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associazione culturale Larici – http://www.larici.it Fernando Clerici Sulla prospettiva inversa 1 Confrontando la pittura che discende da Bisanzio con la maniera occidentale post-rinascimentale si coglie subito una differenza sostanziale: il senso della profondità. Infatti, le scene ritratte sulle icone non sono in prospettiva. Sul motivo è stato scritto che la sacralità delle immagini viene esaltata dall’assenza di riferimenti terreni; che la Chiesa ortodossa impone rigidamente canoni derivati dalla prima – più pura – arte cristiana (tutti i principali temi iconografici risalgono infatti al IV-VI secolo); che le ricerche rinascimentali sulla prospettiva non sono mai arrivate in Oriente; che il punto di fuga non è un punto astratto sullo sfondo ma s’incarna nell’osservatore (come una prospettiva al contrario, cioè inversa o invertita o rovesciata); che il tipo di prospettiva utilizzata nelle icone non è mai stata codificata ma solo trasmessa oralmente; che nelle icone si usano sia l’una che l’altra prospettiva in alternativa o insieme; che la prospettiva non è sempre rovesciata e, quindi, non segue un sistema costante in quanto i punti di fuga sono simultaneamente davanti e dietro… Che cosa è valido? Per tentare una risposta 2 , è innanzitutto interessante leggere quanto 1 Elaborazione del 2005 e revisione del 2011. © associazione culturale Larici. 2 Nella trattazione si useranno, ovviamente, i termini di assonometria e prospettiva in senso 1

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Fernando Clerici

Sulla prospettiva inversa1

Confrontando la pittura che discende da Bisanzio con la maniera occidentale post-rinascimentale si coglie subito una differenza sostanziale: il senso della profondità. Infatti, le scene ritratte sulle icone non sono in prospettiva.

Sul motivo è stato scritto che la sacralità delle immagini viene esaltata dall’assenza di riferimenti terreni; che la Chiesa ortodossa impone rigidamente canoni derivati dalla prima – più pura – arte cristiana (tutti i principali temi iconografici risalgono infatti al IV-VI secolo); che le ricerche rinascimentali sulla prospettiva non sono mai arrivate in Oriente; che il punto di fuga non è un punto astratto sullo sfondo ma s’incarna nell’osservatore (come una prospettiva al contrario, cioè inversa o invertita o rovesciata); che il tipo di prospettiva utilizzata nelle icone non è mai stata codificata ma solo trasmessa oralmente; che nelle icone si usano sia l’una che l’altra prospettiva in alternativa o insieme; che la prospettiva non è sempre rovesciata e, quindi, non segue un sistema costante in quanto i punti di fuga sono simultaneamente davanti e dietro… Che cosa è valido?

Per tentare una risposta2, è innanzitutto interessante leggere quanto

1 Elaborazione del 2005 e revisione del 2011. © associazione culturale Larici.2 Nella trattazione si useranno, ovviamente, i termini di assonometria e prospettiva in senso

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scrive uno storico dell’arte, Valerio Valeri: «Il profondo mutamento del linguaggio artistico, riscontrabile negli ultimi prodotti dell’arte romana e nei primi dell’arte cristiana, trova il suo punto di arrivo nell’astrattività dell’arte bizantina. In essa le figure, umane e divine che siano, tendono a spogliarsi dì ogni sorta di materialità corporea, si tramutano in forme prive di plasticità e bloccate in un’immobilità ieratica, per cui appaiono prive di ogni fondamento spaziale e temporale. “Attraverso l’immagine visibile il nostro pensiero deve essere guidato in uno slancio spirituale verso l’invisibile grandezza di Dio”. In queste parole di un ecclesiastico di allora, si trova chiaramente espresso il punto di vista bizantino sulla funzione dell’arte figurativa. La riduzione a fulgenti campiture di colore delle immagini nei mosaici posti ad ornamento delle chiese è la più diretta conferma del disinteresse verso le ricerche chiaroscurali e volumetriche in un’arte che tende programmaticamente al riscatto della materia dalla condizione di opacità, per elevarla a quella, del tutto spirituale, della trasparenza e della luce».

Perciò, nella definizione di un’icona canonica (che rispecchia, cioè, le originarie indicazioni senza interferenze estranee ed esterne), si afferma che l’immagine non rappresenta qualcosa di reale, ma un mondo ideale, dove la carne, essendo corruttibile, non ha posto, ed è proprio per questo – per evidenziare l’assenza di carne – che la rappresentazione dei corpi deve risultare bidimensionale.

Ciò implica che, nell’ambito artistico medioevale, mentre in Occidente si cercava il massimo avvicinamento alla realtà (o umanizzazione delle cose divine, com’è stata chiamata), in Oriente si manteneva viva la separazione tra sacro e profano, tra potenti e sudditi (intesi in senso lato), tra cielo e terra, tra luce e tenebre. Le immagini avevano, quindi, scopi distinti: in Occidente rappresentavano “la Bibbia dei poveri” (ha detto san Gregorio Magno: «Quel che la Sacra Scrittura è per i letterati, l’immagine lo è per gli illetterati»; VI-VII secolo), cioè costituivano una spiegazione semplice delle cose celesti, per la quale non poco aiutava la componente emozionale; in Oriente, invece, illustravano uno stato di fatto, come fossero “fotografie di studio” costruite per evidenziare il significato escatologico e/o teologico, oppure “finestre sull’Invisibile”, così definite per evocare la continua presenza soprannaturale nella nostra vita terrena. Per questo, la separazione tra cielo e terra doveva restare marcata: la “finestra” si affacciava sull’Imponderabile e Immutabile, era un micro-attimo/visione di un mondo eterno e costituiva la preparazione dell’anima al Paradiso.

Se si prendono in esame le pitture “fisse” presenti in tutte le chiese, sia coeve che distanti nel tempo, si nota che, in ambito cattolico, le quattordici stazioni della Via Crucis illustrano, in dettaglio e con crescente dolore, il percorso compiuto da Cristo dalla condanna al supremo sacrificio, mentre, in ambito ortodosso, le iconostasi non spiegano, ma (a parte le onnipresenti icone dell’Annunciazione, simbolo dell’entrata di Dio nella storia del mondo,

moderno, cioè come rappresentazioni dello spazio senza o con punti di fuga.

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e dell’Ultima Cena, simbolo dell’Eucaristia) imprimono nella mente una gerarchia, che rammenta i testimoni nella storia della salvezza. Le scene “didattiche” o sono assenti o, nelle iconostasi più grandi, sono limitate alle Dodici Grandi Feste3 che occupano un registro intermedio, posto ben più in alto del fedele, il quale non è mai chiamato, in alcuna raffigurazione, a immedesimarsi nel dolore come in Occidente.

Stazione della “Via Crucis”, in Trattato della Religione, Napoli 1593, incisione

3 Secondo l’anno liturgico che comincia il 1° settembre (calendario giuliano) o il 14 settembre (calendario gregoriano): Nascita della Madre di Dio (8/21 settembre), Esaltazione della Croce del Signore (14/27 settembre), Ingresso al Tempio della Madre di Dio (21 novembre/4 dicembre), Natività di Gesù Cristo (25 dicembre/7 gennaio), Battesimo del Signore (o Santa Teofania; 6/19 gennaio), Presentazione al Tempio del Signore (2/15 febbraio), Annunciazione a Maria Vergine (25 marzo/7 aprile), Entrata di Gesù Cristo a Gerusalemme (domenica prima di Pasqua), Ascensione del Signore (40 giorni dopo Pasqua), Pentecoste (o Festa della SS. Trinità, 50 giorni dopo Pasqua), Trasfigurazione del Signore (6/19 agosto), Dormizione della Madre di Dio (15/28 agosto). La Pasqua (o Discesa agli inferi di Gesù Cristo) non rientra nelle Dodici Grandi Feste, perché è la “festa delle feste”, la più importante in assoluto.

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Parte centrale dell’iconostasi della cattedrale dell’Annunciazione nel Cremlino di Mosca

Anche gli elementi architettonici delle chiese orientali esprimono, in ogni loro forma, lo stacco tra mondo terreno e mondo soprannaturale4. Persino la dedica alle chiese sarebbe di per sé eloquente: Santi Pietro e Paolo, Sant’Ambrogio, Sant’Agata… contro Cristo Salvatore, Dormizione, Ascensione… non che non esistano in Occidente le chiese dedicate alla Ss. Trinità e in Oriente quelle intitolate ai santi, ma è numericamente un fatto irrilevante, oltre che relativamente recente.

In quest’ottica orientale decisamente contemplativa, le ricerche verso una

4 Cfr. Geometrie sacre, Larici, Milano 2002.

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maggiore somiglianza con la realtà perdevano qualunque significato, mentre permanevano quelle riferite alla comunicazione artistica dei suoi simboli.

Scrive ancora Valeri: «Tuttavia, pur nel generale appiattimento delle immagini, le consuetudini visive indotte dalla tradizione classica comportano il sopravvivere – anche in questo periodo [il Medioevo] – di riferimenti tridimensionali, risolti sia facendo ricorso a soluzioni di tipo assonometrico (la “cavaliera”) applicata in modo intuitivo – sia utilizzando visioni multiple nella raffigurazione di una stessa scena. Tale sistema, definito di prospettiva inversa, più che una deviazione della prospettiva focale, è in sostanza un montaggio di diverse vedute variamente assonometriche saldate l’una all’altra per mezzo di raccordi a cuneo. Nel loro insieme questi accorgimenti non hanno comunque il compito di creare un’illusione di effettiva profondità, quanto piuttosto di introdurre nelle scene quel minimo di connotazioni spaziali necessario a rendere più intelligibili i fatti rappresentati».

In altre parole, la locuzione “prospettiva inversa” (o invertita, o rovesciata) è stata inventata per definire non già una tecnica codificata o codificabile di rappresentazione, bensì una maniera di considerare e riempire lo spazio. Forse con maggior precisione avrebbe potuto essere chiamata “assonometria atipica” per non generare l’equivoco dell’esistenza di un punto di fuga, così tanto criticata da Pavel Florenskij: «quando si disgrega la stabilità religiosa della concezione del mondo, e la sacra metafisica della comune coscienza popolare viene corrosa dall’arbitrio individuale del singolo con il suo singolo punto di vista, ed inoltre con il singolo punto di vista di quel determinato momento storico, allora appare una prospettiva che ha i caratteri di questa coscienza disgregata». Florenskij riteneva che la “prospettiva inversa” rappresentasse la negazione evidente dei postulati di Euclide, perciò lo spazio reso nelle icone non era tridimensionale ma “curvo”, sferico5. Tuttavia, questo ragionamento fu solo abbozzato e ciò dette modo ai suoi seguaci di approfondirlo a seconda delle proprie convenienze e conoscenze.

La comparsa dell’espressione “prospettiva inversa” si fa risalire allo storico francese Gabriel Millet, che, in Monuments de l’art byzantine (I tomo, Parigi, 1899), la usò notando in alcuni mosaici un aumento delle altezze sugli sfondi anziché nei primi piani. La stessa locuzione fu impiegata un anno dopo dallo storico russo Dmitrij Vlas’evič Ajnalov in Ellinističeskie Osnovy vizantijskogo Iskusstva (Origini ellenistiche dell’arte bizantina; San Pietroburgo, 1900) per indicare il tratto stilistico che univa la pittura russa ortodossa delle icone con la tradizione paleocristiana ellenistica, ma lo intese come la risultante degli errori determinati dall’incapacità degli artisti

5 «[…] modi di determinazione della realtà sono in sostanza i luoghi di particolari curvature dello spazio, della sua irregolarità: certi suoi nodi, certe sue pieghe […] E infine, allora, quelle immagini visibili che l’arte presuppone o quei congegni che la tecnica costruisce, e anche quei modelli mentali che si impostano attraverso le parole dello scienziato e del filosofo, sono soltanto segni di queste pieghe e in generale di queste deformazioni, insieme alle regioni intorno a questi punti», in P. Florenskij, La prospettiva rovesciata ed altri scritti sull’arte, a cura di Nicoletta Misler, Casa del Libro, Roma, 1984.

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di eseguire correttamente gli scorci. Negli anni successivi la discussione si fece più ampia – soprattutto quando si rilevò che la “prospettiva inversa” poteva rientrare nel campo della percezione visiva – ma anche più sterile e inconcludente, perché mirata a codificarla con ogni mezzo.

Comune agli artisti medioevali di tutti i Paesi, il modo assonometrico di disegnare fu abbandonato in Occidente quando la prospettiva da intuitiva (nel 1344, Ambrogio Lorenzetti fu il primo a far convergere in un unico punto di concorso tutte le rette che scandiscono in profondità il pavimento a piastrelle della sua Annunciazione, costituendo così un sistema di coordinate di riferimento, ma non si può non citare almeno Giotto tra gli artisti impegnati a dare volumetria alla pittura6) divenne geometrica, basata cioè sulle conoscenze della geometria euclidea (nel 1425, Masaccio, trasformando in arte ciò che Filippo Brunelleschi aveva geometricamente codificato, realizzò la Trinità nella chiesa di Santa Maria Novella a Firenze: «Quello che vi è di bellissimo – scrisse Giorgio Vasari nel Cinquecento – oltre alle figure è una volta a mezza botte tirata in prospettiva, e spartita in quadri pieni di rosoni, che diminuiscono e scortano così bene, che pare che sia bucato quel muro»).

A sinistra, Giotto di Bondone, La rinuncia ai beni paterni, 1295-1300, affresco (Basilica Superiore, Assisi); a destra, Ambrogio Lorenzetti, Annunciazione, 1344, affresco (Pinacoteca Nazionale, Siena).

6 Su Giotto i critici sono discordi: alcuni ritengono che sia stato l’inventore della prospettiva intuitiva o realistica, altri pensano invece che dette inizio alla pittura “astratta” o “razionale e intellettualistica”. Quest’ultimo concetto è interessante ai nostri fini quando afferma che in Giotto la profondità della scena rappresentata non è più “spirituale” come nella pittura bizantina, ma “fisica” perché lo spazio è strutturato sulla base di un punto di vista soggettivistico, che determina un rapporto intellettualistico con la realtà.

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Masaccio, Trinità, 1426 ca., affresco (Chiesa di Santa Maria Novella, Firenze). La precisione con cui è stato realizzato il dipinto ha permesso di ricostruire la finta nicchia fin nei dettagli (in basso a destra).

Sembra che all’origine dell’accelerazione degli studi sulla prospettiva, la quale permetteva di restituire la percezione tridimensionale dell’uomo e, quindi, dava una maggiore aderenza alla realtà, ci fossero motivi religiosi: da una parte, l’esigenza della Chiesa cattolica romana di scostarsi da una pittura che caratterizzava da secoli una Chiesa “scismatica” e, da un’altra, i padri domenicani, i quali, lottando contro l’eresia catara7 che negava

7 Non si sa con esattezza dove il catarismo si sviluppò (forse in Bulgaria o in Grecia), ma costituì un fenomeno di vasta portata, che coinvolse tutta l’Europa cattolica nei secoli XII e XIII, soprattutto Francia meridionale e Italia settentrionale e centrale. Esso combatteva

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l’esistenza corporea di Cristo, richiedevano una pittura esemplarmente concreta, realistica: il corpo del Figlio di Dio doveva apparire con fattezze umane inequivocabili.

La prospettiva continuò a essere utilizzata nella pittura occidentale spostando convenientemente il punto di vista nello spazio per ottenere una visione centrale o accidentale, dall’alto o dal basso, fino alla prospettiva aerea studiata da Leonardo da Vinci che per primo scoprì che l’aria non è del tutto trasparente, cosicché con l’aumentare della distanza i contorni si fanno sfumati e i colori meno nitidi e tendenti all’azzurro, tenendo però conto che quando l’aria è vicina al suolo è «grossa più che le altre», cioè meno trasparente.

Prospettiva centrale in Andrea del Castagno, Cenacolo di Sant’Apollonia a Firenze, 1447

Prospettiva accidentale in Edgar Degas, L’assenzio, 1875-1877, olio su tela; cm 92x68(Musée d’Orsay, Parigi)

la corruzione dilagante nella Chiesa, perché questa, accettando potere e ricchezze, optava per il Male e, quindi, non era in grado di offrire alcun sostegno per la purificazione. I catari professavano una dottrina dualista (il Bene e il Male), predicavano un’assoluta purezza di vita, come sacramento praticavano soltanto il Consolament, un rito con imposizione delle mani che liberava dal peccato gli adulti prossimi alla morte, rendendoli “perfetti”. Considerando Cristo un angelo di Dio, rifiutavano il simbolo della Croce e la transustanziazione, cioè la trasformazione del pane e del vino in corpo e sangue di Cristo durante l’Eucaristia. I catari furono dichiarati eretici da papa Alessandro III e il suo successore – Innocenzo III – ideò una vera e propria campagna di annientamento, istituendo l’Inquisizione e l’ordine dei domenicani e, infine, promuovendo una crociata.

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Facciamo un passo indietro: da dove deriva e che cos’è l’assometria cavaliera? E, poi, perché permane nell’arte bizantina?

L’assonometria (dal greco áxón-onos = asse e métron = misura, letteralmente “misurazione sugli assi”) è un metodo che utilizza il principio della proiezione parallela per rappresentare gli oggetti sopra un solo piano (per cui si ha una sola immagine), mettendo in riferimento le loro dimensioni (altezza, larghezza, profondità) e un sistema di assi cartesiani ortogonali uscenti da una stessa origine. Cioè, essa è un mezzo per dare aspetto volumetrico agli oggetti raffigurati, che si basa sull’intuizione prima che sulle regole. L’assonometria detta “cavaliera” (o, più propriamente, dimetrica obliqua)8 è quella che rappresenta gli oggetti di fronte: il piano verticale è parallelo all’osservatore e quello orizzontale perpendicolare.

Tipi di assonometria

Questo metodo, appunto perché intuitivo, è stato usato fin dall’antichità per suggerire la presenza di una terza dimensione, sia unitamente che in alternativa ad altri modi di visualizzazione, per esempio nella pittura vascolare della Grecia classica, nelle decorazioni parietali di età romana e nei mosaici bizantini che si rifacevano agli schemi compositivi spaziali derivati dall’età ellenistica. Il sottarco nel mausoleo di Galla Placidia a Ravenna altro non rappresenta se non una “greca” in assonometria.

8 Il termine “cavaliera” fu dato in onore di Bonaventura Cavalieri (1598-1647), matematico e astronomo bolognese allievo di Galileo, che nell’opera Prospettiva dal punto di vista all’infinito aveva posto le basi scientifiche dell’assonometria.

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Cratere tarentino (particolare), IV sec. a.C. (Museo Nazionale, Taranto)

Colonna di Marco Aurelio a Roma (particolare),176-192

Interno del Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna con particolare di un sottarco, prima metà del V sec., mosaico

La veduta frontale dell’assonometria cavaliera determina indiscutibili vantaggi al pittore: è veloce da realizzare anche per i meno esperti, è facile da capire perché l’oggetto appare ortogonale (due misure su tre sono uguali all’originale), non implica complicate costruzioni a monte, mantiene un sufficiente grado di astrazione che può essere più o meno accentuato per dare significato alla scena, non interferisce mai con il simbolismo orientale che anzi spesso ne risulta esaltato.

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Ospitalità di Abramo, 540 ca., mosaico (Basilica di San Vitale, Ravenna)

L’artificio grafico dell’assonometria cavaliera, con le sue varianti, è evidente nel mosaico della Ospitalità di Abramo nella basilica di San Vitale a Ravenna: le linee divergenti anziché convergenti in profondità del tavolo non sono da prendere come un tentativo di prospettiva (inversa) ma derivano da schemi spaziali riconducibili all’assonometria cavaliera interpretata liberamente, in quanto, invece di mantenere il parallelismo fra tutte le rette ugualmente orientate, l’artista varia l’inclinazione in ragione delle necessità illustrative. Infatti, il tavolo ha il piano superiore molto inclinato per mostrare i pani che vi sono sopra (pani che per essere pienamente compresi sono addirittura visti dall’alto), mentre la sua struttura inferiore, meno interessante, è mostrata quel tanto che basta per suggerirne la stabilità (per esempio, manca una traversa superiore) e poco importa se i piedi degli angeli sono posati sulle traverse sbagliate.

Una dimostrazione pratica si ha allungando quelle che vengono considerate le linee di fuga del tavolo: pur tenendo conto della difficoltà di ottenere una precisione millimetrica in un mosaico, risulta evidente che nessun piano orizzontale – superiore, traverse, base – può considerarsi in prospettiva, non avendo un punto di fuga comune, anche lontano. Pure gli incroci che si producono tra linee non rispondono a una logica costruttiva, ma sono soltanto indicativi di quanto suddetto, cioè che l’inclinazione dei piani risponde alle necessità visive.

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Ospitalità di Abramo (particolare centrale), 540 ca., mosaico (Basilica di San Vitale, Ravenna)In rosso le linee del piano superiore, in verde della base e in blu delle tre traverse presenti.

Alla fine degli anni ‘20 del XX secolo, proprio un’analisi sulla Ospitalità di Abramo rinverdì il dibattito sulla prospettiva inversa e le scelte bizantine o bizantineggianti, anche perché la raffigurazione è posta all’interno di una lunetta che, per la sua forma, determina alcune scelte figurative. Ciò avvenne dopo la pubblicazione, in tedesco nel 1927, del saggio La prospettiva come “forma simbolica” di Erwin Panofsky, che enunciava molti concetti nuovi per l’epoca. Per esempio, si soffermava sulle “aberrazioni marginali” che contraddistinguono l’immagine prospettica (lineare) rispetto all’immagine retinica (curva) e che furono tenute in gran conto dagli artisti medioevali. E, soprattutto, dava una diversa definizione di prospettiva: «si può con ragione affermare che gli errori, più o meno grandi, di prospettiva, anzi persino la completa assenza di qualsiasi costruzione prospettica, non hanno nulla a che fare con il valore artistico (così come la rigorosa osservanza delle leggi prospettiche non infirma necessariamente la “libertà” artistica). Ma se la prospettiva non è un momento rientrante nell’ordine dei valori, essa è tuttavia un momento stilistico; anzi, se vogliamo adottare anche nella storia dell’arte il termine felicemente coniato da Ernst Cassirer, essa è una di quelle “forme simboliche” attraverso le quali “un particolare contenuto spirituale viene connesso a un concreto segno sensibile e intimamente identificato con questo”; in questo senso, diviene essenziale per le varie epoche e province dell’arte chiedersi non soltanto se conoscano

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la prospettiva, ma di quale prospettiva si tratti. […] La prospettiva antica è espressione di una caratteristica intuizione dello spazio che si scosta fondamentalmente da quella moderna […]; è espressione perciò di una visione del mondo altrettanto specifica e lontana da quella moderna. Soltanto su questa base è possibile capire come il mondo antico abbia potuto accontentarsi, per esprimersi con Goethe, di una rappresentazione “così incerta, così falsa” dell’impressione spaziale. […] quantunque le antiche teorie sullo spazio siano state tanto varie, nessuna di esse giunse mai a definire lo spazio come un sistema di mere relazioni tra altezza, larghezza e profondità»9. Erwin Panofsky prese l’Ospitalità come esempio di un’evoluzione artistica che, secondo lui, non avviene per gradi, ma per strappi in seguito alla negazione di quanto appena conquistato. Si riporta integralmente quanto lo storico scrisse sul mosaico ravennate:

«In quest’opera è dato toccare addirittura con mano il disfacimento della concezione prospettiva: non soltanto le piante ma anche il terreno, che negli affreschi classici dell’Odissea10 sono tagliati dall’orlo del quadro come dal telaio di una finestra, devono ora assecondare la sua curva. È difficile trovare un esempio più evidente di come la regola dello spazio semplicemente intersecato dall’orlo del quadro, comincia di nuovo a cedere di fronte alla legge della superficie da esso delimitata, la quale non deve permettere che si guardi attraverso, bensì dev’essere semplicemente colmata. Anche gli “scorci” dell’arte ellenistico-romana, che perdono il significato di apertura dello spazio che avevano in origine, ma mantengono la loro struttura formale fissabile mediante la linea, subiscono reinterpretazioni curiosissime e spesso molto significative: l’antica “apertura dello spazio”, comincia a chiudersi. E tuttavia proprio ora i singoli elementi del quadro, che hanno quasi completamente perduto il loro nesso dinamico mimetico-corporeo e il loro nesso spaziale-prospettico, appaiono legati da un nesso nuovo e, in un certo modo, più intrinseco: un ordito immateriale ma omogeneo e privo di lacune, nell’ambito del quale l’alternanza ritmica di colore e oro o, nei rilievi, l’alternanza ritmica di chiaro e scuro, creano un’unità se non altro coloristica e luministica: unità la cui forma particolare trova a sua volta un riscontro teoretico analogo alla concezione dello spazio propria della filosofia dell’epoca: nella metafisica della luce del Neoplatonismo pagano e cristiano. “Lo spazio non è altro che la luce più sottile”, scrive Proclo: un’affermazione in cui il mondo, proprio come avveniva nell’arte, viene concepito per la prima volta come un continuo, e, insieme, privato della sua compattezza e della sua razionalità; lo spazio si è trasformato in fluido omogeneo e, se così si può dire, omogeneizzante, ma non misurabile, anzi privo di dimensioni. Così dunque, il primo passo verso lo “spazio sistematico” moderno doveva dapprima indurre a sostanzializzare e rendere misurabile il mondo ormai unificato ma luministicamente fluttuante; una sostanzialità e misurabilità non nel senso antico, bensì in quello medievale. Già nell’arte bizantina si rivela lo sforzo (per quanto a tratti paralizzato e represso da reiterate prese di posizione a favore dell’antico illusionismo) di promuovere la riduzione dello spazio alla superficie (perché il mondo dell’arte paleo-cristiana tardo-antica non è ancora un mondo di superfici delimitabili semplicemente mediante la linea continua, bensì

9 E. Panofsky, Die Perspektive als «symbolische Form, in “Vorträge der Bibliothek Warburg”, Lipsia-Berlino 1927, trad. it. La prospettiva come forma simbolica, Feltrinelli, Milano 1961, nell’edizione 1981 pp. 47-49.

10 Il riferimento è alle scene dell’Odissea affrescate nella Casa di via Graziosa a Roma, databili tra il 50 e il 40 a.C., ora nei Musei Vaticani. (N.d.C.)

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continua a essere un mondo di corpi e di spazio per quanto riferiti alla superficie) e insieme di accentuare il valore di quell’elemento che, nell’ambito di questo nuovo atteggiamento verso la superficie, era l’unico mezzo di consolidamento e di sistemazione: la linea. Ma l’arte bizantina, che in fondo non si staccò mai compiutamente dalla tradizione antica, non pervenne a una rottura radicale con i principi della tarda Antichità (così come, viceversa, non giunse a un vero “Rinascimento”): essa non seppe decidersi a raffigurare il mondo in senso totalmente lineare invece che pittorico (da ciò la sua predilezione per il mosaico, il quale consente per sua natura di coprire la nuda parete inesorabilmente bidimensionale distendendo sulla sua superficie un tessuto scintillante); le strisce di luce e i solchi d’ombra dell’illusionismo antico e tardo-antico si irrigidiscono sì in configurazioni lineari, ma il significato originariamente pittorico di queste configurazioni non è mai completamente dimenticato, esse non diventano mai meri contorni delimitanti. Per quanto riguarda l’elemento prospettico, quest’arte è giunta sì a valersi dei motivi paesaggistici e architettonici come di semplici quinte su fondo neutro, ma essi non cessano ancora di fungere quali elementi che, se non circoscrivono lo spazio, perlomeno vi illudono; tanto che il Bizantinismo – e ciò riveste per noi una particolare importanza – poté conservare, malgrado la disorganizzazione che introdusse nella composizione, singoli elementi costitutivi dell’antico spazio prospettico e trasmetterli al Rinascimento occidentale»11.

La lunga citazione è utile per evidenziare che nel dibattito successivo si è tenuto conto soltanto della constatazione che la raffigurazione asseconda lo spazio in cui è limitata, contestando a Panofsky (che si limitava a raffrontarla con un’opera di sei secoli prima) di non essersi soffermato su altri particolari che avrebbero dimostrato l’uso della prospettiva, particolarmente quella inversa, e degli elementi illusionistici usati per dare profondità all’insieme là dove la prospettiva non poteva arrivare, come per la chioma della quercia di Marme12 che non si piega soltanto per seguire la curva della lunetta, ma anche per accentuare l’impressione di copertura guardandola di scorcio e soprattutto per sottolineare, con il suo essere flessa, l’umiltà dell’ambiente. Nella foto generale più sopra riprodotta, però, si vede distintamente che l’adattamento della raffigurazione allo spazio destinato era una pratica artisticamente già matura e indipendente dal simbolismo del soggetto, dato spesso a posteriori stante la mancanza di immagini coeve di confronto.

Nel tempo, l’icona è diventata un modo strutturale, fondamentale per esprimere le ragioni della Chiesa bizantina: «L’icona fa capire agli occidentali – ha scritto cinquant’anni fa Daniel-Rops a proposito dell’iconoclastia – la vera posta in gioco di questa “querelle delle immagini” che ha lacerato fino al sangue l’Oriente bizantino per tanti anni, e che a loro appariva così vana, così ridicola in apparenza. Possibile che ci sia massacrati per sapere se si

11 Ibidem, pp. 51-52.12 Le “Querce di Marme” è un sito posto a 3 km da Hebron che viene riprodotto sulle icone

con una quercia, perché nella Bibbia essa è un albero che indica la sacralità del luogo e rimanda ad eventi molto significativi per il popolo di Israele. Nella famosa icona della Trinità veterotestamentaria (o Ospitalità di Abramo) di Andrej Rublëv (1360-1430) la tradizione conferisce alla quercia il simbolo di Albero della Vita e di Legno della Croce, perché rappresentata alle spalle dell'angelo di mezzo identificato con Gesù Cristo.

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aveva il diritto di rappresentare Dio e i santi? Ma in verità, non si trattava di questo, bensì di un dibattito che toccava i dati più alti della fede. Se l’icona, l’immutabile, incorruttibile icona, è una sorta di “tipo” della realtà ineffabile, rinunciare ad essa non significa anche rinunciare a questa realtà?»13 In questo processo, l’arte didascalico-decorativa con tutte le sue varianti soggettive non trovava quindi alcun posto, né l’artista poteva liberamente manifestare la propria identità, in quanto “doveva” assumere il ruolo di mediatore e non di inventore.

Quando la prospettiva era ormai diffusa14, nel mondo orientale la costruzione assonometrica è stata perciò perpetuata consapevolmente. Il tradizionalismo della Chiesa ortodossa si è mantenuto per restare sì fedele al proprio “tipo” ma, soprattutto, per accentuare la propria diversità rispetto al cattolicesimo. Oltre ciò, non si può non immaginare che non possa esserci stata una componente pratica, mirante a non scardinare sia il dotto simbolismo e l’intera liturgia scritta dai Padri, sia l’unità religiosa in vasti territori (la cui conversione non era ancora né millenaria né capillare), sia l’organizzazione delle locali scuole di pittura. Non è neppure da escludere, perché non ancora studiato, che l’esigenza di “vedere come si vede” – cioè con l’illusione prospettica – sia stata molto meno sentita, almeno in Russia, per la conformazione stessa del paesaggio, infinitamente meno movimentato e denso di quello occidentale.

Per una lettura delle icone dal punto di vista teologico, invece, vale sempre l’analisi di Leonid Uspenskij, pur se la sua appassionata difesa trascende in una forte chiusura verso tutto ciò che è occidentale15.

Con evidenti intenti esemplificativi, in una pagina del sito di una scuola d’arte che si ispira agli insegnamenti dell’iconografo Egon Sendler16 sono schematizzate e documentate le regole prospettiche che governano le

13 Daniel-Rops, Introduzione alla traduzione francese di Alexis Hackel (in russo Aleksej Al’fred Gakkel’), Les Icônes dans l'Église d'Orient, Herder, Fribourg en Brisgau 1952.

14 Sarà utile ricordare qualche data. Verso il 1415 Filippo Brunelleschi inventò la prospettiva mostrando due tavolette disegnate (andate poi perdute) montate su un dispositivo ottico. Nella prima (una veduta frontale del Battistero di san Giovanni) dimostrava le regole geometriche della prospettiva centrale; nella seconda (una veduta angolare di Palazzo Vecchio) quelle della prospettiva accidentale. Le regole geometriche furono poi codificate e sviluppate negli anni successivi da Leon Battista Alberti nel 1435-1436, Piero della Francesca nel 1475, Albrecht Dürer nel 1525 e altri. Alla fine del Cinquecento, architetti, pittori e scenografi avevano conoscenze talmente approfondite da arrivare a ideare e creare spettacolari illusioni spaziali. È bene precisare che i trattati seguirono, mai precedettero, le intuizioni degli artisti e la diffusione delle loro opere. Altre date importanti ai nostri fini sono quelle attinenti all’impero e alla pittura bizantina: nel 726-843 vi fu la lotta contro le immagini sacre (o iconoclastia); nel 1054 fu dichiarato ufficialmente lo scisma tra la Chiesa d’Oriente e la Chiesa romana; nel 1453 avvenne la caduta di Bisanzio-Costantinopoli e la fine dell’impero bizantino. Nell’antica Russia (cristianizzata nel 988), sant’Iona fu il primo Metropolita di Mosca e di tutta la Rus' eletto nel 1448 senza il consenso del Patriarca di Costantinopoli. Gli artisti russi ebbero rapporti diretti con Costantinopoli, ma più ancora con la comunità monastica del Monte Athos.

15 Cfr. L. Uspenskij, La teologia dell’icona. Storia e iconografia, La Casa di Matriona, Milano 1995.

16 Cfr. http://www.atelier-st-andre.net/it/pagine/estetica/prospettiva.html.

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icone: la prospettiva lineare, la prospettiva assonometrica (neologismo o cattiva traduzione?) e la prospettiva invertita.

Per la prima si fa ricorso alla più celebre Annunciazione del Beato Angelico, quella affrescata all’entrata del dormitorio del convento di San Marco a Firenze intorno al 1438 e si scrive «la prospettiva lineare è curata con precisione geometrica fino nei minimi dettagli architettonici. Lo spazio così creato dona ai personaggi un’aura di calma e armonia, limitandoli però ad un ambiente ben definito. Il punto di fuga, posizionato in coincidenza della finestrella, attira irresistibilmente l’attenzione dello spettatore: egli deve “entrare” nel dipinto per partecipare della bellezza dell’avvenimento». L’esempio è sicuramente pertinente, ma parziale ne è la lettura, perché, essendo paragonato alla “scrittura” di un’icona, non si può sottovalutare che il dipinto fa parte di un ciclo di oltre cinquanta affreschi, è di grandi dimensioni (321x230 cm), doveva dialogare con le architetture realizzate dal contemporaneo Michelozzo (l’analogia di colonne, volte e archi è evidente) essendo situato nel corridoio settentrionale di un chiostro e quindi in una zona di passaggio, voleva privilegiare il primo dei cinque momenti (l’arrivo dell’angelo) in cui si divide, convenzionalmente, il passo nel Vangelo di san Luca, aveva lo scopo di invitare alla meditazione – da non farsi davanti al dipinto – così che rivivendo la scena venisse facilitata la preghiera al religioso (esistevano al tempo dei veri e propri manuali che insegnavano l’orazione e che consigliavano di formarsi delle immagini mentali)…

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Beato Angelico, Annunciazione, circa 1438, cm 321x230, affresco (Museo di San Marco a Firenze)

Annunciazione a Maria Vergine, Costantinopoli, inizi del XIV secolo, 94,5x80,3 cm, tempera su legno (Museo Nazionale di Ohrid)

La spiegazione del secondo e del terzo tipo di prospettiva è accomunata sotto il titolo “La prospettiva delle icone” e interessa una sola raffigurazione: «Attraverso questa rappresentazione iconografica del XIV secolo di Ohrid, la verità teologica dell’Annunciazione viene direttamente trasmessa al credente. Il primo piano è costituito dai due piedistalli che innalzano la base del suolo e aprono la scena verso lo spettatore senza dare l’impressione della profondità: vengono disegnati alternativamente con la prospettiva

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invertita (piedistallo della Madre di Dio) o in assonometria (piedistallo dell’Arcangelo) nell’intenzione di esprimere un movimento verso l’avanti. Lo stesso ragionamento si applica alle strutture architettoniche che conferiscono all’icona la sua apertura verso l’alto. Lo stile iconografico, rifiutando la “scatola-spazio” ovvero la profondità, rappresenta all’esterno degli edifici gli avvenimenti che vi si svolgono all’interno. Un velo rosso è sospeso alla sommità della struttura per indicare che l’azione ha luogo all’interno degli edifici». Pure in questo caso, la lettura risente di qualche frettolosità, perché, anche se il soggetto è analogo, le due opere non sono paragonabili, in quanto la seconda è stata dipinta più di un secolo prima dalla precedente e altrettanto dall’invenzione della prospettiva lineare. Lo spazio dell’icona è quindi rappresentato in modo intuitivo, di conseguenza non è possibile che all’epoca ci fosse una precisa volontà di utilizzare nei piedistalli due sistemi geometrici diversi, considerando anche che la convergenza o divergenza delle loro linee è di pochissimi gradi. Le “strutture architettoniche” hanno funzioni diverse e infatti vengono trattate in modo differente: quella a destra non è un edificio ma un trono dorato, collocato sopra una pedana, e si mostra ricco e adorno perché vi è seduta una Regina, la futura Madre di Dio, che ha la protezione divina (il drappo rosso attraversato dal raggio dello Spirito Santo); quella di sinistra, che l’angelo copre parzialmente e in rapporto al trono è sito a gran distanza, è una quinta architettonica di completamento, utile a far vedere che la scena non si svolge in un deserto e ad equilibrare l’insieme pittorico. Inoltre, non è da escludere che il pittore l’abbia volutamente deformato per dare risalto alla linea curva edificio-nimbo-ala che idealmente prosegue lungo il braccio dell’angelo, sottolineando così, nel suo dirigersi verso la Vergine, il fulcro della composizione. È vero che, assumendo come campione un’icona con la raffigurazione dell’Annunciazione di epoca più moderna, l’impressione generale non cambia (sui particolari si potrebbe però discutere a lungo), ma risulta un po’ bizzarro – e sviante – il paragone proposto tra due opere realizzate in epoche, tecniche (la seconda non è un affresco ma un’icona mobile dipinta a tempera su tavola di legno), dimensioni (la superficie della seconda è un decimo della prima) e usi tanto differenti.

Nel sito menzionato, compare un ulteriore tipo di prospettiva non citato in apertura: la prospettiva di rappresentanza, che «è un processo di rappresentazione che permette di mettere in evidenza un personaggio rispetto ad altri presenti sulla stessa icona», illustrata con una tavola russa del XIII secolo con i santi Giovanni Climaco (al centro), Giorgio (a sinistra) e Biagio. Tuttavia, questo tipo esula dal discorso sulla tridimensionalità, riferendosi più specificamente allo studio sui “tracciati regolatori”,

geometrici o di convenienza.Un’altra spiegazione sulla prospettiva inversa è presente su un sito di

ortodossi russi17 con uno schema esemplificato da un’icona della

17 Cfr. http://www.orthodoxworld.ru/it/icona/2/index.htm.

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Deposizione di Cristo. La descrizione, convincente dal punto di vista simbolico generale e delle singole parti, si appanna sulla costruzione geometrica, soprattutto quando si dice: «Questa scena piena di dolore è messa sullo sfondo di “monticelli da icona” dipinti nella prospettiva rovesciata: questi monticelli si spargono radialmente “in profondità”. La prospettiva rovesciata crea qui un effetto straordinariamente forte: lo spazio si apre in larghezza e in profondità, in alto e in basso, così fortemente che quello che succede sotto gli occhi dello spettatore acquisisce una dimensione cosmica».

Deposizione di Cristo nel sepolcro, Russia (Novgorod), XV secolo, tempera su legno

Le rocce – «Il Signore è la mia roccia, la mia fortezza, il mio liberatore, il mio Dio, la mia rupe in cui mi rifugio» (2 Sam 22,2) – sono in realtà realizzate in assonometria (lemma che, va detto, non è mai citato), ma il pittore molto abilmente le ha divise con un cono di luce rendendole quasi speculari: un artificio che si trova anche nell’antichità18. La spiegazione si precisa meglio nel passo seguente: «La prospettiva rovesciata non è una mancanza di abilità nella raffigurazione dello spazio. Gli antichi pittori di icone russi non hanno accettato la prospettiva lineare, quando l’hanno conosciuta. La prospettiva rovesciata conservava il suo significato spirituale ed era una protesta contro le seduzioni della “vista carnale”. Non raramente l’utilizzo della prospettiva rovesciata dava anche dei vantaggi: permetteva, ad esempio, di sviluppare le composizioni così da far vedere i dettagli o le

18 Il cono di luce assume qui un significato simbolico (la luce divina), ma per un pittore aveva e ha la funzione di interrompere la direzione di un punto di vista per iniziarne un’altra. Le zone di raccordo, o cunei, che si formavano tra due scene attigue erano di solito colmate con paesaggi, figure o architetture.

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scene da esse “coperti”». Pur essendo opinabile il fatto di far nascere prima la prospettiva rovesciata di quella lineare (che, al più, avrebbero dovuto essere contemporanee), la descrizione calza a pennello con l’assonometria e con le ricerche spaziali dei secoli precedenti, già annotate.

Nella pittura cristiana, la frattura tra Oriente e Occidente diventa insanabile dal tardo Rinascimento in poi, quando alle diverse costruzioni geometriche (prospettiva e assonometria) si aggiunge, in Europa, la ricerca del pathos. Per i bizantini, quanto più il personaggio raffigurato si distaccava dal mondo terreno e assumeva un atteggiamento ieratico e impenetrabile, tanto più questi si avvicinava all’Invisibile; per gli occidentali, invece, l’ideale stava nel raggiungere le pieghe più profonde del sentimento umano, nel rappresentare sia la bellezza che il dolore. E lo stesso dicasi per le scene composite.

Jacopo Bassano, Ultima Cena, 1542, 30x51 cm, olio su tela (Galleria Borghese, Roma)

Jacopo Robusti (Tintoretto), Ultima Cena, 1592-94, 568x365 cm, olio su tela(Chiesa di San Giorgio Maggiore, Venezia)

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In un confronto – più didattico che scientifico – tra una Ultima Cena occidentale e un’icona con lo stesso soggetto sono evidenti le convergenze tematiche e dottrinali: sono egualmente celebrati l’imminente tradimento di Giuda, l’istituzione del sacramento dell’Eucaristia, l’addio di Gesù agli apostoli. La resa è, invece, completamente differente, specie nelle composizioni dal Cinquecento in poi.

Le tele occidentali sono drammatiche, seguono spesso alla lettera il racconto dei Vangeli: la grande stanza in penombra arredata con tappeti, cuscini e divani; la sorpresa scomposta degli apostoli alla notizia del tradimento, il capo piegato di Giovanni, lo sguardo altrove di Pietro, la tavola imbandita con i piatti dove si è consumato l’agnello arrosto – simbolo della

Pasqua ebraica –, i pani e i calici di vino dei commensali; talvolta si nota l’assenza di Giuda oppure una finestra aperta su un luminoso paesaggio o una lampada accesa per rimarcare sia l’interno della scena, sia la tristezza del momento…). Può essere sapientemente usata anche la prospettiva, come nella tela del Tintoretto.

Le icone, nonostante alcune risentano l’influsso occidentale, sono sobrie ed essenziali: sulla tavola vi sono, di norma, un solo pane e un solo calice (oppure la coppa da cui Giuda prese il boccone poco prima del tradimento), Cristo – rappresentato al centro o a lato del desco, secondo lo specifico momento raccontato nei Vangeli – costituisce il fulcro della scena verso il quale si dirigono gli sguardi o i gesti degli apostoli, lo sfondo – se c’è – presenta delle architetture che alludono alla Chiesa primitiva radunata intorno al sacramento, Giuda è sempre riconoscibile per non avere l’aureola ed essere in posizione diametralmente opposta a quelle di Cristo e Giovanni, gli altri astanti, pur non essendo immobili, manifestano i propri sentimenti con compostezza, nessun apostolo è completamente ritratto di spalle… Non è lasciato alcuno spazio al coinvolgimento emotivo dello spettatore e alla sua conseguente distrazione, anche se occorre precisare che alcune icone delle regioni mediterranee presentano un dinamismo maggiore, il quale è stato ripreso in alcune tavole russe tacciate, però, di decadenza teologica e artistica. Comparandole tra loro, si nota che, pur mantenendosi fedeli alle regole generali della Chiesa, presentano notevoli differenze, dando ragione a quegli studiosi che hanno sottolineato le libertà concesse dalla stessa Chiesa agli iconografi nel mescolare tradizione e innovazione, nell’accettare alcune credenze popolari, nel rispettare le peculiarità dei luoghi di produzione, nell’adeguarsi alle richieste delle classi sociali che commissionavano le opere, nell’esprimere lo stile personale. Per quel che qui si sottolinea, le architetture naturali o artificiali – non simboleggianti un sito reale, ma la Chiesa in generale – non sono quasi mai rappresentate frontalmente, ma di scorcio senza regole geometriche ma per “ambientarle”.

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Ultima Cena, Russia (Mosca), 1425–1427, tempera su legno, cm 88×67.5 cm (Monastero della SS.Trinità-S.Sergio, Sergiev Posad)

Simon Ušakov, Ultima Cena, Russia (Mosca), 1685, 44x61 cm, tempera su legno (iconostasi della Cattedrale della Dormizione del Monastero della SS.Trinità-S.Sergio, Sergiev Posad)

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Ultima Cena (particolare), Scuola Cretese, 1517, 122x54 cm, tempera su legno(Museo di icone presso la chiesa di San Giorgio dei Greci, Venezia)

Manuel Panselinos, Ultima Cena, 1310 ca., affresco (Cattedrale di Karies, Monte Athos)

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L’ultimo affresco con l’Ultima Cena – di scuola macedone conservato sul Monte Athos – offre l’occasione di mostrare un altro elemento, ripreso sia in affreschi che su icone portabili di epoca successiva raffiguranti sia la Cena che la Trinità veterotestamentaria, che i “difensori” della prospettiva inversa portano a comprova: il tavolo. Sulla sua forma non viene mai detto che è a semicerchio ma che ha «il lato inferiore dritto e il lato superiore ricurvo», ciò perché si vuole sottolineare la predilezione, nell’arte bizantina e post-bizantina, per le deformazioni curve: i troni di Cristo e della Vergine, per esempio, hanno spesso linee curve che non necessariamente seguono l’ergonomia dello schienale: anche le linee verticali possono essere incurvate19. Nel caso dell’Ultima Cena athonita, però, ci sembra che la pianta a semicerchio del tavolo abbia avuto origine da una lettura attenta del Vangelo. Cristo, infatti, raccoglie attorno a sé gli apostoli per impartire gli ultimi insegnamenti: il cerchio è la forma che consente a tutti i commensali di vedersi e di ascoltare bene – nell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, per esempio, Bartolomeo dovrebbe alzare la voce per farsi sentire da Simone; Giacomo e Giuda Taddeo dovrebbero torcersi per guardare in viso Gesù. Nell’affresco, il cerchio viene tagliato a metà per seguire lo scopo della pittura, che non era quello di essere pedissequamente descrittiva, ma di far soffermare (ricordare, partecipare) il fedele sull’evento. L’ellisse comparirà più tardi, prima nelle icone dipinte e poi negli affreschi, la cui tecnica più veloce limitava la precisione.

Costruzioni geometriche si hanno anche nella raffigurazione dei santi monaci, alle cui spalle è quasi sempre dipinto (frontale o a volo d’uccello) il monastero da essi fondato, riportato nel momento di massimo fulgore per dimostrare l’importanza raggiunta. In qualche icona, con evidenti riferimenti all’arte barocca occidentale, il monastero è rappresentato parte in prospettiva (perimetro esterno) e parte in assonometria (edifici), ma per non interferire nella composizione classica il monumento era riquadrato. In generale, tuttavia, l’assonometria cavaliera ben si presta a rendere questa successione di piani che spesso hanno significati correlati al soggetto, ma indipendenti nel tempo o nello spazio (come nell’icona della Dormizione della Vergine Maria).

Un’ultima annotazione, forse marginale per la grafica ma non per la percezione, è la deformazione che il legno dell’icona subisce nel tempo: la superficie dipinta è quasi sempre convessa, a causa della contrazione delle fibre di legno, dovuta all’umidità, dal tipo di taglio e dalla sua posizione nel tronco. Vi è quindi un effetto “curvo” che accentua l’andamento non retto di alcune linee o la loro fuga. Nelle fotografie, questo effetto non è percepibile.

19 Cfr. C. Antonova, Spazio iconico, geometria non euclidea e cultura nella visione del mondo di Pavel Florenskij, in Matematica e cultura, a cura di Michele Emmer, Springer, Milano 2010, pp. 3-14. Un’interpretazione differente viene data negli scritti già citati di E. Panofsky e, più in generale, quelli che trattano di percezione visiva.

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Santi monaci Zosima e Savvatij delle Solovki, Russia settentrionale, XIX secolo, 79,9x64,4 cm,

tempera su legno (Archivio Banca Intesa, Vicenza)

Pavel Baklašëv, Venerabile Nil Stolobenskij con la scena del Battesimo di Cristo, Russia, 1774, 45x35

cm, tempera su legno (Museo d’Arte, Kaluga)

Ivan Grekov, Santi principi Aleksandr Nevskij (a destra) e suo fratello Fëdor, Russia, XVIII secolo,

63,5x49,5 cm, tempera su legno (Galleria Tret’jakov, Mosca)

San Makarij di Želtovoda e Unža con scene della vita e la Trinità neotestamentaria, Russia, XVIII-XIX

secolo, 53,2x39,8 cm (Airc, Cherasco)

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Come ha osservato Erwin Panofsky20, lo stile che ne risulta non è «piatto», ma «appiattito», proprio per la diversa importanza che viene data allo sfondo: nulla nel primo caso, sottovalutata nel secondo. Infatti, l’effetto di profondità dato dalla prospettiva lega a tal punto sfondo e soggetto che si crea una dipendenza reciproca, l’uno perde senso senza l’altro.

Giorgione, Tempesta, 1505-10, 82x73 cm, olio su tela (Gallerie dell’Accademia, Venezia)

Pokrov o Protezione e intercessione della Vergine, Russia (Novgorod), XVI secolo, 117x69 cm,

tempera su legno (Museo Russo, San Pietroburgo)

Così, se nella Tempesta di Giorgione ogni elemento ha un proprio ruolo nell’iconografia generale, nel Pokrov o Protezione e intercessione della Vergine la presenza o meno della chiesa delle Blacherne (dove era custodito il maphorion di Maria) non toglie alcun senso all’opera, nemmeno nelle tavole più stilizzate: le figure del registro superiore della raffigurazione del Pokrov non sono mai “affacciate”, ma si muovono su un piano che della chiesa assume solo la scansione per distinguere gli ospiti.

20 E. Panofsky, Meaning in the Visual Arts, Papers in and on Art History, Garden City, New York 1955, trad. it. Il significato delle arti visive, Einaudi, Torino 1962: nell’edizione 1999 la citazione è a p. 77.

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In sostanza, nelle icone, l’architettura «ha qualcosa di un po’ folle, che libera il gioco della bellezza» (O. Clément)21, ovvero «La prospettiva iconica obbedisce ad un imperativo “soggettivo”; questo carattere si manifesta chiaramente nel paesaggio delle costruzioni architettoniche che costituiscono l’ambientazione delle scene. Con i suoi edifici, i suoi santuari, le sue finestre e le sue porte, la costruzione architettonica appare fondamentalmente alogica» (M. Zibawi)22.

La “follia” – o alogicità, o illogicità, secondo i punti di vista – è data proprio dal non seguire pedissequamente uno o l’altro sistema geometrico perché nelle icone questi si mescolano in libertà, così come si affiancano e si sovrappongono delle scene, ognuna con il proprio punto di vista. Il fattore imprescindibile è il soggetto, portatore di messaggi divini, non il metodo grafico con cui lo si rappresenta. È per questo che la Chiesa ortodossa ha contrastato ogni libertà espressiva che potesse deviare il pensiero del fedele. Di conseguenza, più che di assonometria o prospettiva, nelle raffigurazioni, bisognerebbe parlare di percezione, psicologia e simbologia, proprio perché le icone mostrano concetti che vanno compresi e ricordati. Di per sé, «la prospettiva invertita non è cosa di gran conto»23 (R. Arnheim).

21 O. Clément, Le Visage intérieur, Stock, Paris 1978, trad. it. Il volto interiore, Jaca Book, Milano 1978, p. 52.

22 M. Zibawi, The icon: its meaning and history, Collegeville, Minn. 1993, trad. it. Icone. Senso e storia, Jaca Book, Milano 2000, p. 113.

23 R. Arnheim, New Essays on the Psychology of Art, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1986; trad. it. Intuizione e intelletto. Nuovi saggi di psicologia dell'arte, Feltrinelli, Milano 1987, p. 188.

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