Growth Survey) 2011
definisce una mancanza di ambizione riscontrabile nelle versioni preliminari dei
programmi nazionali di riforma presentati nel novembre 2010.
(134) Naturalmente, a prescindere dal contesto territoriale il Patto dovrebbe prevedere disposizioni giuridiche, che definiscano quali politiche sono necessarie e in che modo possono essere adattate per garantire una più efficiente realizzazione delle riforme strutturali richieste nel quadro della strategia Europa 2020; disposizioni finanziarie, che indicano in dettaglio quali risorse (finanziamenti UE, nazionali o locali, pubblici o privati) saranno utilizzate per conseguire gli obiettivi; disposizioni di governance, contenenti informazioni su eventuali nuovi accordi intesi a garantire una più efficace attuazione delle politiche di settore.
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Onde favorire la riuscita di questi Patti territoriali europei il CdR invita
le istituzioni comunitarie ad intraprendere in particolare iniziative nel campo
della semplificazione amministrativa e della riduzione degli oneri
amministrativi, della razionalizzazione degli strumenti d'azione e dei propri
canali di finanziamento, oltre a sottoporre a valutazioni d'impatto territoriale
tutte le proposte di misure d'attuazione della strategia Europa 2020 e, in
particolar modo, delle iniziative faro (o di aspetti di tali iniziative) che
potrebbero avere un impatto rilevante per i territori e per gli enti regionali e
locali
Gli obiettivi 2020 richiedono investimenti adeguati. Nell'ambito della
recente consultazione organizzata dal CdR sul tema "Europa 2020: i vostri punti
di vista", diverse regioni e città hanno sottolineato che la qualità della spesa non
è meno importante della quantità. Nel quadro dei Patti territoriali, le risorse
concretamente utilizzate dall'UE, dai governi nazionali e dagli enti regionali e
locali per iniziative legate alla strategia Europa 2020 dovrebbero essere mirate a
determinate priorità della strategia e andrebbero spese secondo una prassi
coordinata che integri in un unico quadro diverse politiche settoriali. Ciò
potrebbe contribuire notevolmente alla realizzazione degli obiettivi della
strategia anche qualora l'importo complessivo delle risorse utilizzate dovesse
rimanere identico a quello attuale. A livello dell'UE, si potrebbe riconsiderare
l'effettivo funzionamento degli strumenti politici esistenti, nell'ottica di renderli
maggiormente flessibili e idonei a essere utilizzati nel contesto di un Patto
multilivello su scala nazionale.
Dunque il Patto territoriale “evocato” dal Comitato delle Regioni si
configurerebbe quale modello di gestione per l’attuazione della Strategia
Europa 2020, e quindi implicitamente anche della politica di sviluppo regionale
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europea che a quella Strategia fornirà le risorse più significative: in tal senso
appare suggestivo ipotizzare che, ai fini dell’attuazione della coesione
economica, sociale e territoriale, un elemento distintivo del contenuto di questo
Patto potrebbe essere proprio quanto previsto nel contratto di partnership
sottoscritto con la Commissione, che dovrebbe quindi essere richiamato
integralmente nell’ambito del Patto stesso.
Si verrebbe così a creare una saldatura evidente tra la fase di
programmazione e definizione degli interventi strutturali (il contratto di
partnership) e la gestione ed attuazione degli stessi (Patto territoriale), saldatura
che assumerebbe stringenti connotati anche di natura giuridica, cristallizzati
nella forma contrattuale più propria per l’ordinamento di ogni singolo Stato
membro.
Ed è proprio sul tema della configurazione e della natura giuridica di
questo Patto multilivello che l’ordinamento italiano, vanta, all’interno
dell’Unione europea, un’esperienza pregressa di rilievo, che affonda le proprie
radici agli inizi degli anni 90 con la nascita della programmazione negoziata .
Fenomeno quest’ultimo che appartiene alla consapevolezza che solo il
governo dei processi, inteso come la gestione da parte di una fitta rete di attori
che negoziano obiettivi e strategie e cooperano al risultato, è in grado di
restituire crescita ed equilibrio ad una società fattasi complessa, segmentata e
differenziata(135).
La programmazione negoziata può e deve essere considerata un tassello
strategico, di questa svolta, anche culturale, delle politiche di sviluppo(136).
(135) NICOLAI M., La programmazione negoziata: patti territoriali e contratti d’area. Nuovi strumenti di finanza agevolata per le imprese e gli enti locali, Milano, 1999. (136) Per una analisi del Patto territoriale quale modello di sviluppo dei territori, in un’ottica sussidiaria, si vedano fra gli altri: ANCONA G. (a cura di), Programmazione negoziata e sviluppo locale, Bari, 2001; ANTONINI L., Il principio di sussidiarietà orizzontale da Welfare State a Welfare Society, in Rivista di diritto finanziario e scienze
- 170 -
Parlare di tale modello in senso stretto permetterebbe di raccogliere in pochi
tratti più esperienze recenti: quella dei patti territoriali e dei contratti d’area al
centro sud; quella delle intese istituzionali di programma al centro nord; e un
patrimonio minimale di norme costitutive e di modelli operativi. Si tratta, però,
di un’esperienza già ricca di casi complessi ed esemplari e di un patrimonio di
norme già strettamente connesso a dinamiche istituzionali che hanno ricevuto
accelerazioni potenti, casi di successo, ma anche insuccessi e critiche.
Per questo studio si è scelto come filo conduttore e punto di equilibrio il
richiamo al principio di sussidiarietà sia verticale che orizzontale, per provare
ad individuare ciò che si è evoluto nel rapporto tra amministrazione e cittadini,
tra operatori pubblici e privati dell’economia, tra “centri” e “periferie” e ciò che
potrebbe essere con questa “nuova generazione” di Patti Territoriali.
5. Il patto territoriale nell’esperienza gestionale italiana: struttura e
contenuti.
La prima grande esperienza di integrazione territoriale attraverso gli strumenti
della programmazione negoziata è stata realizzata, in Italia, tramite i patti
territoriali, strumenti per lo sviluppo locale avviati operativamente a metà degli
anni novanta; la loro attivazione è stata indirizzata ad interventi volti ad
incentivare il capitale per compensare gli svantaggi localizzativi del territorio e
delle finanze, 2000, n. 1 (marzo), pt. 1, pag. 99-115; BEVILACQUA C., Politiche di sviluppo e pianificazione territoriale: tra innovazione e prassi ordinaria, Roma, 2001. CAFAGGI F., Crisi della statualità, pluralismo e modelli di autoregolamentazione, in Politica del diritto, 2001, n. 4 (dicembre), pag. 543-583; CAIMI G., Il ruolo della Programmazione Negoziata nel quadro del processo di decentramento amministrativo e in riferimento alle politiche di programmazione dei fondi strutturali dell'Unione europea, in Rivista giuridica del Mezzogiorno, 2002, n. 1-2 (giugno), pag. 11-45; CONTIERI A, La programmazione negoziata: la consensualità per lo sviluppo. I principi, Napoli, 2000; KARRER F., ARNOLFI
S. (a cura di), Lo spazio europeo tra pianificazione e governance: gli impatti territoriali e culturali delle politiche UE, Firenze, 2003.
- 171 -
ad interventi di contesto (infrastrutture materiali ed immateriali) per rimuovere
le condizioni strutturali di svantaggio. Dunque il patto territoriale nasce con un
“anima” decisamente indirizzata alla coesione economica e sociale ed al
superamento dei divari presenti sul territorio nazionale.
I due macro obiettivi dei patti sono stati la promozione della
cooperazione tra soggetti pubblici e privati del territorio per lo sviluppo del
contesto locale e, l’incentivazione, attraverso tali progetti e mediante la
concertazione territoriale e tematica, di un volume di investimenti privati
capace di produrre esternalità, ossia vantaggi anche per altre imprese e per
nuovi investimenti.
Il patto territoriale, così come elaborato dal legislatore italiano, è un
mezzo mediante il quale giungere alla conformazione programmata del
territorio ed alla consequenziale realizzazione di interventi su di esso attraverso
lo strumento della negoziazione del loro contenuto fra una pluralità di soggetti
istituzionalmente rilevanti, siano essi pubblici o privati, singoli o esponenziali.
Il patto territoriale rientra, quindi, a pieno titolo fra gli strumenti di
negoziazione che, un tempo estranei all'ordinamento giuridico, sono oggi
previsti, nell’ordinamento nazionale, da una pluralità di norme, la cui funzione
e giustificazione dogmatica è quella di sostituire progressivamente l'azione
amministrativa per atti e provvedimenti amministrativi con un'amministrazione
che agisce per accordi, ed in genere avvalendosi dello strumento
negoziale(137).
L'idea che le pubbliche amministrazioni possano agire utilizzando
(137) NOBILE R. I Patti Territoriali quale strumento di programmazione negoziata del territorio. Brevi notazioni sulla loro natura giuridica e sulla loro operatività in Comuni d'Italia, fasc. 5 pag. 639 – 650, 2002. CAFAGGI F., Crisi della statualità, pluralismo e modelli di autoregolamentazione, in Politica del diritto, 2001, n. 4 (dicembre), pag. 543-583.
- 172 -
strumenti negoziali è stata generalizzata a seguito della promulgazione della
legge n. 241/90: l'art. 15 di quest’ultima, infatti, prevede espressamente che,
anche al di fuori delle ipotesi in cui si proceda mediante conferenza di servizi,
le amministrazioni pubbliche possono sempre concludere fra di loro accordi per
disciplinare lo svolgimento di attività di interesse comune, trovando
applicazione per quanto compatibili, le disposizioni previste dal precedente art.
11, commi 2, 3 e 5(138). In sintesi, dalla panoramica sull'evoluzione della
(138) Tradizionalmente, l’amministrazione pubblica cura gli interessi pubblici mediante il provvedimento amministrativo, che, deputato a regolare il rapporto autorità-libertà, produce effetti giuridici senza il consenso degli interessati. Il provvedimento amministrativo, dunque, era, di regola, lo strumento dell’agire amministrativo; l’accordo fra privato e pubblica amministrazione, era uno strumento eccezionale. Le riforme che negli anni ’90 hanno interessato la pubblica amministrazione e, in particolare, la legge generale sul procedimento amministrativo (L. 241/90), attribuiscono alla pubblica amministrazione la facoltà di concludere con il privato, in via alternativa, accordi endoprocedimentali, e, nei casi previsti dalla legge, accordi sostitutivi di provvedimento. Ciò consente, attualmente, di superare il problema dell’ammissibilità degli accordi fra P.A. e privati. La scarna previsione contenuta nell’art.11 della L. 241 del 1990 ripropone, però, il problema della qualificazione giuridica di tali accordi e dei principi e norme ad essi applicabili. Ampio dibattito dottrinario si apre, quindi, fra coloro i quali, pur ritenendo ammissibile l’accordo fra pubblica amministrazione e privato, ne definiscono tuttavia in maniera differente la natura giuridica. In particolare, si rinviene, in parte della dottrina, un orientamento che si può definire “panprivatistico”, al quale si contrappongono posizioni “pubblicistiche”. Ricchissima ed autorevole la bibliografia in merito, che qui riconduciamo ai diversi temi di maggior rilievo che ineriscono la materia de qua; sull’argomento dell’autorità e del consenso nella P.A. si vedano: BRUTI LIBERATI E., Consenso e funzione nei contratti di diritto pubblico, Milano, 1996; FALCON G., Le convenzioni pubblicistiche, Milano, 1984; FERRARA R., Gli accordi di programma, Padova,1993; FERRARA R., Gli accordi tra privati e pubblica amministrazione, Milano, 1985; FRANCO I., Il nuovo procedimento amministrativo, Bologna, 1995; GIANNINI M.S., Pubblico potere. Stato e amministrazioni pubbliche, Bologna, 1986; GULLO F., Provvedimento e contratto nelle concessioni amministrative, Padova, 1965; LEDDA F., Il problema del contratto nel diritto amministrativo, Torino, 1962; MANFREDI G., Accordi e azione amministrativa, Torino, 2001; ZITO A., Le pretese partecipative dei privati nel procedimento amministrativo, Milano, 1996. VILLATA R. SALA G., Il procedimento amministrativo, in Digesto Discipline pubblicistiche, vol XI, Torino, 1996, pag. 574 ss. Sul modulo consensuale quale strumento generale di azione amministrativa si vedano: AMIRANTE C., La contrattualizzazione dell’azione amministrativa, Torino, 1993; CAVALLO
B., Gli accordi integrativi e sostitutivi di provvedimenti amministrativi, in Dir. Proc. Amm., 1993, pag. 137 ss.; CIVITARESE MATTEUCCI S., Contributo allo studio del principio contrattuale nell’attività amministrativa, Torino, 1997; ESPOSITO G. M., Amministrazione per accordi e programmazione negoziata, Napoli, 1999; GIACCHETTI S., Gli accordi dell’art.11 della legge n.241 del 1990 tra realtà virtuale e realtà reale, in, Dir. Proc. Amm.,1997, pag. 513 ss.; MANZI L., Contrattualità dell’azione della pubblica amministrazione, in Riv. Amm. 1998, pag. 43 ss.; MERUSI F., Il coordinamento degli
- 173 -
normativa in materia di attività negoziata della pubblica amministrazione
emerge un diffuso favor del legislatore italiano nei confronti della possibilità di
intervenire nei procedimenti in modo non più o non solo più autoritativo,
essendo evidente che l'apporto dei soggetti coinvolti nel processo di formazione
degli atti della pubblica amministrazione garantisce meglio il conseguimento
del pubblico interesse che è poi il fine ultimo cui i pubblici poteri debbono
tendere(139).
Ciò è vero al punto tale che l'art. 11 della legge 241/90 ha espressamente
previsto che in accoglimento delle osservazioni dei privati cui il procedimento è
diretto, la pubblica amministrazione possa concludere accordi mediante i quali
interessi pubblici e privati dopo le recenti riforme, in Dir. Amm., 1993, pag. 21 ss.; PEDACI
V., Brevi note sugli accordi amministrativi come modello di amministrazione consensuale, in L’Amm. It., 1999, pag.. 1169 ss.; PEDACI V., Modelli di amministrazione consensuale: alcune considerazioni sugli accordi amministrativi, in Nuova Rass., 1999, pag. 852 ss.; PEDACI V., Pluralismo organizzativo e mezzi di coordinamento: note sugli accordi tra amministrazioni e su quelli di programma, in Riv. Amm., 1999, pag. 263 ss.; CASTIELLO
F., Il nuovo modello di azione amministrativa, Rimini, 1996; STICCHI DAMIANI E., Attività amministrativa consensuale e accordi di programma, Milano, 1992; PERICU G., L’attività consensuale della pubblica amministrazione, A.A.V.V., Diritto Amministrativo, Bologna, 2001, pag. 1697 ss.; CASTIELLO F., Gli accordi integrativi e sostitutivi di provvedimenti amministrativi, in Dir.Proc. Amm., 1993, pag. 124 ss.; Sul problema della natura giuridica degli accordi si veda: CAVALLO B., Il procedimento amministrativo e attività pattizia, in Il procedimento amministrativo tra semplificazione partecipata e pubblica trasparenza, Torino, 2000, pag. 70 ss.; CASTIELLO F., Op. cit., 1996; CIVITARESE MATTEUCCI S., Op. cit.; LEDDA F., Nuove note sugli accordi “di diritto pubblico” e su alcuni temi contigui, in Giur. It., 1998, pag. 394 ss.; VETTORI.G., Accordi amministrativi e contratto, in Contr. e Impr., 1993, pag. 526 ss. Per un esame comparato della tesi contrattualistica con quella pubblicistica si vedano: BRUTI LIBERATI E., Op.cit; CANGELLI F., Riflessioni sul potere discrezionale della pubblica amministrazione negli accordi con i privati, in Dir. Amm., 2000, pag. 227 ss.; CERULLI
IRELLI V., Qualche riflessione su “accordi” e “contratti di diritto pubblico”, in Gli accordi tra privati e pubblica amministrazione e la disciplina generale del contratto, in Barbagallo, Follieri, Vettori, (a cura di) Napoli, 1995, pag. 77 ss.; D’AMICO A., Azione amministrativa. Discrezionalità negoziata, in Foro Amm., 1994, pag. 1656 ss.; FALCON G., Op. cit.; GIANNINI M. S., Op. cit.; SCOCA F. G., La teoria del provvedimento dalla sua formulazione alla legge sul procedimento amministrativo, in Dir. Amm., 1995, pag.. 1 ss.; PORTALURI P. L.,Potere amministrativo e procedimenti consensuali. Studi sui rapporti a collaborazione necessaria, Milano, 1998; TRIMARCHI BANFI F., I rapporti contrattuali della pubblica amministrazione, in Dir. Pubbl., 1998, pag. 35 ss. (139) SELVAROLO S. G., I patti territoriali nella programmazione negoziata, Bari, 2003. ZERBONI N., Patti territoriali e contratti d'area: gli strumenti della programmazione negoziata per lo sviluppo locale: analisi della normativa italiana e comunitaria, Milano, 1999.
- 174 -
definire il contenuto discrezionale del provvedimento finale, salvaguardando i
diritti dei terzi e garantendo comunque il soddisfacimento del pubblico
interesse(140).
La disciplina organica degli strumenti di conformazione negoziata del
territorio è contenuta nella, l. n. 662/96, la quale ha recepito nel proprio
articolato la fattispecie del patto territoriale, già introdotto nell'ordinamento dal
d.l. n. 244/95, convertito nella legge n. 431/95, facendo peraltro venir meno il
nesso di necessaria inerenza del patto alle aree depresse, estendendone quindi
l'utilizzabilità a tutto il territorio nazionale, indipendentemente dalla
connotazione e dalla qualificazione della porzione di territorio interessata(141).
Gli strumenti di contrattazione programmata del territorio sono
specificamente elencati nell'art. 2, comma 1 della legge n. 662/96, che ha
abrogato buona parte della pregressa normativa, lasciando in vita praticamente
solo la definizione di "area depressa". Essi vengono definiti, in modo generale,
come quegli strumenti che hanno ad oggetto interventi che coinvolgono una
(140) Sull’art.11 della legge 241/90 si vedano fra gli altri: CAVALLO B., Il procedimento amministrativo e attività pattizia, in Il procedimento amministrativo tra semplificazione e pubblica trasparenza, Torino, 2000, pag.. 119 ss.; FOLLIERI E., Gli accordi fra privati e pubblica amministrazione nella legge 7 agosto 1990 n.241, in Gli accordi tra privati e pubblica amministrazione e la disciplina generale del contratto, a cura di BARBAGALLO, FOLLIERI, VETTORI, (a cura di), Napoli, 1995, pag. 51 ss.; SALA G., Accordi sul contenuto discrezionale del provvedimento, in Dir. Proc. Amm., 1993, pag. 229 ss.; VACIRCA G., Accordi pubblicistici: incremento nella tutela del privato?, in Cons. Stato, 2001, II, pag. 1815 ss.; CASTIELLO F., Op. cit.; PERICU G., Op. cit; VETTORI G., Op. cit., pag. 525 ss.; PAOLANTONIO N. Autoregolazione consensuale e garanzie giurisdizionali, in Cons. Stato, 2000, pag. 793 ss; AICARDI N., La disciplina generale e i principi degli accordi amministrativi: fondamento e caratteri, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1997, pag. 1 ss.; BRUTI
LIBERATI E., Op.cit.; CASTIELLO F., Il nuovo modello di azione amministrativa, Rimini, 1996; FALCON G., Op.cit.; FRATTINI F., Le fonti della gerarchia degli interessi, in Cons. Stato,1991, n.10, pag. 1763 ss.; IMMORDINO M., La revoca degli atti amministrativi e tutela dell’affidamento, Torino, 1999; MANFREDI G., Op.cit.; PAPARELLA FR., Revoca (dir. Amm.), in Enc. Dir., XL, Milano 1989, pag. 204 ss; PORTALURI P.L., Potere amministrativo e procedimenti consensuali. Studi sui rapporti a collaborazione necessaria, Milano, 1998; SALA G., Op. cit.; STICCHI DAMIANI E., Op. cit.; VITALE S., Gli accordi fra privati e pubblica amministrazione, in Il procedimento amministrativo, commento alla l. 7 agosto 1990, n. 241, Padova, 1996, pag. 77 ss. (141) DI MARCO C., I rapporti Stato-Regioni-enti locali nel sistema dell’amministrazione pattizia, in Le regioni, 1999, n. 3 (giugno), pag. 471-496.
- 175 -
molteplicità di soggetti pubblici e privati ed implicano decisioni istituzionali e
risorse finanziarie a carico delle amministrazioni statali, regionali e delle
province autonome nonché degli enti locali.
In concreto, gli strumenti di conformazione negoziata del territorio sono
la programmazione negoziata (lett. a)), l'intesa istituzionale di programma (lett.
b)), l'accordo di programma quadro (lett. c)), il patto territoriale (lett. d)), il
contratto di programma (lett. e)), il contratto d’area (lett. f)).
Guardando alla definizione normativa dei vari istituti delineati dal
legislatore, non può non essere rilevato che essi hanno tutti un elemento
costitutivo in comune: l'accordo di una pluralità di centri di riferimento di
interessi rilevanti in un determinato ambito territoriale, di cui, a vario titolo,
sono portatori soggetti pubblici o privati comunque legati ad un dato territorio
da precisi nessi di inerenza(142).
Nello specifico, taluni degli strumenti negoziali in esame attengono più
genericamente alla fase propedeutica dell'intesa operativa vera e propria, come
ad esempio l'intesa istituzionale di programma, che ha ad oggetto l'impegno alla
collaborazione fra stato e regione (o province autonome) finalizzato alla
realizzazione di un piano pluriennale di interventi d'interesse comune o
funzionalmente collegato. Per contro, altri hanno contenuti immediatamente
operativi, nella maggior parte dei casi connessi ad obiettivi di promozione dello
sviluppo locale del territorio e del suo assetto produttivo. La valutazione di tali
strumenti di conformazione negoziata del territorio si presta a due ordini di
considerazioni interlocutorie: in primo luogo quest’ultimi sono, nella ratio del
(142) BARONE A., Urbanistica consensuale, programmazione negoziata e integrazione comunitaria in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2001, n. 2 (giugno), pag. 261-282. CIARLO P., Le nuove regioni: vocazione all’economia territoriale, crisi del criterio di competenza e contrattualismo politico in Nuove Autonomie, 2001, n. 6 (dicembre), pag. 767-789.
- 176 -
legislatore, il mezzo attraverso il quale assicurare la funzionalizzazione della
conformazione del territorio a specifiche finalità, il che rappresenta il
prerequisito della loro legittimità, finanziabilità ed attuabilità. In secondo luogo,
attraverso tali strumenti, il legislatore ha mostrato di voler trascendere il
modello della realizzazione di infrastrutture ed opere pubbliche sul territorio
sovente fini a se stesse, per accreditare un modulo operativo nel quale la spesa
pubblica diviene ammissibile se ed in quanto, ricorrendone i presupposti, sussi-
ste un nesso di funzionalizzazione fra di essa e le ragioni del territorio
interessato, debitamente enucleati, analizzati e compiutamente rappresentati dai
soggetti che con quella determinata area hanno nessi di inerenza.
Ciò è vero al punto tale che quando i soggetti privati intervengono nella
formazione dei mezzi per la conformazione negoziata del territorio essi
agiscono non già nell'ambito di un procedimento amministrativo, ma addirittura
nella precedente fase della rappresentazione degli interessi pubblici o privati
che in esso trovano collocazione. In questo modo la formalizzazione di tali
mezzi consente di delineare strumenti mediante i quali, attraverso il
coinvolgimento di diversi centri portatori di interessi pubblici o privati
comunque afferenti al territorio, è possibile dare compiuta sistemazione
all'assetto territoriale.
In questo il patto territoriale e gli strumenti di programmazione
negoziata rappresentano senz’altro un efficace modello di attuazione della
coesione territoriale, così come pensata nel Trattato di Lisbona.
Ed è la stessa legge 662/96 che all’art 2 definisce il patto territoriale
come uno strumento di intervento negoziato che consiste nell' "accordo,
promosso da enti locali, parti sociali, o altri soggetti pubblici o privati con i
contenuti di cui alla [precedente] lett. c) (vale a dire i contenuti previsti per
- 177 -
l'accordo quadro di programma), relativo all'attuazione di un programma di
interventi caratterizzato da specifici obiettivi di promozione dello sviluppo
locale".
Dalla definizione legislativa dell'istituto si possono trarre subito alcune
conclusioni relative al suo contenuto. In primo luogo, il patto territoriale è
strumento complesso che si fonda su un accordo, e quindi sull'esito di una
procedura negoziata, ad estensione endoregionale, fra una pluralità di soggetti,
a connotazione indifferenziata. Nella formazione del patto territoriale, come si è
avuto modo di evidenziare, possono infatti intervenire enti locali, parti sociali, o
altri soggetti pubblici o privati, e quindi sia soggetti singoli, sia enti
esponenziali.
Lo strumento patrizio si configura dunque come un processo aperto ed
in grado di accogliere ulteriori iniziative di investimento basandosi sul concetto
di integrazione e di concertazione: con integrazione si intende la creazione di un
unico disegno che includa molti programmi d'intervento, convogliando in
questo modo gli investimenti pubblici verso la realizzazione di un programma
condiviso. Mentre la concertazione sottolinea che tutto il processo
d'elaborazione del progetto pattizio sia svolta realmente intorno ad “un unico
tavolo” che riunisca tutti i soggetti coinvolti, dando luogo così ad una reale
negoziazione(143).
La concertazione, orientata ad assicurare la rispondenza dei contenuti
del patto agli interessi del territorio, assicura uno sviluppo di tipo bottom up,
con il coinvolgimento responsabile di un partenariato pubblico-privato che
comprenda tutti gli operatori che svolgono una funzione significativa in un
(143) GIANNETTI L., I patti territoriali in Italia nella prospettiva delle politiche dell'Unione Europea in Quaderni regionali pag. 403 ss., 2006.
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determinato territorio. La concertazione, inoltre, mira al miglioramento delle
capacità progettuali sviluppate in base ad un'attenta analisi della situazione
locale. Tali elementi si possono considerare i connotati caratteristici della
formula italiana del patto territoriale. In particolare l'obiettivo perseguito è
quello della realizzazione di una cooperazione regionale in varie aree che
presentano difficoltà ma anche potenziali di crescita e sviluppo. La
cooperazione dovrebbe rilevare tali potenzialità mobilitando tutte le risorse
disponibili ed attivabili all'interno delle strategie individuate, favorendo
l'integrazione e il coordinamento delle azioni e, infine, contribuendo a
realizzare azioni idonee a favorire l'occupazione. È evidente che in questa
prospettiva il territorio di riferimento è assunto quale elemento attivo, e non già
semplice "supporto" nel processo di sviluppo.
Della formazione del patto, e delle sue modalità si occupa
esaustivamente il punto 2.8. della deliberazione Cipe del 21.3.1997, che rinvia
sulla questione a quanto previsto dall'art. 2, comma 203, lett. c) della legge n.
662/96, ossia per la fattispecie dell'accordo di programma quadro. In
particolare, secondo quanto propsetta sul punto la citata deliberazione Cipe,
l'accordo deve prevedere quali sono gli adempimenti che incombono su ciascun
soggetto interessato, compresi quelli afferenti alla realizzazione degli interventi
infrastrutturali ed allo sviluppo degli investimenti a supporto delle opere.
L'immediata vincolatività dell'accordo riveste particolare importanza posto che
l'approvazione del patto territoriale avviene nel presupposto che esso sia
immediatamente finanziabile, cadenzato nei suoi adempimenti e comunque
oggetto di programmazione delle relative fasi nelle quali si articola. L'accordo,
poi, deve includere quali sono gli atti da adottare, anche in deroga alla
normativa vigente, per consentire la massima. semplificazione ed accelerazione
- 179 -
delle procedure e dei procedimenti, onde garantire la massima speditezza.
Da tutto ciò si deduce anche che il patto territoriale è uno strumento a
contenuto variabile, il quale deve essere concretizzato nei suoi elementi con
riferimento ad ogni singolo momento procedimentale nel quale si articola.
Tale variabilità è una diretta conseguenza sia dell'assetto territoriale
presupposto all'attivazione del patto territoriale, sia del numero dei soggetti che
in esso sono coinvolti, sia, infine, della modificazione progettata dell'assetto
territoriale, e quindi dell'impatto sul territorio delle opere e degli interventi
conformativi proposti ed attuati
Quanto alla procedura di formazione, deve essere tenuto presente che il
patto territoriale ha origine esclusivamente locale, essendo stato eliminato il
riferimento all'attuazione di previe intese od accordi di programma, che le
finalità del patto territoriale sono sempre locali e che il patto territoriale può
essere promosso ed attivato anche su istanza di privati. La disciplina della
formazione del patto territoriale è oggetto di normazione secondaria da parte del
Cipe, al quale l'art. 2, commi 205, 206, 207 e 208 della legge 23.12.1996, n. 662
ha attribuito specifica competenza in materia, e precisamente nelle deliberazioni
10.5.1995, 12.7.1996 e 21.3.1997.
La procedura di formazione del patto territoriale prende corpo con
l'iniziativa del soggetto promotore, il quale, secondo quanto indicato nel punto
2.3. della deliberazione Cipe del 21.3.1997 può essere l'ente locale, un insieme
di altri soggetti pubblici operanti a livello locale, una rappresentanza locale
delle categorie degli imprenditori locali o dei lavoratori interessati, ovvero
qualunque altro soggetto privato.
Il soggetto promotore, qualunque ne sia la connotazione, diviene
soggetto istituzionalmente qualificato, al punto che dell'iniziativa di patto
- 180 -
territoriale è data comunicazione alla regione.
Del patto territoriale deve essere nominato un soggetto responsabile, il
quale deve possedere le caratteristiche indicate dal punto 3 della deliberazione
Cipe del 10.5.1995, e, nello specifico, deve assolvere a tutte le incombenze
previste dal punto 2.5. della deliberazione del Cipe del 21.3.1997, le quali,
comprese fra il "rappresentare in modo unitario gli interessi dei soggetti
sottoscrittori" ed “il curare apposite relazioni a cadenza semestrale”, si snodano
attraverso la convocazione delle eventuali conferenze dei servizi, il
monitoraggio, il rispetto delle pattuizioni e quant'altro sia "utile alla
realizzazione del Patto".
Alla fase dell'iniziativa segue quella della concertazione con le parti
sociali, formalizzata con un protocollo d'intesa la cui funzione è quella di
verificare la coerenza e la compatibilità della proposta di patto territoriale con le
finalità di sviluppo locale perseguite dai soggetti promotori (punto 2.10.1 della
direttiva Cipe). Il patto territoriale, infatti, è ammissibile in quanto contiene la
disponibilità di progetti di investimento per iniziative imprenditoriali nella
misura indicata nel punto 2.10.1. delle direttiva Cipe del 21.3.1997. Istruiti gli
atti e verificatane la coerenza interna, il Ministero per lo sviluppo economico,
una volta acquisito il parere della regione interessata in quanto ente a
competenza necessaria in materia di programmazione territoriale, qualora non
sia ricompressa fra i sottoscrittori del patto territoriale, e verificata la
consistenza delle risorse economiche destinate dal Cipe, approva il patto
territoriale con apposito decreto da emanare entro 45 giorni.
Il patto territoriale è poi sottoscritto e stipulato entro 60 giorni dalla data
di emanazione del decreto ministeriale (punto 2.10.2 della direttiva Cipe del
21.3.1997). La sottoscrizione del patto territoriale, in quanto atto avente natura
- 181 -
negoziale, e quindi lato sensu contrattuale, esplica effetti immediatamente
vincolanti per i soggetti firmatari all'adozione degli atti di rispettiva competenza
relativi agli interventi assunti. Il rispetto degli obblighi assunti non è, peraltro,
oggetto di specifica normazione di natura imperativa.
Esso, piuttosto, viene garantito di fatto attraverso la previsione di sistemi
sanzionatori e di clausole penali dedotte nell'accordo, fermo restando che per i
soggetti pubblici sono sempre ipotizzabili specifiche responsabilità in via
amministrativa che trascendono i meri aspetti civilistici del danno
rilevante(144).
6. Patti territoriali ed altri strumenti di concertazione nella
programmazione regionale dei fondi europei: le esperienze passate
Chiarito che il patto territoriale è da considerarsi come un modello di sviluppo,
aperto alle istanze della società civile e frutto della composizione degli interessi
radicati su di un determinato territorio, non c’è da meravigliarsi se già nel corso
delle precedenti programmazioni della politica di coesione questo stesso
strumento, oggi “riproposto dal Comitato delle regioni”, abbia avuto un certo
grado di successo e di attuazione all’interno dei vari Stati membri, nell’ambito
degli interventi di riassetto strutturale dei territori.
In particolare a seguito dei buoni risultati dell’esperienza dei Patti
territoriali per l’occupazione, elaborati dalla Commissione ed attuati a partire
dal 1996(145), la Commissione stessa proponeva già per il ciclo 2000-2006
(144) NOBILE R. Op.cit. (145) Il progetto "Patti territoriali per l'occupazione" era un'iniziativa complementare alle politiche del lavoro attuate a livello nazionale dagli Stati membri, lanciata nel dicembre 1996 in occasione del vertice europeo di Dublino, volta alla sperimentazione di nuove forme di organizzazione del lavoro, all'inserimento di alcuni gruppi svantaggiati (disoccupati cronici, giovani, donne…), al sostegno specifico delle imprese locali, nonché ad illustrare il valore aggiunto dell'azione di partenariato a livello locale. I patti europei per l’occupazione non costituivano una nuova iniziativa comunitaria, bensì una modalità
- 182 -
l’integrazione dello strumento pattizio nell’ambito dei regolamenti attuativi
della politica di sviluppo regionale; più specificamente introduceva il principio
dell’integrazione su scala territoriale tra gli interventi al fine di aumentare
l’efficacia delle politiche strutturali, con modalità di attuazione affidate al
partenariato economico e sociale. In Italia il Qcs 2000-2006 per le Regioni
obiettivo 1 affidava al Progetto integrato territoriale (PIT), inteso non quale
nuovo strumento bensì quale modalità operativa di attuazione, lo scopo di
“massimizzazione dell'efficacia delle azioni di sviluppo favorendo, all'interno
dei singoli Programmi operativi, la programmazione, il finanziamento e
l'attuazione di progetti integrati di sviluppo”, fornendo successivamente delle
linee guida omogenee per tutte le Regioni(146). I PIT costituivano pertanto un
pacchetto integrato di interventi progettuali che trovavano unitarietà in un’idea-
forza di fondo, definita attraverso procedure di condivisione partenariale e di
tipo patrizio: si trattava, pertanto, di condurre gli attori di un sistema locale a
confrontarsi e decidere quale dovesse essere l’idea costitutiva di un progetto di
sviluppo, e su questa idea condurre un’azione sinergica per dare massima
sperimentale di utilizzo delle risorse europee nell'ambito delle dotazioni già assegnate a ciascun Stato per il periodo di programmazione 1994/1999 nell'ambito dei DOCUP e dei QCS. Con il documento Una strategia europea per incoraggiare le iniziative locali di sviluppo e occupazione, (Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo del 13 giugno 1995, COM (95) 273 la Commissione delineava una strategia che accomunava qualità della vita e sviluppo economico nella individuazione dei settori «suscettibili di soddisfare le nuove esigenze e di offrire opportunità di lavoro considerevoli». Successivamente, con il “Patto europeo di fiducia per l'occupazione” (Commissione europea, Azione per l'occupazione in Europa. Un patto di fiducia, Cse (96) def., Bollettino dell'Unione europea, Supplemento 4/96), la Commissione proponeva agli Stati membri “di mettere a punto dei patti territoriali per l'occupazione”, rispetto ai quali la Commissione stessa si impegnava «a garantire un uso più efficace dei fondi strutturali destinati all'occupazione», La strategia trovava il pieno sostegno da parte degli Stati membri, con l'elaborazione di 89 progetti di patto, la cui sostanziale realizzazione, con risultati ritenuti soddisfacenti, avrebbe portato la Commissione prima ad ipotizzare la programmazione FESR 2000-2006, orientata verso una strategia territorially-based, e quindi a riproporre questo strumento nel regolamento FESR 2000-2006. (146) GALLIA R., Patti territoriali e strumenti regionali di sviluppo locale in Rivista giuridica del Mezzogiorno, pag. 655-684, 2005.
- 183 -
concentrazione e integrazione agli interventi sui fondi strutturali nell’ambito
della programmazione regionale.
In tal senso il Quadro Comunitario di Sostegno per le Regioni
meridionali 2000-2006, documento istitutivo dei PIT, definiva i Progetti
Integrati come "complesso di azioni intersettoriali, strettamente coerenti e
collegati tra loro, che convergono verso un comune obiettivo di sviluppo del
territorio e giustificano un approccio attuativo unitario". I Programmi
Operativi Regionali per il periodo 2000-2006 ed i relativi Complementi di
Programmazione, documenti attuativi delle politiche del Quadro Comunitario di
Sostegno, prevedevano i Progetti Integrati Territoriali quali modalità operative
di eccellenza per l'attuazione dei P.O.R, ritenendo prioritarie le iniziative
progettuali capaci di dimostrare una forte integrazione e condivisione
territoriale.
In questo modo sulla base delle previsioni del CdP, la strategia di
sviluppo locale dei PIT doveva trovare piena coerenza rispetto agli obiettivi dei
POR, assumendo a riferimento i principi di integrazione e concentrazione sotto
il duplice profilo funzionale e territoriale da focalizzare intorno a un'idea di
crescita partecipata e condivisa dai diversi attori ai vari livelli del territorio e
definita come approccio attuativo unitario capace di incidere sulle “variabili di
rottura” individuate dai POR, vale a dire sui temi più forti che l’analisi
preliminare aveva individuato come ostacoli allo sviluppo.
Le Regioni italiane obiettivo 2 invece provvedevano, individualmente,
all'interno dei propri Documenti unici di programmazione (Docup) e dei relativi
Complementi di programmazione, ad adottare formule di attuazione analoghe ai
PIT anche se diversamente denominate: Programmi di sviluppo locale (Psl),
Programmi di sviluppo d’area (Psa), Progetti integrati di sviluppo locale (Pisl),
- 184 -
Progetti integrati (Pi).
Numerose sono state le forme che il Progetto integrato territoriale ha
assunto nel corso dell’ultimo decennio: per quanto riguarda le Regioni
meridionali (ex obiettivo 1 e convergenza), il Piano per lo sviluppo del
Mezzogiorno individuava i Programmi integrati di sviluppo (PIS) quale
strumento per assicurare “la celere attuazione di programmi e progetti ritenuti
prioritari a livello locale e con forte impatto di sviluppo sul territorio”.
Le regioni meridionali, nell'ambito dei rispettivi Programmi operativi
regionali, hanno provveduto ad individuare i propri strumenti di
programmazione integrata, approfondendone i contenuti e/o delimitando i
territori di intervento all'interno dei relativi Complementi di programmazione
(CdP), e disciplinandone l'attuazione alcune con provvedimenti di carattere
regolamentare altre con provvedimenti legislativi; prevedendo una pluralità di
strumenti, distinguibili in progetti per lo sviluppo di ambiti territoriali
subregionali, progetti con un chiaro orientamento tematico (definibili settoriali),
progetti per lo sviluppo delle città.
I PIT hanno senz’altro costituito un meccanismo importante nella
definizione di procedure preferenziali per l’attuazione della spesa, arrecando
benefici procedurali non indifferenti. Sotto questo profilo, si tratta certamente
di un successo. Se si vuol considerare però che l’aspettativa generata dai PIT
era quella di generare forme stabili di funzioni associate tra Enti locali, occorre
rilevare che nessuna di queste formazioni ha dato luogo ad una forma più
stabile di cooperazione capace di incidere non solo nella fase di attuazione ma
anche in quella di progettazione degli investimenti.
E certamente questa tendenziale debolezza degli Enti locali è stata una
caratteristica abbastanza diffusa anche dei patti territoriali delle “passate
- 185 -
generazioni”: se infatti “le avanguardie intellettuali” si convincevano sempre
più decisamente della necessità di investire i livelli politico-amministrativi
locali di responsabilità programmatorie e decisionali, l’avvio delle prime
esperienze di progettazione per lo sviluppo locale della fine degli anni 90
metteva in pratica un approccio in larga parte diverso. Nell’esperienza dei
progetti Leader e dei patti territoriali, gli strumenti di policy disegnati facevano
sì che fossero spesso soggetti privati di livello locale, e non pubblici, a prendere
l’iniziativa per la costruzione dei progetti di sviluppo nei territori. Le
amministrazioni comunali, nel caso di alcuni patti territoriali, attraverso sindaci
eletti con le nuove regole, si cimentavano sì nelle sfide poste dalla nuova
politica, ma spesso non risultavano preparate. In molti casi, quindi, le
amministrazioni pubbliche locali erano superate dal dinamismo di alcuni
soggetti organizzati del mondo privato.
Se talora ciò è stato recuperato strada facendo con l’assunzione di un
ruolo di coordinamento della proposta e della gestione degli interventi da parte
degli Enti Locali, in altri casi tutto questo non si è verificato perché la loro
debolezza iniziale era troppo forte ovvero la condivisione del progetto solo
formale(147).
È quindi possibile che in fase applicativa il disegno degli strumenti si sia
rivelato poco adatto a promuovere la complementarietà tra iniziativa privata e
responsabilità pubblica. Ciò ha perpetuato l’equivoco che la decisione ultima
sull’investimento di natura spiccatamente pubblica potesse essere sostituito
dall’attivismo di soggetti privati. La politica di sviluppo locale degli anni
novanta, e in particolare quella dei Patti, si è in generale scontrata, specie nel
Sud Italia, con la debolezza tecnica delle istituzioni pubbliche locali, che ha
(147) DE VIVO P., Le Attuali politiche per lo sviluppo del Mezzogiorno: i Patti Territoriali e le istituzioni locali, in Rivista Economica del Mezzogiorno, A. XIV, n.2, 2000.
- 186 -
limitato la trasformazione in realtà dei benefici promessi dallo schema
teorico(148).
Le difficoltà mostrate dai Comuni nel prendere in carico le funzioni di
progettazione e gestione, per la novità e le sfide che esse presentavano, hanno
deluso le aspettative di molti osservatori. In parte ciò ha finito per presentare
argomenti a favore della posizione che il decentramento funziona soprattutto
dove lo sviluppo c’è già e che, quindi, decentrare non sia necessariamente una
buona idea. Ma quella dei patti di prima generazione è davvero stata una
esperienza di decentramento delle responsabilità di policy? Sia il fatto che il
policy maker finanziatore è rimasto in quel caso lo Stato centrale, sia la
mancanza di un quadro istituzionale dotato di regole chiare che richiedesse e
regolamentasse la partecipazione delle istituzioni pubbliche competenti a livello
locale, mette in dubbio che si sia trattato di un maturo passo nel processo di
decentramento della politica di sviluppo.
7. Il futuro della sussidiarietà nell’ambito della politica di coesione: uno
scenario possibile.
L’esperienza pregressa dei patti territoriali, ed in genere delle forme di
amministrazione negoziata del territorio, con le luci e le ombre appena
tratteggiate, ci porta a svolgere alcune considerazioni conclusive sul modello di
attuazione della futura politica di sviluppo regionale proposto dal Comitato
delle Regioni, e sostanzialmente appoggiato da Commissione e Parlamento
europei.
(148) Dipartimento per le politiche di Sviluppo (DPS), La Lezione dei Patti Territoriali per la progettazione integrata territoriale nel Mezzogiorno, Ricerca commissionata dal Ministero economia e Finanze, DPS, Gennaio 2003.
- 187 -
In particolare vale la pena evidenziare che, al contrario di quanto
accaduto, con le precedenti esperienze, in questo caso il contenuto dei patti
sarebbe sostanziamente vincolato non solo al raggiungimento delle priorità
stabilite per Europa 2020, ma anche e più specificamente a quanto individuato
nel contratto di partnership sottoscritto da ogni Stato membro con la
Commissione.
Questo vincolo contrattuale accompagnato da una progressiva
concentrazione tematica, se da un lato sembra garantire una maggiore efficace e
snellezza del mezzo scelto, rispetto al complesso procedimento di approvazione
del Quadro strategico nazionale, proprio della programmazione in corso 2007-
2013, dall’altro rischia di comprimere seriamente l’applicazione del principio di
sussidiarietà, almeno nella fase di programmazione, limitandone l’operatività
esclusivamente alla fase di attuazione degli interventi.
Lo scenario ipotizzato potrebbe essere scongiurato nel caso in cui alla
fase di negoziazione con la Commissione, per la stesura del contratto di
partenariato, si giungesse solo a seguito di un totale coinvolgimento degli enti
locali, delle regioni, delle associazioni di imprese e dei lavoratori, e degli altri
stakeholders, formalizzato in una posizione comune e condivisa, da riversare
poi nel contenuto del contratto di partenrship. La qual cosa non solo
garantirebbe un più compiuto dispiegarsi del principio di sussidiarietà, sia nella
versione verticale che in quella orizzontale, ma permetterebbe anche di rendere
più efficace lo strumento del patto territoriale in fase di attuazione degli
interventi programmati e contrattualizzati.
Difatti la sostanziale coincidenza fra soggetti che partecipano a definire
il contenuto del contratto di partenariato e soggetti che poi, all’interno di ogni
singolo Stato membro, “firmano” un patto territoriale potrebbe rappresentare
- 188 -
una reale svolta in termini di efficacia e puntualità degli interventi strutturali
finanziati.
Non vi è dubbio difatti, almeno per la realtà italiana, che uno dei
principali motivi di mancato utilizzo, o di utilizzo inadeguato delle risorse
messe a disposizione, sia dovuto ad un qualche scollamento tra la fase di
programmazione degli interventi e quella di attuazione; il che si è verificato
anche con la precedente esperienza dei patti territoriali, che come detto ha
lamentato una certa inadeguatezza degli enti locali nello svolgere il ruolo che
istituzionalmente sarebbe loro spettato. Ecco quindi che ancorare il patto
territoriale al contratto di partnership, rectius far corrispondere i soggetti
protagonisti della fase di programmazione con quelli di attuazione, attraverso la
formula del patto potrebbe rappresentare una significativa svolta nelle
dinamiche della politica di coesione.
E d’altronde che debbano essere “i territori a parlare” lo fa intendere
chiaramente anche la “istituzionalizzazione” della dimensione territoriale della
coesione: il principio di sussidiarietà sembra allora poter dispiegare ancora la
sua funzione “storica” di criterio di allocazione di competenze concorrenti,
seppur incanalato in un modello di sviluppo ed attuazione, quale quello del
futuro patto territoriale, che propone un’applicazione del principio in parola,
anche nella sua “veste orizzontale”(149).
(149) Il principio di sussidiarietà trova testuale menzione nella Costituzione italiana negli artt. 118, comma 1 e 4, e 120, comma 2, a seguito della novella costituzionale di cui agli artt. 4 e 6 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3: ma mentre gli artt. 118, comma 1, e 120, comma 2, Cost. si riferiscono, chiaramente, al principio di sussidiarietà nella sua accezione verticale (vale a dire all’assetto dei rapporti interni tra diverse istituzioni di governo), l’art. 118, ultimo comma, concerne propriamente il profilo orizzontale (o sociale) del principio prevedendo che “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
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Se questo, come sembra plausibile, sarà il nuovo scenario europeo della
politica di coesione, dovrà anche al più presto trovare una sua compiuta
definizione nell’ordinamento giuridico comunitario il concetto di sussidiarietà
orizzontale, onde evitare un eccessivo e deregolamentato uso dello stesso
tramite lo strumento pattizio. Come noto infatti nel novellato Trattato sul
funzionamento dell’Unione è fatto riferimento al principio di sussidiarietà
esclusivamente nella sua accezione verticale (o istituzionale), quale criterio
dinamico di allocazione delle competenze concorrenti, senza alcun riferimento
ad una diversa accezione dello stesso; ed in particolare il legislatore europeo
dovrà chiarire quale tipo di sussidiarietà orizzontale entrerà a far parte del c.d.
acquis communautaire, e quale tipo di interpretazione verrà fornita alla
dimensione orizzontale del principio analizzato in questa ricerca.
Si consideri difatti l'assunto secondo cui la sussidiarietà non è un criterio
o principio sostanziale, ma è un principio procedurale: cioè “esso non dice a chi
spetta il tipo di azione considerato, ma quale ragionamento bisogna svolgere per
individuare il soggetto competente”(150). E’ dunque possibile, sulla base di una
impostazione logico-formale, che un determinato enunciato normativo esprima
una siffatta concezione della sussidiarietà orizzontale; qualora attraverso un
dispositivo statico si individui in via diretta ed immediata il soggetto
competente secondo sussidiarietà orizzontale, attraverso una previa riserva di
competenza in senso verticale. Inoltre, proprio sul fondamento dello stesso
approccio logico formale, si distingue tra sussidiarietà verticale e sussidiarietà
orizzontale, deducendo che solo la prima, riferendosi al rapporto tra enti
pubblici, permetterebbe di distribuire poteri di comando nei confronti delle
(150) RESCIGNO G.U., Principio di sussidiarietà orizzontale e diritti sociali, in Diritto Pubblico n. 1, 2002.
- 190 -
collettività di minori dimensioni; mentre la sussidiarietà orizzontale non
potrebbe mai attenere la distribuzione dei poteri di comando, ma solo i compiti
di erogazione di servizi e benefici, dovendosi determinare se essi spettano ai
privati o ai pubblici poteri.
Questo, tuttavia, non spinge a considerare che tale sia la sola definizione
assoluta, teoricamente pura e logicamente necessitata del principio; ed in effetti,
in presenza di uno stesso quadro normativo, la sussidiarietà orizzontale viene
anche vista correttamente come un principio di moderazione dell'intervento
regolativo e del potere di comando dello Stato, essendo necessaria una
graduazione adeguatamente equilibrata degli interventi che lo stesso pubblico è
autorizzato a porre in essere, per relazionarsi sussidiariamente al privato:
potendosi consentire il ricorso a mezzi più forti ed intrusivi esclusivamente
negli ambiti e nei casi in cui una strumentazione soft non risulti adeguata.
La dinamica non è, chiaramente quella che contrappone potere di
comando e compiti di erogazione di servizi e benefici, ma quella che comporta
un cambiamento del concetto stesso di potere di comando: non il dilemma
pubblico sì – pubblico no, ma il problema pubblico come, e, si potrebbe
aggiungere, fin dove, scegliendo il confine in un punto in cui si esprime il
potere di autogoverno dei corpi intermedi, nel quale sussidiarietà verticale e
sussidiarietà orizzontale si incontrano fino a sovrapporsi in un'unica trama
ordinamentale(151).
Ovviamente le conseguenze di impostazioni tanto diverse sono
altrettanto distanti; se ad esempio esse si applicano alla lettura dell’art. 118
ultimo comma della Costituzione italiana (“Stato, Regioni, Città metropolitane,
Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e
(151) STAIANO S. La sussidiarietà orizzontale: profili teorici in www. Federalismi.it - Rivista telematica, 2006.
- 191 -
associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del
principio di sussidiarietà”), la concezione logico-formale, una volta “riparato”
dalla sussidiarietà orizzontale il potere di comando, quindi una volta definito
che esso si palesa in attività strumentali e chiaramente etero-dirette attribuite ai
corpi intermedi e in termini complessivi ai privati, può fornire una lettura estesa
del concetto di interesse generale, il quale non escluderebbe a priori attività con
fini di lucro. Salvo poi contemplare la possibilità di restrizione da un altro
versante, in base ad una decisione politica, compiuta in virtù dell'intangibile
potere di comando, condizionato solamente dalla necessità della ragionevole
argomentazione e dal rispetto delle procedure previste.
Così la formula "favoriscono", contenuta nell'art. 118, c. 4, Cost., intesa
"formalmente", spinge a ritenere che il principio di sussidiarietà imporrebbe si
di favorire i privati, ma esclusivamente nel caso in cui la loro attività fosse per i
poteri pubblici più economica di quella esercitata direttamente da essi.
A conclusioni parecchio differenti si giunge, invece, se, rinunciando
radicalmente a definire un concetto "puro" di sussidiarietà, si argomenta dal
dato normativo e dal contesto culturale, considerando la sussidiarietà come
caratterizzata dalla "decisione di preferenza" a vantaggio dell'ambito più vicino
agli interessati e in favore dei privati, decisione che va assunta, non solo se
l'ambito più vicino può operare a condizioni più vantaggiose, ma anche a parità
di condizioni(152). E in questa “decisione di preferenza” si sostanzia il
contenuto del comando normativo derivabile dalla formulazione del principio o
dalla sua deduzione sistematica: specificamente in essa, non nella
conservazione, a prescindere, allo Stato della decisione sull’ an e sul quantum
distribuire le funzioni verso i corpi intermedi e verso i privati.
(152) STAIANO S Op. cit.
- 192 -
Dunque un’interpretazione, non rigidamente formale, del principio di
sussidiarietà orizzontale, come definito dall'art. 118, c. 4, Cost., si spingerebbe a
garantire ogni articolazione sociale, autonoma, rispetto allo Stato e per lo Stato
rispetto alla pubblica amministrazione, allo stesso titolo secondo cui è
autonomo un ente locale territoriale nell'organizzazione dei rapporti con la
propria comunità di riferimento. Ne risulterebbe un sistema in cui non
sarebbero riconosciuti poteri di supremazia, ma rapporti potenzialmente infiniti
di tipo paritario: un sistema reticolare, nel quale ogni soggetto è uno snodo e si
fa portatore di interessi, ma agisce sempre secondo logica collaborativa, poiché
solo collaborando e adducendo le proprie risorse secondo le proprie possibilità
e capacità può realizzare i propri interessi e soddisfare le proprie esigenze.
In questa prospettiva, e limitatamente alla dimensione della
sussidiarietà, nell’ambito della politica di coesione economico, sociale e
territoriale, la scelta del legislatore europeo non rivestirà dunque una portata
meramente dogmatica, ma certamente conformativa dei nuovi scenari che si
stanno delineando; scelta che non potrà comunque prescindere da un rigoroso
bilanciamento con gli altri principi fondamentali dell’ordinamento comunitario,
non essendo proponibile l'idea che la sussidiarietà orizzontale, quale
espressione di una diversa visione del mondo delle relazioni giuridiche, venga
condotta in una posizione di preminenza assoluta, pervadendo di sé l’intero
sistema e quasi trascendendolo.
8. Conclusioni
Lo scopo della presente ricerca è stato, prima di tutto, quello di analizzare il
principio di sussidiarietà nell’ambito della politica di coesione economico,
sociale e territoriale dell’Unione europea, tanto nella fase di programmazione
- 193 -
degli interventi strutturali, e quindi latu sensu di distribuzione delle competenze
concorrenti, quanto poi nella cruciale fase di attuazione e gestione degli
interventi stessi. In particolare partendo da un approccio di tipo formale,
attraverso quindi l’utilizzo di un modello normativista, si è svolta un’analisi del
principio ancorata al dettato “costituzionale” del Trattato, ed ai vari dati
normativi contenuti nei regolamenti specifici di settore, senza fare riferimento a
concetti metagiuridici o politici, che non sarebbero serviti a chiarire la tesi
prospettata. Ed in effetti si è tentato di dimostrare che il criterio della
sussidiarietà nell’ambito della politica di coesione europea pur manifestando
una vis espansiva tutta peculiare deve essere ricondotto, per portata e contenuti
a quanto previsto dall’art. 5 del Trattato dell’Unione. Assunto che vale sia se si
guarda alla sussidiarietà, nel contesto della coesione, per accertare che,
all’interno di una data competenza, l’esercizio dell’Unione Europea sia
giustificato dall’impossibilità o dall’inefficacia del semplice intervento statale,
sia successivamente, una volta accertata la necessità o l’opportunità dell’azione
comunitaria, se la si considera per la determinazione delle modalità nelle quali
l’azione stessa deve articolarsi; attenendo quindi la sussidiarietà, in
quest’ultimo frangente, alla scelta degli strumenti nei quali esprimere l’attività
dell’Unione, senza andare oltre quanto strettamente necessario a soddisfare
l’esigenza di un intervento centralizzato.
Parlare difatti di una sussidiarietà specifica della coesione, tentando di
farne un genus a sé stante, rispetto al resto dell’ordinamento comunitario, o
peggio ancora derubricare la rigorosa applicazione della stessa, traendo spunto
dall’aumento del numero di materie di competenza esclusiva dell’Unione, come
parte della dottrina ha asserito, non sembra giustificabile e neppure rispondente
- 194 -
all’effettivo dato normativo(153). Non può infatti condividersi l’impostazione
secondo la quale non si ritroverebbe un’applicazione effettiva della sussidiarietà
in tema di interventi per il riassetto strutturale dei territori, sviluppandosi la
politica regionale europea parallelamente ed indipendentemente da quella dei
singoli Stati membri: sul punto si è chiarito, nel corso del capitolo III che la
sussidiarietà deve essere letta in chiave di coerenza fra gli interventi delle due
politiche. Non può neppure condividersi l’idea che nel settore della Politica
regionale dell’Unione non si verificherebbe una vera e propria ripartizione di
competenze su piani sovrapposti; condizione sulla quale è fondato il principio
di sussidiarietà e si avrebbe piuttosto un consorzio di azione tra Stati membri ed
Unione Europea dove l’intervento strutturale, così come si è sviluppato nella
prassi, appare fondato su un modello di relazione di tipo consensuale, tale
quindi che l’azione di un ente sarebbe subordinata al consenso ed al concorso
dell’altro(154). L’elemento della consensualità che possiamo riscontrare nel
corso dell’attuale programmazione nella fase di elaborazione del Quadro
Strategico Nazionale, e per il futuro nella definizione del contenuto del
contratto di partnership, non contrasta e non preclude infatti l’individuazione
(153) Nella direzione qui contestata si veda ad esempio CANNIZZARO E., Sussidiarietà ed interventi di riequilibrio del mercato comune, in A. Predieri (a cura di), Fondi strutturali e coesione economica e sociale nell'Unione Europea, Milano 1996, pag. 135 ss. Nel senso invece di un unico principio di sussidiarietà per l’intero ordinamento giuridico si veda, fra gli altri, VITALE G, I principi generali del Regolamento 1260/1999. Sussidiarietà, partenariato e addizionalità, in Rivista giuridica del Mezzogiorno, 2002, pag. 1371 ss, secondo il quale nel caso specifico della politica di coesione, la sussidiarietà deve essere interpretata in modo più elastico, focalizzandosi non tanto sulle incongruenze, ma piuttosto sugli elementi di continuità che costituiscono la base di un principio unitario di sussidiarietà, valido tanto nella politica di coesione quanto nelle materie concorrenti. In particolare, tali elementi di continuità sono costituiti dalla presenza di un obiettivo comune, quale l’integrazione, che giustifica appunto l’intervento della Comunità e dalla salda titolarità delle auortià statali e locali a prendere autonome decisioni.
(154) CANNIZZARO E. Op. cit, secondo il quale: “né gli Stati né gli enti regionali sembrano intendere il principio di sussidiarietà nel campo della politica di coesione come un limite alla possibilità di intervento da parte della Comunità. Al contrario, l’azione strutturale della Comunità è organizzata in maniera tale da operare solo con il consenso e su impulso degli Stati e degli enti regionali”.
- 195 -
preliminare da parte della Commissione, nel peculiare esercizio di un suo potere
discrezionale e tecnico, degli interventi che in un’ottica sussidiaria di
riequilibrio dei territori possono essere più efficacemente attuati a livello
europeo piuttosto che nazionale: il problema che si pone semmai, sarà sempre
quello della coerenza, ampiamente richiamato anche dalla V Relazione sulla
Coesione, e della concentrazione tematica, e non certo quello di un
superamento del principio di sussidiarietà, che potrà trovare espressione anche
nella futura formula del contratto di partenariato fra Commissione e Stati
membri: e d'altronde da sempre l’intervento dell’Unione è stato subordinato
all’accertamento, da parte di quest’ultima, dell’esistenza di elementi specifici
quali l’insufficienza degli strumenti statali per perseguire l’obiettivo
comunitario, il riconoscimento della necessità dell’azione comunitaria, la
proporzionalità dell’azione rispetto agli obiettivi da raggiungere. Dinamica
consensuale che inoltre non può neppure trascendere un elemento oggettivo,
vale a dire che gli intereventi finanziati attraverso la politica di coesione, seppur
rilevanti, nascono comunque come complementari, appunto “sussidiari”,
rispetto a quelli specifici nazionali attuati da ogni Stato membro. Pensare poi
che, in fase di attuazione della politica di coesione, il metodo “partenariale”
espressamente richiamato dai vari regolamenti di riferimento, costituisca una
deminutio della sussidiarietà, corrisponde a ritenere che quest’ultima sia chiusa
in una sorta di “torre eburnea”, quando invece da sempre uno dei maggiori
portati giuridici dell’acquis communautaire è proprio quello della costruzione
di “fattispecie dinamiche” in cui sussidiarietà, partenariato, complementarietà,
coerenza ed addizionalità “dialogano” e si compenetrano al fine di creare
strumenti e modelli giuridici adeguati alla complessa realtà sociale, economica
ed istituzionale dell’Europa.
- 196 -
Non è dunque “annacquando” il criterio della sussidiarietà, o cercando
di depotenziarne la portata(155), che può darsi una lettura rigorosa dell’attuale
politica di coesione europea, né tantomeno, per quanto sostenuto in questa
ricerca, potranno essere trovate soluzioni più efficienti per il futuro della
politica in questione. Sembra vero piuttosto il contrario, vale a dire che, in
un’Europa in cui, la territorialità ha sempre un maggior rilievo, ed il modello di
governo multilivello dei territori è stato pressoché istituzionalizzato, c’è
bisogno di più sussidiarietà; ed in particolare ce ne sarà bisogno per definire
meglio e più specificamente chi fa cosa e come; se difatti, come qui sostenuto,
il modello di attuazione scelto sarà quello del patto territoriale, non potrà
prescindersi non solo da un’applicazione rigorosa della sussidiarietà in senso
verticale, ma anche da una sua estensione in senso orizzontale, e per entrambe
le fattispecie appare opportuno che, in particolare tramite i Regolamenti
attuativi del futuro ciclo di programmazione, venga data, una volta per tutte,
una chiave applicativa univoca del principio cui gli Stati membri dovranno
adeguarsi nell’attuazione degli interventi finanziati.
Questa potrebbe essere la chiave per arrivare ad un modello di sviluppo
di successo per la futura politica europea di coesione e, in ultima istanza, per
cercare di raggiungere gli ambiziosi obiettivi di Europa 2020.
(155) Nel senso che qui si contesta si veda ad esempio PIANTONI M., Le politiche dell’Unione europea a favore delle imprese e dell’imprenditorialità, pag. 163, Milano, 2008, secondo la quale “esisterebbe una sostanziale incompatibilità tra il ruolo e l’interesse di cui sono portatori gli Stati membri nei confronti della politica di coesione e un’autentica applicazione del principio di sussidiarietà che, oltre a costituire un freno all’intervento comunitario ed alle relative risorse, impedimento del quale gli attori in gioco non ne sentono ovviamente il bisogno, dovrebbe anche implicare un modello di ripartizione delle facoltà del quale, nella politica di coesione, non v’è traccia: la divisione delle competenze lascia infatti lo spazio alla cooperazione fra gli Stati membri e la Comunità”.
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