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Abbandoni e solitudini Storie di infanzie e di maternità negate Barbara De Serio

Storie di infanzie e di maternità negate · 2017-09-20 · Tante infanzie, poche storie. Una lettura storiografica della prima età 23 La prova dell‟assenza del sentimento dell‟infanzia

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Abbandoni e solitudini

Storie di infanziee di maternità negate

Barbara De Serio

Copyright © MMIXARACNE editrice S.r.l.

[email protected]

via Raffaele Garofalo, 133 a/b00173 Roma

(06) 93781065

ISBN 978-88–548–2454–6

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: marzo 2009

7

Indice

Introduzione ...................................................................................... 9

Capitolo I

Tante infanzie, poche storie.

Una lettura storiografica della prima età

1. Le rappresentazioni culturali dell‟infanzia ............................ 21

1.1. Dalla rimozione alla scoperta ............................................... 21

1.2. Infanzie invisibili ................................................................. 26

1.3. Dalle infanzie invisibili alle infanzie reali ............................. 34

2. L‟infanzia tra violenza e alienazione .................................... 38

2.1. Il bambino sfruttato.............................................................. 38

2.2. Il bambino negato. L‟aborto e l‟infanticidio ........................... 45

2.3. L‟educazione alla maternità legittima ................................... 49

2.4. Il profilo della maternità illegittima ...................................... 54

3. Per forza o per amore.

Il fenomeno dell‟abbandono infantile ................................... 60

3.1. La rappresentazione sociale dell‟esposizione ........................ 60

3.2. La realtà si fa romanzo e il romanzo denuncia ....................... 66

Capitolo II

L‟infanzia abbandonata.

Storie di maternità negate e di grandi amori

1. Donne e bambini. Una duplice minorità ................................ 77

1.1. Bambini soli e donne emarginate ......................................... 77

1.2. Matrimonio e maternità. I destini possibili per la donna ......... 81

2. L‟insostenibile leggerezza dell‟abbandono ............................ 90

2.1. La solitudine della madre illegittima.

Ovvero, il divieto di ricerca della paternità ........................... 90

2.2. Le lotte femministe per il diritto alla maternità illegittima ...... 97

Indice 8

Capitolo III

L‟abbandono infantile.

Dall‟esposizione all‟istituzionalizzazione

1. Le condizioni dell‟abbandono .............................................. 107

1.1. Gli sviluppi del fenomeno nell‟Ottocento .............................. 107

1.2. Le cause del rifiuto della maternità ....................................... 109

1.3. Un caso a sé. L‟esposizione delle bambine ............................ 112

2. L‟istituzione della ruota ....................................................... 116

2.1. Dalla strada all‟istituto ......................................................... 116

2.2. Il brefotrofio. La balia dei bambini esposti ............................ 125

3. L‟accoglienza dei bambini esposti ........................................ 131

3.1. Quanto amore in un pezzo di carta ........................................ 131

3.2. Le pratiche dell‟esposizione ................................................. 135

3.3. La pia ricevitrice ................................................................. 139

3.4. Le balie .............................................................................. 142

3.5. Lo svezzamento e il ritorno al brefotrofio .............................. 149

3.6. Ospizi e conservatori.

L‟educazione dei bambini abbandonati ................................. 154

4. Dalla negazione al riconoscimento ........................................ 164

4.1. La chiusura della ruota ......................................................... 164

4.2. I vantaggi della consegna diretta ........................................... 171

4.3. Le case di maternità e i presepi ............................................. 177

Capitolo IV

Storie di infanzie abbandonate. Tra amore e solitudine

1. L‟infanzia abbandonata nel Mezzogiorno .............................. 185

1.1. L‟esperienza della Santa Casa dell‟Annunziata ...................... 185

1.2. La Capitanata nell‟Ottocento ................................................ 190

2. Via Arpi. La culla dei bambini esposti nella città di Foggia .... 196

2.1. Dalla storia alla storiografia.

Per lasciare traccia delle tracce ............................................. 196

2.2. L‟istituzione della ruota a Foggia ......................................... 212

2.3. Bambini abbandonati nella provincia di Foggia ..................... 218

2.4. Tutelate nell‟onore. I conservatori femminili ......................... 230

Bibliografia ....................................................................................... 237

21

Capitolo I

Tante infanzie, poche storie.

Una lettura storiografica della prima età

1. Le rappresentazioni culturali dell’infanzia

1.1. Dalla rimozione alla scoperta

La crescente attenzione per l‟infanzia e il riconoscimento del suo

valore specifico è il risultato di un processo lungo e articolato che per

anni ha visto gli studiosi impegnati a recuperarne le tracce e a rico-

struirne la storia a partire dall‟analisi delle rappresentazioni adulte del-

la vita infantile, ovvero dei differenti atteggiamenti di cura che gli a-

dulti hanno riservato alla prima età nel corso dei secoli.

Proprio l‟interpretazione di Lloyd deMause, che come sostiene An-

gelo Semeraro1 non propone tanto una storia dell‟infanzia quanto una

storia della famiglia, ovvero una storia delle percezioni che nel corso

del tempo gli adulti hanno avuto dell‟infanzia, può essere utile a com-

prendere i significati e i giochi di proiezione – come li definisce Se-

meraro – che si nascondono negli atteggiamenti ambigui di chi proba-

bilmente ha visto nell‟abbandono dei bambini una rimozione delle

proprie paure – connesse alla maternità e al timore di non essere

all‟altezza del compito – che in quanto tali si ripercuotono sul senti-

mento dell‟infanzia.

L‟immagine del bambino che fa paura, ripresa recentemente da Eli-

sabeth Badinter2, ha sempre caratterizzato la storia della famiglia oc-

cidentale, almeno fino alla prima metà del Settecento. Demonizzata

anche dalla teologia cristiana, che la considerava espressione della

forza del male e del peccato, nonostante le costruzioni simboliche at-

torno al valore della sua innocenza, che avrebbe poi contribuito a sal-

varla, l‟infanzia ha sempre rappresentato per l‟adulto la via di mezzo,

1 Cfr. A. SEMERARO, Tracce d‟infanzia. Bambine e bambini tra storia e cronaca, Unico-

pli, Milano 1994. 2 Cfr. E. BADINTER, L‟amore in più. Storia dell‟amore materno (1980), Longanesi, Mila-

no 1982.

Capitolo I 22

l‟età dell‟imperfezione di cui era giusto liberarsi al più presto per ten-

dere verso la piena realizzazione di sé.

L‟ipotesi dell‟imperfezione ha dominato la scena della storia

dell‟infanzia fino al XVII secolo, quando le teorie pedagogiche, in-

fluenzate anche dagli studi filosofici di ispirazione cartesiana, comin-

ciarono a proporre un‟immagine di bambino privo di ragione e total-

mente in preda alle sensazioni, che di solito sono opinioni false o in-

gannatrici. Non più luogo del peccato, l‟età infantile diventava in que-

sto periodo il luogo dell‟errore e della debolezza dell‟anima, un‟età

della vita in cui le idee, confuse e disordinate, non sono ancora domi-

nate dall‟intelletto, ma sono in preda alle percezioni corporee, che cer-

tamente contribuiscono a formare nel bambino un‟immagine distorta

della realtà.

«Più che un male, il bambino era il nulla insignificante, o il quasi

nulla; e questo spiega in parte l‟indifferenza materna […]. Poiché era

necessaria una buona dose di insensibilità per sopportare, come esse

sopportarono, la morte dei propri bambini o anche per scegliere di far-

li vivere lontani in una sorta di abbandono morale»3.

Anche Philippe Ariès4 attribuisce alla società medievale la nascita

di un atteggiamento di ostile indifferenza nei confronti dell‟infanzia,

che ha progressivamente indotto ad annullarne l‟originale specificità e

a non riconoscerla come età autonoma e differente rispetto a quella

adulta, ma non per questo inferiore o meno importante nel processo di

crescita.

La causa di questa incapacità di rappresentarsi l‟infanzia e di di-

stinguere le peculiari caratteristiche della sua età risiede – sostiene A-

riès – nell‟assenza di quel “sentimento” che, invece, porterà l‟età mo-

derna, sia pure in forma spesso ambigua e contraddittoria, a maturare

un profondo interesse, in termini di affettività e di comportamenti

premurosi, nei confronti del bambino, che pian piano diventerà il nu-

cleo centrale del nuovo modello familiare settecentesco, ormai del tut-

to incentrato sul bisogno di identità e sulla necessità di costruire rela-

zioni da vivere esclusivamente nella sfera del privato e dell‟intimità.

3 Ivi, p. 53.

4 Cfr. P. ARIÈS, Padri e figli nell‟Europa medievale e moderna (1960), Laterza, Roma-

Bari 2006.

Tante infanzie, poche storie. Una lettura storiografica della prima età 23

La prova dell‟assenza del sentimento dell‟infanzia risiede, secondo

lo storico, nella celerità con cui si chiedeva ai bambini di crescere e

diventare grandi, ovvero nel fatto che a partire dai sette anni di età il

bambino e la bambina entravano ufficialmente nel mondo adulto. Per

incoraggiare questa fase di passaggio all‟adultità la società chiedeva ai

genitori di inibire ogni manifestazione di tenerezza nei confronti dei

figli e di adottare un atteggiamento distante e indifferente, che avrebbe

dovuto accelerare il loro processo di crescita e di maturazione.

In altri termini, lungi dal ritenerla incapace di provare affetto e a-

morevolezza nei confronti dell‟infanzia, i cui tempi di vita erano

nell‟antichità molto brevi, la famiglia medievale, senza alcuna distin-

zione di classe o di ceto, appariva una realtà sociale e morale più che

sentimentale. Le stesse cure che gli adulti riservavano al bambino, che

veniva presto allontanato dalla famiglia d‟origine e costretto a trasfe-

rirsi in casa d‟estranei per ricevere un‟educazione che solitamente

sconfinava nell‟apprendistato, erano quasi sempre finalizzate ad af-

frettare il suo processo di crescita e a farlo diventare adulto nel minor

tempo possibile, perché anche lui, non più “infante”, e in quanto tale

privo dell‟uso della parola, potesse finalmente entrare nell‟età della

ragione5.

Il concetto di “età non parlante” è stato spesso utilizzato nei poemi

medievali per definire l‟infanzia, che veniva appunto considerata

un‟età priva di ragione. Una definizione che da un lato sembrava mo-

tivare lo scarso interesse nei confronti della prima età perché, come

spesso si diceva, un essere umano che non parla, che quindi non sa,

non può avere dignità umana, in quanto essere incompiuto e imperfet-

to; dall‟altro lato intendeva giustificare le pratiche educative spesso

estenuanti che venivano riservate al bambino e alla bambina nel tenta-

tivo di riscattarli dall‟imperfezione e di guarirli dalla menomazione

cui li costringeva l‟assenza di parola: l‟impossibilità di manifestare a

se stessi e agli altri il proprio pensiero.

5 Sull‟afasia infantile si è soffermata più volte Rosella Frasca, che ha sempre chiarito co-

me il termine “infans”, che esprime il “non fari”, non designa “l‟incapacità di parlare”, bensì

l‟incapacità di esprimersi «con rigore e coerenza logici». Per ulteriori approfondimenti su questo tema cfr., dell‟autrice, Il lavoro «sacro» del «puer» romano in E. BECCHI, A.

SEMERARO (a cura di), Archivi d‟infanzia. Per una storiografia della prima età , La Nuova Ita-lia, Milano 2001, pp. 357-372.

Capitolo I 24

L‟incapacità dei bambini di esprimere le proprie necessità e di dar

voce ai propri bisogni ha dunque indotto a considerare l‟infanzia una

fase di passaggio verso l‟età della ragione e a giustificare la sua sot-

tomissione al volere adulto che, quando non ha del tutto marginalizza-

to la sua storia, misconoscendone volutamente i suoi diritti inalienabi-

li, ha preferito narrarla e interpretarla sulla base dei propri modelli,

che naturalmente hanno a lungo impedito un suo reale riconoscimento.

Diversa la situazione nel periodo compreso tra la fine del Medioevo

e l‟inizio dell‟età moderna, in cui si diffuse un mutato atteggiamento

nei confronti dell‟infanzia anche grazie all‟influenza di quello che Phi-

lippe Ariès definisce «un più profondo cristianesimo del costume».

La maggiore sensibilità per la personalità infantile indusse col tem-

po a riconoscere che questi esseri “fragili e minacciati” avevano

un‟anima immortale, che andava preservata «dal mondo inquinato de-

gli adulti per mantenercela nella primitiva innocenza»6.

Quest‟ultima ipotesi, ripresa successivamente da Lloyd deMause7,

chiarisce bene come le prime manifestazioni di interesse e i primi at-

teggiamenti amorevoli nei confronti dell‟infanzia siano storicamente

rilevabili a partire dalla fine del XIV secolo. A questo periodo risalgo-

no, infatti, i primi cambiamenti nelle attività di cura riservate al bam-

bino e alla bambina, che cominciarono a prediligere l‟utilizzo di co-

stumi educativi e pratiche disciplinari meno costrittivi e più rispon-

denti alla fragilità fisica e psicologica dell‟età infantile. Alle punizioni

fisiche, finalizzate a correggere il corpo del bambino, considerato ri-

cettacolo del male, si sostituirono i castighi psicologici, spesso consi-

derati più umilianti, ma meno dolorosi e meno dannosi per un corretto

sviluppo fisico, e alle stecche e ai corsetti di legno e di ferro, che ve-

nivano fatti indossare ai bambini e alle bambine sin dalla più tenera

età con l‟unico scopo di educarne la postura, si cominciarono a prefe-

rire abiti morbidi e comodi. Più lenta l‟evoluzione che ha portato in

età moderna all‟abbandono delle fasce8, apparentemente legate al van-

6 P. ARIÈS, op. cit., p. 434.

7 Cfr. L. DEMAUSE, Storia dell‟infanzia (1975), Emme, Milano 1983.

8 Una maggiore riluttanza ad abbandonare l‟uso delle fasce si registrò, in particolare, nei

ceti più poveri, che evidentemente trovavano comodo questo modo di immobilizzare i bambi-

ni per compiere le faccende quotidiane senza doversi preoccupare eccessivamente di vegliare su di loro.

Tante infanzie, poche storie. Una lettura storiografica della prima età 25

taggio di conservare il calore naturale del neonato, di favorire un sano

sviluppo della sua colonna vertebrale o di proteggerne le membra fino

a quando avessero raggiunto una sufficiente maturazione, ma in realtà

connesse a superstizioni popolari che fin dai tempi più antichi vedeva-

no nei neonati creature demoniache che tormentavano giorno e notte

gli adulti con pianti e lamenti e che rischiavano, se l‟adulto non ne

immobilizzava i movimenti, di diventare loro stessi vittime della pro-

pria capacità autolesionista. A confermare tale visione negativa

dell‟infanzia tutta una serie di contromisure adottate, anche in età mo-

derna, per allontanare dal neonato l‟aura della morte e la piaga del ma-

locchio: dagli esorcismi, alle tecniche di purificazione, agli amuleti,

che venivano solitamente legati al collo dei bambini come protezione

contro gli spiriti malvagi e le forze del male9.

In questo stesso periodo cominciarono a diffondersi teorie sulle

norme igieniche e sugli accorgimenti psicologici da adottare nelle pra-

tiche di allevamento dei bambini, che non solo hanno anticipato di cir-

ca quattro secoli le teorie pedagogiche illuministiche, ma che addirit-

tura, secondo alcuni studiosi10, sembrano preferibili alle pratiche di al-

lattamento e svezzamento tipiche dell‟età moderna. I trattati medievali

abbondavano di consigli e suggerimenti sull‟uso del bagno, sulla tem-

peratura dell‟acqua, sulla qualità degli asciugamani, fornivano accura-

te e meticolose indicazioni sulla posizione da far assumere al neonato

nella culla e sulle caratteristiche della stanza da letto. Infine erano già

note alcune essenziali pratiche mediche sul parto, come la necessità

che avvenisse in una stanza buia e calda per agevolare psicologica-

mente e fisicamente il passaggio del neonato dall‟utero al mondo.

9 Per ulteriori approfondimenti su questo tema cfr. A. GIALLONGO, L‟avventura dello

sguardo. Educazione e comunicazione visiva nel Medioevo , Dedalo, Bari 1995. A proposito

della forza dello sguardo, risale all‟età medievale la superstizione popolare secondo cui una sola occhiata intenzionalmente malefica era capace di far ammalare un bambino, a causa della

sua fragilità e della sua debolezza innata. 10

Cfr., tra gli a ltri, H. CUNNINGHAM , Storia dell‟infanzia. XVI-XX secolo (1995), Il Mulino,

Bologna 1997; A. GIALLONGO, Il bambino medievale. Educazione ed infanzia nel Medioevo , Dedalo, Bari 1990.

Capitolo I 26

1.2. Infanzie invisibili

Il punto di partenza per un primo approfondimento sistematico del-

la storia dell‟infanzia è rappresentato dallo studio condotto da Egle

Becchi e Dominique Julia11.

In ogni società del passato il bambino ha sempre occupato una po-

sizione inferiore, poiché considerato un individuo meno importante e

meno rilevante, di cui si parla poco e di cui addirittura scompaiono le

tracce quando della stessa comunità di appartenenza si hanno notizie

meno certe e meno significative. E‟ questo il caso di alcuni popoli ar-

caici o, ancora, dei ceti meno abbienti, delle società contadine e prole-

tarie, che hanno sempre goduto di minori diritti e hanno sempre vissu-

to all‟ombra della storia ufficiale.

Fino all‟inizio dell‟età moderna, in particolare, il bambino e la

bambina non godevano di alcuna considerazione sociale e giuridica ed

erano gli adulti a decidere per loro e a pronunciarsi addirittura a favore

della loro esistenza, se considerata più o meno utile alla società. Peral-

tro ogni minima attenzione nei confronti dell‟infanzia cominciava a

maturare nell‟adulto solo dopo i cinque anni di vita del bambino, ov-

vero quando, dato l‟elevato livello di mortalità infantile, si poteva co-

minciare a sperare nella sua sopravvivenza.

Poche e quasi del tutto assenti le tracce di infanzia nelle società an-

tiche, dove il bambino e la bambina trascorrevano il proprio tempo in

casa, più raramente in luoghi adatti alla loro età e specificamente pre-

posti alla loro educazione, a stretto contatto con un mondo adulto cui

l‟età infantile finiva per assimilarsi.

Nella Grecia arcaica e classica, e in particolare a Sparta, era la leg-

ge a stabilire le unioni coniugali e a controllare le nascite, come pure

le gestanti, che venivano seguite e monitorate periodicamente dal go-

verno sia durante il periodo della gravidanza, per verificare che svol-

gessero l‟attività fisica raccomandata alla madre e considerata neces-

saria per la nascita di un bambino sano, sia dopo il parto, per control-

lare che il neonato fosse realmente forte e vigoroso. In caso contrario,

11

Cfr. E. BECCHI, D. JULIA (a cura di), Storia dell‟infanzia. Dall‟antichità al Seicento, La-

terza, Roma-Bari 1996; ID., Storia dell‟infanzia. Dal Settecento a oggi, Laterza, Roma-Bari 1996.

Tante infanzie, poche storie. Una lettura storiografica della prima età 27

infatti, il governo poteva deciderne l‟esposizione o, in casi estremi,

l‟infanticidio.

I bambini sopravvissuti venivano allattati in casa dalla madre e dal-

la nutrice fino all‟età di sette anni. Il compimento dei sette anni se-

gnava una fase di passaggio dall‟ambito privato a quello pubblico,

poiché a questa età il bambino entrava di diritto in un mondo adulto,

di cui seguiva attentamente rituali e cerimonie.

Non molto diversa la condizione dell‟infanzia ad Atene, dove era il

capofamiglia, generalmente il padre, ad accogliere il bambino e a ri-

conoscerne il diritto alla sopravvivenza e dove i bambini potevano es-

sere rifiutati in qualunque momento, perché deformi, perché frutto di

violenze sessuali o di relazioni illecite o, più semplicemente, perché

presagio di malasorte o addirittura di morte12. In quest‟ultimo caso

l‟infanticidio assumeva spesso la forma del sacrificio umano in onore

delle divinità.

Simile il destino che attendeva i bambini nella società romana, do-

ve il diritto non obbligava i genitori a tenere con sé i figli che avevano

generato, né impediva la vendita dei bambini, che spesso venivano uti-

lizzati per pagare i debiti, e dove la figura paterna, cui spettava un po-

tere incontrastato nell‟ambito della famiglia, continuava a conservare

ogni diritto di tutela – e di proprietà – nei confronti dei figli e dei suoi

discendenti. Proprio tale diritto gli concedeva la possibilità di «rifiuta-

re il neonato, farlo esporre, venderlo o cederlo in adozione»13 nonché

di accoglierlo e di impegnarsi ad allevarlo. Un rituale, quello

dell‟abbandono, che veniva deciso dal padre – il cui amore non è mai

stato elevato a legge universale della natura – e che veniva compiuto

nel più totale silenzio, senza bisogno di parlare, senza alcuna necessità

di giustificare la scelta, affidando semplicemente ad un gesto la sorte

del neonato:

12

La deformità è sempre stata una delle principali cause dell‟abbandono infantile. Nella maggior parte dei casi i bambini storpi, menomati e cerebrolesi venivano uccisi o esposti in

luoghi dove difficilmente avrebbero potuto salvarsi. Solo se autosufficienti e se la malforma-zione era particolarmente evidente, ma meno drammatica, i genitori decidevano di tenerli con

sé per venderli al momento opportuno a sfruttatori ambulanti che ne approfittavano per esporli in pubblico sulle strade o nei circhi.

13 E. BECCHI, L‟Antichità in E. BECCHI, D. JULIA (a cura di), Storia dell‟infanzia.

Dall‟antichità al Seicento, cit., p. 20.

Capitolo I 28

se il padre sceglieva, al momento della nascita, di sollevare il neonato posato per terra […] si impegnava ad allevarlo […]. Dunque il figlio diveniva ogget-to di cure premurose, il maschio perché assicurava la continuità del culto fa-

miliare, la femmina perché avrebbe permesso alleanze politiche o economi-che

14.

Raramente solo perché amati.

Il capofamiglia restava padrone assoluto della propria discendenza

anche dopo la morte e attraverso un testamento poteva anche decidere

di far esporre un figlio concepito poco prima di morire15.

Per gli stessi motivi accadeva frequentemente che le famiglie ro-

mane decidessero di procurarsi un figlio tra i bambini abbandonati,

anche se la legge lo vietava. Ricorda a tal proposito John Boswell16

che nell‟antica Roma, come in molte culture del Mediterraneo elleni-

stico, la procreazione e la perpetuazione della specie rappresentavano

l‟unico scopo del matrimonio e della vita familiare, per cui le coppie

senza figli ricorrevano spesso alla soluzione di adottare un trovatello e

di presentarlo alla società come figlio legittimo. Quest‟ultimo aspetto,

in particolare, testimonierebbe il valore che le società antiche conferi-

vano all‟infanzia, che non era considerata un‟età specifica del corso

della vita, ma semplicemente una fase di passaggio alla vita adulta. In-

tesa in tal senso, l‟infanzia costituiva un momento importante di un

lungo percorso educativo che doveva condurre il bambino a diventare

un buon cittadino.

Altrettanto tragica la condizione del bambino e della bambina nelle

antiche culture occidentali, quali l‟Egitto, la Mesopotamia e la Persia.

Per quanto in queste zone sembra non vi sia mai stata l‟abitudine di

14

J. P. NÉRAUDAU, Il bambino nella cultura romana in E. BECCHI, D. JULIA (a cura di), Storia dell‟infanzia. Dall‟antichità al Seicento , cit., p. 40.

15 Interessante, a tal proposito, la riflessione di Aline Rousselle, che ha analizzato il feno-

meno delle esposizioni infantili nell‟antica Roma. Pur non potendo attualmente stabilire la

frequenza con cui i bambini romani venivano abbandonati, ovvero l‟influenza di tale consue-tudine nella società, la studiosa suppone che il numero degli esposti doveva essere elevato se il diritto romano si preoccupò di regolamentare il fenomeno, probabilmente a causa della cele-

rità con cui tale abitudine si diffuse tra le diverse classi sociali. Su questo tema cfr. A. ROUSSELLE, La politica dei corpi. Tra procreazione e continenza a Roma in P. SCHMITT

PANTEL (a cura di), Storia delle donne. L‟Antichità (1991), Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 317-372.

16 Cfr. J. BOSWELL, L‟abbandono dei bambini in Europa occidentale (1988), Rizzoli, Mi-

lano 1991.

Tante infanzie, poche storie. Una lettura storiografica della prima età 29

esporre, abbandonare o vendere come schiavi i bambini, non sempre

veniva riservato loro un destino migliore e, anzi, erano comunque po-

chi quelli che riuscivano a sfuggire alla morte, che spesso era conside-

rata una salvezza per gli stessi bambini.

In uno studio recente sulla storia dell‟infanzia Buenaventura Del-

gado17 ricorda l‟abitudine delle madri egizie di lasciare che i cocco-

drilli divorassero i propri figli perché consideravano un beneficio im-

molare un neonato a un animale considerato un dio del male, che per

questo motivo andava onorato e assecondato, al fine di neutralizzarne

la tendenza malefica. Sacrifici simili venivano compiuti anche dai car-

taginesi, che bruciavano spesso i bambini e deponevano le ceneri da-

vanti alle porte della città, per evitare che fosse invasa dai nemici, o

dagli ebrei, che consideravano il sacrificio umano dei bambini un atto

carico di significato religioso, ovvero una manifestazione della sotto-

missione umana alla divinità.

Agli stessi bambini venivano conferiti poteri divini, che in alcune

circostanze li autorizzavano a occupare i posti più importanti nei ritua-

li religiosi. A questa divinazione del bambino, però, non sempre corri-

spondeva una reale valorizzazione della sua età e, anzi, Hugh Cunnin-

gham18 ha evidenziato che il parallelismo tra la prima età dell‟uomo e

la divinità non era quasi mai un segno di alta reputazione sociale

dell‟infanzia: i bambini venivano considerati più vicini al mondo divi-

no sia perché in quello umano non potevano che occupare una posi-

zione marginale, al pari delle donne e degli schiavi, sia perché era alta

la probabilità che morissero subito dopo la nascita, per cui si pensava

che fossero destinati più degli adulti ad abitare il mondo ultraterreno19.

Gli stessi riti di sepoltura, dice Cunningham, evidenziano una scar-

sa considerazione sociale dell‟infanzia, poiché si trattava di riti diffe-

17

Cfr. B. DELGADO, Storia dell‟infanzia (1998), Dedalo, Bari 2002. 18

Cfr. H. CUNNINGHAM , op. cit. 19

Gli studi di Rosella Frasca sullo stesso tema ricollegano, invece, il rapporto tra l‟infanzia e il sovrannaturale alla natura dell‟infans, che designa, appunto, un essere non anco-

ra in grado di parlare. In altri termini il bambino svolgerebbe la funzione di intermediario del volere degli dèi proprio in virtù della sua incapacità di esprimersi in modo razionale. «E infa t-

ti – afferma l‟autrice – la maniera più eloquente di parlare a nome e per conto degli dèi è farlo attraverso una sorta di “linguaggio non detto”, che è significante solo a patto che di esso sia

sovrana e partecipe la divinità». Cfr. R. FRASCA, Il lavoro «sacro» del «puer» romano , cit., p. 368.

Capitolo I 30

renti a seconda che a morire fosse un adulto o un bambino. Al bambi-

no, infatti, che non aveva un‟adeguata sepoltura, tanto che spesso si

preferiva seppellirlo all‟interno di un edificio, non veniva riservata ne-

anche una cerimonia di accompagnamento del feretro, che veniva sot-

terrato di nascosto, generalmente di notte.

Identica, in ogni epoca storica, la sorte che toccava alla bambina –

soprattutto se appartenente ai ceti aristocratici e borghesi – cui appa-

rentemente si riservava un‟infanzia più lunga rispetto a quella assicu-

rata al bambino, che in realtà si traduceva presto nella volontà di rele-

garla nel privato della domesticità, dove le veniva riservata una vita ai

margini della sfera pubblica e un destino ancora più privatizzato e più

segregato. Non poteva uscire di casa perché la morale le imponeva di

sottrarsi agli sguardi e di non avere relazioni al di fuori del ristretto

nucleo familiare, fino al momento del matrimonio, che avveniva mol-

to presto e che, però, non coglieva mai impreparata la bambina, che

anzi trascorreva tutta l‟infanzia a imparare le buone maniere per di-

ventare una buona amministratrice dell‟economia domestica nonché la

migliore moglie possibile di un uomo che non avrebbe mai conosciuto

se non al momento delle nozze.

Il matrimonio spesso segnava per lei l‟inizio di una nuova vita di

reclusione. Non più sottomessa alla patria potestà, la sua tutela passa-

va nelle mani del marito, che talvolta diventava per la bambina un se-

condo padre, vista anche l‟età minima fissata per contrarre matrimo-

nio, che nelle civiltà dell‟Impero romano non superava i dodici anni20.

20

Alcuni studi sulla figura della bambina nelle società antiche evidenziano una forte ten-denza ad accelerare il processo di crescita delle bambine per consentire loro un più rapido in-gresso nella vita adulta e una più immediata adesione al proprio ruolo, che nelle società di o-gni periodo storico ha sempre coinciso con la sfera riproduttiva. Jean Pierre Néraudau, a tal

proposito, ricorda l‟abitudine delle famiglie romane a utilizzare ogni metodo capace di antic i-

pare la comparsa delle mestruazioni. Per ulteriori approfondimenti cfr. J. P. NÉRAUDAU, op. cit. Sul rapporto tra brevità dell‟infanzia femminile e matrimonio si è soffermata anche Ange-la Giallongo, che ha messo spesso in evidenza la disapprovazione degli intellettuali del XIII

secolo nei confronti dei matrimoni combinati e soprattutto nei confronti della tendenza a fa r sposare i bambini prima dei vent‟anni. Paradossalmente, invece, non si contestava l‟abitudine

di far sposare le bambine a dodici anni, né quella più assurda di “maritarle nella culla”, pr o-babilmente per lo stesso motivo per cui la società medievale negava un ruolo sociale signifi-

cativo alla donna al di fuori della sfera riproduttiva. Su questo tema cfr. A. GIALLONGO, Il bambino medievale. Educazione ed infanzia nel Medioevo , cit.

Tante infanzie, poche storie. Una lettura storiografica della prima età 31

Lo stesso rituale del matrimonio, che avveniva ovunque più o meno

allo stesso modo e che rimase immutato almeno fino alla fine del Me-

dioevo, sembrava confermare un ruolo femminile fortemente sotto-

messo perché esclusivamente orientato in funzione di valori maschili e

di una strumentalizzazione pubblica di eventi che sarebbero dovuti r i-

entrare nelle esperienze più intime della vita di una coppia: «la con-

giunzione delle mani, il dono dell‟anello da parte dello sposo in cam-

bio della dote, l‟inginocchiamento della sposa di fronte al marito-

signore»21 erano l‟espressione più evidente del modo in cui la società

intendeva vincolare una donna a un uomo, che pur non essendo il pa-

dre, da quel momento in poi diventava il tutore dei suoi beni patrimo-

niali.

I segni di una prima attenzione nei confronti dell‟infanzia si mani-

festarono a partire dall‟età medievale quando, grazie anche

all‟influenza del cristianesimo, il compito di accudire ed educare i fi-

gli fu demandato alla famiglia – ovvero alle balie esterne – e alla

Chiesa.

La preoccupazione per la salvezza dell‟anima, che per certi versi

confermava l‟immagine negativa che ancora si aveva dell‟età infantile,

considerata sede del peccato originale e della corporeità non redenta,

indusse, in età cristiana, a riconoscere uno stato giuridico più elevato

anche all‟infanzia, tanto che non solo si provava un grande dolore per

i bambini che morivano, ma si giunse addirittura a considerare per la

prima volta omicidio l‟uccisione o, più semplicemente, l‟esposizione

di un bambino.

Fu in questo periodo che cominciarono a migliorare anche le sorti

dei bambini illegittimi, nei confronti dei quali il padre non aveva più

alcun diritto di morte, pur continuando a non avere alcun obbligo di

cura, che invece veniva richiesta alla madre e ai suoi parenti, laddove

avessero sufficienti mezzi economici per provvedere alla sussistenza

del neonato.

Per quanto spesso affidato alle cure di una balia più amorevole, più

preparata, maggiormente consapevole del suo ruolo di sostegno nel

processo di crescita infantile e accuratamente scelta tra le donne che

21

C. XODO CEGOLON, Lo specchio di Margherita. Per una storia dell‟educazione femmi-nile nel Basso Medioevo, Cleup, Padova 1988, p. 29.

Capitolo I 32

sembravano maggiormente in grado di svolgere un simile compito, il

bambino medievale non godeva ancora di quel sentimento che si tra-

durrà, in età moderna, nella consapevolezza delle specifiche caratteri-

stiche dell‟infanzia e dei suoi bisogni. La stessa relazione affettiva con

la madre era quasi del tutto priva di quel legame di attaccamento che

induce progressivamente il bambino a maturare la propria capacità di

autonomia rispetto alle principali figure di riferimento. Si trattava, in-

fatti, di un legame emotivo debole, che in alcuni casi si confondeva

con una profonda solitudine morale e affettiva, causata dalla brevità

dell‟età infantile e del tempo che il bambino e la bambina trascorreva-

no in famiglia.

Il ritorno a casa dopo l‟invio a balia era sempre temporaneo e coin-

cideva col tempo necessario a trovare loro una nuova sistemazione.

Durante la breve permanenza nella casa paterna i bambini, se apparte-

nenti ai ceti più nobili, venivano affidati a un precettore, che aveva il

compito di seguire la loro prima alfabetizzazione, mentre le bambine

continuavano a rimanere sotto il controllo della madre, della gover-

nante o della balia. In ogni caso di una figura femminile.

Raggiunta l‟età della maturazione, che anche nel Medioevo coinci-

deva col settimo anno di vita, i bambini venivano inviati presso

un‟altra famiglia dello stesso ceto per apprendere le buone maniere,

per acquisire i modi della vita adulta, per assimilare prematuramente

le norme che la regolavano e per imparare ad adeguarvisi. Abbastanza

comune era anche la scelta di consegnare i figli a un monastero, so-

prattutto se sopraggiungevano problemi connessi alla divisione del pa-

trimonio tra discendenti numerosi.

L‟uscita da casa propria e l‟ingresso in casa altrui venivano vissuti

come un passaggio di iniziazione alla vita adulta, tanto che spesso

l‟apprendistato era contrassegnato da rituali e cerimoniali che segna-

vano l‟accesso del bambino nella società. Proprio tale consuetudine,

che induceva i genitori ad affidare i figli ad altre famiglie, che li im-

piegavano di solito come apprendisti e che si occupavano della loro

educazione come avrebbero potuto fare loro, è invece indicativo, se-

condo alcuni studiosi22, dell‟atteggiamento di indifferenza su cui an-

cora si reggeva il rapporto genitori-figli, che induceva le famiglie ad

22

Cfr., tra gli altri, E. BADINTER, op. cit.

Tante infanzie, poche storie. Una lettura storiografica della prima età 33

occuparsi dei figli degli altri, ma non dei propri, probabilmente perché

era più facile comportarsi nei loro confronti come “buoni padroni”

piuttosto che come “buoni genitori”.

Il monastero era, invece, la destinazione più naturale per i figli del-

le famiglie sociali meno abbienti, che non potevano occuparsi di loro e

che preferivano affidarne le cure ai monaci.

Tra i ceti poveri vi era anche l‟abitudine di affidare i figli alle fa-

miglie contadine e artigiane, che avevano il compito di insegnare loro

un mestiere. In questo caso l‟apprendistato veniva regolamentato me-

diante accordi precisi, con cui le famiglie d‟origine si assicuravano

che ai bambini venissero garantiti soprattutto vitto, alloggio e vestia-

rio. Quel poco che spesso bastava a farli sopravvivere, ma che le loro

famiglie non erano in grado di fornire.

Le bambine, soprattutto se appartenenti ai ceti più nobili, general-

mente trascorrevano più tempo in casa e giunte all‟età della maturità

venivano affidate alla famiglia del futuro sposo, dove le donne adulte

si prendevano cura di loro e della loro educazione di prossime mogli e

future madri.

In alcuni casi i genitori decidevano per la monacazione forzata, che

sembrava meglio rispondere a quella pedagogia del controllo e della

privatizzazione che caratterizzava in questo periodo i modelli educati-

vi e che fondava sulla disciplina e sulla custodia delle bambine e della

loro sessualità il suo fondamentale principio ispiratore. La scelta del

convento rispondeva alla volontà dei genitori di conservare le bambi-

ne, frequentemente considerate un «pegno di interessi politici ed eco-

nomici»23, al riparo da ogni attentato alla loro virtù e al decoro della

loro famiglia e di educarle a salvaguardare la propria verginità.

Una formazione classista, quella riservata alle bambine, che certa-

mente non è andata a favore del genere femminile se si pensa che pro-

prio a partire dal XII secolo, per usare un‟espressione di Paulette

L‟Hermite Leclercq, si è consumato quel divorzio tra i sessi che dura

da quasi un millennio: «mentre gli uomini scoprono con meraviglia

che il mondo è tutto da esplorare, che di fronte a loro si apre un vasto

23

C. OPITZ, La vita quotidiana delle donne nel tardo Medioevo (1250-1500) in C.

KLAPISCH ZUBER (a cura di), Storia delle donne. Il Medioevo (1991), Laterza, Roma-Bari 2005, p. 339.

Capitolo I 34

orizzonte di nozioni da apprendere, di avventure da vivere, di espe-

rienze da accumulare, la donna resta relegata nelle sue funzioni tradi-

zionali, al servizio della specie e di Dio»24.

In questo mondo privatizzato sembra non comparire affatto la

bambina del popolo, «non perché sia risparmiata dal lavoro, ma per-

ché il lavoro domestico sembra tanto naturalmente iscritto nella sua

crescita e nella sua storia sociale e educativa che non occorre parlar-

ne»25.

1.3. Dalle infanzie invisibili alle infanzie reali

Un‟assidua presenza dei bambini in famiglia cominciò a registrarsi

a partire dall‟età moderna, dove le regole e i doveri continuarono ad

accompagnare il processo di crescita dell‟infanzia, scandito da fasi

precise che segnavano il suo progressivo passaggio all‟adultità, ma

dove è altrettanto evidente l‟attenzione che ad essa veniva continua-

mente riservata e che pian piano cominciò a diffondersi anche presso i

ceti meno abbienti.

«C‟è, in questa promiscuità di grandi e piccoli, uno sguardo nuovo

sul bambino, che se anche nella quotidianità, specie in quella lavorati-

va dei ceti meno abbienti, condivide le fatiche e le durezze del lavoro

adulto, sembra pur sempre oggetto di ascolto, destinatario di gesti af-

fettuosi»26, che appaiono il segno ineludibile di un maggiore coinvol-

gimento emotivo e di un più maturo legame affettivo dei genitori nei

confronti del figlio, di un‟atmosfera domestica nuova, più intima e più

familiare, e di condizioni di vita meno precarie.

In questo periodo si diffusero pure i primi testi pedagogici sui me-

todi educativi per l‟infanzia e i primi trattati di pediatria e puericul tu-

ra, che contenevano consigli medici importanti sulla cura dei neonati.

Teorie riservate soprattutto alle madri, che cominciarono a diventare il

perno educativo principale nell‟ambito familiare. I testi, infatti, insi-

24

P. L‟HERMITE LECLERCQ, Le donne nell‟ordine feudale (XI-XII secolo) in C. KLAPISCH

ZUBER, op. cit., pp. 251-309. 25

E. BECCHI, Il Medioevo in E. BECCHI, D. JULIA (a cura di), Storia dell‟infanzia. Dall‟antichità al Seicento, cit., p. 82.

26 E. BECCHI, Umanesimo e Rinascimento in E. BECCHI, D. JULIA (a cura di), Storia

dell‟infanzia. Dall‟antichità al Seicento, cit., p. 120.

Tante infanzie, poche storie. Una lettura storiografica della prima età 35

stevano sulla necessità di allevare personalmente i propri figli in virtù

dei fortissimi legami che si creano tra madre e figlio durante

l‟allattamento. Nessuna funzione materna andava affidata alle nutrici,

a meno che non fosse assolutamente necessario farlo, ovvero solo nei

casi in cui la madre non avesse potuto adempiere al suo ruolo. In altri

termini alle madri veniva conferita la responsabilità primaria del pro-

cesso di allevamento e di crescita del bambino e della bambina, alme-

no fino al compimento del settimo anno di età, periodo in cui tale re-

sponsabilità passava al padre, che doveva occuparsi della loro educa-

zione. Nel caso della bambina l‟educazione continuava a ruotare at-

torno alle due virtù femminili fondamentali dell‟umiltà e

dell‟obbedienza.

Soprattutto se appartenente ai ceti più nobili il bambino trascorreva

la maggior parte del suo tempo in famiglia, dove non era più una figu-

ra precaria e poco degna di attenzioni, ma finiva col diventare il prin-

cipale oggetto di cure da parte degli adulti: prima della balia, che ge-

neralmente viveva in famiglia e che gli riservava le sue premurose at-

tenzioni, poi nuovamente dei genitori, che si occupavano della sua

crescita e si preoccupavano della sua educazione, affidata dopo i sette

anni al collegio.

Nell‟età moderna il bambino cessava di essere

il «piccolo uomo» oppure il piccolo «demonio» (cari alla tradizione antica e cristiana), una presenza troppo diffusa e al tempo stesso marginale all‟interno del mondo sociale adulto […], un non-valore, spesso una figura passeggera

(anche per l‟alta mortalità infantile) e quasi sempre un ingombro (di cui ci si liberava consegnandolo ad altri, servi o «maestri» che fossero, e maestri di bottega – o di casa – piuttosto che di scuola), come si delineava all‟interno del «mondo tradizionale», per assumere un volto di innocenza, un valore af-fettivo e un posto di rilievo […] nella famiglia e da lì nella società

27.

Forse anche perché, come suggerisce Hugh Cunningham28, veniva

finalmente a mancare l‟interesse dei genitori per il valore economico

dell‟infanzia, ovvero il bisogno che i genitori avevano del lavoro dei

bambini, che in qualche modo interferiva con le emozioni e con la ca-

27

F. CAMBI, S. ULIVIERI, Storia dell‟infanzia nell‟Italia liberale, La Nuova Italia, Firenze

1988, p. 11. 28

Cfr. H. CUNNINGHAM , op. cit.

Capitolo I 36

pacità di amare i figli in modo incondizionato, poiché conferiva ai le-

gami familiari una connotazione più strumentale che affettiva. Non

che in passato i bambini fossero stati apprezzati solo per il contributo

che potevano portare all‟economia familiare; piuttosto – precisa Cun-

ningham

tale contributo era stato ritenuto la regola. Una volta scomparso questo dalla scena, i genitori furono costretti ad adattarsi ad una nuova concezione del bambino. La loro risposta consistette nel fare meno figli e nello stesso tempo

nell‟attribuire più valore al bambino come individuo, dando rilievo all‟aspetto emotivo piuttosto che ad una combinazione raramente analizzata di ragioni emotive ed economiche

29.

Meno privilegiata l‟infanzia dei bambini più poveri, che spesso le

famiglie non erano in grado di crescere e che, quando non finivano in

luoghi poco protetti e con adulti poco capaci di proteggerli, venivano

collocati presso botteghe come garzoni e prematuramente immersi in

una cultura del saper fare che certamente non li alfabetizzava, anche

se assicurava loro l‟acquisizione di apprendimenti tecnici che da adulti

avrebbero potuto utilizzare per procacciarsi da vivere in modo onesto.

In ogni caso si trattava di un duplice sfruttamento, legato all‟età e

alla condizione sociale, nonché di una forma di adultizzazione precoce

e di innaturalità delle condizioni di vita, che costringevano il bambino

delle classi subalterne a crescere all‟interno di un mondo adulto con

cui si confondeva. Un mondo che raramente gli riconosceva diritti au-

tonomi e bisogni specifici e che più facilmente lo deprivava di ogni

potenziale stimolo allo sviluppo e lo sottoponeva alle regole dure ed

estenuanti di un lavoro malpagato e massacrante, che quando non era

al limite dell‟abusività, esponeva comunque il bambino a ogni forma

di pericolosità e repressione.

Ancor più sfortunata la fascia di bambini costretta a svolgere lavori

umili e poco adatti all‟età infantile, perché fisicamente alienanti ed

emotivamente avvilenti. E‟ il caso dei pastori, dei contadini e dei do-

mestici. Professione, quest‟ultima, che vedeva più spesso impiegate le

bambine, per la loro naturale propensione a svolgere attività “donne-

sche”.

29

Ivi, p. 215.

Tante infanzie, poche storie. Una lettura storiografica della prima età 37

E‟ a tutti nota la frequenza con cui, a partire dal Quattrocento, le

bambine dei ceti meno abbienti venivano inviate a svolgere il lavoro

di domestica presso le famiglie aristocratiche in cambio di pratiche di

allevamento e di istruzione al comportamento. In questi casi, in parti-

colare per le bambine delle classi sociali più povere, non si trattava di

una permanenza finalizzata ad apprendere le buone maniere, ma di un

vero e proprio lavoro servile che, nella migliore delle ipotesi, poteva

essere utile alle bambine solo per assicurarsi una dote.

Una storia a sé è poi quella dell‟infanzia che abitava le strade, sem-

pre più frequente in questo periodo e per tutta l‟età moderna, in cui si

assiste per la prima volta a prolungate crisi economiche e a frequenti

carestie ed epidemie che rendevano sempre più difficile la sopravvi-

venza soprattutto tra i ceti sociali più poveri.

A pagare per primi le conseguenze di una cattiva igiene e di una

scarsa alimentazione erano di solito i bambini, più deboli e meno ca-

paci di far fronte a lunghi periodi di denutrizione. Spesso soli per la

morte dei genitori, frequentemente abbandonati nella speranza che il

destino potesse risparmiarli alla morte, molti di questi bambini si ri-

versavano per le strade, dove vivevano vagabondando, chiedendo

l‟elemosina ai passanti o rubando. Un triste destino che richiamava la

nuova concezione che la società moderna aveva dei trovatelli, malvi-

sti, ritenuti economicamente inutili e considerati l‟espressione più evi-

dente del male, che proprio per questo motivo andava emarginato in

appositi luoghi di reclusione dove i bambini potessero espiare le colpe

di chi, pur non volendoli, li aveva messi al mondo.

La situazione sembrò nuovamente migliorare alla fine del XVIII se-

colo, che registrò una progressiva attenzione nei confronti

dell‟infanzia abbandonata, che però rimase ancora a lungo circoscritta

nell‟ambito dell‟istituzionalizzazione.

Le prime teorie che andarono realmente a salvaguardare l‟infanzia

fecero la loro comparsa solo all‟inizio del XIX secolo, nonostante gli

sviluppi di un nuovo interesse nei confronti del bambino e della bam-

bina vadano rintracciati in seguito, in concomitanza con la diffusione

di nuove scoperte in ambito medico e sanitario. Si comprese allora che

per ridurre l‟elevata mortalità infantile era necessario educare le ma-

dri, cui occorreva insegnare una serie di precauzioni profilattiche per

le malattie contagiose. Ma si comprese anche che il valore della vita

Capitolo I 38

umana andava al di là di ogni tentativo di controllo della salute pub-

blica e che l‟infanzia, in particolare, aveva il diritto di beneficiare di

una specifica tutela e di godere di un sostegno sociale adeguato alla

sua età, tale da proteggerla contro ogni forma di sfruttamento e da far-

la crescere in modo sano ed equilibrato.

2. L’infanzia tra violenza e alienazione

2.1. Il bambino sfruttato

Una specifica attenzione alla storia dell‟infanzia come storia di a-

lienazione è quella che emerge dagli studi e dalle ricerche condotte da

Dina Bertoni Jovine30, da cui affiora, in modo particolare, la storia

dell‟infanzia dei ceti subalterni, da lei letta e interpretata secondo il

paradigma della violenza sociale e di classe, del lavoro e dello sfrut-

tamento, delle carenze alimentari e delle malattie endemiche,

dell‟abbandono e dell‟elevato tasso di mortalità, della condizione di

inferiorità e del dominio da parte degli adulti.

Un‟esistenza «senza infanzia» – come la definiranno più tardi Franco Cambi e Simonetta Ulivieri – senza cure e protezione, non sorvegliata e guidata, ma sfruttata brutalmente, sottoposta al regime della necessità e

dell‟emarginazione. […] una vita infantile de-familiarizzata e adultizzata, che vive immersa in una cultura doppiamente subalterna, marginale e frantumata insieme, senza tradizioni proprie e autentiche […], oscillante tra una prema-tura etica del lavoro e la condizione della devianza

31.

Nelle forme di maltrattamento a lungo perpetuate nei confronti

dell‟infanzia emarginata la studiosa ha letto, infatti, un tentativo sub-

dolo della società di promuovere un‟inclusione sociale che si è imme-

diatamente tradotta nello sfruttamento delle classi più povere, che di-

vennero presto le prime vittime di quel progresso industriale e di quel-

lo sviluppo economico che avrebbe dovuto salvarle dalla povertà e

30

Cfr. D. BERTONI JOVINE, L‟alienazione dell‟infanzia. Il lavoro minorile nella società

moderna, Editori Riuniti, Roma 1963. 31

F. CAMBI, S. ULIVIERI, Storia dell‟infanzia nell‟Italia liberale, cit., p. 39.

Tante infanzie, poche storie. Una lettura storiografica della prima età 39

dall‟indigenza. Famiglie numerose che non potevano allevare i propri

figli si videro spesso costrette ad avviarli al vagabondaggio in cambio

di misere ricompense di denaro e con la speranza di affidarli a un de-

stino migliore; genitori poveri che non potevano crescerli li cedevano

volentieri alle fabbriche e alle industrie, che avviarono presto uno

sfruttamento del lavoro minorile a basso costo; madri sole e a loro vol-

ta vittime della mendicità non esitavano ad abbandonarli alla ruota e

agli ospizi, che contribuirono in modo notevole al rifornimento di ma-

nodopera infantile.

Un contributo storiografico significativo, quello di Bertoni Jovine,

che denuncia l‟elevato numero di bambini costretti ad abbandonare la

scuola perché ingaggiati come pastori e operai sin dalla più tenera età

o di quelli oppressi e sfruttati dalle famiglie affidatarie,

nell‟apprendistato agricolo e artigianale, e poi brutalmente venduti sul

territorio nazionale e all‟estero come suonatori e danzatori itineranti,

cantastorie ambulanti, giocolieri e saltimbanchi a gruppi di mendicanti

o a delinquenti senza scrupoli che facevano della loro innocenza uno

strumento della criminalità adulta. Basti pensare che dietro queste

forme di accattonaggio si nascondevano spesso l‟avviamento alla pro-

stituzione e al furto.

La tratta dei bambini, la loro vendita in territori stranieri e la loro

riduzione in condizione di schiavitù, fenomeni da sempre esistiti e

connotativi soprattutto dell‟infanzia povera, cominciarono ad essere

considerati, nella seconda metà dell‟Ottocento, tra le principali cause

della degenerazione sociale e tra le maggiori conseguenze dello stato

di estrema arretratezza in cui viveva la maggior parte delle famiglie i-

taliane, tanto da indurre il governo, nel 1868, ad affrontare per la pri-

ma volta il problema, che fu immediatamente considerato l‟aspetto più

doloroso del fenomeno migratorio.

Qualcuno di recente ha detto che la povertà inaridisce i sentimenti e

che la miseria accumulata per molte generazioni abbruttisce e distrug-

ge i legami di famiglia32 e forse non sbaglia se si pensa che erano pro-

prio i genitori più miserabili e più colpiti dalla carestia a vendere i

propri figli nella speranza di migliorare soprattutto le loro condizioni

32

G. DI BELLO, V. NUTI, Soli per il mondo. Bambine e bambini emigranti tra Otto e No-vecento, Unicopli, Milano 2001.

Capitolo I 40

di vita. Ed effettivamente i problemi di sopravvivenza hanno sempre

esercitato un peso notevole sui costumi sociali e hanno sempre regola-

to i rapporti familiari e gli atteggiamenti di violenza dei genitori nei

confronti dei figli.

Spesso i bambini vagabondi venivano sottoposti ad atrocità estre-

me: frequentemente malmenati e violentati, erano quasi sempre co-

stretti a mendicare e a commettere reati per sopravvivere. Tra i padro-

ni era abbastanza comune anche l‟abitudine di mutilare i bambini che

venivano loro affidati perché potessero suscitare maggiore pietà nei

passanti.

In alcuni casi, anche se più raramente, i minori venivano ceduti o

affidati agli ambulanti con contratti regolari di apprendistato, che pre-

vedevano che gli ambulanti diventassero i loro padroni a patto di inse-

gnare loro un mestiere. La figura del suonatore itinerante, come pure

quella del venditore girovago, fu però tra le prime ad essere assimilata

alla categoria dei vagabondi e degli emarginati, tanto che, a partire dal

XIX secolo, i bambini che venivano ingaggiati in queste professioni e-

rano considerati mendicanti piuttosto che apprendisti.

Lo sviluppo di questo triste mercato clandestino si diffuse soprat-

tutto nell‟Italia meridionale, con una particolare concentrazione nelle

province napoletane, lucane e calabresi, che sono sempre state le aree

geografiche più povere del paese. Il Nord, invece, cominciò a registra-

re nello stesso periodo la più alta percentuale di bambini occupati

nell‟industria, con una forte concentrazione nel settore tessile e al i-

mentare.

Identiche storie di sopruso, tanto nel Meridione quanto nel Setten-

trione, dove si era ugualmente diffusa, presso le famiglie povere e for-

temente condizionate da una pesante arretratezza economica, la men-

talità secondo cui in certe condizioni diventava quasi doveroso consi-

derare i figli una proprietà dei genitori, che non solo potevano decide-

re se educarli o non educarli, ma che addirittura potevano scegliere di

cederli, abbandonarli, avviarli al lavoro precoce o venderli a sfruttatori

che a loro volta avrebbero potuto vantare ogni forma di diritto nei loro

confronti.

Questa tragica realtà ha contribuito a creare e a tramandare nei se-

coli un‟immagine di infanzia breve e precocemente matura, perché

prematuramente inserita nel mondo adulto e costretta ad abbandonare

Tante infanzie, poche storie. Una lettura storiografica della prima età 41

prima del tempo la sua età per diventare grande prima possibile. Basti

pensare, a tal proposito, che la prima normativa italiana sulla tutela del

lavoro minorile, emanata nel 1886, fissava a nove anni – e a dieci per i

lavori nelle cave e nelle miniere – il minimo di età consentita per

l‟impiego di bambini nel lavoro agricolo e industriale, che non poteva

superare le otto ore giornaliere per quelli al di sotto dei dodici anni. In

altri termini la legge vietava l‟utilizzo di minori al di sotto dei nove

anni, come se l‟età adulta cominciasse, paradossalmente, a quell‟età.

Ben poco cambiò con le leggi successive, emanate rispettivamente nel

1899, nel 1902 e nel 1907. In particolare la legge del 1902, che rego-

lamentava anche il lavoro delle donne, elevò il limite di età a dodici

anni per la maggior parte dei lavori, a tredici per quelli sotterranei e a

quindici per i lavori industriali considerati pericolosi e per quelli not-

turni, vietò alle donne e ai minori il lavoro nelle miniere e limitò

l‟orario giornaliero a dodici ore per le donne e a undici per i bambini.

La situazione restò invariata anche dopo l‟emanazione, nel 1904,

della legge relativa agli infortuni sul lavoro. Una legge che non fu ca-

pace di debellare il lavoro minorile, ma che non riuscì neppure a vieta-

re l‟impiego di manodopera infantile in lavori particolarmente perico-

losi e faticosi.

Va inoltre evidenziato che, pur sancendo l‟obbligo di frequenza

scolastica, che veniva fissata a due ore giornaliere per i bambini di

ogni età, nessuna delle normative riuscì a combattere l‟analfabetismo

infantile, che all‟epoca era certamente una delle conseguenze meno

terribili causate dalla massiccia industrializzazione, se si considera che

danni realmente disastrosi e irreparabili erano l‟elevato tasso di morta-

lità causato dal degrado e dalla miseria dei ceti poveri nonché dalle

innumerevoli malattie da lavoro contratte in età puerile. Tra queste le

affezioni polmonari e cardiache, quelle intestinali e le infezioni della

pelle, oltre al rachitismo, che rappresentava la principale conseguenza

di un eccessivo carico di lavoro, soprattutto fisico.

Altrettanto inefficace la legge sulla proibizione dell‟impiego di

bambini in professioni girovaghe, ovvero sullo stato di indigenza, ab-

bandono e accattonaggio dell‟infanzia, che fu emanata nel 1873 con lo

scopo di limitare la volontà decisionale che l‟istituto della patria pote-

stà concedeva ai genitori nei confronti dei figli e che spesso si tradu-

ceva in comportamenti del tutto abusivi nei loro confronti. A nulla

Capitolo I 42

valsero i divieti previsti per legge, che consideravano chiaramente al-

cuni contratti di apprendistato, e in particolare quelli di compravendita

tra genitori e incettatori, un crimine da punire con l‟ammonizione o

col carcere dei genitori o dei tutori, come previsto dal codice penale, o

con la perdita della patria potestà, come indicato nel codice civile e ri-

badito anche nella stessa legge33. Colpevoli di reato, dunque, tanto i

genitori, che abusavano dell‟autorità paterna, quanto gli incettatori,

che usufruivano in modo illecito del lavoro infantile. Ferma restando

l‟accusa di vagabondaggio ozioso nei confronti degli stessi bambini,

che veniva solitamente punita con il ricovero nelle case di lavoro per

apprendere un mestiere34.

Quest‟ultimo aspetto, in particolare, evidenzia la reale preoccupa-

zione dei governi nei confronti dell‟infanzia abbandonata, che in un

certo senso prescindeva da motivazioni di carattere esclusivamente as-

sistenzialistico e che mirava, invece, a rimuovere il rischio che il mi-

nore sfruttato potesse in seguito diventare un delinquente o addirittura

un anarchico. Scriveva, a tal proposito, Pasquale Villari35 che il danno

cui erano sottoposti i bambini brutalmente sfruttati in lavori poco adat-

ti all‟infanzia non era solo fisico ma anche, e soprattutto, morale: la

mancanza di cure familiari e di una solida rete affettiva, accanto al to-

tale analfabetismo o alla carenza di istruzione, rischiava di trasformare

i bambini innocenti in adulti sovversivi e inclini a comportamenti anti-

sociali.

Questa l‟unica preoccupazione della classe politica ottocentesca,

che prescindeva assolutamente da un reale interesse nei confronti

33

Su questo aspetto Giulia Di Bello e Vanna Nuti hanno recentemente evidenziato i limiti di una normativa che, pur condannando la tratta dei bamb ini in Italia e all‟estero, non vietava alle famiglie l‟impiego dei propri figli in attività girovaghe, che nella seconda metà dell‟Ottocento erano ormai considerate immorali e disoneste. In altri termini sotto accusa non

era il vagabondaggio, fenomeno a dir poco gravissimo, ma più semplicemente l‟affidamento

ad altri di minori. Un limite simile va rintracciato nella stessa definizione di “sfruttamento del lavoro minorile” contenuta nella legge, nella quale non sembrano essere contemplati alcuni mestieri, tra cui quello dello spazzacamino, che pure utilizzavano manodopera infantile. Tale

esclusione confermerebbe la volontà del governo di vietare solo i mestieri considerati marg i-nali e ritenuti fonte di disordine sociale e non quella, più ovvia, di arginare il fenomeno del

lavoro minorile, che stava ormai diventando la più grande piaga sociale del XIX secolo. Per ul-teriori approfondimenti su questo tema cfr. G. DI BELLO, V. NUTI, op. cit.

34 Ivi.

35 Cfr. P. VILLARI, Scritti sulla questione sociale in Italia, Sansoni, Firenze 1902.

Tante infanzie, poche storie. Una lettura storiografica della prima età 43

dell‟infanzia e da una reale attenzione a limitare i casi di sfruttamento

e di violenza nei suoi confronti. Lo dimostra l‟indifferenza con cui fu-

rono accolti altri progetti di legge sull‟infanzia abbandonata, presenta-

ti nella seconda metà dell‟Ottocento, ma mai approvati dal governo.

Tra questi, il progetto di legge sul mantenimento dei bambini illegi t-

timi, del 1877, che proponeva la costituzione di un Consiglio di Bene-

ficenza per controllare soprattutto il rispetto dell‟obbligo di istruzione

da parte dei bambini ospiti degli istituti o affidati alle famiglie tenuta-

rie; il progetto di legge sull‟infanzia abbandonata e maltrattata, del

1892, con cui si invitava il paese a istituire, in ogni comune, una

commissione protettrice dell‟infanzia povera, che avrebbe dovuto ga-

rantire i suoi diritti e rispondere con ogni tipo di sostegno alle esigen-

ze dei bambini atrocemente sfruttati; il progetto di legge sulla prote-

zione dei neonati e dei bambini abbandonati, del 1893, che pure pro-

poneva l‟istituzione di una commissione protettrice dell‟infanzia, che

avrebbe dovuto controllare le condizioni igieniche in cui vivevano gli

esposti affidati alle famiglie tenutarie; il progetto di legge

sull‟ordinamento del servizio di assistenza degli esposti, del 1900, che

definiva meglio i doveri delle famiglie tenutarie nei confronti dei

bambini loro affidati e della loro educazione e istruzione 36.

Particolarmente precarie le condizioni dei bambini nell‟Italia meri-

dionale, come testimoniano numerose cronache di violenza riportate

in studi autorevoli di storia dell‟infanzia37. Seppur fortemente arretrato

dal punto di vista industriale, il Meridione non risparmiava ai bambini

le sofferenze di un processo di alienazione che non derivava tanto dal-

lo sfruttamento della manodopera infantile, come avveniva nelle fab-

briche, quanto dai pericoli connessi al lavoro dei campi e allo stato di

miseria in cui vivevano le famiglie contadine. L‟alimentazione insuf-

ficiente, l‟insalubrità delle abitazioni, l‟eccesso di fatica influivano pe-

santemente sull‟età infantile e sul processo di crescita dei bambini del

Sud, che la vita dei campi, apparentemente serena, non risparmiava al-

36

Per ulteriori approfondimenti sul contenuto dei progetti di legge citati cfr. G. DI BELLO,

Educazione e istruzione del bambino degli Istituti nell‟Ottocento in M. FERRARI (a cura di), I bambini di una volta. Problemi di metodo. Studi per Egle Becchi, Franco Angeli, Milano

2006, pp. 175-186. 37

Cfr., in particolare, F. CAMBI, S. ULIVIERI, Storia dell‟infanzia nell‟Italia liberale, cit.

Capitolo I 44

la morte, causata prevalentemente dal dilagare di malattie ed epidemie

oltre che dai sacrifici umani estenuati cui erano sottoposti.

Verso i sette anni venivano utilizzati abitualmente nel lavoro agri-

colo e pastorizio da agricoltori che raramente erano i loro genitori e

che si assicuravano forza lavoro non retribuita in cambio delle piccole

spese per il mantenimento, che nella maggior parte dei casi consisteva

«in una alimentazione severamente dosata, in un pagliaio in cui dor-

mire e in un abito frusto con cui coprirsi»38.

Operai, minatori, artigiani, garzoni, contadini, pastorelli, servetti,

venditori ambulanti, erano tutti indistintamente sottoposti agli stessi

malsani trattamenti e allo stesso destino di iponutrizione, mancanza di

igiene e affaticamento eccessivo, che non di rado ne causava la morte.

Le maggiori vittime di questo sfruttamento erano, di solito, i trova-

telli. Oppressi e spesso costretti a pagare con la vita lo stato di schiavi-

tù cui erano sottoposti nelle campagne, nelle fabbriche e nelle miniere,

talvolta riuscivano a fuggire a queste condizioni di asservimento, ma

nella maggior parte dei casi ad accoglierli vi era solo la strada, cui fi-

nivano per chiedere l‟elemosina o per rubare e guadagnarsi da vivere

in modo illecito. E quando riuscivano a salvarsi dalla vita di strada era

solo perché qualcuno li catturava per condurli in prigione o in istituti

per bambini traviati.

Questa la storia di innumerevoli bimbi […] cui la pietà caritatevole e la vo-lontà di limitare i rischi sociali definisce un destino non sempre facile e so-prattutto un disciplinamento precoce e assai duro. Emigrazione, ma anche

prigione come castigo per sregolatezza, delinquenza, asocialità che hanno nelle vie, specie in quelle delle grandi città, il loro circuito elettivo

39

e che sempre più insistentemente cominciano a richiedere nel XIX

secolo un intervento più propriamente assistenziale, capace di farsi ca-

rico dell‟infanzia povera e miserabile non più esclusivamente sotto-

forma di comportamenti repressivi e punitivi, ma anche sottoforma di

sostegno e rieducazione.

38

D. BERTONI JOVINE, op. cit., p. 125. 39

E. BECCHI, L‟Ottocento in E. BECCHI, D. JULIA (a cura di), Storia dell‟infanzia. Dal Set-tecento a oggi, cit., pp. 192-193.