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Stampato dal sito www.lex24.ilsole24ore.com 1 Newsletter n. 15 - 20 aprile 2010 NEWSLETTER N. 15 - 13/19 APRILE 2010 a cura di Guida al Diritto ANTEPRIMA EDITORIALE. Diritto d’autore: editoria on line fuori dal Far West solo con il ruolo egemone del legislatore comunitario di Stefania Ciocchetti ONLINE LA SENTENZE DEL GIORNO - GIURISDIZIONE L’impugnazione è tempestiva se spedita prima dei sessanta giorni Corte di cassazione - Sezioni Unite civili - Sentenza 14 aprile 2010 n. 8830 LA SENTENZE DEL GIORNO - ESTORSIONE Condannato il figlio adulto che pretende soldi dal- la madre Corte di Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 19 aprile n. 14914 IN PRIMO PIANO - PREVIDENZA FORENSE & GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA Alfano: «stati generali deIle Casse» Codice supera il primo ostacolo di Patrizia Macciocchi a cura di Lex24 CORTE COSTITUZIONALE CASSAZIONE CIVILE - INTERROGATORIO CASSAZIONE CIVILE - RISARCIMENTO CASSAZIONE CIVILE - IMMOBILI CASSAZIONE PENALE - FAVOREGGIAMENTO CASSAZIONE PENALE - INTERCETTAZIONI CASSAZIONE PENALE - TESTIMONIANZA CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITA’ EU- ROPEE - TUTELA CONSUMATORI IN GAZZETTA OGGI AVVOCATI24 Avvocato d’affari e imprenditore insieme contro la crisi di Antonello Martinez - Avvocato, Studio Legale Martinez Novebaci IL MERITO ONLINE L’amministratore di sostegno di Nicola Corea PROFESSIONISTI24 Mediazione civile, domande alla Consob per arbitri entro il 24 maggio DOCUMENTAZIONE Da Repertorio24 Lavori parlamentari Gazzetta Ufficiale

Stampato dal sito  · Nell’antica Roma l’opera si identificava con il supporto mate ... mancato svolgimento di un’attività dipende dall’inerzia o da un rifiuto ingiustificato

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1Newsletter n. 15 ­ 20 aprile 2010

NEWSLETTER N. 15 ­ 13/19 APRILE 2010

a cura di Guida al Diritto

ANTEPRIMA

EDITORIALE.Diritto d’autore: editoria on line fuori dal FarWest solo con il ruolo egemone del legislatorecomunitariodi Stefania Ciocchetti

ONLINE

LA SENTENZE DEL GIORNO ­ GIURISDIZIONEL’impugnazione è tempestiva se spedita prima deisessanta giorni

Corte di cassazione ­ Sezioni Unite civili ­ Sentenza 14 aprile

2010 n. 8830

LA SENTENZE DEL GIORNO ­ ESTORSIONECondannato il figlio adulto che pretende soldi dal­la madreCorte di Cassazione ­ Sezione VI penale ­ Sentenza 19 aprile n.14914

IN PRIMO PIANO ­ PREVIDENZA FORENSE &GIUSTIZIA AMMINISTRATIVAAlfano: «stati generali deIle Casse» Codice superail primo ostacolodi Patrizia Macciocchi

a cura di Lex24

CORTE COSTITUZIONALE

CASSAZIONE CIVILE ­ INTERROGATORIO

CASSAZIONE CIVILE ­ RISARCIMENTO

CASSAZIONE CIVILE ­ IMMOBILI

CASSAZIONE PENALE ­ FAVOREGGIAMENTO

CASSAZIONE PENALE ­ INTERCETTAZIONI

CASSAZIONE PENALE ­ TESTIMONIANZA

CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITA’ EU­ROPEE ­ TUTELA CONSUMATORI

IN GAZZETTA OGGI

AVVOCATI24Avvocato d’affari e imprenditore insieme contro lacrisidi Antonello Martinez ­ Avvocato, Studio Legale Martinez Novebaci

IL MERITO ONLINEL’amministratore di sostegnodi Nicola Corea

PROFESSIONISTI24Mediazione civile, domande alla Consob per arbitrientro il 24 maggio

DOCUMENTAZIONE

Da Repertorio24

Lavori parlamentari

Gazzetta Ufficiale

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Newsletter n. 15 ­ 20 aprile 20102

EDITORIALE

GUIDA AL DIRITTO N. 17del 24 Aprile 2010

Diritto d’autore: editoria on line fuori dal Far Westsolo con il ruolo egemone del legislatore comunitarioDI ANDREA SIROTTI GAUDENZI ­ Avvocato e presidente del

Centro studi di diritto europeo delle tecnologie

In questi giorni la prima legge in tema di proprietà intellettualecompie trecento anni. Si tratta del Copyright Act promulgatonel 1709 dalla regina Anna d’Inghilterra ed entrato in vigore il10 aprile 1710, come ricordato anche da Giorgio Assumapresidente della Siae.

Originale coincidenza quella che vuole che i festeggiamenti peri tre secoli dell’Editto che spesso viene ritenuto il primo testonormativo completo in tema di protezione dei libri (non anco­ra considerati opere intellettuali, quanto piuttosto res corpo­rales) debba accompagnarsi con il deposito delle (corpose)motivazioni della sentenza emessa dal tribunale di Milano nel­l’ambito del caso Google, in cui l’editore del maggiore motoredi ricerca mondiale viene immolato sull’altare della tutela deidati personali.

Semplice coincidenza? I greci, che riconducevano la vita all’ar­bitrio delle tre Moire, avrebbero forse azzardato qualcosa dipiù. Tuttavia, l’antica cultura greca non prevedeva forme ditutela nei confronti della proprietà intellettuale: le opere diOmero venivano trascritte e, inevitabilmente, ogni trascrizio­ne comportava trasformazioni, manipolazioni, cambiamenti.Eppure, questo processo non veniva considerato un illecito:infatti, nella Grecia antica l’immortalità corrispondeva al ricor­do e al fatto che, dopo la morte, le nuove generazioni potes­sero continuare a emozionarsi di fronte alle liriche del Poeta, aprescindere dal fatto che il contenuto dell’opera fosse stato omeno manipolato. E così, assieme a divinità, semidei, eroi emiti, riviveva il cieco cantore della storia di Odisseo.

Nell’antica Roma l’opera si identificava con il supporto mate­riale e, pertanto, i diritti patrimoniali venivano attribuiti a chiavesse acquistato il manoscritto o lo avesse realizzato, inse­rendovi l’opera di altri. Nonostante ciò, già nella Roma repub­blicana era possibile ritenere illecite le condotte corrispon­denti al plagio. In particolare, era riconosciuto il diritto all’ine­dito, tutelato attraverso l’actio iniuriarum aestimatoria.Nel Medio Evo non erano garantiti particolari diritti. E accade­va che gli autori per tentare di proteggere il frutto dellapropria fatica si rivolgessero alle oscure forze del male. Bastiricordare una maledizione del XIII secolo riportata nello Spec­chio sassone, con cui si augurava la lebbra a chi avesse utilizza­

to il testo «in modo illecito o peccaminoso», modificandone ilcontenuto.

Solo nel secolo XV, con l’avvento della stampa a caratterimobili, si avvertì l’esigenza di riconoscere a editori (rectius,stampatori) e autori talune tutele. E, in ragione delle pressionieffettuate dalle corporazioni, si tendeva a tutelare principal­mente proprio l’editore. In piena epoca rinascimentale, siaffermò un sistema che poggiava sulla concessione dei privilegi.La stessa cosa avveniva in Francia, dove Carlo IX concesse auna Lega cattolica di editori francesi privilegi su taluni testireligiosi. Lo stesso monarca attribuì la Privilegii summa a uneditore per la stampa delle Pandette, disponendo che chiun­que avesse stampato le opere senza autorizzazione sarebbeincorso in gravi sanzioni. I privilegi (dette anche patenti) veni­vano rilasciati dal sovrano agli stampatori, assieme all’imprima­tur concesso da una forma di censura preventiva.

Il primo imprimatur di cui si ha notizia risale al 1501, quandoAlessandro VI si rivolse ad alcuni alti prelati con la bolla Intermultiplices. Nel 1515 i principi espressi dalla bolla furonoestesi a tutto il mondo cristiano, tramite l’enciclica di Leone X,Inter sollicitudines. Successivamente, lo strumento dell’impri­matur fu adottato anche dai vari sovrani europei, tranne aVenezia, dove il privilegio di stampa fu sostituito dalla licenza distampa, con una legge del 1663.

Il privilegio aveva a oggetto il diritto esclusivo di riproduzione.Incominciava quindi ad affermarsi il concetto di diritto diesclusiva, ancora oggi alla base della disciplina della proprietàintellettuale.

Nel secolo XVIII, si svilupparono le prime normative nazionaliin tema di diritto d’autore, a partire dal già citato CopyrightAct della regina Anna d’Inghilterra, fino a giungere alla disci­plina organica prevista dalle leggi francesi in tema di proprietàletteraria e artistica del 1791 e del 1793, che attribuivaespressamente all’autore la possibilità di agire in giudizio neiconfronti del contraffattore.

Sono, però, le leggi ottocentesche a dare alla disciplina deldiritto d’autore le connotazioni che la stessa presenta ancoraoggi. Infatti, in precedenza, il copyright era considerato unaistituzione di diritto positivo riconosciuto dal Sovrano comepremio temporaneo a favore dell’editore. All’autore, quindi,non veniva attribuito quel ruolo di primo piano che avrebbeacquisito nel corso degli anni. E infatti, le graziose concessioniilluministiche furono progressivamente abbandonate in tutti iPaesi dell’Europa continentale. I privilegi e gli statuti in cui idiritti venivano concessi dal sovrano di turno furono sostituitigrazie all’affermazione di una diversa coscienza. Seguendo gliinsegnamenti di Isaac René Guy Le Chapelier (uno dei princi­pali artefici della codificazione napoleonica), il diritto d’autorevenne riconosciuto come «il più sacro dei diritti», al quale siattribuiva lo status di «diritto assoluto», sino all’inquadramen­

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3Newsletter n. 15 ­ 20 aprile 2010

to dei diritti patrimoniali e morali spettanti all’autore nel genusdei «diritti naturali», riconosciuti (e non attribuiti) dall’ordina­mento statale.

Ebbene, in questo ambito, la figura dell’autore superò quelladell’editore, al quale in principio il sovrano concedeva il privi­legio di stampa. L’autore, quindi, fu collocato al centro delsistema e, non a caso, i diritti morali riconosciutigli dal legisla­tore sono ancor oggi inalienabili e imprescrittibili, a confermadell’indissolubile legame esistente tra l’artefice e la propriaopera.

Questo è il sistema che caratterizza la disciplina della proprie­tà intellettuale nel nostro Paese, grazie alle disposizioniespresse dalla legge 633/1941, ampiamente modificata nel cor­so degli ultimi anni per consentire una tutela alle opere dell’in­gegno sempre più minacciate dall’affermazione delle tecnolo­gie informatiche.

E, anzi, non deve stupire il fatto che le nuove tecnologierendano ancor più complessi i profili di responsabilità dell’edi­tore e del soggetto che svolga attività di comunicazione inrete. Si è passati, infatti, dalla percezione della rete Internetcome una sorta di novello Far West alla consapevolezza chealla «rete delle reti» possono essere applicate regole. E, così,negli ultimi anni, soprattutto sotto l’impulso del Legislatorecomunitario, sono stati adottati provvedimenti normativi intema di commercio elettronico, data protection, editoria elet­tronica, tutela della proprietà intellettuale nella cosiddettasocietà dell’informazione. In particolare, il Dlgs 70/2003 pre­vede una sorta di specifici obblighi a carico degli operatori nelsettore delle «comunicazioni elettroniche». Ebbene, a prescin­dere dalla piena equiparazione tra provider ed editore (nondisposta da alcuna norma vigente), la lettura della sentenza deltribunale penale di Milano (depositata il 12 aprile 2010) nelcaso Google non fa altro che confermare gli obblighi cui glioperatori della rete sono tenuti. In precedenza, il principio erastato affermato dal tribunale di Roma, nell’ordinanza del 15dicembre 2009 emessa nel corso nel celebre giudizio che haopposto i giganti della nuova editoria: Mediaset contro Youtu­be e Google.

SENTENZA DEL GIORNO ­ LICENZIAMENTO

L’impugnazione è tempestiva se spedita prima deisessanta giorniCorte di cassazione ­ Sezioni Unite civili ­ Sentenza 14 aprile

2010 n. 8830L’impugnazione del licenziamento spedita al datore di lavorotramite raccomandata si considera tempestiva quando l’affida­mento alla Posta avviene entro sessanta giorni dalla comunica­zione del recesso, indipendetemente dalla data di ricezione delplico. Lo hanno chiarito le sezioni Unite della Cassazione conla sentenza 8830/2010 che ha composto un contrasto esisten­

te tra i vari collegi della sezione Lavoro. L’effetto di impedi­mento della decadenza, ha spiegato il collegio, si collega alcompimento da parte del soggetto onerato dell’attività neces­saria ad avviare il procedimento di comunicazione demandatoa un servizio sottratto alla sua ingerenza, non rilevando che allavoratore sia rimessa la scelta tra più forme di comunicazio­ne.

SENTENZA DEL GIORNO ­ ESTORSIONE

Condannato il figlio adulto che pretende soldi dallamadreCorte di Cassazione ­ Sezione VI penale ­ Sentenza 19 aprile n.

14914Commette il reato di estorsione il figlio adulto che pretende soldidalla madre. La Corte di Cassazione con la sentenza n.14914 haconfermato la condanna a due anni e quattro mesi di reclusioneper estorsione e maltrattamenti in famiglia inflitta dalla Corted’Appello di Napoli a un ragazzo maggiorenne che chiedeva siste­maticamente dei soldi ai genitori, arrivando a picchiare la mammaquando gli venivano negati. Gli ermellini hanno respinto il ricorsodel giovane disoccupato che contestava nel suo caso, il mancatorispetto, da parte del padre e della madre, delle norme del codicecivile che impongono ai genitori di continuare a provvedere alsostentamento dei figli anche oltre il compimento del 18° anno dietà se sono senza lavoro. Un dovere che viene meno solo dopo laraggiunta indipendenza economica o quando esiste la prova che ilmancato svolgimento di un’attività dipende dall’inerzia o da unrifiuto ingiustificato da parte dei figli di trovarsi un’occupazione.Disposizioni che, spiega il collegio di piazza Cavour, non valgonoperò per il ricorrente, dal momento che nulla dimostra che lesomme, estorte in modo violento, fossero utilizzate per il suomantenimento. La possibilità di esibire un tale prova ­ hannospiegato i giudici ­ avrebbe fatto scattare il meno grave reato di”esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza con vio­lenza alle persone”.

PRIMO PIANO

Alfano: «stati generali deIle Casse» Codice supera ilprimo ostacolodi Patrizia Maciocchi

Roma,19 aprile 2010 ­ Giovedì 15 si è aperta a Baveno, sul lagoMaggiore la nona Conferenza nazionale della Cassa nazionaleforense, dedicata alle questioni aperte dalla riforma della pre­videnza forense, a cui nella giornata di sabato ha partecipato ilguardasigilli Angelino Alfano. Il minsitro della Giustizia nell’oc­casione ha annunciato la prossima convocazione dei presidentidelle Casse per mettere a punto il welfare dei professinisti.Nel servizio vi presentiamo il resoconto della nostra inviata

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Newsletter n. 15 ­ 20 aprile 20104

Patrizia Maciocchi dei lavori della Conferenza sulle pensionidei legali e la bozza del nuovo Codice del processo ammini­strativo approvata, in esame preliminare dal Consiglio deiministri di venerdì 16 aprile.

PREVIDENZA FORENSE

Baveno (lago Maggiore) ­ Decisamente più monotematica laseconda giornata della nona Conferenza della Cassa forense aBaveno. I lavori dei partecipanti all’incontro nazionale si sonoconcentrati soprattutto sulla riforma previdenziale. Con unadivagazione sulla riforma dello statuto della professione foren­se all’esame del Senato grazie agli interventi dei presidenti delConsiglio nazionale forense Guido Alpa e dell’Organismo uni­tario dell’avvocatura Maurizio de Tilla. «I professionisti rappre­sentano il 3,3% del comparto produttivo del Paese partecipan­do per il 12,50% al Pil nazionale. Eppure i politici sembrano piùconcentrati sull’attività d’impresa». Il presidente del Cnf Gui­do Alpa attira l’attenzione degli avvocati presenti a Bavenosull’importanza di portare a casa in tempi rapidi la riformadella professione. (segue...)(La prima giornata)

CODICE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO

Processo amministrativo, riforma ai blocchi. Il Consiglio deiministri ha infatti approvato, in esame preliminare, la bozza delDecreto legislativo per l’aggiornamento della procedura diriferimento nei giudizi amministrativi. Si tratta di un complessolavoro di riforma della materia, in attuazione della delegaconferita al Governo dall’articolo 44 della legge n. 69/2009,volta a riordinare la normativa in materia adeguandola ai mo­derni principi processuali: snellezza, concentrazione ed effetti­vità della tutela, garanzia della ragionevole durata del proces­so, piena attuazione del contraddittorio, anche con specificoriguardo all’imprescindibile fase cautelare.Il Codice approvato oggi è notevolemnte distante dalle propo­ste avanzate dalla commissione di studio nominata dal Consi­glio di Stato su delega del governo. Con grande delusione deimagistrati amministrativi, non solo non sono state previste lesezioni stralcio per smaltire gli arretrati, come era stato previ­sto dalla stessa legge delega, ma sono scomparse dal testoanche importanti novità come «l’azione di adempimento» e«l’azione di accertamento»: due misure che puntavano a farintervenire in tempi rapidi la Pubblica amministrazione met­tendola di fronte alle proprie responsabilità anche in termini dirisarcimento del danno. Le nuove norme avrebbe dovutorappresentare una «rivoluzione del processo amministrativo»,spiegano alcuni esponenti della Commissione, e invece la ri­forma «si è ridotta ad un semplice riordino della normativa».

a cura di LEX24

CORTE COSTITUZIONALE

Illegittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4­bis,D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115

I Tribunali di Catania e di Lecce (sezione distaccata di CampiSalentina), entrambi in composizione monocratica, hanno sol­levano questioni di legittimità costituzionale dell’art. 76, com­ma 4­bis, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delledisposizioni legislative e regolamentari in materia di spese digiustizia), nella parte in cui ­ avuto riguardo ai soggetti giàcondannati con sentenza definitiva per i reati di cui agli artt.416­bis del codice penale, 291­quater del d.P.R. 23 gennaio1973, n. 43 (Approvazione del testo unico delle disposizionilegislative in materia doganale), 73, limitatamente alle ipotesiaggravate ai sensi dell’art. 80, e 74, comma 1, del d.P.R. 9ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia didisciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzio­ne, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza),nonché per i reati commessi avvalendosi delle condizioni pre­viste dal predetto articolo 416­bis ovvero al fine di agevolarel’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo ­esclude la possibilità di accertare, ai fini dell’ammissione alpatrocinio a spese dello Stato, l’indisponibilità di un redditosuperiore ai limiti indicati nell’art. 76, comma 1, dello stessod.P.R. n. 115 del 2002.La Corte Costituzionale, con la sentenza del 16 aprile 2010, n.139, ha ritenuto fondate le questioni sollevate dai Tribunali dimerito e ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 76,comma 4­bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unicodelle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spe­se di giustizia), nella parte in cui, stabilendo che per i soggettigià condannati con sentenza definitiva per i reati indicati nellastessa norma il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti perl’ammissione al patrocino a spese dello Stato, non ammette laprova contraria.

Corte CostituzionaleSentenza del 16 aprile 2010, n. 139

GRATUITO PATROCINIO ­ ILLEGITTIMITA’ COSTITUZIONALEPARZIALE ­ ART. 76, COMMA 4­BIS, DPR 30.05.2002, N. 115

LA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici:

Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUA­RANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVE­STRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TE­

SAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Ales­sandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

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5Newsletter n. 15 ­ 20 aprile 2010

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma4­bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delledisposizioni legislative e regolamentari in materia di spese digiustizia), promossi dal Tribunale di Catania con ordinanza del17 luglio 2009 e dal Tribunale di Lecce (sezione distaccata diCampi Salentina) con ordinanza del 26 marzo 2009, rispettiva­mente iscritte ai nn. 299 e 301 del registro ordinanze 2009 epubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, pri­ma serie speciale, dell’anno 2009.Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio deiministri;udito nella camera di consiglio del 24 marzo 2010 il Giudicerelatore Gaetano Silvestri.Ritenuto in fatto1. ­ Il Tribunale di Catania in composizione monocratica, conordinanza del 17 luglio 2009 (r.o. n. 299 del 2009), ha solleva­to, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo e terzo comma,della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del­l’art. 76, comma 4­bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testounico delle disposizioni legislative e regolamentari in materiadi spese di giustizia), nella parte in cui ­ avuto riguardo aisoggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati di cuiagli artt. 416­bis del codice penale, 291­quater del d.P.R. 23gennaio 1973, n. 43 (Approvazione del testo unico delle dispo­sizioni legislative in materia doganale), 73, limitatamente alleipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 80, e 74, comma 1, deld.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materiadi disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, preven­zione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipenden­za), nonché per i reati commessi avvalendosi delle condizionipreviste dal predetto articolo 416­bis ovvero al fine di agevola­re l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo ­esclude la possibilità di dimostrare, ai fini dell’ammissione alpatrocinio a spese dello Stato, l’indisponibilità di un redditosuperiore ai limiti indicati nell’art. 76, comma 1, dello stessod.P.R. n. 115 del 2002.Il giudice rimettente è chiamato a valutare il reclamo propostodall’interessato, già in precedenza ammesso a fruire del patro­cinio a spese dello Stato, nei confronti del provvedimento conil quale il Tribunale di Catania, preso atto dell’esistenza a suocarico di una precedente condanna irrevocabile per il delittodi cui all’art. 416­bis cod. pen., ha disposto la revoca delbeneficio. Ciò in applicazione del comma 4­bis dell’art. 76 deltesto unico in materia di spese di giustizia, introdotto dall’art.12­ter, comma 1, lettera a), del decreto­legge 23 maggio 2008,n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), neltesto integrato dalla relativa legge di conversione (art. 1, com­ma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125).Il giudice a quo osserva, in punto di rilevanza, come la revocadell’ammissione sia stata correttamente disposta, con il prov­vedimento oggetto di reclamo, alla luce della previsione conte­nuta nell’art. 112, comma 1, lettera d), dello stesso d.P.R. n.115 del 2002, secondo cui, entro i cinque anni successivi alladefinizione del processo, il giudice provvede a revocare ilbeneficio del patrocinio a spese dello Stato nel caso constati la

mancanza, ”originaria o sopravvenuta”, delle relative condizio­ni di reddito. In particolare, anche la presunzione negativaintrodotta con il d.l. n. 92 del 2008 dovrebbe essere apprezza­ta nella valutazione sulla perdurante ammissibilità del benefi­cio.Non potrebbe essere accolta, a tale ultimo proposito, la tesiprospettata dalla difesa del reclamante, fondata sull’asserita”natura sostanziale” della norma censurata e dunque sulla suairretroattività secondo il disposto dell’art. 2 cod. pen. La leggesul patrocinio a spese dell’Erario, osserva il rimettente, impo­ne una valutazione ”dinamica” dei requisiti reddituali, e lanormativa di nuova introduzione influisce sull’accertamentodei redditi in questione.Poste tali premesse, il giudice a quo ritiene che l’introduzionedi una presunzione iuris et de iure circa il superamento delreddito compatibile con il beneficio contrasti con il dettatocostituzionale.Dopo aver richiamato, in particolare, il disposto del terzocomma dell’art. 24 Cost., il rimettente sottolinea come laCorte costituzionale abbia stabilito che la difesa dei non ab­bienti è oggetto di un interesse generale, oltre che soggettivo,tanto che non rilevano le ragioni concrete dell’indisponibilitàdi un reddito adeguato (sono citate le sentenze n. 144 del1992, n. 139 del 1998 e n. 33 del 1999). La Corte di cassazio­ne, dal canto suo, avrebbe posto in luce la particolare cogenza,nei giudizi penali, dell’interesse pubblico ad una piena esplica­zione del diritto di difesa (è richiamata la sentenza delle Sezio­ni unite penali n. 25 del 24 novembre 1999).Chiarito il rango costituzionale del diritto all’assistenza tecnicadei non abbienti, il giudice a quo rileva come la presunzioneintrodotta dal legislatore discrimini ingiustificatamente tra co­loro che siano stati condannati per i delitti indicati nella normacensurata e persone che siano state condannate per reatidiversi. La differenza di trattamento non potrebbe essere giu­stificata ”con il solo riferimento al maggior allarme socialederivante dalla commissione dei delitti” compresi nell’elencodello stesso comma 4­bis dell’art. 76. D’altra parte, se illegislatore avesse inteso semplicemente escludere i soggetti inquestione dall’accesso al beneficio, l’avrebbe esplicitamentedisposto, secondo il modello già applicato con riguardo adalcuni reati tributari (art. 91 del d.P.R. n. 115 del 2002).I principi di uguaglianza e ragionevolezza sarebbero violatianche sotto altri profili. Sarebbe ingiustificato, anzitutto, ildiverso trattamento istituito tra gli appartenenti ad associazio­ni criminali: infatti, riguardo ai componenti delle associazioni ditipo mafioso e delle associazioni finalizzate al contrabbando ditabacchi lavorati esteri, la norma censurata introduce unapresunzione generalizzata di ”abbienza”, senza distinguere aseconda del ruolo, ed in particolare tra dirigenti e semplicipartecipi; nel caso delle associazioni finalizzate al narcotraffico,invece, la citata presunzione colpisce unicamente organizzato­ri e dirigenti del sodalizio, posto il riferimento in via esclusivaal comma 1 dell’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990. Non sarebberagionevole, secondo il rimettente, una differente valutazionedel ruolo apicale in ragione delle diverse finalità perseguite dai

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Newsletter n. 15 ­ 20 aprile 20106

gruppi criminali.Del pari irragionevole sarebbe l’analogia di trattamento istitui­ta tra i partecipi di un’associazione mafiosa ed i soggetti cheabbiano ”solo” commesso un reato avvalendosi delle condi­zioni previste dall’art. 416­bis cod. pen. od al fine di agevolarel’attività di una associazione di tipo mafioso. L’estensione delmeccanismo presuntivo a soggetti non appartenenti al gruppocriminale, per quanto ad esso contigui, varrebbe a contraddirela stessa ratio dell’intervento legislativo.La normativa censurata colliderebbe anche con l’art. 24, terzocomma, Cost., con l’art. 6, comma 3, lettera c), della Conven­zione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertàfondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e con l’art.14, comma 3, lettera d), del Patto internazionale relativo aidiritti civili e politici, firmato a New York il 16 dicembre 1966,che garantiscono ai non abbienti ”la possibilità di accedere,comunque, alla difesa”.La presunzione censurata avrebbe l’effetto concreto di esclu­dere sempre, senza possibilità di eccezione, l’accesso di deter­minati soggetti al patrocinio, non già in forza della loro condi­zione di reddito, ma ”in ragione delle risultanze del certificatodel casellario giudiziale”: sarebbe inutile finanche la positivadocumentazione della concreta indisponibilità di un redditoeccedente i limiti posti dalla legge per l’accesso al beneficio.Una condanna per un reato compreso nell’elenco dei prece­denti preclusivi, specie se risalente, non sarebbe effettivamen­te significativa circa l’attuale condizione di ”abbienza” dell’inte­ressato, il quale, ad esempio, potrebbe essersi allontanatodall’ambiente criminale. Di conseguenza la norma censurata,almeno nella parte in cui non ammette il condannato a pro­durre elementi di prova utili a vincere la relativa presunzione,determinerebbe una lesione del diritto di difesa, sia con ri­guardo al terzo comma dell’art. 24 Cost., sia con riferimentoal secondo comma della stessa norma, posto che l’accesso alpatrocinio rappresenta lo strumento per il pieno ed effettivoesercizio del diritto in questione.Il rimettente esclude, da ultimo, che i dubbi circa la legittimitàdella norma oggetto di censura possano essere superati attra­verso una interpretazione ”costituzionalmente orientata”, cheneghi il carattere assoluto della presunzione ed ammetta, dun­que, la possibilità di una prova contraria. Sarebbero ostativi, intal senso, sia il tenore letterale della disposizione, sia la chiaraintenzione del legislatore (desunta, nella specie, dai lavori pre­paratori delle assemblee parlamentari, ove si legge che lanorma censurata ”prevede l’esclusione del gratuito patrocinioper i condannati” riguardo a determinati reati).2. ­ Il Tribunale di Lecce, sezione distaccata di Campi Salentina,con ordinanza del 26 marzo 2009 (r.o. n. 301 del 2009), hasollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., questione dilegittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4­bis, del d.P.R. n.115 del 2002, nella parte in cui esclude ­ con riguardo aisoggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati di cuiagli artt. 416­bis cod. pen., 291­quater del d.P.R. n. 43 del1973, 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’art.80, e 74, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, nonché per i

reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal pre­detto articolo 416­bis ovvero al fine di agevolare l’attività delleassociazioni previste dallo stesso articolo ­ che il giudice possaverificare se il richiedente l’ammissione al patrocinio a spesedello Stato abbia ricavato redditi dal reato pregresso, e se taliredditi perman gano, in misura superiore a quella fissata perl’accesso al patrocinio, nell’anno antecedente alla presentazio­ne dell’istanza.Il giudice a quo deve provvedere sulla richiesta dell’imputato diessere ammesso al patrocinio a spese dello Stato, e rileva chel’interessato è stato condannato con pronuncia irrevocabileper il delitto di associazione di tipo mafioso. Tale precedente,pur ricorrendo tutti gli ulteriori presupposti per l’accoglimen­to, imporrebbe il rigetto della domanda.La norma censurata, secondo il rimettente, introduce unapresunzione avente ad oggetto l’esistenza, l’ammontare e ladurevolezza del reddito (pur illecito) prodotto da determinatidelitti. Detta presunzione sarebbe assoluta, producendo glistessi effetti di una diretta esclusione dal beneficio dei condan­nati per i reati in questione, così da elevare a prova insuperabi­le di ”abbienza” una ”norma di esperienza relativa” che, cometale, dovrebbe invece essere sottoposta alla verifica del casoconcreto.La regola di prova introdotta dal legislatore violerebbe il prin­cipio di uguaglianza sotto molteplici profili, proprio in quantofondata su una presunzione irragionevole. I delitti associativisono puniti anche quando non sia stato commesso alcun reatodi attuazione del programma. Non ogni reato produce neces­sariamente un profitto e, comunque, non sempre i profitticonseguiti in ambito associativo vengono distribuiti fra tutti icomponenti del gruppo criminale. Non potrebbe essere stabi­lito in via presuntiva, inoltre, che il reddito (illecito) consegui­to al reato superi per quantità la soglia fissata per l’accesso alpatrocinio. In ogni caso, dovrebbe essere dimostrata la dispo­nibilità del reddito in questione nell’anno fiscale antecedentealla domanda, e la presunzione diverrebbe tanto più irragione­vole quanto più lontani nel tempo risultino i fatti accertati conla sentenza di condanna (nel caso di specie, i fatti stessi risalgono a circa nove anni prima della domanda proposta nelgiudizio a quo).La disposizione censurata, in definitiva, comporterebbe unaillegittima discriminazione tra i condannati per determinatireati e gli ulteriori instanti per l’ammissione al patrocinio aspese dello Stato, e produrrebbe, per i primi, una ingiustificatacompressione del diritto di difesa.3. ­ Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato edifeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nelgiudizio introdotto con l’ordinanza r.o. n. 301 del 2009, me­diante atto depositato in data 5 gennaio 2010, chiedendo chela questione sia dichiarata infondata.L’applicazione della norma censurata presuppone, infatti, chela colpevolezza dell’interessato per i reati in essa indicati siastata accertata con sentenza irrevocabile. D’altro canto, lapresunzione circa la disponibilità di redditi incompatibili conl’accesso al beneficio ­ presunzione effettivamente insuperabi­

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le ­ sarebbe fondata su una ”consolidata massima di esperien­za”, che documenta l’enormità dei profitti prodotti dal crimineorganizzato. Il ricorso a meccanismi presuntivi sarebbe impo­sto proprio dal carattere illecito, e dunque clandestino, deiredditi in discussione.Secondo la difesa erariale, la discrezionalità legislativa trova illimite della ragionevolezza e non quello della ”certezza” delleconseguenze che vengono tratte da una determinata premes­sa. Sarebbe ingiustificato l’accollo da parte dello Stato deglioneri pertinenti alla difesa di soggetti la cui condizione di non”abbienza” appaia tale solo in forza dell’occultamento del pa­trimonio posseduto. La necessità di evitare questo effetto, cherisulterebbe ”odioso al comune sentire dei cittadini”, giustifi­cherebbe ”il rischio che, in qualche sporadico caso, il reatocommesso non abbia reso, in termini economici, i profitticonsueti”.Sarebbe anche ragionevole, sempre a parere dell’Avvocaturagenerale, la presunzione che i profitti ricavati dalle attivitàcriminali indicate si risolvano ”per molti anni” in redditi supe­riori ai limiti fissati per l’accesso al patrocinio, il che rendereb­be irrilevante la questione del tempo intercorso tra la condan­na e la successiva istanza di ammissione.La normativa censurata, in realtà, sarebbe inserita in un piùgenerale contesto di accentuata severità nel trattamento direati ad elevato allarme sociale, anche sul piano delle regoleprocessuali e dell’ordinamento penitenziario, in una logica di”doppio binario” la cui ammissibilità sarebbe stata asseveratatanto dalla Corte costituzionale che dalla Corte europea deidiritti dell’uomo.

Considerato in diritto1. ­ I Tribunali di Catania e di Lecce (sezione distaccata diCampi Salentina), entrambi in composizione monocratica, sol­levano questioni di legittimità costituzionale dell’art. 76, com­ma 4­bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delledisposizioni legislative e regolamentari in materia di spese digiustizia), nella parte in cui ­ avuto riguardo ai soggetti giàcondannati con sentenza definitiva per i reati di cui agli artt.416­bis del codice penale, 291­quater del d.P.R. 23 gennaio1973, n. 43 (Approvazione del testo unico delle disposizionilegislative in materia doganale), 73, limitatamente alle ipotesiaggravate ai sensi dell’art. 80, e 74, comma 1, del d.P.R. 9ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia didisciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzio­ne, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza),nonché per i reati commessi avvalendosi delle condizioni pre­viste dal predetto articolo 416­bis ovvero al fine di agevolarel’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo ­esclude la possibilità di accertare, ai fini dell’ammissione alpatrocinio a spese dello Stato, l’indisponibilità di un redditosuperiore ai limiti indicati nell’art. 76, comma 1, dello stessod.P.R. n. 115 del 2002.1.1. ­ Secondo il Tribunale di Catania la norma censurata ­stabilendo con presunzione assoluta che il reddito del condan­nato ”si ritiene” superiore ai limiti fissati per l’accesso al

patrocinio ­ contrasterebbe con l’art. 3 della Costituzione,anzitutto per la difformità di trattamento istituita, senza giusti­ficazione, tra i soggetti condannati per reati indicati nella stes­sa norma e quelli condannati per reati diversi, ma di gravitàcomparabile. Sarebbero inoltre discriminati tra loro gli appar­tenenti con ruoli non apicali ad associazioni criminose, sul solopresupposto delle differenti finalità perseguite dalle rispettiveorganizzazioni e della conseguente, diversa qualificazione giuri­dica. Nello stesso tempo, la norma censurata assimilerebbe,senza alcuna giustificazione, i soggetti appartenenti ad associa­zioni di tipo mafioso e quelli che, pur avendo agito per favoriredette associazioni oppure avvalendosi del le connesse capacitàdi intimidazione, non siano stati partecipi delle relative orga­nizzazioni criminali.Il Tribunale di Catania prospetta anche una violazione delsecondo comma dell’art. 24 Cost., nonché del terzo commadella medesima norma, evocato unitamente all’art. 6, comma3, lettera c), della Convenzione per la salvaguardia dei dirittidell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4novembre 1950, ed all’art. 14, comma 3, lettera d), del Pattointernazionale relativo ai diritti civili e politici, firmato a NewYork il 16 dicembre 1966. La norma censurata, in particolare,eluderebbe il diritto all’assistenza gratuita ed al pieno eserciziodella difesa con riferimento a soggetti che, pur avendo inprecedenza commesso un reato incluso nell’elenco contenutonella norma stessa, non dispongano di un reddito adeguato.In ragione dei vizi denunciati, secondo il Tribunale, il comma4­bis dell’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002 dovrebbe esseredichiarato illegittimo nella parte in cui non consente al richie­dente, il quale sia stato in precedenza condannato con riguar­do ad un reato ”ostativo”, di provare la mancata percezione diun reddito superiore ai limiti fissati nel primo comma dellostesso art. 76.1.2. ­ Il Tribunale di Lecce (sezione distaccata di Campi Salenti­na) prospetta una violazione dell’art. 3 Cost. per l’asseritairragionevolezza della presunzione sottesa alla norma oggettodi censura, che accredita all’interessato, per l’anno fiscale ante­cedente alla sua istanza di patrocinio a spese dello Stato, unreddito superiore ai limiti di accesso. Ciò sebbene l’intervenu­ta condanna possa riguardare un reato non necessariamenteproduttivo di profitti nella misura indicata, o comunque nonproduttivo di redditi tali da legittimare la stessa presunzione aprescindere dal tempo intercorso tra il fatto criminoso el’epoca di presentazione dell’istanza.Secondo il rimettente, il denunciato contrasto con la Costitu­zione dovrebbe essere rimosso dichiarando illegittima la nor­ma censurata nella parte in cui non consente al giudice diverificare se il reato cui si riferisce la condanna ”ostativa”abbia davvero prodotto, con specifico riguardo all’anno ante­cedente alla richiesta del patrocinio, un reddito superiore ailimiti per l’accesso al beneficio.2. ­ Le ordinanze di rimessione riguardano la stessa norma, epongono questioni analoghe, di talché, al fine di una trattazio­ne unitaria, è opportuna la riunione dei relativi procedimenti.3. ­ Le questioni sono fondate, nei termini di seguito specifica­

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ti.3.1. ­ Preliminarmente occorre rilevare che la norma censura­ta contiene una presunzione di possesso di un reddito supe­riore a quello minimo previsto dalla legge, che, se ritenutaassoluta, non ammette la prova del contrario e rende pertan­to inutili ed irrilevanti eventuali indagini del giudice, volte adaccertare le effettive condizioni economiche dell’imputato.Che si tratti di presunzione iuris et de iure emerge conchiarezza dal dato testuale della disposizione in oggetto: per isoggetti in essa indicati ”il reddito si ritiene superiore ai limitiprevisti”. Non sono stabiliti, nella norma in questione, condi­zioni e metodi per svolgere accertamenti, facoltativi od obbli­gatori, sul reddito del richiedente, ma si indica, con l’usoperentorio del presente indicativo, la conclusione cui il giudicedeve pervenire, in base al semplice accertamento che l’impu­tato sia stato condannato con sentenza definitiva per uno deireati elencati nella norma stessa. Si tratta, non senza qualcheeccezione, di reati collegati alle associazioni a delinquere distampo mafioso, alle associazioni finalizzate al narcotraffico edal contrabbando di tabacchi lavorati esteri.L’intento del legislatore è quello di evitare che soggetti inpossesso di ingenti ricchezze, acquisite con le attività delittuo­se appena indicate, possano paradossalmente fruire del benefi­cio dell’accesso al patrocinio a spese dello Stato, riservato, perdettato costituzionale (art. 24, terzo comma), ai ”non abbien­ti”. Tale eventualità è resa più concreta dall’estrema difficoltàdi accertare in modo oggettivo il reddito proveniente dalleattività delittuose della criminalità organizzata, a causa dellemaggiori possibilità, per i partecipi delle relative associazioni,di avvalersi di coperture soggettive e di strumenti di occulta­mento delle somme di denaro e dei beni accumulati.La stessa difesa dello Stato, che pur chiede il rigetto dellaquestione, ammette il carattere insuperabile della preclusionedi ogni accertamento nel caso concreto, derivante dalla naturaassoluta della presunzione.L’interesse dei soggetti non abbienti che potrebbero restareprivi della garanzia di un pieno esercizio del diritto di difesa,sacrificato secondo l’Avvocatura dello Stato in casi ”sporadi­ci”, costituirebbe una sorta di bene cedevole nel bilanciamen­to necessario al fine di evitare un effetto ”odioso al comunesentire dei cittadini”, consistente nel pubblico impegno per ladifesa di persone, responsabili di gravi reati, che solo apparen­temente versano in una situazione di povertà.3.2. ­ Accertato che la disposizione censurata contiene unapresunzione assoluta ­ presupposto sul quale i rimettentiescludono la possibilità di una interpretazione costituzional­mente orientata ­ occorre mettere a confronto la norma in sée per sé considerata, la sua ratio, come prima identificata, e lenorme costituzionali invocate come parametri, vale a dire gliartt. 3 e 24, secondo e terzo comma, Cost.4. ­ Questa Corte ha precisato che le presunzioni assolute,specie quando limitano un diritto fondamentale della persona,violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazio­nali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati,riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit (senten­

ze n. 139 del 1982, n. 333 del 1991, n. 225 del 2008). Inparticolare, è stato posto in rilievo che l’irragionevolezza dellapresunzione assoluta si può cogliere tutte le volte in cui sia”agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari allageneralizzazione posta a base della presunzione stessa (sen­tenza n. 41 del 1999).4.1. ­ Nel caso di specie, occorre porsi la domanda se sia”agevole” formulare ipotesi in cui il reddito, superiore a quellominimo previsto dalla legge per accedere al gratuito patrocino,non sia nella effettiva disponibilità del soggetto richiedente,con la conseguenza che lo stesso si trovi nella impossibilità diassicurarsi un’adeguata difesa fiduciaria.Occorre premettere, al fine indicato, che l’elenco di cui alcomma 4­bis dell’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002 comprendeanche reati non necessariamente riferibili, nella prospettiva delsingolo autore, ad un contesto di criminalità organizzata. E’ ilcaso, ad esempio, di alcune ipotesi aggravate di illecita deten­zione di sostanze stupefacenti, che sono appunto compresetra le fattispecie ostative ma non sono per se stesse significati­ve di una stabile dedizione ad attività criminali particolarmentelucrose.Ad ogni modo, pur se riguardata nella sua dimensione preva­lente di norma relativa al crimine organizzato, la disposizionecensurata non si sottrae ad un giudizio di irragionevolezza, peril carattere assoluto della presunzione introdotta.Una prima conclusione in tal senso emerge dal dato, di comu­ne esperienza e avvalorato dalla giurisprudenza ordinaria, se­condo cui esiste una sensibile differenza tra la posizione ed ilreddito dei capi delle associazioni criminali e la cosiddettamanovalanza del crimine, spesso compensata con somme discarsa entità, che non consentono disponibilità economiche diconsistenza tale da procurare ai percettori risorse adeguate aprovvedere alla loro difesa in eventuali futuri processi.A questo proposito vengono in rilevo due considerazioni, chesi combinano nella valutazione sulla legittimità costituzionaledella norma censurata.La prima è relativa alla illimitata durata nel tempo della preclu­sione all’accertamento dell’effettiva situazione economica deisoggetti che richiedono l’ammissione al patrocinio a spesedello Stato. La indistinta assimilazione di capi e gregari delleassociazioni criminali ha l’effetto di applicare una misura egualea situazioni che possono essere ­ e sono, nell’esperienza con­creta ­ fortemente differenziate. La conseguenza è che, purpotendosi agevolmente ipotizzare casi di ”non abbienza” per isemplici partecipi delle organizzazioni criminali, questi ultimisubiscono lo stesso trattamento dei loro capi, che dalle attivitàdelittuose hanno tratto ingenti profitti, tali da assicurare di­sponibilità finanziarie per un più lungo periodo. La presunzioneassoluta, nei casi indicati, produce l’effetto sostanziale di unaimpropria sanzione, per il fatto di appartenere o di essereappartenuto a d una organizzazione criminale, consistentenella limitazione indiscriminata nell’esercizio di un diritto fon­damentale come quello di difesa.Il legislatore mostra di essere consapevole della difficoltà diuna completa assimilazione nel trattamento dei membri di

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un’organizzazione criminale, ed esclude che la presunzionecolpisca anche i meri partecipi delle associazioni dedite alnarcotraffico. Tutta da dimostrare rimane tuttavia una miglio­re, generalizzata situazione patrimoniale dei meri partecipi adassociazioni di tipo mafioso o dedite al contrabbando di tabac­chi.La seconda considerazione che si impone è quella relativaall’irrilevanza, ai fini della norma censurata, dei percorsi indivi­duali successivi alla condanna definitiva per uno dei reati, chepuò essere molto risalente nel tempo ­ come nel caso delrimettente Tribunale di Lecce ­ senza che abbia rilievo uneventuale, accertato allontanamento del soggetto instante dalcontesto criminale di maturazione del fatto.Giova sottolineare che la presunzione assoluta opera perl’assistenza difensiva necessaria in processi aventi ad oggettoqualunque tipo di reato, anche del tutto eterogeneo rispettoalle attività della criminalità organizzata, con la conseguenzache non acquista alcun rilievo una eventuale estraneazionedalle associazioni criminali indicate nella norma. In casi delgenere la regola presuntiva non trova conferma neppure nelpossibile valore sintomatico della nuova imputazione, che d’al­tronde consisterebbe in un’accusa non ancora comprovata.La presunzione in esame, estesa a tutti reati e senza limite ditempo, impedisce che si possa tener conto di un eventualepercorso di emancipazione dai vincoli dell’organizzazione cri­minale, perfino nell’ipotesi in cui il soggetto sia imputato di unreato, anche colposo, che nulla abbia a che fare con la crimina­lità organizzata. E’ agevole ipotizzare la situazione di disagiopersonale, economico e sociale, di chi, partecipe di una asso­ciazione di stampo mafioso, tenti il reinserimento nella socie­tà, incontri difficoltà a trovare lavoro e sconti, in vari campidella vita di relazione, la sua pregressa appartenenza e si trovicoinvolto in procedimenti penali, nei quali non possa esercita­re una difesa adeguata ­ proprio per dimostrare la sua estra­neità al crimine ­ a causa di una reale condizione di indigenza, ilcui accertamento è precluso al giudice dalla norma censurata.A tutto ciò si deve aggiungere che tale norma esplica i proprieffetti non soltanto quando il condannato sia chiamato a difen­dersi in un nuovo procedimento penale, ma anche nel caso delsuo coinvolgimento in un processo civile, amministrativo, con­tabile o tributario, e dunque in situazioni prive del minimosignificato, di natura anche soltanto indiziaria, circa l’attualità diun comportamento criminale.4.2. ­ Finanche l’ottenuta riabilitazione non inciderebbe sul­l’esclusione perpetua dall’accesso al patrocinio a spese delloStato. L’art. 178 cod. pen. stabilisce infatti che la riabilitazioneestingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale dellacondanna. Tuttavia la giurisprudenza di legittimità ha chiaritoche componente essenziale dell’effetto penale è la naturasanzionatoria dello stesso (Cass., Sezioni unite penali, senten­za 20 aprile 1994, n. 7); tale componente non sussiste nel­l’esclusione dal patrocinio, che trova la sua ratio, come giàdetto, nella presunzione che il soggetto condannato per reaticollegati alla criminalità organizzata abbia lucrato dalla suaattività delittuosa in misura tale da renderlo privo del requisito

del reddito inferiore al minimo stabilito dalla legge. Sarebbedel resto palesemente abnorme configurare come sanzioneuna compressione del diritto di di fesa, per l’evidente assurditàdi diminuire, per effetto di una condanna in sede penale, lapossibilità di difendersi da successive azioni penali.In sintesi, la norma censurata imprime sui soggetti in essaindicati uno stigma permanente e incancellabile, che incide,comprimendolo, sul diritto fondamentale di difesa, così comeconfigurato dall’art. 24, secondo e terzo comma, Cost.5. ­ Alle considerazioni di cui sopra si deve aggiungere il rilievoche il terzo comma dell’art. 24 Cost. contiene una prescrizio­ne generale e incondizionata, che integra e completa quella delsecondo comma, con l’effetto che l’accesso al patrocinio aspese dello Stato può essere diversamente regolato per i nonabbienti solo in presenza di altri principi costituzionali dasalvaguardare, per garantire la tutela di beni individuali o col­lettivi di pari meritevolezza. Questi ultimi, in ogni caso, nonpossono incidere sul pieno esercizio del diritto di difesa (l’am­missione al patrocinio a spese dello Stato comporta com’ènoto, oltre alla facoltà di scegliere un difensore di fiducia, lapossibilità del ricorso a consulenti ed investigatori privati, edun più favorevole regime per quanto attiene alle spese proces­suali).Non occorre spendere molte parole per ricordare quantol’attività delittuosa della criminalità organizzata provochi gravilesioni dei diritti fondamentali dei cittadini e incida negativa­mente sulle condizioni di vita democratica e civile di interecomunità, determinando, di contro, cospicui arricchimenti pergli associati. Su questi presupposti sociali, il legislatore ben puòintrodurre discipline particolari, anche nella fruizione di dirittifondamentali, che tuttavia non possono mai risolversi nellapratica vanificazione degli stessi.Nel caso di specie, non può ritenersi irragionevole che, sullabase della comune esperienza, il legislatore presuma che l’ap­partenente ad una organizzazione criminale, come quelle indi­cate nella norma censurata, abbia tratto dalla sua attività delit­tuosa profitti sufficienti ad escluderlo in permanenza dal bene­ficio del patrocinio a spese dello Stato. Ciò che contrasta con iprincipi costituzionali è il carattere assoluto di tale presunzio­ne, che determina una esclusione irrimediabile, in violazionedegli artt. 3 e 24, secondo e terzo comma, Cost. Si devequindi ritenere che la norma censurata sia costituzionalmenteillegittima nella parte in cui non ammette la prova contraria.6. ­ L’introduzione, costituzionalmente obbligata, della provacontraria, non elimina dall’ordinamento la presunzione previ­sta dal legislatore, che continua dunque ad implicare una inver­sione dell’onere di documentare la ricorrenza dei presuppostireddituali per l’accesso al patrocinio. Spetterà al richiedentedimostrare, con allegazioni adeguate, il suo stato di ”nonabbienza”, e spetterà al giudice verificare l’attendibilità di taliallegazioni, avvalendosi di ogni necessario strumento di indagi­ne.Certamente non potrà essere ritenuta sufficiente una sempli­ce auto­certificazione dell’interessato, peraltro richiesta a tutticoloro che formulano istanza di accesso al beneficio, poiché

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essa non potrà essere considerata ”prova contraria”, idonea asuperare la presunzione stabilita dalla legge. Sarà necessario,viceversa, che vengano indicati e documentati concreti ele­menti di fatto, dai quali possa desumersi in modo chiaro eunivoco l’effettiva situazione economico­patrimoniale dell’im­putato.Rispetto a tali elementi di prova, il giudice avrà l’obbligo dicondurre una valutazione rigorosa e allo scopo potrà certa­mente avvalersi degli strumenti di verifica che la legge mette asua disposizione, anche di quelli, particolarmente penetranti,indicati all’art. 96, comma 3, del d.P.R. n. 115 del 2002. La ratiodella relativa previsione ­ che concerne le richieste di accessoal patrocino a spese dello Stato da parte degli imputati peruno dei reati previsti dall’art. 51, comma 3­bis, del codice diprocedura penale ­ è certamente valida anche per le fattispe­cie oggetto del presente giudizio.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALEriuniti i giudizi,dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4­bis,del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizio­ni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia),nella parte in cui, stabilendo che per i soggetti già condannaticon sentenza definitiva per i reati indicati nella stessa norma ilreddito si ritiene superiore ai limiti previsti per l’ammissione alpatrocino a spese dello Stato, non ammette la prova contraria.Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,Palazzo della Consulta, il 14 aprile 2010.F.to:Ugo DE SIERVO, PresidenteGaetano SILVESTRI, RedattoreGiuseppe DI PAOLA, CancelliereDepositata in Cancelleria il 16 aprile 2010.Il Direttore della CancelleriaF.to: DI PAOLA

No della Consulta in merito alle contestazione sup­pletive del P.M. nel giudizio abbreviato

ILGiudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Lecce hadubitato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 111 e 112 dellaCostituzione, della legittimità costituzionale degli artt. 441 e441­bis del Codice di procedura penale, nella parte in cui, nelgiudizio abbreviato, non consentono al P.M. di effettuare con­testazioni suppletive di reati connessi a norma dell’art. 12,comma 1, lett. b), cod. proc. pen. «anche in assenza di integra­zioni probatorie disposte dal giudice e sulla base di atti ecircostanze già in atti e noti all’imputato».

Il dubbio di costituzionalità trova il suo presupposto fondantenell’indirizzo interpretativo che si asserisce accolto, in tema dimodifica dell’imputazione nel giudizio abbreviato, da due sen­tenze della Corte di cassazione (sezione II, 9 giugno 2005­22

giugno 2005, n. 23466, e sezione V, 27 novembre 2008­18febbraio 2009, n. 7047): un indirizzo i cui approdi vengonoevocati dal giudice di Lecce come tertia comparationis al finedi desumerne l’esigenza costituzionale di una (ulteriore) dila­tazione del perimetro di ammissibilità delle contestazioni sup­pletive nell’ambito del rito alternativo.

La Corte Costituzionale, con la sentenza del 16 aprile 2010, n.140, ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costitu­zionale degli artt. 441 e 441­bis del codice di procedurapenale, sollevata dal Tribunale di Lecce, in riferimento agli artt.3, 24, 97, 111 e 112 della Costituzione.

Corte CostituzionaleSentenza del 16 aprile 2010, n. 140

PROCEDURA PENALE ­ QUESTIONE DI LEGITTIMITA’ COSTITU­ZIONALE ­ ARTT. 441 E 441­BIS CPP ­ NON FONDATEZZA

SENTENZA N. 140ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici:Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUA­RANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVE­STRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAU­RO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessan­dro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,ha pronunciato la seguente

SENTENZAnel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 441 e441­bis del codice di procedura penale promosso dal Giudicedell’udienza preliminare del Tribunale di Lecce nel procedi­mento penale a carico di F. P. ed altro con ordinanza del 10luglio 2009, iscritta al n. 264 del registro ordinanze 2009 epubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, pri­ma serie speciale, dell’anno 2009.Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio deiministri;udito nella camera di consiglio del 24 marzo 2010 il Giudicerelatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto in fatto

1. ­ Con ordinanza del 10 luglio 2009, il Giudice dell’udienzapreliminare del Tribunale di Lecce ha sollevato, in riferimentoagli artt. 3, 24, 97, 111 e 112 della Costituzione, questione dilegittimità costituzionale degli artt. 441 e 441­bis del codice diprocedura penale, nella parte in cui non prevedono che, nel

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giudizio abbreviato, il pubblico ministero possa effettuare con­testazioni suppletive, nei casi di cui all’art. 12, comma 1,lettera b), del medesimo codice, ”anche in assenza di integra­zioni probatorie disposte dal giudice e sulla base di fatti ecircostanze già in atti e noti all’imputato”.Il giudice a quo ­ chiamato a svolgere, nelle forme del giudizioabbreviato, un processo penale nei confronti di trentuno per­sone, imputate del delitto di associazione avente per scopo iltraffico illecito di sostanze stupefacenti e di altri reati ­ riferi­sce che il pubblico ministero aveva contestato in udienza a duedegli imputati un ulteriore reato in materia di stupefacenti,legato dal vincolo della continuazione a quelli per cui si proce­de e, dunque, connesso a norma dell’art. 12, comma 1, letterab), cod. proc. pen. I difensori avevano eccepito l’”irritualità” ditale contestazione suppletiva, ostandovi la disposizione combi­nata degli artt. 441 e 441­bis cod. proc. pen., in forza dei quali,nel giudizio abbreviato, la modifica dell’imputazione è ammes­sa solo ove sia stata disposta e attuata un’integrazione proba­toria su richiesta di parte o d’ufficio.Nel dubbio, tuttavia, circa la legittimità costituzionale di talepreclusione, il giudice rimettente ­ dopo avere disposto laseparazione del processo relativo al reato oggetto di contesta­zione suppletiva, al fine di ”impedire la scadenza dei termini dicustodia cautelare per gli altri imputati” ­ ha sollevato l’odier­na questione.Al riguardo, egli rileva come le sezioni unite della Corte dicassazione, con la sentenza 28 ottobre 1998­11 marzo 1999,n. 4, abbiano affermato che, nel giudizio ordinario, il pubblicoministero può procedere alla contestazione suppletiva di unreato concorrente o di una circostanza aggravante, non sol­tanto a fronte di nuove risultanze dibattimentali, ma anchesulla base di elementi già acquisiti nella fase delle indaginipreliminari. Se da un lato, infatti, la contestazione suppletivarappresenta una eventualità ”fisiologica” in un sistema proces­suale ispirato alla centralità del dibattimento, che è sede natu­rale della rappresentazione e della elaborazione probatoria(dalla quale possono sorgere esigenze di modifica dell’imputa­zione); dall’altro lato, tuttavia, una interpretazione letteraledella locuzione ”nel corso”, presente nell’art. 517 cod. proc.pen. (così come nell’art. 423 con riguardo all’art. 7;udienzapreliminare), si risolverebbe ­ secondo il rimettente ­ in ”unformalismo esasperato ed ingiustificato”, non essendo ravvisa­bile, neppure nell’ipotesi di nuova contestazione basata suelementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari, alcunaviolazione del diritto di difesa dell’imputato, messo comunquenelle condizioni di conoscere gli atti raccolti dalla pubblicaaccusa.A fronte di ciò, sarebbe dunque ”comprensibile” l’emergere diuna giurisprudenza di legittimità che, fornendo una certa in­terpretazione dell’art. 441­bis cod. proc. pen., ha ritenuto che,anche nel giudizio abbreviato, una volta disposta una integra­zione probatoria, le contestazioni suppletive siano possibilinon soltanto se derivanti dalle nuove prove assunte, ma anchequando trovino fondamento in ”fatti e circostanze già in atti”(sono citate, in particolare, le sentenze della Corte di cassa­

zione, sezione II, 9 giugno 2005­22 giugno 2005, n. 23466, esezione V, 27 novembre 2008­18 febbraio 2009, n. 7047): e ciò­ stando alla prima delle pronunce ora ricordate ­ persinoladdove l’integrazione probatoria, disposta dal giudice, nonabbia avuto concretamente luogo (nella specie, per sopravve­nuto decesso del testimone da escutere). Secondo le medesi­me sentenze, inoltre, allorché le nuove contestazioni si basinosu dati precedentemente acquisiti, l’imputato non potrebbeneppure chiedere che il procedimento prosegua nelle formeordinarie, giacché la facoltà di rinuncia al giudizio abbreviato glisarebbe accordata dall’art. 441­bis cod. proc. pen. unicamentea fronte di contestazioni scaturenti dalle integrazioni probato­rie.La ratio della richiamata disposizione si coglierebbe, in effetti,agevolmente: la scelta del giudizio abbreviato non potrebberimanere vincolante ove emergano fatti non conosciuti o co­noscibili dall’imputato, mentre tale esigenza non si manifeste­rebbe quando la contestazione suppletiva derivi da una sempli­ce rivalutazione di dati probatori già in atti e, dunque, notiall’imputato al momento della scelta del rito.A seguito delle riforme degli anni 1999­2000, d’altronde, ilgiudizio abbreviato ­ ormai svincolato dai presupposti delconsenso del pubblico ministero e della definibilità del proces­so allo stato degli atti ­ non sarebbe più, come in origine, ungiudizio ”cristallizzato”, ma avrebbe assunto opposte caratte­ristiche di ”fluidità”, tanto sul versante probatorio che suquello dell’imputazione. L’imputato che opti per il rito alterna­tivo sa, infatti, che potrebbe essere comunque disposta dalgiudice un’integrazione probatoria, che abiliterebbe il pubblicoministero ad operare contestazioni suppletive.In tale cornice, risulterebbe, tuttavia, inspiegabile l’inapplicabi­lità, sancita dall’art. 441, comma 1, cod. proc. pen., delladisciplina sulla modifica dell’imputazione recata dall’art. 423cod. proc. pen., fuori dei casi di integrazione probatoria indi­cati nell’art. 441­bis. Se, alla stregua delle sentenze citate,persino in presenza di un’integrazione probatoria, disposta ma”priva di seguito”, è possibile una contestazione suppletivabasata solo sulla rivalutazione di elementi già acquisiti, purchéconosciuti dall’imputato, non si comprenderebbe perché lamedesima contestazione non sia ammessa anche quando unaintegrazione probatoria non venga ”formalmente disposta” dalgiudice.Codesta limitazione ­ costituente, secondo il rimettente, l’ulti­mo residuo elemento di ”rigidità” del giudizio abbreviato ­ siporrebbe segnatamente in contrasto con il ”principio del giu­sto processo” (art. 111 Cost.), implicante ”la lealtà processua­le delle parti”: principio a fronte del quale il pubblico ministe­ro, che non abbia formulato correttamente l’imputazione, nondovrebbe vedersi inibita la possibilità di integrarla sulla base diatti contenuti nel fascicolo processuale e perciò noti all’impu­tato.La circostanza che, in base alle norme censurate, la contesta­zione suppletiva radicata su elementi ”già in atti” sia permessao meno a seconda che sia stata o meno disposta un’integrazio­ne probatoria, anche a prescindere dal suo effettivo espleta­

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mento, comporterebbe, altresì, la violazione dei principi dieguaglianza e di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale(artt. 3 e 112 Cost.). La situazione sarebbe, infatti, identica neidue casi, giacché in entrambi la necessità di integrare l’imputa­zione sorge a seguito di un’omissione del pubblico ministero.Il denunciato divieto di contestazione del reato concorrente,impedendo l’esame congiunto delle regiudicande, si riflette­rebbe negativamente anche sull’efficienza dell’accertamentoprocessuale, e, dunque, sul buon andamento dell’amministra­zione della giustizia, con conseguente lesione dell’art. 97 Cost.La separazione dei processi ­ specialmente quando venga inrilievo, come nel caso di specie, il rapporto tra delitto associa­tivo e reati fine, o tra singoli reati fine ­ comporterebbe, infatti,una reiterazione degli ”esperimenti probatori”, potenzialmen­te foriera di decisioni contraddittorie.Risulterebbe violato, infine, il diritto di difesa (art. 24 Cost.),giacché ­ posto che la preclusione censurata non impediscecomunque al pubblico ministero di agire separatamente per ilreato di cui è stata omessa la contestazione ­ l’imputatopotrebbe trovare, di contro, più vantaggioso difendersi conte­stualmente, in particolare quando si tratti di fatti legati dalvincolo della continuazione a quelli già contestati.La questione sarebbe altresì rilevante nel giudizio a quo, inquanto dal suo accoglimento dipenderebbe la possibilità didecidere sulla contestazione suppletiva formulata dal pubblicoministero, relativamente alla quale è stata disposta la separa­zione del processo, che, peraltro ­ ove la decisione sull’inci­dente di costituzionalità intervenisse ”tempestivamente” ­ nonprecluderebbe neppure una successiva riunione del processostesso a quello ”principale”.2. ­ Nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidentedel Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvoca­tura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questionesia dichiarata inammissibile o infondata.Ad avviso della difesa erariale, la questione sarebbe inammissi­bile per carente descrizione da parte del giudice a quo dellafattispecie concreta, la quale non consentirebbe di verificarel’effettiva rilevanza del dubbio di costituzionalità nel giudizioprincipale. Secondo quanto riferito nell’ordinanza di rimessio­ne, difatti, il rimettente ha disposto la separazione del proces­so relativo al reato oggetto della contestazione suppletivainammissibilmente formulata dal pubblico ministero per impe­dire la scadenza dei termini di custodia cautelare, ”così eviden­ziando l’esistenza attuale nell’ordinamento di una strada alter­nativa a quella che ]il rimettente stesso] censura”.Inammissibile per difetto di rilevanza risulterebbe, altresì, lacensura basata sull’assunto per cui la contestazione suppletivanel giudizio abbreviato potrebbe risultare gradita all’imputatoin vista dell’applicazione dell’art. 81 cod. pen., trattandosi divalutazione rimessa in via esclusiva all’imputato medesimo;come pure l’ulteriore doglianza connessa alla considerazioneche la rimozione della preclusione censurata eviterebbe laduplicità di giudizi e, quindi, l’eventuale contrasto di giudicati,posto che l’ordinamento già contempla strumenti idonei adevitare il rischio paventato.

Quanto al merito della questione, l’Avvocatura dello Statoosserva come il giudice a quo abbia evocato impropriamente,a fondamento delle proprie doglianze, la sentenza della Cortedi cassazione, sezione V, 27 novembre 2008­18 febbraio 2009,n. 7047, trattandosi di decisione attinente all’ammissibilità, nelgiudizio abbreviato, di una diversa qualificazione giuridica delfatto contestato, e non già della contestazione suppletiva di unulteriore reato. Parimenti inconferente sarebbe la richiamatasentenza delle sezioni unite 28 ottobre 1998­11 marzo 1999,n. 4, che ha ritenuto ammissibile, bensì, la contestazione sup­pletiva basata su atti già acquisiti nel corso delle indaginipreliminari, ma con riguardo al dibattimento, nel quale all’im­putato è assicurato ”il massimo livello di difesa”: laddove,invece, nella fattispecie in esame, la contestazione suppletivaformulata nel giudizio abbreviato ”allo stato degli atti”, nonconsentendo all’imputato stesso di rinunciare al rito semplifi­cato, ne comprimerebbe le garanzie difensive.La giurisprudenza, ”pressoché consolidata”, della Corte dicassazione deporrebbe, in realtà, in senso contrario alla tesidel rimettente. Da essa emergerebbe, infatti, come la cristal­lizzazione del quadro processuale, sia dal punto di vista proba­torio che da quello dell’imputazione, rappresenti un connota­to ”ineliminabile” del giudizio abbreviato: e ciò nella conside­razione che la contestazione suppletiva, anche se basata suelementi acquisiti in precedenza, costituisce fattore idoneo amutare gli equilibri fra le parti e le strategie difensive dell’im­putato. Come rilevato, difatti, in più occasioni dalla stessaCorte costituzionale, le valutazioni dell’imputato circa la con­venienza del rito speciale dipendono anzitutto dalla concretaimpostazione data al processo dal pubblico ministero.La previsione dell’art. 441­bis cod. proc. pen. ­ per la quale, inderoga al principio dettato dall’art. 441, comma 1, la contesta­zione suppletiva è possibile ove sia disposta una integrazioneprobatoria su richiesta dell’imputato (art. 438, comma 5, cod.proc. pen.) o per iniziativa del giudice (art. 441, comma 5, cod.proc. pen.) ­ troverebbe giustificazione nel fatto che, in talicasi, possono emergere nuovi reati da contestare: ipotesi nellaquale il legislatore ha comunque lasciato all’imputato la sceltase proseguire con il rito speciale o chiederne la riconversionenel rito ordinario.Considerato in diritto1. ­ Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Leccedubita, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 111 e 112 dellaCostituzione, della legittimità costituzionale degli artt. 441 e441­bis del codice di procedura penale, nella parte in cui, nelgiudizio abbreviato, non consentono al pubblico ministero dieffettuare contestazioni suppletive di reati connessi a normadell’art. 12, comma 1, lettera b), cod. proc. pen. ”anche inassenza di integrazioni probatorie disposte dal giudice e sullabase di atti e circostanze già in atti e noti all’imputato”.Il dubbio di costituzionalità trova il suo presupposto fondantenell’indirizzo interpretativo che si asserisce accolto, in tema dimodifica dell’imputazione nel giudizio abbreviato, da due sen­tenze della Corte di cassazione (sezione II, 9 giugno 2005­22giugno 2005, n. 23466, e sezione V, 27 novembre 2008­18

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febbraio 2009, n. 7047): un indirizzo i cui approdi vengonoevocati dal giudice rimettente come tertia comparationis alfine di desumerne l’esigenza costituzionale di una (ulteriore)dilatazione del perimetro di ammissibilità delle contestazionisuppletive nell’ambito del rito alternativo.Alla stregua dell’indirizzo in questione, una volta che vengadisposta dal giudice una integrazione probatoria ­ e (standoalmeno alla prima delle citate pronunce) indipendentementedal suo effettivo espletamento ­ il pubblico ministero sarebbeabilitato a procedere alla contestazione suppletiva di reaticonnessi, non solo in rapporto a nuovi elementi emersi aseguito dell’integrazione probatoria (che appunto potrebbenon essere neppure attuata), ma anche sulla base di circostan­ze già risultanti dagli atti e, dunque, note all’imputato al mo­mento della formulazione della richiesta di giudizio abbreviato.In quest’ultima ipotesi, d’altro canto, l’imputato non sarebbeneppure legittimato a chiedere che il processo prosegua nelleforme ordinarie, rinunciando al rito alternativo, giacché, inbase alla lettera dell’art. 441­bis cod. proc. pen., tale facoltà glicompeterebbe unicamente a fronte di contestazioni scaturitedalle integrazioni probatorie effettivamente intervenute.A questo punto ­ sempre secondo il giudice a quo ­ sarebbe,tuttavia, del tutto incongruo e contrario agli evocati parametricostituzionali non permettere la contestazione suppletiva an­che quando una integrazione probatoria non sia stata ”formal­mente disposta” dal giudice (come avvenuto nel caso di spe­cie): trattandosi di situazione che non presenta elementi diffe­renziali di rilievo rispetto a quella dianzi indicata (contestazio­ne suppletiva basata su circostanze già in atti, e non su nuoverisultanze probatorie, in presenza di una integrazione proba­toria disposta, anche se non attuata), posto che pure in talecaso la necessità di integrare l’imputazione sorge a seguito diun’omissione del pubblico ministero.Sotto tale profilo, le norme impugnate violerebbero, dunque, iprincipi di eguaglianza (art. 3 Cost.) e di obbligatorietà del­l’esercizio dell’azione penale (art. 112 Cost.).Risulterebbe leso, altresì, il ”principio del giusto processo”(art. 111 Cost.), avente come corollario la ”lealtà processuale”delle parti: principio alla luce del quale non si giustificherebbeche, anche in assenza di integrazioni probatorie, venga preclu­sa al pubblico ministero la rivalutazione di atti contenuti nelfascicolo processuale e, perciò, noti all’imputato, al fine diporre rimedio ad una lacuna dell’imputazione.L’assetto normativo censurato violerebbe, ancora, l’art. 97Cost., in quanto la preclusione della contestazione di un reatoconcorrente nel caso considerato, impedendo l’esame con­giunto delle regiudicande, provocherebbe una duplicazione diattività processuali e il rischio di contrasto di giudicati, conpregiudizio al buon andamento dell’amministrazione della giu­stizia.Da ultimo, apparirebbe compromesso anche il diritto di difesa(art. 24 Cost.), potendo risultare più vantaggioso per l’imputa­to difendersi contestualmente, anziché separatamente, in rap­porto a reati legati fra loro dal vincolo della continuazione.2. ­ L’eccezione di inammissibilità della questione per insuffi­

ciente descrizione della fattispecie concreta e difetto di moti­vazione sulla rilevanza, formulata dall’Avvocatura generale del­lo Stato, non è fondata.Dall’ordinanza di rimessione emerge, infatti, che il rimettenteè chiamato a svolgere, con rito abbreviato, un processo neiconfronti di numerose persone, imputate di vari reati, nelcorso del quale il pubblico ministero ha contestato a due degliimputati, sulla base di elementi già risultanti dagli atti, unulteriore reato connesso ai sensi dell’art. 12, comma 1, letterab), cod. proc. pen.; iniziativa, questa, che ha incontrato l’oppo­sizione dei difensori, i quali hanno eccepito l’inammissibilitàdella contestazione suppletiva, non essendo stata nella speciedisposta alcuna integrazione probatoria.La rilevanza della questione non viene meno, d’altro canto, peril fatto che il giudice a quo ­ allo scopo di evitare che nellemore del giudizio di costituzionalità scadessero i termini mas­simi di custodia cautelare ­ abbia disposto la separazione delprocesso relativo al reato oggetto della contestazione supple­tiva, la cui ammissibilità resta ancora da stabilire. La contesta­zione suppletiva di un reato connesso ­ che nel vigente codicedi rito, volto ad ”attuare nel processo penale i caratteri delsistema accusatorio” (art. 2, comma 1, della legge 16 febbraio1987, n. 81, recante ”Delega legislativa al Governo della Re­pubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedurapenale”), è affidata non certo al giudice, ma al pubblico mini­stero ­ integra esercizio dell’azione penale e, dunque, dà vitaad un processo suscettibile di essere separato, in base alleregole generali, da quelli relativi ai reati oggetto dell’imputazio­ne originaria. Anche dopo la separazione, d’altronde, l’esitodello scrutinio di costituzionalità continua a condizionare lasorte dello stesso giudizio principale separato: giacché, se laquestione fosse accolta, il rimettente dovrebbe ritenere lacontestazione suppletiva validamente effettuata e, quindi, pro­nunciarsi ­ sempre nelle forme del giudizio abbreviato ­ sulmerito della stessa nell’ambito di detto processo separato;mentre, in caso contrario, dichiarata inammissibile la nuovacontestazione, dovrebbe restituire gli atti al pubblico ministe­ro affinché proceda per il reato connesso nei modi ordinari.3. ­ Vanno del pari disattese le ulteriori eccezioni di inammissi­bilità della difesa erariale relative a singole censure, in quantoattengono, in realtà, a profili di merito.4. ­ Nel merito, la questione non è fondata.4.1. ­ Innanzi tutto, non è possibile considerare le due decisio­ni della Corte di cassazione, su cui il rimettente basa i propririlievi, come espressione di un orientamento giurisprudenzialeconsolidato (lo stesso giudice a quo riconosce l’esistenza diprecedenti di segno contrario): e ciò, tanto più ove si conside­ri che ­ come rimarcato anche dall’Avvocatura dello Stato ­ lapiù recente fra tali decisioni ha, in realtà, ad oggetto non giàuna fattispecie di contestazione suppletiva, ma di diversa quali­ficazione giuridica del fatto (passaggio dal furto tentato al furtoconsumato sulla base di elementi descrittivi già racchiusi nel­l’imputazione originaria).L’orientamento desunto da dette sentenze, d’altra parte, nonsoltanto non appare incontrovertibile sul piano ermeneutico,

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ma conduce addirittura ad un assetto in sé incompatibile conla Costituzione.Con riferimento al giudizio ordinario, è in effetti predominan­te, nella giurisprudenza di legittimità, la tesi per cui ­ nonostan­te la formulazione letterale, apparentemente contraria, degliartt. 516 e 517 cod. proc. pen. ­ le nuove contestazioniconsiderate da tali articoli possono essere basate, oltre che suelementi emersi per la prima volta nel corso dell’istruzionedibattimentale, anche sui soli atti già acquisiti dal pubblicoministero nel corso delle indagini preliminari: in tal modo,traducendosi anche in uno strumento per porre rimedio adinesattezze o lacune dell’imputazione originaria.A prescindere, peraltro, dalla validità degli argomenti addotti asupporto di siffatta soluzione interpretativa (sentenza n. 333del 2009), essa non può essere comunque estesa al giudizioabbreviato senza tenere conto delle peculiarità di questo rito.L’assetto normativo che il giudice a quo sottopone a scrutinioha, in effetti, una sua intrinseca razionalità.In parallelo all’originaria configurazione del giudizio abbreviatocome rito ”allo stato degli atti”, senza alcuna possibilità diintegrazioni probatorie, l’art. 441, comma 1, cod. proc. pen. ­nell’operare un generale rinvio, nei limiti della compatibilità,alla disciplina dell’udienza preliminare ­ escludeva in assolutol’applicabilità dell’istituto della modificazione dell’imputazione,quale regolato dall’art. 423 cod. proc. pen.La preclusione rispondeva ­ e tuttora risponde ­ ad una funzio­ne di garanzia per l’imputato, oltre che ad una logica premiale.L’imputato accettava, cioè, di essere giudicato sulla base degliatti raccolti nel corso delle indagini preliminari con esclusivoriferimento all’accusa già formulata dal pubblico ministero, chesegna i limiti della sua rinuncia alla formazione della prova incontraddittorio: tanto più che, di fronte a contestazioni sup­pletive di reati concorrenti o di circostanze aggravanti, egli sisarebbe trovato nell’impossibilità di difendersi dall’ampliamen­to dell’accusa stessa chiedendo l’ammissione di corrispondentiprove a discarico. Prospettiva nella quale la scelta legislativa furitenuta da questa Corte immune da vizi di costituzionalità, inquanto ”coerente con la struttura e le finalità del rito” (sen­tenza n. 378 del 1997).Introdotta, con la legge 16 dicembre 1999, n. 479, la possibilitàdi arricchimenti della piattaforma probatoria ­ tanto per inizia­tiva dell’imputato (richiesta di giudizio abbreviato ”condiziona­to”: art. 438, comma 5, cod. proc. pen.), che del giudice (nelcaso di impossibilità di decidere allo stato degli atti: art. 441,comma 5, cod. proc. pen.) ­ è emersa l’esigenza di prevederemeccanismi di adeguamento dell’imputazione alle nuove acqui­sizioni. In via di eccezione rispetto alla regola enunciata dal­l’art. 441, comma 1, cod. proc. pen. ­ rimasta immutata ­ si èquindi consentito al pubblico ministero di procedere a nuovecontestazioni. Ma ciò unicamente nei casi di modificazionedella base cognitiva a seguito dell’attivazione dei meccanismi diintegrazione probatoria, e riconoscendo, in pari tempo, all’im­putato ­ quando si tratti delle contestazioni previste dall’art.423, comma 1, cod. proc. pen. (fatto diverso, reato connessoa norma dell’art. 12, comma 1, lettera b, o circostanza aggra­

vante) ­ la facoltà di chiedere che il procedimento proseguanelle forme ordinarie, o, in alternativa, l’ammissione di nuoveprove (art. 441­bis cod. proc. pen., aggiunto dall’art. 2­octiesdel decreto­legge 7 aprile 2000, n. 82, recante ”Modificazionialla disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase delgiudizio abbreviato”, convertito, con modificazioni, dalla legge5 giugno 2000, n. 144: nel caso di contestazione del fattonuovo, a norma dell’art. 423, comma 2, cod. proc. pen., l’im­putato resta per converso tutelato dalla circostanza che talecontestazione presuppone il suo consenso).Da tale quadro ­ che contraddice la visione, propugnata dalrimettente, del giudizio abbreviato come rito ormai totalmen­te ”fluido” sul piano probatorio e dell’imputazione ­ si deveinferire che le eccezioni introdotte restano strettamente lega­te alle fattispecie che le giustificano: vale a dire, che il pubblicoministero possa effettuare le nuove contestazioni solo quandoaffiori la necessità di adattare l’imputazione a nuove risultanzeprocessuali, scaturenti da iniziative probatorie assunte nell’am­bito del rito alternativo; rimanendo con ciò escluso che detteiniziative ­ tanto più se rimaste ”prive di seguito” ­ possanorappresentare una patente di legittimazione per rivalutare, ascopo di ampliamento dell’accusa, elementi già acquisiti inprecedenza e, fino a quel momento, non posti ad oggetto diazione penale.4.2. ­ L’indirizzo giurisprudenziale su cui poggiano le censuredel rimettente conduce, d’altro canto, a risultati addiritturacontrari a Costituzione allorché assume ­ appellandosi quisoltanto alla lettera dell’art. 441­bis, comma 1, cod. proc. pen.­ che, nel caso di contestazione suppletiva fondata su elementi”già in atti”, e dunque noti all’imputato, costui non potrebbeneppure avvalersi della facoltà di chiedere che il procedimentoprosegua nelle forme ordinarie.Questa Corte ha avuto modo di rilevare, difatti, in più occa­sioni, che ”le valutazioni dell’imputato in ordine alla conve­nienza dei riti alternativi al dibattimento” dipendono anzitutto”dalla concreta impostazione data al processo dal pubblicoministero”. Con la conseguenza che quando, per ”evenienzepatologiche”, quali gli errori o le omissioni del pubblico mini­stero sulla individuazione del fatto o del titolo del reato,l’imputazione subisce una variazione sostanziale, l’imputatodeve essere rimesso in termini per compiere le suddettevalutazioni, pena la violazione tanto del diritto di difesa che delprincipio di eguaglianza, stante la discriminazione che verrebbealtrimenti a determinarsi a seconda ”della maggiore o minoreesattezza o completezza della discrezionale valutazione dellerisultanze delle indagini preliminari operata dal pubblico mini­stero nell’esercitare l’azione penale” (sentenze n. 333 del 2009e n. 265 del 1994).Tale principio è stato affermato con riferimento alle nuovecontestazioni dibattimentali e alla possibilità di passaggio dalrito ordinario a riti alternativi (giudizio abbreviato e applicazio­ne della pena su richiesta): ma non potrebbe evidentementenon operare anche nella direzione inversa. Con la richiesta digiudizio abbreviato l’imputato accetta di essere giudicato conrito semplificato in rapporto ai reati già contestatigli dal pub­

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blico ministero, rispetto ai quali solo egli esprime l’apprezza­mento della convenienza del rito stesso: sicché non sarebbecostituzionalmente accettabile che egli venisse a trovarsi vin­colato dalla sua scelta anche in relazione agli ulteriori reaticoncorrenti che ­ stando all’indirizzo interpretativo in discus­sione ­ potrebbero essergli contestati a fronte delle ”evenien­ze patologiche” di cui si è detto.4.3. ­ Alla luce di quanto precede, si deve dunque escludereche la lettura delle norme censurate operata attraverso lepronunce giurisprudenziali richiamate e interpretate dal giudi­ce a quo ­ lettura non apprezzabile in termini di ”dirittovivente”, non incontestabile sul piano ermeneutico e comun­que incompatibile con la Costituzione ­ possa essere utilmen­te invocata quale tertium comparationis al fine di alterarel’assetto, viceversa in sé ragionevole e coerente, delineato dallegislatore in materia.Non ricorre la prospettata violazione dell’art. 3 Cost., essen­do le due ipotesi poste a raffronto ­ giudizio abbreviato con esenza integrazione probatoria ­ tra loro non equiparabili ai finiconsiderati: soltanto nella prima, e non nella seconda, si pro­spetta l’esigenza di rendere possibile un eventuale adeguamen­to dell’imputazione a nuove acquisizioni, che il pubblico mini­stero non aveva potuto in precedenza considerare. D’altrocanto, e proprio in tale logica, il vigente assetto normativoconsente ­ se non addirittura impone, anche ad evitare undiverso vulnus costituzionale ­ di ritenere che, nel caso diintegrazione probatoria, la contestazione suppletiva possa de­rivare solo dalle nuove risultanze di essa, e non anche daquanto era già precedentemente noto alle parti: donde l’insussi­stenza della stessa ipotizzata esigenza di omologazione, su que­st’ultimo versante, della disciplina relativa al giudizio abbreviatorimasto privo di arricchimenti del panorama probatorio.4.4. ­ Parimenti infondate risultano le restanti censure.Nessuna violazione dell’art. 112 Cost. appare configurabile, perl’assorbente ragione che il pubblico ministero conserva comun­que la possibilità di esercitare l’azione penale per il reato connes­so, non ”tempestivamente” contestato, nei modi ordinari e in unprocesso separato.Né si comprende sotto quale profilo i principi e i connotati del”giusto processo” (art. 111 Cost.) ­ tantomeno quello della ”leal­tà processuale delle parti”, che il giudice a quo assume insito neglienunciati costituzionali ­ possano ritenersi vulnerati dalla preclu­sione in esame, la quale risulta anzi coerente con essi, impedendoad una delle parti di mutare e imporre unilateralmente il tema delgiudizio abbreviato.Inconferente è il riferimento al principio di buon andamento deipubblici uffici (art. 97 Cost.), trattandosi di principio che, percostante giurisprudenza di questa Corte, è riferibile all’ammini­strazione della giustizia solo per quanto attiene all’organizzazionee al funzionamento degli uffici giudiziari e non all’attività giurisdi­zionale in senso stretto (tra le molte, sentenze n. 64 del 2009 e n.117 del 2007, ordinanza n. 408 del 2008).Neppure è ravvisabile, infine, una violazione del diritto di difesa(art. 24 Cost.). La disciplina censurata è posta, infatti, a garanziadell’imputato (tanto che, nel giudizio a quo, i difensori si sono

opposti alla contestazione suppletiva); in ogni caso ­ come giàrilevato da questa Corte ­ il diritto di difesa non potrebbe consi­derarsi compromesso dal mero ”aggravio” derivante dallo svolgi­mento di processi separati per reati in continuazione. Ciò nonimpedisce che l’imputato possa esplicare il diritto stesso, conpienezza di garanzie, in tutte le diverse sedi processuali nelle qualivengono esaminati i reati esecutivi del medesimo disegno crimi­noso (sentenza n. 64 del 2009; nonché, con riguardo ad altraipotesi di connessione di procedimenti, sentenza n. 198 del1972), fino ad ottenerne il riconoscimento in sede di esecuzione,nel caso di separate pronunce (art. 671 cod. proc. pen.).PER QUESTI MOTIVILA CORTE COSTITUZIONALEdichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degliartt. 441 e 441­bis del codice di procedura penale, sollevata, inriferimento agli artt. 3, 24, 97, 111 e 112 della Costituzione, dalGiudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Lecce con l’ordi­nanza indicata in epigrafe.Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzodella Consulta, il 14 aprile 2010.F.to:Ugo DE SIERVO, PresidenteGiuseppe FRIGO, RedattoreGiuseppe DI PAOLA, CancelliereDepositata in Cancelleria il 16 aprile 2010.Il Direttore della CancelleriaF.to: DI PAOLA

CONSULTA: Mediazione familiare, bocciate normeLazio

Guida al Diritto, news online 16.04.2010

Sono incostituzionali le ”Norme per la tutela dei minori e ladiffusione della cultura della mediazione familiare” create dallaRegione Lazio nel dicembre 2008 perché la legge, nel discipli­nare le caratteristiche della figura del mediatore familiare (chesi occupa di sostenere la famiglia nei processi di separazione odivorzio) e stabilire i requisiti di accesso all’attività, invade lacompetenza statale. Lo ha deciso con la sentenza n. 131/2010la Corte costituzionale nell’ambito del giudizio di legittimitàsollevato dal presidente del Consiglio dei ministri nei confron­ti dell’articolo 1 della legge regionale del Lazio 26 del 2008(che indica le norme per la tutela dei minori e la diffusionedella cultura della mediazione familiare), nonché dell’articolo 1della legge regionale del Lazio 27 del 2008 (che ha apportatouna serie di modifiche alla precedente legge) per contrastocon la Costituzione

Corte CostituzionaleSentenza del 15 aprile 2010, n. 131

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Newsletter n. 15 ­ 20 aprile 201016

PROFESSIONI ­ ILLEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE: ARTT. 1,COMMA 2, 3, 4 E 6 LR REGIONE LAZIO 24.12.2008, N. 26, ART.1 LR REGIONE LAZIO 24.12.2008, N. 27 E IN CONSEGUENZAARTT. 1, COMMA 1, 2, 5, 7, 8 LR REGIONE LAZIO 24.12.2008

SENTENZA N. 131ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giu­dici: Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOC­CHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZ­ZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria RitaSAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO,Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,ha pronunciato la seguente

SENTENZAnel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2,3, 4 e 6 della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n.26 (Norme per la tutela dei minori e la diffusione della culturadella mediazione familiare) e dell’art. 1 della legge della Regio­ne Lazio 24 dicembre 2008, n. 27 (Modifiche alla deliberazionelegislativa approvata dal Consiglio regionale nella seduta del 10dicembre 2008, concernente ”Norme per la tutela dei minorie la diffusione della cultura della mediazione familiare”), pro­mosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorsonotificato il 27 febbraio 2009, depositato in cancelleria il 5marzo 2009 ed iscritto al n. 18 del registro ricorsi 2009.Visto l’atto di costituzione della Regione Lazio;udito nell’udienza pubblica del 9 marzo 2010 il Giudice relato­re Paolo Maddalena;uditi l’avvocato dello Stato Diana Ranucci per il Presidente delConsiglio dei ministri e l’avvocato Pa. Pa.­Pe. per la RegioneLazio.Ritenuto in fatto1.­ Con ricorso notificato il 27 febbraio 2009 e depositato il 5marzo 2009, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappre­sentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha solle­vato in via principale, a seguito di delibera governativa in data20 febbraio 2009, questione di legittimità costituzionale degliartt. 1, comma 2, 3, 4 e 6 della legge della Regione Lazio 24dicembre 2008, n. 26 (Norme per la tutela dei minori e ladiffusione della cultura della mediazione familiare), nonchédelle disposizioni con essi inscindibilmente connesse o dipen­denti, e dell’art. 1 della legge della Regione Lazio 24 dicembre2008, n. 27 (Modifiche alla deliberazione legislativa approvatadal Consiglio regionale nella seduta del 10 dicembre 2008,concernente ”Norme per la tutela dei minori e la diffusionedella cultura della mediazione familiare”), affermandone il con­trasto con l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, nellaparte in cui esso attribuisce allo Stato la competenza legislativariguardo ai principi fondamentali in materia di professioni.

Riferisce il ricorrente che la legge regionale n. 26 del 2008 sipropone di disciplinare, nell’ambito della Regione, le figure delmediatore familiare e del coordinatore per la mediazionefamiliare, introducendo una nuova figura professionale nonaltrimenti prevista da legge dello Stato. L’unico articolo dellacoeva legge regionale n. 27 del 2008 ha modificato l’art. 6 dellalegge n. 26 del 2008, integrandone i commi 1 e 2 ed eliminan­do il comma 3.Specificamente, l’art. 1, comma 2, della legge regionale n. 26del 2008 reca la definizione generale del ruolo e della figuraprofessionale del mediatore familiare; gli artt. 3 e 4, a lorovolta, prevedono e disciplinano la particolare figura di media­tore familiare costituita dal coordinatore per la mediazionefamiliare (istituito presso ogni ASL), del quale stabiliscono icompiti e le finalità; l’art. 6, infine, istituisce, presso l’assesso­rato regionale competente in materia di politiche sociali,l’elenco regionale dei mediatori familiari e reca l’analitica disci­plina dei requisiti per l’accesso all’elenco stesso.L’art. 1 della legge regionale n. 27 del 2008, nel modificarel’art. 6 della legge regionale n. 26 del 2008, ha esteso anche ailaureati in pedagogia la possibilità di iscriversi al suddettoelenco, mentre ha abrogato l’incompatibilità tra mediazionefamiliare ed esercizio di altre professioni o attività di impresa.Ad avviso della difesa erariale, le disposizioni impugnate sipropongono di individuare la funzione e i compiti, anche disupporto ai tribunali, del mediatore familiare e del coordinato­re per la mediazione familiare, nonché, previa istituzione di unapposito elenco regionale, gli specifici titoli di cui il mediatorefamiliare deve essere in possesso per l’iscrizione all’elenco e,di seguito, per l’esercizio della professione.Secondo l’Avvocatura, le norme denunciate sarebbero ricon­ducibili alla materia delle ”professioni”, appartenente alla com­petenza legislativa concorrente, ai sensi dell’art. 117, terzocomma, Cost.Il ricorrente ricorda che, secondo la giurisprudenza costitu­zionale, spetta allo Stato la determinazione dei principi fonda­mentali nelle materie di competenza concorrente previstedall’art. 117, terzo comma, Cost., mentre la legislazione regio­nale deve svolgersi nel rispetto di quelli risultanti dalla norma­tiva statale già in vigore; ed osserva che, in base all’art. 1,comma 3, del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 30 (Ricognizione deiprincipi fondamentali in materia di professioni, ai sensi dell’art.1 della legge 5 giugno 2003, n. 131), la potestà legislativaregionale si esercita relativamente alle professioni individuatee definite dalla normativa statale.Secondo la difesa erariale, l’art. 155­sexies cod. civ., introdot­to dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia diseparazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), hasoltanto previsto, ma non istituito, la figura professionale delmediatore familiare, che difatti non é definita né disciplinata inalcuna legge statale.La Regione ­ osserva l’Avvocatura ­ avrebbe riservato a sé ladeterminazione dei titoli professionali e dei correlativi conte­nuti della professione di mediatore familiare e di coordinatore.Ciò emergerebbe in particolare dall’art. 6 della legge n. 26 del

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2008, che tra l’altro equipara, ai fini della idoneità all’iscrizionenell’elenco di mediatore familiare, titoli di natura profonda­mente diversa perché conseguibili all’esito di percorsi formati­vi differenti e non assimilabili tra loro. Secondo la difesa eraria­le, non potrebbero infatti porsi sullo stesso piano titoli conse­guiti a seguito di percorso formativo di livello universitariospecialistico e titoli ottenuti mediante percorso formativo dilivello inferiore, qual è il titolo di formazione regionale conse­guito all’esito della frequenza di un corso della durata dicinquecento ore. Tale situazione potrebbe peraltro ingannarel’utenza, inducendola a ritenere di livello universitario un me­diatore familiare munito invece del solo diploma regionale,con conseguente violazione del principio di tutela dell’utenza,che costituisce uno dei principi fondamentali tutelati dalle leggistatali in materia di attività professionali.2.­ Nel giudizio dinanzi alla Corte si è costituita la RegioneLazio, che ha concluso per l’infondatezza della questione.Secondo la difesa della Regione, il ricorso muoverebbe dalfalso presupposto che la legge regionale impugnata abbia in­trodotto e disciplinato una nuova professione: quella del ”me­diatore familiare” e del ”coordinatore per la mediazione fami­liare”. In realtà, la legge regionale impugnata non avrebbeaffatto né introdotto né disciplinato una ”professione”, maavrebbe individuato una ”figura professionale”, cioè dotata diparticolari competenze, destinata ad essere impiegata nell’am­bito di strutture pubbliche ed esercitante funzioni pubblicisti­che.Secondo la difesa della Regione, la ratio che ispira l’interoprovvedimento normativo è quella di delineare una ”figuraprofessionale”, non un ”professionista” lavoratore autonomo,operante nell’ambito della mediazione familiare. Tale diversaprospettiva emergerebbe dall’analisi delle singole disposizionie, in particolare, di quelle che stabiliscono i compiti e le finalitàdel coordinatore per la mediazione familiare: compiti e finalitàdi natura essenzialmente pubblicistica, che, come tali, nonsono e non possono essere attuati o perseguiti da un profes­sionista lavoratore autonomo.In particolare, l’art. 1, comma 2, della legge regionale n. 26 del2008 evidenzierebbe l’aspetto pubblicistico già nella parte incui prevede le modalità di accesso all’opera di tale soggetto. Siprescrive infatti che il mediatore familiare possa essere ”solle­citato” dalle parti a svolgere la sua opera. Tale locuzioneverbale ­ afferma la Regione ­ sarebbe indice del fatto che lalegge prevede, non già il conferimento di un mandato profes­sionale nell’ambito di un contratto di opera professionale,bensì che tale soggetto, il quale opera all’interno di una strut­tura sanitaria (come chiarito dal successivo art. 3), possaessere richiesto dalle parti di intervenire per ”adoperarsi” nelsenso indicato dalla norma. La stessa disposizione prevede chel’intervento del mediatore professionale, oltre che sollecitatodalle parti, possa avvenire su invito del giudice o dei servizisociali comunali o dei consultori o del Garante dell’infanzia edell’adolescenza.Anche l’art. 3 della stessa legge regionale, nel disciplinare lafigura del coordinatore per la mediazione familiare, prevede­

rebbe in realtà l’attribuzione a tale figura professionale di unvero e proprio ufficio pubblico.Le finalità che il mediatore familiare è chiamato a svolgere inbase all’art. 4 della legge regionale sarebbero ben lontanedall’esercizio di una professione, ai sensi dell’art. 117 Cost.Quanto all’art. 6 della legge regionale, è bensì vero ­ osserva laRegione ­ che esso ha previsto un elenco regionale dei media­tori familiari, ma tale elenco non può considerarsi istitutivo diuna professione operante a livello regionale, perché manche­rebbero le caratteristiche proprie di un’attività professionaledi lavoro autonomo. Secondo la difesa della Regione Lazio, lalegge impugnata, pur avendo assegnato al mediatore familiarefunzioni (compiti e finalità) esclusivamente pubblicistiche, epur avendo previsto la sua collocazione presso ogni aziendaunità sanitaria locale, non ha tuttavia definito il tipo di rappor­to che lega tale soggetto all’ente. La legge non chiarisce infattise il mediatore sia legato alle ASL da un rapporto di pubblicoimpiego ovvero se egli abbia un rapporto basato, ad esempio,su un contratto di collaborazione coordinata e continuativa.Queste modalità attuati ve ­ precisa la Regione ­ sarannochiarite da regolamenti attuativi. Intanto, l’elenco di cui all’art.6 assolve essenzialmente la funzione di individuare una lista disoggetti, dotati di particolari professionalità, dalla quale poterattingere per il loro inserimento nell’ambito delle ASL o even­tualmente di altri enti regionali. Un chiaro sintomo di ciòsarebbe dato dal fatto che l’opera di tale figura professionale èa carico delle finanze della Regione, come si desume dall’art. 8,che prescrive che le risorse necessarie all’applicazione dellapresente legge sono individuate nei limiti delle disponibilitàfinanziarie di cui al fondo per l’attuazione del piano socio­assi­stenziale regionale.Dopo aver ricordato i caratteri essenziali delle professionipropriamente dette, alle quali si riferisce l’art. 117, terzocomma, Cost. ed alla cui base vi è un contratto fra il professio­nista ed il cliente, la difesa della Regione ribadisce che l’attivitàdel mediatore familiare non trova la sua fonte in un contrattodi opera intellettuale, bensì in un sollecito da parte degliinteressati (cioè in una richiesta di intervento, quale può rivol­gersi solo ad una pubblica autorità) ovvero in un invito delgiudice o di enti pubblici. Si è, in ogni caso, ben lontani dalconferimento di un mandato professionale di tipo privatistico.Inoltre, dal complesso delle norme regionali emergerebbe cheil mediatore familiare o il coordinatore per la mediazionefamiliare è, in realtà, un ufficio, nel quale i singoli addettisvolgono la loro opera non in quanto scelti dalle parti o dalgiudice o dalle altre autorità, ma in quanto inseriti in un’orga­nizzazione gerarchicamente ordinata, nella quale non assumerilievo esterno l’intuitus personae del singolo operatore. Nelcaso della legge in esame, si riscontrerebbe, non l’autonomiadel professionista, ma, all’opposto, un vincolo ad agire secon­do i compiti e le finalità, di cui agli artt. 3 e 4. Il mediatorefamiliare avrà, al più, un ambito di discrezionalità, propriadell’agire amministrativo, nell’ambito di obiettivi rigidamentepredeterminati. Tutta l’attività che deve svolgere il mediatorefamiliare è, infine, a beneficio della collettività e, solo indiretta­

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mente, si riverbera sugli utenti del servizio.Da ultimo, la Regione sottolinea che anche altre Regioni han­no emanato regolamenti per disciplinare la professione dimediatore familiare.3.­ In prossimità dell’udienza l’Avvocatura generale dello Statoha depositato una memoria illustrativa.

Considerato in diritto1.­ Il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato questio­ne di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2, 3, 4 e 6della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 26 (Nor­me per la tutela dei minori e la diffusione della cultura dellamediazione familiare), nonché delle disposizioni con essi in­scindibilmente connesse o dipendenti, e dell’art. 1 della leggedella Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 27 (Modifiche alladeliberazione legislativa approvata dal Consiglio regionale nellaseduta del 10 dicembre 2008, concernente ”Norme per latutela dei minori e la diffusione della cultura della mediazionefamiliare”), denunciandone il contrasto con l’art. 117, terzocomma, della Costituzione.Ad avviso del ricorrente, le citate disposizioni ­ le quali: reca­no la definizione generale del ruolo e della figura professionaledel mediatore familiare, quale professionista deputato a svol­gere, anche su invito del giudice, un ruolo di compiuta media­zione nei procedimenti di separazione della famiglia e dellacoppia nell’interesse dei figli; prevedono e disciplinano la parti­colare figura di mediatore familiare costituita dal coordinatoreper la mediazione familiare (istituito presso ogni ASL), delquale stabiliscono i compiti e le finalità, diretti da un lato arealizzare progetti di politiche efficaci a tutela della famiglia edall’altro a costituire un punto di riferimento per i tribunali e imagistrati che si occupano di separazioni che coinvolgono figliminori; istituiscono, presso l’assessorato regionale competen­te in materia di politiche sociali, l’elenco regionale dei media­tori familiari e recano la analitica disciplina dei requisiti perl’accesso all’elenco stesso ­ si porrebbero in contrasto con ilprincipio fondamentale in materia di regolamento delle profes­sioni, in base al quale spetta esclusivamente allo Stato l’indivi­duazione delle figure professionali con i relativi profili e i titoliabilitanti.2.­ La questione è fondata.2.1.­ Con la legge n. 26 del 2008 la Regione Lazio pone unaregolamentazione complessiva della mediazione familiare, indi­viduata ­ secondo la definizione che ne dà l’art. 1 ­ come il”percorso che sostiene e facilita la riorganizzazione della rela­zione genitoriale nell’ambito di un procedimento di separazio­ne della famiglia e della coppia alla quale può conseguire unamodifica delle relazioni personali tra le parti”, e si proponecome obiettivi (art. 2) la tutela della ”famiglia e della coppiacon prole come principale nucleo di socializzazione”, il soste­gno alla genitorialità, il mantenimento, in caso di separazione,dell’affidamento dei figli ”ad entrambi i genitori, mediantel’assunzione di accordi liberamente sottoscritti dalle parti chetengano conto della necessità di tutelare l’interesse morale emateriale dei figli”.

In questo quadro, con le norme impugnate (della stessa leggen. 26 del 2008 e della coeva legge n. 27 del 2008, recante unarticolo unico a modifica dell’art. 6 della legge n. 26 del 2008)la Regione: (a) individua nel mediatore familiare colui che,”sollecitato dalle parti o su invito del giudice o dei servizisociali comunali o dei consultori o del Garante dell’infanzia edell’adolescenza, si adopera, nella garanzia della riservatezza ein autonomia dall’ambito giudiziario, affinché i genitori elabori­no personalmente un programma di separazione soddisfacen­te per loro e per i figli, nel quale siano specificati i termini dellacura, dell’educazione e della responsabilità verso i figli minori”;(b) istituisce, presso ogni azienda sanitaria locale, ”la figura delcoordinatore per la mediazione familiare avente la qualifica dimediatore familiare”, con il compito di ”acquisire dati relativialla condizione familiare attraverso indagini, studi e ricerchepresso gli enti locali, i tribunali, i servizi sociali, le associazionidi volontariato, le forze dell’ordine, le scuole e i consultori”, dicoadiuvare la Regione ”nella progettazione di politiche efficacidi tutela della vita della famiglia e della coppia e di sostegno allagenitorialità responsabile”, di ”costituire un punto di riferi­mento prioritario per i tribunali”, di avviare un dialogo contutti coloro, compresi i magistrati, che ”si occupano di situa­zioni di separazione ”disfunzionali” che vedano il coinvolgi­mento di figli minori”; (c) stabilisce le finalità del coordinatoreper la mediazione familiare (”rispondere alle esigenze di ascol­to e di aiuto che provengono dalle famiglie e dalle coppie”;offrire un punto di riferimento ”per la risoluzione dei conflittirelazionali, con particolare riferimento alle fasi della separazio­ne, del divorzio e della cessazione della convivenza”; ”raccor­darsi con le istituzioni presenti sul territorio”; ”garantire unsupporto alla progettazione di interventi e servizi sul territo­rio”; ”identificare le aree a rischio”; ”attuare azioni positiveper la promozione della pariteticità”); (d) istituisce, ”pressol’assessorato regionale competente in materia di politiche so­ciali, l’elenco regionale dei mediatori professionali”, stabilendoche ad esso ”possono iscriversi coloro che sono in possessodi laurea specialistica in discipline pedagogiche psicologiche,sociali o giuridiche nonché di idoneo titolo universitario, qualemaster, specializzazione o perfezionamento, di durata bienna­le, di mediatore familiare oppure di specializzazione professio­nale conseguita a seguito della partecipazione ad un corso,riconosciuto dalla Regione Lazio, della durata minima di cin­quecento ore”; ”coloro che, in possesso della laurea speciali­stica in discipline pedagogiche psicologiche, sociali o giuridichealla data di entrata in vigore della ]...] legge, abbiano svolto peralmeno due anni, nel quinquennio antecedente l’entrata invigore della legge, attività di mediazione familiare da compro­vare sulla base di idonea documentazione”.2.2.­ L’impianto complessivo, lo scopo ed il contenuto preci­puo delle disposizioni impugnate rendono palese che l’oggettodi esse deve essere ricondotto propriamente alla materiaconcorrente delle ”professioni” (art. 117, terzo comma,Cost.).Nello scrutinio di disposizioni legislative regionali aventi adoggetto la regolamentazione di attività di tipo professionale,

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questa Corte ha ripetutamente affermato che ”la potestàlegislativa regionale nella materia concorrente delle ”profes­sioni” deve rispettare il principio secondo cui l’individuazionedelle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, èriservata, per il suo carattere necessariamente unitario, alloStato, rientrando nella competenza delle Regioni la disciplinadi quegli aspetti che presentano uno specifico collegamentocon la realtà regionale. Tale principio, al di là della particolareattuazione ad opera di singoli precetti normativi, si configurainfatti quale limite di ordine generale, invalicabile dalla leggeregionale” (sentenze n. 153 e n. 424 del 2006, n. 57 del 2007,n. 138 e n. 328 del 2009). Ha, altresì, precisato che la ”istitu­zione di un registro professionale e la previsione delle condi­zioni per la iscrizione in esso hanno già, di per sé, una funzioneindividuatrice della professione, preclusa alla competenza re­gionale” (sentenze n. 93 del 2008, n. 138 e n. 328 del 2009).Ora, la legislazione statale, con l’art. 155­sexies del codicecivile, aggiunto dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54, ha soltantoaccennato alla attività di mediazione familiare, senza prevederealcuna specifica professione, stabilendo che ”qualora ne ravvisil’opportunità, il giudice, sentite le parti e ottenuto il loroconsenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti di cuiall’art. 155 per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti,tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con par­ticolare riferimento alla tutela dell’interesse morale e materia­le dei figli”, ma, a tutt’oggi, non ha introdotto la figura profes­sionale del mediatore familiare, né stabilito i requisiti perl’esercizio dell’attività.Le disposizioni denunciate danno una definizione della media­zione familiare, disciplinano le caratteristiche del mediatorefamiliare e stabiliscono gli specifici requisiti per l’eserciziodell’attività, con la previsione di un apposito elenco e dellecondizioni per la iscrizione in esso. Ma, così facendo, invadonouna competenza sicuramente statale.Non pare dubbio, infatti, che, attraverso la predetta disciplina,siano stati individuati i titoli abilitanti per lo svolgimento inambito regionale della professione di mediatore familiare, intal modo travalicando, secondo quanto dianzi precisato, gliambiti di competenza legislativa regionale in materia di profes­sioni.Non rileva la circostanza ­ sottolineata dalla difesa della resi­stente ­ che il mediatore familiare non sarebbe un professioni­sta autonomo, ma una figura professionale, legata alla Regione,alla quale sarebbero affidati compiti e funzioni di rilievo pubbli­cistico.Per un verso, infatti, la competenza dello Stato ad individuare iprofili professionali ed i requisiti necessari per il relativo eser­cizio spetta anche quando l’attività professionale sia destinataa svolgersi in forma di lavoro dipendente (artt. 1, comma 3, e2, comma 3, del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 30, recante ”Ricogni­zione dei principi fondamentali in materia di professioni, aisensi dell’art. 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131”); per l’altro,”l’individuazione di una specifica area caratterizzante la ”pro­fessione” è ininfluente ai fini della regolamentazione dellecompetenze derivante dall’applicazione nella materia in esame

del terzo comma dell’art. 117 Cost.” (sentenza n. 40 del 2006,nonché, tra le altre, sentenze n. 355 e n. 424 del 2005). Su talipremesse,questa Corte (sentenza n. 153 del 2006) ha già dichiaratol’illegittimità costituzionale di una normativa regionale chedisciplinava figure professionali alle quali la Regione facevaricorso per il funzionamento del sistema integrato di interven­ti e servizi sociali.3.­ L’intera legge regionale n. 26 del 2008 è inscindibilmenteconnessa, per il suo contenuto, con le disposizioni specifica­mente censurate dal ricorrente e pertanto la declaratoria diillegittimità costituzionale deve essere estesa, in via conse­quenziale, anche agli artt. 1, comma 1, 2, 5, 7 e 8, non oggettodi impugnazione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE1) dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2,3, 4 e 6 della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n.26 (Norme per la tutela dei minori e la diffusione della culturadella mediazione familiare);2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della leggedella Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 27 (Modifiche alladeliberazione legislativa approvata dal Consiglio regionale nellaseduta del 10 dicembre 2008, concernente ”Norme per latutela dei minori e la diffusione della cultura della mediazionefamiliare”);3) dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n.87, l’illegittimità costituzionale in via consequenziale degli artt.1, comma 1, 2, 5, 7 e 8 della legge della Regione Lazio 24dicembre 2008, n. 26.Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,Palazzo della Consulta, il 12 aprile 2010.F.to:Francesco AMIRANTE, PresidentePaolo MADDALENA, RedattoreGiuseppe DI PAOLA, CancelliereDepositata in Cancelleria il 15 aprile 2010.Il Direttore della CancelleriaF.to: DI PAOLA

CASSAZIONE CIVILE ­ INTERROGATORIO

Il Sole­24 Ore ­ NORME E TRIBUTI 16.04.2010 ­ pag: 39

Le risposte evasive sono prova dei fattiG.Ne.

La risposta reticente all’interrogatorio in sede civile ha comeconseguenza quella di ritenere ammessi i fatti oggetto di con­testazione. Lo sostiene la Corte di cassazione con la sentenzan. 7783 depositata il 31 marzo, che ha di fatto equiparatol’assenza di una risposta alla domanda dell’autorità giudiziariaalle dichiarazioni evasive.

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Newsletter n. 15 ­ 20 aprile 201020

La Corte ricorda innanzitutto come l’articolo 232 del Codicedi procedura civile stabilisca che le ipotesi collegabili al «se laparte non si presenta o rifiuta di rispondere senza giustificatomotivo» rappresentano i presupposti perché il giudice, esami­nati gli altri elementi probatori, possa ritenere, sulla base diuna valutazione discrezionale, «come ammessi i fatti dedottinell’interrogatorio». È evidente, pertanto, nella lettura dellaCorte, che il legislatore, con questa formulazione, ha volutoequiparare l’omessa risposta alle condotte comunque reticen­ti.Nel caso approdato al l’esame della Cassazione (che riguarda­va una richiesta di risarcimento danni nell’ambito di un con­tratto di appalto), la persona soggetta a interrogatorio avevareso una deposizione caratterizzata da numerose dichiarazionidel tipo «non ricordo», «non so», «forse».Dichiarazioni che, per la Corte, devono essere allineate a tuttigli effetti alle mancate risposte. Con la conseguenza che i fattisui quali la persona era stata interrogata dal giudice dovevanoessere considerati ormai come pienamente provati dopo unesame da parte della stessa autorità giudiziaria.G. Ne.© RIPRODUZIONE RISERVATA

Corte di Cassazione civ Sezione 3 CivileSentenza del 31 marzo 2010, n. 7783

ISTRUZIONE PROBATORIA ­ INTERROGATORIO FORMALE ­ DI­CHIARAZIONI EVASIVE EQUIPARABILI ALLA MANCATA RISPO­STA

REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONESEZIONE TERZA CIVILEComposta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:Dott. TRIFONE Francesco ­ PresidenteDott. AMATUCCI Alfonso ­ ConsigliereDott. URBAN Giancarlo ­ ConsigliereDott. SPAGNA MUSSO Bruno ­ rel. ConsigliereDott. SPIRITO Angelo ­ Consigliereha pronunciato la seguente:

SENTENZAsul ricorso proposto da:SU. SRL (OMESSO) in persona del suo liquidatore e legalerappresentante pro­tempore prof. SO. AL. , elettivamentedomiciliata in ROMA, VIA SESTO RUFO 23, presso lo studiodell’avvocato MOSCARINI LUCIO VALERIO, che lo rappre­senta e difende unitamente all’avvocato GUASTADISEGNIANTONINO giusta delega a margine del ricorso;­ ricorrente ­controFI. AU. PA. SPA (OMESSO) (gia’ FI. AU. PA. S.P.A.) in persona

del suo procuratore speciale Dott. LA. RI. , elettivamentedomiciliata in ROMA, VIA ZANARDELLI 20, presso lo studiodell’avvocato LAIS FABIO MASSIMO, che la rappresenta edifende unitamente all’avvocato SPERANZA SERGIO giustadelega a margine del controricorso;­ controricorrente ­avverso la sentenza n. 761/2004 della CORTE D’APPELLO diTORINO, SEZIONE 3 CIVILE, emessa il 26/3/2004, depositatail 11/05/2004, R.G.N. 1718/2000;udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del21/01/2010 dal Consigliere Dott. BRUNO SPAGNA MUSSO;udito l’Avvocato LUCIO VALERIO MOSCARINI;udito l’Avvocato FABIO MASSIMO LAIS;udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore GeneraleDott. SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto delricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSOCon atto di citazione notificato in data 7.1.1993 la Su. s.r.l.conveniva la Fi. Au. s.p.a. innanzi al Tribunale di Torino persentirla condannare al pagamento in suo favore della sommalire 1.491.136.115, anche a titolo di risarcimento danni conrivalutazione monetaria ad interessi legali.A sostegno della domanda la Su. esponeva: di avere diritto alpagamento di lire 301.889.920 in relazione alla minor quantita’di ”particolari” consegnati dalla Fi. rispetto alla previsionecontenuta nel contratto di appalto (Alfa Lancia di (OMESSO))e di lire 27.966.560 quanto ai ”particolari” non ricevuti inlavorazione nel periodo dicembre 1990 ­ aprile 1992 (appaltoSe. Ca. ); che la Fi. si era resa inadempiente all’obbligazioneassunta di invitare la Su. alle successive gare, con danno di lire1.014.479.631; di aver inoltre subito un danno di lire86.800.000 per lo scoppio di alcune bilancelle Fi. .Si costituiva la convenuta Fi. , eccependo il proprio difetto dilegittimazione passiva in ordine al pagamento di lire27.966.560 (appalto Se. Ca. ).Durante la trattazione della controversia la Su. rinunciava alladomanda relativa al danno di lire 86.800.000 (risarcitole del­l’assicuratore) ed insisteva sull’ammissione dell’interrogatorioformale del legale rappresentante Fi. . In seguito all’entrata invigore della Legge n. 276 del 1997, la causa veniva trasmessaalla Sezione Stralcio.Con sentenza in data 10/04/2000, il Tribunale di Torino respin­geva tutte le domande attoree.A seguito dell’appello della Su. (che, previa ammissione delleistanze istruttorie di interrogatorio formale del legale rappre­sentante Fi. e, in subordine, del giuramento decisorio, chiede­va condannarsi la Fi. Au. al pagamento di lire 1.404.336.115,oltre interesse e rivalutazione), costituitasi la Fi. Au. Pa. s.p.a.(gia’ Fi. Au. ), esperito interrogatorio formale del legale rap­presentante Fi. ed espletata consulenza di ufficio, la Corte diAppello di Torino, con la sentenza in esame n. 761 depositatain data 11/5/2004, rigettava il gravame, ritenendo, tra l’altro,formatosi il giudicato sull’accertata circostanza della stipula­zione di un contratto di transazione (accertato nella lettera

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31/5/1990 della Su. accettata dalla Fi. ).Ricorre per cassazione la Su. con quattro motivi; resiste concontroricorso la Fi. Pa. s.p.a.. Entrambe le parti hanno deposi­tato memoria e inoltre il difensore della ricorrente Su. hadepositato all’odierna udienza ”note di replica” alle conclusio­ni del P.G..

MOTIVI DELLA DECISIONECon il primo motivo si deduce violazione dell’articolo 232c.p.c. e relativo difetto di motivazione in quanto la Corte dimerito, ”dopo aver individuato in modo corretto la natura delcontratto di transazione, ha reso un’interpretazione del tuttoerrata delle sue clausole, non avvedendosi delle moltepliciviolazioni dell’accordo in cui e’ incorsa la Fi. Au. ”. Si aggiungeche ”in particolare, la sentenza impugnata viola in modo pale­se l’articolo 232 c.p.c., nella parte in cui afferma che la dedu­cente non avrebbe provato l’effettivo svolgimento delle nume­rose gare d’appalto svolte dalla Fi. nel periodo giugno 1990aprile 1992 alle quali non e’ stata inviata a partecipare.”.Con il secondo motivo si deduce violazione dell’articolo 210c.p.c. e relativo difetto di motivazione, in ordine alla relativaistanza istruttoria proposta dalla Su. .Con il terzo motivo si deduce violazione degli articoli 1362,1363, 1366, 1369 e 1371 c.c. e relativo difetto di motivazionein ordine all’interpretazione dell’accordo in data (OMESSO).Con il quarto motivo si deduce violazione degli articoli 1362,1371 c.c., relativo difetto di motivazione, in ordine ”all’altropalese profilo di illegittimita’ che inficia la sentenza impugnatariguarda la decisione resa sull’ulteriore domanda risarcitoria,con la quale la Su. ha denunciato il reiterato inadempimentoda parte della Fi. del contratto Alfa Lancia, avente ad oggettola sverniciatura di parti di automobili.Fondato e’ il primo motivo di ricorso con conseguente assor­bimento delle censure di cui agli altri motivi.Censurabile e’ la decisione in esame la’ dove, in relazione aldedotto inadempimento di Fi. Au. nei confronti dell’odiernaricorrente, per non aver consentito a quest’ultima, contraria­mente agli obblighi assunti, in sede di accordo transattivo, dipartecipare a gare di appalto ”considerandole affidate”, affer­ma che ”nonostante le considerazioni svolte in proposito daparte appellante (che ruotano tutte attorno alla scarsa atten­dibilita’ delle dichiarazioni di ignoranza delle circostanze de­dotte a prova per interpello), appare assorbente il rilievo chenon e’ applicabile alla fattispecie il disposto di cui all’articolo232 c.p.c., che presuppone la non presentazione della parteall’udienza fissata per l’interrogatorio formale o il rifiuto dirispondervi senza giustificato motivo e non gia’ una rispostaconsiderata evasiva o non attendibile. Non e’ quindi applicabi­le alla fattispecie il disposto dell’articolo 232 c.p.c. e conse­guentemente l’istituto ivi contemplato, tanto piu’ che sonocarenti gli ulteriori elementi di prova nel cui complessivocontesto e alla cui luce la legge impone di valutare la mancatarisposta, non assimilabile di per se’ ad una mera finta confes­sione”.Tale statuizione e’ fortemente censurabile.

Innanzi tutto l’articolo 232 c.p.c., in questione statuisce che leipotesi collegabili al ”se la parte non si presenta o rifiuta dirispondere senza giustificato motivo ...”, costituiscono i pre­supposti perche’ il giudice, valutati gli altri elementi probatori,possa ritenere, sulla base del suo potere discrezionale, ”comeammessi i fatti dedotti nell’interrogatorio”; e’ evidente, quindi,che il legislatore, con tale testuale formulazione, ha intesoequiparare, a detti fini probatori, sia l’omessa risposta sia icomportamenti comunque reticenti.Nella vicenda in esame, la condotta in sede di interrogatorioformale del procuratore speciale dell’odierna resistente (ca­ratterizzata di dichiarazioni tipo ”non ricordo”, come si evincedall’impugnata decisione) deve ritenersi senz’altro equiparabi­le, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di merito,alla mancata risposta, con conseguente applicazione di talenorma al caso di specie e connesso esercizio del poterediscrezionale del giudice del merito (e quindi anche dellaCorte territoriale) in ordine alla rilevanza probatoria di dettocomportamento; ha errato, dunque, la Corte d’Appello, sianel non tener conto di tale disposto normativo, sia nel nonvalutarlo compiutamente sul piano probatorio (cosi’ comeindicato nell’articolo 232 c.p.c.).Inoltre, insufficiente e generica e’ la motivazione nel punto incui, senza ulteriori specificazioni, si limita ad affermare chel’inapplicabilita’ dell’articolo 232 c.p.c., deriva anche dalla ca­renza di ulteriori elementi probatori.Pertanto, a seguito della cassazione sul punto della sentenzaimpugnata ed al conseguente rinvio, deve enunciarsi il seguen­te principio di diritto: il disposto dell’articolo 232 c.p.c., nellaparte in cui statuisce che ”il collegio, valutato ogni altro ele­mento di prova, puo’ ritenere come ammessi i fatti dedottinell’interrogatorio” e’ applicabile anche in caso di dichiarazioniche, per il loro tenore evasivo o non attendibile (come nelcaso di specie), risultino equiparabili alla ”mancata risposta”.

P.Q.M.La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara assor­biti gli altri; cassa l’impugnata decisione in relazione al motivoaccolto e rinvia, anche per le spese della presente fase, allaCorte di Appello di Torino in diversa composizione.

CASSAZIONE CIVILE ­ RISARCIMENTO

Risarcito il danno ”tanatologico” ai parenti di unavittima di un incidente

La Corte di Cassazione, con la sentenza dell’8 aprile 2010, n.8360, ha riconosciuto il diritto dei parenti della vittima di unincidente al risarcimento del c.d. danno ”tanatologico”, cioè lasofferenza patita a causa delle lesioni alle quali sia seguita, dopobreve tempo, la morte.I Giudici di legittimità, richiamando le famose sentenze delleSezioni Unite del 2008 in materia di danno non partimoniale(nn. 26972 e 26973), hanno precisato che anche l’agonia patita

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Newsletter n. 15 ­ 20 aprile 201022

nei momenti antecedenti la morte causata da altre persone oda invidenti deve essere qualificata come un danno morale chedeve essere risarcito agli eredi.Gli Ermellini hanno enunciato questo principio, ribaltando ladecisione dei giudici di merito relativa alla vicenda di un brac­ciante agricolo che era rimasto fulminato su un albero a causadei cavi dell’energia elettrica che attraversavano i rami.L’uomo aveva sofferto, prima di morire, per quasi mezz’ora,ma la Corte di Appello di Salerno ­ valutando che la morte erastata immediata ­ aveva riconosciuto a carico dell’Enel e delproprietario terriero il risarcimento agli eredi dei soli dannipatrimoniali.

Corte di Cassazione civ Sezione 3 CivileSentenza del 8 aprile 2010, n. 8360

IINCIDENTE MORTALE ­ RISARCIMENTO DEL DANNO TANATO­LOGICO AI PARENTI DELLA VITTIMA

REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONETERZA SEZIONE CIVILEComposta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:Dott. FRANCESCO TRIFONE ­ Presidente ­Dott. CAMILLO FILADORO ­ Consigliere ­Dott. ADELAIDE AMENDOLA ­ Consigliere ­Dott. GIACOMO TRAVAGLINO ­ ConsigliereDott. RAFFAELLA LANZILLO ­ Rel. Consigliere ­ha pronunciato la seguenteSENTENZAsul ricorso 14055­2006 proposto da:Ma. Po. Ru. (...), Ma. Fi. To. (...), An. To. (...), elettivamentedomiciliate in Ro., Via Pu. (...), presso lo studio dell’avvocatoGi. Fe., rappresentate e difese dall’avvocato An. D’A. giustadelega a margine del ricorso;­ ricorrenti ­controENEL DISTRIBUZIONE Ca. S.P.A. succeduta a titolo partico­lare alla S.p.A. ENEL (...) in persona del suo procuratore elegale rappresentante pro tempore Ing. Gi. Fi., elettivamentedomiciliata in Ro., Via Ci. (...), presso lo studio dell’avvocato El.Ra., rappresentato e difeso dall’avvocato Gi. Co. giusta delegain calce al controricorso;­ controricorrenti ­nonché controAl. Se., Lu. Pe., Vi. Pe.;­ intimati ­avverso la sentenza n. 184/2005 della Corte d’Appello diSALERNO, emessa il 16/9/2004, depositata il 15/03/2005,R.G.N. 1102/2002;udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del22/02/2010 dal Consigliere Dott. RAFFAELLA LANZILLO;

udito l’Avvocato Gi. Fe. per delega dell’Avvocato An. D’A.;udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore GeneraleDott. CARLO DESTRO che ha concluso per il rigetto delricorso.Svolgimento del processoIl 17.9.1990 è deceduto in An. l’agricoltore Gi. To., a causa diuna scarica elettrica, che lo ha colpito mentre era intento allavoro su di un albero di noce. Le fronde dell’albero, situatosotto la linea elettrica, erano cresciute, giungendo a toccare ifili dell’alta tensione.La morte non è stata immediata, ma è sopraggiunta dopo circamezz’ora, mentre l’infortunato si trovava a cavalcioni su di unramo, impossibilitato a muoversi per effetto dell’elettrolocu­zione; benché chiedesse aiuto, nessuno era potuto interveni­re.Nel giudizio penale seguito all’infortunio sono stati ritenutiresponsabili il proprietario del terreno, Ga. Pe., e l’impiegatodell’ENEL, responsabile dell’area sulla quale passa la linea elet­trica, Al. Se.La sentenza penale di condanna, emessa dal Pretore di NoceraInferiore e passata in giudicato, a seguito del rigetto dell’appel­lo e del ricorso per Cassazione, ha posto a carico dei respon­sabili il pagamento di una provvisionale di Lire 80 milioni, inrisarcimento dei danni patrimoniali, biologici e morali.Ma. Po. Ru., Ma. Fi. e An. To., rispettivamente vedova e figlie diGi. To., hanno proposto al Tribunale civile di Nocera Inferioredomanda di risarcimento dei danni contro Ga. Pe., Al. Se. e las.p.a. ENEL.L’ENEL e Al. Se. si sono costituiti, resistendo alle domande,mentre Ga. Pe. è rimasto contumace.Con sentenza n. 1098/2002 II Tribunale civile di Nocera Infe­riore ha accolto le domande attrici, condannando i convenuti,in via fra loro solidale, a pagare Euro 60.456,45 complessivi, atitolo di risarcimento dei danni patrimoniali (già detratto datale somma l’importo della rendita costituita dall’INAIL); Euro100.000,00 complessivi in risarcimento dei danni non patrimo­niali (di cui il 50% per la moglie ed il 25% a testa per le duefiglie), ed Euro 90.000,00 in risarcimento del danno biologico;oltre alla rivalutazione monetaria, agli interessi ed alle speseprocessuali.Proposto appello principale dalla s.p.a. Enel Distribuzione Ca.e incidentale da Vi. e Lu. Pe., quali eredi di Ga. Pe., si sonocostituite le danneggiate, le quali hanno eccepito il difetto dilegittimazione attiva della s.p.a. Enel Distribuzione, essendostata citata in primo grado l’Enel s.p.a, chiedendo comunque ilrigetto dell’appello.Si è costituito anche Al. Se., facendo propri i motivi di impu­gnazione dell’Enel.Gli eredi di Ga. Pe. hanno chiesto, con l’appello incidentale, diessere assolti da ogni domanda, per avere rinunciato all’eredi­tà del padre.Con sentenza 16 settembre 2004 ­ 15 marzo 2005 n. 184 laCorte di appello di Salerno, in parziale riforma della sentenzaimpugnata, ha ridotto la somma liquidata in risarcimento deidanni patrimoniali ed ha negato il risarcimento del danno

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biologico iure haereditario, per il fatto che la morte era statapressoché immediata.Con atto notificato il 28 aprile 2006 le Ru.­To. propongonosette motivi di ricorso per cassazione, illustrati da memoria.Resiste l’Enel Distribuzione con controricorso.

Motivi della decisione1. ­ Con il primo e il secondo motivo le ricorrenti denuncianoviolazione degli artt. 99, 100 e 101 cod. proc. civ., per nonavere la Corte di appello rilevato l’inammissibilità dell’appelloper difetto di legittimazione attiva e per carenza di interessead agire dell’appellante, s.p.a. Enel Distribuzione Ca., essendostata la causa promossa in primo grado contro la s.p.a. Enel ela sentenza del Tribunale pronunciata nei confronti di quest’ul­tima società.2. ­ I motivi non sono fondati.Vero è che l’atto di citazione in primo grado è stato notificatoalla s.p.a. Enel, con sede in Ro.Già in quella sede, tuttavia, la convenuta si è costituita comes.p.a. Enel ­ Distribuzione Ca., Centro direzionale di Na. To.(...), settore quest’ultimo che non figurava come società sepa­rata ed autonoma rispetto all’Enel s.p.a., ma come un semplicecompartimento della stessa.Nei confronti dell’ente così costituito, in relazione al quale leodierne ricorrenti non hanno sollevato eccezioni, è stataemessa la sentenza di primo gradoL’atto di appello è stato proposto ancora dalla s.p.a. Enel­Di­stribuzione Ca., Centro Direzionale di Na., Is. (anziché To.)(...), che parimenti figurava come mero settore organizzativodell’ente e non come società autonoma e distinta dalla s.p.a.Enel.E’ da escludere, quindi, che l’atto di appello sia stato propostoda un soggetto diverso dalla società che ha partecipato algiudizio di primo grado. Si trattava solo di stabilire se l’Enel sifosse ritualmente costituita in giudizio tramite il suddettocompartimento, ed in particolare se la procura alle liti fossestata conferita (per entrambi i gradi del giudizio, non solo perl’appello), da soggetto titolare del potere di rappresentarla.Su questi aspetti le ricorrenti non hanno dedotto e dimostra­to in questa sede di avere sollevato alcuna eccezione, neigiudizi di merito ed in particolare in appello, nel quale ultimohanno solo (ed erroneamente) eccepito che l’appello era statoproposto da società diversa da quella che era stata condannatain primo grado, mentre all’epoca, come si è detto, il centrodirezionale della Campania non costituiva ancora società auto­noma.In ogni caso, rileva la resistente nel controricorso che laprocura conferita dal Direttore della Distribuzione Ca. è daritenere valida in virtù dell’art. 14 dello statuto dell’Enel, ap­provato con D.P.R. 21 dicembre 1965 n. 1720, che attribuisceai direttori di compartimento, nell’ambito della circoscrizioneterritoriale e per gli affari di loro competenza, la rappresen­tanza processuale attiva e passiva dell’ente, anche per quantoconcerne la proposizione delle impugnazioni. (Cfr. anche, sultema, Cass. Civ. Sez. I, 19 novembre 1993 n. 11441; Cass. Civ.

20 dicembre 2007 n. 26977).Solo nel presente giudizio di cassazione si è costituita unas.p.a. Enel Distribuzione, come società autonoma e distintadalla s.p.a. Enel, costituita ai sensi dell’art. 13, 2° comma, d.lgs.16 marzo 1999 n. 79, sicché il controricorso è stato effettiva­mente depositato da un soggetto diverso da quello che hapartecipato ai giudizi di merito.Nella procura alle liti in calce al controricorso, tuttavia, lasocietà specifica che l’art. 13 cit. ha disposto la sua successio­ne a titolo particolare in tutti i beni e i rapporti giuridici giàfacenti capo all’Enel, relativi all’attività di distribuzione e vendi­ta dell’energia elettrica nella Regione Ca. (analogamente aquanto è stato disposto per gli altri compartimenti di distribu­zione).La società resistente è quindi legittimata a contraddire, ai sensidell’art. 111, ult. comma, cod. proc. civ.3. ­ Parimenti infondato è il terzo motivo, con cui il ricorrentelamenta violazione dell’art. 75 cod. proc. civ., per il fatto che ilsoggetto indicato come rappresentante dell’Enel Distribuzio­ne in appello, ing. Vi. Fr., è diverso da quello indicato in primogrado, ing. Gi. Io., pur avendo l’Enel richiamato nell’atto diappello la procura conferita al difensore con la comparsa dicostituzione in primo grado.Ed invero, la rappresentanza processuale dell’ente ed il poteredi conferire la procura alle liti sono inerenti alla carica didirettore compartimentale, ed è sufficiente che tale carica siarivestita nel momento in cui la procura viene conferita.Se nel giudizio di primo grado i poteri di difesa sono statiattribuiti anche per il giudizio di appello dal soggetto che inquel momento era legittimato a concederli, l’eventuale, suc­cessiva cessazione dalla carica rimane irrilevante.4. ­ Con il quarto motivo le ricorrenti lamentano la violazionedegli art. 2909 cod. civ., 324 cod. proc. civ., 538 e 539 cod.proc. pen., poiché la sentenza impugnata ­ negando loro ildiritto al risarcimento del danno biologico a titolo ereditario ­ha disatteso una pronuncia già coperta da giudicato, ed inparticolare la sentenza del Pretore penale di Nocera Inferiore,la quale ha attribuito alle parti civili una somma a titolo diprovvisionale, menzionando espressamente il diritto delledanneggiate al risarcimento del danno biologico e rigettandole eccezioni di irrisarcibilità di tale danno, con specifica motiva­zione.Richiamano la giurisprudenza di questa Corte secondo cui, seil giudice penale non si sia limitato a statuire sulla potenzialitàdannosa del fatto addebitato, ma abbia accertato e statuitosull’esistenza in concreto del danno, la decisione produce glieffetti del giudicato (Cass. Civ. Sez. 3°, 9 luglio 2009 n. 16113).4.1. ­ Il motivo non è fondato.La sentenza penale passata in giudicato è vincolante per ilgiudice civile per quanto concerne l’accertamento dei fatti;non quanto alle valutazioni e qualificazioni giuridiche attinentiagli effetti civili della pronuncia, quali sono quelle che attengo­no all’individuazione delle conseguenze dannose che possonodare luogo a fattispecie di danno risarcibile.La sentenza della Corte di cassazione n. 16113/2009, citata

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dalle ricorrenti a supporto della loro tesi, si riferisce infatti adun caso in cui venivano in questione gli accertamenti svolti insede penale circa l’esistenza in concreto del danno e la sussi­stenza del nesso causale fra il comportamento illecito ed ildanno medesimo.Nella specie, la sentenza penale viene invocata come giudicatonella parte in cui ha svolto le ragioni per cui ha ritenutorisarcibile in favore degli eredi anche il danno subito dallavittima per la perdita della vita, cioè in una sua parte mera­mente argomentativa, che quindi non vincola il giudice civile.5. ­ Con il sesto ed il settimo motivo le ricorrenti lamentanovizi di motivazione e violazione degli artt. 2043, 2056, 2059,1223 e 1226 cod. civ., nella parte in cui la Corte di appello hanegato loro il diritto di conseguire iure haereditario il risarci­mento del danno biologico subito dal defunto per effettodell’incidente.Le ricorrenti censurano l’interpretazione della Corte di appel­lo, secondo cui ­ ove la morte sopraggiunga immediatamenteo a breve distanza di tempo dall’evento lesivo ­ la lesione vienea colpire non il diritto alla salute, ma il diritto alla vita, delquale ultimo non può essere attribuita riparazione alcuna,qualora venga a mancare, con la morte, il soggetto che do­vrebbe soffrire la perdita; e sollecitano una revisione dellaconforme giurisprudenza di questa Corte.6.­ I motivi sono fondati, nei termini che seguono.Va in primo luogo rilevato che l’auspicata revisione della giuri­sprudenza di questa Corte sul tema in oggetto vi è già stata, indata successiva a quella in cui è stata emessa la sentenzaimpugnata, tramite una più puntuale sistemazione giuridica econcettuale della nozione di danno non patrimoniale e delleconseguenze risarcibili a questo titolo (Cfr. Cass. civ. S.U. 11novembre 2008 n. 26972 e n. 26973).La Corte di cassazione da un lato ha ricondotto i dannirisarcibili nell’ambito della classificazione bipolare stabilita dallegislatore, riassumendoli tutti nelle due categorie dei dannipatrimoniali e dei danni non patrimoniali, specificando che ledistinzioni elaborate dalla dottrina e dalla prassi fra dannobiologico, danno per morte, danno esistenziale, ecc., hannofunzione meramente descrittiva; dall’altro lato ha precisatoche, nel procedere alla quantificazione ed alla liquidazionedell’unica voce ”danno non patrimoniale”, il giudice deve tene­re conto di tutti gli aspetti di cui sopra.Se pertanto debbono essere evitate duplicazioni risarcitorie,mediante l’attribuzione di somme separate e diverse in rela­zione alle diverse voci (sofferenza morale, danno alla salute,danno estetico, ecc.), i danni non patrimoniali debbono co­munque essere integralmente risarciti, nei casi in cui la leggene ammette la riparazione : nel senso che il giudice, nelliquidare la somma spettante al danneggiato, deve tenere con­to dei diversi aspetti in cui il danno si atteggia nel caso concre­to.Quanto al c.d. danno tanatologico, si deve tenere conto, nelquantificare la somma dovuta in risarcimento dei danni morali,”anche della sofferenza psichica subita dalla vittima di lesionifisiche alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia

rimasta lucida durante l’agonia, in consapevole attesa dellafine”; ... sì da evitare ”... il vuoto di tutela determinato dallagiurisprudenza di legittimità che nega ... il risarcimento deldanno biologico per la perdita della vita” (Cass. S.U. n. 26972/2008, cit., § 4.9; Cass. civ. S.U. n. 26973/2006, § 2.14).Il giudice deve cioè personalizzare la liquidazione dell’unicasomma dovuta in risarcimento dei danni morali, tenendo con­to anche del c.d. tanatologico, ove i danneggiati ne faccianospecifica e motivata richiesta e le circostanze del caso concre­to ne giustifichino la rilevanza.Nella specie la Corte di appello, in contrasto con i suddettiprincipi, ha del tutto negato ai ricorrenti il risarcimento, atitolo ereditario, dei danni morali subiti dalla vittima, a causadelle gravi sofferenze che hanno preceduto la morte.La somma liquidata in risarcimento dei danni morali risultainfatti quantificata con esclusivo riferimento al compenso spet­tante ai superstiti per i danni morali subiti iure proprio, a causadella perdita del rapporto parentale.7. ­ Il quinto motivo, con cui i ricorrenti lamentano chel’appello incidentale degli eredi di Ga. Pe. avrebbe dovutoessere dichiarato inammissibile per carenza di legittimazionepassiva degli stessi, avendo essi rinunciato all’eredità, è inam­missibile per carenza di interesse, avendo la Corte di appellodisposto per l’appunto in questo senso, nella motivazione (cfr.pag. 6, terza riga, della sentenza).8. ­ In accoglimento del sesto e del settimo motivo di ricorsola sentenza impugnata deve essere cassata, limitatamente alcapo relativo alla mancata liquidazione delle somme richieste atitolo di risarcimento del danno morale subito dal defunto(erroneamente definito come danno biologico) e, non essen­do necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può esse­re decisa nel merito.La domanda di risarcimento dei danni morali subiti dalla vitti­ma nel tempo che ha preceduto la morte, proposta dagliodierni ricorrenti a titolo ereditario, deve essere accolta, sullabase delle argomentazioni e della diversa qualificazione di cuisopra (cfr. Cass. civ. Sez. III, 28 novembre 2008 n. 28423; Cass.civ. Sez. III, 30 settembre 2009 n. 20949; Cass. civ. Sez. III, 19gennaio 2010 n. 702), ed alle somme già liquidate dalla Cortedi appello in risarcimento dei danni patrimoniali e non patri­moniali subiti dalle ricorrenti iure proprio, deve essere aggiun­ta una somma a compenso dei danni morali, loro spettante”iure haereditario”, somma che si ritiene di quantificare nelmedesimo importo di Euro 90.000,00, già liquidato dal Tribu­nale come danno biologico.Restano ferme le altre statuizioni della sentenza impugnata, iviincluse quelle attinenti al diritto delle danneggiate alla rivaluta­zione monetaria ed agli interessi legali sulle somme liquidate;rivalutazione ed interessi che spettano anche sull’importo li­quidato in questa sede, con la decorrenza stabilita nella sen­tenza di primo grado.Gli intimati debbono essere condannati al pagamento dellespese del giudizio di appello, oltre che al pagamento dellespese del presente giudizio, cosi come liquidate in dispositivo.

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P.Q.M.La Corte di cassazione accoglie il sesto ed il settimo motivo diricorso e rigetta gli altri motivi.Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e,decidendo nel merito, condanna la s.p.a. Enel e Al. Se., in viafra loro solidale, a pagare alle ricorrenti, in aggiunta alle som­me determinate dalla sentenza impugnata a titolo di risarci­mento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, la sommacomplessiva di Euro 90.000,00 in risarcimento dei danni nonpatrimoniali subiti dal defunto, oltre alla rivalutazione moneta­ria ed agli interessi legali sulla somma annualmente rivalutata,con la decorrenza stabilita nella sentenza di primo grado.Condanna la s.p.a. Enel e Al. Se., in via fra loro solidale, alpagamento delle spese del giudizio di appello, liquidate com­plessivamente in Euro 7.500,00, di cui Euro 500,00 per esbor­si, Euro 2.000,00 per diritti di procuratore ed Euro 5.000,00per onorari di avvocato; e al pagamento delle spese del giudi­zio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 6.200,00, di cuiEuro 200,00 per esborsi ed Euro 6.000,00 per onorari. Inentrambi i casi con l’aggiunta del rimborso delle spese generalie degli accessori previdenziali e fiscali di legge.

CASSAZIONE CIVILE ­ IMMOBILI

ILSOLE24ORE.COM > Notizie Norme e Tributi ­ I DOCUMENTIDEL LUNEDI’

I beni immobili inseriti dal Comune nel patrimonio indisponi­bile possono comunque essere usucapiti dai privati se nonsono effettivamente destinati al servizio indicato. Non è suffi­ciente, infatti, la sola determinazione dell’ente locale per im­primere al bene il carattere di indisponibilità. A chiarirlo lasezione II civile della Cassazione con la sentenza 7059/2010.

Corte di Cassazione civ Sezione 2 CivileSentenza del 24 marzo 2010, n. 7059

USUCAPIONE ­ IMMOBILE DEL PATRIMONIO INDISPONIBILEDELLO STATO ­ EFFETTIVA DESTINAZIONE AD USO DEL SERVI­ZIO PUBBLICO

REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONESEZIONE SECONDA CIVILEComposta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:Dott. SCHETTINO Olindo ­ PresidenteDott. ODDO Massimo ­ ConsigliereDott. ATRIPALDI Umberto ­ ConsigliereDott. MIGLIUCCI Emilio ­ rel. ConsigliereDott. SAN GIORGIO Maria Rosaria ­ Consigliereha pronunciato la seguente:

SENTENZAsul ricorso 944­2005 proposto da:COMUNE PATERNO’, (OMESSO) in persona del Sindaco protempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ENNIOQUIRINO VISCONTI 20, presso lo studio dell’avvocato AN­TONINI MARIO, rappresentato e difeso dall’avvocato ORTORICCIARI SALVATORE;­ ricorrente ­e controVI. MA. (OMESSO);­ intimato ­avverso la sentenza n. 1131/2003 della CORTE D’APPELLO diCATANIA, depositata il 26/11/2003;udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del13/01/2010 dal Consigliere Dott. EMILIO MIGLIUCCI;udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore GeneraleDott. MARINELLI Vincenzo che ha concluso per il rigetto delricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSOIl Comune di Paterno’, in persona del Sindaco pro­tempore,conveniva in giudizio dinanzi alla Pretura di Paterno’, Vi. Ma.per sentirlo condannare: al rilascio della casa a piano terra sitain (OMESSO) di proprieta’ dell’istante ed occupata senza tito­lo dal convenuto; al risarcimento del danno, nonche’ alla refu­sione delle spese processuali. Si costituiva in giudizio il Vi. , ilquale eccepiva preliminarmente la incompetenza per valoredel Pretore; nel merito, chiedeva il rigetto della domandaattrice e, in via riconvenzionale, che fosse dichiarato che egliera divenuto proprietario dell’immobile rivendicato per averloacquistato per usucapione.In seguito alla declaratoria della propria incompetenza pervalore da parte del Pretore, la causa veniva riassunta dinanzi alTribunale di Catania che con sentenza depositata il 3 maggio2000 accoglieva le domande attrici, ritenendo che l’immobilede quo facesse parte del patrimonio indisponibile del Comu­ne.Con sentenza dep. il 26 novembre 2003 la Corte di appello diCatania in riforma della decisione impugnata dal Vi. , rigettavala domanda proposta dall’attore e, in accoglimento della spie­gata riconvenzionale, dichiarava che il convenuto aveva acqui­stato la proprieta’ dell’immobile de quo per usucapione.Secondo i giudici di appello l’immobile in oggetto non facevaparte di quelli rientranti nel patrimonio indisponibile rilevandoche, ai fini dell’appartenenza di un bene al patrimonio indispo­nibile dello Stato, delle Province o dei Comuni per esseredestinato a pubblico servizio, occorre una effettiva destinazio­ne a quel servizio, non essendo sufficiente la determinazionedell’ente di imprimere al bene il carattere di patrimonio indi­sponibile; nella specie, il fabbricato rivendicato dal Comuneera costituito da una piccolissima casa per civile abitazioneposta nel centro storico di (OMESSO) e del tutto priva deicaratteri strutturali necessari ad essere destinata al pretesoservizio sanitario: la stessa non era stata mai stata destinata atale servizio (neanche quando era appartenuta in proprieta’

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Newsletter n. 15 ­ 20 aprile 201026

all’Ospedale (OMESSO)). D’altra parte, la Legge RegionaleSicilia 12 agosto 1980, articolo 39 (”Istituzione delle Unita’sanitarie locali”) aveva trasferito al patrimonio dei Comuni,”con vincolo di destinazione d’uso alla competente Unita’sanitaria locale”, soltanto i beni gia’ precedentemente destinatiai servizi igienico­sanitari, e non anche gli altri beni, per cui ilcespite de quo non poteva rientrare fra quelli trasferiti aiComuni.f Veniva accolta la domanda di usucapione, essendo stata dalconvenuto fornita la prova­ attraverso la deposizione del testeescusso che aveva trovato riscontro nella relazione del consu­lente e nel verbale di arresto del convenuto avvenuto perl’appunto nell’immobile de quo ­ di un possesso uti dominusesercitato fin dal 1964, mentre l’allegazione, peraltro tardivaformulata dal Comune circa un contratto di comodato con­cesso dall’Ospedale in virtu’ del quale il convenuto avrebbeiniziato a detenere l’immobile, non era in alcun modo provataed era addirittura inverosimile: irrilevanti erano le circostanzecirca lo stato di inabitabilita’ del cespite de quo o che il Vi. nonlo abitasse effettivamente, giacche’ ­ mentre erano ininfluentiai fini dell’esercizio del possesso le modalita’ di utilizzo delbene era risultato che il convenuto non aveva mai cessato dipossederlo come acclarato dalla nota con cui il medesimoaveva immediatamente replicato alla richiesta di rilascio inol­tratagli dal Comune.Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione il Co­mune di Paterno’ sulla base di due motivi.Non ha svolto attivita’ difensiva l’intimato.MOTIVI DELLA DECISIONECon il primo motivo il ricorrente, lamentando violazione efalsa applicazione della Legge n. 833 del 1978 e della LeggeRegionale Sicilia n. 87 del 1980 anche in relazione alla Legge n.2248 del 1865, articolo 5 censura la decisione gravata laddoveaveva ritenuto quale requisito per l’appartenenza di un bene laconcreta destinazione al servizio pubblico, deducendo che ilprincipio affermato al riguardo dalla Suprema Corte non erapertinente alla fattispecie in esame, posto che nella presentevicenda il carattere di bene patrimoniale indisponibile dell’im­mobile de quo trovava fonte non in un provvedimento ammi­nistrativo ma nelle legge, atteso che la Legge n. 833 del 1978,articolo 66, lettera b) prevede che tutti i beni appartenuti aglienti ospedalieri transitano nel patrimonio del Comune e cio’indipendentemente dalla loro effettiva destinazione al serviziopubblico, destinazione invece richiesta per i beni indicati dallalettera a) del citato articolo 66; la legislazione regionale si erapoi adeguata a tale disciplina e, in particolare la Regione Sicilia,con la Legge n. 87 del 1980, articoli 39 e 40.Il motivo e’ infondato.La sentenza, nell’escludere che l’immobile de quo facesse par­te del patrimonio indisponibile del Comune di Paterno’ (altri­menti non sarebbe stato suscettibile di essere usucapito), haaccertato che il cespite, anche per le sue caratteristiche, nonera stato mai destinato al servizio igienico­sanitario, anchequando apparteneva all’Ospedale (OMESSO).Non potrebbe invocarsi al riguardo il dettato dalla norma di

cui alla Legge n. 833 del 1978, articolo 66 dovendo qui consi­derarsi che, essendosi la Legge n. 833 del 1978, articolo 66,comma 2, lettera b) limitato a prevedere il trasferimento alpatrimonio del Comune, in cui sono collocati con vincolo didestinazione alle UU.SS.LL., dei beni e delle attrezzature gia’appartenenti agli enti ospedalieri, deve escludersi che ­ inmancanza di una espressa previsione ­ la norma abbia intesoattribuire al patrimonio del comune tutti i beni gia’ apparte­nenti ai predetti enti indipendentemente dalla loro effettivadestinazione pregressa e in assenza di qualsiasi collegamentodi carattere funzionale con le competenze attribuite alleUU.SS.LL. dalla legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale;infatti, lo stesso articolo 66 prevede l’affidamento alle medesi­me unita’ sanitarie della gestione (soltanto) dei beni mobili edimmobili e delle attrezzature destinate ai servizi igienico­sani­tari e all’esercizio di tutte le funzioni dei Comuni e dei loroconsorzi in materia igienico­sanitaria (Cass. 1957/2007), ne’ iltrasferimento al patrimonio del Comune dei predetti benipotrebbe trovare titolo nella normativa (nella specie la LeggeRegionale Sicilia Calabria n. 87 del 1980, articolo 39) emanatadalle regioni in attuazione del citato articolo 66. La normaregionale, che aveva il compito di dare concreta attuazione alladisposizione dettata dalla norma statale, ha previsto all’artico­lo 39 citato appunto la necessaria ricognizione delle compo­nenti del patrimonio al fine di stabilire ­ in base alla effettivadestinazione totale o prevalente al servizio igienico ­ sanitario­ quali sarebbero stati in concreto i beni da trasferire aiComuni con vincolo di destinazione alle UU.SS.LL..Con il secondo motivo il ricorrente, lamentando violazione efalsa applicazione dell’articolo 141 c.c., comma 2 e articolo1158 cod. civ. nonche’ omessa, insufficiente e contraddittoriamotivazione su un punto decisivo della controversia (articolo360 c.p.c., n. 5), censura la decisione che aveva accolto ladomanda di usucapione, ritenendo irrilevante la condizione difatiscenza dell’immobile de quo, mentre da tale circostanza sisarebbe dovuto presumere che il convenuto, dimostrandototale disinteresse, lo avesse abbandonato in epoca anterioreal 1986 rinunziando ad acquistarne la proprieta’.Il motivo e’ infondato.La sentenza ha accertato, alla stregua delle risultanze istrutto­rie che sin dal 1964 il convenuto aveva posseduto l’immobilede quo, abitandovi e compiendo lavori di ristrutturazionediretti a realizzare un bagno e una cucina: la situazione attualedel cespite, risultato inabitabile e in effetti non abitato dalconvenuto, non assumeva alcuna rilevanza , una volta che erarisultato dimostrato il decorso del termine utile per maturarel’usucapione; in proposito, i giudici hanno chiarito che, mentrele modalita’ di utilizzo del bene sono influenti, il possessodell’immobile da parte del Vi. non era mai cessato se e’ veroche il medesimo, di fronte alla richiesta di rilascio inoltrataglidal Comune il 7­4­1988, aveva immediatamente replicato connota del 18­4­19888 dichiarando l’intenzione di continuare adesercitare il possesso;in tal modo la Corte ha correttamenteritenuto che il convenuto aveva esercitato e conservato ilpossesso anche solo animo, essendo in suo potere di ripristi­

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nare in ogni tempo la relazione di fatto con la cosa senzaricorrere ad azioni violente o clandestine. La doglianza, purfacendo riferimento a violazioni di legge e a vizi di motivazio­ne, da cui la sentenza e’ immune, si risolve in una inammissibilerichiesta di riesame del merito della causa. Al riguardo, varicordato che il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoriamotivazione denunci abile con ricorso per cassazione ai sensidell’articolo 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5, si configurasolo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscon­trabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi dellacontroversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovve­ro un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate taleda non consentire l’identificazione del procedimento logico­giuridico posto a base della decisione; tali vizi non possonoconsistere nella difformita’ dell’apprezzamento dei fatti e delleprove dato dal giudice del merito rispetto a quello pretesodalla parte, spettando solo al giudice di merito individuare lefonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllar­ne l’attendibilita’ e la concludenza, scegliere tra le risultanzeistruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discus­sione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, men­tre alla Corte di Cassazione non e’ conferito il potere diriesaminare e valutare autonomamente il merito della causa,non essendo compito del giudice di legittimita’ verificarel’esattezza della decisione rispetto alle risultanze istruttorie:spetta alla Cassazione, che non puo’ esaminare gli atti, tranneche sia dedotto un error in procedendo, quello di controllare,sotto il profilo logico e formale, la correttezza giuridica delprovvedimento impugnato attraverso l’esame del suo conte­nuto intrinseco.Il ricorso va rigettato.Non va adottata alcuna statuizione in ordine alla regolamenta­zione delle spese relative alla presente fase,non avendo l’inti­mato svolto attivita’ difensiva.P.Q.M.Rigetta il ricorso.

CASSAZIONE PENALE ­ FAVOREGGIAMENTO

Il Sole­24 Ore del lunedìsezione: GIUSTIZIA E SENTENZE data: 2010­04­19 ­ pag: 36

Il silenzio del pubblico ufficiale è reatodi Selene Pascasi

È favoreggiamento il silenzio del pubblico ufficiale che, tacen­do su circostanze a lui note, intralci la cattura del latitante.Scatta, così, la condanna ai sensi dell’articolo 378 del codicepenale per l’agente che ometta di riferire ai propri superiorielementi utili all’arresto del ricercato. A sostenerlo la sezioneVI penale della Cassazione con la sentenza 11473/10.Configurabile, dunque, il reato di favoreggiamento anche incaso di mera ”omissione” purché proveniente ­ si legge nellapronuncia ­ da soggetti interni «alle istituzioni della giustiziapenale, nei confronti dei quali la legge configura una vera e

propria posizione di garanzia» nell’attività di ricerca del malvi­vente. Essenziale,allora,non solo l’intralcio alle indagini maanche il ruolo rivestito da chi era tenuto ­ per posizione ­ aldovere di collaborazione.Coinvolto nella vicenda, un carabiniere indagato di favoreggia­mento e rivelazione di segreti d’ufficio, nei cui confronti erastata chiesta la sospensione cautelativa dal servizio. La misura,inizialmente non inflitta dal giudice per le indagini preliminari,veniva applicata dal tribunale che, su ricorso del pubblicoministero, sospendeva l’uomo dall’incarico per due mesi.Al pubblico ufficiale era stata contestata l’omessa comunica­zione ai più alti graduati del luogo dove si nascondeva unlatitante, ricercato per tentata rapina aggravata commessa aidanni di uno straniero, peraltro irregolare.Il militare, difatti, venuto a conoscenza del rifugio per via deirapporti intrattenuti con la convivente del reo, anziché de­nunciare aveva taciuto. E aveva perfino consigliato la donna difar ricoverare il compagno viste le precarie condizioni di salu­te in cui versava in conseguenza delle reazioni della vittima.Così facendo, aveva ostacolato le attività di ricerca della poli­zia giudiziaria ritardando la cattura del latitante. Il pubblicoufficiale respinge gli addebiti e ricorre per Cassazione, postoche la legge punisce per favoreggiamento chi «aiuta taluno adeludere le investigazioni dell’autorità, o a sottrarsi alle ricer­che di questa». Ma­ rileva la difesa ­ l’ assistito ha solo ”omes­so”.La Cassazione, invece, ravvisa il reato anche quando «il con­tegno addebitato si risolva in una mera omissione» purchéproveniente da chi rivesta una «posizione di garanzia nei con­fronti della giustizia penale». In altre parole, è il dovere diimpedire il reato e di collaborare con gli inquirenti che, sedisatteso, fa scattare il favoreggiamento. Rileverà penalmente,allora, la condotta tenuta dal ricorrente che, omettendo didenunciare il nascondiglio del latitante, ritardi l’interventodell’autorità anziché agevolarlo.Quanto alla rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio, lacontestazione mossa al militare riguardava l’aver riferito allaconvivente del latitante talune notizie apprese dalla banca datidelle forze dell’ordine. Circostanze che dovevano restaresegrete poiché relative a precedenti di polizia giudiziaria ri­guardanti i familiari dello straniero, irregolare, vittima dellatentata rapina da parte del ricercato.Al riguardo ­ afferma la Cassazione ­ non servirà verificare sedalla violazione del segreto, commessa dal pubblico ufficiale,sia derivato o meno un danno per la pubblica amministrazio­ne.Sarà sufficiente, affinché sussista il reato, che la rivelazione delsegreto d’ufficio sia tale da poter cagionare un pregiudizioall’interesse tutelato. Motivazioni che hanno condotto al re­spingimento su entrambi i fronti del ricorso presentato.© RIPRODUZIONE RISERVATA

Corte di Cassazione pen Sezione 6 PenaleSentenza del 25 marzo 2010, n. 11473

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Newsletter n. 15 ­ 20 aprile 201028

REATI CONTRO L’AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA ­ DE­LITTI CONTRO L’ATTIVITA’ GIUDIZIARIA ­ FAVOREGGIAMENTO

REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONESEZIONE SESTA PENALEComposta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:Dott. DE ROBERTO Giovanni ­ PresidenteDott. MANNINO Saverio F. ­ ConsigliereDott. SERPICO Francesco ­ ConsigliereDott. IPPOLITO Francesco ­ ConsigliereDott. ROTUNDO Vincenzo ­ Consigliereha pronunciato la seguente:

SENTENZAsul ricorso proposto da:D’. Cl. ;avverso l’ordinanza 30 novembre 2009 il Tribunale di Roma;Visti gli atti, l’ordinanza denunciata ed il ricorso;Udita nell’udienza in camera di consiglio la relazione fatta dalPresidente DE ROBERTO Giovanni;Udite le conclusioni del Pubblico ministero, nella persona delSostituto Procuratore Generale, Dott. MURA Antonio, cheha concluso per l’inammissibilita’ del ricorso.

OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO1. Con ordinanza 30 novembre 2009 il Tribunale di Roma, inaccoglimento dell’appello del Pubblico ministero contro ilprovvedimento 21 settembre 2009 del Giudice per le indaginipreliminari del Tribunale di Velletri che aveva disatteso la ri­chiesta di applicazione della misura interdittiva della sospen­sione dall’esercizio dal pubblico ufficio di carabiniere nei con­fronti di D’.Cl. , applicava la detta misura interdittiva per ladurata di due mesi essendo gravemente indagato dei reati difavoreggiamento (addebitatogli per avere aiutato Se.Ed. , al­l’epoca ricercato dal Commissariato di Velletri per tentatarapina aggravata commessa nell’abitazione di Cr.Al. , persona,per di piu’, presente irregolarmente nel territorio dello Statoin quanto espulso con provvedimento del Prefetto di Latina,eseguito mediante accompagnamento coattivo alla frontiera,ad eludere le investigazioni dell’autorita’, omettendo di de­nunciarlo quantunque fosse a conoscenza del luogo di rifugio,intrattenendo contatti con la convivente del Se. , Ha.Sa. , edincontrandolo nel periodo di irreperibilita’ almeno una volta,prima della presentazione dello stesso Se. , ferito, presso ilPoliclinico (OMESSO)) e di rivelazione di segreto di ufficio(addebitatogli perche’, violando i doveri inerenti le funzioni edil servizio rivelava alla Ha. notizie di ufficio relative a prece­denti di polizia giudiziaria riguardanti i familiari di Cr. Al. ap­presi dagli atti di ufficio ­ banca dati delle forze dell’ordine ­ lequali dovevano rimanere segrete, circa fatti di usura).Il Tribunale, con riferimento al delitto di cui all’articolo 378

c.p., precisava che la condotta interlocutoriamente contestataal D’. era di natura esclusivamente omissiva e che tale omis­sione si era manifestata in un comportamento diretto a ritar­dare la ricerca del Se. ; piu’ in particolare, l’indagato, anziche’rivelare alla polizia giudiziaria il luogo ove era nascosto l’auto­re della rapina, aveva contattato la convivente dello stesso, siaera poi incontrato con il ricercato ed aveva consigliato la Ha.di far ricoverare il convivente in ospedale date le sue precariecondizioni di salute provocate dalla reazione della vittimadella rapina; giunto al Policlinico (OMESSO), il Se. era statosubito fermato in quanto colpito da provvedimento di fermo.Relativamente al delitto di rivelazione di segreto di ufficio, ilTribunale evocava le ”evidenze captative” e le ”espresse am­missioni rese dal D’. al GIP di Velletri, sull’avvenuta interroga­zione del sistema SDI”.In punto di esigenze cautelari, il giudice dell’appello richiama­va quelle di cui all’articolo 274, lettera c).2. Ricorre per cassazione il D’. denunciando violazione dilegge e mancanza e manifesta illogicita’ della motivazione.Con riferimento al delitto di cui all’articolo 378 c.p., deduceche dalle telefonate intercettate non sarebbe emersa alcunaattivita’ favoreggiatrice del ricorrente che non ebbe ad ospita­re il latitante ma che si limito’ a consigliare la Ha. di far rico­verare subito il marito in ospedale, senza impedire o ritarda­re la cattura del latitante. Con riguardo al delitto di cui all’ar­ticolo 329 c.p. esclude di avere mai interrogato il sistema SDI.Analoga censura viene avanzata in punto di esigenze cautelari,stante il costante corretto servizio espletato dal ricorrentenell’Arma dei carabinieri e la sua incensuratezza.Il ricorso e’ infondato.3. Con riferimento al delitto di favoreggiamento, si riproponela problematica concernente la ipotizzabilita’ della condottadescritta nell’articolo 378 c.p. tutte le volte in cui il contegnoaddebitato si risolva in una mera omissione.Ed a tale riguardo la giurisprudenza dominante appare orien­tata in senso positivo, peraltro talora sovrapponendo (la te­matica e’ stata infatti affrontata in relazione a dichiarazionirese ­meglio, non rese ­ alla polizia giudiziaria, in grado dideterminare un turbamento della funzione giudiziaria) il mo­dello esternativo della dichiarazione falsa alla natura dellacondotta costituente reato; tanto da consentire di qualificarecommissivo (mediante omissione) il contegno elusivo delleindagini.Sennonche’ nel caso di specie, e’ la qualita’ soggettiva delricorrente ad assumere rilievo esponenziale. Infatti, penetran­do davvero nella tematica del favoreggiamento contrassegna­to da una condotta omissiva puo’ qui ripetersi che se e’ veroche non qualsiasi dovere di collaborazione puo’ assumererilievo, e’ anche vero che ove la condotta concerna l’impedi­mento dell’evento delittuoso tipizzato secondo il modellodelineato nell’articolo 40 c.p., comma 2, il dovere si incentrain una posizione di garanzia nei confronti della giustizia pena­le, concernente le situazioni descritte nell’articolo 378 c.p..Cosicche’ il favoreggiamento omissivo e’ configurabile conriguardo a soggetti intranei alle istituzioni della giustizia pena­

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le, nei confronti dei quali la legge configura una vera e propriaposizione di garanzia per la normalita’ delle ricerche postdelictum.Ed in proposito corrette si rivelano le argomentazioni utiliz­zate dal giudice a quo, il quale ha posto in luce come il D’. ,pur conoscendo la qualita’ di ricercato del Se. , essendo statoinformato (come risulta dalle conversazioni intercettate) deldelitto da lui commesso, anziche’ riferire immediatamente allapolizia giudiziaria (vale a dire, anche ai suoi diretti superiori)o alla autorita’ giudiziaria, proseguiva i suoi contatti telefonicicon la Ha. , consigliandola, ben tre giorni dopo la comunica­zione della notizia di reato, di far ricoverare il convivente inospedale, tanto da ritardare il fermo, avvenuto solo a seguitodel detto ricovero e, dunque, non eseguito immediatamenteproprio in forza del contegno omissivo di chi aveva il doveregiuridico di provocare l’intervento dell’autorita’.Un grave quadro indiziario emerge anche in relazione al delit­to di cui all’articolo 326 c.p., alla stregua sia del contenutodelle conversazioni intercettate sia delle stesse ammissionidel D’. . Il tutto senza che, peraltro, rilevi ­ almeno allo stato­la necessita’ di verificare che dalla violazione del segreto,commessa dal pubblico ufficiale sia derivato un danno per lapubblica amministrazione, essendo sufficiente che la rivelazio­ne del segreto sia tale da poter cagionare nocumento all’inte­resse tutelato (cfr., ex plurimis, Sez. 1, 29 novembre 2006,Bria).Infondate appaiono pure le censure in punto di esigenze cau­telari, alla stregua dell’ampia corretta motivazione dell’ordi­nanza impugnata la quale non ha mancato di rimarcare comeil contegno dell’indagato appare, per le sue concrete caratte­ristiche, l’inquietante segnale di una personalita’ disancoratadalla mera occasione, capace percio’ di manifestarsi in ulte­riori fatti dello stesso tipo, a prescindere dal luogo ove l’inda­gato sia chiamato a prestare servizio.4. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrenteal pagamento delle spese processuali.La cancelleria provvedere agli adempimenti di cui all’articolo28 disp. att. c.p.p..

P.Q.M.Ricetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento dellespese processuali. Manda alla cancelleria per gli adempimentidi cui all’articolo 28 disp. att. c.p.p..

CASSAZIONE PENALE ­ INTERCETTAZIONI

Le Sezioni Unite prevedono più limiti

Le Sezioni Unite, con sentenza del 9 aprile 2010, n. 13426,hanno precisato che se una intercettazione viene effettuata inmodo illegittimo, questa deve essere ritenuta totalmenteinutilizzabile ed anzi non può trovare neppure spazio nel gui­dizio riguardante le misure di prevenzione.Il processo di prevenzione ­ ha precisato la Corte di Cassa­zione a Sezioni Unite ­ non deve essere valutato come un

procedimento ”minore”, inquanto ”la giurisprudenza dellaCorte europea dei Diritti dell’Uomo,da un lato, e quella co­stituzionale, dall’altro, impongono, dunque, una ”lettura” delprocedimento di prevenzione che sia in linea con i principidel ”giusto processo”.Il che, evidentemente, avvalora la tesi di quanti ritengonopreclusa la ”fruibilità”, anche se ai lmitati fini del giudizio diprevenzione, di intercettazioni inutilizzabili a norma dell’arti­colo 271 del codice di rito, in quanto la inosservanza dellerelative garanzie di legalità finirebbe altrimenti, per contami­naree compromettere il ”giusto procedimento di prevenzio­ne”, che tale può definirsi soltanto se basato su atti ”legal­mente” acquisiti.

Corte di Cassazione pen Sezioni Unite PenaleSentenza del 9 aprile 2010, n. 13426

PROCEDIMENTO DI PREVENZIONE ­ USO DELLE INTERCETTA­ZIONI DICHIARATE INUTILIZZABILI NEL GIUDIZIO DI COGNI­ZIONE ­ ILLEGITTIMO

REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONESEZIONI UNITE PENALI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri magistrati:Dott. Torquato GEMELLI ­ PresidenteDott. Ernesto LUPO ­ ComponenteDott. Umberto GIORDANO ­ ComponenteDott. Carlo Giuseppe BRUSCO ­ ComponenteDott. Antonio Stefano AGRO’ ­ ComponenteDott. Mario ROTELLA ­ ComponenteDott. Vincenzo ROMIS ­ ComponenteDott. Giovanni CONTI ­ ComponenteDott. Alberto MACCHIA ­ Componente (Rel.)ha pronunciato la seguente

SENTENZAsul ricorso proposto da:Gi. Gi. Ca., nato a Li. il (...);Ca. Ca., nato a Li. il (...);Da. Pa. Me., nato a Ta. il (...);Pa. Sc., nato a Ta. l’(...);Pa. Lo., nato a Li. il (...);Li. D’E., nata a Li. il (...);Mi. Ar., nata a Ma. il (...);avverso l’ordinanza pronunciata dalla Corte di appello di Lec­ce, Sezione distaccata di Taranto, il 28 aprile 2006;udita in camera di consiglio la relazione fatta dal Consiglieredott. Alberto Macchia;letta la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale dott.Antonio Gialanella, che ha concluso chiedendo l’annullamentocon rinvio per nuovo esame alla Corte di appello di Lecce

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Newsletter n. 15 ­ 20 aprile 201030

della ordinanza impugnata con riferimento alla posizione di Pa.Lo., Ca. Ca., Li. D’E., Pa. Sc. e Mi. Ar.; l’annullamento senzarinvio della decisone impugnata, perché venuta meno la perso­na destinataria della misura, nei confronti di Da. Pa. Me.limitatamente alla misura personale ed alla cauzione a costuirispettivamente applicata e imposta; l’annullamento con rinvioalla Corte di appello di Lecce della decisione impugnata conriguardo alla applicazione, al medesimo Da. Pa. Me., di misurapatrimoniale; la dichiarazione di inammissibilità del ricorsoproposto nei confronti di Gi. Gi. Ca.Ritenuto in fatto1. ­ Con ordinanza del 28 aprile 2006, la Corte di appello diLecce, Sezione distaccata di Taranto, ha parzialmente riforma­to il provvedimento emesso il 3 aprile 2003 dal Tribunale diTaranto con il quale era stata applicata la misura di prevenzio­ne della sorveglianza speciale di P.S. per anni cinque, conobbligo di soggiorno nei rispettivi Comuni di residenza, neiconfronti, per quanto qui rileva, di Da. Pa. Me., Pa. Lo., Pa. Sc.e Ca. Ca., nonché la misura patrimoniale della confisca di benie terreni riconducibili agli stessi, revocando:­ la confisca dell’autovettura Fiat Punto tg. (...) appartenente aPa. Lo. e Ma. Lo. Me.;­ la confisca dell’autovettura Y10 tg. (...) e del ciclomotorePiaggio 50 tg. (...) telaio (...) ­ appartenenti a Ca. Ca. e Li. D’E.;­ la confisca dell’autovettura Fiat Punto tg. (...) appartenente aMa. Ni.;­ la confisca dell’autovettura Fiat Punto tg. (...) appartenentead Mi. Ar.;confermava nel resto l’impugnato provvedimento che avevasottoposto anche Gi. Gi. Ca. a misura di prevenzione patrimo­niale.Le indicate misure di prevenzione erano state applicate inrelazione all’accusa di partecipazione ad associazione mafiosa(art. 416­bis cod. pen.), poi modificata in associazione finalizza­ta al traffico di stupefacenti (art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990),nell’ambito del processo avviato dall’operazione di polizia c.d.Qu. Va., che aveva inizialmente portato alla condanna degliattuali ricorrenti per poi concludersi con l’assoluzione. Inparticolare, con sentenza 13 gennaio 2005, la Corte d’appellodi Lecce, quale giudice di rinvio, aveva assolto, per insussisten­za del fatto, gli imputati Da. Pa. Me., Fr. Ri. e Al. Ze., inconseguenza della ritenuta inutilizzabilità delle intercettazioniambientali per difetto di motivazione in ordine all’eccezionaleurgenza ed all’inidoneità ed insufficienza delle apparecchiatureesistenti presso la Procura della Repubblica. Ciò, in dipenden­za dei dieta enunciati da questa Corte, Sezione VI penale, nellasentenza n. 32865 del 13 maggio 2004, con la quale era stataappunto annullata con rinvio, per tale ragione, la pronuncia dicondanna adottata dalla Corte territoriale.2. ­ Avverso il provvedimento indicato in premessa hannoproposto ricorso per cassazione tanto i prevenuti ivi indicatiche i terzi interessati alle misure di prevenzione patrimoniali.Nel ricorso proposto nell’interesse di Da. Pa. Me., si deduce,nel primo motivo, violazione di legge e vizio di motivazione inriferimento alla sussistenza dei presupposti per l’applicazione

della misura di prevenzione disposta dal primo giudice e nonrevocata in appello, sul rilievo che, nella specie, essendo stataesclusa, nel giudizio di merito originato dalla operazione Qu.Va., la fattispecie di cui all’art. 416­bis cod. pen., ma pronuncia­ta condanna per diversi reati in tema di violazione della leggesugli stupefacenti (artt. 73 e 73 del d.P.R.n. 309 del 1990), nonsussisterebbero i presupposti di legge per l’applicazione dellasorveglianza speciale di cui alla disciplina antimafia previstadalla legge n. 575 del 1965. In particolare, risulterebbe erratoil richiamo, operato dai giudici a quibus, all’art. 14 della legge n.55 del 1990, in quanto tale disposizione consente di svolgerele indagini e applicare le misure di prevenzione a caratterepatrimoniale anche ai soggetti indiziati di altri reati diversi daquelli di cui all’art. 416­bis cod. pen. (art. 75 della legge n. 685del 1975, poi sostituito dall’art. 74 del d.P.R. n 309 del 1990),ma non consentirebbe l’estensione a tali categorie anche dellenorme sulla applicazione delle misure di prevenzione a carat­tere personale. L’applicazione della misura non prevista dallalegge integrerebbe, pertanto, ad avviso del ricorrente, unaillegittima estensione in malam partem, vietata dall’ordinamen­to. Si sottolinea, poi, la incongruenza degli elementi desunti, asostegno della pericolosità sociale, dalle emergenze scaturitedal procedimento Qu. Va., posto che una larga parte deiprovvedimenti adottati nel corso di quel procedimento a cari­co di coimputati sono stati poi annullati o revocati. Difettereb­be, inoltre, la attualità della pericolosità, considerato che i fattioggetto di imputazione in quel processo risalirebbero ormai al2000. Viene poi contestata la motivazione del provvedimentoimpugnato in riferimento alla durata della misura di prevenzio­ne ed al mantenimento dell’obbligo di soggiorno. Nel secondomotivo di ricorso viene dedotta la mancanza del requisito dicui all’art. 1, n. 2), della legge n. 1425 del 1956, avendo ilprevenuto sempre lavorato onestamente, mentre nel terzo edultimo motivo si prospetta la sussistenza di un bis in idem, perdi più promanante da una pronuncia ultra petita, in quanto neiconfronti del prevenuto era stata già applicata la misura diprevenzione personale con provvedimento non ancora esegui­to ma irrevocabile.Il ricorrente risulta nelle more deceduto in data 9 giugno2008, come da certificazione in atti.Nel ricorso proposto nell’interesse di Pa. Lo., si deduce viola­zione di legge, in quanto l’assunto accusatorio nei suoi con­fronti si fondava, nell’ambito del procedimento Qu. Va., sulleintercettazioni ambientali che poi sono state dichiarate inuti­lizzabili, al punto che la Corte di appello di Lecce aveva estesoil giudicato di proscioglimento anche nei confronti dello stessoricorrente. La tesi dei giudei a quibus di utilizzare le intercetta­zioni ai fini del procedimento di prevenzione si fonderebbe,adavviso del ricorrente, su una erronea interpretazione dellagiurisprudenza di legittimità, giacché l’autonomia del procedi­mento di prevenzione non può valere nei casi in cui la inter­cettazione sia stata effettuata, come nella specie, fuori dei casiprevisti dalla legge. Pertanto, in virtù del rinvio operato dal­l’artt. 20 della legge n. 152 del 1975 e dall’art. 208 disp. coord.cod. proc. pen., alla disciplina delle indagini preliminari ed alle

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norme processuali che disciplinano l’attività investigativa delpubblico ministero, le intercettazioni illegittime non possonotrovare ingresso neppure nel procedimento di prevenzione.Il primo motivo dei ricorsi proposti nell’interesse di Ca. Ca. edi Li. D’E., terza interessata, nonché di quello rassegnato perPa. Sc. e Mi. Ar., terza interessata, è uguale al primo motivo delricorso proposto nell’interesse di Da. Pa. Me., del quale già siè detto. Il secondo motivo dei ricorsi del Ca. Ca. e dello Pa.Sc. prende in considerazione le misure patrimoniali. Per iconiugi Ca. Ca. ­ Li. D’E. si deduce la circostanza che il primoavrebbe lavorato come bracciante agricolo e si contesta l’af­fermazione secondo la quale i beni sequestrati al proposto edalla moglie sarebbero frutto di attività delittuosa e si osservache i cespiti oggetto delle misure patrimoniali sarebbero statiacquisiti in epoca antecedente ai fatti cui si è riferita l’attivitàdella associazione contestata nell’ambito del procedimentoQu. Va. Ciò vale sia per le disponibilità relative al contocorrente che per quanto attiene all’appartamento confiscato,le cui provviste si assumono essere, per entrambi i cespiti, dilecita provenienza. Nella sostanza non dissimili i rilievi checompongono il corrispondente motivo di ricorso propostoper la coppia Pa. Sc. ­ Mi. Ar.. Si deduce, infatti, che la famigliaPa. Sc. era titolare di diverse fonti di reddito, sicché si rivele­rebbe immotivato il provvedimento di confisca, in quanto nonassistito da congrui elementi di fatto, mentre sarebbe stataimmotivatamente ritenuta non credibile la prospettazione di­fensiva relativa agli aiuti economici che provenivano dai familia­ri. Quanto, poi, all’acquisto dell’immobile, gravato da mutuoipotecario, si asserisce che l’epoca del relativo acquisto sareb­be antecedente a quella a partire dalla quale avrebbe iniziatoad operare il sodalizio diretto dal Da. Pa. Me. e si contesta,infine, la sussistenza dei presupposti per il mantenimento dellaconfisca del conto corrente bancario di cui la coppia dispone­va.Con successive memorie e motivi aggiunti, il difensore di Ca.Ca., Pa. Sc., Li. D’E. e Mi. Ar. ha sottolineato la inutilizzabilità,anche nel procedimento di prevenzione, delle intercettazionidichiarate inutilizzabili nel processo cosiddetto Qu. Va., segna­lando, a tale proposito, anche la pronuncia nel frattempointervenuta ­ di queste Sezioni unite del 30 ottobre 2008, n.1153, Racco, che ha sancito il principio secondo il quale lainutilizzabilità delle intercettazioni produce effetti anche nelprocedimento per ottenere la riparazione per l’ingiusta deten­zione.Nel ricorso proposto, infine, da Gi. Gi. Ca., si deduce lainsussistenza delle condizioni che legittimano i provvedimentodi confisca di un immobile, ribadendosi, nella sostanza, lemedesime censure già sviluppate in sede di gravame. In parti­colare, si sottolinea che il terreno sarebbe pervenuto al pro­posto per donazione dalla madre e che vi era una costruzionerisalente ad oltre venti anni prima, come sarebbe riscontratoda un rilievo aerofotogrammometrico effettuato dal Comunedel luogo nel 1983. Ad avviso del ricorrente, poi, il provvedi­mento impugnato affermerebbe senza prove che sarebberostati registrati cospicui investimenti immobiliari da parte de

prevenuto, mentre sarebbero state invece trascurate le entra­te legittime, di cui il medesimo disponeva. Le deduzioni sonostate poi ribadite con successiva memoria.3. ­ Dopo il deposito, in data 19 luglio 2008, della richiesta delProcuratore generale presso questa Corte, di rigetto del ri­corso presentato nell’interesse di Pa. Lo., e di declaratoria diinammissibilità degli altri ricorsi, la Sesta sezione penale, cui iricorsi erano stati assegnati, con ordinanza del 24 marzo 2009,rilevato che, in merito alla utilizzabilità, nel procedimento diprevenzione, di intercettazioni dichiarate inutilizzabili nell’am­bito del giudizio di cognizione, sussisteva un persistente con­trasto giurisprudenziale, ha rimesso il ricorso alle Sezioni Uni­te.In data 5 giugno 2009, il Presidente Aggiunto della Corte diCassazione ha restituito alla Sesta sezione il procedimento,osservando che l’ordinanza di rimessione tendeva ”chiara­mente a riaprire i termini di una questione recentementerisolta dalle S.U. (sentenza 30/10/2008 Racco), con una seriedi puntualizzazioni critiche che non assurgono ad effettive,nuove linee argomentative in tema di prova ”incostituziona­le””.La Sesta sezione, con ordinanza del 21 ottobre 2009, rilevatoche, in merito all’utilizzabilità, nel procedimento di prevenzio­ne, di intercettazioni dichiarate inutilizzabili nell’ambito delgiudizio di cognizione, sussisteva un persistente contrasto giu­risprudenziale, ha nuovamente rimesso il ricorso alle SezioniUnite. In presenza del nuovo, motivato atto di rimessione, ilPresidente Aggiunto della Corte di cassazione, con provvedi­mento del 1 dicembre 2009, ha assegnato il ricorso alle Sezio­ni unite penali.Con successiva memoria, depositata il 1 marzo 2010, il difen­sore di Ca. Ca., Li. D’E., Pa. Sc. e Mi. Ar., nel reiterare larichiesta di remissione dei ricorsi alle Sezioni Unite, ha ulte­riormente ribadito i termini del contrasto di giurisprudenzacon riferimento alla questione relativa all’utilizzabilità, nel pro­cedimento di prevenzione, delle intercettazioni ritenute inuti­lizzabili nel processo di cognizione per omessa motivazionesull’inidoneità degli impianti disponibili presso gli uffici di Pro­cura, deducendo argomenti in senso contrario alle prospetta­zioni poste in risalto dalla ordinanza della Sesta sezione.4. ­ L’ordinanza di rimessione ha evidenziato i termini delpersistente contrasto giurisprudenziale in merito all’utilizzabi­lità o meno, nel procedimento di prevenzione, di intercetta­zioni dichiarate inutilizzabili nell’ambito del giudizio di cogni­zione.Secondo un primo orientamento, infatti, si è osservato che,ferma restando l’autonomia dei due giudizi, di cognizione daun lato e di prevenzione dall’altro, che conoscono regoleprobatorie differenti, giustificabili in relazione alla diversità delloro oggetto, il materiale probatorio acquisito nel processopenale possa essere utilizzato, ma non in maniera indiscrimina­ta, dovendo essere individuati freni all’utilizzazione, in presen­za di vizi che, ad esempio, ”determinano una patologica inuti­lizzabilità”, collegata cioè alla violazione delle regole e deipresupposti previsti direttamente da norme costituzionali, di­

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rettamente applicabili nel processo di prevenzione. Sulla basedi tali premesse, alcune decisioni hanno ritenuto che l’inutiliz­zabilità dei risultati delle intercettazioni, dichiarata per undifetto del provvedimento con cui si autorizza l’uso degliimpianti diversi da quelli installati presso la procura della Re­pubblica, ”non rilevi ai fini dell’acquisizione nel giudizio diprevenzione, in quanto riguarda una regola interna al processopenale, che non è in grado di proiettare i suoi effetti nell’ambi­to delle regole probatorie del regime della prevenzione”. Sitratterebbe di una inutilizzabilità specifica del processo penale,”un vizio relativo che non intacca in maniera sostanziale lavalidità della prova che è stata disposta e che per questaragione può essere acquisita nel giudizio di prevenzione peressere valutata sulla base del diverso regime probatorio (Sez.VI, 30 settembre 2005, n. 39953; Sez. VI, 25 ottobre 2007, n.1161; Sez. II, 28 maggio 2008, n. 25919).Secondo altro orientamento, invece, la norma sul divieto diutilizzazione di cui all’art. 271 cod. proc. pen., è a tutela diregole ”poste a garanzia della segretezza e della libertà dellecomunicazioni, costituzionalmente presidiata e cioè della li­bertà dei cittadini (art. 15 Cost.), che la stessa Corte costitu­zionale ha ritenuto debba essere assicurata attraverso il ri­spetto di precise disposizioni, avuto riguardo alla particolareinvasività del mezzo della intercettazione telefonica o ambien­tale, attinenti pure alla loro esecuzione presso impianti dellaprocura della Repubblica, con una deroga in casi eccezionalispecificamente motivati (v. Corte Cost. 19.7,2000 n. 304)”.Per cui, le intercettazioni che non rispettano tali regole, devo­no essere considerate illegali e non utilizzabili in alcun modo,non solo nell’ambito del processo penale. La ”illegalità” delleintercettazioni rende quindi non valutabile quella prova inqualsiasi tipo di procedimento, compreso quello di prevenzio­ne, in quanto ”la utilizzabilità di una prova, anche se diversa daquella propria del processo penale e se assunta con formediverse da quelle stabilite dal codice di procedura penale, purse ammessa in linea di principio in procedimenti diversi daquello del giudizio ordinario di cognizione, non è mai possibilese si tratti di una prova illegale, assunta in violazione dei dirittidei cittadini garantiti dai principi costituzionali” (Sez. I, 15giugno 2007, n.29688).Il collegio rimettente è consapevole che quest’ultima interpre­tazione è stata accolta dalle Sezioni unite che, con la sentenza30 ottobre 2008, n. 1153, Racco, hanno risolto un analogocontrasto avente ad oggetto i limiti di utilizzabilità nel giudizioper la riparazione da ingiusta detenzione dei risultati delleintercettazioni disposte nel processo penale; tuttavia, ritieneche detta decisione si presti ad una serie di puntualizzazionicritiche. Per un verso, infatti, non sembrerebbe condivisibilel’assunto che tende ad equiparare fra loro la inutilizzabilità ­fenomeno tutto interno al processo ­ con la illegalità. Sottoaltro profilo, si rileva, in contrasto con la tesi espressa nellasentenza Racco, che anche la previsione che impone la motiva­zione circa il ricorso ad impianti esterni alla procura dellaRepubblica non può ritenersi direttamente attuativa del pre­cetto costituzionale: l’art. 268, comma 3, cod. proc. pen.

riguarderebbe, infatti, le modalità di esecuzione dell’intercetta­zione,e non sarebbe dunque funzionale alla tutela della libertàe della segretezza delle comunicazioni, che l’art. 15 Cost.,garantisce attraverso la previsione dell’atto motivato dell’auto­rità giudiziaria; atto che corrisponderebbe al decreto di auto­rizzazione di cui all’art. 267 cod. proc. pen. ”La motivazionecui fa riferimento la Costituzione ­ sottolinea l’ordinanza dirimessione ­ è infatti quella con cui il giudice autorizza l’inter­cettazione e, quindi, l’intrusione nella sfera di riservatezza,non anche la motivazione relativa all’uso di impianti esterni”.Si evidenzia, inoltre, sotto altro profilo, che ”la nuova formula­zione dell’art. 240 c.p.p., non costituisca un argomento diri­mente a favore della tesi della assoluta inutilizzabilità nel pro­cedimento di prevenzione delle intercettazioni eseguite in vio­lazione delle prescrizioni dell’art. 268 c.p.p., comma 3, cosìcome sostenuto dalle Sezioni unite nella citata sentenza Rac­co”. Infatti ­ sottolinea l’ordinanza di rimessione ­ il riferimen­to contenuto nell’art. 240 cit. ai dati e contenuti di conversa­zioni o comunicazioni relativi a traffico telefonico ”illegalmen­te formati” e destinati alla distruzione non può essere estesoanche alle ipotesi di inutilizzabilità di cui all’art. 271 cod. proc.pen. La disposizione in esame, introdotta dal D.L. n. 259 del2006, convertito con L. n. 281 del 2006, si riferisce ­ secondola Sezione rimettente ­ ”a condotte di formazione e acquisi­zione illegale, espressione da intendere nel senso di condotteillecite, poste in essere attraverso la perpetrazione di un reato.In altri termini, il procedimento previsto dall’art. 240 cod.proc. pen. che porta alla distruzione del materiale, ha adoggetto quelle che possono essere definite ”captazioni illeci­te” e che, secondo autorevole dottrina, devono essere distin­te dalle intercettazioni in senso tecnico, termine che va riser­vato alle captazioni operate dall’autorità giudiziaria e discipli­nate dagli artt. 266 c.p.p. e segg. Appare allora difficile ricom­prendere nella definizione di captazioni illecite le intercettazio­ni regolarmente autorizzate dal giudice, ma eseguite in viola­zione degli obblighi motivazionali previsti dell’art. 268 c.p.p.,comma 3”.5. ­ Il 16 marzo 2010, infine, il Procuratore generale pressoquesta Corte ha rassegnato nuova, articolata requisitoria, nel­la quale, dato atto della sopravvenuta decisione delle Sezioniunite Racco, ha chiesto annullarsi con rinvio il provvedimentoimpugnato con riferimento alla posizione di Pa. Lo., Ca. Ca., Li.D’E. Pa. Sc. e Mi. Ar.; annullarsi senza rinvio la decisioneimpugnata nei confronti di Da. Pa. Me. limitatamente allamisura personale ed alla cauzione, in quanto nel frattempodeceduto e disporsi l’annullamento con rinvio quanto allamisura patrimoniale; e dichiararsi, infine, inammissibile il ricor­so proposto nell’interesse di Gi. Gi. Ca.

Considerato in diritto1. ­ Come già evidenziato dalla ordinanza di rimessione delricorso alle Sezioni Unite di questa Corte, si registra unpersistente contrasto di giurisprudenza in ordine alla questio­ne se possano o meno essere utilizzati, nell’ambito del proce­dimento di prevenzione, i risultati di intercettazioni dichiarate

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inutilizzabili nel giudizio di cognizione. Secondo un primoorientamento, infatti, la inutilizzabilità delle intercettazioni nelgiudizio di cognizione non preclude la loro utilizzabilità nelprocedimento di prevenzione, se non in presenza di vizi tali dadeterminare una patologica inutilizzabilità; come accade, adesempio, quando siano violate le regole indicate dall’art. 15Cost. In ogni altro caso ­ si è affermato ­ i risultati delleintercettazioni inutilizzabili possono essere acquisiti e valutatinel processo di prevenzione. Si è in particolare sottolineatoche, ferma restando la autonomia fra i due giudizi, che cono­scono regole probatorie diverse, giustificabili in ragione delladiversità del rispettivo oggetto, possono configurarsi dei limitialla utilizzazione, nel procedimento di prevenzione, di materia­le acquisito nel processo penale, ”in presenza di vizi che, adesempio, determinino una ”patologica” inutilizzabilità”. Il che,proiettato sul tema delle intercettazioni, induce a distingueretra la inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni che abbia­no violato le ”regole e i presupposti previsti direttamentedall’art. 15 Cost., sicuramente applicabili anche nel processo diprevenzione”, e la inutilizzabilità dipendente dalla mancanza dimotivazione del provvedimento con il quale viene autorizzatol’impiego di impianti diversi da quelli installati presso la procu­ra della Repubblica, che, invece, non precluderebbe la utilizza­zione dei risultati delle intercettazioni ai fini del processo diprevenzione. Si tratterebbe, infatti, ”di una inutilizzabilità che,ai fini dell’acquisizione nel giudizio di prevenzione, non rileva,in quanto riguarda una regola interna al processo penale, chenon è in grado di proiettare i suoi effetti nell’ambito delleregole probatorie del regime della prevenzione. Con termineatecnico ­ si è puntualizzato ­ potrebbe parlarsi di una inutiliz­zabilità specifica del processo penale, nel senso che si tratta diun vizio relativo che non intacca in maniera sostanziale lavalidità della prova che è stata disposta e che per questaragione può essere acquisita nel giudizio di prevenzione peressere valutata sulla base del diverso regime probatorio” (v., intal senso, Sez. VI, 30 settembre 2005, n. 39953; Sez. VI, 25ottobre 2007, n. 1161; Sez. II, 28 maggio 2008, n. 25919).Secondo un diverso orientamento, le intercettazioni dichiara­te inutilizzabili, anche nella ipotesi in cui la inutilizzabilità siastata pronunciata per difetto di adeguata motivazione sull’indi­sponibilità degli impianti interni, non possono essere utilizzateneanche nel procedimento di prevenzione, trattandosi di pro­ve illegali, assunte in violazione dei diritti dei cittadini garantitidai principi costituzionali. Le intercettazioni che non rispetta­no le regole poste a garanzia della libertà e segretezza dellecomunicazioni, secondo le previsioni dettate dall’art. 15 Cost.,vanno infatti ritenute illegali ”al di là della sanzione che illegislatore denomina inutilizzabilità”, e pertanto i relativi risul­tati non sono suscettibili di apprezzamento, anche al di fuoridel processo penale. ”La ”illegalità” delle intercettazioni rendequindi non valutabile quella prova in qualsiasi tipo di procedi­mento”, con ovvi riverberi anche agli effetti del procedimentodi prevenzione (Sez. I, 15 giugno 2007, n. 29688). Nel medesi­mo senso, si è affermato, criticando l’opposto orientamento,che la distinzione tra inutilizzabilità patologica, limitata alle

ipotesi di intercettazione effettuata in violazione dell’art. 15Cost., perché priva della autorizzazione legale, ed inutilizzabili­tà ”non patologica”, che caratterizzerebbe la ipotesi di assenzadi motivazione del decreto del pubblico ministero circa lautilizzazione di impianti extra moenia, in quanto concernenteaspetto meramente esecutivo delle operazioni, risulterebbeuna distinzione ”gratuita”. Infatti, riprendendo, adesivamente,gli argomenti utilizzati nella sentenza delle Sezioni unite Racco,di cui si dirà fra breve, si è affermato che ”il sacrificio dellasfera privata altrui è consentito dall’art. 15 Cost., soltanto peratto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilitedalla legge. Ne consegue ­ si è aggiunto ­ che le disposizionidel codice procedurale apprestano la garanzia di legge richie­sta dalla Costituzione. Ed il divieto di utilizzabilità dei risultatidi intercettazione per questa ragione ha la stessa insuperabileratio anche nel procedimento di prevenzione” (Sez. V, 5 feb­braio 2009, n. 8538).Sul tema, va infine rammentato il recente arresto di questeSezioni unite sul finitimo versante della estensione della inuti­lizzabilità delle intercettazioni, dichiarate inutilizzabili nel giudi­zio di cognizione, anche agli effetti del procedimento di ripara­zione per ingiusta detenzione (Sez. un., 30 ottobre 2008, n. 29,Racco). Pronuncia, questa, che, come si è già rammentato inparte narrativa, aveva indotto a restituire il ricorso alla Sezio­ne rimettente, avuto riguardo al novum rappresentato dalrelativo principio di diritto, secondo il quale ”l’inutilizzabilitàdei risultati delle intercettazioni, accertata nel giudizio penale,ha effetti anche nel giudizio promosso per ottenere la ripara­zione per ingiusta detenzione”. Nel frangente, al lume dellaconsolidata giurisprudenza costituzionale, si è rilevato che, ”alcospetto di intercettazioni eseguite fuori dei casi previsti dallalegge ovvero in violazione degli artt. 267 e 268 commi 1 e 3c.p.p., si versa in ipotesi di chiara ”illegalità” (...) donde lacondivisibile affermazione che, costituendo la disciplina delleintercettazioni concreta attuazione del precetto costituziona­le, in quanto attuativa delle garanzie da esso richieste a presi­dio della libertà e della segretezza delle comunicazioni, la suainosservanza deve determinare la totale ”espunzione” dal ma­teriale processuale delle intercettazioni illegittime, che si con­creta nella loro giuridica inutilizzabilità e nella ”fisica elimina­zione””.2. ­ La disamina della questione sottoposta all’esame di questeSezioni Unite non può prescindere dalla rievocazione dei pas­saggi più significativi che hanno contrassegnato la evoluzionedella giurisprudenza costituzionale soffermatasi sul tema edella corrispondente evoluzione subita dal quadro normativodi riferimento. Il punto essenziale di partenza è rappresentatodalla fondamentale sentenza n. 34 del 1973, con la quale ilgiudice delle leggi tracciò i confini costituzionalmente compa­tibili delle intercettazioni delle comunicazioni ­ all’epoca tele­foniche ­ nel quadro del necessario bilanciamento tra le esi­genze di prevenzione e repressione dei reati, da un lato, e delfondamentale diritto alla sfera della riservatezza presidiato,come valore fondamentale della persona, dall’art. 15 dellaCarta costituzionale. La Corte, infatti, ebbe a sottolineare

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come nel sistema processuale all’epoca vigente, per comenovellato ad opera della legge 18 giugno 1955, n. 517, intesaproprio ad armonizzare il potere di intercettazione della poli­zia giudiziaria al dettato costituzionale, ”la compressione deldiritto alla riservatezza delle comunicazioni telefoniche, chel’intercettazione innegabilmente comporta, non resta(va) affi­data all’organo di polizia, ma si attua(va) sotto il diretto con­trollo del giudice”, al quale competeva di adottare il relativoprovvedimento autorizzatorio, debitamente motivato, quantoa presupposti e durata delle operazioni. Ma il rispetto delparametro di costituzionalità ­ sottolineò la Corte ­ ”nontrova soddisfazione solo nell’obbligo della puntuale motivazio­ne del decreto dell’autorità giudiziaria. Altre garanzie sonorichieste: a) garanzie che attengono alla predisposizione anchemateriale dei servizi tecnici necessari per le intercettazionitelefoniche, in modo che l’autorità giudiziaria possa esercitareanche di fatto il controllo necessario ad assicurare che siproceda alle intercettazioni autorizzate, solo a queste e solonei limiti dell’autorizzazione; b) garanzie di ordine giuridicoche attengono al controllo sulla legittimità del decreto diautorizzazione ed ai limiti entro i quali il materiale raccoltoattraverso le intercettazioni sia utilizzabile nel processo”. For­mulandosi, al tempo stesso, ”l’auspicio che si realizzino oppor­tuni interventi legislativi idonei ad attuare anche sul pianotecnico le condizioni necessarie all’effettivo controllo di cuiinnanzi si è detto”. La Corte, però ­ ed il punto assume nonpoco significato ai fini che qui interessano ­ non mancò diporre in risalto quelle che dovevano essere le conseguenze,per così dire ”sanzonatorie”, che dovevano scaturire dal siste­ma processuale, ove fossero state eluse le garanzie che dove­vano assistere le attività di intercettazione, enunciando, a talproposito, ”il principio secondo il quale attività compiute indispregio dei fondamentali diritti del cittadino non possonoessere assunte di per sé a giustificazione ed a fondamento diatti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmen­te illegittime abbia subito”. Ebbene, evocando a comparazionela disciplina, all’epoca di ”recente formulazione”, enunciatanell’ultima parte del terzo comma dell’art. 304 cod. proc. pen.1930, ove si escludeva la ”utilizzabilità” delle dichiarazioni resedall’imputato prima della nomina del difensore di fiducia, laCorte sottolineò come l’identico epilogo potesse configurarsiquale specifica garanzia, che l’indicato principio legittimava eche il sistema non precludeva. Un assunto, questo, ribaditoanche nella successiva sentenza n. 120 del 1975, ove si sottoli­neò come le intercettazioni illegittime ”sono assolutamenteinidonee a produrre alcun effetto, anche se raccolte primadella entrata in vigore della legge” 8 aprile 1974, n. 98, adotta­ta proprio per adeguare la disciplina codicistica dell’epoca aiprincipi enunciati dalla Corte nella richiamata sentenza n. 34del 1973.3. ­ Già da tutto ciò possono trarsi alcuni significativi corollari.Nella prospettiva additata dalla Corte, nella più volte citatasentenza n. 34 del 1973 e poi ribadita in altre numerosepronunce (v. le ordinanze n. 304 del 2000, n. 259 del 2001,209 del 2004 e n. 443 del 2004), la previsione normativa che

privilegia, ai fini della effettuazione delle operazioni di intercet­tazione, la utilizzazione degli impianti esistenti presso la procu­ra della Repubblica, non rappresenta un elemento estraneoalla sfera delle garanzie di ”legalità” che l’ordinamento deveapprontare secondo il dettato costituzionale. Se, infatti, l’art.15 della Carta fondamentale prevede che la libertà e la segre­tezza di ogni forma di comunicazione rappresentano un dirittoinviolabile della persona, sancendo che qualsiasi limitazionepossa avvenire soltanto per atto motivato della autorità giudi­ziaria e ”con le garanzie stabilite dalla legge”, ciò significa che,ove il legislatore abbia individuato un determinato perimetroentro il quale quelle garanzie devono trovare soddisfacimento,non potranno essere arbitrariamente resecate, nel quadrodella prospettiva costituzionale, previsioni normative che, pro­prio perché specificamente destinate a concretare il parame­tro di costituzionalità, coinvolgano non soltanto il provvedi­mento autorizzatorio, ma anche le modalità esecutive delleoperazioni di un mezzo destinato a ”limitare” un diritto fonda­mentale. L’avere il legislatore, tanto nel vecchio codice che nelnuovo, ”privilegiato, per l’effettuazione delle operazioni di in­tercettazione, l’impiego degli apparati esistenti negli uffici giu­diziari ­ dettando una disciplina volta a circoscrivere, conapposite garanzie, l’uso di impianti esterni ­ non può qualificar­si, in sé, come scelta arbitraria, avuto riguardo anche allaparticolare invasività del mezzo nella sfera della segretezza elibertà delle comunicazioni costituzionalmente presidiata: eciò proprio perché si tratta di scelta finalizzata ad evitare chegli organi deputati alla esecuzione delle operazioni di intercet­tazione ed al relativo ascolto possano operare controlli sultraffico telefonico, al di fuori di una specifica e puntuale verificada parte della autorità giudiziaria” (v., da ultimo, la citataordinanza della Corte costituzionale n. 443 del 2004).Se è, dunque, la legge a dover prevedere le ”garanzie” cui èsubordinata la legittimità delle intercettazioni; e se, ancora, lescelte a tal fine operate si collocano nel quadro del ragionevo­le esercizio della discrezionalità legislativa, saldandosi, anzi, aduna esigenza (controllo della esecuzione delle operazioni daparte della autorità giudiziaria) sottolineata dalla stessa Cortecostituzionale, ne deriva che una interpretazione ”riduttiva”del complesso di tali garanzie ­ quale è quello che la Sezionerimettente implicitamente propugna, svalutando il momentoesecutivo rispetto a quello autorizzatorio ­ si porrebbe intermini sostanzialmente ”abrogativi” rispetto a scelte chiarenella loro ormai lontana genesi (di conformazione costituzio­nale del sistema) e nella stessa perdurante attualità.4. ­ L’altro simmetrico profilo additato dalla richiamata senten­za n. 34 del 1973, e prontamente recepito dal legislatore, hariguardato la ”definizione” (prescrittiva) delle conseguenze cuiassoggettare i risultati delle intercettazioni effettuate al di fuoridelle garanzie di legalità, stabilendosi per essi l’effetto dellarelativa ”inutilizzabilità”. Di ”Divieto di utilizzazione delle in­tercettazioni illecite” parlava la rubrica dell’art. 226­quinquiesdel codice di procedura penale del 1930, così come introdot­to dall’art. 5 della legge 8 aprile 1974, n. 98, e di ”Divieti diutilizzazione” fa menzione pure la rubrica dell’art. 271 del

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codice vigente, richiamando, fra le relative ipotesi, anche quel­la ­ che qui interessa ­ concernente la mancata osservanzadelle disposizioni previste dall’art. 268, comma 3, in tema dioperazioni eseguite extra moenia. La inutilizzabilità, rappre­senta, dunque, una sorta di ”filo rosso” che collega fra loro lafondamentale sentenza della Corte costituzionale di cui si èdetto; la relativa ”attuazione” normativa, operata, di lì a poco,con la novella sulle intercettazioni, inserita nel corpo del vec­chio codice di procedura; la scelta, infine, di mantenere, edanzi allargare, quella particolare categoria di sanzione proces­suale, a tutti i casi di prova vietata dalla legge, fra i quali,pertanto, le ipotesi di intercettazioni ”illegittime” finisconoper atteggiarsi alla stregua di una species rispetto al genus.Ebbene, due aspetti, fra loro strettamente connessi ed intera­genti, varrano a chiarire le ragioni per le quali ”la sanzione diinutilizzabilità di cui all’art. 271 c.p.p.” ”non può derubricarsi ­se non in termini costituzionalmente discutibili ­ a mero con­notato endoprocessuale, tutt’interno, cioè, al processo pena­le” (v. la sentenza Racco, già citata). Da un lato, infatti, dovràriflettersi sulle ”ragioni” storiche per le quali si è avvertital’esigenza di introdurre, per specifici atti processuali, qualiquelli destinati a svolgere una funzione probatoria, una pecu­liare categoria di ”invalidità”, in aggiunta a quelle già elaboratedalla tradizione codicistica. Dall’altro, e di riflesso, occorreràesaminare l’essenza e la funzione di tale ”fenomeno” squisita­mente processuale, per verificare se da esso residui ­ e in chemisura ­ un quid ”esportabile” al di fuori del processo penale.Quanto al primo aspetto, uno spunto ricostruttivo di significa­tivo interesse è offerto dalla Relazione al Progetto preliminaredel nuovo codice, laddove ha puntualizzato le ragioni dellascelta posta a base della previsione dettata dall’art. 191, com­ma 1, ove si è introdotto il principio generale secondo cui le”prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge nonpossono essere utilizzate”. Dopo aver, infatti rievocato la nonassoluta novità del tema ­ già presente nel vecchio codicesotto gli artt. 304, terzo comma, e 226­quinquies ­ e rammen­tato gli apporti offerti dalla più volte citata sentenza n. 34 del1973 della Corte costituzionale, la Relazione ha in particolaresottolineato come nella dottrina processualistica fosse datempo particolarmente avvertita ”una profonda insoddisfazio­ne circa il modo di operare della nullità in rapporto a divietiprobatori che il regime delle sanatorie costringe a ritenerecome non scritti, quando è acquisita una prova contra legem(...) ed il vizio non venga tempestivamente eccepito”. Da qui lascelta di delineare ”un regime normativo che esclude in viagenerale l’utilizzabilità delle prove acquisite in violazione diuno specifico divieto probatorio. Anche quando le norme diparte speciale non prevedono espressamente alcuna sanzione,l’inutilizzabilità può desumersi dall’art. 191 comma 1 là dovesiano configurabili veri e propri divieti probatori” (v. Relazio­ne, cit. pag. 61).Ciò sta dunque a significare che, essendo il diritto alla provaun connotato ineludibile del nuovo processo penale, assurto alrango di paradigma del parametro costituzionale sul ”giustoprocesso”, qualsiasi divieto probatorio positivamente intro­

dotto dal legislatore può spiegarsi solo nell’ottica di preserva­re equivalenti valori, anch’essi di rango costituzionale. Ne èprova significativa, ad esempio, il ”caso” affrontato dalla Cortecostituzionale nella sentenza n. 229 del 1998. Chiamata infattia pronunciarsi su una questione di legittimità costituzionaledell’art. 103, comma 6, cod. proc. pen., sollevata nella parte incui tale disposizione non prevedeva ”il divieto di sottoporre asequestro gli scritti formati dall’imputato (e dall’indagato) ap­positamente ed esclusivamente come appunto per facilitare ladifesa negli interrogatori” ­ nella specie, documenti sequestratinel corso di una perquisizione eseguita nella cella, ove l’impu­tato si trovava ristretto ­ la Corte ritenne superflua la pronun­cia additiva richiesta, in quanto i documenti sequestrati dove­vano comunque ritenersi ”inutilizzabili per la parte concer­nente la tutela del diritto di difesa personale, trattandosi diprove illecitamente acquisite (art. 191 cod. proc. pen.)”. Sic­ché, osservò la Corte, la supposta lacuna normativa si rivelava”conseguenza, non soltanto di un’errata interpretazione degliartt. 247 e 253 del codice di procedura penale, ma anche diuna palese violazione dei principi costituzionali posti a tuteladella persona umana”. Non è, dunque, l’atto processuale in séad essere ”invalidato”, quanto sono, piuttosto, i relativi effettiche vengono ad essere direttamente neutralizzati. Ma se ciò èvero, ne deriva che la stessa ragione ”storica,” che ha indotto illegislatore a sancire la inutilizzabilità degli atti compiuti inviolazione di divieti probatori, impedisce di ritenere ”utilizza­bili” quegli stessi atti nell’ambito di ”altri” procedimenti giuri­sdizionali, giacché, ove così non fosse, la prova, vietata pertutelare ­ come si è detto ­ altri valori costituzionalmentepreservati, troverebbe una inammissibile ”reviviscenza,” elu­dendo la stessa ragion d’essere della inutilizzabilità. A differen­za, dunque, dei ”limiti” probatori civili, i divieti probatoripenali producono i loro effetti, se violati, in qualsiasi settoredell’ordinamento, proprio perché la logica che presiede allagaranzia della inutilizzabilità non è interna ed esclusiva al pro­cesso penale.A proposito, poi, della ”fenomenologia” della inutilizzabilità ­da taluno descritta, rievocando categorie di sapore civilistico,come un difetto funzionale della ”causa” dell’atto probatorio,vale a dire come una inidoneità dell’atto stesso a svolgere lafunzione che l’ordinamento processuale gli assegna ­ la giuri­sprudenza di questa Corte ha in più occasioni teso a distingue­re tra una inutilizzabilità ”patologica”, quale è quella che derivadalla violazione di divieti probatori, ed una inutilizzabilità defi­nita ”fisiologica”, in quanto correlata alle caratteristiche delprocesso ed alla distinzione tra atti delle indagini e provedibattimentali (v. tra le tante, specie in tema di giudizio abbre­viato, Sez. II, 7 novembre 2007, n. 46023; Sez. V, 9 maggio2006, n. 19388; Sez. V, 23 marzo 2005, n. 34686). E’ evidenteche per quest’ultima non si pongono problemi di sorta circa lapossibilità di ”utilizzare”, come elementi di valutazione e digiudizio, anche gli atti delle indagini ai fini del processo diprevenzione, posto che i ”limiti” sono soltanto interni edesclusivi al procedimento penale. Ma, a ben guardare, anche inipotesi riconducibili alla cosiddetta inutilizzabilità patologica

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possono residuare spazi non ”coperti” da questa peculiaresanzione processuale. Così, ad esempio, il mancato avverti­mento di cui all’art. 64, comma 3, lettera e), cod. proc. pen.,rende inutilizzabili le dichiarazioni eventualmente rese ergaalios, ma non quelle contra se, consentendo di reputare dun­que più pertinente, semmai, una distinzione tra inutilizzabilità”assoluta” rispetto ad altra, per così dire, ”relativa”. Ciò cheperò rileva è che la prova vietata ­ e tale deve ritenersi laintercettazione inutilizzabile a norma dell’art. 271 cod. proc.pen. ­ è ”inutilizzabile” tout court, senza aggettivi, limiti oderoghe di sorta, che ne consentano un qualsivoglia ”recupe­ro”, sia pure in ambiti ed a fini diversi da quelli del processopenale. Esce dunque rafforzata, anche per questa via, l’esegesiposta a base della sentenza Racco, il cui principio di dirittodeve ritenersi senz’altro valido anche sul versante del proces­so di prevenzione.5. ­ A quest’ultimo proposito va in particolare rammentatocome, secondo l’ordinanza di rimessione, sia proprio l’insistitorichiamo alla ”autonomia” del procedimento di prevenzionerispetto al processo penale a giustificare la utilizzabilità, inquella sede, dei risultati delle intercettazioni inutilizzabili nelprocesso penale per carenza di motivazione del provvedimen­to che autorizza l’uso di impianti esterni, posto che tale san­zione risulterebbe pertinente, non alla sfera protetta dall’art.15 Cost., ma ad un profilo esecutivo, tutto ”interno” al pro­cesso penale. L’autonomia del procedimento di prevenzionelegittimerebbe, dunque, una sorta di ”degradazione” della inu­tilizzabilità, dovendosi reputare quella sanzione ­ irreparabile edemolitoria di qualsiasi effetto probatorio ­ come giustificabileai fini dell’accertamento della responsabilità sulla regiudicanda,ma non confacente agli effetti dello scrutinio che sottostà allaapplicazione di una misura di prevenzione.L’assunto non è però condivisibile, in quanto trae alimento dauna lettura non corretta del concetto di ”autonomia” checontraddistingue i due ”tipi” di procedimento posti a raffron­to. In linea di principio, l’autonomia delle sfere decisorie eprocedimentali sta a denotare la reciproca ”insensibilità” delleacquisizioni dell’una sede rispetto a quelle dell’altra e, dunque,l’assenza di connotati di pregiudizialità dei relativi moduli digiudizio. E’ infatti consolidato l’orientamento secondo il quale,nel corso del procedimento di prevenzione, il giudice di meri­to è legittimato a servirsi di elementi di prova o di tipoindiziario tratti da procedimenti penali, anche se non ancoradefiniti con sentenza irrevocabile, e, in tale ultimo caso, anchea prescindere dalla natura delle statuizioni terminali in ordineall’accertamento della responsabilità. Sicché, pure l’assoluzio­ne, anche se irrevocabile, dal delitto di cui all’art. 416­bis cod.pen., non comporta la automatica esclusione della pericolositàsociale, potendosi il relativo scrutinio fondare sia sugli stessifatti storici in ordine ai quali è stata esclusa la configurabilità diilliceità penale, sia su altri fatti acquisiti o autonomamentedesunti nel giudizio di prevenzione. Ciò che rileva, si è osser­vato, è che il giudizio di pericolosità sia fondato su elementicerti, dai quali possa legittimamente farsi discendere l’afferma­zione dell’esistenza della pericolosità, sulla base di un ragiona­

mento immune da vizi, fermo restando che gli indizi sulla cuibase formulare il giudizio di pericolosità non devono necessa­riamente avere i caratteri di gravità, precisione e concordanzarichiesti dall’art. 192 cod. proc. pen. (cfr., ex plurimis, Sez. I, 6novembre 2008, n. 47764; Sez. II, 28 maggio 2008, n. 25919;Sez. I, 13 giugno 2007, n. 27655; Sez. VI, 30 settembre 2005, n.39953).Nella medesima linea, d’altra parte, si è collocata pure laCorte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale (Grande Came­ra, 1 marzo ­ 6 aprile 2000, Labita c. Italia) ha ritenuto non incontrasto con i principi della CEDU il fatto che le misure diprevenzione ”siano applicate nei confronti di individui sospet­tati di appartenere alla mafia anche prima della loro condanna,poiché tendono ad impedire il compimento di atti criminali”;mentre ”il proscioglimento eventualmente sopravvenuto nonle priva necessariamente di ogni ragion d’essere: infatti, ele­menti concreti raccolti durante un processo, anche se insuffi­cienti per giungere ad una condanna, possono tuttavia giustifi­care dei ragionevoli dubbi che l’individuo in questione possa infuturo commettere dei reati penali”. Il tutto in linea con ”leprofonde differenze, di procedimento e di sostanza” che èpossibile intravedere tra le due sedi, penale e di prevenzione:”la prima ricollegata a un determinato fatto­reato oggetto diverifica nel processo, a seguito dell’esercizio della azione pena­le; la seconda riferita a una complessiva notazione di pericolo­sità, espressa mediante condotte che non necessariamentecostituiscono reato e che sono (...) verificate in un procedi­mento che, pur se giurisdizionalizzato, vede quali titolari deli­bazione” di prevenzione soggetti diversi, appartenenti all’am­ministrazione” (v. Corte cost., sentenza n. 275 del 1996).Discende da tutto ciò che, il vero tratto distintivo che qualifical’autonomia del procedimento di prevenzione dal processopenale, va intravisto nella diversa ”grammatica probatoria” chedeve sostenere i rispettivi giudizi: una diversità, però, che,proprio in quanto riferita esclusivamente al ”modo d’essere”degli elementi di apprezzamento del ”merito”, non incideaffatto sulla legittimità delle acquisizioni, a prescindere ­ evi­dentemente ­ dalla sede in cui le stesse siano operate. Laprova inutilizzabile, ad esempio perché ”estorta”, e acquisita,dunque, in violazione dell’art. 188 del codice di rito, non può”proiettarsi” sul terreno della prevenzione, al pari di qualsiasialtra ipotesi di prova ”illegale” in quanto assunta in contrastocon i divieti di legge. Pretendere, dunque, di fondare su di unmalinteso concetto di ”autonomia” dei procedimenti la possi­bilità di distinguere il regime di utilizzazione di prove che lalegge processuale qualifica come illegittimamente assunte ­ inun’area, per di più, costituzionalmente presidiata, quale è quel­la garantita dall’art. 15 Cost. ­ si rivela operazione concettual­mente scorretta, in quanto è solo la legge che ha il compito didelineare ( e, quindi, eventualmente circoscrivere) la portatadegli effetti demolitori che scaturiscono dalla sanzione di inuti­lizzabilità, con cui la legge stessa ha inteso presidiare la viola­zione dei divieti probatori.6. ­ D’altra parte, i connotati di sicura giurisdizionalità checaratterizzano il processo di prevenzione si sono venuti ulte­

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riormente ad esaltare alla luce dei più recenti apporti chehanno contrassegnato la giurisprudenza della Corte di Stra­sburgo e, di riflesso, quella costituzionale in materia. La Cortedi Strasburgo, come è noto, ha in varie occasioni avuto mododi censurare la previsione secondo la quale il procedimentoper l’applicazione delle misure di prevenzione si celebra incamera di consiglio, reputandola in contrasto con l’art. 6,paragrafo 1, della CEDU, nella parte in cui stabilisce che ”ognipersona ha diritto che la sua causa sia esaminata (...) pubblica­mente e in un tempo ragionevole, da parte di un tribunaleindipendente e imparziale (...)”. Con giurisprudenza ormaiconsolidata, infatti, la Corte ha ritenuto sussistente la violazio­ne dell’indicato principio della Convenzione europea, in quan­to ha ritenuto ”essenziale” a tal fine che ”le persone coinvoltein un procedimento di applicazione delle misure di prevenzio­ne si vedano almeno offrire la possibilità di sollecitare unapubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunalie delle corti di appello”. Una conclusione, questa, cui la stessaCorte è pervenuta rievocando la propria giurisprudenza, allume della quale la pubblicità delle procedure giudiziarie tutelale persone soggette alla giurisdizione contro una giustizia se­greta, che sfugge al controllo del pubblico e costituisce unostrumento per preservare la fiducia nei giudici. Con la traspa­renza che essa conferisce alla amministrazione della giustizia ­ha osservato in varie occasioni la Corte di Strasburgo ­ contri­buisce quindi a realizzare lo scopo dell’art. 6, paragrafo 1, dellaCEDU che è proprio quello di realizzare il ”giusto processo”(v. sentenza 15 novembre 2007, Bocellari e Rizza c. Italia;sentenza 8 luglio 2008, Pierre ed altri c. Italia; sentenza 5gennaio 2010, Bongiorno e. Italia).Il tema è stato ripreso e ”recepito” anche dalla Corte costitu­zionale, la quale, proprio in aderenza alla indicata giurispru­denza della Corte di Strasburgo e della interpretazione daessa data alla fonte convenzionale ­ ormai assurta al rango difonte interposta rispetto all’art. 117, primo comma, Cost.,secondo una consolidata giurisprudenza costituzionale (v.Corte cost., le decisioni nn. 348 e 349 del 2007, 39 del 2008,311 e 317 del 2009) ­ ha dichiarato la illegittimità costituziona­le dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 e dell’art.2­ter della legge 31 maggio 1965, n. 575, nella parte in cui nonprevedono che, su istanza degli interessati, il procedimentoper l’applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davantial tribunale e alla corte di appello, nelle forme dell’udienzapubblica (v. sentenza n. 93 del 2010). Le osservazioni dellaCorte di Strasburgo ­ ha in particolare osservato il giudicedelle leggi ­ ”colgono, d’altro canto, le specifiche peculiarità delprocedimento di prevenzione, che valgono a differenziarlo daun complesso di altre procedure camerali. Si tratta cioè ­ hapuntualizzato la Corte ­ di un procedimento all’esito del qualeil giudice è chiamato ad esprimere un giudizio di merito,idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale subeni dell’individuo costituzionalmente tutelati, quali la libertàpersonale (art. 13, primo comma, Cost.) e il patrimonio (que­st’ultimo, tra l’altro, aggredito in modo normalmente ”massic­cio” e in componenti di particolare rilievo (...)), nonché la

stessa libertà di iniziativa economica, incisa dalle misure anchegravemente ”inabilitanti” previste a carico del soggetto cui èapplicata la misura di prevenzione (...). Il che ­ ha concluso laCorte ­conferisce specifico risalto alle esigenze alla cui soddi­sfazione il principio di pubblicità delle udienze è preordinato”.La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo,da un lato, e quella costituzionale, dall’altro, impongono, dun­que, una ”lettura” del procedimento di prevenzione che sia inlinea con i principi del ”giusto processo.” Il che, evidentemen­te, avvalora la tesi di quanti ritengono preclusa la ”fruibilità”,anche se ai limitati fini del giudizio di prevenzione, di intercet­tazioni inutilizzabili a norma dell’art. 271 del codice di rito, inquanto la inosservanza delle relative garanzie di legalità finireb­be, altrimenti, per contaminare e compromettere il ”giustoprocedimento di prevenzione”, che tale può definirsi soltantose basato su atti ”legalmente” acquisiti.7. ­ L’ultimo profilo sul quale la sezione rimettente si concen­tra per ”aggredire” la sentenza Racco e dedurre la inapplicabi­lità dei relativi dicta all’odierno tema, pertinente al giudizio diprevenzione, riguarda il profilo della distruzione delle intercet­tazioni illegittime, in riferimento alla disciplina dettata dall’art.240 cod. proc. pen., come modificato dall’art. 1 del decreto­legge 22 settembre 2006, n. 259 (Disposizioni urgenti per ilriordino della normativa in tema di intercettazioni telefoni­che), convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre2006, n. 281. Ad avviso della sezione rimettente, infatti, lanuova formulazione dell’art. 240 del codice di rito non costi­tuirebbe un argomento dirimente a favore della tesi dellaassoluta inutilizzabilità nel processo di prevenzione delle inter­cettazioni eseguite in violazione delle prescrizioni dell’art. 268,comma 3, cod. proc. pen. Si osserva, infatti, che la nuovadisciplina, che prevede la distruzione del materiale concernen­te dati e contenuti di conversazioni o comunicazioni relativi atraffico telefonico ”illegalmente formati”, ”si riferisce a con­dotte di formazione e acquisizione illegale, espressione ­ os­serva la ordinanza di rimessione ­ da intendersi nel senso dicondotte illecite, poste in essere attraverso la perpetrazionedi un reato”. Ciò escluderebbe, dunque, la possibilità di ritene­re comprese nel novero di siffatte ”captazioni illecite” ”leintercettazioni regolarmente autorizzate dal giudice ma ese­guite in violazione degli obblighi motivazionali previsti dall’art.268 c.p.p. comma 3”.L’assunto è in sé condivisibile, in quanto in linea con la ratioche ha ispirato la novella e con la stessa lettera della legge, laquale, nel fare riferimento al concetto di ”illegalità” della attivi­tà acquisitiva, evoca, per l’appunto, una attività di assunzione didati e notizie preservate dall’art. 15 Cost., estranea all’ordina­rio procedimento che disciplina le intercettazioni. Sul punto,infatti, si è espressa in termini più che perspicui la stessa Cortecostituzionale, la quale, chiamata a pronunciarsi sulla disciplinain esame, ha avuto modo di censurare l’art. 240, commi 4, 5 e6, cod. proc. pen., come novellati, nella parte in cui la relativaprocedura di distruzione comprometteva il diritto al contrad­dittorio e di difesa, proprio di chi è incolpato in ragione dellaillegalità della attività di intercettazione. La Corte, infatti, ha

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avuto modo di sottolineare come la normativa oggetto discrutinio di costituzionalità ”è stata approvata per porre rime­dio ad un dilagante e preoccupante fenomeno di violazionedella riservatezza, che deriva dalla incontrollata diffusione me­diatica di dati e informazioni personali, sia provenienti daattività di raccolta e intercettazione legalmente autorizzate, sia­ fatto più grave, che riguarda direttamente il presente giudizio­ effettuate al di fuori dell’esercizio di ogni legittimo potere dapubblici ufficiali o da privati mossi da finalità diverse, checomunque non giustificano l’intrusione nella vita delle perso­ne. La preoccupazione del legislatore ­ ha sottolineato laCorte ­ è stata quella di evitare che la doverosa osservanzadelle norme che impongono la pubblicità degli atti del proces­so possa risolversi in un ulteriore danno per le vittime dellaillecita interferenza, le quali, oltre ad aver subito indebiteintrusioni nella propria sfera personale, rimarrebbero esposte,per un lungo periodo, al rischio che il frutto dell’attività illegaledi informazione e intercettazione possa diventare strumentodi campagne diffamatorie e delegittimanti nei loro riguardi (...)L’intento di prevenire tali possibili abusi ­ ha, dunque, conclusi­vamente rilevato la Corte ­ ha indotto lo stesso legislatore adintrodurre una disciplina derogatoria rispetto alla normativaordinaria sulla conservazione del corpo di reato: i documenti,i supporti e gli atti concernenti dati e contenuti di conversa­zioni e comunicazioni, relativi a traffico telefonico e telemati­co, illegalmente formati e acquisiti, devono essere distrutti,per disposizione del giudice per le indagini preliminari, al piùpresto possibile, nell’ambito di un procedimento incidentalemolto rapido, che deve precedere la chiusura delle indaginipreliminari” (v. sentenza n. 173 del 2009).Può, quindi, ritenersi condivisibile l’assunto della Sezione ri­mettente di reputare inconferente, agli effetti che qui rilevano,il procedimento di distruzione delle intercettazioni ”illegali” dicui al nuovo testo dell’art. 240 cod. proc. pen., riferendosi lostesso alle ipotesi in cui i supporti e gli atti siano stati custoditiin quanto corpo di reato. Ma la stessa Sezione trascura però diconsiderare che è lo stesso art. 271, comma 3, cod. proc. pen.a stabilire che ”in ogni stato e grado del processo il giudicedispone che la documentazione delle intercettazioni previstedai commi 1 e 2 sia distrutta, salvo che costituisca corpo direato”. Dunque, la eliminazione ”fisica” della intercettazione”illegittima”, perché compiuta in violazione (anche soltanto)dell’art. 268, comma 3, dello stesso codice, era e resta l’epilo­go ”ordinario”; mentre la ipotesi della intercettazione ”illega­le”, che rappresentava la deroga alla distruzione, secondo laclausola di salvezza riferita al fatto che essa costituisse, appun­to, ”corpo di reato”, trova ora previsione e disciplina nelladiversa sede offerta dal novellato art. 240.Avendo quindi il legislatore stabilito, accanto alla inutilizzabilitàdei risultati, la distruzione delle intercettazioni nei casi previstidal richiamato art. 271 cod. proc. pen., se ne deve dedurre ­secondo la più plastica delle evidenze ­ che nelle ipotesi nor­mativamente indicate, la volontà perseguita dalla legge è stataquella di escludere, non soltanto sul piano giuridico, ma finan­co su quello della ”materialità” degli atti, qualsiasi possibilità di

legittima fruizione di quelle acquisizioni: dunque, non soltantoai fini del processo, nel cui ambito le intercettazioni sono stateeffettuate, ma in qualsiasi altro procedimento, penale, civile,amministrativo o disciplinare che sia, posto che un diversoregime non potrebbe logicamente sostenersi, se non facendoleva sulla del tutto casuale ”non distruzione” di quegli atti esupporti.8. ­ Tutto ciò non esclude, peraltro, la sussistenza di un diffuso”disagio” per il particolare rigore con il quale il legislatore haaccomunato, fra loro, sotto la medesima sanzione della inuti­lizzabilità, ipotesi obiettivamente diverse per ”gravità”, quali,da un lato, la illegittimità del provvedimento autorizzatoriodelle intercettazioni o, addirittura, la sua inesistenza, e, dall’al­tro, il ”semplice” difetto di motivazione del provvedimento delpubblico ministero che autorizza l’espletamento delle inter­cettazioni extra moenia. Un ”disagio”, quello di cui si è fattocenno, attestato dai vari contrasti di giurisprudenza che hannopiù volte richiesto l’intervento di queste Sezioni Unite, e dauna nutrita serie di questioni di legittimità costituzionale, tuttedisattese dalla Corte costituzionale. In particolare, si è in variecircostanze sottolineato la ”inattualità” delle ragioni ­ a suotempo evidenziate nella più volte richiamata sentenza n. 34 del1973 della Corte costituzionale ­ che avevano suggerito dicircondare di garanzie anche la fase esecutiva, per impedirepossibili abusi da parte della polizia giudiziaria. Ciò, sia infunzione dei ritrovati della tecnica (v., ad es., in tema di legitti­mità dell’ascolto ”remotizzato”, Sez. un.,26 giugno 2008, n.36359, Carli), sia in considerazione del diverso spettro digaranzie che sono invece previste, ad esempio, proprio intema di intercettazioni eseguite a fini di prevenzione, dall’art.16 della legge n. 646 del 1982. Si tratta di rilievi non privi disuggestione, ma ai quali non può che replicarsi negli stessitermini con i quali la Corte costituzionale ha respinto lecensure di legittimità delle linee di sistema che vengono qui indiscorso. A proposito, infatti, del carattere in assunto ”anacro­nistico” della disciplina dettata dall’art. 268, comma 3, cod.proc. pen., la Corte ha replicato come non fosse propriocompito ­ così come non lo è di nessun giudice ­ quello di””inseguire” il progresso tecnologico, valutando se esso rendanecessario od opportuno un adeguamento, o addirittura ilsuperamento delle originarie regole di cautela: trattandosi, alcontrario, di valutazione istituzionalmente rimessa al legislato­re”. Allo stesso modo, ha soggiunto la Corte, ”rientra in unragionevole ambito di discrezionalità legislativa ­tenuto contodella pregnanza dei valori in gioco ­ stabilire se la violazionedelle regole in questione debba essere o meno equiparata, sulpiano della sanzione processuale, alla carenza dell’autorizza­zione e all’esecuzione delle intercettazioni al di fuori dei casiconsentiti dalla legge”. A proposito, infine, della (allora) de­nunciata disparità di trattamento, in parte qua, delle intercet­tazioni a fini di ricerca della prova rispetto alle intercettazionipreventive, la Corte non ha mancato di rilevare come ”affer­mare che la disciplina in tema di localizzazione degli impianti(...) è costituzionalmente compatibile, non equivalga a dire chesia addirittura costituzionalmente obbligata: ben potendo, al

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contrario, il legislatore modulare in maniera diversa ­ in unventaglio di possibili alternative, caratterizzate da maggiore ominore ”rigidezza” ­ i meccanismi di garanzia degli interessi ingioco” (v. la già citata ordinanza n. 443 del 2004). Si tratta,pertanto, di scelte normative, in ipotesi criticabili, ma, eviden­temente, non manipolabili a livello ermeneutico.9. ­ Deve in conclusione affermarsi il principio che le intercet­tazioni dichiarate inutilizzabili a norma dell’art. 271 cod. proc.pen. (nella specie, per mancata osservanza delle disposizionipreviste dall’art. 268, comma 3, dello stesso codice), cosìcome le prove inutilizzabili a norma dell’art. 191 cod. proc.pen., perché acquisite in violazione dei divieti stabiliti dallalegge, non sono suscettibili di utilizzazione agli effetti di qualsi­asi tipo di giudizio, ivi compreso quello relativo alla applicazio­ne di misure di prevenzione.10. ­ Alla stregua, pertanto, dell’appena indicato principio didiritto e scendendo all’esame dei singoli ricorsi, il provvedi­mento oggetto di impugnativa deve essere annullato con rin­vio nei confronti di Pa. Lo., Ca. Ca., Li. D’E., Pa. Sc., Mi. Ar. (oMi.), affinché, in sede di rinvio, venga rivalutato il quadrocomplessivo degli elementi acquisiti e verificata la relativa ido­neità a fondare su di esso le statuizioni già adottate, previaespunzione, dalle acquisizioni a tal fine delibabili, delle risultan­ze scaturite dalle intercettazioni dichiarate inutilizzabili.Nei confronti di Da. Pa. Me. il decreto impugnato deve essereannullato senza rinvio per morte del ricorrente.Quanto a Gi. Gi. Ca., il relativo ricorso è palesemente inam­missibile, essendosi il ricorrente limitato a formulare censuredel tutto generiche e fortemente orientate a conseguire unasemplice rivalutazione dei fatti posti a base della misura appli­cata. Il ricorrente deve conseguentemente essere condannatoal pagamento delle spese processuali ed al versamento allaCassa delle ammende di una somma che si stima equo deter­minare in Euro mille, alla luce dei principi affermati dalla Cortecostituzionale nella sentenza n. 186 del 2000.Deve da ultimo rilevarsi la palese inconsistenza del motivo diricorso, comune a Da. Pa. Me., Ca. Ca. e Pa. Sc., secondo ilquale l’art. 14 della legge n. 55 del 1990 consentirebbe ”diestendere le disposizioni di cui alla legge 575/65 sulle indaginie sull’applicazione delle misure di prevenzione a caratterepatrimoniale anche ai soggetti indiziati di altri reati diversi daquello di cui all’art. 416­bis c.p. (art. 75 L. 685/75 poi sostituitodall’art. 74 d.P.R. 309/90) ma non consente l’estensione a talicategorie anche delle norme sull’applicazione delle misure diprevenzione a carattere personale (come è, invece, illegittima­mente avvenuto nel caso di specie)”. Come, infatti, puntual­mente rilevato dal Procuratore Generale requirente, con rife­rimento alle misure di prevenzione personali, l’art. 13 dellalegge 3 agosto 1988, n. 327, modificando il primo commadell’art. 19 della legge 22 maggio 1975, n. 152, ha stabilito chele disposizioni di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575, siapplichino anche alle persone indicate nell’art. 1, numeri 1) e2), della legge 27 dicembre 1956, n. 1423. Per effetto di talenorma sussiste, quindi, una completa equiparazione, in mate­ria di misure di prevenzione personali, tra soggetti pericolosi

in quanto indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafio­so o ad esse corrispondenti (pericolosità cosiddetta ”qualifica­ta” ai sensi della legge n. 575 del 1965) e soggetti pericolosi inquanto abitualmente dediti a traffici delittuosi ovvero ad attivi­tà delittuose da cui, almeno in parte, traggano i mezzi di vita(pericolosità cosiddetta ”generica”, ai sensi della legge ”base”n. 1423 del 1956). Risultando quindi compresa in tale sferaapplicativa anche la condotta illecita di cui all’art. 74 del d.P.R.n. 309 del 1990, ne deriva che lo scrutinio di pericolosità”generica” legittima la applicazione delle conseguenti misure diprevenzione personali. Va d’altra parte osservato che la mate­ria è stata di recente profondamente incisa dalle modificheintrodotte dal decreto­legge 23 maggio 2008, n. 92, converti­to, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, ilquale, per quel che qui interessa, ha, da un lato, abrogato l’art.14 della legge n. 55 del 1990, dall’altro, introdotto modifiche alprimo comma dell’art. 19 della legge n.152 del 1975, malasciandone inalterata la portata precettiva. Da ciò la confermadella perdurante validità del consolidato orientamento dellagiurisprudenza di questa Corte, secondo il quale il rinvioenunciato dall’art. 19, primo comma, della citata legge n. 152del 1975 non ha carattere materiale o recettizio, ma è diordine formale, nel senso che, in difetto di una espressaesclusione o limitazione, deve ritenersi esteso a tutte le nor­me successivamente interpolate nell’atto­fonte, in sostituzio­ne, modificazione o integrazione di quelle originarie. Donde laconclusione che, accanto alle misure di prevenzione personali,già pacificamente applicabili, a seguito della novella introdottadal d.l n. 92 del 2008, pure le misure di prevenzione patrimo­niali del sequestro e della confisca possono essere applicatenei confronti di soggetti ritenuti socialmente pericolosi inquanto abitualmente dediti a traffici delittuosi o che vivonoabitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuo­se, a prescindere dalla tipologia dei reati in riferimento (cosid­detta pericolosità ”generica”) (Sez. I, 17 settembre 2008, n.36748; Sez. I, 5 febbraio 2009, n. 8510; Sez. 1,26 maggio 2009,n. 26751; Sez. II, 14 maggio 2009, n. 33597).Anche le restanti doglianze proposte dai ricorrenti si rivelanopalesemente inammissibili, sia perché sterilmente riproduttivedi censure già puntualmente disattese in sede di gravame dimerito, sia perché tutte concentrate su profili di mero fatto,evidentemente estranei al rigoroso perimetro entro il quale ècircoscritto il sindacato di legittimità in tema di misure diprevenzione.

P.Q.M.Dichiara inammissibile il ricorso di Gi. Gi. Ca. e condanna ilricorrente al pagamento delle spese processuali e della sommadi Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.Annulla senza rinvio il decreto impugnato nei confronti di Da.Pa. Me. per morte del ricorrente.Annulla il decreto impugnato nei confronti di Pa. Lo., Ca. Ca.,Li. D’E., Pa. Sc., Mi. Ar. (o Mi.) e rinvia per nuovo esame allaCorte di appello di Lecce.

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Newsletter n. 15 ­ 20 aprile 201040

CASSAZIONE PENALE ­ TESTIMONIANZA

Quando è utilizzabile la testimonianza indiretta?

La Corte di Cassazione, Terza Sezione Penale , con la senten­za n. 12916 del 7 aprile 2010 ha ricordato che la testimonian­za indiretta è utilizzabile (art. 195, comma 7, c.p.p.) solo incaso di irreperibilità del testimone primario, non anche nelcaso in cui ne risulti impossibile l’identificazione, atteso che lalegge ­ prescindendo dalla volontà del dichiarante ­ pone acarico della parte che abbia interesse all’utilizzazione dellatestimonianza indiretta o, in mancanza, del giudice, ai sensidell’art. 507 c.p.p., l’obbligo di compiere ogni accertamentoutile all’identificazione del testimone diretto, in vista del dirit­to delle parti di chiederne l’escussione (Cass. n. 32464/2001).

CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITÀ EUROPEETUTELA CONSUMATORI

Guida al Diritto, news online 16.04.2010

No alle spese di consegna per recesso da una venditaa distanza

I l consumatore che esercita legittimamente il proprio dirittodi recesso, cioè entro sette giorni dalla conclusione del con­tratto a distanza, non ha l’obbligo di pagare le spese di conse­gna. Queste, infatti, se già sostenute restano a carico delfornitore che dal cliente può pretendere, invece, solo le spesedi spedizione. La Corte di giustizia, con la sentenza di ieri sullacausa C­511/08, ha così fornito un’interessante interpretazio­ne della direttiva 97/7/Ce che tutela i consumatori in questatipologia di compravendite e che in Italia è stata recepita con ilDlgs 185/1999. (Pa.Ros.)

IN GAZZETTA OGGI

Guida al Diritto, news online 20.04.2010

CONTRATTI PUBBLICI: Esclusa dal codice la raccol­ta del risparmio

Sulla ”Gazzetta Ufficiale” n. 90 del 19 aprile 2010 è pubblicatoil decreto della Presidenza del consiglio dei ministri del 25gennaio 2010 sull’esclusione di determinati appalti dall’applica­zione del codice dei contratti pubblici. In particolare, il prov­vedimento prevede che il Dlgs n. 163 del 2006, in attuazionedelle direttive 2004/17/Ce e 2004/18/Ce, non si applica ailavori attribuiti da enti aggiudicatari destinati a consentirel’esecuzione di alcuni servizi, come la raccolta del risparmiotramite i conti correnti ai prestiti per conto di banche e altriintermediari finanziari abilitati e quelli di investimento.

AVVOCATI 2416/04/2010

Avvocato d’affari e imprenditore insieme contro lacrisidi Antonello MartinezAvvocato, Studio Legale Martinez Novebaci

Il Venture capital ed il private equity possono fornire i mezzi disviluppo per le PMI con modelli di business vincenti.Dalla crisi emergono esperienze e modelli di business di suc­cesso, il venture capital può ulteriormente valorizzare impresemeritevoli generando valore per tutto il sistema Paese.L’essere Avvocato d’affari ti offre il raro privilegio di esserecollocato come al centro di una sensibilissima centralina chemonitorizza 24 ore al giorno le vitali dinamiche che pulsanoall’interno del sistema “azienda”; il che ti porta inevitabilmentead avere gli stessi suoi entusiasmi e patire le medesime paure,visto che entrambi sono accomunati dallo stesso tipo di ali­mentazione costituita da un cibo che si chiama adrenalina eche da questi viene ingerita al suo stato puro.Dal 2006 ad oggi è stato poi un continuo registrare dei picchiimpressionanti come in un elettrocardiogramma impazzito,aziende modello sconquassate dalla crisi e aziende nate con lamedesima crisi o che da questa hanno invece trovato il mododi moltiplicare i propri fatturati.L’Imprenditore italiano reagisce e mette in campo tutte le suecaratteristiche migliori: creatività, tenacia e una grandissimacapacità di andare a proporre soluzioni innovative il tuttoattraverso il denominatore comune della qualità, ma l’armavincente che oggi sembra fare la differenza è soprattutto laflessibilità, la capacità di investire in una intuizione e la possibi­lità di lasciare velocemente ciò che non risulta più proficuo oefficiente.Ed in questo, dal mio osservatorio, ho potuto notare cometalvolta le piccole e medie imprese abbiano dimostrato mag­giore dinamismo e capacità di intraprendere analizzando rapi­damente la situazione ed elaborarando una diagnosi ­ per poiavviare in modo estremamente repentino ­ l’adeguata terapia.Velocità che purtroppo spesso non trova spesso riscontro inalcune grandi aziende che, Risultano appesantite da processiinterni macchinosi e spesso non hanno avuto la fortuna/capa­cità di dotarsi di risorse manageriali in grado di saper rischiare,accettare l’errore ed eventualmente aggiustare il tiro in corsa.Ovviamente questa è la sensazione e non può certamenteessere considerata come un principio generale ed assolutoma, semplicemente, una prima analisi seppure suffragata darilevanti elementi statistici che costituiscono quello che glianalisti definiscono un campione significativo.Tralasciando gli esempi negativi voglio concludere, riportando,tra i tanti, due esempi in positivo tra le piccole e medieaziende che hanno saputo muoversi con velocità sorprenden­te assecondando il loro istinto.La prima è una società Siciliana, la V & B Corporation srl,

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41Newsletter n. 15 ­ 20 aprile 2010

Italian Luxure Contract, che produce mobili di altissimo livelloe qualità. L’imprenditore è un giovane di 30 anni, FrancescoBascio, il quale sul solco della tradizione familiare, ha prosegui­to nel medesimo settore dei mobili di prestigio ma ha saputodare una incredibile svolta di natura commerciale andando adindividuare nuovi mercati esteri come quello degli EmiratiArabi Uniti dove la sensibilità per lo stile Italiano e le cosebelle si accompagna ad una capacità di spesa estremamenteinteressante hanno permesso all’azienda di generare impor­tantissime commesse in un arco di tempo brevissimo consen­tendo la creazione di un consorzio di 15 aziende artigianaliche ha trovato consistenti sbocchi per le sue merci ed ora è ingrado di investire ulteriormente nella propria crescita e nellavalorizzazione dei propri prodotti.Il secondo esempio è costituito dalla Value Group Spa, unasocietà costituita quattro anni orsono da due Soci che oggi sidividono il 95% del capitale sociale, il Dr. Giuseppe Sergnese eil Dr. Marco Bottieri. Entrambi ex dirigenti nel settore aero­nautico che pur provenendo da ruoli e aziende diverse, hannoindividuato una nicchia di mercato nella fornitura di servizi diBrokeraggio aeronautico, Air chartering, Crew accomodatione consulenza per le compagnie aeree. Oggi a distanza di soli 48mesi l’azienda ha raggiunto un fatturato di oltre quarantamilioni di euro ed e pianifica lo sviluppo internazionale.Valorizzare le forze creative e imprenditoriali, aiutare le picco­le e medie imprese sono parole d’ordine che però ancora inItalia non trovano una ricetta vincente.Se la flessibilità e la capacità di reazione diventa un valore,soprattutto in momenti economici di crisi, occorre che ancheil sistema sappia individuare e valorizzare queste caratteristi­che. La speranza è che progredisca ulteriormente e si affermianche in Italia quella che gli operatori chiamano la filieradell’early stage e cioè aumenti l’offerta di operatori e fondispecializzati dedicati ad investimenti in imprese innovative nel­le prime fasi del percorso di vita.Questo segmento del capitale di rischio potrebbe infatti rap­presentare un tassello fondamentale in grado di dare ulterioreimpulso ad energie imprenditoriali che in Italia fortunatamentenon mancano.

IL MERITO

I Focus de Il Merito ­ 14 aprile 2010

L’amministratore di sostegnodi Corea Nicola ­ Avvocato

La ratio dell’introduzione dell’amministrazione di sostegnoLa legge 9 gennaio 2004 n. 6, mediante l’introduzione dell’isti­tuto dell’amministrazione di sostegno, ha profondamentemodificato il sistema delle misure di protezione dei maggio­renni incapaci.I principi alla base del nuovo istituto sono:­ la volontà di porre al centro della misura di tutela la perso­na umana;

­ la rimodulazione del concetto stesso di protezione, intesanon più quale limitazione ed emarginazione, bensì ­ alla lucedel principio di cui all’art. 3 Cost. ­ quale rimozione degliostacoli che si frappongono alla piena realizzazione del sog­getto privo di autonomia;Tale novella legislativa non presenta più alcun riferimento allamancanza totale o parziale di capacità della persona, si parlasolo di ’insufficienza di autonomia. Questa impostazione risul­ta confermata dalla modifica che riguarda l’intitolazione delTitolo XII del Libro I c. c., la quale, abbandonato il termine«incapacità», recita: «Misure di protezione delle persone pri­ve in tutto o in parte di autonomia». Le norme sull’ammini­strazione di sostegno sono state poste nel capo I (art.404­413 c.c) e quelle riguardanti i vecchi istituti, con alcuniadattamenti, nel capo II ( art. 414­432 c.c.).Presupposti applicativiEx art. 404 c. c. possono beneficiare dell’amministrazione disostegno:­ coloro che, a causa di un’infermità ovvero di una menoma­zione fisica o psichica, si trovino nell’impossibilità ­ parzialeoppure temporanea ­ di attendere ai propri interessi. L’ambi­to applicativo è, quindi, molto ampio, in quanto potenzial­mente è idoneo a proteggere sia chi è affetto da un’infermitào menomazione totalmente incapacitante o abituale, sia chisia soggetto mentalmente sano, ma non in grado di curare ipropri interessi in quanto menomato fisicamente;­ dal che si evince che è richiesto un ulteriore presupposto,ovvero l’impossibilità attuale, anche parziale o temporanea, diprendersi cura dei propri interessi.Oggetto della misura di protezionePrincipi informatori:• principio di gradualità . Il giudice deve scegliere tra gli stru­menti di tutela offerti dall’ordinamento, quello che realizzi lafunzione di protezione con la minore restrizione possibiledella capacità del soggetto interessato;• principio di flessibilità . L’oggetto dell’amministrazione disostegno può essere definito nel decreto avuto riguardo aglispecifici bisogni del soggetto, come un vestito disegnato se­condo le esigenze della singola persona.Ricadute disciplinatorie:• ampia discrezionalità conferita al giudice in ordine alla de­terminazione dell’oggetto dell’incarico, che si estrinseca in:a. la previsione che il decreto contenga l’indicazione degli attiche l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere innome e per conto del beneficiario e di quelli che quest’ultimopuò porre in essere soltanto con l’assistenza dell’amministra­tore (art. 405 c.c.);b. la possibilità per il beneficiario di conservare la capacità inordine al compimento degli atti necessari a soddisfare le esi­genze della vita quotidiana (art. 409, comma 2, c.c.)• il principio di massima conservazione della capacità in capoal beneficiario fa da limite all’oggetto dell’amministrazione disostegno. Ciò in quanto:a. è necessaria la corrispondenza tra portata degli effetti inca­pacitanti e specifiche esigenze di sostituzione o di assistenza

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del soggetto debole;b. in caso di una impossibilità totale e probabilmente perma­nente, il giudice potrebbe estendere l’oggetto dell’ammini­strazione fino a comprendere ogni atto di ordinaria e straor­dinaria amministrazione oltre a specifici effetti, limitazioni odecadenze previste per l’interdetto o l’inabilitato, in osser­vanza del disposto di cui all’art. 411 c.c.c. l’amministrazionc di sostegno potrebbe essere in potenza,quindi, una misura equivalente all’interdizione, stante la possi­bilità di annullare ex art. 412 c.c. tutti gli atti che ne formanol’oggetto e, pertanto, quando necessario, anche di tutti gli attidi ordinaria e straordinaria amministrazione; contra Cortecost., 09.12.2005, n. 440, secondo cui sarebbe preferibile unainterpretazione restrittiva secondo cui il giudice può estende­re al beneficiario determinati effetti, limitazioni o decadenzepreviste per l’interdetto o l’inabilitato;• l’ambito applicativo dell’istituto appare definito dall’art. 414c.c.: il quale, sancendo la residualità dell’interdizione, prevedeche questa sia disposta solo se necessaria alla protezione delsoggetto: a contrario può ricavarsi che, essendo l’interdizionemisura residuale, da applicarsi in mancanza di diverso stru­mento idoneo a garantire adeguata tutela al soggetto debole,così l’amministrazione di sostegno incontra nella idoneità(rectius inidoneità) protettiva il limite ultimo della propriasfera di operatività.I rapporti con l’interdizione e l’inabilitazioneIl problema interpretativo si è posto perché si è introdottonel Codice civile il nuovo strumento di protezione della per­sona senza abrogare le norme relative alla interdizione e allainabilitazione e senza delimitare il rispettivo campo di applica­zione.Nei primi commenti dottrinari, si è sottolineata l’incongruen­za della scelta legislativa. Essendovi alla base dell’introduzionedel nuovo istituto l’inadeguatezza di quelli esistenti (si pensiall’interdizione utilizzata spesso come strumento per privarela persona di prerogative essenziali in violazione di principicostituzionali), è apparso illogico lasciare in vigore una regola­mentazione ormai avvertita come obsoleta e non idonea atutelare la persona nel rispetto dei principi costituzionali.Come visto, però, il legislatore, con la legge 9 gennaio 2004,n. 6, ha invece ritenuto che l’amministrazione di sostegnodovesse convivere con l’interdizione e l’inabilitazione, purassegnando alla prima un carattere prevalente, poiché, comerisulta dall’art. 1 della stessa legge, tale istituto ha «la finalitàdi tutelare, con la minore limitazione possibile della capacitàdi agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomianell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, median­re interventi di sostegno temporaneo o permanente».Alla luce di queste considerazioni, una parte della dottrina haaffermato che le norme sull’interdizione fossero state tacita­mente abrogate; non si è mancato, poi, alternativamente dirilevare come la sopravvivenza di quest’ultimo istituto com­porterebbe una violazione del principio di eguaglianza, stantela possibilità che persone ugualmente inferme di mente sivedano applicare discipline diverse a seconda che il giudice

scelga il rimedio dell’amministrazione di sostegno o pronuncil’interdizione.Tali doglianze sono state portate anche all’attenzione dellaCorte Costituzionale (sentenza 09.12.2005, n. 440), che hainvece ritenuto infondata la questione di legittimità costituzio­nale, sulla base delle seguenti considerazioni:a. sussiste la possibilità di coordinare le norme in tema diamministrazione di sostegno con quelle in tema di interdizio­ne, attraverso l’individuazione di una gradualità delle misuredi protezione;b. in altre parole, il giudice deve scegliere l’istituto più adattotenendo conto del principio che impone di limitare la capaci­tà della persona nella minore misura possibile;c. soltanto nel caso in cui il giudice non ravvisi interventi disostegno idonei ad assicurare all’incapace la necessaria prote­zione, «può ricorrere alle ben più invasive misure dell’inabili­tazione e dell’interdizione, che attribuiscono uno status diincapacità, estesa per l’inabilitato agli atti di straordinaria am­ministrazione e per l’interdetto a quelli di amministrazioneordinaria».Altra parte della dottrina ha ritenuto non pienamente condi­visibili le conclusioni cui è giunta la Consulta, in quanto nonviene risolto in modo adeguato il problema sollevato dall’or­dinanza di rinvio, secondo cui i labili confini tra i suddetti isti­tuti possono determinare una inammissibile discrezionalitàdell’organo giudicante, con conseguente violazione del princi­pio di eguaglianza. In altri termini, la ”gradazione” delle misu­re, ipotizzata in dottrina e accolta dalla Corte Costituzionale,non cancella i problemi che derivano dalla sostanziale coinci­denza dei presupposti di applicazione. Infatti, l’abituale infer­mità di mente, tradizionale requisito della interdizione, puòanche costituire il fondamento dell’amministrazione di soste­gno, poiché secondo la formulazione dell’art. 404 c.c. l’impos­sibilità della persona di provvedere ai propri interessi puòanche essere ”totale” e derivare da una infermità di mente”permanente”.Sulla problematica è intervenuta anche la Suprema Corte diCassazione, che nell’affrontare per la prima volta con la sen­tenza n. 13584 del 12/06/2006, la disamina dell’istituto inanalisi, ha dettato una serie di principi interpretativi:a. richiamando l’interpretazione fornita dalla Corte Costitu­zionale fa proprio come primo criterio di delimitazione deidue istituti quello che viene definito ”quantitativo”, poichécorrelato al diverso grado di incapacità della persona e ten­dente quindi a limitare i casi di interdizione a quelli di incapa­cità totale, assoluta, irrecuperabile. Questa soluzione «a pri­ma vista, piana e ragionevole» non viene vista come esaustiva,in quanto non mette in luce «la specificità dell’istituto» e ri­schia di trascurare «una serie di elementi di interpretazioneofferti dalla lettera e dallo spirito della legge».b. Sarebbe, allora, necessario che il giudice esamini, di volta involta, più che la gravità delle patologie (trovando applicazioneentrambi gli istituti anche in presenza di patologie particolar­mente gravi), le esigenze da soddisfare nel caso concreto. Percui si dovrebbe scegliere:

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* l’amministrazione di sostegno nel caso di «un’attività mini­ma, estremamente semplice, e tale da non rischiare di pregiu­dicare gli interessi del soggetto ­ vuoi per la scarsa consisten­za del patrimonio disponibile, vuoi per la semplicità delleoperazioni da svolgere (attinenti, ad esempio, alla gestioneordinaria del reddito da pensione), e per l’attitudine del sog­getto protetto a non porre in discussione i risultati dell’attivi­tà di sostegno nei suoi confronti»;* l’interdizione quando occorre «gestire un’attività di unacerta complessità», essendo l’unico strumento idoneo adassicurare l’adeguata protezione degli interessi della personarichiesta dalla legge.In conclusione, «il criterio del tipo di attività da compiersi innome del bendìciario viene ritenuto quello decisivo «ai finidella scelta dello strumento meglio rispondente alle esigenzedi tutela», pur non escludendosi il ricorso al primo principioricordato, ovvero «la considerazione, in via concorrente, diquelli concernenti la gravità e la durata della malattia, ovverola natura e la durata dell’impedimento».La disciplina processuale dell’amministrazione di sostegnoLa disciplina processuale dell’amministrazione di sostegno èstata oggetto di diverse critiche, frutto in particolare di alcuniproblemi interpretativi a cui ha dato origine; in particolare siè sottolineato come:* il procedimento relativo a questo istituto si articola su di­sposizioni eterogenee, alcune speciticamente previste per ilnuovo istituto (dal 403 al 413 c.c.), altre mutuate, anche secon il limite della clausola di compatibilità, dal processo diinterdizione e di inabilitazione (mediante il richiamo operatodall’art. 720 bis c.p.c.: gli art. 712,713, 716, 719 e 720 c.p.c.),altre riconducibili al modello dei procedimenti in camera diconsiglio (720 bis c.p.c), giudizio «alquanto destrutturato», dacui discende la difficoltà di ricondurlo alla categoria della giu­risdizione contenziosa o di quella volontaria, con conseguentiproblematiche applicative; le tesi che valorizzano le affinità trail nuovo istituto e l’interdizione e l’inabilitazione ricondunoquesto nuovo giudizio nella prima categoria; di converso, gliinterpreti che ne valorizzano gli elementi innovativi e la diver­sa ratio ispiratrice propendono per l’inserimento nella secon­da categoria;* il principale oggetto di contrasto si è, però, focalizzato sul­l’interrogativo se fosse nec3ssario che le parti stessero ingiudizio col ministero di un difensore oppure no. Due sonogli orientamenti:a. tesi che esclude l’obbligo del ministero del procuratore;alla base di questo orientarnento vi sono essenzialmente dueargomenti:* valorizzando la funzione e le esigenze di tutela proprie delnuovo istituto si afferma che l’amministrazione di sostegno èuno strumento di tutela connotato da estrema duttilità, cele­rità e facilità di accesso. Il rapporto immediato tra il giudice ele parti ne costituisce condizione per il proprio corretto fun­zionamento;* l’ammissibilità della difesa personale delle parti deriva dallanatura volontaria di tale procedimento, essendo richiesto

l’obbligo del patrocinio solo per giudizi contenziosi;b. a favore dell’opposta tesi militerebbero fondamentalmente:* la parziale similitudine di disciplina processuale esistente trail procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno equello di interdizione e inabilitazione;* la possibilità ex art. 411 c.c. per il giudice tutelare di dispor­re ”che determinati effetti, limitazioni o decadenze, previstida disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato si esten­dano al benefìciario dell’amministrazione di sostegno, avutoriguardo all’interesse del medesimo ed a quello tutelato dallemedesime disposizioni”.Si sottolinea come una ”terza via” è stata intrapresa dallaSuprema Corte nella prima sentenza che ha affrontato lasuddetta problematica (n. 25366/2006). In via preliminare iGiudici osservano come la problematica in analisi tragga origi­ne dalla mancanza, nella legge n. 6/2004, di alcuna disposizio­ne che espressamente preveda la difesa tecnica nel procedi­mento di cui si tratta, né che ne escluda dichiaratamente lanecessità. Quanto alla soluzione ermeneutica sposata dalSupremo Consesso, essa involge una scelta relativa sulla basedella rilevata impossibilitià di (ed addirittura la preclusione ad)una soluzione unitaria del problema applicabile indistintamen­te a tutte le ipotesi sussumibili sotto l’amministrazione disostegno. In sintesi, quindi, il principio di diritto enunciato dalCollegio sottende due alternative:* ai fini della nomina dell’amministratore non sarà necessarioil ministero del difensore nelle ipotesi in cui l’emanando prov­vedimento debba limitarsi ad individuare specificamente isingoli atti o categorie di atti, in relazione ai quali si richiedel’intervento dell’amministratore;* sarà richiesto l’intervento della difesa tecnica ogni qualvoltail decreto che il giudice ritenga di emettere incida sui dirittifondamentali della persona, attraverso la previsione di effetti,limitazioni o decadenze, analoghi a quelli previsti da disposi­zioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato. In pratica, in que­st’ultimo caso si incontra il limite del rispetto dei principicostituzionali in materia di diritto di difesa e del contradditto­rio.L’ultima questione affrontata permette di introdurre un ulte­riore profilo che è stato, da ultimo, portato all’attenzionedella Corte Costituzionale, ovvero la compatibilità costituzio­nale dei nuovi artt. 407 e 410 del codice civile nella parte incui non sembrano subordinare al consenso dell’interessatol’attivazione della misura dell’amministrazione di sostegno edil compimento dei singoli atti gestionali, o comunque nonsembrano attribuire efficacia paralizzante al suo dissenso inordine a tale attivazione e al compimento di tali atti, per vio­lazione degli artt. 2 e 3 della Costimzione. A favore dell’inco­stituzionalità militerebbero:a. la violazione da parte delle norme censurate della dignitàdella persona e la relativa sfera di libertà giuridica;b. si trasformerebbe il nuovo strumento di protezione deisoggetti in difficoltà in una sorta di interdizione camuffata,nella quale la volontà della persona viene annullata senza unaragionevole giustificazione e senza le relative garanzie e cau­

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tele.Di diverso avviso la Corte costituzionale secondo cui l’art.407 del Codice civile, nel disciplinare il procedimento perl’istituzione dell’amministrazione di sostegno, prevede espres­samente che il giudice tutelare deve sentire personalmente lapersona cui il procedimento si riferisce e deve tenere conto«compatibilmente con gli interessi e le esigenze di protezionedella persona, dei bisogni e delle richieste di questa» (comma2).Tale dato normativo non esclude, ma anzi chiaramente attri­buisce al giudice anche il potere di non procedere alla nominadell’amministratore di sostegno in presenza del dissenso del­l’interessato, ove 1’autorità giudiziaria, nell’ambito della di­screzionalità riconosciutale dalla norma censurata, ritengadetto dissenso ­ nel contesto della fattispecie sottoposta alsuo giudizio ­ giustificato e prevalente su ogni altra diversaconsiderazione, senza che la sottoposizione del rilievo deldissenso alla condizione della sua compatibilità con gli inte­ressi e con le esigenze di protezione della persona integriviolazione dei parametri costituzionali denunciati (artt. 2 e 3della Costituzione), i quali, invece, sono in questo modo rea­lizzati.

PROFESSIONISTI24

Camera di conciliazione e arbitratoMediazione civile, domande alla Consob per arbitrientro il 24 maggio

Guida al Diritto news online

Roma,15 aprile 2010 (Ansa) ­ Entra nel vivo l’attività dellaCamera di conciliazione e arbitrato, istituita presso la Con­sob per risolvere le controversie tra semplici investitori eintermediari finanziari senza ricorrere alla giustizia ordinaria.Da oggi è possibile presentare le domande per l’iscrizione aglielenchi degli arbitri e dei conciliatori: sono interessati avvoca­ti, commercialisti, notai, magistrati, professori universitari oalti dirigenti dello Stato. Si tratta di figure che, se in possessodei requisiti professionali e deontologici previsti dai regola­menti della Camera, potranno svolgere l’attività di conciliato­re e arbitro: a loro potranno rivolgersi i singoli risparmiatorinei casi di mancata trasparenza, scorrettezze o illeciti relativialla collocazione di titoli, a fondi comuni o ad altri tipi di inve­stimenti finanziari.

Domande entro il 24 maggioLe richieste di candidatura da parte dei professionisti dovran­no pervenire alla Consob entro il 24 maggio (quelle giuntesuccessivamente saranno prese in considerazione per gli ag­giornamenti semestrali degli elenchi). Subito dopo sarannostilati gli elenchi ufficiali, e la Camera di conciliazione conta«di diventare pienamente operativa da prima dell’estate,compatibilmente con il numero di domande pervenute», spie­ga il presidente dell’organismo, il presidente onorario della

Corte dei Conti Fulvio Balsamo.«Rapidità ed economicitàsono le caratteristiche principali degli strumenti offerti dallaCamera a tutto vantaggio del mercato e in particolare deirisparmiatori», ha sottolineato il presidente dell’organismo,Fulvio Balsamo, nel corso di un incontro con la stampa perpresentare la fase di reclutamento degli arbitri e dei concilia­tori.

Il funzionamento della nuova strutturaLe controversie dovranno risolversi in tempi stretti (60 giorniper la conciliazione, 120 per l’arbitrato, che possono essereraddoppiati su richiesta dalle parti), mentre i costi ­ sottoline­ano dalla Camera di conciliazione ­ «sono contenuti: unacomponente fissa per le spese amministrative (30 euro per laconciliazione, 100 per l’arbitrato), più una componente varia­bile come compenso per conciliatori e arbitri, variabile aseconda degli importi della controversia» (si va da 40 a76.000 euro, soglia massima in caso di arbitrati su controver­sie di valore superiore ai 5 milioni di euro).

La proceduraResta la possibilità di rivolgersi al giudice nel caso in cui laconciliazione fallisca; anzi a partire dal prossimo anno, in ac­cordo con la normativa vigente, l’aver tentato preventivamen­te la conciliazione sarà requisito necessario per intraprenderele vie legali: un modo per alleviare il carico di lavoro dellestrutture giudiziarie.In pratica, di volta in volta dagli elenchidei conciliatori­arbitri le parti in accordo tra loro, o la Came­ra in caso di mancata intesa, verrà scelto il professionista piùadatto a risolvere la controversia. L’obiettivo della Camera diconciliazione è quello di costituire una rete capillare in tuttele Regioni, in modo da permettere ai risparmiatori di seguirela propria procedura ”vicino casa”.Nel dettaglio, la conciliazione riguarderà la ricerca di un ac­cordo tra le parti, che sarà svolta da un mediatore scelto tra iprofessionisti iscritti all’elenco, e che, nel caso di raggiuntaintesa, sfocerà in un contratto vincolante tra le parti. Al con­ciliatore potranno rivolgersi i singoli risparmiatori, da soli ocoadiuvati da un legale o dal rappresentante di un’associazio­ne dei consumatori. L’arbitrato invece costituisce una formadi giudizio alternativa al normale processo civile: deve essereprevisto dall’accordo tra le parti, e può sfociare in un lodo,ovvero una decisione arbitrale con forza di sentenza. Si trattadi una procedura più formalizzata, nella quale le parti sarannocoadiuvate da procuratori legali.

La sovrapposizione con Banca d’ItaliaPer quanto riguarda la possibile sovrapposizione con l’attivitàdi un’altro ”arbitro”, quello istituito dalla Banca d’Italia, il pre­sidente Balsamo ha precisato che «stiamo lavorando a unprotocollo per dividere con precisione gli ambiti di azione eper condividere informazioni sui ricorsi presentati presso idue organismi».

Le istruzioni per le domande

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45Newsletter n. 15 ­ 20 aprile 2010

http://www.consob.it/main/camera/avvisi/index.html

REPERTORIO24

Tribunale Velletri Civile ­ Sentenza del 8 marzo 2010

CONCORDATO PREVENTIVO ­ SOCIETÀ PER AZIONI A TOTALEPARTECIPAZIONE PUBBLICA ­ RACCOLTA E TRASPORTO DI RI­FIUTI SOLIDI URBANI ­ AMMISSIBILITÀ ­ ATTIVITÀ INQUADRABI­LE NEL MODELLO PRIVATISTITICO ­ ASSENZA DI POTERI DIINGERENZA DELL’ENTE PUBBLICO ­ ATTIVITÀ A FAVORE DITERZI.

È assoggettabile a procedura concorsuale ­ e può quindi esse­re ammessa al concordato preventivo ­ la società per azioniinteramente partecipata da capitale pubblico e che utilizzirisorse pubbliche per lo svolgimento della propria attivitàqualora la sua sfera d’azione sia riconducibile al diritto privatosecondo uno schema comunque inquadrabile nel modello pre­visto dal codice civile. (Nella specie, il potere di indirizzoriconosciuto all’ente pubblico è limitato all’espletamento delservizio nel territorio di riferimento, gli enti locali non hannoalcun potere di ingerenza nella gestione complessiva dellasocietà e di verifica del bilancio e non esercitano comunque unpotere analogo a quello esercitato dall’ente pubblico sui pro­pri servizi; l’oggetto sociale ammette infine l’espletamentodell’attività a favore di terzi).Repertorio24PUBBLICAZIONECentro studi giuridici di Mantova, www.Ilcaso.it, 2010, pg.2108, pt. I

Tribunale Mondovì Civile ­ Sentenza del 22 marzo2010

PROCESSO CIVILE ­ DOVERE DI LEALTÀ E PROBITÀ PROCESSUA­LE ­ INOTTEMPERANZA ALL’ORDINE DI ESIBIZIONE DEL GIU­DICE ­ CONSEGUENZE ­ COMPORTAMENTO PROCESSUALEGRAVEMENTE SCORRETTO ­ VALORE CONFESSORIO DELLACONDOTTA ­ CONSEGUENZE.

In virtù dell’interpretazione congiunta degli articoli 88 e 116codice procedura civile è possibile, nei casi di comportamentoprocessuale gravemente scorretto, sanzionare la parte con ilriconoscere alla sua condotta un valore quasi confessorio, diriconoscimento implicito della fondatezza delle domande av­versarie. Solo la consapevolezza della propria virtuale soccom­benza, infatti, può condurre la parte alla violazione ripetuta egrave di quei doveri di correttezza e leale collaborazioneche la legge impone. (Nel caso di specie, la parte ha ripetuta­mente omesso l’esibizione dei documenti richiesti dal giudice,ha ripetutamente dichiarato, contrariamente al vero, di nonessere in grado di reperire la documentazione richiesta, haripetutamente depositato fuori udienza memorie non autoriz­zate, contenenti anche valutazioni in diritto, ha riportato tra

virgolette frasi asseritamente contenute nella comparsa dicostituzione, che invece non esistevano o erano diverse).Repertorio24PUBBLICAZIONECentro studi giuridici di Mantova, www.Ilcaso.it, 2010, pg.2112, pt. I

Tribunale Mondovì Civile ­ Sentenza del 22 marzo2010

PROCESSO CIVILE ­ MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA ­ RIFERI­MENTO A PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI CONFORMI ­ FI­NALITÀ ­ SNELLIMENTO DELLE MOTIVAZIONI ­ RIPETIZIONEDEL PERCORSO MOTIVAZIONALE ­ ESCLUSIONE.

La modifica all’art. 118 delle disposizioni per l’attuazione delcodice procedura civile operata dalla legge n. 69/2009, per laquale la motivazione della sentenza di cui all’articolo 132 delcodice, può aver luogo anche facendo riferimento a preceden­ti conformi, ha il significato non tanto di consentire la citazio­ne di precedenti giurisprudenziali (facoltà, costantemente os­servata, della quale non si è mai dubitato), quanto piuttosto diconsentire un deciso snellimento delle motivazioni, evitandodi dover ripetere per intero un percorso motivazionale giàdisponibile altrove e facilmente rintracciabile attraverso lebanche dati e gli archivi specializzati del web.Repertorio24PUBBLICAZIONECentro studi giuridici di Mantova, www.Ilcaso.it, 2010, pg.2104, pt. I

Tribunale Mondovì Civile ­ Sentenza del 22 marzo2010

RAPPORTI BANCARI ­ VARIAZIONE UNILATERALE DELLE CON­DIZIONI CONTRATTUALI ­ COMUNICAZIONE CHIARA E SPECI­FICA ­ NECESSITÀ.

La comunicazione della variazione delle condizioni applicate airapporti di conto corrente prevista dall’art. 6 della legge 17/2/1992, n. 154 (norma ora abrogata dall’art. 161 D.Lgs. 1/9/1993, n. 385), deve essere chiara ed esplicita, non potendosiritenere a tal fine sufficiente l’indicazione della variazione (nellaspecie relativa al tasso di interesse) nei riepiloghi tecnici deiconteggi periodicamente inviati al cliente. È, infatti, noto chetali documenti non sono di immediata comprensione per iclienti ­ specie se privi di adeguata cultura o preparazione ­ neiconfronti dei quali solo una comunicazione tempestiva e speci­fica, resa per iscritto, può garantire il raggiungimento delloscopo prefisso dalla norma.Repertorio24PUBBLICAZIONECentro studi giuridici di Mantova, www.Ilcaso.it, 2010, pg.2104, pt. I

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Newsletter n. 15 ­ 20 aprile 201046

Consiglio di Stato Sezione 6 ­ Sentenza del 7 aprile2010, n. 1967

APPALTI ­ ESCLUSIONE DALLA GARA ­ PER PRESUNTO COLLE­GAMENTO TRA IMPRESE.

È illegittimo l’operato di una stazione appaltante che abbiaescluso da una gara un concorrente, aggiudicatario provviso­rio, per via di un presunto collegamento tra questi ed altraimpresa partecipante alla medesima gara, senza che il provve­dimento espulsivo sia stato preceduto da una comunicazionedi avvio del procedimento, in quanto l’acquisizione di elementinuovi impone alla stazione appaltante di riaprire il confrontocon l’impresa interessata mettendola in condizioni di conosce­re le ragioni di tale ”revirement”. La semplice constatazionedell’esistenza di un rapporto di controllo tra le imprese con­correnti non è sufficiente affinché la stazione appaltante possadisporne l’esclusione automatica dalla procedura di aggiudica­zione, senza verificare se un tale rapporto abbia avuto unimpatto concreto sul loro rispettivo comportamento nell’am­bito della procedura; da qui l’esigenza, nel caso di specie, che,ai fini della riapertura dell’indagine relativa al collegamento econtrollo tra imprese, fosse offerta alla concorrente, a mezzodi comunicazione ai sensi dell’art. 7 della legge n. 241/1990, lapossibilità di controdedurre a quanto dalla stazione appaltanteposto in evidenza sulla base dei nuovi elementi acquisiti.Repertorio24PUBBLICAZIONEAvv. Costantino Tessarolo, Diritto dei servizi Pubblici, 2010

Corte Costituzionale ­ Sentenza del 18 marzo 2010,n. 107

GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA PRINCIPA­LE ­ INTERVENTO IN GIUDIZIO DI SOGGETTI NON TITOLARI DIPOTESTÀ LEGISLATIVA ­ INAMMISSIBILITÀ.

È inammissibile, nel giudizio di legittimità costituzionale in viaprincipale, l’intervento di soggetti privi di potestà legislativa.Tale giudizio, infatti, si svolge esclusivamente fra soggetti titola­ri di potestà legislativa, fermi restando per i soggetti privi ditale potestà i mezzi di tutela delle loro posizioni soggettive,anche costituzionali, di fronte ad altre istanze giurisdizionali edeventualmente anche di fronte alla Corte in via incidentale.Negli stessi termini, v. le citate sentenze n. 254/2009, n.233/2009, n. 405/2008, n. 51/2008, n. 265/2006, n. 129/2006,n. 116/2006, n. 103/2006, n. 80/2006, n. 59/2006, n. 51/2006,n. 469/2005, n. 383/2005, n. 336/2005 e n. 150/2005.Repertorio24PUBBLICAZIONEIl Sole 24 Ore, Guida al Diritto, 2010, 14, pg. 81, annotata daG.M. Salerno

Corte Costituzionale ­ Sentenza del 17 marzo 2010,n. 106

AVVOCATO E PROCURATORE ­ PRATICANTI AVVOCATI AMMESSIAL PATROCINIO DAVANTI AI TRIBUNALI DEL DISTRETTO NELQUALE È COMPRESO L’ORDINE CIRCONDARIALE CHE HA LATENUTA DEL RELATIVO REGISTRO, LIMITATAMENTE AIPROCEDIMENTI GIÀ RIENTRANTI NELLE COMPETENZE DELPRETORE ­ POSSIBILITÀ PER I DETTI PRATICANTI DI ESSERENOMINATI, IN SEDE PENALE, DIFENSORI D’UFFICIO DAVANTIAI MEDESIMI TRIBUNALI E NEGLI STESSI LIMITI ­ INCIDENZASULL’EFFETTIVITÀ DELLA DIFESA D’UFFICIO, ATTESA LA DIFFE­RENTE CAPACITÀ PROFESSIONALE E PROCESSUALE DEL PRATI­CANTE E DELL’AVVOCATO ISCRITTO ALL’ALBO ­ ILLEGITTIMITÀCOSTITUZIONALE IN PARTE QUA ­ ASSORBIMENTO DELLEQUESTIONI ULTERIORI.

È costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 24,comma secondo, Cost., l’art. 8, comma secondo, ultimo peri­odo, del R.D.L. 27/11/1933, n. 1578 ­ convertito, con modifica­zioni, dalla legge 22/1/1934, n. 36, come modificato dall’art. 1della legge 24/7/1985, n. 406, dall’art. 10 della legge 27/6/1988,n. 242 e dall’art. 246 del D.Lgs. 19/2/1998, n. 51 ­ nella parte incui prevede che i praticanti avvocati possono essere nominatidifensori d’ufficio. La norma censurata compromette l’effetti­vità della difesa d’ufficio poiché all’indagato o all’imputato po­trebbe essere assegnato, senza il concorso della sua volontà,un difensore che non ha percorso l’intero iter abilitativo allaprofessione, mentre nel caso di nomina a favore dell’irreperi­bile sarebbe esclusa ogni possibilità di porre rimedio all’incon­veniente denunciato mediante la sostituzione con un difensoredi fiducia. Inoltre, la differenza tra il praticante e l’avvocatoiscritto all’albo si apprezza non solo sotto il profilo ­ prospet­tato dal rimettente ­ della capacità professionale (che, nel casodel praticante, è in corso di maturazione), ma anche sottol’aspetto della capacità processuale, intesa come legittimazio­ne ad esercitare, in tutto o in parte, i diritti e le facoltà propriedella funzione defensionale: infatti, il praticante iscritto nelregistro, pur essendo abilitato a proporre dichiarazione diimpugnazione, non può partecipare all’eventuale giudizio digravame e si trova, altresì, nell’impossibilità di esercitare attivi­tà difensiva davanti al tribunale in composizione collegiale,competente in caso di richiesta di riesame nei giudizi cautelari.(Restano assorbite le questioni sollevate in riferimento agliartt. 3, 24, comma terzo, e 97 Cost.). Per la non fondatezza diuna questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, commasecondo, prima parte, del R.D.L. n. 1578 del 1933, sollevata inriferimento agli artt. 3, 24, comma secondo, e 33, commaquinto, Cost., v. la citata sentenza n. 5/1999.Repertorio24PUBBLICAZIONECorte Costituzionale, Sito Ufficiale C.Cost., 2010

Corte d’Appello Napoli Civile ­ Sentenza del 26 mar­zo 2010

FALLIMENTO ­ DICHIARAZIONE DI ­ COMPETENZA ­ TRASFERI­

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47Newsletter n. 15 ­ 20 aprile 2010

MENTO DI SEDE LEGALE ALL’ESTERO ­ FITTIZIETÀ ­ CANCEL­LAZIONE DAL REGISTRO IMPRESE ­ IRRILEVANZA.

Ove il trasferimento all’estero della sede della società dovesserivelarsi fittizio, non potrà darsi rilievo alla circostanza dellacancellazione da oltre un anno dal registro delle imprese edapplicarsi l’art. 10, legge fallimentare, dovendosi, invece, con­cludere per la perdurante operatività dell’impresa in Italia.Repertorio24PUBBLICAZIONECentro studi giuridici di Mantova, www.Ilcaso.it, 2010, pg.2107, pt. I

Corte d’Appello Napoli Civile ­ Sentenza del 26 mar­zo 2010

FALLIMENTO ­ DICHIARAZIONE DI ­ COMPETENZA ­ TRASFERI­MENTO DI SEDE LEGALE ALL’ESTERO ­ FITTIZIETÀ ­ FATTISPE­CIE ­ ELEMENTI INDIZIARI.

Deve ritenersi fittizio il trasferimento di sede all’estero anchenel caso in cui la società sia stata cancellata dal registro delleimprese italiano ed iscritta in quello dello stato estero, abbiapresentato un bilancio conforme alla legislazione di quellostato, abbia ivi effettuato alcuni pagamenti ed istituito un uffi­cio con personale dipendente. Non si può infatti affermareche al trasferimento all’estero della sede legale abbia fattoseguito l’esercizio di attività imprenditoriale ed il trasferimen­to del centrodell’attività direttiva, amministrativa ed organizzativa qualorala società non svolga nello stato di destinazione alcuna realeattività, la compagine sociale sia ancora interamente italiana, lasocietà svolga di fatto in Italia buona parte della sua attività, lastruttura allestita all’estero sia poco più che un ufficio dirappresentanza con un unico dipendente part­time a dispettodi un considerevole volume d’affari e si rivelino, infine, inconsi­stenti le motivazioni addotte per giustificare il trasferimentodellasede.Repertorio24PUBBLICAZIONECentro studi giuridici di Mantova, www.Ilcaso.it, 2010, pg.2107, pt. I

Tribunale Torino Sezione Lavoro Civile ­ Sentenza del22 febbraio 2010

LAVORO SUBORDINATO (RAPPORTO DI) ­ LICENZIAMENTO PERGIUSTA CAUSA ­ OPERAZIONE PACIFICA DI OPERAZIONI ANO­MALE ­ CONSEGUENZE IN TEMA DI RIPARTO DELL’ONEREDELLA PROVA ­ CONDANNA ALLE SPESE.

Il compimento di un’operazione oggettivamente anomala daparte del lavoratore subordinato costituisce una giusta causadi licenziamento ai sensi dell’art. 2119 c.c.. ­ La pacifica verifi­

cazione dell’operazione, da una parte, esonera il datore dilavoro dall’onere della prova impostogli dall’art. 5 della Legge15/7/1966, n. 604 e, dall’altra, impone al lavoratore che inten­da liberarsi della responsabilità l’onere di giustificare la bontàdel comportamento posto alla base del licenziamento (nellaspecie, a fronte della documentazione fornita dalla banca ­datore di lavoro ­, attestante la fittizietà di un’operazione diprelievo da conto corrente per evidente difformità della firmadel cliente, sarebbe stato onere dell’operatore di sportellolicenziato provare che il prelievo era avvenuto secondo leregole bancarie previste e che i beneficiari dello stesso eranostati il titolare del conto corrente o il suo delegato).Repertorio24PUBBLICAZIONECentro studi giuridici di Mantova, www.Ilcaso.it, 2010, pg.2106, pt. I

SENATO

Martedì 20 aprile 2010alle ore 16,30362ª Seduta PubblicaORDINE DEL GIORNO

Seguito della discussione dei disegni di legge:

GIULIANO. ­ Modifiche al regio decreto­legge 27 novembre1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22gennaio 1934, n. 36, in materia di riforma dell’accesso allaprofessione forense e raccordo con l’istruzione universitaria(601)­ CASSON ed altri. ­ Disciplina dell’ordinamento della pro­fessione forense (711)­ BIANCHI ed altri. ­ Norme concernenti l’esercizio dell’atti­vità forense durante il mandato parlamentare (1171)­ MUGNAI. ­ Riforma dell’ordinamento della professione diavvocato (1198)­ Relatore VALENTINO

CAMERA

Convocazione della II Commissione GiustiziaMartedì 20 aprile 2010

Ore 11.30 COMMISSIONI RIUNITE (Aula II)(II e X) INDAGINE CONOSCITIVAAudizione di rappresentanti dell’Osservatorio sulle crisi d’im­presa e del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti edegli esperti contabili, nonché del professore Luigi Foffani,ordinario di diritto penale, e del professore Massimo Fabiani,ordinario di diritto processuale civile, in relazione all’esamedel disegno di legge C. 1741 Governo, recante disposizioni inmateria di gestione delle crisi aziendali

Ore 13 SEDE CONSULTIVA

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Newsletter n. 15 ­ 20 aprile 201048

Alla XI Commissione: Delega al Governo in materia di lavoriusuranti e di riorganizzazione di enti, misure contro il lavorosommerso e norme in tema di lavoro pubblico e di controver­sie di lavoro (esame C. 1441 ­quater /D Governo, rinviato alleCamere dal Presidente della Repubblica – Rel. Lo Presti)

Al termine ATTI COMUNITARI

Iniziativa per una direttiva del Parlamento europeo e del Con­siglio sull’ordine di protezione europeo (esame 17513/09 CO­PEN 247, COR 1 e PE­CONS 2/10­ Rel. Sisto)

Ore 13.30 SEDE REFERENTE­ Riforma della disciplina delle persone giuridiche e delle asso­ciazioni non riconosciute (seguito esame C. 1090 Vietti – Rel.Vietti)

­ Disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio dellepene detentive non superiori ad un anno e sospensione delprocedimento con messa alla prova (seguito esame C. 3291Governo e C. 3009 Vitali – Rel. Papa)

­ Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Gover­no in materia di normativa antimafia (seguito esame C. 3290Governo e C. 529 Vitali – Rel. Torrisi)

Al termine UFFICIO DI PRESIDENZA INTEGRATO DAIRAPPRESENTANTI DEI GRUPPI

Convocazione della II Commissione GiustiziaMercoledì 21 aprile 2010

Ore 14.15 SEDE CONSULTIVAAlla XI Commissione: Delega al Governo in materia di lavoriusuranti e di riorganizzazione di enti, misure contro il lavorosommerso e norme in tema di lavoro pubblico e di controver­sie di lavoro (seguito esame C. 1441 ­quater /D Governo,rinviato alle Camere dal Presidente della Repubblica – Rel. LoPresti)

Ore 14.30 SEDE REFERENTE­ Riforma della disciplina delle persone giuridiche e delle asso­ciazioni non riconosciute (seguito esame C. 1090 Vietti – Rel.Vietti)

­ Disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio dellepene detentive non superiori ad un anno e sospensione delprocedimento con messa alla prova (seguito esame C. 3291Governo e C. 3009 Vitali – Rel. Papa)

­ Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Gover­no in materia di normativa antimafia (seguito esame C. 3290Governo e C. 529 Vitali – Rel. Torrisi)

­Norme per il contrasto dell’omofobia e transfobia (seguito

esame C. 2802 Soro e C. 2807 Di Pietro – Rel. Concia)

Convocazione della II Commissione GiustiziaGiovedì 22 aprile 2010

Al termine votazioni a.m. Assemblea SEDE REFERENTE

­ Riforma della disciplina delle persone giuridiche e delle asso­ciazioni non riconosciute (seguito esame C. 1090 Vietti ? Rel.Vietti)

­ Disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio dellepene detentive non superiori ad un anno e sospensione delprocedimento con messa alla prova (seguito esame C. 3291Governo e C. 3009 Vitali ? Rel. Papa)

­ Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Gover­no in materia di normativa antimafia (seguito esame C. 3290Governo e C. 529 Vitali ? Rel. Torrisi)

Ore 13 AUDIZIONI INFORMALI

Audizione di rappresentanti dell’Associazione italiana dei ma­gistrati per i minorenni e per la famiglia, nonché della dotto­ressa Rosanna De Palo, presidente del Tribunale per i mino­renni di Bari, e dell’avvocato Maria Giovanna Ruo, presidentedella Camera minorile nazionale, nell’ambito dell’esame dellaproposta di legge C. 2919 Paniz e abb., in materia di accessodell’adottato alle informazioni sulla propria origine e sull’iden­tità dei genitori biologici

Ore 14.15 COMMISSIONI RIUNITE (Aula X)(II e X) ATTI COMUNITARIProposta di direttiva del Parlamento Europeo e del Consigliorelativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazio­ni commerciali (Rifusione) ­ Attuazione del quadro fondamen­tale per la piccola impresa (Small Business Act) (seguito esameCOM(2009)126 def. – Rel. per la II Commissione: Cassinelli;Rel. per la X Commissione Fava)

GAZZETTA UFFICIALE

Gazzetta Ufficiale ­ Serie Generale n. 89 del 17­4­2010

DECRETO MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITA’ CULTU­RALI 10 novembre 2009Determinazione della misura della provvigione spettante allaSIAE per le attività di gestione del diritto di seguito.

CIRCOLARE MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FI­NANZE 22 marzo 2010, n. 14Revisione dei Programmi di spesa per l’anno 2011.

Gazzetta Ufficiale ­ Serie Generale n. 88 del 16­4­2010

Stampato dal sito www.lex24.ilsole24ore.com

49Newsletter n. 15 ­ 20 aprile 2010

DECRETO MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI 23 marzo2010Modifica dei decreti ministeriali 30 dicembre 1978, n.4668­bis, 12 maggio 1982, n. 1681­bis, 19 giugno 1989, n.3211­bis, che regolano il rilascio dei passaporti diplomatici e diservizio.

DECRETO MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLEFINANZE 30 marzo 2010Disposizioni per il contrasto alle frodi fiscali IVA in­ternazionali e nazionali.

Gazzetta Ufficiale ­ Serie Generale n. 87 del 15­4­2010

DECRETO MINISTERO DELLA DIFESA 22 ottobre 2009Procedure per la gestione dei materiali e dei rifiuti e la bonificadei siti e delle infrastrutture direttamente destinati alla difesamilitare e alla sicurezza nazionale.

DECRETO MINISTERO DELLE POLITICHE AGRICOLE ALI­MENTARI E FORESTALI 16 febbraio 2010Criteri di assegnazione dei contributi ai sensi della legge n.133/2008 per il settore apistico.

Gazzetta Ufficiale ­ Serie Generale n. 86 del 14­4­2010

DECRETO MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINAN­ZE 8 marzo 2010Certificazione relativa al rispetto degli obiettivi del patto distabilità interno per l’anno 2009 delle province e dei comunicon popolazione superiore a 5.000 abitanti.

COMUNICATO MINISTERO DELLA GIUSTIZIAMancata conversione del decreto­legge 5 marzo 2010, n. 29,recante: «Interpretazione autentica di disposizioni del proce­dimento elettorale e relativa disciplina di attuazione».

Gazzetta Ufficiale ­ Serie Generale n. 85 del 13­4­2010

DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 1 feb­braio 2010, n. 54Regolamento recante norme in materia di autonomia gestio­nale e finanziaria delle rappresentanze diplomatiche e degliUffici consolari di I categoria del Ministero degli affari esteri, anorma dell’articolo 6 dellalegge 6 giugno 2006, n. 69.

Gazzetta Ufficiale ­ Serie Generale n. 84 del 12­4­2010

DECRETO LEGISLATIVO 20 marzo 2010, n. 53Attuazione della direttiva 2007/66/CE che modifica le direttive89/665/CEE e 92/13/CEE per quanto riguarda il miglioramentodell’efficacia delle procedure di ricorso in materia d’aggiudica­zione degli appaltipubblici.

DECRETO MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHESOCIALI 24 marzo 2010Criteri per la concessione del trattamento straordinario diintegrazione salariale e del trattamento di mobilità, per l’anno2010, per le imprese esercenti attività commerciale che occu­pino più di cinquanta addetti, per i lavoratori dipendenti dalleaziende operanti nei settori delle agenzie di viaggio e turismo,compresi gli operatori turistici, che occupino più di cinquantaaddetti, e delle imprese di vigilanza con più di quindici dipen­denti. (Decreto n. 50948).