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aut aut, 353, 2012, 19-23 19 Su “aut aut” e il fare filosofia. Ripensare l’“essere-al-mondo” ROSELLA PREZZO P arlare di “aut aut” come luogo di filosofia è per me richiamare inevitabilmente una parte della mia storia (del resto, per chi crede alle congiunture astrali, il mio anno di nascita corrisponde a quello della rivista...). “aut aut” ha rappresentato infatti uno dei miei iniziali legami e a lungo uno dei principali tramiti, più che col sapere filosofico, col fare filosofia. Sul cui significato, nel segno di questo anniversario, ci stiamo oggi reinterrogando in una situazione anche di disagio e disorientamento, almeno per alcuni di noi. Prima quindi di indicare qualcosa nel presente su cui varrebbe forse la pena appuntare la nostra attenzione come a questioni aperte o da riformulare, riconsiderando insieme i nodi tematici che Pier Aldo Rovatti ha ben focalizzato nella storia del- la rivista sotto la formula “il coraggio della filosofia”, ecco il mio personale sguardo all’indietro. Uno sguardo che non vuol essere di semplice amarcord, bensì un tentativo di uscire dalle secche teoriche, dalla miseria simbolica e dalla frantumazione del pen- sare che mi paiono il tratto dominante del momento attuale. Nella prima metà degli anni settanta, all’Università di Milano, ho avuto la fortuna di incontrare dei bravi maestri tra cui Enzo Paci: uno straordinario Socrate “corruttore” di giovani che co- municava soprattutto il “piacere del pensare”, che era anche una scuola di libertà e laicità. E nelle cui appassionanti lezioni Kierke- gaard andava a braccetto con Kafka, Sartre con Antonioni, la Fe- nomenologia dello spirito hegeliana era letta attraverso il Bildungs-

Su "aut aut" e il fare filosofia, di Rosella Prezzo

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articolo di Rosella Prezzo apparso sul numero 353 di "aut aut

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aut aut, 353, 2012, 19-23 19

Su “aut aut” e il fare filosofia.Ripensare l’“essere-al-mondo”

ROSELLA PREZZO

Parlare di “aut aut” come luogo di filosofiaè per me richiamare inevitabilmente unaparte della mia storia (del resto, per chi

crede alle congiunture astrali, il mio anno di nascita corrispondea quello della rivista...). “aut aut” ha rappresentato infatti unodei miei iniziali legami e a lungo uno dei principali tramiti, piùche col sapere filosofico, col fare filosofia. Sul cui significato, nelsegno di questo anniversario, ci stiamo oggi reinterrogando inuna situazione anche di disagio e disorientamento, almeno peralcuni di noi. Prima quindi di indicare qualcosa nel presente sucui varrebbe forse la pena appuntare la nostra attenzione come aquestioni aperte o da riformulare, riconsiderando insieme i noditematici che Pier Aldo Rovatti ha ben focalizzato nella storia del-la rivista sotto la formula “il coraggio della filosofia”, ecco il miopersonale sguardo all’indietro. Uno sguardo che non vuol esseredi semplice amarcord, bensì un tentativo di uscire dalle seccheteoriche, dalla miseria simbolica e dalla frantumazione del pen-sare che mi paiono il tratto dominante del momento attuale.

Nella prima metà degli anni settanta, all’Università di Milano,ho avuto la fortuna di incontrare dei bravi maestri tra cui EnzoPaci: uno straordinario Socrate “corruttore” di giovani che co-municava soprattutto il “piacere del pensare”, che era anche unascuola di libertà e laicità. E nelle cui appassionanti lezioni Kierke-gaard andava a braccetto con Kafka, Sartre con Antonioni, la Fe-nomenologia dello spirito hegeliana era letta attraverso il Bildungs-

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roman, o la musica veniva a volte intonata per far sentire il pas-saggio logico di un discorso. Tutto ciò in un periodo pieno di ef-fervescenza e di comunicazione, appunto di movimento. Ma, pa-radossalmente, proprio negli anni in cui mi laureavo con una tesisu Marx e Hegel si sputava su Hegel. Circolava infatti l’ingiunzio-ne femminista irriverente di Carla Lonzi Sputiamo su Hegel, in cuisi leggeva, tra l’altro: “Non riconoscendosi nella cultura maschi-le, la donna le toglie l’illusione dell’universalità”. Cosa che mi pro-vocò un certo imbarazzo ma anche un forte turbamento perchémi metteva in gioco nella mia identità di giovane filosofa (anzi, fi-losofo) in formazione. L’effetto di contraccolpo, anche comico edi autoironia, lo percepii solo più tardi nel mio fare filosofia.

Allora, i “luoghi delle donne” non corrispondevano per nullaai “luoghi della filosofia”. Anzi, per dirla tutta, la filosofia non eramolto gradita né granché considerata dalle donne che andavanomovimentando non solo la vita pubblica e privata ma anche quel-la del pensiero e delle sue modalità. E in quei luoghi, che pur miattiravano e mi coinvolgevano, mi sentivo impoverita perché il sa-pere che stavo acquisendo, accumulandolo con passione sembra-va moneta fuori corso. Mi ritraevo perciò un po’ turbata da quelpieno di pratiche collettive, e un po’ diffidente nei confronti diquel che di “militare” ho sempre sentito in ogni “militanza”. Ep-pure, tornando a casa tra i testi dei filosofi, nel tempo della rifles-sione – un tempo sempre differito ma che non può mai essere astra-zione dal tempo comune – avvertivo una profonda comprensioneper alcune di quelle obiezioni di fondo. E nella mia testa echeg-giavano come interrogativi ineludibili quelle verità di “fuori”, per-ché mi riguardavano intimamente, consentendo l’ascolto del miointerrogare interiore e aprendomi ad altre fonti di senso.

Questa libertà e questa paradossalità, lezione che i miei mae-stri e la mia presenza al mondo mi avevano dato, hanno potutotrovare ospitalità in “aut aut” (ormai passata sotto l’abile regia diRovatti). Un luogo, almeno per me, dove il pensiero filosofico nontendeva a raggiungere un “inquadramento” disciplinare, né si li-mitava a opere che parlano solo di se stesse o di altre opere, e nem-meno era inteso come “argomento” cui dedicare il proprio lavo-

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ro intellettuale, tanto meno come un’esperienza solitaria al riparoda altre esperienze. Era soprattutto un pensare partecipato e par-tecipativo in una presenza viva, che si alimentava di incontri, scon-tri, risate, serietà, lavoro, studio, illusioni e delusioni, progetti (tan-ti...) e anche errori, abbagli e fallimenti. Sempre però attraversoun esercizio dello sguardo attento a ciò che si muoveva attorno,nella società nella cultura nella politica, e aggiungerei anche in sestessi. Col rammarico a volte di non essere stati abbastanza agili.

Dico questo non per idealizzare un passato, in un mondo de-cisamente cambiato, né per dare di “aut aut” un’immagine esem-plare, ma per la necessità che sento di mantenere un filo di quel-la trama. Un filo che, intrecciando il pensiero alla vita e al mondo(al con-vivere nel mondo), lo mette sempre alla prova e lo sfida ariformularsi.

Forse oggi il “coraggio”, se proprio vogliamo parlare di corag-gio connesso alla filosofia, è accettare di subire il contraccolpo (an-che sui nostri stessi pensieri, simbolizzazioni e teorizzazioni) delmondo in cui siamo parte in causa. E scoprire/scoprirci così “vuo-ti di sapere”, cosa che rimanda anche a necessari svuotamenti, apartire dai quali e con i quali riprendere a pensare filosoficamen-te. Azzardo allora qui alcune ipotesi di lavoro.

In quell’unico paese spaesato che ormai tutti abitiamo, il con-cetto stesso di spaesamento (che molti autori di “aut aut” hannoelaborato in modi diversi) è ormai un dato di fatto più che un’op-zione teorica. Ora, se questo spaesamento può essere assunto co-me fertile dislocazione del nostro punto di vista per poter vederemeglio anche noi stessi (come ci ha indicato una recente sezionedella rivista curata da Paulo Barone, dal titolo Atlante occidenta-le-orientale), esso comporta allo stesso tempo una nuova interro-gazione sul divenire-mondo dell’umano, e sul conseguente ribal-tamento della nota formula di Scheler e di Gehlen: potremmo di-re, dal “posto dell’uomo nel mondo” alla “presenza del mondonell’essere umano”.

D’altra parte, la parola “mondo”, oscurato ogni significato diconvivenza collettiva, s’identifica senza resto con globalizzazione,ossia con mercato globale e finanziario, assurto a ente supremo,

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legge senza legge, e quindi di volta in volta da sacralizzare o da be-stemmiare in modo reattivo. In “questo” mondo i soggetti, la cuicifra dell’essere-al-mondo si risolve nella loro disponibilità, nel lo-ro essere corpi a disposizione (rintracciabili, dislocabili, costrui-bili o rottamabili) sono diventati tanto flessibili fino quasi a spari-re, tanto che la loro forma di resistenza, e ancor prima di persi-stenza, come mostrano le nuove rivolte metropolitane o le onda-te di migranti-clandestini, si esprime primariamente come “biso-gno di esistere”, e di un’esistenza che non sia solo da consumare oliquidare.

Parallelamente, l’attenzione al linguaggio in cui siamo immer-si deve farsi particolarmente vigile. Nelle democrazie svuotate eparodiate con cui abbiamo a che fare mi sembra infatti che nes-suno si appelli più a verità supreme e assolute (quelle con la Vmaiuscola), irrigidite, verso cui esercitare la critica come versoespressioni della “violenza della metafisica”; al contrario. Il lin-guaggio del potere sembra piuttosto quello che accompagna il gio-co delle tre tavolette, che inibisce e imbambola l’ascoltatore-spet-tatore, distogliendolo dal movimento delle mani che si mostranosotto i suoi occhi. Più che con verità abbiamo a che fare con men-zogne indiscernibili. Il linguaggio si struttura unicamente comecomunicazione mediatica, insieme a una logica che pensa per con-cepts, secondo il modello pubblicitario del marketing, che è ciòche definisce gli obiettivi del business, legando obiettivi di gua-dagno alla creatività, e che veicola insieme all’idea del prodottoprogettato il tipo di emozioni e sentimenti che si intende trasmet-tere e suscitare. Una logica sempre più invasiva e pervasiva, cheingloba sfere sempre più ampie, come quella politica.

Ma intervenire sul linguaggio non è sufficiente, perché, comeavvertiva già Ingeborg Bachmann, “la realtà acquista un linguag-gio nuovo ogni qual volta si verifica uno scatto morale, conosciti-vo, e non quando si tratta di rinnovare la lingua in sé, come se es-sa fosse in grado di far emergere conoscenze e annunciare espe-rienze che il soggetto non ha mai posseduto”.

È qui che la filosofia ritrova allora la sua necessità, non certoper rimettere le braghe al mondo, per fornirne una visione pa-

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nottica, né per indicare quale meta raggiungere, ma come guidanel senso di mappa, per riorientarci lì dove siamo. Magari, come èuso del pensiero filosofico, tornando da capo.

Risignificando proprio quel concetto di essere-al-mondo checon quello di Da-sein è il concetto heideggeriano che ha cono-sciuto la migliore fortuna; ma che, non più messo in discussione,e smettendo noi quindi di pensare con esso quando si crede an-cora di farlo, si rivela ormai troppo neutro e vuoto di senso rispettoalla nostra attuale condizione di essere-al-mondo. E la categoriastessa di mondo andrebbe allora riformulata, e forse varrebbe lapena di interessarsi anche all’aspetto del venire al mondo, dellavenuta al mondo dell’esserci, perché il concetto stesso di mondosi salda ormai col dramma dell’arrivato, del nuovo venuto.