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Storia e storie

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P RESENTAZIONE 12 M ARIELLA D I M AIO 13 Presentazione 14 M ARIELLA D I M AIO 15 Presentazione 16 M ARIELLA D I M AIO 17 Presentazione 18 M ARIELLA D I M AIO Chevaliers, votre salut est désormais assuré Quand Dieu s’est plaint à vous Des Turcs et des Almoravides Qui l’ont si honteusement traité!

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PRESENTAZIONE

Le domande, le questioni sollevate dal titolo della “Gior-nata di studio”: Storia e storie, i cui contributi sono raccolti in questo volume, possono essere declinate da molteplici angolazioni e attraverso approcci molteplici. Ma che si tratti del cosiddetto romanzo storico o di altri generi, come l’epopea, la cronaca, la relazione di viaggio, le memorie e via dicendo, il punto centrale rimane la rappresentazione della Storia in generi altri che la storiografia, o almeno quella che si definisce tale. L’ampio spettro, cronologico e tematico, degli interventi (dal Medioevo al novecento) dà conto della varietà e della problematicità dell’argomento, senza volere in alcun modo esaurirlo. Per parte mia, vorrei limitarmi a proporre alla riflessione e alla discussione alcu-ne considerazioni preliminari in un certo senso ineludibili. Lo faccio riferendomi ad alcuni scritti brevi, ma che consi-dero fondamentali punti di riferimento. Sono testi decisa-mente lontani nel tempo (degli anni cinquanta e della metà degli anni sessanta), ormai dei ‘classici’, ma sui quali non sarà inutile ritornare. Mi riferisco ad alcuni grandi articoli di Émile Benveniste (poi raccolti nei Problèmes de linguisti-que générale1) e a due brevi saggi di Roland Barthes, del 1967 e del 1968, ristampati nel postumo Le bruissement de la langue (1984).

I saggi di Barthes: Le discours de l’histoire e L’effet de réel2 – sin troppo noto il secondo, molto meno letto il primo – so-no intrinsecamente legati alle ricerche di Benveniste (molto

1 É. BENVENISTE, Problèmes de linguistique générale, 2 voll., Paris, Galli-

mard, 1966 e 1974. 2 R. BARTHES, Le bruissement de la langue, Essais critiques IV, Paris, Seuil,

1984, pp. 163-177 e pp. 179-187.

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di più, a mio avviso, che a quelle di Jakobson). Benveniste era il linguista che Barthes amava di più, di cui apprezzava soprattutto la ‘scoperta’ per lui fondatrice della linguistica moderna: la linguistica dell’enunciazione, dell’atto di paro-la, del linguaggio in atto. Sono le elaborazioni di Barthes, in effetti, che ci consentono, al di fuori di ogni approccio troppo ‘tecnico’ che non sarebbe consono a questo incon-tro, di riproporre come preambolo a ogni esempio di rap-presentazione della Storia (o di storie) gli studi sulla Struc-ture des relations de personne dans le verbe oppure Les relations de temps dans le verbe français, dove venivano affrontate delle tematiche che ci interessano direttamente, come la ‘dispari-tà’ tra la prima e la seconda persona (io/tu) e la terza (e-gli/il/ille), la non-persona, colui di cui si parla. Qualsiasi racconto (di Storie o di storie) si basa su queste opposizio-ni, così come sulle divisioni temporali, sulle relazioni di tempo nel verbo, che si distribuiscono su due sistemi, distinti e complementari: quello dell’histoire e quello del discours. Rileggiamo la celebre definizione di Benveniste:

L’énonciation historique […] caractérise le récit des évé-nements passés. Ces trois termes, ‘récit’, ‘événement’, ‘passé’, sont également à souligner. Il s’agit de la présenta-tion de faits survenus à un certain moment du temps, sans aucune intervention du locuteur dans le récit. Pour qu’ils puissent être enregistrés comme s’étant produits, ces faits doivent appartenir au passé. Sans doute vaudrait-il mieux dire: dès lors qu’ils sont enregistrés et énoncés dans une expression temporelle historique, ils se trouvent caractéri-sés comme passés. L’intention historique constitue bien une des grandes fonctions de la la langue: elle y imprime sa temporalité spécifique […]. (I, pp. 238-239)

È evidente che, in quanto modo di enunciazione, il rac-conto storico esclude ogni forma linguistica ‘autobiografi-ca’ ed egualmente le marche temporali del presente. Trop-po spesso male utilizzata, l’opposizione prospettata da Benveniste, si articola – non si deve mai dimenticarlo – sul-la scena dell’enunciazione, è un’opposizione interna, che oltrepassa le tipologie e i generi, è trans-generica. Non a

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caso gli esempi forniti riguardano, come è noto, brani tratti dall’opera di uno storico dell’antichità (Glotz) e da quella di un romanziere (Balzac). E non a caso, nel racconto bal-zacchiano (Gambara), il grande linguista ritrova un’ intru-sione d’autore, lasciata scivolare in una pagina in cui do-mina il dispositivo della distanza temporale e della narra-zione ‘impersonale’. Ma ciò che conta, ci dice la linguistica, è «l’intenzione storica»: perché un evento sia narrato stori-camente deve cessare di essere presente. L’unico presente possibile è quello dello storico, ma questi non può ‘storiciz-zarsi’ senza smentire il proprio progetto (I, p. 245).

È proprio dalla definizione benvenistiana di enunciazio-ne storica, che parte Barthes nel suo «discorso della sto-ria», ponendosi una domanda capitale: è legittimo opporre il racconto di finzione (epopea, romanzo, teatro) al raccon-to storico o meglio dello storico? È legittimo opporre quel-la che può essere definita una narrazione di avvenimenti passati, collocata sotto il dominio del ‘reale’, condotta come esposizione ‘razionale’, alla narrazione immaginaria? E mi limito a ricordare che come esempi venivano esaminati al-cuni aspetti dell’opera di Erodoto, Machiavelli, Bossuet e Michelet. A questa domanda Benveniste aveva accennato una risposta citando un romanziere considerato come reali-sta per antonomasia, Balzac. Barthes si spinge oltre, anche perché il suo obiettivo è diverso, è l’analisi del racconto nei suoi tratti pertinenti e nelle modalità di rappresentazione. I tratti pertinenti la narrazione storica nel suo farsi che Bar-thes individua sono i seguenti:

a) il discorso della storia è un discorso testimoniale, che fa riferimento cioè a un altrove del discorso: fonti, testimo-nianze, informatori diretti o altri testi che forniscono in-formazione. Questo tratto, è fin troppo ovvio sottolinearlo, sembrerebbe ribadire il principio di ‘realtà’ o di ‘verità’ come caratteristica fondamentale, e quindi un’opposizione molto netta tra verità e finzione, tra realtà e invenzione o immaginazione. In quanto racconto testimoniale, non ha importanza che il racconto storico si presenti come una

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testimonianza diretta (del passato del presente del narrato-re), oppure come prodotto di un’informazione esterna. Ciò che conta è la veridicità dell’informazione diretta o indiretta (o la cauzione di veridicità), ed è in questo senso che la narrazione di avvenimenti passati è posta sotto la sanzione della scienza storica.

Ma se si analizza la narrazione, l’atto del narrare, e non il narrato, non sfuggirà che questi sono anche tratti pertinen-ti della relazione tra enunciato ed enunciazione nella con-versazione, per esempio orale o scritta (quale può essere rappresentata in un testo di finzione). Inoltre ritroviamo il racconto storico come testimonianza diretta in molte opere letterarie; penso alla memorialistica, per esempio, e mi limi-to a citare i Mémoires d’outre-tombe di Chateaubriand, dove ogni evento storico è filtrato dalla testimonianza memoriale di un ego pieno e pervasivo. Ritroviamo, d’altro canto, il procedimento delle testimonianze indirette in tutta una se-rie di artifizi romanzeschi, per esempio quando per provare la verità di ciò che si racconta ci si riferisce ad informatori o testimoni, oppure alla finzione del documento o del ma-noscritto ritrovato, qualora si ricorra a fonti e ad altri testi presentati come veridici. Da Walter Scott, a Manzoni, a Stendhal, è uno dei procedimenti più caratteristici del co-siddetto romanzo storico. Di Stendhal vanno ricordate al-meno La Chartreuse de Parme e soprattutto le Chroniques ita-liennes, pseudo-traduzioni, in realtà totali riscritture di do-cumenti che l’autore considerava autentici, di manoscritti italiani del XVI e XVII secolo, ritenuti testimonianze con-temporanee di eventi politici e passionali.

b) Un’altra serie di considerazioni potrebbe riguardare quella che può essere definita l’organizzazione del discorso storico, nel quale gli eventi dovrebbero essere esposti in modo razionale e consequenziale. Per Benveniste, lo abbia-mo visto, ciò non può avvenire che lungo l’asse di una temporalità ben definita come sequenza di tempi del passa-to, e abbiamo visto che questo riguarda la narrazione stori-ca (l’histoire) anche nei testi di finzione. Barthes richiama

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l’attenzione su un aspetto molto importante: sulla coesi-stenza, o meglio sull’attrito tra il tempo della narrazione e il tempo della materia narrata. A tale riguardo, si verificano fenomeni di accelerazione della storia, quando molti anni o molti secoli vengono coperti da un certo numero di pagine, di capitoli o di paragrafi. Oppure da fenomeni di rallenta-mento, quando la narrazione si sofferma su più limitati seg-menti temporali – e ciò avviene in genere quanto più la ma-teria è vicina al narratore. Insomma non esiste isocronia tra narrato e narrazione, fenomeno questo che si ritrova u-gualmente nei testi letterari in cui intervenga un racconto di avvenimenti passati. Balzac vale sempre come esempio, e accanto a lui Stendhal. In tutta l’opera narrativa stendha-liana infatti, e in particolare in quella che si definisce ‘cro-naca’, termine che serve a definire anche il romanzo, l’accelerazione della storia è una caratteristica costante. In particolare nelle Chroniques italiennes, l’unico esperimento di ‘racconto storico’, dove veniva restituita una certa immagi-ne dell’Italia nel cinquecento, seicento e settecento, questa modalità della narrazione è accentuata fino a provocare veri e propri black-out temporali.

Ma ciò che annulla davvero la percezione del tempo della storia è l’incipit, nel quale si congiungono l’inizio della ma-teria narrata e l’esordio della narrazione. Barthes individua due forme di incipit tradizionali del discorso della storia: 1) l’atto solenne d’inizio (come l’Io canto dei poeti, come ‘l’appello religioso’ di Joinville); 2) la prefazione, che an-nuncia il discorso che seguirà oppure lo giudica a posterio-ri (come Michelet che corona con la sua prefazione l’Histoire de France, già interamente scritta e pubblicata). Questo procedimento molto diffuso non ha soltanto la fun-zione di segnalare l’ingresso della soggettività del narratore nel racconto storico, ma quella di complicare indubitabil-mente le relazioni di tempo. Perché il tempo della storia, della serie di eventi del passato, viene messo a confronto con il presente della narrazione. Un aspetto questo estre-mamente complesso perché implica la relazione tra quello

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che Benveniste ha definito il tempo cronico e il tempo linguisti-co, tra il tempo degli eventi che ingloba anche la nostra vita come successione di eventi e il presente di colui che parla o scrive (Le langage et l’expérience humaine, II). Rispetto al tempo cronico della Storia, il narratore si colloca nel suo presente, ma come chi già sa e che si pone in un osservato-rio privilegiato. Anche a non volersi servire di termini al-quanto desueti come quello di narratore onnisciente, non si può fare a meno di pensare a un certo romanzo realista. E basta pensare al grande «Avant-propos» di Balzac all’ im-menso ciclo narrativo della Comédie humaine.

Come si vede, i confini tra la narrazione storica e la nar-razione di finzione si assottigliano, si confondono, non so-no veramente tali. Così per la presenza dei segni dell’ e-nunciatore/narratore. Ci sono opere nelle quali il narratore sembra volere deliberatamente assentarsi e la storia sembra raccontarsi da sola, come discorso obiettivo. Questa illu-sione referenziale grazie alla quale sembra che il referente parli da solo, che la storia si racconti da sola, è la stessa illusione dei romanzieri realisti. Siamo in presenza di essa ogni volta che è in gioco un tipo di narrazione «impersona-le», in genere contraddetta da segnali che indicano la pre-senza di indizi che rimandano alla localizzazione spaziale e temporale dell’io narrante. In maniera più sfumata in Bal-zac, e più apertamente in Stendhal, nella cui produzione l’«intrusione d’autore» è un procedimento molto frequente, il romanzo realista francese del primo ottocento rivela l’impossibilità di una narrazione «obiettiva» in tal senso, allo stesso titolo del discorso della storia. Prendendo anco-ra una volta come esempio le Chroniques italiennes, come tentativo estremo di far sparire la voce del narratore pre-sente nella voce degli anonimi ed oscuri redattori delle an-tiche cronache, che dovrebbero restituirci l’eco di una Sto-ria intesa come successione di avvenimenti del passato, Stendhal scrive storie, novelle, racconti di carattere storico. Si muove insomma, anche se alle frontiere più perigliose, all’interno di un genere letterario.

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Al polo opposto le opere nelle quali l’enunciatore è pro-tagonista degli eventi narrati, nelle quali il protagonista dell’enunciazione coincide con quello dell’enunciato. Bar-thes cita Senofonte e soprattutto Cesare, attori degli eventi di cui sono stati narratori. I procedimenti sono analoghi, con le doverose differenze, al «patto di lettura» caratteristi-co dei generi autobiografici, dove il soggetto del narrato e della narrazione coincidono. Ancora di più alla memoriali-stica. Quando scrive la sua vita e la Storia, Chateaubriand, nei Mémoires d’outre-tombe, non cessa mai di presentarsi co-me attore dell’evento. Questa démarche è particolarmente evidente nei portraits di grandi personaggi storici: da Mira-beau, a Washington, a Napoleone. Ogni volta il pittore en-tra nel ‘quadro’, va incontro o contro il grand’uomo rap-presentato. Il portrait precipita nell’aneddoto autobiografico, come parcellizzazione narrativa della successione dei fatti storici. Il narratore sceglie la Storia come teatro dell’ego: «J’étais destiné à devenir l’historien de hauts personnages» (I, 224).

A conclusione (parziale) di questa che vuole essere sol-tanto la presentazione di alcuni problemi legati alla «narra-tività» storica, non si possono non accennare altre defini-zioni dell’enunciato, della materia oggetto della narrazione, che aprono a ulteriori interrogativi. Questi interrogativi dipendono strettamente dallo statuto preminente del di-scorso storico in quanto discorso assertivo, constativo. «Il fatto storico» infatti «è legato linguisticamente a un privile-gio di esistenza: si racconta ciò che è stato, non ciò che non è stato oppure è stato in dubbio» (p.171). Ma, anche in questo suo presunto aggancio al reale, la Storia «significa» sempre, la sua narrazione è essenzialmente «elaborazione ideologica». Anche se apparentemente si presenta come registrazione di un referente esterno, nel racconto si ricor-da solo ciò che è degno di memoria (o che è considerato degno di memoria), e questo sin dagli storici antichi. An-che se tutto accade come se il discorso fosse la riproduzio-ne del «reale», del realmente accaduto, non è mai possibile

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pervenire al referente esterno al di fuori dell’atto narrativo (p. 176). Nella scrittura, non è in gioco il reale, ma l’effetto di reale, secondo una definizione che Barthes ha reso sin troppo celebre, e in tal senso il discorso storico continua a ripetere «ciò è vero, è successo nel passato», come il ro-manzo realista, le memorie, il diario intimo, il museo stori-co, l’esposizione di oggetti antichi e la fotografia, che signi-fica in fondo che ciò che vediamo è realmente esistito.

Che ciò si verifichi attraverso i cosiddetti «dettagli con-creti» e apparentemente superflui, come rileva Barthes nel-la celebre analisi di uno di questi dettagli in Un cœur simple di Flaubert, costituisce il passaggio più importante dal vero al verosimile, quindi, in una parola, alla letteratura. Non stu-pisce quindi che, accanto a Flaubert, sia citato Michelet dell’Histoire de France, quando a proposito della morte di Charlotte Corday, racconta che, prima dell’arrivo del car-nefice, la prigioniera ricevette la visita di un pittore che le fece il ritratto. Quando Michelet scrive che «dopo un’ora e mezzo qualcuno bussò dolcemente a una porticina che si trovava dietro di lei», non siamo in presenza di un dettaglio inutile o interstiziale. Il particolare descrittivo che non a-vrebbe motivo di esistere non è frutto del discorso «autori-tario» dello storico, il quale con la sua auctoritas sanziona la verità della descrizione, ma del verosimile letterario che comunica un effetto di reale. Che sia vero o no, quel bussare dolcemente a una porticina dietro cui è reclusa la giovane con-dannata a morte ci colpisce e ci emoziona, lascia una traccia indelebile nella nostra sensibilità di lettori.

Mariella Di Maio

LA CROISADE: INCIDENCES LYRIQUES, INCIDENCES ROMANESQUES

Chevaliers, votre salut est désormais assuré Quand Dieu s’est plaint à vous Des Turcs et des Almoravides Qui l’ont si honteusement traité!

Sur ce cri de joie, qui ouvre aux croisés de la ‘guerre

sainte’ les portes du paradis, commence au milieu du XIIème siècle la longue carrière de la croisade dans la poésie lyri-que et la fiction médiévales1. Conter et exalter la croisade a d’abord été, à partir de cette première croisade qui aboutit en 1099 à la prise de Jérusalem, le privilège de l’ historio-graphie, en latin puis en français, et de la chanson de geste. Si la Chanson de Roland et les chansons du cycle de Guil-laume d’Orange, situées dans les temps carolingiens, ren-voient à des expéditions plus ou moins historiquement at-testées contre les ‘sarrasins’ d’Espagne, un ensemble impo-sant de chansons de geste du XIIème siècle, centrées sur la première et la troisième croisades, célèbrent pour leur part des croisades bien réelles, qu’il s’agisse de la Chanson d’Antioche, de la Chanson de Jérusalem et de ses Continuations ou encore de l’Estoire de la guerre sainte, consacrée à la fin du

1 La chanson de croisade Chevalier, mut estes gariz est datée de 1147. Elle

suit de peu la composition de la canso de Marcabru, Emperaire, per mi mezeis, appelant à la croisade en Espagne contre les Almoravides et pré-cède sa canso du Lavador (le ‘lavoir’ des péchés’), Pax in nomine Dei, datée de 1149. Sauf indication contraire, nos citations sont extraites de Poèmes d’amour des XIIème et XIIIème siècles, textes présentés et traduits par E. BAUMGARTNER et F. FERRAND, Paris, 10/18, Bibliothèque médiévale, 1983.

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siècle à la troisième croisade. L’historiographie, au XIIIème siècle, n’est pas en reste. Les historiens de la première croi-sade sont restés longtemps fidèles à la prose latine, mais l’atypique quatrième croisade, qui conduisit à la prise de Constantinople (en 1204) et à la mise en coupe réglée de l’empire byzantin, a été pour beaucoup dans l’essor de la prose historique en français2, en rivalité avec le dévelop-pement contemporain de la prose romanesque. Mais on arrêtera là cette vue cavalière pour s’intéresser de manière plus spécifique aux incidences de croisades réelles ou ima-ginaires dans le champ de la poésie lyrique et dans celui, plus vaste encore et beaucoup plus diversifié, de la fiction médiévale.

Comme le suggère la citation initiale, la croisade a fait très tôt l’objet de véritables campagnes de recrutement dont la chanson, en langue d’oc et d’oïl, a été l’un des sup-ports privilégiés. La chanson Chevalier mut estes gariz a dû ainsi relayer la prédication par saint Bernard de la seconde croisade, menée par Louis VII, qui cependant n’accomplit pas son but: la reconquête de la cité d’Edesse. De croisade en croisade, ces chansons de propagande, jadis recueillies par Joseph Bédier3, s’égrènent du milieu du XIIème siècle à l’aube du XIVème siècle. Certaines sont restées anonymes; d’autres sont signées des plus grands poètes d’oïl, de Co-non de Béthune à Rutebeuf, en passant par le Châtelain de Coucy ou Thibaut de Champagne, des chevaliers poètes qui, à part Rutebeuf, ont tous participé à l’effort de croi-sade. D’un bout à l’autre de cet ensemble, les arguments

2 Elle est notamment à l’origine de l’œuvre de Robert de Clari, La Conquê-

te de Constantinople et de la Chronique de Villehardouin. 3 Voir J. BÉDIER et P. AUBRY, Les chansons de croisade avec leurs mélodies,

Paris, Champion, 1909, réimpr. Genève, Slatkine, 1974, ainsi que C. DIJKSTRA, La chanson de croisade: étude thématique d’un genre hybride, Am-sterdam, Schiphouwer en Brinkman, 1995.

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appelant au ‘voyage outre-mer’4 restent cependant très ré-pétitifs et très stéréotypés. La Terre sainte est présentée à la fois comme la ‘terre promise’ où faire son salut en com-battant et mieux encore en mourant en martyr; elle est aus-si et surtout le fief du Christ en ce monde, un fief que les croisés se doivent de défendre puis de reprendre contre les infidèles en se faisant, en bons vassaux, les champions du Christ, leur seigneur lige. Et les auteurs n’ont pas de mots assez durs – et parfois drôles – pour stigmatiser tous ceux qui se refusent au voyage outre-mer et préfèrent les plaisirs conjugaux (ou autres) et le confort douillet de leurs riches demeures. Ainsi des excuses que met Thibaut de Champa-gne dans la bouche de ceux qui décident de rester par deça (de ce côté de la mer):

Chacun dit: «Que deviendra ma femme? Je ne pourrais à aucun prix abandonner mes amis». et de la ligne de partage qu’il trace entre ceux qui choi-

sissent et ceux qui refusent l’effort de croisade, soulignant comment:

… les vaillants chevaliers, ceux qui aiment Dieu et l’honneur en ce monde, ceux qui, dans leur sagesse, veulent aller à Lui, tandis que les minables, les répugnants couards, resteront ici.5 Le ton est plus vif et plus pittoresque dans les sarcasmes

qu’adresse Rutebeuf aux «planqués de l’arrière» dans la

4 Sur ‘l’idée de croisade’, mais le terme de croisade n’apparaît que tardi-

vement, voir A. DUPRONT, Du sacré, Paris, Gallimard, 1987, et notam-ment la section La croisade, pp. 239-312.

5 Extrait de la chanson Seigneurs, sachiez, qui or ne s’en ira, in Poèmes d’amour des XIIème et XIIIème siècles, op. cit., pp. 252-255.

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Nouvelle complainte d’Outre-mer (1277) par exemple, qui re-prend cependant en cette fin du XIIIème siècle la plupart des critiques usuelles:

Chevaliers qui siégez aux tribunaux […], Quand le vin vous est monté à la tête, Au coin du feu, près de la cheminée, Vous prenez la croix sans qu’on ait à vous prêcher; Il faut vous voir alors donner de grands coups Sur le sultan et les siens: Vous leur infligez de lourdes pertes. Mais quand vous vous levez le lendemain matin, Vous tenez un autre langage: Tous les blessés sont guéris Et les morts se sont relevés. Les uns vont chasser le lièvre Les autres vont essayer De prendre un canard ou deux, Car combattre n’est pas un jeu.6 Il va de soi que les différents membres du clergé qui tou-

chent les dîmes levées pour la croisade et qui les utilisent à d’autres fins font aussi l’objet d’attaques ciblées, épinglant leur manière se «prélasser» – le jeu de mot est de Rutebeuf – sans se soucier plus que les chevaliers et les rois des comptes qu’ils devront rendre au jour du Jugement. Croi-sade et satire: dans la production très répétitive des satires médiévales consacrées à la revue des «états» du monde, la croisade introduit, par brèves bouffées, des fragments de réalisme. S’y laisse saisir sur le vif la peur de l’aventure, des souffrances physiques, de l’arrachement social et men-tal, de la mort enfin, qui plombe le départ outre-mer et que ne parvient même pas à contrebalancer la peur du Juge-

6 Traduction de M. Zink, dans RUTEBEUF, Œuvres complètes, Paris, Le

Livre de Poche, p. 991.

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ment dernier7. Il est en revanche très rare que des chan-sons s’attardent sur l’expérience réelle de la croisade. Il n’est guère au milieu du XIIIème siècle que Raoul de Sois-sons, ami et compagnon en poésie de Thibaut de Champa-gne, pour comparer la douleur d’aimer à la piqûre d’un scorpion, évoquer dans un jeu-parti avec Thibaut les tour-ments endurés en Syrie puis sa captivité en Egypte et y revenir encore, de manière plus indiscrète, dans l’une de ses chansons d’amour:

Si j’ai été longtemps en Romanie Et fait outre-mer mon pèlerinage, J’y ai souffert bien des maux douloureux Et enduré de bien graves maladies; Mais il en va pour moi pis aujourd’hui que naguère en Syrie, Car Bon Amour m’a donné une telle peine Que jamais la douleur ne s’en apaise8. Rutebeuf lui encore, dans la pièce intitulée Le débat du

croisé et du décroisé qui est un appel à la croisade de 1270 lancée par saint Louis, met des arguments fort réalistes dans la bouche de son ‘décroisé’:

Vous me faites la leçon pour que je donne Mon bien aux cochons et que je m’éclipse. Les chiens garderont mes enfants Qui resteront sur la paille. On dit: «Ce que tu tiens, tiens-le bien»! C’est une belle parole, qui est de bon conseil9.

7 On en lit aussi l’écho dans le refus de Joinville de participer à la deu-

xième expédition de Louis IX en dépit des pressions du roi. Voir J. MONFRIN, Joinville, "Vie de saint Louis", Paris, Garnier, 1995, §§ 734-737.

8 Citation reprise à Chansons de Trouvères, éd. bil. par S. N. Rosenberg et H. Tischler avec la collaboration de M.-G. Grossel, Paris, Lettres Go-thiques, 1995.

9 RUTEBEUF, Œuvres complètes, op. cit. p. 901.

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Mais la peur de l’enfer et du Jugement dernier, brandie par le croisé, l’emporte finalement au terme des trente strophes de ce débat tendu, le ‘décroisé’ se déclarant «vain-cu et mis échec et mat».

Les cansos des troubadours, puis les chansons des trouvè-res, dans leur pureté originelle, sont en principe consacrées à l’expression de la fin’amor. Et pourtant… Dès les toutes premières manifestations du lyrisme courtois, – les cansos de Guillaume d’Aquitaine composées au début du XIIème siècle –, au chant d’amour se tisse la triste réalité de la croi-sade. Dans la canso XI, véritable congé au monde selon la formule de Jean-Charles Payen, les renoncements qu’ im-pose la croisade (en ce cas en Espagne) entrent en conflit aussi bien avec l’exercice de la proeeza (de la vaine prouesse, faut-il comprendre, des tournois et des joutes?) qu’avec l’expérience du joi. Commencée sur l’adieu imposé au service amoureux, la canso s’achève sur l’adieu nostalgi-que aux fourrures luxueuses qui signent la beauté du monde d’ici-bas et ses joies10: Str. 1:

Puisqu’il m’est pris désir de chanter, Je ferai un chant dont je m’attriste: Jamais plus je ne suivrai l’obédience d’amour En Poitou ni en Limousin. […]

Envoi: Ainsi dois-je laisser joie et plaisir Et vair et gris et zibeline. Le ton est donné, le tabou est levé: dans le sillage de

Guillaume IX, une longue liste de chansons unissent dans la douleur et le désarroi le départ pour la croisade et la de-

10 Voir J.-C. PAYEN, Le Prince d’Aquitaine. Essai sur Guillaume IX, son œuvre

et son érotique, Paris, Honoré Champion, 1980, à qui nous empruntons la traduction de l’extrait de la chanson XI.

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partie d’amour, l’au revoir à l’aimée qui risque fort d’être un adieu. Quitte à ouvrir le poème – pour se dédouaner? – au plaisir amer de la satire. La chanson IV de Conon de Bé-thune, qui participa brillamment à la quatrième croisade, tisse les arguments traditionnels du départ pour la croisade à la plainte amoureuse et au motif ici revivifié de la sépara-tion du corps et du cœur:

Hélas! Amour, comme il me sera dur De la quitter, la dame la meilleure Qui fût jamais servie et aimée! Que Dieu, dans sa bonté, m’accorde de la revoir Tant il est vrai que j’ai, à la quitter, une immense douleur! Pauvre de moi! Qu’ai-je dit? Je ne la quitte pas vraiment! Si le corps s’en va, pour servir le Seigneur, Le cœur demeure, tout en son pouvoir (vv. 1-8) […] Dieu est assiégé en sa très sainte terre. Nous verrons comment ils iront le secourir, Ceux qu’Il arracha à la prison ténébreuse Quand Il fut mis sur la croix, désormais aux mains des Turcs

(vv. 17-20)11. Le Châtelain de Coucy, autre très grand trouvère de la

fin du XIIème siècle, insiste lui aussi dans la chanson A vous, amant, plus k’a nulle autre gent, sur le renoncement aux plai-sirs de l’amour, dit sa crainte des losengiers, des médisants qui vont avoir toute liberté de profiter de son absence pour le desservir auprès de sa dame, et s’en prend enfin à la vile-nie, au manque de courtoisie d’un Dieu qui n’hésite pas à lui faire chèrement payer les plaisirs consentis:

Str. 3:

Doux seigneur Dieu, comment vivrons-nous notre séparation? Que deviendront nos joies, nos entretiens,

11 Poèmes d’amour…, op. cit., pp. 245-247.

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Et les douces paroles que me répétait Celle qui m’était dame, compagne et amie? Quand il me souvient de sa présence pleine de douceur Et des bonnes grâces qu’elle me faisait, Comment mon cœur peut-il endurer encore De ne pas me quitter? Certes, il est bien mauvais! Plus émouvante encore, la chanson (une rotrouenge) at-

tribuée à Guiot de Dijon, Chanterai por mon corage/Que je veuil reconforter donne la parole à une voix de femme qui déplore le départ pour la croisade de son ami12 et qui n’a d’autre apaisement à sa douleur et à sa crainte des infidèles que de serrer contre son corps nu la chemise qu’il lui a lais-sée:

[…] La chemise qu’il a alors portée, il me l’a envoyée pour que je la serre contre moi. La nuit, quand l’amour me brûle, Je la mets près de moi quand je me couche, Toute proche de ma chair nue, Pour apaiser mon mal

et plus subtilement encore de sentir frémir sur sa peau le souffle du vent venu du pays où il est en pèlerinage:

[…] Et quand souffle sur la contrée comme une haleine suave qui vient du très doux pays où est parti mon bien-aimé,

12 Mais cette plainte était déjà mise par Marcabru dans la bouche d’une

pastoure, pleurant a la fontana del vergier le départ de son ami pour la croisade du roi Louis VII. On date généralement la pièce de Guiot de la première moitié du XIIIème siècle, sans la rattacher précisément à telle ou telle croisade.

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Dieu! c’est comme si je la sentais, Là sous mon manteau gris13. Cette variété de la chanson d’amour, qui unit le motif de

la croisade à l’expression douloureuse de la fin’amor, n’a pas, on l’a dit, la stricte pureté des cansos et des chansons qui ne disent rien d’autre que ce pour quoi elles existent: célébrer la joie et la douleur d’aimer. En s’ouvrant plus ou moins discrètement à l’Histoire, en mêlant plus ou moins discrètement des fragments de réel à l’expression de l’amour, ces chansons de croisade ont cependant tracé une voie nouvelle. Tout se passe comme si unir la croisade à l’expression de la fin’amor avait doté d’une résonance concrète – les tourments de la séparation et la mort mena-çante – les motifs topiques et plus ou moins dévitalisés de la joie et de la douleur d’aimer, tissu ordinaire de la chan-son d’amour:

Ah! que Dieu m’accorde ce bonheur suprême De serrer une fois, nue entre mes bras, Celle en qui j’ai mis mon cœur et mes pensées et puis je m’en irai outre la mer

ose supplier le châtelain de Coucy, le premier sans doute à enclore dans un poème le vœu de tout soldat partant pour le front…

La distance, réelle ou fantasmée, que la chanson de croi-sade crée entre les amants est aussi moyen efficace de pro-jeter dans l’espace géographique la distance qui sépare plus ou moins artificiellement l’amant de sa dame selon le rituel de la fin’amor. On sait comment, dans la tradition de la canso, le poète se doit de célébrer une dame inaccessible, mariée et/ou d’un rang supérieur (midons, ‘mon seigneur’

13 Les chansons citées de Conon de Béthune, du Châtelain de Coucy et de Guiot de Dijon se lisent dans Poèmes d’amour des XIIème et XIIIème siècles, op. cit.

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en occitan), créant ainsi la distance sociale, l’interdit par quoi le désir s’intensifie et aspire à la jouissance sans ja-mais pouvoir l’actualiser. Que la croisade creuse cette dis-tance tout en l’abolissant, c’est du moins ce qu’a compris l’auteur anonyme qui, au XIIIème siècle, a inventé à partir d’une des plus énigmatiques cansos de Jaufré Rudel, Lan-quand li jorn son long en mai, le plus beau des récits de croi-sade amoureuse. Pris à la lettre, l’amor de loing, l’amour lointain dont l’expression revient avec insistance d’une strophe à l’autre14, devient dans la vida de Jaufré la croi-sade amoureuse qu’entreprend le poète, de Blaye en France à Tripoli en Syrie, pour mourir dans les bras de la comtessa de Tripoll, celle qu’il a aimée de loin, sans l’avoir jamais vue, ses vezer, per lo ben qu’el n’auzi dire (sans la voir, pour le bien qu’il en entendit dire) als pelerins que venguen d’Antiocha (aux pèlerins qui revenaient d’Antioche). La croisade rassemble ici, mais dans la mort et l’extase, ceux qu’ailleurs elle a désunis…

À partir du XIIIème siècle et du moment où, en contredit

aux romans arthuriens, la fiction médiévale commence à cadrer personnages et actions dans un espace-temps où son lecteur peut se sentir en pays de connaissance (un pays que l’on dira ‘réaliste’ par commodité), le motif de la croi-sade se développe de manière spectaculaire. Envoyer un héros à la croisade plutôt que de le lancer dans les aventu-res périlleuses des forêts arthuriennes devient un moyen assez commode de nourrir, relancer ou clore un récit. Le départ pour la croisade peut n’être – c’est en somme son degré zéro d’utilisation – qu’une sorte de deus ex machina propre à dénouer le destin de tel ou tel personnage. Dans la Branche I du Roman de Renart datée de 1179, Le jugement de Renard, le goupil, condamné à mort, supplie le roi Noble

14 L’expression amor de loing est présente au moins au deuxième vers de chacune des 6 strophes et dans l’envoi, l’adjectif loing au quatrième vers. On peut lire le texte de la vida et son commentaire dans The Songs of Jau-fré Rudel, edited by R. T. PICKENS, Toronto, 1978, pp. 53-59.

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de le laisser plutôt prendre la croix pour qu’il puisse expier ses péchés. Ce que le roi accepte, à la grande consternation des bêtes qui ont eu maille à partir avec Renard et redou-tent son retour; et à juste titre, puisque Renard a tôt fait de se débarrasser des insignes du pèlerin – le bâton, la besace et la croix sur l’épaule droite – et de narguer Noble et sa cour avant de se réfugier dans son repaire de Maupertuis. Il récidive d’ailleurs dans la Branche VIII, Le pèlerinage de Renard, dans laquelle Renard s’engage cette fois à aller en pèlerinage à Rome, pèlerinage tout aussi dangereux que celui d’outre-mer! Mais comme on pouvait le prévoir, la branche s’achève sur la volte-face du goupil, réutilisant ironiquement le cri de départ des pèlerins, outree, outree:

Aux cris de «en avant, en avant!», ils [Renard et ses compagnons] s’en sont retournés15. Pareilles utilisations de la croisade, que l’on mettra au

compte de la parodie, restent cependant isolées. Le motif du départ à la croisade est repris sur un mode beaucoup plus tragique dans le terrible dénouement de la Châtelaine de Vergy (XIIIème siècle). Le duc de Bourgogne, qui est en grande partie responsable de la mort de la châtelaine de Vergy et du suicide de son amant pour être tombé dans le piège que lui a tendu sa femme, part à la croisade après l’avoir tuée et s’y fait Templier:

Le lendemain, le duc fit enterrer les amants dans un même cercueil, et la duchesse en un autre lieu. Mais ce malheur l’affligea tant que jamais plus on ne l’entendit rire.

15 Nous renvoyons à l’édition bilingue du Roman de Renart, par J.

DUFOURNET et A. MÉLINE, Paris, Garnier-Flammarion, 2 voll., 1985.

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Aussitôt il prit la croix pour l’outre-mer d’où il ne revint jamais; là-bas, il se fit templier16. La croisade fonctionnerait-elle, du Roman de Renard à la

Châtelaine de Vergy, comme une sorte de Légion étrangère où le silence est de règle sur les crimes passés?

Expédier quelqu’un à la croisade pour s’en débarrasser faute de pouvoir le tuer est par ailleurs une solution qu’envisage froidement le roi Marc dans une version, tar-dive il est vrai, du Tristan en prose. Il suffit de rédiger une fausse lettre du Pape, appelant au secours17. Mais Tristan a bien vite déjoué la ruse et ne quitte pas le royaume. L’anachronisme, – une croisade en Terre sainte dans les temps tristaniens –, est quelque peu choquant pour le lec-teur moderne. Il permet du moins de mesurer combien, au début du XIVème siècle, date probable de cette version du Tristan, la croisade fait désormais partie de l’arsenal des motifs utilisés par le roman d’aventures, arthurien ou non, pour relancer l’action. Dès le XIIIème siècle en effet le motif de la croisade contre les ‘infidèles’ s’impose comme le moyen privilégié de glorifier de nouveaux héros, d’exalter les lignages qu’ils ont fondé, d’idéaliser un monde désor-mais disparu où tout chevalier se devait de partir outre-mer et d’en revenir en vainqueur.

Dans son essai, La tentation de l’Orient dans le roman médié-val18, Catherine Gaullier-Bougassas s’est intéressée aux très nombreux romans qui donnent à leurs héros comme nou-veau terrain d’aventures des terres ‘sarrasines’ à conquérir

16 La Châtelaine de Vergy, éd. bilingue par J. DUFOURNET et L. DULAC, Paris, Gallimard, Folio, 1994.

17 Sur cet épisode propre à la version V. IV (vers 1330-1340), voir E. BAUMGARTNER, Le Tristan en prose. Essai d’interprétation d’un roman médié-val, Genève, Droz, 1975, p. 73.

18 Voir C. GAULLIER-BOUGASSAS, La tentation de l’Orient dans le roman médiéval. Sur l’imaginaire médiéval de l’autre, Paris, Honoré Champion, 2003.

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et à annexer au nom de la foi chrétienne, mais qui en font tout aussi bien les champions de la défense d’un empire byzantin de plus en plus menacé dans la réalité. Nous ne referons pas ici ce parcours critique qui dessine l’ impor-tance grandissante des ‘fictions de croisade’ au sein des romans d’aventures, qui retrace parallèlement les modifica-tions idéologiques que subit l’idée de croisade ou qui étudie les résurgences des rêves de croisade et la «fabrique d’une histoire romanesque des croisades».

Dans cette production très abondante et très variée, nous retiendrons comme exemple significatif d’un imaginaire de la croisade en contraste avec une réalité historique beau-coup moins gratifiante: le Roman de Mélusine de Jean d’Arras, dont l’autre titre est de manière plus intéressante La Noble Histoire de Lusignan19 et dans lequel la croisade est le lieu où rebâtir un passé chargé de gloire à la famille his-torique des Lusignan, un lignage jadis fondé par la fée Mé-lusine. Y tiennent en effet une place très importante les croisades que livrent d'un côté, dans l’espace oriental, Urien et Guy, de l’autre, à l’est de l’Europe, Antoine et Renaud. Les quatre fils de Mélusine qui ont ainsi tenté leurs chances parviennent, les deux premiers, à sauver les royaumes de Chypre et d’ Arménie des attaques des sarra-sins et à épouser les princesses héritières des deux royau-mes, les deux autres frères à réussir des exploits identi-ques, guerriers et matrimoniaux, dans le duché de Luxem-bourg et le royaume de Bohème. Le roman s’inscrit ainsi dans un rêve de revanche, nourri de l’évocation de croisa-des idéales et abouties en l’absence, en cette fin du XIVème siècle, de croisades réelles. De manière intéressante toute-fois, la croisade en Orient, dans laquelle Mélusine a lancé deux de ses fils en multipliant conseils et préparation mili-taire et politique poussée, conjugue la reprise et la défense de Chypre et de l’Arménie sur les ‘Infidèles’ – ce que n’ont

19 Voir Jean d’Arras, Mélusine ou la Noble Histoire de Lusignan, roman du XIVème siècle, éd. bil. par J.-J. VINCENSINI, Paris, Lettres Gothiques, 2003.

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pas su accomplir les Lusignan historiques – et une ébauche de colonisation avisée, programmée par la fée20. Un autre des nombreux fils de la fée, Geoffroy, également engagé en Terre sainte pour défendre ses frères attaqués par une coa-lition sarrasine, triomphe de la coalition et parvient à négo-cier une trêve de cent ans et un jour. Geoffroy obtient de surcroît du sultan de Damas la possibilité de se rendre en pèlerinage à Jérusalem dont les murailles n’ont pas été re-levées depuis «les destructions commises par Vespasien et Titus son fils, quand ils vinrent venger la mort de Jésus-Christ, après sa crucifixion»21; une Jérusalem donc qui ne porte pas encore les traces de l’occupation musulmane et où Geoffroy peut très dévotement passer trois jours en prière au Saint Sépulcre… Verra-t-on cependant dans cette fiction de pèlerinage une allusion à la réalité histori-que, à la trêve de trois ans conclue en 1192 entre Saladin et Richard Cœur de Lion, qui permit au roi anglais de se rendre en pèlerin à Jérusalem?

Dans le nouvel imaginaire de la croisade qu’invente alors le roman médiéval, revient en effet avec insistance la figure historique de Saladin, celui qui a définitivement repris Jé-rusalem en 1187, et contre qui Philippe Auguste et surtout Richard Cœur de Lion ont mené avec quelque succès la troisième croisade. Si les croisés toutefois parvinrent à re-prendre en 1191 la cité d’Acre et si Richard, lors de sa tra-versée, put s’emparer de l’île de Chypre (dont Guy de Lu-signan deviendra roi en 1192), Jérusalem resta aux mains de Saladin. Qu’un ‘sarrasin’ tienne ainsi en échec des rois très chrétiens a dû suffisamment perturber le monde occi-dental pour que lui soit inventée vers la fin du moyen âge une ascendance chrétienne. L’étrange nouvelle en prose

20 Voir E. BAUMGARTNER, Fiction and History: the Cypriot Episode in Jean

d’Arras dans Melusine of Lusignan, Founding Fiction in Late Medieval France, ed. D. MADDOX et S. STURM-MADDOX, Athens, The Univ. of Georgia Press, 1996, pp. 185-200 et C. GAULLIER-BOUGASSAS, op. cit., pp. 289-354.

21 Mélusine, op. cit., p. 651.

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intitulée La Fille du Conte de Ponthieu (vers 1450-1460) fait de l’héroïne du récit, très malmenée par son chrétien de mari, fort heureuse auprès du sultan qui l’a recueillie et épousée, l’arrière grand-mère du héros22. Puis la fiction s’emballe. Dans le Roman de Saladin (1460-1465)23, Saladin, désireux de connaître la terre de ses ancêtres, demande à être adoubé chevalier, se rend ‘outre-mer’, en France puis en Angleterre, observe comme un persan les mœurs étran-ges des occidentaux, remporte brillamment un tournoi, mène une intrigue amoureuse avec la reine de France. En-fin, mor-tellement blessé par un chrétien devant la ville de Damas, il se convertit sur son lit de mort au christia-nisme…

Qu’elles déploient une biographie très romancée qui an-nexe Saladin à la chrétienté occidentale ou qu’elles don-nent une dimension mythique aux croisades menées par les héros fondateurs des Lusignan historiques, ces différentes fictions de croisade ne ménagent aucune place aux person-nages amoureux et aux raffinements de la fin’amor. Un seul roman fait exception, le Roman du Châtelain de Coucy et de la dame du Fayel,24 composé à la fin du XIIIème siècle par un certain Jakemes, qui lie sur le mode tragique l’histoire et la fiction, la (troisième) croisade et le drame amoureux.

La chanson de femme, Chanterai por mon corage… dont nous avons cité plus haut quelques vers, est attribuée dans un manuscrit (le chansonnier Berne, Burgerbibliothek 389) à «la dame du Fayel». Cette attribution est fausse. Du moins permet-elle d’entrevoir comment a pu s’élaborer cet étrange récit qui tisse autour du personnage historique du Châtelain de Coucy, chevalier et trouvère, un roman d’amour à la fois inspiré par l’intrigue et les personnages

22 Violée par des brigands sous les yeux de son mari, elle essaie ensuite d’attenter à la vie de celui-ci qui, pour la punir, l’enferme dans un tonneau et l’abandonne au gré des flots …

23 Sur ce texte, voir C. GAULLIER-BOUGASSAS, op. cit., pp. 355-405. 24 Le roman du Châtelain de Coucy et de la Dame du Fayel par Jakemes, traduit

par A. PETIT et F. SUARD, Lille, Corps 9 éditions, 1986.

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de la Châtelaine de Vergy, les œuvres lyriques du Châtelain et sa participation effective à la troisième croisade25. Les différentes phases de la difficile relation amoureuse des deux amants – le Châtelain et la Dame du Fayel, qui prend donc la place de la Châtelaine de Vergy – sont en effet scandées par l’insertion des chansons d’amour composées par le trouvère. Lorsque le mari jaloux découvre finale-ment le secret des amants, c’est la croisade qui lui sert de moyen pour les séparer. Laissant entendre qu’il veut se croiser ainsi que sa femme, il incite son vassal, le Châtelain, à en faire de même. Et celui-ci ne peut se «décroiser» pour ne pas attirer les soupçons de son seigneur lorsque ce der-nier renonce finalement à son vœu. Comme peut s’y atten-dre le lecteur, le départ pour la croisade est l’occasion pour l’amant de composer une chanson d’adieu, très précisément la chanson – A vous amant, plus qu’a nulle autre gent … Et l’on peut imaginer que la Dame du Fayel a/aurait pu apaiser sa peine et sa solitude en chantant la chanson de Guiot, Chan-terai por mon corage reconforter, comme l’a supposé, de bonne foi ou non, le copiste du chansonnier de Berne… Mais l’amant poète, aussi désespéré soit-il, n’oublie nullement son statut de chevalier. A Marseille, le châtelain rejoint les troupes de Richard Cœur de Lion, arrive à Acre à la fin du siège, participe très brillamment aux différentes campagnes menées par Richard contre Saladin et ses troupes ainsi qu’à la reconquête (historique) d’Ascalon, de Césarée et de Tyr. Portant sur son heaume en guise d’enseigne des tres-ses faites de fils d’or – la dame a coupé ses tresses et les a données à son amant lors de leur dernière entrevue – il est bientôt désigné par les Sarrasins comme «le chevalier aux merveilleux hauts faits, qui porte sur son heaume des tres-ses».

25 Rappelons qu’il se noya en mer au cours de la quatrième croisade.

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Le roman en vers de Jakemes a fait l’objet d’une mise en prose au XVème siècle26. Comme il est pratiquement de rè-gle dans les mises en prose, les insertions lyriques ont été supprimées par le remanieur. Vers la fin du récit, d’autre part, un équilibre autre se dessine entre fin’amor et croi-sade. Au chapitre LXXIX, le prosateur fait sans doute une large place aux «complaintes» alternées des deux amants et au geste de la Dame, coupant «une partye de ses biaus cheveux» que son amant jure de garder toute sa vie en si-gne d’amour. Mais en lieu et place de la chanson composée par le Châtelain juste avant son départ et qu’insérait le texte en vers, le prosateur s’attarde sur les préparatifs du départ pour Marseille avant de donner un historique très détaillé de la croisade menée par Richard (notamment la prise de Chypre et le secours apporté par le roi anglais lors du siège d’Acre) et des exploits accomplis par le «vaillant chevalier aulx tresses». Le dénouement sans doute ne change pas: dans le récit en vers comme dans la mise en prose, le Châtelain est blessé d’une flèche empoisonnée au cours d’un combat contre les sarrasins. Nouveau Tristan27, il ne s’aperçoit pas tout d’abord que sa blessure est incura-ble, pense pouvoir guérir s’il retourne dans son pays et re-vient assez tôt pour être soigné par son amie. Mais il meurt en haute mer, après avoir demandé à son fidèle écuyer d’embaumer son cœur, de le placer dans un écrin à côté des tresses, avec une lettre qu’il rédige alors, et de porter le coffret à sa dame du Fayel. On connaît la suite. Le coffret tombe entre les mains du mari, qui donne à manger à sa femme le cœur de son amant. Apprenant ce qu’il en est du

26 Voir Le roman du Chastelain de Coucy et de la Dame de Fayel (Lille, Bibliothè-

que Municipale fonds Godefroy 50), a cura di A. M. BABBI, Fasano, Schena Editore, 1994.

27 On se souviendra que, dans le Tristan de THOMAS déjà, la reine Iseut interprète à la harpe le lai de Guirun, qui conte la légende du cœur man-gé…Voir Thomas, le Roman de Tristan, éd. bil. par E. BAUMGARTNER et I. SHORT, Paris, Champion, Classiques Moyen Age, 2003, vv. 987-996.

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mets le plus délicieux qu’elle ait jamais mangé, la dame du Fayel meurt presque aussitôt. Le mari, parvenu à faire la paix avec les parents de sa femme, part outre-mer où il reste longtemps en exil… Lorsqu’il revint, précisent les deux textes, sa fin fut rapide…

Ce roman est surtout connu, et à juste titre, pour son épi-logue, qui développe le motif du cœur mangé28. Mais on peut aussi admirer la dextérité avec laquelle son auteur, retravaillant pour nourrir l’intrigue amoureuse des don-nées reprises à la Châtelaine de Vergy, ébauche simultané-ment un roman historique avant la lettre autour d’un per-sonnage réel qui a possédé en son temps la quadruple compétence de chevalier, d’amant, de poète et de héros de la croisade. Dans l’épisode, important, de la croisade, où sont mis en scène des personnages et des épisodes à la fois réels et présentés de manière plutôt réaliste, les ‘armes’ l’emportent sans doute sur ‘l’amour’, et plus encore dans la mise en prose. Mais du stratagème inventé par un mari ja-loux à la longue agonie de l’amant croisé, en Terre sainte d’abord, au cours de la traversée en mer ensuite, le récit entrelace pour la première et sans doute la dernière fois dans le roman médiéval le motif de la croisade à celui de la departie d’amour, de la mortelle/tristanienne langueur du corps aimant que sublimera, par delà la mort, la consom-mation du cœur.

Emmanuèle Baumgartner Paris III-Sorbonne nouvelle

28 Pour une étude de ce motif, voir M. DI MAIO, Le cœur mangé. Histoire

d’un thème littéraire du Moyen Âge au XIXème siècle, Paris, Presses de l’Université de Paris-Sorbonne, 2005.