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Tommaso Moro, L’utopia (1516)
…Così viaggiando per giorni e giorni, trovò castelli e città e interi
Stati con popolazioni numerose, le cui costituzioni non erano le
peggiori di questo mondo. Sotto l’equatore, infatti, (…) giacciono
vasti deserti, bruciati sempre dal cielo infuocato: ovunque nudità e
triste aspetto, tutto vi è orrido e incolto, vi abitano solo belve e
serpenti o anche uomini, ma più selvaggi delle belve e non meno
nocivi. Ma via via che si esce di là, tutto a poco a poco si addolcisce, il
clima si fa meno aspro, il suolo dolcemente verdeggiante, la natura
delle bestie più mite. Alla fine si scoprono popolazioni, luoghi forti,
città, che fanno per terra e per mare continui commerci, non solo fra
loro e coi vicini, ma anche con popoli posti a grande distanza…
Tommaso Moro, L’utopia (1516)
…Non c’è quasi luogo (…) sulla terra dove non si
trovino Scille e Celeni rapaci e Lestrigoni divorapopoli e
altrettanti orrori prodigiosi; ma non in ogni luogo si
possono incontrare cittadini con sani e savi ordinamenti.
Del resto, a quel modo che, presso quei popoli da lui
scoperti, annotò molte leggi piene di sciocchezze, così ne
osservò non poche che ben potrebbero fornirci un modello
atto a correggere gli errori di queste nostre città e nazioni,
delle regioni e dei regni…
Francisco de Oviedo:
Satana è ormai espulso da quest’isola
(Hispaniola); tuttala sua influenza è
scomparsa ora che la maggioranza degli
indiani è morta. (…) Chi vorrà negare che
usare la polvere da sparo contro i pagani è
come offrire incenso a Nostro Signore?
Gines de Sepulveda:
In prudenza e in accortezza, in virtù e in umanità questi barbari sono
inferiori agli spagnoli come i bambini sono inferiori agli adulti e le donne
agli uomini, fra loro e gli spagnoli corre la stessa differenza che vi può
essere fra gente feroce e crudele e gente di eccezionale clemenza,fra
esseri straordinariamente intemperanti ed esseri temperanti ed equilibrati,
la stessa differenza – oserei dire – che intercorre fra le scimmie e gli
uomini. (...) Le popolazioni di tal fatta per diritto naturale devono
obbedire agli uomini più civili, più assennati, per essere governati da
costumi e abitudini migliori. Ma, qualora ammoniti, rifiutino il comando,
possono essere costretti con le armi, e tale guerra sarà giusta per diritto
naturale, come testimoniano Aristotele, Tommaso e Agostino
Francisco de Vitoria
De potestate civili (1528), § 21:
L’intero mondo, che in un certo senso è una repubblica, ha
il potere di emanare leggi giuste e convenienti per tutti,
che costituiscono il diritto delle genti. Da ciò consegue
che coloro che infrangono il diritto delle genti, sia in pace
che in guerra, commettono crimini mortali, almeno nel
caso delle più gravi trasgressioni come violare l’immunità
degli ambasciatori. Nessun regno può scegliere di
ignorare questo diritto delle genti, perché esso ha la
sanzione del mondo intero (totius orbis authoritate).
Francisco de VitoriaDe Indis recenter inventis (1539)
I diritti naturali dei popoli:
1. Ius communicationis: il diritto naturale di socievolezza e
comunicazione;
2. Ius peregrinandi et degendi: il diritto naturale di circolare e
viaggiare;
3. Ius commercii: il diritto di commerciare con gli altri popoli;
4. Ius occupationis: il diritto di appropriarsi delle cose inutilizzate;
5. Ius migrandi: il diritto di trasferirsi in altri paesi e di acquisirne
la cittadinanza;
Francisco de VitoriaDe Indis recenter inventis (1539)
I diritti naturali dei popoli:
1. Ius praedicandi et annunciandi Evangelium: il diritto
naturale di predicare il Vangelo;
2. il diritto-dovere di correctio fraterna degli indigeni;
3. il diritto-dovere di proteggere i convertiti dai loro
signori;
4. il diritto di difendere i propri diritti anche con la
guerra;
Francisco de VitoriaDe Indis recenter inventis (1539)
Se gli indios volessero impedire agli spagnoli l’esercizio del diritto delle genti,
come il commercio e le altre cose dette, gli spagnoli devono dapprima con
motivazioni e persuasione evitare lo scandalo, e mostrare con ogni mezzo che
non vengono a recare loro danno, ma vogliono amichevolmente risiedere nella
loro terra e percorrerla senza causare loro danno alcuno. Devono mostrarlo non
soltanto con le parole, ma anche con i fatti (…). Nondimeno, se dopo le ragioni
date loro, gli indios non volessero cedere, e ricorressero alla violenza, gli
spagnoli potrebbero difendersi e prendere ogni precauzione necessaria alla loro
sicurezza, poiché è lecito respingere la forza con la forza. E non solo questo: essi
possono anche costruire fortificazioni e difese, se in altro modo non è possibile
essere sicuri; se patissero poi ingiuria, possono con l’autorità del sovrano
vendicarla per mezzo della guerra, e avanzare gli altri diritti della guerra.
Francisco de VitoriaDe Indis recenter inventis (1539)
Questi indios, benché non siano, come si è detto, del tutto incapaci di
giudizio, tuttavia sono poco distanti dagli esseri amenti, per cui
sembra che non siano idonei a costituire e amministrare un Stato
legittimo e ordinato in termini umani e civili. Perciò non hanno leggi
adeguate, né magistrati, e non sono nemmeno capaci di governare
sufficientemente la famiglia. Per questo mancano anche di scienze ed
arti, non solo delle arti liberali, ma anche di quelle meccaniche, e di
una agricoltura accurata, di artigiani e di altre molte cose utili e
perfino necessarie alla vita umana. (…) Sono quasi come le fiere e le
bestie, e consumano alimenti non trattati, né pressoché migliori di
quelli delle bestie. Pertanto potrebbero affidarsi al governo di uomini
più capaci e intelligenti…
Josè de AcostaDe procuranda indorum salute (1571)
Esistono tre classi di barbari:
1) Coloro che non si discostano molto dalla retta ragione e dalla pratica del
genere umano: popoli che possiedono un regime stabile di governo, leggi
pubbliche, città fortificate e magistrati, un commercio ben organizzato e
soprattutto l’uso dell’alfabeto (i cinesi, i giapponesi e una buona parte dei
popoli delle Indie Orientali);
2) Quelli che pur privi della scrittura, della scienza filosofica e civile e di
leggi scritte, posseggono un proprio regime di governo, amministratori
politici, un corpo militare organizzato, un certo splendore nel culro religioso
e precise regole di comportamento (Araucanos, Tucapalenses, Incas);
3) Gli indios che vivono «selvaggiamente e senza legge», senza sovrani né
magistrati, incapaci di darsi stabili regimi di governo (popoli caraibici, i
cileni, i «selvaggi del Perù»).
Josè de AcostaDe procuranda indorum salute (1571)
«A tutti costoro, che a mala pena sono uomini, o sono
uomini a metà, è opportuno insegnare a essere uomini e
istruirli come bambini. E se attraendoli con carezze si
lasceranno istruire, tanto meglio, ma se resistono, non per
questo bisogna abbandonarli (…) ma è necessario
costringerli con la forza ed il potere opportuni, ed
obbligarli ad abbandonare la selva e a riunirsi in villaggi e,
anche in certo modo contro la loro volontà, far loro forza
perché entrino nel regno dei cieli».
Bartolomé de Las CasasApologética historia sumaria (1551)
«Non abbiamo alcuna ragione di meravigliarci dei difetti, delle
usanze non civili e sregolate che possiamo riscontrare presso le
nazioni indiane, né abbiamo ragione di disprezzarle per questo.
Infatti, tutte o la maggior parte delle nazioni del mondo furono
molto più pervertite, irrazionali e depravate, e fecero mostra di
molto minor prudenza e sagacia nel loro modo di governarsi e di
esercitare le virtù morali. Noi stessi fummo molto peggiori al
tempo dei nostri antenati e su tutta l’estensione del nostro
territorio, sia per l’irrazionalità e la confusione dei costumi, sia
per i vizi e le usanze bestiali».
Bartolomé de Las CasasApologética historia sumaria (1551)
«Tutte le nazioni del mondo sono composte di uomini; e di
tutti gli uomini, e di ciascuno di essi, una sola è la
definizione, e questa è che sono esseri razionali: tutti sono
dotati d’intelligenza, di volontà e di libero arbitrio, essendo
formati a immagine e somiglianza di Dio». Perciò, «tutti i
lignaggi umani si riducono a uno» e «le leggi e le regole
naturali e i diritti degli uomini sono comuni a tutte le
nazioni, cristiane o gentili, di qualunque setta, legge, stato,
colore e condizione, senza differenza alcuna».
Bartolomé de Las CasasSeconda memoria a Carlo Quinto
«L’umanità è una sola e tutti gli uomini sono simili per
ciò che concerne la loro creazione e tutte le disposizioni
naturali; nessuno nasce illuminato. Ne deriva che noi tutti
dobbiamo essere guidati e aiutati inizialmente da coloro
che sono nati prima di noi. I popoli selvaggi della terra
possono essere paragonati a un terreno non coltivato, che
produce erbacce e rovi, ma che reca in sé abbastanza
qualità naturali perché il lavoro e la coltura gli facciano
produrre frutti sani e benefici».
Montaigne, Saggi
Ora mi sembra (…) che in quel popolo non vi sia
nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno
riferito, se non che ognuno chiama barbarie quello
che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non
abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la
ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli
usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta
religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e
compiuto di ogni cosa…
Montaigne, Saggi
Essi sono selvaggi allo stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti
che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo: laddove, in
verità, sono quelli che col nostro artificio abbiamo alterati e distorti
dall’ordine generale che dovremmo piuttosto chiamare selvatici. In quelli
sono vive e vigorose le vere e più utili e naturali virtù e proprietà, che
invece noi abbiamo imbastardite in questi, soltanto per adattarle al piacere
del nostro gusto corrotto. (…) Non c’è ragione che l’arte guadagni il
punto d’onore sulla nostra grande e potente madre natura. Abbiamo tanto
sovraccaricato la bellezza e la ricchezza delle sue opere con le nostre
invenzioni, che l’abbiamo soffocata del tutto. Tant’è vero che dovunque
riluce la sua purezza, essa fa straordinariamente vergognare le nostre vane
e frivole imprese
Montaigne, Saggi
Non mi rammarico che noi rileviamo il barbarico orrore che c’è
in tale modo di fare, ma piuttosto il fatto che, pur giudicando le
loro colpe, siamo tanto più ciechi riguardo alle nostre. Penso che
ci sia più barbarie nel mangiare un uomo vivo che nel mangiarlo
morto, nel lacerare con supplizi e martìri un corpo ancora
sensibile, farlo arrostire a poco a poco, farlo mordere e dilaniare
dai cani e dai porci (come abbiamo non solo letto, ma visto
recentemente, non fra antichi nemici, ma fra vicini e concittadini
e, quel che è peggio, sotto il pretesto della pietà religiosa), che
nell’arrostirlo e mangiarlo dopo che è morto…
J. Bodin, I sei libri dello Stato, Ci sono di quelli che hanno scritto e parlato degli affari
pubblici in maniera approssimativa e grossolana, senza
conoscenza alcuna delle leggi né del diritto pubblico, lasciando
anzi questo del tutto in secondo piano rispetto al privato, dal
quale si può trarre maggiore profitto; ora io affermo che
costoro hanno profanato i sacri mestieri della filosofia politica,
e ciò inoltre è stato causa di rovina per molti Stati illustri. Si
veda per esempio il caso di un Machiavelli, scrittore che è stato
in gran voga tra i parassiti dei tiranni, e che Paolo Giovio, pur
annoverandolo tra gli uomini degni di nota, dichiara
nientemeno che ateo e ignorante di belle lettere…
J. Bodin, I sei libri dello Stato,
Quanto all’ateismo è lui stesso a vantarsene nei suoi scritti; e
quanto alla cultura, credo che tutti quelli che sono soliti
dissertare dottamente intorno agli alti affari dello Stato saranno
facilmente concordi ch’egli non ha mai realmente tentato il
guado della scienza politica. Giacché essa non consiste in tutte
quelle astuzie tiranniche da lui ricercate accuratamente in tutti
gli angoli di Italia e colate come dolce veleno nel suo Principe,
ove innalza alle stelle e pone a paragone di tutti i re il più
sleale figlio di ecclesiastico che mai vi sia stato…
J. Bodin, I sei libri dello Stato,
Ci sono poi altri di tendenza opposta a quelli di cui
abbiamo parlato, ma non meno pericolosi e forse
ancora di più, che sotto il pretesto dell’esenzione
dai gravami e della libertà popolare, eccitano i
sudditi alla ribellione contro i loro principi naturali,
aprendo la porta a quell’anarchia ch’è peggiore di
qualsiasi tirannide del mondo, sia pure la più
aspra…
J. Bodin, I sei libri dello Stato,
Come la nave non è più altro che legno, senza
più forma alcuna di imbarcazione, allorquando
la chiglia, che ne sostiene i fianchi, la prua, la
poppa e il ponte sono stati tolti, così la
Repubblica senza un potere sovrano, che ne
unisca tutte le membra e le sue parti e tutte le
famiglie e le comunità in un solo corpo, non è
più una Repubblica.
J. Bodin, I sei libri dello Stato,
Per sovranità s’intende quel potere
assoluto e perpetuo ch’è proprio dello
Stato
I caratteri della sovranità:
Assolutezza:
«Chi è sovrano non deve essere soggetto in
alcun modo al comando altrui»
Perpetuità:
Chi è sovrano deve svolgere le sue funzioni in
nome proprio e senza limiti di tempo
Il contenuto della sovranità:
E’ il «diritto di dare la legge collettivamente e
singolarmente non ricevendola da nessuno»
«Sotto questo potere di dare e annullare le leggi
sono compresi tutti gli altri diritti e prerogative
sovrane: cosicché potremmo dire che [il potere
legislativo] è la sola vera e propria prerogativa
sovrana, che comprende in sé tutte le altre»
Il contenuto della sovranità:
«Le leggi del principe sovrano, sia pure
fondate su motivi validi e concreti, non
dipendono che dalla sua pura e libera
volontà»
La sede della sovranità:
Uno solo (monarchia);
Una minoranza del popolo (aristocrazia);
L’intero popolo o la sua maggioranza (democrazia)
La sede della sovranità:
Quando la sovranità è divisa tra più soggetti «si
crea una situazione che può risolversi solo con le
armi, fino a che la sovranità non resti a un principe
o alla minoranza del popolo o a tutto il popolo»
Forma di Stato e forma di governo:
Lo Stato può essere una Monarchia e tuttavia sarà
governato popolarmente (ossia democraticamente) se
il Principe ripartisce ranghi (…) uffici e benefici in
modo uguale fra tutti senza tenere conto della nobiltà
o delle ricchezze o della virtù. Può anche darsi il caso
di una Monarchia che ha una forma di governo
aristocratica e questo avviene quando il Principe
concede ranghi e benefici solo ai nobili o anche solo ai
più dotati o anche solo ai più doviziosi.
Forma di Stato e forma di governo:
Del pari la signoria aristocratica può governare il
suo Stato popolarmente qualora distribuisca onori
e benefici in misura eguale a tutti i suoi sudditi.
(…) Se poi ad essere detentrice della sovranità è la
maggioranza dei cittadini, ma poi il popolo assegna
le cariche onorifiche, i benefici e gli stipendi ai soli
nobili (…), lo Stato avrà la forma di Stato
popolare, ma il suo governo sarà aristocratico
J. Bodin, I sei libri dello Stato:
Per Stato si intende il governo giusto che si
esercita con potere sovrano su diverse
famiglie e su tutto ciò che hanno in comune
fra loro
J. Bodin, I sei libri dello Stato:
Quelli che affermano in generale che i
principi non sono soggetti alle leggi e
nemmeno ai loro patti, se non eccettuano le
leggi di Dio e della natura, e le giuste
convenzioni e i trattati fatti con i sudditi,
offendono Dio e la natura
J. Bodin, I sei libri dello Stato:
Quanto meno [il potere sovrano] si
estende, a parte quelle che sono le vere e
specifiche prerogative della sovranità,
tanto più è sicuro
J. Bodin, I sei libri dello Stato:
«Non discuto qui quale sia la religione migliore fra
tutte (anche se, in realtà, non vi è che una
religione, una verità, una legge divina, in quanto
promulgata dalla bocca stessa di Dio); dico solo
che il principe che, perfettamente convinto di
essere nella vera religione, voglia conquistare ad
essa i sudditi divisi in sette e fazioni, a mio parere
non deve usare la forza»
J. Bodin, I sei libri dello Stato:Può accadere infatti «che l’appoggio e il favore della
nobiltà e del popolo a una nuova religione o a una nuova
setta sia così forte e solido da rendere impossibile o
estremamente difficile ogni intervento teso a reprimerla o
ad alterarla, se non con pregiudizio grave di tutto lo Stato.
(…) Quando una setta o una religione non possa essere
spazzata via senza rischiare la distruzione dello Stato, sarà
meglio tollerarla, giacché la salvezza e il bene dello Stato
costituiscono lo scopo principale della legge»
I caratteri del giusnaturalismo moderno:
1) Laicità
Hugo Grotius, De Iure Belli ac Pacis, Prolegomena, § 6:
«…Se l’uomo è un animale è un animale di ordine molto
elevato, che ha molti vantaggi su tutte le altre speci di animali
che non differiscono tra loro, come emerge da diversi tipi di
azione che sono del tutto particolari del genere umano. Ora,
una di queste cose proprie all’uomo è il desiderio di società,
vale a dire una certa inclinazione a vivere con i suoi simili, non
in una qualsivoglia maniera, ma pacificamente e in una
comunità di vita così ben regolata come i lumi della ragione gli
suggeriscono »
I caratteri del giusnaturalismo moderno:
1) Laicità
Hugo Grotius, De Iure Belli ac Pacis, Prolegomena, § 8:
«Questa attività conforme alla ragione umana, rivolta a
conservare la società (…) è la fonte del diritto
propriamente detto; il quale comprende l’astenersi dalle
cose altrui, la restituzione dei beni altrui e del lucro da
essi derivato, l’obbligo di mantenere le promesse, il
risarcimento del danno arrecato per colpa propria e il
poter essere soggetto a pene tra gli uomini»
I caratteri del giusnaturalismo moderno:
1) Laicità
Hugo Grotius, De Iure Belli ac Pacis, Prolegomena, § 11:
«Tutto ciò che abbiamo detto finora sussisterebbe
in qualche modo ugualmente anche se
ammettessimo – cosa che non può farsi senza
empietà gravissima – che Dio non esistesse o che
Egli non si occupasse dell’umanità»
I caratteri del giusnaturalismo moderno:
2) Scientificità
Hugo Grotius, De Iure Belli ac Pacis, Prolegomena, § 39:
«Anzitutto mi sono preoccupato di ricollegare le prove
riguardanti il diritto naturale a nozioni così evidenti che
nessuno possa negarle senza far violenza a se stesso:
infatti i principi di tale diritto se appena si guardi
attentamente, sono manifesti di per sé ed evidenti quasi
come ciò che percepiamo per mezzo dei sensi esterni».
I caratteri del giusnaturalismo moderno
2) Scientificità
Hugo Grotius, De Iure Belli ac Pacis, Prolegomena, § 39:
«In verità io dichiaro esplicitamente che, come i
matematici considerano le figure facendo astrazione dai
corpi, così io, nel trattar del diritto, ho distolto il pensiero
da qualsiasi fatto particolare».
I caratteri del giusnaturalismo moderno:
3) Individualismo
Christian Wolff, Ius naturae methodo scientifica
pertractatum, Prol. § 3:
«Ogni qual volta noi parliamo di diritto naturale
non intendiamo mai la legge di natura ma piuttosto
il diritto che appartiene all’uomo in forza di quella
legge, cioè a dire naturalmente».
Thomas Hobbes, De Cive
I geometri in verità hanno molto ben amministrato la loro
provincia. Infatti, tutto l’aiuto che si può trarre per la vita
umana dall’osservazione delle stelle, dalla descrizione
della terra, dal computo del tempo, dalle navigazioni più
lunghe; tutte quello che è bello negli edifici, resistente
nelle fortificazioni, prodigioso nelle macchine; tutto ciò
che, insomma, distingue il tempo odierno dalla barbarie
antica, è quasi per intero un beneficio della geometria.
Thomas Hobbes, De CiveInfatti, quello che dobbiamo alla fisica, la fisica lo deve alla
stessa geometria. Se i filosofi morali avessero assolto al loro
compito con esito altrettanto felice, non vedo come l’industria
umana avrebbe potuto contribuire di più alla felicità di questa
vita. Se infatti la ragione delle azioni umane fosse conosciuta
con la stessa certezza con cui conosciamo la ragione delle
grandezze nelle figure, l’ambizione e l’avidità, la cui potenza si
sostiene sulle false opinioni del volgo circa il diritto e il torto,
sarebbero disarmate, e la gente godrebbe di una pace tanto
costante, che non sembra si dovrebbe più combattere.
Thomas Hobbes, De CiveQuanto al metodo, ho ritenuto che l’ordine dell’esposizione, per
quanto chiaro, non sia da solo sufficiente, ma che si debba iniziare
dalla materia dello Stato, quindi procedere alla sua generazione e
forma e alla prima origine della giustizia. Infatti ogni oggetto viene
conosciuto nel modo migliore a partire dalle cose che lo
costituiscono. Come in un orologio o in un’altra macchina un poco
complessa non si può sapere quale sia la funzione di ogni parte e di
ogni ruota, se non lo si scompone, e si esaminano separatamente la
materia, la figura, il moto delle parti, così nell’indagine sul diritto
dello Stato si deve se non certo scomporre lo Stato, considerarlo
come scomposto.
Thomas Hobbes, De CorporeLa filosofia civile è strettamente legata alla filosofia morale, dalla
quale tuttavia può essere staccata: infatti, le cause dei movimenti
della mente possono conoscersi non soltanto con il ragionamento,
ma anche con l’esperienza attraverso la quale ciascuno osserva i
propri movimenti. E perciò, quelli che con metodo sintetico,
partendo dai principi primi della filosofia, siano giunti alla scienza
delle passioni e dei turbamenti dell’animo, procedendo per la stessa
strada, arriveranno alle cause necessarie della costituzione delle
comunità e conseguiranno la scienza del diritto naturale e dei doveri
civili, nonché dei diritti che si devono alla comunità in ogni genere
di comunità, e di tutto il resto che spetta alla filosofia civile…
Thomas Hobbes, De Corpore
…per il fatto che i principi della politica derivano dalla
conoscenza dei movimenti della mente, mentre la
conoscenza dei movimenti della mente deriva dalla
scienza dei sensi e dei pensieri; ma anche quelli che non
hanno imparato la parte della filosofia precedente, cioè la
geometria e la fisica, possono tuttavia giungere ai principi
della filosofia civile con il metodo analitico.
Thomas Hobbes, LeviatanoQuesti piccoli inizi di movimento entro il corpo umano,
prima che appaiano nel camminare, nel parlare, nel
percuotere, e in altre azioni visibili, sono comunemente
chiamati sforzo. Questo sforzo, quando è volto verso
qualcosa che lo causa si chiama appetito o desiderio. (…)
Quando lo sforzo è per tenersi lontano da qualcosa di
chiama generalmente avversione. Questi vocaboli,
appetito e aversione, che noi abbiamo dai latini,
significano entrambi dei movimenti, l’uno quello di
avvicinarsi, l’altro quello di ritirarsi…
Thomas Hobbes, Leviatano…Quelle cose che non desideriamo, né odiamo si dice che
le dispregiamo, dato che il dispregio è nient’altro che una
immobilità…
E per il fatto che la costituzione del corpo umano è in
continuo mutamento, è impossibile che tutte le stesse cose
causino sempre nell’uomo gli stessi appetiti e avversioni;
molto meno tutti gli uomini possono consentire nel
desiderio di un solo e medesimo oggetto, quale che sia, o
quasi.
Thomas Hobbes, LeviatanoMa qualunque esso sia, l’oggetto dell’appetito o desiderio
di un uomo è ciò che egli, per parte sua, chiama buono;
l’oggetto del suo odio e della sua avversione cattivo, e
quello del suo dispregio, vile e trascurabile. Infatti queste
parole, buono, cattivo e spregevole, sono sempre usate in
relazione alla persona che le usa, dato che non c’è nulla
che sia tale semplicemente e assolutamente, e non c’è
alcuna regola comune di ciò che è buono e cattivo che sia
derivata dalla natura degli oggetti stessi…
Thomas Hobbes, De CiveTutto ciò che sembra bene, è piacevole, e si riferisce agli
organi o all’animo. Ogni piacere dell’animo consiste nella
gloria (cioè nell’avere una buona opinione di sé), o si
riferisce in ultimo alla gloria. Gli altri beni sono sensuali, e
possono tutti essere designati col nome di utile…
Ciascuno è portato a desiderare ciò che per lui è bene, e a
fuggire ciò che per lui è male, soprattutto il massimo dei
mali naturali, che è la morte; e questo con una necessità
naturale non minore di quella per cui una pietra va verso il
basso.
Thomas Hobbes, Leviatano
…Pongo in primo luogo, come una
inclinazione generale di tutta l’umanità, un
desiderio perpetuo e senza tregua di un
potere dopo l’altro che cessa soltanto nella
morte
Thomas Hobbes, LeviatanoNella natura umana troviamo tre cause principali di contesa: in
primo luogo, la competizione, in secondo luogo la diffidenza, in
terzo luogo la gloria. La prima fa sì che gli uomini si aggrediscano
per guadagno, la seconda per sicurezza, e la terza per reputazione.
Nel primo caso gli uomini usano violenza per rendersi padroni delle
persone di altri uomini, delle loro donne, dei loro figli, del loro
bestiame; nel secondo caso per difenderli; nel terzo caso per delle
inezie, come una parola, un sorriso, un’opinione differente, e
qualunque altro segno di scarsa valutazione, o direttamente nei
riguardi delle loro persone, o di riflesso nei riguardi della loro
parentela, dei loro amici, della loro nazione, della loro professione o
del loro nome
Thomas Hobbes, LeviatanoLa natura ha fatto gli uomini così uguali nelle facoltà del corpo e della
mente che, sebbene si trovi un uomo manifestamente più forte
fisicamente o di mente più pronta di un altro, pure quando si calcola tutto
insieme, la differenza tra uomo e uomo non è così considerevole, che un
uomo possa di conseguenza reclamare per sé qualche beneficio che un
altro non possa pretendere, tanto quanto lui. Infatti riguardo alla forza
corporea, il più debole ha forza sufficiente per uccidere il più forte, o con
segreta macchinazione o alleandosi con altri che sono con lui nello stesso
pericolo. E quanto alla facoltà della mente (…) io trovo tra gli uomini
una eguaglianza ancora più grande di quella della forza. Infatti la
prudenza non è che esperienza, ed un tempo eguale la conferisce in egual
misura a tutti gli uomini, in quelle cose in cui si applicano in egual
misura…
Thomas Hobbes, LeviatanoDa questa eguaglianza di abilità sorge l’eguaglianza nella speranza
di conseguire i nostri fini. E perciò, se due uomini desiderano la
stessa cosa, e tuttavia non possono entrambi goderla, diventano
nemici, e sulla via del loro fine (…) si sforzano di distruggersi o di
sottomettersi l’un l’altro. Onde accade che dove un aggressore non
ha più da temere che il potere singolo di un altro uomo, se uno
pianta, semina, costruisce o possiede un fondo conveniente, ci si
può probabilmente aspettare che altri, preparatisi con forze riunite,
vengano per spossessarlo e privarlo non solo del frutto della sua
fatica, ma anche della sua vita o della libertà. E l’aggressore è di
nuovo in un pericolo simile a quello in cui era l’altro…
Thomas Hobbes, LeviatanoDa ciò è manifesto che durante il tempo in cui gli uomini
vivono senza un potere comune che li tenga in soggezione,
essi si trovano in quella condizione che è chiamata guerra e
tale guerra è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo. La
guerra, infatti, non consiste solo nella battaglia o nell’atto del
combattere, ma in un tratto di tempo, in cui è
sufficientemente conosciuta la volontà di contendere in
battaglia. (…) Così la natura della guerra non consiste nel
combattimento effettivo, ma nella disposizione verso di esso
che sia conosciuta e in cui, durante tutto il tepo, non si dia
assicurazione del contrario. Ogni altro tempo è pace.
Thomas Hobbes, LeviatanoPerciò tutto ciò che è conseguente al tempo di guerra in cui ogni
uomo è nemico ad ogni uomo, è anche conseguentemente al tempo in
cui gli uomini vivono senz’altra sicurezza di quella che la propria
forza e la propria inventiva potrà fornire loro. In tale condizione non
c’è posto per l’industria, perché il frutto di essa è incerto e per
conseguenza non v’è cultura della terra, né navigazione, né uso dei
prodotti che si possono importare per mare, né comodi edifici, né
macchine per muovere e trasportare cose che richiedono molta forza,
né conoscenza della faccia della terra, n^ calcolo del tempo, né arti,
né lettere,né società, e quel che è peggio di tutto, vì è continuo
timore e pericolo di morte violenta, e la vita dell’uomo è solitaria,
misera, sgradevole, brutale e breve.
Thomas Hobbes, LeviatanoSi può per avventura pensare che non vi sia mai stato un
tempo né una condizione di guerra come questa, e io
credo che non ci sia mai stata generalmente in tutto il
mondo, ma ci sono parecchi luoghi ove attualmente si
vive così. Infatti, in parecchi luoghi dell’America, i
selvaggi, se si eccettua il governo di piccole famiglie la
cui concordia dipende dalla concupiscenza naturale, non
hanno affatto un governo, e vivono, oggigiorno, in
quella maniera brutale che ho detto prima.
Thomas Hobbes, Leviatano
Comunque si può percepire quale maniera
di vita ci sarebbe ove non ci fosse il timore
di un potere comune, dalla maniera di vita
in cui sono usi degenerare gli uomini che
hanno già vissuto sotto un governo
pacifico, una guerra civile..
Thomas Hobbes, LeviatanoMa anche se non ci fosse mai stato un tempo in cui i
particolari fossero in condizione di guerra l’un contro l’altro,
tuttavia in tutti i tempi, i re e le persone dotate di autorità
sovrana, a causa della loro indipendenza, si trovano ad avere
continue gelosie, e ad essere nello stato e nella posizione dei
gladiatori che stanno con le armi puntate e gli occhi fissi l’uno
sull’altro, cioè, con forti, guarnigioni e cannoni alle frontiere
dei loro regni e con spie continuamente nei territori che sono
vicini a loro; ciò è una posizione di guerra. Ma per il fatto che
così essi sostengono l’industria dei loro sudditi, non segue da
ciò quella miseria che accompagna la libertà dei particolari.
Thomas Hobbes, LeviatanoPer il fatto che la condizione dell’uomo (…) è una condizione di guerra
di ogni uomo contro ogni altro uomo, e, in questo caso, ognuno è
governato dalla propria ragione e non c’è niente di cui egli può far uso
che non possa essergli di aiuto nel preservare la sua vita contro i suoi
nemici, ne segue che in una tale condizione ogni uomo ha diritto ad
ogni cosa, anche al corpo di un altro uomo. Perciò, finché dura
questo diritto naturale di ogni uomo ad ogni cosa, non ci può essere
sicurezza per alcuno (per quanto forte o saggio egli sia) di vivere per
tutto il tempo che la natura ordinariamente concede agli uomini di
vivere. Per conseguenza è un precetto o regola generale della ragione,
che ogni uomo debba sforzarsi alla pace, per quanto abbia speranza di
ottenerla, e quando non possa ottenerla, cerchi e usi tutti gli aiuti e i
vantaggi della guerra.
Thomas Hobbes, Leviatano
La prima parte di questa regola contiene la
prima e fondamentale legge di natura, che è
cercare la pace e conseguirla. La seconda, la
somma del diritto di natura, che è, difendersi con
tutti mezzi possibili .
Thomas Hobbes, Leviatano
Il diritto di natura (…) è la libertà che ogni
uomo ha di usare il suo potere, come egli vuole,
per la preservazione della propria natura, vale a
dire della propria vita, e, per conseguenza, di fare
qualunque cosa nel suo giudizio e nella sua
ragione egli concepirà essere il mezzo più atto a
ciò.
Thomas Hobbes, Leviatano
Una legge di natura è un precetto o una regola
generale scoperta dalla ragione, che vieta ad un
uomo di fare ciò che è lesivo della sua vita o che
gli toglie i mezzi per preservarla, e di omettere
ciò con cui egli pensa possa essere meglio
preservata.
Thomas Hobbes, LeviatanoDa questa fondamentale legge di natura che
comanda agli uomini di sforzarsi alla pace,
deriva questa seconda legge, che un uomo sia
disposto, quando anche altri lo sono, per quanto
egli penserà necessario per la propria pace e
difesa, a deporre questo diritto a tutte le cose; e
si accontenti di avere tanta libertà contro gli
altri uomini, quanta egli ne concederebbe ad
altri uomini contro di lui.
Thomas Hobbes, LeviatanoQueste sono le leggi di natura che dettano la pace
come un mezzo per la conservazione degli
uomini in moltitudine e che concernono
solamente la dottrina della società civile. (…) Per
non lasciare a tutti gli uomini scusa alcuna, tali
leggi sono state compendiate agevolmente in una
sentenza, intelligibile anche alla mente più tarda,
questa: non fare agli altri quello che non vorresti
fosse fatto a te.
Thomas Hobbes, LeviatanoLe leggi di natura obbligano in foro interno, vale a
dire vincolano a desiderare che si attuino, ma non
sempre in foro externo, cioè a porle in atto. Infatti
colui che fosse modesto e trattabile e adempisse a
tutto ciò che promette in un tempo e in un luogo in cui
nessun altro uomo facesse ciò, non farebbe altro che
darsi in preda agli altri e procurarsi la propria certa
rovina, contrariamente al fondamento di tutte le leggi
di natura che tende alla preservazione della natura…
Thomas Hobbes, LeviatanoLa massima parte di coloro che hanno trattato delle
repubbliche, suppongo o pretendono, o postulano, che
l’uomo sia un animale atto per nascita alla società, i greci
dicono zoon politikon; e su questo fondamento edificano la
dottrina civile, come se per conservare la pace e governare
l’intero genere umano non occorresse altro che il consenso
degli uomini riguardo certi patti e condizioni, che chiamano
senz’altro leggi. Questo assioma, benché accolto, è falso; e
l’errore è derivato da una considerazione troppo superficiale
della natura umana…
Thomas Hobbes, De Cive…Infatti, esaminando più a fondo le cause per cui gli uomini
si riuniscono e godono della società reciproca, risulterà
senz’altro evidente che ciò non avviene in modo che per
natura non possa accadere diversamente, ma per accidente.
Se infatti l’uomo amasse l’uomo naturalmente, cioè in
quanto uomo, non vi sarebbe alcuna ragione perché ciascuno
non dovesse amare ugualmente ciascun altro, in quanto
ugualmente uomo, o perché dovesse preferire di frequentare
coloro, dalla cui società possono derivare a lui (piuttosto che
ad altri) onore e utile. Quindi non cerchiamo per natura dei
soci, ma per trarre da essi onore e vantaggio…
Thomas Hobbes, Leviatano
Mentre l’accordo tra le creature irrazionali è
naturale, quello tra gli uomini è solo per patto ed
è artificiale; nessuna meraviglia quindi se (oltre
il patto) si richiede qualcosa d’altro per rendere il
loro accordo costante e durevole, cioè, un potere
comune che li tenga in soggezione e che diriga le
loro azioni verso il comune beneficio.
Thomas Hobbes, LeviatanoLa sola via per erigere un potere comune che possa
essere in grado di difendere gli uomini dall’aggressione
straniera e dalle ingiurie reciproche, e con ciò di
assicurarli in modo tale che con la propria industria e
con i frutti della terra possano nutrirsi e vivere
soddisfatti, è quella di conferire tutti i loro poteri e tutta
la loro forza ad un uomo o ad un’assemblea di uomini
che possa ridurre tutte le loro volontà, per mezzo della
pluralità delle voci, ad una volontà sola...
Thomas Hobbes, LeviatanoQuesto è più del consenso o della concordia; è
un’unità reale di tutti loro in una sola e
medesima persona fatta con il patto di ogni uomo
con ogni altro, in maniera tale che, se ogni uomo
dicesse ad ogni altro, io autorizzo e cedo il mio
diritto di governare me stesso, a quest’uomo, o a
questa assemblea di uomini a questa condizione,
che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le
sue azioni in maniera simile…
Thomas Hobbes, LeviatanoFatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene
chiamato Stato, in latino Civitas. Questa è la generazione di
quel grande Leviatano, o piuttosto (per parlare con più
riverenza) di quel dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto
il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa. Infatti, per
mezzo di questa autorità datagli da ogni particolare nello
stato, è tanta la potenza e tanta la forza che gli sono state
conferite e di cui ha l’uso, che con il terrore di esse è in
grado di informare le volontà di tutti alla pace interna e
all’aiuto reciproco contro i nemici esterni…
Thomas Hobbes, Leviatano
…In esso consiste l’essenza dello stato che (se si
vuole definirlo) è una persona dei cui atti ogni
membro di una grande moltitudine, con patti
reciproci, l’uno nei confronti dell’altro e
viceversa, si è fatto autore, affinché essa possa
usare la forza e i mezzi di tutti, come penserà sia
vantaggioso per la loro pace e comune difesa.
Thomas Hobbes, LeviatanoUna moltitudine di uomini diventa una persona,
quando è rappresentata da un uomo o da una
persona, per modo che diventi tale con il consenso
di ciascun particolare componente della moltitudine.
Infatti è l’unità del rappresentante, non l’unità
del rappresentato che fa una la persona, ed il
rappresentante che sostiene la parte della persona e
di una persona soltanto; l’unità in una moltitudine
non può non intendersi in altro modo.
Thomas Hobbes, LeviatanoIl diritto di natura, cioè la libertà naturale dell’uomo,
può essere ridotta e ristretta dalla legge civile: anzi, il
fine del fare le leggi non è altro se non tale restrizione.
La legge civile è un’obbligazione ed essa ci toglie la
libertà che la legge di natura ci ha dato. La natura ha
dato ad ogni uomo il diritto di assicurarsi con la
propria forza e di aggredire un vicino sospetto a scopo
preventivo, ma la legge civile toglie quella libertà.
Thomas Hobbes, Leviatano
Il suddito resta libero nel «silenzio della
legge»:
Nei casi in cui il sovrano non ha prescritto
una regola, il suddito ha la libertà di agire o
di astenersi dall’agire a sua discrezione.
Thomas Hobbes, Leviatano
L’uso delle leggi non è quello di vincolare i
sudditi in tutte le azioni volontarie, ma di
dirigerli e di tenerli in un movimento tale che
non si nuocciano con i loro impetuosi desideri,
con la loro temerarietà, o con la loro mancanza di
discrezione, come si pongono delle siepi non per
arrestare i viaggiatori, ma per tenerli sulla via.
Thomas Hobbes, LeviatanoCome gli uomini, per conseguire la pace e per
conservare con essa se stessi, hanno fatto un uomo
artificiale, che chiamiamo Stato, così hanno fatto
anche delle catene artificiali, chiamate leggi civili,
che essi, con mutui patti, hanno attaccato per
un’estremità alle labbra di quell’uomo o assemblea
di uomini cui hanno dato il potere sovrano e per
l’altra estremità alle proprie orecchie
Il modello giusnaturalistico:
1) Il punto di partenza dell’analisi
dell’origine e del fondamento dello Stato è
lo stato di natura, cioè uno stato non-
politico e antipolitico.
Il modello giusnaturalistico:
2) Tra lo stato di natura e lo stato politico
c’è un rapporto di contrapposizione nel
senso che lo stato politico sorge come
antitesi allo stato di natura (di cui è
chiamato a correggere e eliminare i difetti).
Il modello giusnaturalistico:
3) Lo stato di natura è uno stato i cui
elementi costitutivi sono principalmente e
primariamente gli individui singoli non
associati seppure associabili.
Il modello giusnaturalistico:
4) Gli elementi costitutivi dello stato di
natura (cioè gli individui) sono liberi ed
eguali gli uni rispetto agli altri, cosicché lo
stato di natura è raffigurato come uno stato
in cui regnano la libertà e l’eguaglianza.
Il modello giusnaturalistico:
5) Il passaggio dallo stato di natura allo stato
civile non avviene necessariamente per la forza
stessa delle cose, ma mediante una o più
convenzioni, cioè mediante uno o più atti
volontari e deliberati degli individui interessati a
uscire dallo stato di natura, con la conseguenza
che lo stato civile viene concepito come un
“ente” artificiale .
Il modello giusnaturalistico:
6) Il principio di legittimazione
della società politica è il consenso.
John Locke, Secondo trattato sul governo
Lo stato di natura è uno stato di perfetta
libertà di regolare le proprie azioni e disporre
dei propri beni e persone come meglio si crede
(…) senza chiedere l’altrui benestare o
obbedire alla volontà d’altri. (…) In tale stato
potere e libertà sono reciproci perché nessuno
ne ha più degli altri (§ 4)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Benché sia incondizionatamente libero, in questo stato, di
disporre della sua persona e dei suoi beni, l’uomo non è libero
di distruggere se stesso o altra creatura umana che gli
appartenga, se non quando lo imponga un motivo più nobile
della semplice sopravvivenza. Lo stato di natura è governato
da una legge di natura che è per tutti vincolante; e la ragione,
che è poi quella legge stessa, insegna a chiunque soltanto
voglia interpellarla che, essendo tutti gli uomini eguali e
indipendenti, nessuno deve ledere gli altri nella vita, nella
salute, nella libertà o nei possessi (§ 6)
John Locke, Secondo trattato sul governo
La legge naturale (…) ci dice che gli
uomini, una volta nati, hanno diritto alla
sopravvivenza, e dunque a cibo, bevanda
e a tutto ciò che la natura offre per la
loro sussistenza (§ 25)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Dio, che ha dato la terra in comune agli
uomini, ha dato loro anche la ragione,
onde se ne servissero nel modo più
vantaggioso per la vita e il benessere
loro. La terra, e tutto ciò che essa
contiene, viene data agli uomini per la
sussistenza e il piacere di vivere (§ 26)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Per quanto tutti i frutti che (la terra) naturalmente
produce e gli animali che sostenta appartengano in
comune all’umanità, essendo prodotti dalla spontanea
mano della natura, senza che nessuno ne abbia
originariamente un privato dominio a esclusione del
resto degli uomini, pure, tutto ciò è inteso all’utilità degli
uomini, dev’esserci di necessità un mezzo di
appropriarselo in un modo o nell’altro, prima che possa
essere d’un qualche vantaggio o beneficio a un singolo
individuo… (§ 28)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Benché la terra e tutte le creature inferiori siano comuni a tutti gli
uomini, ciascuno ha tuttavia la proprietà della sua persona: su questa
nessuno ha diritto alcuno al di fuori di lui. Il lavoro del suo corpo e
l’opera delle sue mani, possiamo dire, sono propriamente suoi.
Qualunque cosa dunque egli tolga dallo stato in cui natura l’ha creata
e lasciata, a essa incorpora il suo lavoro e vi intesse qualcosa che gli
appartiene, e con ciò se l’appropria. Togliendo quell’oggetto dalla
condizione comune in cui la natura lo ha posto, vi ha aggiunto col suo
lavoro qualcosa che esclude il comune diritto degli altri uomini. Tale
lavoro essendo infatti indiscutibile proprietà dellavoratore, nessun
altro che lui può avere diritto a ciò cui esso è stato incorporato, almeno
là dove avanzano, per la comune proprietà degli altri, beni sufficienti e
altrettanto buoni (§ 27)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Colui che si nutre delle ghiande raccolte ai piedi di una quercia o
dei pomi raccolti dagli alberi della foresta si è senza dubbio
appropriato quei frutti. Nessuno può negare che quel cibo sia suo.
Ora mi chiedo: in quale momento quei frutti hanno cominciato a
esser suoi? Nel momento in cui li ha digeriti? Oppure quando li ha
mangiati? O quando li ha arrosistiti? Quando se li è portati a casa,
oppure quando li ha colti? E’ chiaro che se non se li è appropriati col
primo atto del raccoglierli, con nient’altro può averlo fatto. Quel
lavoro ha fondato una distinzione fra questi beni e i beni
comuni; vi ha aggiunto più di quanto non avesse fatto la natura,
madre a tutti comune, e così sono divenuti suo diritto privato.
(§ 28)
John Locke, Secondo trattato sul governo
A ciò si obietterà forse che, se la raccolta delle bacche o di
altri frutti della terra costituisce un diritto sopra di essi,
allora chiunque può accumularne a suo piacimento. Al che
rispondo: no. La stessa legge di natura che in questo modo ci
conferisce la proprietà, vi pone pure dei limiti. “Dio ogni cosa
ci somministra copiosamente” (I Tim. VI, 17): così dice la
ragione e la rivelazione lo conferma. Ma a quale condizione?
Per il nostro godimento”. Quanto ciascuno può usare a
vantaggio della propria vita, prima che si deteriori, tanto col
suo lavoro può appropriarsi; quanto ciò eccede è più di
quanto gli spetta e appartiene ad altri…
John Locke, Secondo trattato sul governo
…Nulla Dio ha fatto perché l’uomo sciupi o distrugga.
Se si considera dunque la sovrabbondanza dei beni
naturali a lungo disponibili nel mondo e il piccolo
numero di consumatori; se si pensa a quale piccola parte
di quei beni si possa estendere l’operosità d’un sol
uomo, e quanto poco egli possa accumulare a
pregiudizio degli altri, specie se si attiene ai limiti, posti
dalla ragione, di quanto può servire al suo uso, poco
adito è dato per discussioni e contese circa la proprietà
così fondata (§ 31)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Ma principale oggetto di proprietà non sono oggi i
frutti della terra o gli animali che su di essi si
pascono, bensì la terra stessa, come cosa che tutte le
altre comprende e porta con sé. Mi sembra chiaro
che anche la proprietà della terra è acquisita allo
stesso modo. Quanto terreno un uomo zappa,
semina, migliora e coltiva, e di quanto può usare il
prodotto, tanto è di proprietà sua. Col suo lavoro egli
lo ha, per così dire, recinto dalla terra comune. (§ 32)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Né quest’appropriazione d’una parte di terra al fine
di coltivarla era di pregiudizio ad altri, poiché ve
n’era ancora a sufficienza e di altrettanto buona, più
di quanto ne potessero usare coloro che non ne erano
ancora provvisti. Così, in realtà, la recinzione fatta a
proprio vantaggio non riduceva la parte che restava
a disposizione degli altri, poiché chi lascia tanto
quanto un altro può usare è come se nulla avesse
preso (§ 33)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Non è così strano come a prima vista può
sembrare che la proprietà del lavoro potesse
contare più della comunità della terra. E’ infatti
il lavoro che crea in ogni cosa la differenza del
valore. (…) Credo si possa dire con un calcolo
ancora molto modesto che dei prodotti della terra
che servono alla sussistenza dell’uomo nove
decimi sono effetto del lavoro. (§40)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Non v’è di ciò dimostrazione più chiara di quella offerta da
diversi popoli d’America, ricchi di terra e poveri di tutti I
beni della sussistenza. La natura ha donato loro non meno
generosamente che ad altri popoli la materia prima della
ricchezza, cioè un suolo fertile, capace di produrre in
abbondanza tutto ciò che può servire per il cibo, il vestiario
e il piacere; ma, quella terra non essendo messa a frutto dal
lavoro, essi non hanno la centesima parte dei beni di cui noi
godiamo; e il sovrano d’un ampio e fertile territorio
mangia, alloggia e veste peggio d’un bracciante inglese
(§41)
John Locke, Secondo trattato sul governo
La maggior parte delle cose realmente utili alla vita dell'uomo
(…) sono in generale cose di breve durata; cose che, non
consumate, spontaneamente si guastano e perdono, mentre oro,
argento, diamanti, sono cose alle quali per arbitrio e
convenzione, più che per un'utilità reale e per la necessità della
sussistenza, è stato attribuito un valore... (§ 46).
…Così nacque l'uso del denaro, qualcosa di durevole che gli
uomini potevano conservare senza che si deteriorasse, e che
per comune consenso poteva essere preso in cambio dei veri e
propri, ma deteriorabili, beni di sussistenza (§ 47).
John Locke, Secondo trattato sul governo
E, come i diversi gradi d'industria erano capaci di dare agli
uomini ricchezze in proporzioni diverse, così l'invenzione del
denaro diede loro l'opportunità di accrescerle ed estenderle. (…)
Dove non c'è nulla che sia insieme duraturo e raro, e tanto
pregiato da essere accumulato, gli uomini non possono estendere
la loro proprietà della terra, per ricca che questa sia e facile a
prendersi: che valore potrebbero avere infatti per un uomo
diecimila, o centomila, acri di terra eccellente, bell'e coltivata e
ricca di bestiame, nel cuore delle regioni interne dell'America,
dove non ci fosse alcuna speranza di commerciare con altre parti
del mondo e guadagnare denaro con la vendita dei prodotti? (§48)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Ma, poiché oro e argento, essendo di poca utilità per la vita
dell’uomo in confronto a cibo, vestiario e mezzi, acquistano il
loro valore soltanto dal consenso degli uomini, e di questo valore
il lavoro costituisce in gran parte la misura, è evidente che gli
uomini hanno concordemente accettato che la terra fosse
posseduta in modo sproporzionato e ineguale, avendo con un
tacito e volontario consenso escogitato il modo in cui uno può
legittimamente possedere più terra di quella di cui può usare il
prodotto, ricevendo in cambio del sovrappiù or e argento che può
accumulare senza far torto a nessuno, dato che quei metalli non si
deteriorano né vanno perduti nelle mani del possessore . (§50)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Mi pare perciò assai facile comprendere come il lavoro poté
originariamente fondare il diritto alla proprietà dei comuni beni di
natura, e come il limite di quella fosse fissato dal consumo che
possiamo farne per I nostri usi. Non v’era dunque ragione di discutere
quel diritto, né v’erano dubbi quanto all’estensione della proprietà che
questo conferiva. Diritto e utilità andavano insieme, perché, avendo
diritto su tutto ciò su cui poteva esercitare il suo lavoro, un uomo non
era mai tentato di lavorare più di quello che poteva usare. Ciò escludeva
ogni contesa circa la legittimità, e ogni usurpazione dei diritti altrui: la
porzione che ogni uomo si tagliava per sé era facilmente visibile, ed era
inutile, oltre che disonesto, tagliarsi una porzione troppo grossa o
prendere più di quanto poteva servire. (§51)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Una cosa è certa, che all'inizio, prima che il desiderio di possedere
più del necessario avesse alterato l'intrinseco valore delle cose,
che dipende solo dalla loro utilità per la vita dell'uomo; prima che
si fosse convenuto che un pezzetto di metallo giallo, che si poteva
conservare senza che si deteriorasse o andasse perduto, valeva per
un grande pezzo di carne o un mucchio intero di frumento, per
quanto gli uomini avessero diritto di appropriarsi, col loro lavoro,
ciascuno per sé, tanto quanto potevano usare degli oggetti della
natura, pure ciò non poteva esser mai troppo, né recare pregiudizio
ad altri, poiché pari ricchezza avanzava per coloro che fossero
altrettanto industriosi.
John Locke, Secondo trattato sul governo
...Sebbene la legge di natura sia evidente e
intelligibile ad ogni creatura ragionevole, tuttavia
gli uomini, in quanto influenzati dai loro interessi
la ignorano per mancanza di studio, sicché
tendono a non riconoscerla come una legge che li
obblighi ad applicarla ai loro casi particolari
John Locke, Secondo trattato sul governo
…Se l'uomo nello stato di natura è così libero come si è detto, se è
padrone assoluto della propria persona e dei propri beni, pari al
più grande fra tutti e a nessuno soggetto, perché mai rinuncia alla
sua libertà ? Perché cede il suo imperio e si assoggetta al dominio
e al controllo d'un altro potere ? La risposta ovvia è che, per
quanto nello stato di natura egli possieda il diritto connesso con
quello stato, la fruizione di esso è assai incerta e continuamente
esposta alle altrui interferenze. Infatti, tutti essendo re alla stessa
stregua di lui, tutti essendo suoi pari, ed essendo per lo più poco
rispettosi dell'equità e della giustizia, il godimento della
proprietà in questo stato è per lui assai incerto, molto
insicuro...
John Locke, Secondo trattato sul governo
Ciò lo induce ad abbandonare una condizione
che, per quanto libera, è piena di rischi e di
continui pericoli: e non è senza ragione ch'egli
desidera e ambisce unirsi a una società che gli
altri abbiano costituito o abbiano in mente di
costituire per la reciproca salvaguardia della
loro vita, libertà e beni, cioè con quello che
definisco con il termine generale proprietà. (§
123)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Il grande è fondamentale intento per cui dunque gli uomini si
uniscono in Stati e si assoggettano a un governo è la salvaguardia
della loro proprietà. A tal fine lo stato di natura è per molti
rispetti inefficiente.
Vi manca in primo luogo una legge stabile, fissa e
notoria, accettata e riconosciuta per comune consenso come
criterio del giusto e dell'ingiusto e come comune misura Per
decidere di ogni controversia. Per quanto infatti la legge di natura
sia chiara e intelligibile a tutte le creature razionali, gli uomini,
traviati dall'interesse e ignari di essa per mancanza di riflessione,
non sono portati a riconoscerla come legge per loro vincolante
nell'applicazione ai loro casi particolari. (124)
John Locke, Secondo trattato sul governo
In secondo luogo, manca nello stato di natura un giudice
riconosciuto e imparziale, dotato dell'autorità di risolvere
ogni contrasto sulla base della legge istituita. Essendo infatti
in quello stato ciascuno giudice ed esecutore della legge di
natura, e gli uomini essendo parziali nei propri confronti, la
passione e lo spirito vendicativo tendono a spingerli troppo
oltre, e a infiammarli in modo eccessivo, quando si tratta di
casi propri, così come la negligenza e il disinteresse tendono
a farli noncuranti dei casi altrui. (§ 125)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Infine, nello stato di natura manca spesso il potere, atto
a sostenere e appoggiare la sentenza giusta e
renderla debitamente operante. Coloro che hanno
commessa ingiustizia raramente, potendo, si astengono
da far valere con la forza quella trasgressione; e questa
resistenza rende spesso pericolosi e talvolta fatali per
chi li compie i tentativi di punizione.(§ 126)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Nello stato di natura l'uomo ha due poteri, oltre alla libertà
di godere dei piaceri innocenti.
Il primo consiste nel fare tutto ciò che ritiene
opportuno per la conservazione sua e altrui nei limiti
consentiti dalla legge di natura. (…)
L'altro potere che un uomo ha nello stato di natura è
quello di punire i reati commessi contro la legge naturale. A
entrambi i poteri egli rinuncia quando entra in una società
politica per così dire privata o particolare e si incorpora in
uno Stato distinto da tutto il resto del genere umano.
John Locke, Secondo trattato sul governo
...Un uomo si spoglia della sua libertà naturale e accetta i vincoli
della società civile solo quando decide insieme con altri uomini di
associarsi e unirsi tutti in una comunità, per viver bene, nella
tranquillità e nella pace reciproca, assicurandosi il godimento delle
loro proprietà e una maggiore protezione contro coloro che a quella
società non appartengono. Questo può esser fatto da un gruppo di
uomini, perché non lede la libertà di tutti gli altri, che restano come
prima nell'indipendenza dello stato di natura. Quando un certo
numero di uomini in tal modo consente di istituire una comunità o
stato politico, essi vengono immediatamente associati in modo da
costituire un solo corpo politico, in cui la maggioranza ha diritto di
decretare e decidere per il resto (§ 95).
John Locke, Secondo trattato sul governo
Infatti quando un gruppo, col consenso di ciascun individuo, costituisce
una comunità, di quella comunità fa con ciò stesso un sol corpo, che ha
il diritto di deliberare come un sol corpo, cioè solo in base alla volontà e
alla decisione della maggioranza. I decreti d'una comunità non essendo
infatti se non il consenso degli individui a essa appartenenti, e, essendo
necessario che ciò che costituisce un sol corpo si muova in una sola
direzione, è indispensabile che quel corpo si muova nella direzione in
cui lo spinge la forza maggiore, e cioè il consenso della maggioranza.
Gli sarebbe altrimenti impossibile decretare e continuare a sussistere
come un sol corpo, come una sola comunità, quale consenso di ciascun
individuo a esso consociato ha convenuto che fosse; onde ciascuno è
tenuto da quel consenso ad essere determinato dalla maggioranza.
John Locke, Secondo trattato sul governo
…E' dunque inteso che chiunque, uscendo dallo stato di
natura, si unisca ad altri in una comunità, cede tutto il
potere, necessario ai fini per cui tutti si sono uniti in
società, alla maggioranza della comunità stessa, a meno
che non si sia convenuto un numero maggiore, appunto,
della maggioranza. E ciò avviene col semplice fatto di
decidere concordemente di unirsi in una sola società
politica: ecco tutto il patto che interviene, e deve
intervenire, fra gli individui che entrano a far parte d'uno
Stato o lo costituiscono…
John Locke, Secondo trattato sul governo
…Così, ciò che dà origine a una società
politica, e realmente la istituisce, non è se non
il consenso d'un certo numero di uomini liberi,
capaci d'una maggioranza, a riunirsi e
associarsi in una società siffatta. Questo e
questo soltanto ha dato e poteva dare origine a
un legittimo governo nel mondo (VIII, 99)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Avendo naturalmente in sé, come s'è dimostrato, l'intero potere della
comunità fin dal momento in cui gli uomini si uniscono in società, la
maggioranza può servirsi di tutto quel potere per fare di tanto in tanto
leggi per la comunità e renderle operanti per mezzo di funzionari da essa
stessa designati. In questo caso la forma di governo è una perfetta
democrazia. Oppure può affidare il potere di legiferare a pochi prescelti
e ai loro eredi e successori, e allora si tratta di un'oligarchia. O, ancora,
può affidarlo a uno solo, e allora è una monarchia. Se è affidato a un sol
uomo e ai suoi eredi, è una monarchia ereditaria; se a un sol uomo per
tutta la durata della sua vita, ma a condizione che alla sua morte il solo
potere di nominare un successore venga restituito alla maggioranza,
allora è una monarchia elettiva. Così con queste forme, la comunità può
creare forme di governo composite o miste, secondo che paia opportuno.
John Locke, Secondo trattato sul governo
…E, se il potere legislativo viene dapprima dato dalla
maggioranza a una o più persone per la sola durata della loro vita,
o per un periodo comunque limitato, dopo di che il supremo
potere torna di nuovo a essa, quando ciò avviene la comunità può
disporne di nuovo affidandolo a chi vuole e costituire così una
nuova forma di governo. La forma di governo dipende dalla
collocazione del potere supremo, che è il legislativo; dunque,
essendo impossibile che un potere inferiore prescriva leggi a uno
superiore, o che un potere che non sia il potere supremo legiferi,
quale è la collocazione del potere di legiferare tale è la forma dello
Stato (X, 132). .
John Locke, Secondo trattato sul governo
...Vorrei che i miei obiettori tenessero presente che i monarchi
assoluti altro non sono che uomini; e se il governo dev'essere
rimedio ai mali che necessariamente scaturiscono dal fatto che gli
uomini sono giudici di se stessi, onde lo stato di natura non può
essere a lungo accettato, mi chiedo che genere di governo sia, e in
che senso sia migliore dello stato di natura, quello in cui un sol
uomo, regnando su molti, abbia la libertà di giudicare se stesso e
possa fare ai suoi sudditi tutto quello che vuole, mentre tutti gli
altri non hanno la minima libertà di discutere o controllare coloro
che eseguono il suo volere, e qualsiasi cosa egli faccia - sia
guidato da ragione, da errore o da passione - devono obbedirgli…
John Locke, Secondo trattato sul governo
…Molto meglio lo stato di natura, in
cui gli uomini non sono costretti a
sottomettersi all'ingiusto volere di un
altr'uomo e in cui colui che giudica, se
giudica male della causa propria o
altrui, deve risponderne al resto degli
uomini .
John Locke, Secondo trattato sul governo
…Entrando in società gli uomini rinunciano all'eguaglianza, alla
libertà e al potere esecutivo di cui godevano nello stato di natura,
affidandolo alla società perché il legislativo ne disponga come
richiede il bene della società stessa. Ma, poiché ciascuno fa questo
con l'intenzione di meglio salvaguardare la propria libertà e
proprietà (ché non è mai pensabile che una creatura razionale muti
con l'intento di star peggio), è lecito aspettarsi che il potere della
società, o il legislativo costituito, non oltrepassi mai i limiti del
bene comune, ma sia tenuto ad assicurare la proprietà di ciascuno
prendendo misure contro i tre difetti sopra menzionati, che
avevano reso lo stato di natura tanto incerto e difficile.
John Locke, Secondo trattato sul governo
…Così, chiunque disponga del potere legislativo o supremo d'uno
Stato è tenuto a governare secondo leggi istituite e stabili,
promulgate e rese note al popolo, e non sulla base di decreti
estemporanei; per mezzo di giudici imparziali e retti, che devono
risolvere i conflitti in base a quelle leggi; ed è tenuto ad usare la
forza della comunità, in patria, solo per l'esecuzione di quelle
leggi; e, fuori, al fine di prevenire e risarcire offese esterne e
mettere la comunità al sicuro da scorribande ed invasioni. E tutto
ciò non dev'essere ispirato ad altro fine che la pace, la sicurezza e
il pubblico bene del popolo. (§ 131)
John Locke, Secondo trattato sul governo
Il potere legislativo, sia esso affidato a una o più persone, sia vigente
di continuo o solo a intervalli, è sì il supremo potere in ogni Stato,
ma ciò nonostante occorre considerare quanto segue:
In primo luogo, non esercita, né può assolutamente esercitare
l'arbitrio sulla vita e i beni del popolo. Non essendo infatti se non il
potere congiunto di ciascun membro della società, conferito a quella
persona o assemblea che appunto legiferano, non può essere nulla
più di quanto quelle persone possedevano nello stato di natura prima
di entrare in società e che hanno rimesso alla comunità. Nessuno
infatti può trasferire ad altri più potere di quanto non abbia, e
nessuno ha, su se stesso o su altri, un assoluto arbitrario potere di
togliersi la vita o strappare ad altri la vita o i beni...
John Locke, Secondo trattato sul governo
…Il suo potere, nella massima estensione è
comunque limitato dal criterio del pubblico bene
della società. E' un potere che non ha altro fine
che la conservazione, e non può dunque avere mai
diritto di distruggere, ridurre in schiavitù o
deliberatamente in miseria coloro che vi sono
soggetti...
John Locke, Secondo trattato sul governo
In secondo luogo, l'autorità legislativa, o autorità suprema, non può
arrogarsi il potere di governare per mezzo di estemporanei arbitrari
decreti, ma è tenuta a dispensare la giustizia e stabilire i diritti dei sudditi
con leggi promulgate e stabili e per mezzo di giudici abilitati e noti...
In terzo luogo, il potere supremo non può togliere a un uomo una parte
della sua proprietà senza il suo consenso. Infatti, la conservazione della
proprietà essendo il fine del governo e la ragione per cui gli uomini
entrano in società, è necessariamente presupposto e richiesto che il
popolo abbia una proprietà; altrimenti bisognerebbe supporre che,
entrando in società, si perda ciò che era appunto il fine in vista del quale
vi si era entrati: un'assurdità, questa, troppo grossolana perché qualcuno
la accetti...
John Locke, Secondo trattato sul governo
...E' dunque un errore pensare che il potere supremo o potere legislativo
d'uno Stato possa fare ciò che vuole e disporre arbitrariamente dei beni
dei sudditi, o prenderne una parte a suo piacimento. Questo non è un
vero pericolo nei regimi in cui il legislativo consiste, del tutto o in parte,
in assemblee che variano, i cui membri, a scioglimento avvenuto,
tornano a esser sudditi sottoposti alle leggi comuni del paese, al pari
degli altri. Ma nei regimi in cui il legislativo risiede in una sola
assemblea sempre ininterrottamente in carica, o in un sol uomo, come
nelle monarchie assolute, c'è sempre il pericolo che costoro ritengano di
avere un interesse diverso da quello del resto della comunità, e di sentirsi
dunque autorizzati ad accrescere la propria ricchezza e il proprio potere
togliendo al popolo quello che vogliono" (XI, 138).
John Locke, Secondo trattato sul governo
…In uno Stato che poggi su proprie basi e operi secondo la propria natura,
cioè per la salvaguardia della comunità, non ci può essere se non un solo
supremo potere, che è il legislativo, al quale tutti gli altri sono e devono
essere subordinati. Tuttavia, essendo il legislativo solo un potere fiduciario
inteso a certi fini, resta al popolo il supremo potere di destituire o mutare il
legislativo quando constata che esso agisce in modo contrario alla fiducia in
esso riposta. Infatti, ogni potere dato in affidamento per il conseguimento di
un fine è limitato appunto a quel fine, e ogni qualvolta quest’ultimo venga
manifestamente trascurato o calpestato, l’affidamento non può non venir
meno e il potere non ritornare nelle mani di coloro che l’hanno conferito, e
che possono di nuovo collocarlo dove credono più opportuno per la loro
sicurezza e tutela. (XI, 149).
John Locke, Secondo trattato sul governo
…Così la comunità conserva sempre il
supremo potere di difendersi dai tentativi e
disegni di chiunque, sia pure dei legislatori
quand’essi siano così stolti o malvagi da
formulare o perseguire piani contrari alla
libertà o ai beni dei sudditi. (XI, 149).
John Locke, Secondo trattato sul governo
Quando si maltratta il popolo e si calpesta il suo diritto, esso
è sempre pronto alla prima occasione a scrollarsi di dosso un
giogo che sente gravare su di sé. Sospirerà e cercherà il
momento opportuno, che, data la mutevolezza, la fragilità e la
natura fortuita delle cose umane, di rado tarda molto a venire.
(…) rivoluzioni del genere non avvengono per abusi minimi
nell'amministrazione della cosa pubblica. Grandi errori da
parte dei governanti, molte leggi sbagliate e inopportune, tutti
i cedimenti della debolezza umana saranno sopportati dal
popolo senza ribellione o manifestazioni di dissenso…
John Locke, Secondo trattato sul governo
…Ma, se una lunga serie di abusi, prevaricazioni ed
espedienti tutti intesi a una cosa sola, manifesta al popolo
una trama e mostra inequivocabilmente che cosa incombe su
di esso, in quale direzione lo si trascini, non stupisce allora
che esso si scuota e s'adoperi a porre il potere in mani capaci
di garantire i fini in vista dei quali il governo fu
originariamente istituito e senza i quali nomi antichi e
istituzioni formali non solo non sono migliori dello stato di
natura e della pura anarchia, ma sono addirittura peggiori, gli
inconvenienti essendo altrettanto gravi e pressanti e il
rimedio più remoto e difficile.
John Locke, Secondo trattato sul governo
…Chi giudicherà se il principe o il legislativo
agiscono conto il mandato ricevuto? …Sarà il
popolo a giudicare. Chi infatti potrà giudicare se
il suo delegato o deputato agisce bene, in
conformità al mandato affidatogli, se non colui
che appunto lo ha deputato e che deve per ciò
stesso avere ancora il potere di destituirlo quando
viene meno al mandato?
John Locke, Secondo trattato sul governo
…Se alcuni si ritengono lesi e pensano che il sovrano agisca
contro il mandato o al di là del mandato, chi meglio del corpo del
popolo (che appunto gli ha fin dall’inizio affidato quel mandato)
può giudicare circa l’ampiezza che intendeva dare al mandato
stesso? Ma se il sovrano, o chiunque sia incaricato
dell’amministrazione civile, rifiuta questo modo di risolvere il
conflitto, allora solo arbitro è il cielo. L’uso della forza che non
riconoscono superiori sulla terra, e in casi che non consentono
l’appello a un giudice terreno, è infatti propriamente uno stato
di guerra, il cui arbitrato solo al cielo compete; e in quello stato
la parte lesa deve giudicare per suo conto quando sia il momento
di ricorrervi e affidarvisi…
Dichiarazione d’indipendenza americana
(1776)…Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse
evidenti, che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono
stati dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra
questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità;
che allo scopo di garantire questi diritti, sono creati fra gli uomini
i Governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei
governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di Governo
tende a negare tali fini, è Diritto del Popolo modificarlo o abolirlo,
e creare un nuovo Governo, che si fondi su quei principi e che
abbia i propri poteri ordinati in quella guisa che gli sembri più
idonea al raggiungimento della sua sicurezza e felicità…
Dichiarazione d’indipendenza americana
(1776)…La prudenza, invero, consiglierà di non modificare per cause
transeunti e di poco conto Governi da lungo tempo stabiliti, e,
conformemente a ciò, l’esperienza ha dimostrato che gli uomini
sono maggiormente disposti a sopportare, finché i mali siano
sopportabili, che a farsi giustizia essi stessi abolendo quelle
forme di Governo cui sono avvezzi. Ma quando un lungo
corteo di abusi e di usurpazioni, invariabilmente diretti allo
stesso oggetto, svela il disegno di assoggettarli ad un
Dispotismo assoluto, è loro diritto, è loro dovere, di abbattere
un tale Governo, e di procurarsi nuove garanzie per la loro
sicurezza futura...
John Locke, Lettera sulla tolleranza
…La causa delle anime non può appartenere al magistrato civile,
perché tutto il suo potere consiste nella costrizione. Ma la
religione vera e salutare consiste nella fede interna dell’anima,
senza la quale nulla ha valore presso Dio. La natura
dell’intelligenza umana è tale che non può essere costretta da
nessuna forza esterna. Si confischino i beni, si tormenti il corpo
con il carcere o la tortura, tutto sarà vano, se con questi supplizi si
vuole mutare il giudizio della mente sulle cose. Occorre fare luce
perché muti una credenza dell’anima; e la luce non può essere
data in nessun modo da una pena inflitta al corpo.
Baruch Spinoza, Ethica:
Il conatus è lo «sforzo col quale ciascuna cosa si sforza di
perseverare nel suo essere». Allorché il conatus «è riferito soltanto
alla mente si chiama volontà; ma quando è riferito insieme alla
mente e al corpo si chiama appetito (appetitus). Questo, quindi,
non è altro se non l’essenza stessa dell’uomo, dalla cui natura
segue necessariamente ciò che serve alla sua conservazione, e
quindi l’uomo è determinato a farlo. Non c’è poi, nessuna
differenza tra l’appetito e il desiderio (cupiditas), tranne che il
desiderio si riferisce per lo più agli uomini in quanto sono
consapevoli del loro appetito e perciò si può definire così: il
desiderio è l’appetito con coscienza di se stesso» (III, XV)
Baruch Spinoza, Ethica:
…Libero è chi «non è guidato dalla paura della
morte, ma desidera direttamente il bene, cioè
agire, vivere, conservare il proprio essere avendo
quale fondamento la ricerca del proprio utile;
perciò a nulla pensa meno che alla morte e la sua
saggezza è meditazione della vita» (IV, P LXVII).
Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico :
…il diritto naturale è dunque determinato e
definito non da una saggia razionalità, bensì dal
proprio desiderio (cupiditas) e dalle proprie
possibilità; (…) ne segue che ogni individuo
[nello stato di natura] ha un diritto sovrano su
tutto ciò che cade sotto il suo potere, ossia che il
diritto di ciascuno si estende fin là dove giunge la
sua particolare potenza…
Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico :
Il governo democratico è «quello che più si accosta
all’ordinamento naturale e che meglio corrisponde a quella
libertà che la natura concede a ciascuno. In regime
democratico, infatti, nessun individuo aliena il proprio diritto
a favore di un altro, in modo da precludersi la facoltà di
prendere nuove decisioni; bensì aliena il suo diritto a favore
della totalità del corpo sociale di cui egli costituisce una
parte. Ed è appunto perciò che tutti gli individui restano
uguali, come lo erano prima nello stato di natura» (XVI)
Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico :
…Lo scopo di una repubblica (…) non è di convertire
in bestie gli uomini dotati di ragione o di farne degli
automi, ma al contrario di far sì che la loro mente e il
loro corpo possano con sicurezza esercitare le loro
funzioni, ed essi possano servirsi della libera ragione e
non lottino l’uno contro l’altro con odio, ira o inganno,
né si facciano trascinare da sentimenti iniqui. Il vero
fine di una repubblica è, dunque, la libertà (Cap. XX)
Voltaire, Il secolo di Luigi XIV
Si è visto che una repubblica letteraria si era insensibilmente stabilita in Europa,
nonostante le guerre, e le diversità di religione. Tutte le scienze, tutte le arti
hanno così goduto di scambievoli aiuti; le accademie han creato tale repubblica.
La letteratura ha unito l’Italia colla Russia; gl’inglesi, i tedeschi, i francesi
andavano a studiare a Leida. Il celebre medico Bourhave veniva consultato a un
tempo e dal papa e dallo zar. I suoi migliori allievi attiravano allo stesso modo
gli stranieri, e son diventati in certa guisa i medici delle nazioni: i veri
scienziati, in ogni ramo del sapere, hanno stretto i legami di quella grande
società degli spiriti, dappertutto diffusa, e dappertutto indipendente. Tale
carteggio dura ancora, ed è una delle consolazioni dei mali che l’ambizione e la
politica procurano all’umanità
Voltaire, Dizionario filosofico
Il teista è un uomo fermamente convinto dell’esistenza di un Essere supremo
altrettanto buono che potente, che ha formato tutti gli esseri estesi, vegetanti,
senzienti e pensanti; che ne perpetua la specie, ne punisce senza crudeltà le colpe e
ne ricompensa con bontà le azioni virtuose. (…) Il teista non segue alcuna setta,
consapevole che tutte si contraddicono. La sua religione è la più antica e la più
diffusa di tutte, perché la semplice adorazione d’un Dio precedette tutti i sistemi del
mondo. Egli parla una lingua che tutti i popoli capiscono, mentre essi non
s’intendono affatto tra loro. Ha fratelli da Pechino sino alla Caienna e considera
come suoi fratelli tutti gli uomini saggi. Stima che la religione non consista né nelle
opinioni d’una metafisica inintelligibile né in vani apparati, ma nell’adorazione e
nella giustizia. Fare il bene, ecco il suo culto; esser sottomesso a Dio, ecco la sua
dottrina. Il musulmano gli grida: «Guai a te se non farai il pellegrinaggio alla
Mecca!»; e il recolletto lo ammonisce: «Sventura a te se non ti rechi alla Madonna di
Loreto!». Egli ride della Mecca e di Loreto; ma soccorre il misero e difende
l’oppresso.
Encyclopédie, Voce Humanité
L’umanità è un sentimento di benevolenza
per tutti gli uomini che si accende solo in
anime grandi e sensibili. Questo nobile e
sublime entusiasmo soffre per le pene degli
altri e per il bisogno di alleviarle; vorrebbe
percorrere l’universo per abolire la
schiavitù, la superstizione, il vizio e
l’infelicità
P.T. d’Holbach, Systeme social ou principes naturels
de la morale et de la politique
L’umanità, questa virtù distintiva dell’uomo così sovente calpestata da esseri che si
dicono ragionevoli, è una branca dell’equità. Essere umano significa essere disposti a
rendere giustizia, a prestare soccorso, a fare del bene indistintamente a tutti gli individui
della specie di cui facciamo parte. Questa disposizione così lodevole è fondata sulla
ragione, l’esperienza, la riflessione che ci dimostrano che, come uomini, come esseri
sensibili e deboli che hanno bisogno ad ogni istante di soccorso, dobbiamo prestare il
nostro a tutti quelli che ne hanno bisogno, se vogliamo essere in diritto di esigere quello
dei nostri simili. È sufficiente essere uomini, per avere dei diritti sull’uomo. L’umanità è
un nodo fatto per legare invisibilmente il cittadino di Parigi a quello di Pechino. È un
patto che impegna egualmente tutti i membri della grande famiglia, di cui i differenti
popoli del mondo non sono che gli individui sparsi. Questo patto è la salvaguardia della
nostra razza; esso mette ciascuno di noi in diritto di reclamare la giustizia, la pietà, i
benefici di ogni essere sensibile, di qualunque paese, di qualunque religione, di
qualunque condizione egli sia. La guerra, la crudeltà, le conquiste, l’intolleranza, la
durezza sono cose contrarie all’umanità.
C. S. de Montesquieu, Pensieri
Se io sapessi d’una cosa utile alla mia
nazione che fosse dannosa ad un’altra
non la proporrei al mio principe, perché
io sono uomo prima d’essere Francese,
o, meglio, perché sono necessariamente
uomo, e Francese solo per caso…
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Ho dapprima studiato gli uomini e sono giunto alla
convinzione che, in quell’infinita diversità di leggi e di
costumi, essi non siano guidati esclusivamente dalle loro
fantasie. Ho posto dei principi e ho veduto i casi
particolari conformarvisi quasi spontaneamente e li ho
veduti operanti nelle storie di tutte le nazioni; ho
compreso infine come ogni legge particolare sia legata a
un’altra o dipendente da una legge più generale
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Parecchie cose governano gli uomini: il clima, la
religione, le leggi, le massime del governo, gli
esempi delle cose passate, i costumi e le maniere.
Da tutto questo risulta uno spirito generale. A
seconda che in ogni paese una di queste cause
agisce con maggior forza, le altre fanno sentire in
proporzione una forza minore…
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
La legge in generale è la ragione umana, in quanto
governa tutti i popoli della terra e le leggi politiche e
civili di ogni nazione non debbono essere che i casi
particolari in cui questa ragione umana viene applicata.
Esse debbono essere talmente adatte al popolo per cui
sono state fatte, che solo eccezionalmente le leggi di una
nazione possono convenire a un’altra; e debbono
conformarsi alla natura e al principio del governo
stabilite o che si deve stabilire…
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Esse debbono essere corrispondenti alla natura fisica
del paese; al clima gelido, torrido o temperato; alla
qualità del terreno, alla sua situazione ed estensione;
al genere di vita dei popoli, agricoli, cacciatori o
pastori, debbono esser conformi al grado di libertà
che la costituzione concede; alla religione degli
abitanti, alle loro inclinazioni, alle loro ricchezze, al
loro numero, al loro commercio, ai loro costumi, ai
loro modi di vita.
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Infine, esse hanno rapporti reciproci; ne hanno
con la loro origine, con il fine del legislatore, con
l’ordine di cose su cui si fondano. Bisogna
dunque considerarle sotto tutti questi punti di
vista. Tale è lo scopo che perseguo in questa mia
opera. Esaminerò tutti questi rapporti: essi
costituiscono nel loro insieme ciò che viene
chiamato lo spirito delle leggi.
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
La teoria delle forme di governo:
Repubblica
Democrazia Aristocrazia
Monarchia
Dispotismo
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Il governo repubblicano è quello in cui tutto il
popolo, o soltanto una parte di esso, detiene il
potere sovrano; il monarchico, quello in cui
governa uno solo, ma per mezzo di leggi fisse
e stabilite; mentre nel dispotico uno solo,
senza legge e senza regola, trascina tutto con
la sua volontà e i suoi capricci. Ecco quello
che io chiamo la natura di ogni governo…
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Fra la natura del governo e il suo
principio c’è questa differenza, che la sua
natura è ciò che lo fa essere quello che è,
e il suo principio ciò che lo fa agire. L’una
è la sua struttura particolare, e l’altro le
passioni umane che lo fanno muovere.
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Forma di governo Principio
Democrazia Virtù
Aristocrazia Moderazione
Monarchia Onore
Dispotismo Paura
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Non ci vuole molta probità perché un governo monarchico
o un governo dispotico si mantenga o si sostenga. La forza
delle leggi nell’uno, il braccio del principe sempre alzato
nell’altro, regolano e tengono a freno tutto. Ma in uno stato
popolare ci vuole una molla in più che è la VIRTU’.
(…) Gli uomini politici greci ,che vivevano in un governo
popolare, non riconoscevano altra forza che potesse
sostenerli, se non quella della Virtù. Quelli di oggi non ci
parlano che di manifatture, di commercio, di finanze, di
ricchezze e perfino di lusso.
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Quando tale virtù cessa, l’ambizione entra nei cuori che
possono riceverla, e in tutti entra l’avarizia. I desideri
cambiano oggetto; quello che si amava, non lo si ama
più; si era liberi con le leggi, si vuol essere liberi contro
di esse; ogni cittadino è come uno schiavo fuggito dalla
casa del padrone. (…) Un tempo i beni dei privati
formavano il tesoro pubblico; ma ora il tesoro pubblico
diventa il patrimonio dei privati. La repubblica è un
guscio vuoto; e la sua forza non è più che il potere di
alcuni cittadini e la licenza di tutti…
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Il governo aristocratico ha di per sé una certa forza che
la democrazia non ha. I nobili vi formano un corpo che,
per la sua prerogativa e il suo interesse privato, esprime
il popolo: basta che vi siano delle leggi, perché vengano
messe in esecuzione a tale scopo.
Ma per quanto questo corpo è altrettanto facile reprimere
gli altri, quanto è difficile reprimere se stesso. La natura
di questa costituzione è tale, che sembra mettere le stesse
persone sotto la potestà della legge , e insieme sottrarle
ad essa.
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Ora un corpo siffatto può reprimere se stesso in due
modi soltanto: mediante una grande virtù, che faccia
sì che i nobili si trovino in qualche modo uguali al
popolo, il che può formare una grande repubblica; o
mediante una virtù minore, cioè una certa
moderazione, che rende i nobili perlomeno uguali a
se stessi, il che fa la loro conservazione.
L’anima di questi governi è dunque la
moderazione…
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Il governo monarchico presuppone (…) delle
preminenze, dei ranghi e perfino una nobiltà
originaria. La natura dell’onore è di richiedere
preferenze e distinzioni; dunque, per la cosa stessa, è
al suo posto in questo governo.
L’ambizione è perniciosa in una repubblica. Produce
buoni effetti nella monarchia; dà la vita a questo
governo; e offre questo vantaggio, che in esso non è
pericolosa perché può esservi continuamente repressa.
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Si direbbe che avvenga come nel sistema dell’universo, dove una
forza allontana senza posa dal centro tutti i corpi e una forza di
gravità ve li riporta. L’onore fa muovere tutte le parti del corpo
politico, le leggi con la sua azione stessa, e accade che ognuno va
verso il bene comune, credendo di andare verso i propri interessi
particolari.
E’ vero che, da un punto di vista filosofico, è un falso onore quello
che guida tutte le parti dello Stato; ma questo falso onore è
altrettanto utile al pubblico lo sarebbe quello vero ai privati che
potessero averlo. E non è già molto obbligare gli uomini a
compiere le azioni difficili, e che richiedono forza, senza altra
ricompensa che la risonanza di quelle azioni?
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Come in una repubblica ci vuole la virtù, in
una monarchia l’onore, così in uno stato
dispotico ci vuole la PAURA: quanto alla
virtù, non vi è necessaria, e l’onore vi
sarebbe pericoloso
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
E’ vero che nelle democrazie, il popolo sembra fare ciò
che vuole: ma la libertà politica non consiste affatto nel
fare ciò che si vuole. In uno Stato, cioè in una società dove
vi sono delle leggi, la libertà può solo consistere nel fare
ciò che si deve volere, e nel non essere costretti a fare ciò
che non si deve volere. Occorre avere ben presente che
cosa sia l’indipendenza e che cosa sia la libertà. La libertà
è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono: infatti,
se un cittadino potesse fare tutto ciò che esse proibiscono,
non avrebbe più libertà, poiché anche gli altri
acquisterebbero un tale potere…
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
La libertà politica, in un cittadino, consiste in
quella tranquillità di spirito che proviene
dall’opinione nutrita da ciascuno circa la
propria sicurezza; e perché si abbia questa
libertà, occorre che il governo sia tale che un
cittadino non debba temere un altro cittadino.
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Un’esperienza di secoli mostra come qualsiasi uomo
che si trovi ad avere il potere, sia portato ad
abusarne, finché non gli vengano posti dei limiti. Chi
lo direbbe! Persino la virtù ha bisogno di limiti:
perché non si possa abusare del potere, bisogna che,
per la disposizione delle cose, il potere argini il
potere. Una costituzione può essere tale che nessuno
sia costretto a fare le cose a cui la legge non lo obbliga
e a non fare quello che la legge permette…
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Le caratteristiche dell’uomo naturale:
1) Amor di sé, ovvero un impulso costante a
preservare la propria vita;
2) Pietà, ovvero la compassione per le
sofferenze degli altri membri della stessa
specie
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Le caratteristiche dell’uomo naturale:
3) Perfettibilità, ovvero la capacità non solo
di cambiare le sue qualità essenziale, ma
anche di migliorarle;
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Le caratteristiche dell’uomo civilizzato:
Amor proprio, ovvero una preoccupazione
per se stesso, mediata dal confronto con gli
altri;
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Mettendo (…) da parte tutti i libri scientifici che ci insegnano solo a
vedere gli uomini come si son fatti, e riflettendo sulle prime più
semplici operazioni dell’anima umana, io credo di scorgervi due principi
anteriori alla ragione: di questi, uno suscita in noi vivo interesse per il
nostro benessere e la nostra conservazione, l’altro ci ispira una
ripugnanza naturale a veder morire o soffrire ogni essere sensibile e in
particolare i nostri simili. Mi pare che dal concorso e dalla
combinazione che il nostro spirito può fare di questi due principi senza
dover ricorrere a quello della socievolezza scaturiscano tutte le norme
del diritto naturale; norme che in seguito la ragione è costretta a
ristabilire su altri fondamenti, quando per i suoi successivi sviluppi, è
giunta al risultato di soffocare la natura… (Prefazione)
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
(…) Per decreto di una provvidenza molto saggia le
facoltà che [l’uomo] aveva in potenza dovevano
svilupparsi solo con le occasioni di esercitarle, perché
non lo gravassero anzitempo di un peso superfluo per
divenire inutili e tardive al momento del bisogno. Nel
solo istinto aveva tutto ciò che gli occorreva per vivere
nello stato di natura; in una ragione coltivata ha solo ciò
che gli occorre per vivere in società…
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Sembra a prima vista che gli uomini, in questo stato, non
avendo tra loro rapporti morali di nessuna specie o
doveri riconosciuti, non potessero essere né buoni né
cattivi, né avere vizi o virtù a meno di assumere questi
termini in senso fisico chiamando vizi nell’individuo le
qualità che possono ostacolare la sua conservazione e
virtù quelle che possono contribuirvi--.
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
(…) Soprattutto non finiamo col concludere con Hobbes che l’uomo, non avendo alcuna
idea di bontà, sia naturalmente cattivo, che sia vizioso perché non conosce la virtù, che
rifiuti sempre ai suoi simili dei servizi che non crede di dover loro, e che ritenendo a
ragione di aver diritto alle cose di cui ha bisogno, immagini follemente di essere il solo
padrone di tutto l’universo. Hobbes ha visto molto bene il difetto di tutte le definizioni
moderne del diritto naturale, ma le conseguenze che ricava dalla sua definizione
dimostrano che le dà un senso non meno falso di quello delle altre. Ragionando sui
principi da lui fissati questo autore doveva dire che lo stato di natura, essendo quello in
cui la cura della nostra conservazione è meno suscettibile di recar pregiudizio alla
conservazione altrui, era, di conseguenza, il più adatto alla pace, il più conveniente al
genere umano. Mentre dice precisamente il contrario per avere introdotto
inopportunamente nella cura della conservazione dell’uomo selvaggio il bisogno di
soddisfare una molteplicità di passioni che sono opera della società e che hanno reso
necessarie le leggi.
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
(…) Ma c’è un altro principio di cui Hobbes non si è accorto, un
principio che dato all’uomo per raddolcire in certe circostanze la ferocia
dell’amor proprio, o prima che questo amore nascesse, l’istinto di
conservazione, tempesta l’ardore che nutre per il suo benessere con
un’innata ripugnanza a veder soffrire il proprio simile. Non ho alcun
timore di cadere in contraddizione accordando all’uomo la sola virtù
naturale che sia stato costretto a riconoscergli il detrattore più spinto
delle virtù umane [Mandeville]. Parlo della pietà, disposizione che ben
si adatta a esseri così deboli e soggetti a tanti mali come siamo noi; virtù
tanto più universale ed utile all’uomo in quanto precede in lui qualunque
riflessione; così naturale che anche le bestie ne hanno talvolta segni
tangibili…
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
(…) E’ assolutamente certo che la pietà è un sentimento naturale, volto a
moderare in ciascun individuo l’attività dell’amor di sé contribuendo così alla
mutua conservazione dell’intera specie. La pietà ci porta a soccorrere senza
riflettere quelli che vediamo soffrire; la pietà tiene luogo, nello stato di natura,
di leggi, di costumi e di virtù, con questo vantaggio: che nessuno è tentato di
disobbedire alla sua dolce voce; la pietà distoglierà ogni selvaggio robusto, che
appena creda di poter trovare altrove il proprio cibo, dal portar via a un debole
fanciullo o a un vecchio malato quello che si è procurato con fatica; è la pietà
che, invece della massima sublime di giustizia razionale, fai agli altri ciò che
vuoi sia fatto a te, ispira a tutti gli uomini quest’altra massima di bontà naturale,
molto meno perfetta, ma forse più utile della precedente: fai il tuo bene col
minor male possibile per gli altri… (Pt. I).
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
(…) Finché gli uomini si contentarono delle loro capanne rustiche, finché si
limitarono a cucire le loro vesti di pelli con spine di vegetali o non lische di pesce, a
ornarsi di piume e conchiglie, a dipingersi il corpo con diversi colori, a perfezionare
o abbellire i loro archi e le loro frecce, a tagliare con pietre aguzze canotti da pesca
o qualche rozzo strumento musicale; in una parola, finché si dedicarono a lavori che
uno poteva fare da solo, finché praticarono arti per cui non si richiedeva il concorso
di più mani, vissero liberi, sani, buoni, felici quanto potevano esserlo per la loro
natura, continuando a godere tra loro le gioie dei rapporti indipendenti; ma nel
momento stesso in cui un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro, da quando ci si
accorse che era utile a uno solo aver provviste per due, l’uguaglianza scomparve, fu
introdotta la proprietà, il lavoro divenne necessario, e le vaste foreste si
trasformarono in campagne ridenti che dovevano essere bagnate dal sudore degli
uomini, e dove presto si videro germogliare e crescere con le messi la schiavitù e la
miseria.… (Pt. I).
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
(…) Questa grande rivoluzione nacque dall’invenzione di due arti:
la metallurgia e l’agricoltura. (…) Da quando ci fu bisogno di
uomini per fondere e forgiare il ferro, ci vollero altri uomini per
dar da mangiare a questi. Più il numero degli operai si veniva a
moltiplicare, mentre erano le mani impiegate a fornire il
sostentamento comune, senza che ci fossero meno bocche a
consumarlo; e poiché gli uni avevano bisogno di derrate in cambio
del loro ferro, gi altri scoprirono alla fine il segreto di impiegare il
ferro per moltiplicare le derrate. Ne nacquero da un lato l’aratura e
l’agricoltura, dall’altro l’arte di lavorare i metalli e di
moltiplicarne gli usi… (Parte II)).
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Il primo che, avendo cinto un terreno, pensò di
affermare: questo è mio, e trovò persone abbastanza
semplici per crederlo, fu il vero fondatore della società
civile. Quanti delitti, guerre, omicidi, quante miserie ed
orrori non avrebbe risparmiato al genere umano colui
che, strappando i pioli e colmando il fossato, avesse
gridato ai suoi simili: 'Guardatevi dall'ascoltare questo
impostore; siete perduti se dimenticate che i frutti sono
di tutti, e che la terra non è di nessuno!
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Giunte le cose a questo punto, è facile immaginare il resto. (…) Ecco tutte
le nostre facoltà sviluppate, la memoria e l’immaginazione in gioco, l’amor
proprio risvegliato, la ragione resa attiva e lo spirito portato quasi al
culmine della perfezione che può attingere. Ecco tutte le qualità naturali in
azione, la posizione sociale e la sorte di ogni uomo stabilite non solo in
base alla consistenza dei beni e alla possibilità di servire o di nuocere, ma
anche allo spirito, alla bellezza, alla forza o alla destrezza, al merito o ai
talenti, ed essendo queste qualità le sole che potevano attirare la
considerazione, bisognò
ben presto possederle o simularle. Bisognò, nel proprio interesse, mostrarsi
diversi da ciò che si era in realtà. Essere e parere diventarono due cose del
tutto diverse, e dalla distinzione scaturirono il fasto imponente, l’astuzia
ingannatrice e tutti i vizi che ne formano il corteo….
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
D’altro lato, ecco l’uomo, che prima era libero e indipendente,
assoggettato, per così dire, a tutta la natura da una quantità di nuovi
bisogni, e soprattutto assoggettato ai suoi simili di cui diventa in certo
senso schiavo, perfino quando ne diventa il padrone: ricco ha bisogno
dei loro servizi, povero ha bisogno del loro aiuto, e la mediocrità non lo
mette in grado di non farne conto. Bisogna dunque che cerchi senza
posa di cointeressarli alla sua sorte, facendo in modo che, di fatto o in
apparenza, trovino il loro utile a lavorare per il suo utile; ciò lo rende
astuto e ipocrita con gli uni, imperioso e duro con gli altri e lo costringe
ad ingannare tutti quelli di cui ha bisogno, quando non può farli temere
e quando non trova il proprio tornaconto a servirli utilmente...
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Infine l’ambizione che lo divora, l’assillo di elevare la propria
relativa fortuna, non tanto per un vero bisogno quanto per
collocarsi al di sopra degli altri, ispira a tutti gli uomini una
cupa inclinazione a nuocersi a vicenda, una segreta gelosia,
tanto più pericolosa in quanto, per fare il suo colpo con più
sicurezza si maschera spesso da benevolenza; in una parola,
concorrenza e rivalità da un lato, conflitto di interessi dall’altro,
e sempre il desiderio nascosto di fare il proprio interesse a
spese degli altri. Tutti questi mali sono il primo frutto della
proprietà e il corteo inseparabile della diseguaglianza
nascente...
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini(…) Quando i beni ereditari si furono accresciuti in numero ed estensione fino al
punto da coprire l’intero suolo e da essere tutti confinanti tra loro, gli uni non
poterono più ingrandirsi se non a spese degli altri, e quelli che non erano del
numero perché debolezza o indolenza avevano impedito che, a loro volta,
conquistassero una sostanza, diventati poveri senza aver perduto nulla in quanto,
mentre tutto mutava intorno a loro, loro soli non erano mutati, furono costretti a
ricevere o a strappare il loro sostentamento dalle mani dei ricchi; di qui
cominciarono a nascere, a seconda dei diversi caratteri degli uni e degli altri, la
dominazione e la schiavitù, o la violenza e le rapine. I ricchi dal canto loro, avevano
appena gustato il piacere di dominare quando, affrettandosi a disprezzare tutti gli
altri e servendosi degli antichi schiavi per sottometterne di nuovi, pensarono solo ad
assoggettare i loro vicini e ad asservirli; come quei lupi affamati che, se hanno
assaggiato una volta la carne umana, rifiutano ogni altro nutrimento e vogliono solo
divorare uomini..
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
(…) A questo modo, i più potenti o i più miserabili considerando
la loro forza o i loro bisogni come una specie di diritto ai beni
altrui, diritto equivalente, secondo loro, al diritto di proprietà, la
rottura dell’uguaglianza fu seguita dal più spaventoso disodine;
così, le usurpazioni dei ricchi, il brigantaggio dei poveri, le
passioni sfrenate di tutti, soffocando la pietà naturale e la voce
ancora debole della giustizia, resero gli uomini avari, ambiziosi e
malvagi. Si levò tra il diritto del più forte e quello del primo
occupante un perpetuo conflitto che andava sempre a finire in
duelli e uccisioni. La società in sul nascere fece posto al più
orribile stato di guerra...
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Privo di ragioni valide per giustificarsi e di forze sufficienti per
difendersi; capace di schiacciare agevolemente un singolo, ma
schiacciato lui stesso da torme di banditi; solo contro tutti, non
potendo unirsi, per via delle scambievoli gelosie, con i suoi pari
contro dei nemici uniti dalla speranza del comune saccheggio, il
ricco, incalzato dalla necessità, finì con l’ideare il progetto più
avveduto che mai sia venuto in mente all’uomo; di usare cioè a
proprio vantaggio le forze stesse che lo attaccavano, di fare dei
propri avversari i propri difensori, di ispirare loro altre massime e
di dar loro altre istituzioni che gli fossero favorevoli quanto il
diritto naturale gli era contrario..
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
In questa prospettiva, dopo aver esposto ai suoi vicini l’orrore di una situazione
che li armava tutti gli uni contro gli altri, che rendeva i loro possessi altrettanto
onerosi dei loro bisogni, dove nessuna condizione, né povera né ricca, offriva
sicurezza, inventò facilmente speciose ragioni per trarli ai suoi scopi.
«Uniamoci, disse, per salvaguardare i deboli dall’oppressione, tenere a freno gli
ambiziosi e garantire a ciascuno il possesso di quanto gli appartiene; stabiliamo
degli ordinamenti di giustizia e di pace a cui tutti, nessuno eccettuato, debbano
conformarsi, e che riparino in qualche modo i capricci della fortuna
sottomettendo senza distinzione il potente e il debole a doveri scambievoli. In
una parola, invece di volgere le nostre forze contro noi stessi, concentriamole in
un potere supremo che ci governi con leggi sagge, proteggendo e difendendo
tutti i membri dell’associazione, respingendo i comuni nemici e mantenendoci
in un’eterna concordia».
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uominiCi volle molto meno dell'equivalente di questo discorso per trascinar
uomini rozzi, facili a sedurre, che d'altra parte avevan troppi affari da
sbrogliar fra loro per poter fare a meno d'arbitri, e troppa avarizia ed
ambizione per poter a lungo fare a meno di padroni. Tutti corsero
incontro alle loro catene, credendo assicurarsi la libertà: perché, avendo
abbastanza ragione per sentir i vantaggi d'una costituzione politica, non
avevano abbastanza esperienza per prevederne i pericoli...Tale fu o
dovette essere l'origine della società e delle leggi, che diedero nuove
pastoie al debole e nuove forze al ricco, distrussero senza scampo la
libertà naturale, fissarono per sempre la legge della proprietà e della
disuguaglianza, d'una accorta usurpazione fecero un diritto irrevocabile,
e, per il vantaggio di qualche ambizioso, assoggettarono ormai tutto il
genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria.
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uominiE' qui l'ultimo termine della disuguaglianza, e il punto
estremo che chiude il circolo, e tocca il punto da cui siamo
partiti: qui tutti gli individui tornano uguali, perché non son
più nulla, e non avendo più i sudditi altra legge che la
volontà del padrone, né il padrone altra regola che le sue
passioni, le nozioni del bene e i principi della giustizia
svaniscono di nuovo: qui tutto ti riporta alla sola legge del
più forte, e in conseguenza a un nuovo stato di natura,
differente da quello da cui abbiamo preso le mosse, in quanto
quello era lo stato di natura nella sua purezza, e quest'ultimo
è il prodotto di un eccesso di corruzione
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Chi affronta l’impresa di dare istituzioni a un popolo
deve, per così dire, sentirsi in grado di cambiare la
natura umana; di trasformare ogni individuo, che per se
stesso è un tutto perfetto e solitario, in una parte di un
tutto più grande da cui l’individuo riceve, in qualche
modo, la vita e l’essere; di alterare la costituzione
dell’uomo per rafforzarla; di sostituire un’esistenza
parziale e morale all’esistenza fisica e indipendente che
tutti abbiamo ricevuto dalla natura.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
…Trovare una forma di associazione
(association) che protegga e difenda con tutta la
forza comune la persona e i beni di ciascun
associato, mediante la quale ognuno unendosi a
tutti non obbedisca tuttavia che a se stesso e resti
libero come prima.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Queste clausole, bene intese, si riducono tutte a
una sola: cioè l'alienazione totale di ciascun
associato, con tutti i suoi diritti, a tutta la
comunità; perché, in primo luogo, se ciascuno si
dà tutto intero, la condizione è uguale per tutti; e
se la condizione è uguale per tutti, nessuno ha
interesse a renderla onerosa per gli altri.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Di più, facendosi l'alienazione senza riserve, l'unione è
perfetta per quanto può essere, e nessun associato ha più
niente da rivendicare; perché, se restasse qualche diritto
ai singoli, non essendoci alcun superiore comune, che
potesse pronunciarsi fra loro e il pubblico, ciascuno,
essendo su qualche punto il proprio giudice,
pretenderebbe ben presto di esser tale su tutti; sicché lo
stato di natura persisterebbe, e l'occasione diverrebbe
necessariamente tirannica o vana.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Infine ciascuno, dandosi a tutti, non si dà a
nessuno; e siccome non c'è associato, sul quale
non si acquisti lo stesso diritto che gli si cede su
noi stessi, si guadagna l'equivalente intero di ciò
che si perde, e più forza per conservare ciò che si
ha.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Ciascuno di noi mette in comune la sua
persona e tutto il suo potere sotto la suprema
direzione della volontà generale; e noi,
come corpo, riceviamo ciascun membro
come parte indivisibile del tutto.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Immediatamente, in cambio della persona privata di ciascun
contraente, quest'atto di associazione produce un corpo
morale e collettivo, composto di tanti membri quanti voti ha
l'assemblea; il quale riceve da questo stesso atto la sua unità,
il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona
pubblica, che si forma così dall'unione di tutte le altre,
prendeva altra volta il nome di città e prende ora quello di
repubblica o di corpo politico, il quale è chiamato dai suoi
membri Stato, in quanto è passivo, sovrano in quanto è attivo,
potenza nei confronti coi suoi simili
J.-J. Rousseau, Il contratto socialeIn realtà ogni individuo può, come uomo, avere una volontà
particolare contraria o dissimile dalla volontà generale, che egli ha
come cittadino; il suo interesse privato può parlargli in modo del tutto
diverso dall'interesse comune; la sua esistenza assoluta, e
naturalmente indipendente, può fargli considerare ciò che deve alla
causa comune, come una contribuzione gratuita, la cui perdita
sarebbe meno dannosa agli altri, di quanto il pagamento ne sia
gravoso a lui; e considerando la persona morale, che costituisce lo
Stato come un emte di ragione, poiché questo non è un uomo, egli
godrebbe dei diritti di cittadino senza voler compiere i doveri di
suddito; ingiustizia, il cui progresso cagionerebbe la rovina del corpo
politico.
J.-J. Rousseau, Il contratto socialeAffinché dunque il patto sociale non sia una vana formula, esso
deve racchiudere tacitamente questo impegno, il quale solo può
dar forza agli altri: che chiunque rifiuterà di obbedire alla
volontà generale, vi sarà costretto da tutto il corpo; ciò non
significa altro se non che lo si costringerà ad essere libero;
perché tale è la condizione che dando ogni cittadino alla patria,
lo garantisce da ogni dipendenza personale; condizione che
forma il meccanismo e il funzionamento della macchina
politica, che sola rende legittime le obbligazioni civili, le quali
senza di ciò sarebbero assurde, tiranniche, e soggette ai più
enormi abusi.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Quando tutto il popolo delibera su tutto il popolo,
esso non considera che se stesso; e se una
relazione allora si costituisce, è dell'oggetto
intero, considerato sotto un certo aspetto, con
l'oggetto intero, considerato sotto un altro aspetto,
senza alcuna divisione del tutto. Allora l'oggetto
su cui si delibera è generale, come la volontà
deliberante. Quest'atto io chiamo una legge.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Dico dunque che la sovranità, non essendo che l'esercizio della
volontà generale, non può mai alienarsi, e che il sovrano, che non
è se non un ente collettivo, non può essere rappresentato che da
se stesso; può bensì trasmettersi il potere, ma non la volontà.
Infatti, se non è impossibile che una volontà privata si accordi su
qualche punto con la volontà generale, è impossibile almeno che
quest'accordo sia durevole e costante; perché la volontà singola
tende di sua natura alle preferenze, e la volontà generale
all'uguaglianza. E' più impossibile ancora che ci sia un garante di
tale accordo, quando pure sarebbe necessario che sempre
esistesse...
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Per la stessa ragione che la sovranità è
inalienabile, essa è indivisibile; perché o la
volontà è generale o non è tale; essa o è quella
del corpo popolare o solo d'una parte. Nel primo
caso questa volontà dichiarata è un atto di
sovranità e fa legge; nel secondo non è che una
volontà particolare...
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
La sovranità non può essere rappresentata, per la ragione
stessa che non può essere alienata; essa consiste
essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non
si rappresenta; o è se stessa, ovvero è un'altra non c'è
via di mezzo. I deputati del popolo non sono dunque, né
possono essere i suoi rappresentanti; non sono che i suoi
commissari: non possono concludere nulla in modo
definitivo. Ogni legge che il popolo in persona non
abbia ratificata, è nulla; non è una legge.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Credo di poter fissare come principio incontestabile che
solo la volontà generale può dirigere le forze dello Stato
secondo il fine della sua istituzione che è il bene
comune…
Ora, poiché la volontà tende sempre al bene dell’essere
che vuole, e la volontà particolare ha sempre per oggetto
l’interesse privato, mentre la volontà generale si propone
l’interesse comune, ne consegue che solo quest’ultima è,
o deve essere, il vero motore del corpo sociale.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Governo =
un corpo intermediario istituito tra i sudditi e il
corpo sovrano per la loro reciproca
corrispondenza, incaricato dell’esecuzione delle
leggi e del mantenimento della libertà sia civile
che politica.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Se il sovrano vuol governare, o se il magistrato
vuol dare leggi, o se i sudditi rifiutano
l’obbedienza, alla regola succede il disordine
(désordre), l’azione della forza e quella della
volontà non si accordano più, e lo Stato
dissolvendosi va così a finire nel dispotismo o
nell’anarchia .
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
L’ordine migliore e il più naturale si ha quando i più
saggi governano la moltitudine, purché si abbia la
certezza che la governeranno per il suo vantaggio e non
per il loro.
(…) Non è bene che chi fa le leggi le esegua, né che il
corpo del popolo distolga la sua attenzione dalle vedute
generali per volgerla agli oggetti particolari.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Se ci fosse un popolo di dei si governerebbe
democraticamente.
Un governo tanto perfetto non conviene agli
uomini.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Credo di poter fissare come principio incontestabile che
solo la volontà generale può dirigere le forze dello Stato
secondo il fine della sua istituzione che è il bene
comune…
Ora, poiché la volontà tende sempre al bene dell’essere
che vuole, e la volontà particolare ha sempre per oggetto
l’interesse privato, mentre la volontà generale si propone
l’interesse comune, ne consegue che solo quest’ultima è,
o deve essere, il vero motore del corpo sociale.
J.-J. Rousseau, Discorso
sull’economia politica
Non basta dire ai cittadini: «Siate buoni»; bisogna
insegnar loro ad esserlo; e l’esempio stesso, che è sotto
questo rispetto la prima lezione, non è il solo mezzo che
va impiegato: l’amore della patria è il più efficace; infatti
(…) ogni uomo è virtuoso quando la sua volontà
particolare è conforme in tutto alla volontà generale; e
noi vogliamo di buon grado ciò che vogliono quelli che
amiamo...
J.-J. Rousseau, Discorso
sull’economia politica
Volete che gli uomini siano
virtuosi? Cominciamo, dunque, col
fare in modo che amino la patria
J.-J. Rousseau, Emilio
Ogni patriota è rigido cogli stranieri: essi non sono che
uomini e non sono niente agli occhi suoi. Questo
inconveniente è inevitabile, ma è debole. L’essenziale è
di essere buoni verso quelli coi quali vivamo. Lo
Spartano all’esterno era ambizioso, avaro, iniquo, ma
nelle sue mura regnavano i disinteresse, l’equità, la
concordia…
J.-J. Rousseau, Progetto di
costituzione per la Corsica
Ogni popolo ha o deve avere un
carattere nazionale; se gli manca,
occorre cominciare col dargliene uno…
Diderot, Voce Enciclopedia
Vi sono teste ristrette, anime malnate, indifferenti alle sorti del genere
umano e talmente immerse nella loro piccola cerchia, che non sanno
veder nulla al di là dell’interesse di questa. Costoro vogliono esser
chiamati buoni cittadini, ed io sono d’accordo; purché mi consentano di
chiamarli uomini malvagi. A sentire loro, si direbbe che un’enciclopedia
ben fatta o una storia generale delle arti dovrebbe essere null’altro che un
gran manoscritto gelosamente custodito nella biblioteca del re,
inaccessibile ad occhi che non siano i suoi; libro di Stato, non di popolo.
A che scopo divulgare le conoscenze della nazione (…)? Non è forse a
ciò ch’essa deve una parte della sua superiorità sulle nazioni rivali e
circonvicine? (…) Non si rendono conto che occupano un punto solo
della terra, e vi dureranno un solo momento: e che a tale punto e
momento sacrificano la felicità dei secoli futuri e dell’intera specie…
Fenelon, Dialogues des Morts
Ogni uomo deve infinitamente di più al genere
umano, che è la grande patria, che alla patria
particolare nella quale è nato; è dunque
infinitamente più pernicioso violare la giustizia da
popolo a popolo, che da famiglia a famiglia
all’interno dello Stato. (…) Tutte le guerre sono
guerre civili; perché è sempre l’uomo che sparge
il suo sangue…
Enciclopedia, Voce Patria
Il retore poco logico, il geografo che si occupa solo della
posizione dei luoghi, e il lessicografo volgare prendono
la patria per il luogo di nascita, quale che sia; ma il
Filosofo sa che la parola viene dal latino pater, che
rappresenta un padre e dei figli e, per conseguenza,
esprime il significato che noi leghiamo a quelle di
famiglia, di società, di Stato libero, di cui siamo membri,
e le cui leggi assicurano la nostra libertà e la nostra
felicità. Non vi è patria sotto il giogo del dispotismo…
Voltaire, Dizionario filosofico, voce Patria
Una patria è un composto di più famiglie; e, come ordinariamente si
sostiene la propria famiglia per amore di sé, quando non ci sia un
interesse contrario, così si sostiene, per lo stesso amor proprio, la
nostra città o il nostro villaggio, che chiamiamo la nostra patria. (…)
Chi arde dall’ambizione di diventare edile, tribuno, pretore, console,
dittatore, protesta di amare la propria patria, ma ama solo se stesso.
Ognuno vuol essere sicuro di poter dormire tranquillo a casa sua
senza che un altro si arroghi il potere di mandarlo a dormire altrove;
ognuno vuol esser sicuro dei suoi beni e della sua vita. E, poiché
tutti nutrono gli stessi desideri, ne viene che l’interesse particolare
diventa l’interesse generale: quando facciamo voti per la repubblica,
li facciamo in realtà per noi stessi.
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino (1789)
Art. 1:
Gli uomini nascono e restano liberi ed
eguali nei diritti. Le distinzioni sociali non
possono essere fondate che sull’utilità
comune.
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino (1789)
Art. 2:
Il fine di ogni associazione politica è la
conservazione dei diritti naturali ed
imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti
sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la
resistenza all’oppressione.
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino (1789)
Art. 3:
Il principio di ogni sovranità risiede
essenzialmente nella nazione. Nessun corpo,
nessun individuo può esercitare un’autorità
che non emani espressamente da essa.
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino (1789)
Art. 4:
La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non
nuoce ad altri; così l’esercizio dei diritti naturali
di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che
assicurano agli altri membri della società il
godimento di quegli stessi diritti. Questi limiti
possono essere determinati soltanto dalla legge.
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino (1789)
Art. 5:
La legge ha il diritto di vietare solo le azioni
nocive alla società. Tutto ciò che non è
vietato dalla legge non può essere impedito,
e nessuno può essere costretto a fare ciò che
essa non ordina.
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino (1789)
Art. 6:
La legge è l’espressione della volontà
generale. Tutti i cittadini hanno il diritto
di concorrere personalmente o
attraverso i loro rappresentanti alla sua
formazione.
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino (1789)
Art. 16:
Qualsiasi società nella quale la garanzia dei
diritti non sia assicurata, e la separazione dei
poteri non sia determinata, non possiede una
costituzione.
E.-J. Sieyès, Che cos’è il Terzo
stato
Nella prima epoca «vi è un numero più o meno
considerevole di individui isolati che vogliono unirsi tra
loro. Per questo solo fatto, essi già formano una nazione:
ne hanno già tutti i diritti; non resta che esercitarli.
Questa prima epoca è caratterizzata dal gioco delle
volontà individuali. L’associazione è opera loro. Esse
sono all’origine di ogni potere».
E.-J. Sieyès, Che cos’è il Terzo
statoLa seconda epoca è caratterizzata dall’azione della volontà
comune. Gli associati vogliono dare consistenza alla loro unione;
vogliono adempierne lo scopo. Per questo si riuniscono, e si
accordano fra loro sui bisogni pubblici e sui mezzi per
provvedervi. Il potere qui appartiene alla comunità. Le volontà
individuali ne sono sempre la fonte, e ne costituiscono gli elementi
essenziali; ma considerate separatamente non avrebbero alcun
potere. Il potere risiede esclusivamente nell’insieme. La comunità
ha bisogno di una volontà comune; senza una unità di volontà essa
non arriverà mai a costituire un tutto che vuole ed agisce. E’ anche
certo che questo tutto non ha nessun diritto che non appartenga alla
volontà comune.
E.-J. Sieyès, Che cos’è il Terzo
stato
La terza epoca si distingue dalla seconda in quanto non è più
la reale volontà comune ad agire, ma una volontà comune
rappresentativa. Sono due (…) i caratteri indelebili che le
sono propri: 1° Nel corpo rappresentativo tale volontà non è
piena ed illimitata; essa rappresenta solo una parte della
grande volontà comune nazionale. 2° I delegati non la
esercitano affatto come se si trattasse di un diritto proprio, si
tratta di un diritto che appartiene ad altri; la volontà comune è
presente in loro solo a titolo di procura.
E.-J. Sieyès, Che cos’è il Terzo
stato
La Nazione esiste prima di ogni cosa, essa è
l’origine di tutto. La sua volontà è sempre
conforme alla legge, essa è la legge stessa. Prima
di essa e al di sopra di essa non c’è che il diritto
naturale.
E.-J. Sieyès, Discorso sul veto
regioLa Francia non è, e non può essere una democrazia; non deve
assolutamente divenire uno Stato federale, composto da una
moltitudine di repubbliche, unite da un qualunque legame
politico. La Francia è e deve essere un tutt’uno, sottomesso in
ogni sua parte ad una legislazione e ad una amministrazione
comuni. Poiché è evidente che cinque o sei milioni di
cittadini attivi, ripartiti in più di venticinquemila leghe
quadrate non possono assolutamente riunirsi, è certo che essi
possono aspirare solo ad un sistema legislativo per
rappresentanza.
E.-J. Sieyès, Discorso sul veto
regio…Dunque i cittadini che nominano dei rappresentanti
rinunciano e devono rinunciare a fare essi stessi
direttamente la legge: non hanno quindi nessuna volontà
personale da imporre. Ogni influenza, ogni potere
appartengono loro esclusivamente nella persona dei
mandatari. Se imponessero delle volontà questo Stato
non sarebbe rappresentativo; sarebbe uno Stato
democratico
E.-J. Sieyès
Un deputato è deputato della Nazione tutta, tutti i cittadini sono i
suoi committenti. (…) Dunque non esiste, non può esistere per un
deputato altro mandato imperativo o voto positivo, che quello
della Nazione; egli non è tenuto a tener conto dei consigli dei suoi
diretti committenti, se non nella misura in cui questi consigli
saranno conformi al voto nazionale. Questo voto dove può essere,
dove può esprimersi se non nell’ambito della stessa Assemblea
nazionale? (…) In questo caso non si tratta di compilare uno
scrutinio democratico, ma di proporre, ascoltare, accordarsi,
modificare il proprio personale parere, fino a formare una volontà
comune…
E.-J. Sieyès, Osservazioni sul rapporto del
Comitato di costituzione…Le classi infime, gli uomini più poveri, sono ben più lontani, per
intelligenza e sensibilità, dagli interessi dell’associazione, di quanto non
potessero esserlo i cittadini meno stimati degli antichi Stati liberi. Esiste
dunque fra noi una classe di uomini, cittadini di diritto, che non lo sono
di fatto. Spetta senza dubbio alla Costituzione e alle buone leggi di
ridurre il più possibile il numero degli appartenenti a questa classe. Ma è
comunque vero che vi sono uomini per altro fisicamente validi, che,
estranei a qualunque idea sociale, non sono in grado di assumere un
ruolo attivo nell’ambito della cosa pubblica. Non ci si deve permettere
di discriminarli in quanto persone, ma chi oserà trovare ingiusto che
vengano in qualche modo esclusi, non, lo ripeto, dalla protezione della
legge e dall’assistenza pubblica, ma dall’esercizio dei diritti politici?
E.-J. Sieyès, Preliminari alla costituzione
Tutti gli abitanti di un paese debbono godervi dei diritti di cittadino
passivo: tutti hanno diritto alla protezione della propria persona, della
proprietà, libertà, ecc., mentre non tutti hanno diritto di esercitare un
ruolo attivo sulla formazione dei pubblici poteri, non tutti sono
cittadini attivi. Le donne, per lo meno nella condizione attuale, i
bambini, gli stranieri, coloro che non contribuiscono minimamente a
sostenere il sistema delle pubbliche istituzioni, non devono avere
un’influenza attiva sulla cosa pubblica. Tutti possono godere dei
vantaggi della società, ma solo coloro che fanno parte del sistema
delle pubbliche istituzioni rappresentano i veri azionari della grande
impresa sociale, solo loro sono i veri cittadini attivi, i veri membri
dell’associazione
E.-J. Sieyès
Farsi/lasciarsi rappresentare è l’unica fonte della
prosperità civile… Moltiplicare gli strumenti/poteri per
soddisfare i nostri bisogni; godere di più, lavorare di
meno, questo è il naturale accrescimento della libertà
nello stato sociale. Ora, questo progresso della libertà
segue naturalmente l’istituzione del lavoro
rappresentativo
E.-J. Sieyès
Tutto è rappresentanza in uno stato sociale. Essa
è presente ovunque, nell’ordinamento privato
come nell’ordinamento pubblico; essa è la madre
dell’industria, della produzione e del commercio,
come pure di ogni progresso liberale e politico.
(…) Essa si confonde con l’essenza stessa della
vita sociale.
Martin Wight, International Theory. The Three Traditions
1) La tradizione realista: Hobbes
2) La tradizione razionalista: Grozio
3) La tradizione rivoluzionaria: Kant
Alle origini del modello «cosmopolitico»
I progetti di pace perpetua:
1) Il Grand Dessein di Enrico IV (1598);
2) William Penn, An Essay Towards the Present
and Future Peace of Europe (1693);
3) Abbè de Saint-Pierre, Projet pour rendre la
paix perpétuelle en Europe (1713);
4) Immanuel Kant, Zum ewigen Frieden (1795)
Saint-Pierre, Projet pour rendre la paix perpétuelle
en Europe (1713)
1) I sovrani che aderiscono si garantiscono
reciprocamente una sicurezza totale contro i
grandi mali delle guerre esterne e delle guerre
civili;
2) Ogni alleato contribuirà alle spese comuni
della grande alleana in proporzione alle
entrate attuali e delle spese del suo Stato;
Saint-Pierre, Projet pour rendre la paix perpétuelle
en Europe (1713)
3) Gli alleati rinunciano alla voce delle armi e
convengono di prendere la strada della conciliazione
attraverso la mediazione di un’assemblea generale
perpetua, la Dieta generale d’Europa;
4) Se la potenza condannata non ottempererà,
l’alleana si armerà e agirà contro di essa in modo
offensivo per contrastarla;
5) Queste disposizioni non possono essere modificate
se non con il consenso unanime di tutti;
I. Kant, Per la pace perpetua:
Articoli preliminari:
1. Nessun trattato di pace deve considerasi tale,
se è stato fatto con la tacita riserva di pretesti
per una guerra futura;
I. Kant, Per la pace perpetua:
Articoli preliminari:
2. Nessuno Stato indipendente (non importa se
piccolo o grande) può venire acquistato da un
altro per successione ereditaria, per via di
scambio, compera o donazione;
I. Kant, Per la pace perpetua:
Articoli preliminari:
3. Gli eserciti permanenti (miles perpetuus)
devono col tempo scomparire interamente;
I. Kant, Per la pace perpetua:
Articoli preliminari:
4. Non si devono contrarre debiti pubblici in
vista di controversie fra Stati da svolgere
all’estero;
I. Kant, Per la pace perpetua:
Articoli preliminari:
5. Nessuno Stato deve intromettersi con la
forza nella costituzione e nel governo di un
altro Stato;
I. Kant, Per la pace perpetua:
Articoli preliminari:
6. Nessuno Stato in guerra con un altro deve
permettersi atti di ostilità che renderebbero
impossibile la reciproca fiducia nella pace futura:
come, ad esempio, l’assoldare sicari ed avvelenatori,
la rottura della capitolazione, l’istigazione al
tradimento nello Stato al quale si fa la guerra, ecc…
I. Kant, Per la pace perpetua:
La guerra è (…) solo il triste mezzo necessario allo stato
di natura (dove non esiste tribunale che possa giudicare
secondo il diritto) per affermare con la forza il proprio
diritto, non potendo in tale stato esser considerata
nemico ingiusto nessuna delle due parti (perché ciò
presuppone già una sentenza giudiziaria) e decidendo
solo l’esito del combattimento (come nel cosiddetto
giudizio di Dio) da quale parte stia il diritto:
I. Kant, Per la pace perpetua:
ma tra due Stati non è concepibile una guerra punitiva
(bellum punitivum) poiché tra essi non sussiste un rapporto di
superiore ad inferiore. Ne segue che una guerra di sterminio
in cui la distruzione può colpire contemporaneamente
entrambe le parti ed ogni diritto venire soppresso, darebbe
luogo alla pace perpetua unicamente sul grande cimitero del
genere umano. Una simile guerra, e con essa l’uso dei mezzi
che vi conducono, dev’essere pertanto assolutamente vietata.
I. Kant, Per la pace perpetua:
Primo articolo definitivo:
“La costituzione civile di ogni Stato
dev’essere repubblicana”
I. Kant, Per la pace perpetua:
La costituzione fondata in primo luogo secondo i
principi della libertà dei membri di una società
(in quanto uomini), della dipendenza di tutti da
un’unica legislazione (in quanto sudditi), in terzo
luogo dell’uguaglianza di tutti (in quanto
cittadini) è quella repubblicana
I. Kant, Per la pace perpetua:
Secondo articolo definitivo:
“Il diritto internazionale deve
fondarsi su un federalismo di liberi
Stati”
I. Kant, Per la pace perpetua:
I modelli di unione internazionale:
Lo «Stato di popoli (Völkerstaat)» o
«Civitas gentium»
I. Kant, Per la pace perpetua:
«Per gli Stati, nel rapporto tra loro, è impossibile
pensare di uscire dalla condizione di della mancanza di
legge, che non contiene altro che la guerra, se non
rinunciando, esattamente come fanno i singoli individui,
alla loro libertà selvaggia (senza legge), sottomettendosi
a pubbliche leggi costrittive e formando uno Stato dei
popoli (civitas gentium), che dovrà sempre crescere, per
arrivare a comprendere finalmente tutti i popoli della
terra»
I. Kant, Per la pace perpetua:
I modelli di unione internazionale:
La «federazione di pace» o
«federazione di popoli (Völkerbund)»
I. Kant, Per la pace perpetua:
«Questa federazione non si propone la costruzione di
una potenza politica, ma semplicemente la
conservazione e la garanzia della libertà di uno Stato
preso a sé e contemporaneamente degli altri Stati
federati, senza che questi si sottomettano (come gli
individui nello stato di natura) a leggi pubbliche e alla
costrizione da esse esercitate »
I. Kant, Per la pace perpetua:
Per gli Stati che stanno tra loro in rapporto reciproco
non può esservi altra maniera razionale per uscire dallo
stato naturale senza leggi, che è soltanto stato di guerra,
se non rinunciare, come i singoli individui, alla loro
libertà selvaggia (senza leggi), consentire a leggi
pubbliche coattive e formare così uno Stato di popoli
(civitas gentium) che si estenderebbe sempre più ed
abbraccerebbe infine tutti i popoli della terra.
I. Kant, Per la pace perpetua:
Ma poiché essi, secondo la loro idea del diritto
internazionale, non vogliono ciò affatto e rigettano quindi in
ipotesi ciò che in tesi è giusto, così, in luogo dell’idea
positiva di una repubblica universale (e perché non tutto
debba andare perduto) rimane soltanto il surrogato negativo
di una lega permanente e sempre più estesa, come unico
strumento possibile che ponga al riparo dalla guerra e arresti
il torrente delle tendenze contrarie al diritto, sempre però con
il continuo pericolo che queste erompano nuovamente
I. Kant, Per la pace perpetua:
Terzo articolo definitivo:
“Il diritto cosmopolitico dev’essere
limitato alle condizioni dell’universale
ospitalità”
I. Kant, Per la pace perpetua:
…Ospitalità significa che il diritto che uno straniero ha
di non essere trattato come un nemico a causa del suo
arrivo sulla terra di un altro. Questi può mandarlo via, s
ciò non mette a repentaglio la sua vita, ma fino a quando
sta al suo posto non si deve agire verso di lui in modo
ostile. Non è un diritto di accoglienza a cui lo straniero
possa appellarsi (…) ma un diritto di visita, che spetta a
tutti gli uomini…