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1Newsletter n. 15 20 aprile 2010
NEWSLETTER N. 15 13/19 APRILE 2010
a cura di Guida al Diritto
ANTEPRIMA
EDITORIALE.Diritto d’autore: editoria on line fuori dal FarWest solo con il ruolo egemone del legislatorecomunitariodi Stefania Ciocchetti
ONLINE
LA SENTENZE DEL GIORNO GIURISDIZIONEL’impugnazione è tempestiva se spedita prima deisessanta giorni
Corte di cassazione Sezioni Unite civili Sentenza 14 aprile
2010 n. 8830
LA SENTENZE DEL GIORNO ESTORSIONECondannato il figlio adulto che pretende soldi dalla madreCorte di Cassazione Sezione VI penale Sentenza 19 aprile n.14914
IN PRIMO PIANO PREVIDENZA FORENSE &GIUSTIZIA AMMINISTRATIVAAlfano: «stati generali deIle Casse» Codice superail primo ostacolodi Patrizia Macciocchi
a cura di Lex24
CORTE COSTITUZIONALE
CASSAZIONE CIVILE INTERROGATORIO
CASSAZIONE CIVILE RISARCIMENTO
CASSAZIONE CIVILE IMMOBILI
CASSAZIONE PENALE FAVOREGGIAMENTO
CASSAZIONE PENALE INTERCETTAZIONI
CASSAZIONE PENALE TESTIMONIANZA
CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITA’ EUROPEE TUTELA CONSUMATORI
IN GAZZETTA OGGI
AVVOCATI24Avvocato d’affari e imprenditore insieme contro lacrisidi Antonello Martinez Avvocato, Studio Legale Martinez Novebaci
IL MERITO ONLINEL’amministratore di sostegnodi Nicola Corea
PROFESSIONISTI24Mediazione civile, domande alla Consob per arbitrientro il 24 maggio
DOCUMENTAZIONE
Da Repertorio24
Lavori parlamentari
Gazzetta Ufficiale
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Newsletter n. 15 20 aprile 20102
EDITORIALE
GUIDA AL DIRITTO N. 17del 24 Aprile 2010
Diritto d’autore: editoria on line fuori dal Far Westsolo con il ruolo egemone del legislatore comunitarioDI ANDREA SIROTTI GAUDENZI Avvocato e presidente del
Centro studi di diritto europeo delle tecnologie
In questi giorni la prima legge in tema di proprietà intellettualecompie trecento anni. Si tratta del Copyright Act promulgatonel 1709 dalla regina Anna d’Inghilterra ed entrato in vigore il10 aprile 1710, come ricordato anche da Giorgio Assumapresidente della Siae.
Originale coincidenza quella che vuole che i festeggiamenti peri tre secoli dell’Editto che spesso viene ritenuto il primo testonormativo completo in tema di protezione dei libri (non ancora considerati opere intellettuali, quanto piuttosto res corporales) debba accompagnarsi con il deposito delle (corpose)motivazioni della sentenza emessa dal tribunale di Milano nell’ambito del caso Google, in cui l’editore del maggiore motoredi ricerca mondiale viene immolato sull’altare della tutela deidati personali.
Semplice coincidenza? I greci, che riconducevano la vita all’arbitrio delle tre Moire, avrebbero forse azzardato qualcosa dipiù. Tuttavia, l’antica cultura greca non prevedeva forme ditutela nei confronti della proprietà intellettuale: le opere diOmero venivano trascritte e, inevitabilmente, ogni trascrizione comportava trasformazioni, manipolazioni, cambiamenti.Eppure, questo processo non veniva considerato un illecito:infatti, nella Grecia antica l’immortalità corrispondeva al ricordo e al fatto che, dopo la morte, le nuove generazioni potessero continuare a emozionarsi di fronte alle liriche del Poeta, aprescindere dal fatto che il contenuto dell’opera fosse stato omeno manipolato. E così, assieme a divinità, semidei, eroi emiti, riviveva il cieco cantore della storia di Odisseo.
Nell’antica Roma l’opera si identificava con il supporto materiale e, pertanto, i diritti patrimoniali venivano attribuiti a chiavesse acquistato il manoscritto o lo avesse realizzato, inserendovi l’opera di altri. Nonostante ciò, già nella Roma repubblicana era possibile ritenere illecite le condotte corrispondenti al plagio. In particolare, era riconosciuto il diritto all’inedito, tutelato attraverso l’actio iniuriarum aestimatoria.Nel Medio Evo non erano garantiti particolari diritti. E accadeva che gli autori per tentare di proteggere il frutto dellapropria fatica si rivolgessero alle oscure forze del male. Bastiricordare una maledizione del XIII secolo riportata nello Specchio sassone, con cui si augurava la lebbra a chi avesse utilizza
to il testo «in modo illecito o peccaminoso», modificandone ilcontenuto.
Solo nel secolo XV, con l’avvento della stampa a caratterimobili, si avvertì l’esigenza di riconoscere a editori (rectius,stampatori) e autori talune tutele. E, in ragione delle pressionieffettuate dalle corporazioni, si tendeva a tutelare principalmente proprio l’editore. In piena epoca rinascimentale, siaffermò un sistema che poggiava sulla concessione dei privilegi.La stessa cosa avveniva in Francia, dove Carlo IX concesse auna Lega cattolica di editori francesi privilegi su taluni testireligiosi. Lo stesso monarca attribuì la Privilegii summa a uneditore per la stampa delle Pandette, disponendo che chiunque avesse stampato le opere senza autorizzazione sarebbeincorso in gravi sanzioni. I privilegi (dette anche patenti) venivano rilasciati dal sovrano agli stampatori, assieme all’imprimatur concesso da una forma di censura preventiva.
Il primo imprimatur di cui si ha notizia risale al 1501, quandoAlessandro VI si rivolse ad alcuni alti prelati con la bolla Intermultiplices. Nel 1515 i principi espressi dalla bolla furonoestesi a tutto il mondo cristiano, tramite l’enciclica di Leone X,Inter sollicitudines. Successivamente, lo strumento dell’imprimatur fu adottato anche dai vari sovrani europei, tranne aVenezia, dove il privilegio di stampa fu sostituito dalla licenza distampa, con una legge del 1663.
Il privilegio aveva a oggetto il diritto esclusivo di riproduzione.Incominciava quindi ad affermarsi il concetto di diritto diesclusiva, ancora oggi alla base della disciplina della proprietàintellettuale.
Nel secolo XVIII, si svilupparono le prime normative nazionaliin tema di diritto d’autore, a partire dal già citato CopyrightAct della regina Anna d’Inghilterra, fino a giungere alla disciplina organica prevista dalle leggi francesi in tema di proprietàletteraria e artistica del 1791 e del 1793, che attribuivaespressamente all’autore la possibilità di agire in giudizio neiconfronti del contraffattore.
Sono, però, le leggi ottocentesche a dare alla disciplina deldiritto d’autore le connotazioni che la stessa presenta ancoraoggi. Infatti, in precedenza, il copyright era considerato unaistituzione di diritto positivo riconosciuto dal Sovrano comepremio temporaneo a favore dell’editore. All’autore, quindi,non veniva attribuito quel ruolo di primo piano che avrebbeacquisito nel corso degli anni. E infatti, le graziose concessioniilluministiche furono progressivamente abbandonate in tutti iPaesi dell’Europa continentale. I privilegi e gli statuti in cui idiritti venivano concessi dal sovrano di turno furono sostituitigrazie all’affermazione di una diversa coscienza. Seguendo gliinsegnamenti di Isaac René Guy Le Chapelier (uno dei principali artefici della codificazione napoleonica), il diritto d’autorevenne riconosciuto come «il più sacro dei diritti», al quale siattribuiva lo status di «diritto assoluto», sino all’inquadramen
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to dei diritti patrimoniali e morali spettanti all’autore nel genusdei «diritti naturali», riconosciuti (e non attribuiti) dall’ordinamento statale.
Ebbene, in questo ambito, la figura dell’autore superò quelladell’editore, al quale in principio il sovrano concedeva il privilegio di stampa. L’autore, quindi, fu collocato al centro delsistema e, non a caso, i diritti morali riconosciutigli dal legislatore sono ancor oggi inalienabili e imprescrittibili, a confermadell’indissolubile legame esistente tra l’artefice e la propriaopera.
Questo è il sistema che caratterizza la disciplina della proprietà intellettuale nel nostro Paese, grazie alle disposizioniespresse dalla legge 633/1941, ampiamente modificata nel corso degli ultimi anni per consentire una tutela alle opere dell’ingegno sempre più minacciate dall’affermazione delle tecnologie informatiche.
E, anzi, non deve stupire il fatto che le nuove tecnologierendano ancor più complessi i profili di responsabilità dell’editore e del soggetto che svolga attività di comunicazione inrete. Si è passati, infatti, dalla percezione della rete Internetcome una sorta di novello Far West alla consapevolezza chealla «rete delle reti» possono essere applicate regole. E, così,negli ultimi anni, soprattutto sotto l’impulso del Legislatorecomunitario, sono stati adottati provvedimenti normativi intema di commercio elettronico, data protection, editoria elettronica, tutela della proprietà intellettuale nella cosiddettasocietà dell’informazione. In particolare, il Dlgs 70/2003 prevede una sorta di specifici obblighi a carico degli operatori nelsettore delle «comunicazioni elettroniche». Ebbene, a prescindere dalla piena equiparazione tra provider ed editore (nondisposta da alcuna norma vigente), la lettura della sentenza deltribunale penale di Milano (depositata il 12 aprile 2010) nelcaso Google non fa altro che confermare gli obblighi cui glioperatori della rete sono tenuti. In precedenza, il principio erastato affermato dal tribunale di Roma, nell’ordinanza del 15dicembre 2009 emessa nel corso nel celebre giudizio che haopposto i giganti della nuova editoria: Mediaset contro Youtube e Google.
SENTENZA DEL GIORNO LICENZIAMENTO
L’impugnazione è tempestiva se spedita prima deisessanta giorniCorte di cassazione Sezioni Unite civili Sentenza 14 aprile
2010 n. 8830L’impugnazione del licenziamento spedita al datore di lavorotramite raccomandata si considera tempestiva quando l’affidamento alla Posta avviene entro sessanta giorni dalla comunicazione del recesso, indipendetemente dalla data di ricezione delplico. Lo hanno chiarito le sezioni Unite della Cassazione conla sentenza 8830/2010 che ha composto un contrasto esisten
te tra i vari collegi della sezione Lavoro. L’effetto di impedimento della decadenza, ha spiegato il collegio, si collega alcompimento da parte del soggetto onerato dell’attività necessaria ad avviare il procedimento di comunicazione demandatoa un servizio sottratto alla sua ingerenza, non rilevando che allavoratore sia rimessa la scelta tra più forme di comunicazione.
SENTENZA DEL GIORNO ESTORSIONE
Condannato il figlio adulto che pretende soldi dallamadreCorte di Cassazione Sezione VI penale Sentenza 19 aprile n.
14914Commette il reato di estorsione il figlio adulto che pretende soldidalla madre. La Corte di Cassazione con la sentenza n.14914 haconfermato la condanna a due anni e quattro mesi di reclusioneper estorsione e maltrattamenti in famiglia inflitta dalla Corted’Appello di Napoli a un ragazzo maggiorenne che chiedeva sistematicamente dei soldi ai genitori, arrivando a picchiare la mammaquando gli venivano negati. Gli ermellini hanno respinto il ricorsodel giovane disoccupato che contestava nel suo caso, il mancatorispetto, da parte del padre e della madre, delle norme del codicecivile che impongono ai genitori di continuare a provvedere alsostentamento dei figli anche oltre il compimento del 18° anno dietà se sono senza lavoro. Un dovere che viene meno solo dopo laraggiunta indipendenza economica o quando esiste la prova che ilmancato svolgimento di un’attività dipende dall’inerzia o da unrifiuto ingiustificato da parte dei figli di trovarsi un’occupazione.Disposizioni che, spiega il collegio di piazza Cavour, non valgonoperò per il ricorrente, dal momento che nulla dimostra che lesomme, estorte in modo violento, fossero utilizzate per il suomantenimento. La possibilità di esibire un tale prova hannospiegato i giudici avrebbe fatto scattare il meno grave reato di”esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza con violenza alle persone”.
PRIMO PIANO
Alfano: «stati generali deIle Casse» Codice supera ilprimo ostacolodi Patrizia Maciocchi
Roma,19 aprile 2010 Giovedì 15 si è aperta a Baveno, sul lagoMaggiore la nona Conferenza nazionale della Cassa nazionaleforense, dedicata alle questioni aperte dalla riforma della previdenza forense, a cui nella giornata di sabato ha partecipato ilguardasigilli Angelino Alfano. Il minsitro della Giustizia nell’occasione ha annunciato la prossima convocazione dei presidentidelle Casse per mettere a punto il welfare dei professinisti.Nel servizio vi presentiamo il resoconto della nostra inviata
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Newsletter n. 15 20 aprile 20104
Patrizia Maciocchi dei lavori della Conferenza sulle pensionidei legali e la bozza del nuovo Codice del processo amministrativo approvata, in esame preliminare dal Consiglio deiministri di venerdì 16 aprile.
PREVIDENZA FORENSE
Baveno (lago Maggiore) Decisamente più monotematica laseconda giornata della nona Conferenza della Cassa forense aBaveno. I lavori dei partecipanti all’incontro nazionale si sonoconcentrati soprattutto sulla riforma previdenziale. Con unadivagazione sulla riforma dello statuto della professione forense all’esame del Senato grazie agli interventi dei presidenti delConsiglio nazionale forense Guido Alpa e dell’Organismo unitario dell’avvocatura Maurizio de Tilla. «I professionisti rappresentano il 3,3% del comparto produttivo del Paese partecipando per il 12,50% al Pil nazionale. Eppure i politici sembrano piùconcentrati sull’attività d’impresa». Il presidente del Cnf Guido Alpa attira l’attenzione degli avvocati presenti a Bavenosull’importanza di portare a casa in tempi rapidi la riformadella professione. (segue...)(La prima giornata)
CODICE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO
Processo amministrativo, riforma ai blocchi. Il Consiglio deiministri ha infatti approvato, in esame preliminare, la bozza delDecreto legislativo per l’aggiornamento della procedura diriferimento nei giudizi amministrativi. Si tratta di un complessolavoro di riforma della materia, in attuazione della delegaconferita al Governo dall’articolo 44 della legge n. 69/2009,volta a riordinare la normativa in materia adeguandola ai moderni principi processuali: snellezza, concentrazione ed effettività della tutela, garanzia della ragionevole durata del processo, piena attuazione del contraddittorio, anche con specificoriguardo all’imprescindibile fase cautelare.Il Codice approvato oggi è notevolemnte distante dalle proposte avanzate dalla commissione di studio nominata dal Consiglio di Stato su delega del governo. Con grande delusione deimagistrati amministrativi, non solo non sono state previste lesezioni stralcio per smaltire gli arretrati, come era stato previsto dalla stessa legge delega, ma sono scomparse dal testoanche importanti novità come «l’azione di adempimento» e«l’azione di accertamento»: due misure che puntavano a farintervenire in tempi rapidi la Pubblica amministrazione mettendola di fronte alle proprie responsabilità anche in termini dirisarcimento del danno. Le nuove norme avrebbe dovutorappresentare una «rivoluzione del processo amministrativo»,spiegano alcuni esponenti della Commissione, e invece la riforma «si è ridotta ad un semplice riordino della normativa».
a cura di LEX24
CORTE COSTITUZIONALE
Illegittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4bis,D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115
I Tribunali di Catania e di Lecce (sezione distaccata di CampiSalentina), entrambi in composizione monocratica, hanno sollevano questioni di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4bis, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delledisposizioni legislative e regolamentari in materia di spese digiustizia), nella parte in cui avuto riguardo ai soggetti giàcondannati con sentenza definitiva per i reati di cui agli artt.416bis del codice penale, 291quater del d.P.R. 23 gennaio1973, n. 43 (Approvazione del testo unico delle disposizionilegislative in materia doganale), 73, limitatamente alle ipotesiaggravate ai sensi dell’art. 80, e 74, comma 1, del d.P.R. 9ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia didisciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza),nonché per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416bis ovvero al fine di agevolarel’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo esclude la possibilità di accertare, ai fini dell’ammissione alpatrocinio a spese dello Stato, l’indisponibilità di un redditosuperiore ai limiti indicati nell’art. 76, comma 1, dello stessod.P.R. n. 115 del 2002.La Corte Costituzionale, con la sentenza del 16 aprile 2010, n.139, ha ritenuto fondate le questioni sollevate dai Tribunali dimerito e ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 76,comma 4bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unicodelle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui, stabilendo che per i soggettigià condannati con sentenza definitiva per i reati indicati nellastessa norma il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti perl’ammissione al patrocino a spese dello Stato, non ammette laprova contraria.
Corte CostituzionaleSentenza del 16 aprile 2010, n. 139
GRATUITO PATROCINIO ILLEGITTIMITA’ COSTITUZIONALEPARZIALE ART. 76, COMMA 4BIS, DPR 30.05.2002, N. 115
LA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici:
Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TE
SAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
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5Newsletter n. 15 20 aprile 2010
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma4bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delledisposizioni legislative e regolamentari in materia di spese digiustizia), promossi dal Tribunale di Catania con ordinanza del17 luglio 2009 e dal Tribunale di Lecce (sezione distaccata diCampi Salentina) con ordinanza del 26 marzo 2009, rispettivamente iscritte ai nn. 299 e 301 del registro ordinanze 2009 epubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale, dell’anno 2009.Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio deiministri;udito nella camera di consiglio del 24 marzo 2010 il Giudicerelatore Gaetano Silvestri.Ritenuto in fatto1. Il Tribunale di Catania in composizione monocratica, conordinanza del 17 luglio 2009 (r.o. n. 299 del 2009), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo e terzo comma,della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testounico delle disposizioni legislative e regolamentari in materiadi spese di giustizia), nella parte in cui avuto riguardo aisoggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati di cuiagli artt. 416bis del codice penale, 291quater del d.P.R. 23gennaio 1973, n. 43 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale), 73, limitatamente alleipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 80, e 74, comma 1, deld.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materiadi disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nonché per i reati commessi avvalendosi delle condizionipreviste dal predetto articolo 416bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo esclude la possibilità di dimostrare, ai fini dell’ammissione alpatrocinio a spese dello Stato, l’indisponibilità di un redditosuperiore ai limiti indicati nell’art. 76, comma 1, dello stessod.P.R. n. 115 del 2002.Il giudice rimettente è chiamato a valutare il reclamo propostodall’interessato, già in precedenza ammesso a fruire del patrocinio a spese dello Stato, nei confronti del provvedimento conil quale il Tribunale di Catania, preso atto dell’esistenza a suocarico di una precedente condanna irrevocabile per il delittodi cui all’art. 416bis cod. pen., ha disposto la revoca delbeneficio. Ciò in applicazione del comma 4bis dell’art. 76 deltesto unico in materia di spese di giustizia, introdotto dall’art.12ter, comma 1, lettera a), del decretolegge 23 maggio 2008,n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), neltesto integrato dalla relativa legge di conversione (art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125).Il giudice a quo osserva, in punto di rilevanza, come la revocadell’ammissione sia stata correttamente disposta, con il provvedimento oggetto di reclamo, alla luce della previsione contenuta nell’art. 112, comma 1, lettera d), dello stesso d.P.R. n.115 del 2002, secondo cui, entro i cinque anni successivi alladefinizione del processo, il giudice provvede a revocare ilbeneficio del patrocinio a spese dello Stato nel caso constati la
mancanza, ”originaria o sopravvenuta”, delle relative condizioni di reddito. In particolare, anche la presunzione negativaintrodotta con il d.l. n. 92 del 2008 dovrebbe essere apprezzata nella valutazione sulla perdurante ammissibilità del beneficio.Non potrebbe essere accolta, a tale ultimo proposito, la tesiprospettata dalla difesa del reclamante, fondata sull’asserita”natura sostanziale” della norma censurata e dunque sulla suairretroattività secondo il disposto dell’art. 2 cod. pen. La leggesul patrocinio a spese dell’Erario, osserva il rimettente, impone una valutazione ”dinamica” dei requisiti reddituali, e lanormativa di nuova introduzione influisce sull’accertamentodei redditi in questione.Poste tali premesse, il giudice a quo ritiene che l’introduzionedi una presunzione iuris et de iure circa il superamento delreddito compatibile con il beneficio contrasti con il dettatocostituzionale.Dopo aver richiamato, in particolare, il disposto del terzocomma dell’art. 24 Cost., il rimettente sottolinea come laCorte costituzionale abbia stabilito che la difesa dei non abbienti è oggetto di un interesse generale, oltre che soggettivo,tanto che non rilevano le ragioni concrete dell’indisponibilitàdi un reddito adeguato (sono citate le sentenze n. 144 del1992, n. 139 del 1998 e n. 33 del 1999). La Corte di cassazione, dal canto suo, avrebbe posto in luce la particolare cogenza,nei giudizi penali, dell’interesse pubblico ad una piena esplicazione del diritto di difesa (è richiamata la sentenza delle Sezioni unite penali n. 25 del 24 novembre 1999).Chiarito il rango costituzionale del diritto all’assistenza tecnicadei non abbienti, il giudice a quo rileva come la presunzioneintrodotta dal legislatore discrimini ingiustificatamente tra coloro che siano stati condannati per i delitti indicati nella normacensurata e persone che siano state condannate per reatidiversi. La differenza di trattamento non potrebbe essere giustificata ”con il solo riferimento al maggior allarme socialederivante dalla commissione dei delitti” compresi nell’elencodello stesso comma 4bis dell’art. 76. D’altra parte, se illegislatore avesse inteso semplicemente escludere i soggetti inquestione dall’accesso al beneficio, l’avrebbe esplicitamentedisposto, secondo il modello già applicato con riguardo adalcuni reati tributari (art. 91 del d.P.R. n. 115 del 2002).I principi di uguaglianza e ragionevolezza sarebbero violatianche sotto altri profili. Sarebbe ingiustificato, anzitutto, ildiverso trattamento istituito tra gli appartenenti ad associazioni criminali: infatti, riguardo ai componenti delle associazioni ditipo mafioso e delle associazioni finalizzate al contrabbando ditabacchi lavorati esteri, la norma censurata introduce unapresunzione generalizzata di ”abbienza”, senza distinguere aseconda del ruolo, ed in particolare tra dirigenti e semplicipartecipi; nel caso delle associazioni finalizzate al narcotraffico,invece, la citata presunzione colpisce unicamente organizzatori e dirigenti del sodalizio, posto il riferimento in via esclusivaal comma 1 dell’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990. Non sarebberagionevole, secondo il rimettente, una differente valutazionedel ruolo apicale in ragione delle diverse finalità perseguite dai
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Newsletter n. 15 20 aprile 20106
gruppi criminali.Del pari irragionevole sarebbe l’analogia di trattamento istituita tra i partecipi di un’associazione mafiosa ed i soggetti cheabbiano ”solo” commesso un reato avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416bis cod. pen. od al fine di agevolarel’attività di una associazione di tipo mafioso. L’estensione delmeccanismo presuntivo a soggetti non appartenenti al gruppocriminale, per quanto ad esso contigui, varrebbe a contraddirela stessa ratio dell’intervento legislativo.La normativa censurata colliderebbe anche con l’art. 24, terzocomma, Cost., con l’art. 6, comma 3, lettera c), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertàfondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e con l’art.14, comma 3, lettera d), del Patto internazionale relativo aidiritti civili e politici, firmato a New York il 16 dicembre 1966,che garantiscono ai non abbienti ”la possibilità di accedere,comunque, alla difesa”.La presunzione censurata avrebbe l’effetto concreto di escludere sempre, senza possibilità di eccezione, l’accesso di determinati soggetti al patrocinio, non già in forza della loro condizione di reddito, ma ”in ragione delle risultanze del certificatodel casellario giudiziale”: sarebbe inutile finanche la positivadocumentazione della concreta indisponibilità di un redditoeccedente i limiti posti dalla legge per l’accesso al beneficio.Una condanna per un reato compreso nell’elenco dei precedenti preclusivi, specie se risalente, non sarebbe effettivamente significativa circa l’attuale condizione di ”abbienza” dell’interessato, il quale, ad esempio, potrebbe essersi allontanatodall’ambiente criminale. Di conseguenza la norma censurata,almeno nella parte in cui non ammette il condannato a produrre elementi di prova utili a vincere la relativa presunzione,determinerebbe una lesione del diritto di difesa, sia con riguardo al terzo comma dell’art. 24 Cost., sia con riferimentoal secondo comma della stessa norma, posto che l’accesso alpatrocinio rappresenta lo strumento per il pieno ed effettivoesercizio del diritto in questione.Il rimettente esclude, da ultimo, che i dubbi circa la legittimitàdella norma oggetto di censura possano essere superati attraverso una interpretazione ”costituzionalmente orientata”, cheneghi il carattere assoluto della presunzione ed ammetta, dunque, la possibilità di una prova contraria. Sarebbero ostativi, intal senso, sia il tenore letterale della disposizione, sia la chiaraintenzione del legislatore (desunta, nella specie, dai lavori preparatori delle assemblee parlamentari, ove si legge che lanorma censurata ”prevede l’esclusione del gratuito patrocinioper i condannati” riguardo a determinati reati).2. Il Tribunale di Lecce, sezione distaccata di Campi Salentina,con ordinanza del 26 marzo 2009 (r.o. n. 301 del 2009), hasollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., questione dilegittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4bis, del d.P.R. n.115 del 2002, nella parte in cui esclude con riguardo aisoggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati di cuiagli artt. 416bis cod. pen., 291quater del d.P.R. n. 43 del1973, 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’art.80, e 74, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, nonché per i
reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416bis ovvero al fine di agevolare l’attività delleassociazioni previste dallo stesso articolo che il giudice possaverificare se il richiedente l’ammissione al patrocinio a spesedello Stato abbia ricavato redditi dal reato pregresso, e se taliredditi perman gano, in misura superiore a quella fissata perl’accesso al patrocinio, nell’anno antecedente alla presentazione dell’istanza.Il giudice a quo deve provvedere sulla richiesta dell’imputato diessere ammesso al patrocinio a spese dello Stato, e rileva chel’interessato è stato condannato con pronuncia irrevocabileper il delitto di associazione di tipo mafioso. Tale precedente,pur ricorrendo tutti gli ulteriori presupposti per l’accoglimento, imporrebbe il rigetto della domanda.La norma censurata, secondo il rimettente, introduce unapresunzione avente ad oggetto l’esistenza, l’ammontare e ladurevolezza del reddito (pur illecito) prodotto da determinatidelitti. Detta presunzione sarebbe assoluta, producendo glistessi effetti di una diretta esclusione dal beneficio dei condannati per i reati in questione, così da elevare a prova insuperabile di ”abbienza” una ”norma di esperienza relativa” che, cometale, dovrebbe invece essere sottoposta alla verifica del casoconcreto.La regola di prova introdotta dal legislatore violerebbe il principio di uguaglianza sotto molteplici profili, proprio in quantofondata su una presunzione irragionevole. I delitti associativisono puniti anche quando non sia stato commesso alcun reatodi attuazione del programma. Non ogni reato produce necessariamente un profitto e, comunque, non sempre i profitticonseguiti in ambito associativo vengono distribuiti fra tutti icomponenti del gruppo criminale. Non potrebbe essere stabilito in via presuntiva, inoltre, che il reddito (illecito) conseguito al reato superi per quantità la soglia fissata per l’accesso alpatrocinio. In ogni caso, dovrebbe essere dimostrata la disponibilità del reddito in questione nell’anno fiscale antecedentealla domanda, e la presunzione diverrebbe tanto più irragionevole quanto più lontani nel tempo risultino i fatti accertati conla sentenza di condanna (nel caso di specie, i fatti stessi risalgono a circa nove anni prima della domanda proposta nelgiudizio a quo).La disposizione censurata, in definitiva, comporterebbe unaillegittima discriminazione tra i condannati per determinatireati e gli ulteriori instanti per l’ammissione al patrocinio aspese dello Stato, e produrrebbe, per i primi, una ingiustificatacompressione del diritto di difesa.3. Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato edifeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nelgiudizio introdotto con l’ordinanza r.o. n. 301 del 2009, mediante atto depositato in data 5 gennaio 2010, chiedendo chela questione sia dichiarata infondata.L’applicazione della norma censurata presuppone, infatti, chela colpevolezza dell’interessato per i reati in essa indicati siastata accertata con sentenza irrevocabile. D’altro canto, lapresunzione circa la disponibilità di redditi incompatibili conl’accesso al beneficio presunzione effettivamente insuperabi
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le sarebbe fondata su una ”consolidata massima di esperienza”, che documenta l’enormità dei profitti prodotti dal crimineorganizzato. Il ricorso a meccanismi presuntivi sarebbe imposto proprio dal carattere illecito, e dunque clandestino, deiredditi in discussione.Secondo la difesa erariale, la discrezionalità legislativa trova illimite della ragionevolezza e non quello della ”certezza” delleconseguenze che vengono tratte da una determinata premessa. Sarebbe ingiustificato l’accollo da parte dello Stato deglioneri pertinenti alla difesa di soggetti la cui condizione di non”abbienza” appaia tale solo in forza dell’occultamento del patrimonio posseduto. La necessità di evitare questo effetto, cherisulterebbe ”odioso al comune sentire dei cittadini”, giustificherebbe ”il rischio che, in qualche sporadico caso, il reatocommesso non abbia reso, in termini economici, i profitticonsueti”.Sarebbe anche ragionevole, sempre a parere dell’Avvocaturagenerale, la presunzione che i profitti ricavati dalle attivitàcriminali indicate si risolvano ”per molti anni” in redditi superiori ai limiti fissati per l’accesso al patrocinio, il che renderebbe irrilevante la questione del tempo intercorso tra la condanna e la successiva istanza di ammissione.La normativa censurata, in realtà, sarebbe inserita in un piùgenerale contesto di accentuata severità nel trattamento direati ad elevato allarme sociale, anche sul piano delle regoleprocessuali e dell’ordinamento penitenziario, in una logica di”doppio binario” la cui ammissibilità sarebbe stata asseveratatanto dalla Corte costituzionale che dalla Corte europea deidiritti dell’uomo.
Considerato in diritto1. I Tribunali di Catania e di Lecce (sezione distaccata diCampi Salentina), entrambi in composizione monocratica, sollevano questioni di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delledisposizioni legislative e regolamentari in materia di spese digiustizia), nella parte in cui avuto riguardo ai soggetti giàcondannati con sentenza definitiva per i reati di cui agli artt.416bis del codice penale, 291quater del d.P.R. 23 gennaio1973, n. 43 (Approvazione del testo unico delle disposizionilegislative in materia doganale), 73, limitatamente alle ipotesiaggravate ai sensi dell’art. 80, e 74, comma 1, del d.P.R. 9ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia didisciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza),nonché per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416bis ovvero al fine di agevolarel’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo esclude la possibilità di accertare, ai fini dell’ammissione alpatrocinio a spese dello Stato, l’indisponibilità di un redditosuperiore ai limiti indicati nell’art. 76, comma 1, dello stessod.P.R. n. 115 del 2002.1.1. Secondo il Tribunale di Catania la norma censurata stabilendo con presunzione assoluta che il reddito del condannato ”si ritiene” superiore ai limiti fissati per l’accesso al
patrocinio contrasterebbe con l’art. 3 della Costituzione,anzitutto per la difformità di trattamento istituita, senza giustificazione, tra i soggetti condannati per reati indicati nella stessa norma e quelli condannati per reati diversi, ma di gravitàcomparabile. Sarebbero inoltre discriminati tra loro gli appartenenti con ruoli non apicali ad associazioni criminose, sul solopresupposto delle differenti finalità perseguite dalle rispettiveorganizzazioni e della conseguente, diversa qualificazione giuridica. Nello stesso tempo, la norma censurata assimilerebbe,senza alcuna giustificazione, i soggetti appartenenti ad associazioni di tipo mafioso e quelli che, pur avendo agito per favoriredette associazioni oppure avvalendosi del le connesse capacitàdi intimidazione, non siano stati partecipi delle relative organizzazioni criminali.Il Tribunale di Catania prospetta anche una violazione delsecondo comma dell’art. 24 Cost., nonché del terzo commadella medesima norma, evocato unitamente all’art. 6, comma3, lettera c), della Convenzione per la salvaguardia dei dirittidell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4novembre 1950, ed all’art. 14, comma 3, lettera d), del Pattointernazionale relativo ai diritti civili e politici, firmato a NewYork il 16 dicembre 1966. La norma censurata, in particolare,eluderebbe il diritto all’assistenza gratuita ed al pieno eserciziodella difesa con riferimento a soggetti che, pur avendo inprecedenza commesso un reato incluso nell’elenco contenutonella norma stessa, non dispongano di un reddito adeguato.In ragione dei vizi denunciati, secondo il Tribunale, il comma4bis dell’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002 dovrebbe esseredichiarato illegittimo nella parte in cui non consente al richiedente, il quale sia stato in precedenza condannato con riguardo ad un reato ”ostativo”, di provare la mancata percezione diun reddito superiore ai limiti fissati nel primo comma dellostesso art. 76.1.2. Il Tribunale di Lecce (sezione distaccata di Campi Salentina) prospetta una violazione dell’art. 3 Cost. per l’asseritairragionevolezza della presunzione sottesa alla norma oggettodi censura, che accredita all’interessato, per l’anno fiscale antecedente alla sua istanza di patrocinio a spese dello Stato, unreddito superiore ai limiti di accesso. Ciò sebbene l’intervenuta condanna possa riguardare un reato non necessariamenteproduttivo di profitti nella misura indicata, o comunque nonproduttivo di redditi tali da legittimare la stessa presunzione aprescindere dal tempo intercorso tra il fatto criminoso el’epoca di presentazione dell’istanza.Secondo il rimettente, il denunciato contrasto con la Costituzione dovrebbe essere rimosso dichiarando illegittima la norma censurata nella parte in cui non consente al giudice diverificare se il reato cui si riferisce la condanna ”ostativa”abbia davvero prodotto, con specifico riguardo all’anno antecedente alla richiesta del patrocinio, un reddito superiore ailimiti per l’accesso al beneficio.2. Le ordinanze di rimessione riguardano la stessa norma, epongono questioni analoghe, di talché, al fine di una trattazione unitaria, è opportuna la riunione dei relativi procedimenti.3. Le questioni sono fondate, nei termini di seguito specifica
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ti.3.1. Preliminarmente occorre rilevare che la norma censurata contiene una presunzione di possesso di un reddito superiore a quello minimo previsto dalla legge, che, se ritenutaassoluta, non ammette la prova del contrario e rende pertanto inutili ed irrilevanti eventuali indagini del giudice, volte adaccertare le effettive condizioni economiche dell’imputato.Che si tratti di presunzione iuris et de iure emerge conchiarezza dal dato testuale della disposizione in oggetto: per isoggetti in essa indicati ”il reddito si ritiene superiore ai limitiprevisti”. Non sono stabiliti, nella norma in questione, condizioni e metodi per svolgere accertamenti, facoltativi od obbligatori, sul reddito del richiedente, ma si indica, con l’usoperentorio del presente indicativo, la conclusione cui il giudicedeve pervenire, in base al semplice accertamento che l’imputato sia stato condannato con sentenza definitiva per uno deireati elencati nella norma stessa. Si tratta, non senza qualcheeccezione, di reati collegati alle associazioni a delinquere distampo mafioso, alle associazioni finalizzate al narcotraffico edal contrabbando di tabacchi lavorati esteri.L’intento del legislatore è quello di evitare che soggetti inpossesso di ingenti ricchezze, acquisite con le attività delittuose appena indicate, possano paradossalmente fruire del beneficio dell’accesso al patrocinio a spese dello Stato, riservato, perdettato costituzionale (art. 24, terzo comma), ai ”non abbienti”. Tale eventualità è resa più concreta dall’estrema difficoltàdi accertare in modo oggettivo il reddito proveniente dalleattività delittuose della criminalità organizzata, a causa dellemaggiori possibilità, per i partecipi delle relative associazioni,di avvalersi di coperture soggettive e di strumenti di occultamento delle somme di denaro e dei beni accumulati.La stessa difesa dello Stato, che pur chiede il rigetto dellaquestione, ammette il carattere insuperabile della preclusionedi ogni accertamento nel caso concreto, derivante dalla naturaassoluta della presunzione.L’interesse dei soggetti non abbienti che potrebbero restareprivi della garanzia di un pieno esercizio del diritto di difesa,sacrificato secondo l’Avvocatura dello Stato in casi ”sporadici”, costituirebbe una sorta di bene cedevole nel bilanciamento necessario al fine di evitare un effetto ”odioso al comunesentire dei cittadini”, consistente nel pubblico impegno per ladifesa di persone, responsabili di gravi reati, che solo apparentemente versano in una situazione di povertà.3.2. Accertato che la disposizione censurata contiene unapresunzione assoluta presupposto sul quale i rimettentiescludono la possibilità di una interpretazione costituzionalmente orientata occorre mettere a confronto la norma in sée per sé considerata, la sua ratio, come prima identificata, e lenorme costituzionali invocate come parametri, vale a dire gliartt. 3 e 24, secondo e terzo comma, Cost.4. Questa Corte ha precisato che le presunzioni assolute,specie quando limitano un diritto fondamentale della persona,violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati,riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit (senten
ze n. 139 del 1982, n. 333 del 1991, n. 225 del 2008). Inparticolare, è stato posto in rilievo che l’irragionevolezza dellapresunzione assoluta si può cogliere tutte le volte in cui sia”agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari allageneralizzazione posta a base della presunzione stessa (sentenza n. 41 del 1999).4.1. Nel caso di specie, occorre porsi la domanda se sia”agevole” formulare ipotesi in cui il reddito, superiore a quellominimo previsto dalla legge per accedere al gratuito patrocino,non sia nella effettiva disponibilità del soggetto richiedente,con la conseguenza che lo stesso si trovi nella impossibilità diassicurarsi un’adeguata difesa fiduciaria.Occorre premettere, al fine indicato, che l’elenco di cui alcomma 4bis dell’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002 comprendeanche reati non necessariamente riferibili, nella prospettiva delsingolo autore, ad un contesto di criminalità organizzata. E’ ilcaso, ad esempio, di alcune ipotesi aggravate di illecita detenzione di sostanze stupefacenti, che sono appunto compresetra le fattispecie ostative ma non sono per se stesse significative di una stabile dedizione ad attività criminali particolarmentelucrose.Ad ogni modo, pur se riguardata nella sua dimensione prevalente di norma relativa al crimine organizzato, la disposizionecensurata non si sottrae ad un giudizio di irragionevolezza, peril carattere assoluto della presunzione introdotta.Una prima conclusione in tal senso emerge dal dato, di comune esperienza e avvalorato dalla giurisprudenza ordinaria, secondo cui esiste una sensibile differenza tra la posizione ed ilreddito dei capi delle associazioni criminali e la cosiddettamanovalanza del crimine, spesso compensata con somme discarsa entità, che non consentono disponibilità economiche diconsistenza tale da procurare ai percettori risorse adeguate aprovvedere alla loro difesa in eventuali futuri processi.A questo proposito vengono in rilevo due considerazioni, chesi combinano nella valutazione sulla legittimità costituzionaledella norma censurata.La prima è relativa alla illimitata durata nel tempo della preclusione all’accertamento dell’effettiva situazione economica deisoggetti che richiedono l’ammissione al patrocinio a spesedello Stato. La indistinta assimilazione di capi e gregari delleassociazioni criminali ha l’effetto di applicare una misura egualea situazioni che possono essere e sono, nell’esperienza concreta fortemente differenziate. La conseguenza è che, purpotendosi agevolmente ipotizzare casi di ”non abbienza” per isemplici partecipi delle organizzazioni criminali, questi ultimisubiscono lo stesso trattamento dei loro capi, che dalle attivitàdelittuose hanno tratto ingenti profitti, tali da assicurare disponibilità finanziarie per un più lungo periodo. La presunzioneassoluta, nei casi indicati, produce l’effetto sostanziale di unaimpropria sanzione, per il fatto di appartenere o di essereappartenuto a d una organizzazione criminale, consistentenella limitazione indiscriminata nell’esercizio di un diritto fondamentale come quello di difesa.Il legislatore mostra di essere consapevole della difficoltà diuna completa assimilazione nel trattamento dei membri di
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un’organizzazione criminale, ed esclude che la presunzionecolpisca anche i meri partecipi delle associazioni dedite alnarcotraffico. Tutta da dimostrare rimane tuttavia una migliore, generalizzata situazione patrimoniale dei meri partecipi adassociazioni di tipo mafioso o dedite al contrabbando di tabacchi.La seconda considerazione che si impone è quella relativaall’irrilevanza, ai fini della norma censurata, dei percorsi individuali successivi alla condanna definitiva per uno dei reati, chepuò essere molto risalente nel tempo come nel caso delrimettente Tribunale di Lecce senza che abbia rilievo uneventuale, accertato allontanamento del soggetto instante dalcontesto criminale di maturazione del fatto.Giova sottolineare che la presunzione assoluta opera perl’assistenza difensiva necessaria in processi aventi ad oggettoqualunque tipo di reato, anche del tutto eterogeneo rispettoalle attività della criminalità organizzata, con la conseguenzache non acquista alcun rilievo una eventuale estraneazionedalle associazioni criminali indicate nella norma. In casi delgenere la regola presuntiva non trova conferma neppure nelpossibile valore sintomatico della nuova imputazione, che d’altronde consisterebbe in un’accusa non ancora comprovata.La presunzione in esame, estesa a tutti reati e senza limite ditempo, impedisce che si possa tener conto di un eventualepercorso di emancipazione dai vincoli dell’organizzazione criminale, perfino nell’ipotesi in cui il soggetto sia imputato di unreato, anche colposo, che nulla abbia a che fare con la criminalità organizzata. E’ agevole ipotizzare la situazione di disagiopersonale, economico e sociale, di chi, partecipe di una associazione di stampo mafioso, tenti il reinserimento nella società, incontri difficoltà a trovare lavoro e sconti, in vari campidella vita di relazione, la sua pregressa appartenenza e si trovicoinvolto in procedimenti penali, nei quali non possa esercitare una difesa adeguata proprio per dimostrare la sua estraneità al crimine a causa di una reale condizione di indigenza, ilcui accertamento è precluso al giudice dalla norma censurata.A tutto ciò si deve aggiungere che tale norma esplica i proprieffetti non soltanto quando il condannato sia chiamato a difendersi in un nuovo procedimento penale, ma anche nel caso delsuo coinvolgimento in un processo civile, amministrativo, contabile o tributario, e dunque in situazioni prive del minimosignificato, di natura anche soltanto indiziaria, circa l’attualità diun comportamento criminale.4.2. Finanche l’ottenuta riabilitazione non inciderebbe sull’esclusione perpetua dall’accesso al patrocinio a spese delloStato. L’art. 178 cod. pen. stabilisce infatti che la riabilitazioneestingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale dellacondanna. Tuttavia la giurisprudenza di legittimità ha chiaritoche componente essenziale dell’effetto penale è la naturasanzionatoria dello stesso (Cass., Sezioni unite penali, sentenza 20 aprile 1994, n. 7); tale componente non sussiste nell’esclusione dal patrocinio, che trova la sua ratio, come giàdetto, nella presunzione che il soggetto condannato per reaticollegati alla criminalità organizzata abbia lucrato dalla suaattività delittuosa in misura tale da renderlo privo del requisito
del reddito inferiore al minimo stabilito dalla legge. Sarebbedel resto palesemente abnorme configurare come sanzioneuna compressione del diritto di di fesa, per l’evidente assurditàdi diminuire, per effetto di una condanna in sede penale, lapossibilità di difendersi da successive azioni penali.In sintesi, la norma censurata imprime sui soggetti in essaindicati uno stigma permanente e incancellabile, che incide,comprimendolo, sul diritto fondamentale di difesa, così comeconfigurato dall’art. 24, secondo e terzo comma, Cost.5. Alle considerazioni di cui sopra si deve aggiungere il rilievoche il terzo comma dell’art. 24 Cost. contiene una prescrizione generale e incondizionata, che integra e completa quella delsecondo comma, con l’effetto che l’accesso al patrocinio aspese dello Stato può essere diversamente regolato per i nonabbienti solo in presenza di altri principi costituzionali dasalvaguardare, per garantire la tutela di beni individuali o collettivi di pari meritevolezza. Questi ultimi, in ogni caso, nonpossono incidere sul pieno esercizio del diritto di difesa (l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato comporta com’ènoto, oltre alla facoltà di scegliere un difensore di fiducia, lapossibilità del ricorso a consulenti ed investigatori privati, edun più favorevole regime per quanto attiene alle spese processuali).Non occorre spendere molte parole per ricordare quantol’attività delittuosa della criminalità organizzata provochi gravilesioni dei diritti fondamentali dei cittadini e incida negativamente sulle condizioni di vita democratica e civile di interecomunità, determinando, di contro, cospicui arricchimenti pergli associati. Su questi presupposti sociali, il legislatore ben puòintrodurre discipline particolari, anche nella fruizione di dirittifondamentali, che tuttavia non possono mai risolversi nellapratica vanificazione degli stessi.Nel caso di specie, non può ritenersi irragionevole che, sullabase della comune esperienza, il legislatore presuma che l’appartenente ad una organizzazione criminale, come quelle indicate nella norma censurata, abbia tratto dalla sua attività delittuosa profitti sufficienti ad escluderlo in permanenza dal beneficio del patrocinio a spese dello Stato. Ciò che contrasta con iprincipi costituzionali è il carattere assoluto di tale presunzione, che determina una esclusione irrimediabile, in violazionedegli artt. 3 e 24, secondo e terzo comma, Cost. Si devequindi ritenere che la norma censurata sia costituzionalmenteillegittima nella parte in cui non ammette la prova contraria.6. L’introduzione, costituzionalmente obbligata, della provacontraria, non elimina dall’ordinamento la presunzione prevista dal legislatore, che continua dunque ad implicare una inversione dell’onere di documentare la ricorrenza dei presuppostireddituali per l’accesso al patrocinio. Spetterà al richiedentedimostrare, con allegazioni adeguate, il suo stato di ”nonabbienza”, e spetterà al giudice verificare l’attendibilità di taliallegazioni, avvalendosi di ogni necessario strumento di indagine.Certamente non potrà essere ritenuta sufficiente una semplice autocertificazione dell’interessato, peraltro richiesta a tutticoloro che formulano istanza di accesso al beneficio, poiché
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essa non potrà essere considerata ”prova contraria”, idonea asuperare la presunzione stabilita dalla legge. Sarà necessario,viceversa, che vengano indicati e documentati concreti elementi di fatto, dai quali possa desumersi in modo chiaro eunivoco l’effettiva situazione economicopatrimoniale dell’imputato.Rispetto a tali elementi di prova, il giudice avrà l’obbligo dicondurre una valutazione rigorosa e allo scopo potrà certamente avvalersi degli strumenti di verifica che la legge mette asua disposizione, anche di quelli, particolarmente penetranti,indicati all’art. 96, comma 3, del d.P.R. n. 115 del 2002. La ratiodella relativa previsione che concerne le richieste di accessoal patrocino a spese dello Stato da parte degli imputati peruno dei reati previsti dall’art. 51, comma 3bis, del codice diprocedura penale è certamente valida anche per le fattispecie oggetto del presente giudizio.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALEriuniti i giudizi,dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4bis,del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia),nella parte in cui, stabilendo che per i soggetti già condannaticon sentenza definitiva per i reati indicati nella stessa norma ilreddito si ritiene superiore ai limiti previsti per l’ammissione alpatrocino a spese dello Stato, non ammette la prova contraria.Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,Palazzo della Consulta, il 14 aprile 2010.F.to:Ugo DE SIERVO, PresidenteGaetano SILVESTRI, RedattoreGiuseppe DI PAOLA, CancelliereDepositata in Cancelleria il 16 aprile 2010.Il Direttore della CancelleriaF.to: DI PAOLA
No della Consulta in merito alle contestazione suppletive del P.M. nel giudizio abbreviato
ILGiudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Lecce hadubitato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 111 e 112 dellaCostituzione, della legittimità costituzionale degli artt. 441 e441bis del Codice di procedura penale, nella parte in cui, nelgiudizio abbreviato, non consentono al P.M. di effettuare contestazioni suppletive di reati connessi a norma dell’art. 12,comma 1, lett. b), cod. proc. pen. «anche in assenza di integrazioni probatorie disposte dal giudice e sulla base di atti ecircostanze già in atti e noti all’imputato».
Il dubbio di costituzionalità trova il suo presupposto fondantenell’indirizzo interpretativo che si asserisce accolto, in tema dimodifica dell’imputazione nel giudizio abbreviato, da due sentenze della Corte di cassazione (sezione II, 9 giugno 200522
giugno 2005, n. 23466, e sezione V, 27 novembre 200818febbraio 2009, n. 7047): un indirizzo i cui approdi vengonoevocati dal giudice di Lecce come tertia comparationis al finedi desumerne l’esigenza costituzionale di una (ulteriore) dilatazione del perimetro di ammissibilità delle contestazioni suppletive nell’ambito del rito alternativo.
La Corte Costituzionale, con la sentenza del 16 aprile 2010, n.140, ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 441 e 441bis del codice di procedurapenale, sollevata dal Tribunale di Lecce, in riferimento agli artt.3, 24, 97, 111 e 112 della Costituzione.
Corte CostituzionaleSentenza del 16 aprile 2010, n. 140
PROCEDURA PENALE QUESTIONE DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE ARTT. 441 E 441BIS CPP NON FONDATEZZA
SENTENZA N. 140ANNO 2010
REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici:Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,ha pronunciato la seguente
SENTENZAnel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 441 e441bis del codice di procedura penale promosso dal Giudicedell’udienza preliminare del Tribunale di Lecce nel procedimento penale a carico di F. P. ed altro con ordinanza del 10luglio 2009, iscritta al n. 264 del registro ordinanze 2009 epubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 2009.Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio deiministri;udito nella camera di consiglio del 24 marzo 2010 il Giudicerelatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza del 10 luglio 2009, il Giudice dell’udienzapreliminare del Tribunale di Lecce ha sollevato, in riferimentoagli artt. 3, 24, 97, 111 e 112 della Costituzione, questione dilegittimità costituzionale degli artt. 441 e 441bis del codice diprocedura penale, nella parte in cui non prevedono che, nel
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giudizio abbreviato, il pubblico ministero possa effettuare contestazioni suppletive, nei casi di cui all’art. 12, comma 1,lettera b), del medesimo codice, ”anche in assenza di integrazioni probatorie disposte dal giudice e sulla base di fatti ecircostanze già in atti e noti all’imputato”.Il giudice a quo chiamato a svolgere, nelle forme del giudizioabbreviato, un processo penale nei confronti di trentuno persone, imputate del delitto di associazione avente per scopo iltraffico illecito di sostanze stupefacenti e di altri reati riferisce che il pubblico ministero aveva contestato in udienza a duedegli imputati un ulteriore reato in materia di stupefacenti,legato dal vincolo della continuazione a quelli per cui si procede e, dunque, connesso a norma dell’art. 12, comma 1, letterab), cod. proc. pen. I difensori avevano eccepito l’”irritualità” ditale contestazione suppletiva, ostandovi la disposizione combinata degli artt. 441 e 441bis cod. proc. pen., in forza dei quali,nel giudizio abbreviato, la modifica dell’imputazione è ammessa solo ove sia stata disposta e attuata un’integrazione probatoria su richiesta di parte o d’ufficio.Nel dubbio, tuttavia, circa la legittimità costituzionale di talepreclusione, il giudice rimettente dopo avere disposto laseparazione del processo relativo al reato oggetto di contestazione suppletiva, al fine di ”impedire la scadenza dei termini dicustodia cautelare per gli altri imputati” ha sollevato l’odierna questione.Al riguardo, egli rileva come le sezioni unite della Corte dicassazione, con la sentenza 28 ottobre 199811 marzo 1999,n. 4, abbiano affermato che, nel giudizio ordinario, il pubblicoministero può procedere alla contestazione suppletiva di unreato concorrente o di una circostanza aggravante, non soltanto a fronte di nuove risultanze dibattimentali, ma anchesulla base di elementi già acquisiti nella fase delle indaginipreliminari. Se da un lato, infatti, la contestazione suppletivarappresenta una eventualità ”fisiologica” in un sistema processuale ispirato alla centralità del dibattimento, che è sede naturale della rappresentazione e della elaborazione probatoria(dalla quale possono sorgere esigenze di modifica dell’imputazione); dall’altro lato, tuttavia, una interpretazione letteraledella locuzione ”nel corso”, presente nell’art. 517 cod. proc.pen. (così come nell’art. 423 con riguardo all’art. 7;udienzapreliminare), si risolverebbe secondo il rimettente in ”unformalismo esasperato ed ingiustificato”, non essendo ravvisabile, neppure nell’ipotesi di nuova contestazione basata suelementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari, alcunaviolazione del diritto di difesa dell’imputato, messo comunquenelle condizioni di conoscere gli atti raccolti dalla pubblicaaccusa.A fronte di ciò, sarebbe dunque ”comprensibile” l’emergere diuna giurisprudenza di legittimità che, fornendo una certa interpretazione dell’art. 441bis cod. proc. pen., ha ritenuto che,anche nel giudizio abbreviato, una volta disposta una integrazione probatoria, le contestazioni suppletive siano possibilinon soltanto se derivanti dalle nuove prove assunte, ma anchequando trovino fondamento in ”fatti e circostanze già in atti”(sono citate, in particolare, le sentenze della Corte di cassa
zione, sezione II, 9 giugno 200522 giugno 2005, n. 23466, esezione V, 27 novembre 200818 febbraio 2009, n. 7047): e ciò stando alla prima delle pronunce ora ricordate persinoladdove l’integrazione probatoria, disposta dal giudice, nonabbia avuto concretamente luogo (nella specie, per sopravvenuto decesso del testimone da escutere). Secondo le medesime sentenze, inoltre, allorché le nuove contestazioni si basinosu dati precedentemente acquisiti, l’imputato non potrebbeneppure chiedere che il procedimento prosegua nelle formeordinarie, giacché la facoltà di rinuncia al giudizio abbreviato glisarebbe accordata dall’art. 441bis cod. proc. pen. unicamentea fronte di contestazioni scaturenti dalle integrazioni probatorie.La ratio della richiamata disposizione si coglierebbe, in effetti,agevolmente: la scelta del giudizio abbreviato non potrebberimanere vincolante ove emergano fatti non conosciuti o conoscibili dall’imputato, mentre tale esigenza non si manifesterebbe quando la contestazione suppletiva derivi da una semplice rivalutazione di dati probatori già in atti e, dunque, notiall’imputato al momento della scelta del rito.A seguito delle riforme degli anni 19992000, d’altronde, ilgiudizio abbreviato ormai svincolato dai presupposti delconsenso del pubblico ministero e della definibilità del processo allo stato degli atti non sarebbe più, come in origine, ungiudizio ”cristallizzato”, ma avrebbe assunto opposte caratteristiche di ”fluidità”, tanto sul versante probatorio che suquello dell’imputazione. L’imputato che opti per il rito alternativo sa, infatti, che potrebbe essere comunque disposta dalgiudice un’integrazione probatoria, che abiliterebbe il pubblicoministero ad operare contestazioni suppletive.In tale cornice, risulterebbe, tuttavia, inspiegabile l’inapplicabilità, sancita dall’art. 441, comma 1, cod. proc. pen., delladisciplina sulla modifica dell’imputazione recata dall’art. 423cod. proc. pen., fuori dei casi di integrazione probatoria indicati nell’art. 441bis. Se, alla stregua delle sentenze citate,persino in presenza di un’integrazione probatoria, disposta ma”priva di seguito”, è possibile una contestazione suppletivabasata solo sulla rivalutazione di elementi già acquisiti, purchéconosciuti dall’imputato, non si comprenderebbe perché lamedesima contestazione non sia ammessa anche quando unaintegrazione probatoria non venga ”formalmente disposta” dalgiudice.Codesta limitazione costituente, secondo il rimettente, l’ultimo residuo elemento di ”rigidità” del giudizio abbreviato siporrebbe segnatamente in contrasto con il ”principio del giusto processo” (art. 111 Cost.), implicante ”la lealtà processuale delle parti”: principio a fronte del quale il pubblico ministero, che non abbia formulato correttamente l’imputazione, nondovrebbe vedersi inibita la possibilità di integrarla sulla base diatti contenuti nel fascicolo processuale e perciò noti all’imputato.La circostanza che, in base alle norme censurate, la contestazione suppletiva radicata su elementi ”già in atti” sia permessao meno a seconda che sia stata o meno disposta un’integrazione probatoria, anche a prescindere dal suo effettivo espleta
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mento, comporterebbe, altresì, la violazione dei principi dieguaglianza e di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale(artt. 3 e 112 Cost.). La situazione sarebbe, infatti, identica neidue casi, giacché in entrambi la necessità di integrare l’imputazione sorge a seguito di un’omissione del pubblico ministero.Il denunciato divieto di contestazione del reato concorrente,impedendo l’esame congiunto delle regiudicande, si rifletterebbe negativamente anche sull’efficienza dell’accertamentoprocessuale, e, dunque, sul buon andamento dell’amministrazione della giustizia, con conseguente lesione dell’art. 97 Cost.La separazione dei processi specialmente quando venga inrilievo, come nel caso di specie, il rapporto tra delitto associativo e reati fine, o tra singoli reati fine comporterebbe, infatti,una reiterazione degli ”esperimenti probatori”, potenzialmente foriera di decisioni contraddittorie.Risulterebbe violato, infine, il diritto di difesa (art. 24 Cost.),giacché posto che la preclusione censurata non impediscecomunque al pubblico ministero di agire separatamente per ilreato di cui è stata omessa la contestazione l’imputatopotrebbe trovare, di contro, più vantaggioso difendersi contestualmente, in particolare quando si tratti di fatti legati dalvincolo della continuazione a quelli già contestati.La questione sarebbe altresì rilevante nel giudizio a quo, inquanto dal suo accoglimento dipenderebbe la possibilità didecidere sulla contestazione suppletiva formulata dal pubblicoministero, relativamente alla quale è stata disposta la separazione del processo, che, peraltro ove la decisione sull’incidente di costituzionalità intervenisse ”tempestivamente” nonprecluderebbe neppure una successiva riunione del processostesso a quello ”principale”.2. Nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidentedel Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questionesia dichiarata inammissibile o infondata.Ad avviso della difesa erariale, la questione sarebbe inammissibile per carente descrizione da parte del giudice a quo dellafattispecie concreta, la quale non consentirebbe di verificarel’effettiva rilevanza del dubbio di costituzionalità nel giudizioprincipale. Secondo quanto riferito nell’ordinanza di rimessione, difatti, il rimettente ha disposto la separazione del processo relativo al reato oggetto della contestazione suppletivainammissibilmente formulata dal pubblico ministero per impedire la scadenza dei termini di custodia cautelare, ”così evidenziando l’esistenza attuale nell’ordinamento di una strada alternativa a quella che ]il rimettente stesso] censura”.Inammissibile per difetto di rilevanza risulterebbe, altresì, lacensura basata sull’assunto per cui la contestazione suppletivanel giudizio abbreviato potrebbe risultare gradita all’imputatoin vista dell’applicazione dell’art. 81 cod. pen., trattandosi divalutazione rimessa in via esclusiva all’imputato medesimo;come pure l’ulteriore doglianza connessa alla considerazioneche la rimozione della preclusione censurata eviterebbe laduplicità di giudizi e, quindi, l’eventuale contrasto di giudicati,posto che l’ordinamento già contempla strumenti idonei adevitare il rischio paventato.
Quanto al merito della questione, l’Avvocatura dello Statoosserva come il giudice a quo abbia evocato impropriamente,a fondamento delle proprie doglianze, la sentenza della Cortedi cassazione, sezione V, 27 novembre 200818 febbraio 2009,n. 7047, trattandosi di decisione attinente all’ammissibilità, nelgiudizio abbreviato, di una diversa qualificazione giuridica delfatto contestato, e non già della contestazione suppletiva di unulteriore reato. Parimenti inconferente sarebbe la richiamatasentenza delle sezioni unite 28 ottobre 199811 marzo 1999,n. 4, che ha ritenuto ammissibile, bensì, la contestazione suppletiva basata su atti già acquisiti nel corso delle indaginipreliminari, ma con riguardo al dibattimento, nel quale all’imputato è assicurato ”il massimo livello di difesa”: laddove,invece, nella fattispecie in esame, la contestazione suppletivaformulata nel giudizio abbreviato ”allo stato degli atti”, nonconsentendo all’imputato stesso di rinunciare al rito semplificato, ne comprimerebbe le garanzie difensive.La giurisprudenza, ”pressoché consolidata”, della Corte dicassazione deporrebbe, in realtà, in senso contrario alla tesidel rimettente. Da essa emergerebbe, infatti, come la cristallizzazione del quadro processuale, sia dal punto di vista probatorio che da quello dell’imputazione, rappresenti un connotato ”ineliminabile” del giudizio abbreviato: e ciò nella considerazione che la contestazione suppletiva, anche se basata suelementi acquisiti in precedenza, costituisce fattore idoneo amutare gli equilibri fra le parti e le strategie difensive dell’imputato. Come rilevato, difatti, in più occasioni dalla stessaCorte costituzionale, le valutazioni dell’imputato circa la convenienza del rito speciale dipendono anzitutto dalla concretaimpostazione data al processo dal pubblico ministero.La previsione dell’art. 441bis cod. proc. pen. per la quale, inderoga al principio dettato dall’art. 441, comma 1, la contestazione suppletiva è possibile ove sia disposta una integrazioneprobatoria su richiesta dell’imputato (art. 438, comma 5, cod.proc. pen.) o per iniziativa del giudice (art. 441, comma 5, cod.proc. pen.) troverebbe giustificazione nel fatto che, in talicasi, possono emergere nuovi reati da contestare: ipotesi nellaquale il legislatore ha comunque lasciato all’imputato la sceltase proseguire con il rito speciale o chiederne la riconversionenel rito ordinario.Considerato in diritto1. Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Leccedubita, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 111 e 112 dellaCostituzione, della legittimità costituzionale degli artt. 441 e441bis del codice di procedura penale, nella parte in cui, nelgiudizio abbreviato, non consentono al pubblico ministero dieffettuare contestazioni suppletive di reati connessi a normadell’art. 12, comma 1, lettera b), cod. proc. pen. ”anche inassenza di integrazioni probatorie disposte dal giudice e sullabase di atti e circostanze già in atti e noti all’imputato”.Il dubbio di costituzionalità trova il suo presupposto fondantenell’indirizzo interpretativo che si asserisce accolto, in tema dimodifica dell’imputazione nel giudizio abbreviato, da due sentenze della Corte di cassazione (sezione II, 9 giugno 200522giugno 2005, n. 23466, e sezione V, 27 novembre 200818
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febbraio 2009, n. 7047): un indirizzo i cui approdi vengonoevocati dal giudice rimettente come tertia comparationis alfine di desumerne l’esigenza costituzionale di una (ulteriore)dilatazione del perimetro di ammissibilità delle contestazionisuppletive nell’ambito del rito alternativo.Alla stregua dell’indirizzo in questione, una volta che vengadisposta dal giudice una integrazione probatoria e (standoalmeno alla prima delle citate pronunce) indipendentementedal suo effettivo espletamento il pubblico ministero sarebbeabilitato a procedere alla contestazione suppletiva di reaticonnessi, non solo in rapporto a nuovi elementi emersi aseguito dell’integrazione probatoria (che appunto potrebbenon essere neppure attuata), ma anche sulla base di circostanze già risultanti dagli atti e, dunque, note all’imputato al momento della formulazione della richiesta di giudizio abbreviato.In quest’ultima ipotesi, d’altro canto, l’imputato non sarebbeneppure legittimato a chiedere che il processo prosegua nelleforme ordinarie, rinunciando al rito alternativo, giacché, inbase alla lettera dell’art. 441bis cod. proc. pen., tale facoltà glicompeterebbe unicamente a fronte di contestazioni scaturitedalle integrazioni probatorie effettivamente intervenute.A questo punto sempre secondo il giudice a quo sarebbe,tuttavia, del tutto incongruo e contrario agli evocati parametricostituzionali non permettere la contestazione suppletiva anche quando una integrazione probatoria non sia stata ”formalmente disposta” dal giudice (come avvenuto nel caso di specie): trattandosi di situazione che non presenta elementi differenziali di rilievo rispetto a quella dianzi indicata (contestazione suppletiva basata su circostanze già in atti, e non su nuoverisultanze probatorie, in presenza di una integrazione probatoria disposta, anche se non attuata), posto che pure in talecaso la necessità di integrare l’imputazione sorge a seguito diun’omissione del pubblico ministero.Sotto tale profilo, le norme impugnate violerebbero, dunque, iprincipi di eguaglianza (art. 3 Cost.) e di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale (art. 112 Cost.).Risulterebbe leso, altresì, il ”principio del giusto processo”(art. 111 Cost.), avente come corollario la ”lealtà processuale”delle parti: principio alla luce del quale non si giustificherebbeche, anche in assenza di integrazioni probatorie, venga preclusa al pubblico ministero la rivalutazione di atti contenuti nelfascicolo processuale e, perciò, noti all’imputato, al fine diporre rimedio ad una lacuna dell’imputazione.L’assetto normativo censurato violerebbe, ancora, l’art. 97Cost., in quanto la preclusione della contestazione di un reatoconcorrente nel caso considerato, impedendo l’esame congiunto delle regiudicande, provocherebbe una duplicazione diattività processuali e il rischio di contrasto di giudicati, conpregiudizio al buon andamento dell’amministrazione della giustizia.Da ultimo, apparirebbe compromesso anche il diritto di difesa(art. 24 Cost.), potendo risultare più vantaggioso per l’imputato difendersi contestualmente, anziché separatamente, in rapporto a reati legati fra loro dal vincolo della continuazione.2. L’eccezione di inammissibilità della questione per insuffi
ciente descrizione della fattispecie concreta e difetto di motivazione sulla rilevanza, formulata dall’Avvocatura generale dello Stato, non è fondata.Dall’ordinanza di rimessione emerge, infatti, che il rimettenteè chiamato a svolgere, con rito abbreviato, un processo neiconfronti di numerose persone, imputate di vari reati, nelcorso del quale il pubblico ministero ha contestato a due degliimputati, sulla base di elementi già risultanti dagli atti, unulteriore reato connesso ai sensi dell’art. 12, comma 1, letterab), cod. proc. pen.; iniziativa, questa, che ha incontrato l’opposizione dei difensori, i quali hanno eccepito l’inammissibilitàdella contestazione suppletiva, non essendo stata nella speciedisposta alcuna integrazione probatoria.La rilevanza della questione non viene meno, d’altro canto, peril fatto che il giudice a quo allo scopo di evitare che nellemore del giudizio di costituzionalità scadessero i termini massimi di custodia cautelare abbia disposto la separazione delprocesso relativo al reato oggetto della contestazione suppletiva, la cui ammissibilità resta ancora da stabilire. La contestazione suppletiva di un reato connesso che nel vigente codicedi rito, volto ad ”attuare nel processo penale i caratteri delsistema accusatorio” (art. 2, comma 1, della legge 16 febbraio1987, n. 81, recante ”Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedurapenale”), è affidata non certo al giudice, ma al pubblico ministero integra esercizio dell’azione penale e, dunque, dà vitaad un processo suscettibile di essere separato, in base alleregole generali, da quelli relativi ai reati oggetto dell’imputazione originaria. Anche dopo la separazione, d’altronde, l’esitodello scrutinio di costituzionalità continua a condizionare lasorte dello stesso giudizio principale separato: giacché, se laquestione fosse accolta, il rimettente dovrebbe ritenere lacontestazione suppletiva validamente effettuata e, quindi, pronunciarsi sempre nelle forme del giudizio abbreviato sulmerito della stessa nell’ambito di detto processo separato;mentre, in caso contrario, dichiarata inammissibile la nuovacontestazione, dovrebbe restituire gli atti al pubblico ministero affinché proceda per il reato connesso nei modi ordinari.3. Vanno del pari disattese le ulteriori eccezioni di inammissibilità della difesa erariale relative a singole censure, in quantoattengono, in realtà, a profili di merito.4. Nel merito, la questione non è fondata.4.1. Innanzi tutto, non è possibile considerare le due decisioni della Corte di cassazione, su cui il rimettente basa i propririlievi, come espressione di un orientamento giurisprudenzialeconsolidato (lo stesso giudice a quo riconosce l’esistenza diprecedenti di segno contrario): e ciò, tanto più ove si consideri che come rimarcato anche dall’Avvocatura dello Stato lapiù recente fra tali decisioni ha, in realtà, ad oggetto non giàuna fattispecie di contestazione suppletiva, ma di diversa qualificazione giuridica del fatto (passaggio dal furto tentato al furtoconsumato sulla base di elementi descrittivi già racchiusi nell’imputazione originaria).L’orientamento desunto da dette sentenze, d’altra parte, nonsoltanto non appare incontrovertibile sul piano ermeneutico,
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ma conduce addirittura ad un assetto in sé incompatibile conla Costituzione.Con riferimento al giudizio ordinario, è in effetti predominante, nella giurisprudenza di legittimità, la tesi per cui nonostante la formulazione letterale, apparentemente contraria, degliartt. 516 e 517 cod. proc. pen. le nuove contestazioniconsiderate da tali articoli possono essere basate, oltre che suelementi emersi per la prima volta nel corso dell’istruzionedibattimentale, anche sui soli atti già acquisiti dal pubblicoministero nel corso delle indagini preliminari: in tal modo,traducendosi anche in uno strumento per porre rimedio adinesattezze o lacune dell’imputazione originaria.A prescindere, peraltro, dalla validità degli argomenti addotti asupporto di siffatta soluzione interpretativa (sentenza n. 333del 2009), essa non può essere comunque estesa al giudizioabbreviato senza tenere conto delle peculiarità di questo rito.L’assetto normativo che il giudice a quo sottopone a scrutinioha, in effetti, una sua intrinseca razionalità.In parallelo all’originaria configurazione del giudizio abbreviatocome rito ”allo stato degli atti”, senza alcuna possibilità diintegrazioni probatorie, l’art. 441, comma 1, cod. proc. pen. nell’operare un generale rinvio, nei limiti della compatibilità,alla disciplina dell’udienza preliminare escludeva in assolutol’applicabilità dell’istituto della modificazione dell’imputazione,quale regolato dall’art. 423 cod. proc. pen.La preclusione rispondeva e tuttora risponde ad una funzione di garanzia per l’imputato, oltre che ad una logica premiale.L’imputato accettava, cioè, di essere giudicato sulla base degliatti raccolti nel corso delle indagini preliminari con esclusivoriferimento all’accusa già formulata dal pubblico ministero, chesegna i limiti della sua rinuncia alla formazione della prova incontraddittorio: tanto più che, di fronte a contestazioni suppletive di reati concorrenti o di circostanze aggravanti, egli sisarebbe trovato nell’impossibilità di difendersi dall’ampliamento dell’accusa stessa chiedendo l’ammissione di corrispondentiprove a discarico. Prospettiva nella quale la scelta legislativa furitenuta da questa Corte immune da vizi di costituzionalità, inquanto ”coerente con la struttura e le finalità del rito” (sentenza n. 378 del 1997).Introdotta, con la legge 16 dicembre 1999, n. 479, la possibilitàdi arricchimenti della piattaforma probatoria tanto per iniziativa dell’imputato (richiesta di giudizio abbreviato ”condizionato”: art. 438, comma 5, cod. proc. pen.), che del giudice (nelcaso di impossibilità di decidere allo stato degli atti: art. 441,comma 5, cod. proc. pen.) è emersa l’esigenza di prevederemeccanismi di adeguamento dell’imputazione alle nuove acquisizioni. In via di eccezione rispetto alla regola enunciata dall’art. 441, comma 1, cod. proc. pen. rimasta immutata si èquindi consentito al pubblico ministero di procedere a nuovecontestazioni. Ma ciò unicamente nei casi di modificazionedella base cognitiva a seguito dell’attivazione dei meccanismi diintegrazione probatoria, e riconoscendo, in pari tempo, all’imputato quando si tratti delle contestazioni previste dall’art.423, comma 1, cod. proc. pen. (fatto diverso, reato connessoa norma dell’art. 12, comma 1, lettera b, o circostanza aggra
vante) la facoltà di chiedere che il procedimento proseguanelle forme ordinarie, o, in alternativa, l’ammissione di nuoveprove (art. 441bis cod. proc. pen., aggiunto dall’art. 2octiesdel decretolegge 7 aprile 2000, n. 82, recante ”Modificazionialla disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase delgiudizio abbreviato”, convertito, con modificazioni, dalla legge5 giugno 2000, n. 144: nel caso di contestazione del fattonuovo, a norma dell’art. 423, comma 2, cod. proc. pen., l’imputato resta per converso tutelato dalla circostanza che talecontestazione presuppone il suo consenso).Da tale quadro che contraddice la visione, propugnata dalrimettente, del giudizio abbreviato come rito ormai totalmente ”fluido” sul piano probatorio e dell’imputazione si deveinferire che le eccezioni introdotte restano strettamente legate alle fattispecie che le giustificano: vale a dire, che il pubblicoministero possa effettuare le nuove contestazioni solo quandoaffiori la necessità di adattare l’imputazione a nuove risultanzeprocessuali, scaturenti da iniziative probatorie assunte nell’ambito del rito alternativo; rimanendo con ciò escluso che detteiniziative tanto più se rimaste ”prive di seguito” possanorappresentare una patente di legittimazione per rivalutare, ascopo di ampliamento dell’accusa, elementi già acquisiti inprecedenza e, fino a quel momento, non posti ad oggetto diazione penale.4.2. L’indirizzo giurisprudenziale su cui poggiano le censuredel rimettente conduce, d’altro canto, a risultati addiritturacontrari a Costituzione allorché assume appellandosi quisoltanto alla lettera dell’art. 441bis, comma 1, cod. proc. pen. che, nel caso di contestazione suppletiva fondata su elementi”già in atti”, e dunque noti all’imputato, costui non potrebbeneppure avvalersi della facoltà di chiedere che il procedimentoprosegua nelle forme ordinarie.Questa Corte ha avuto modo di rilevare, difatti, in più occasioni, che ”le valutazioni dell’imputato in ordine alla convenienza dei riti alternativi al dibattimento” dipendono anzitutto”dalla concreta impostazione data al processo dal pubblicoministero”. Con la conseguenza che quando, per ”evenienzepatologiche”, quali gli errori o le omissioni del pubblico ministero sulla individuazione del fatto o del titolo del reato,l’imputazione subisce una variazione sostanziale, l’imputatodeve essere rimesso in termini per compiere le suddettevalutazioni, pena la violazione tanto del diritto di difesa che delprincipio di eguaglianza, stante la discriminazione che verrebbealtrimenti a determinarsi a seconda ”della maggiore o minoreesattezza o completezza della discrezionale valutazione dellerisultanze delle indagini preliminari operata dal pubblico ministero nell’esercitare l’azione penale” (sentenze n. 333 del 2009e n. 265 del 1994).Tale principio è stato affermato con riferimento alle nuovecontestazioni dibattimentali e alla possibilità di passaggio dalrito ordinario a riti alternativi (giudizio abbreviato e applicazione della pena su richiesta): ma non potrebbe evidentementenon operare anche nella direzione inversa. Con la richiesta digiudizio abbreviato l’imputato accetta di essere giudicato conrito semplificato in rapporto ai reati già contestatigli dal pub
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blico ministero, rispetto ai quali solo egli esprime l’apprezzamento della convenienza del rito stesso: sicché non sarebbecostituzionalmente accettabile che egli venisse a trovarsi vincolato dalla sua scelta anche in relazione agli ulteriori reaticoncorrenti che stando all’indirizzo interpretativo in discussione potrebbero essergli contestati a fronte delle ”evenienze patologiche” di cui si è detto.4.3. Alla luce di quanto precede, si deve dunque escludereche la lettura delle norme censurate operata attraverso lepronunce giurisprudenziali richiamate e interpretate dal giudice a quo lettura non apprezzabile in termini di ”dirittovivente”, non incontestabile sul piano ermeneutico e comunque incompatibile con la Costituzione possa essere utilmente invocata quale tertium comparationis al fine di alterarel’assetto, viceversa in sé ragionevole e coerente, delineato dallegislatore in materia.Non ricorre la prospettata violazione dell’art. 3 Cost., essendo le due ipotesi poste a raffronto giudizio abbreviato con esenza integrazione probatoria tra loro non equiparabili ai finiconsiderati: soltanto nella prima, e non nella seconda, si prospetta l’esigenza di rendere possibile un eventuale adeguamento dell’imputazione a nuove acquisizioni, che il pubblico ministero non aveva potuto in precedenza considerare. D’altrocanto, e proprio in tale logica, il vigente assetto normativoconsente se non addirittura impone, anche ad evitare undiverso vulnus costituzionale di ritenere che, nel caso diintegrazione probatoria, la contestazione suppletiva possa derivare solo dalle nuove risultanze di essa, e non anche daquanto era già precedentemente noto alle parti: donde l’insussistenza della stessa ipotizzata esigenza di omologazione, su quest’ultimo versante, della disciplina relativa al giudizio abbreviatorimasto privo di arricchimenti del panorama probatorio.4.4. Parimenti infondate risultano le restanti censure.Nessuna violazione dell’art. 112 Cost. appare configurabile, perl’assorbente ragione che il pubblico ministero conserva comunque la possibilità di esercitare l’azione penale per il reato connesso, non ”tempestivamente” contestato, nei modi ordinari e in unprocesso separato.Né si comprende sotto quale profilo i principi e i connotati del”giusto processo” (art. 111 Cost.) tantomeno quello della ”lealtà processuale delle parti”, che il giudice a quo assume insito neglienunciati costituzionali possano ritenersi vulnerati dalla preclusione in esame, la quale risulta anzi coerente con essi, impedendoad una delle parti di mutare e imporre unilateralmente il tema delgiudizio abbreviato.Inconferente è il riferimento al principio di buon andamento deipubblici uffici (art. 97 Cost.), trattandosi di principio che, percostante giurisprudenza di questa Corte, è riferibile all’amministrazione della giustizia solo per quanto attiene all’organizzazionee al funzionamento degli uffici giudiziari e non all’attività giurisdizionale in senso stretto (tra le molte, sentenze n. 64 del 2009 e n.117 del 2007, ordinanza n. 408 del 2008).Neppure è ravvisabile, infine, una violazione del diritto di difesa(art. 24 Cost.). La disciplina censurata è posta, infatti, a garanziadell’imputato (tanto che, nel giudizio a quo, i difensori si sono
opposti alla contestazione suppletiva); in ogni caso come giàrilevato da questa Corte il diritto di difesa non potrebbe considerarsi compromesso dal mero ”aggravio” derivante dallo svolgimento di processi separati per reati in continuazione. Ciò nonimpedisce che l’imputato possa esplicare il diritto stesso, conpienezza di garanzie, in tutte le diverse sedi processuali nelle qualivengono esaminati i reati esecutivi del medesimo disegno criminoso (sentenza n. 64 del 2009; nonché, con riguardo ad altraipotesi di connessione di procedimenti, sentenza n. 198 del1972), fino ad ottenerne il riconoscimento in sede di esecuzione,nel caso di separate pronunce (art. 671 cod. proc. pen.).PER QUESTI MOTIVILA CORTE COSTITUZIONALEdichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degliartt. 441 e 441bis del codice di procedura penale, sollevata, inriferimento agli artt. 3, 24, 97, 111 e 112 della Costituzione, dalGiudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Lecce con l’ordinanza indicata in epigrafe.Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzodella Consulta, il 14 aprile 2010.F.to:Ugo DE SIERVO, PresidenteGiuseppe FRIGO, RedattoreGiuseppe DI PAOLA, CancelliereDepositata in Cancelleria il 16 aprile 2010.Il Direttore della CancelleriaF.to: DI PAOLA
CONSULTA: Mediazione familiare, bocciate normeLazio
Guida al Diritto, news online 16.04.2010
Sono incostituzionali le ”Norme per la tutela dei minori e ladiffusione della cultura della mediazione familiare” create dallaRegione Lazio nel dicembre 2008 perché la legge, nel disciplinare le caratteristiche della figura del mediatore familiare (chesi occupa di sostenere la famiglia nei processi di separazione odivorzio) e stabilire i requisiti di accesso all’attività, invade lacompetenza statale. Lo ha deciso con la sentenza n. 131/2010la Corte costituzionale nell’ambito del giudizio di legittimitàsollevato dal presidente del Consiglio dei ministri nei confronti dell’articolo 1 della legge regionale del Lazio 26 del 2008(che indica le norme per la tutela dei minori e la diffusionedella cultura della mediazione familiare), nonché dell’articolo 1della legge regionale del Lazio 27 del 2008 (che ha apportatouna serie di modifiche alla precedente legge) per contrastocon la Costituzione
Corte CostituzionaleSentenza del 15 aprile 2010, n. 131
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Newsletter n. 15 20 aprile 201016
PROFESSIONI ILLEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE: ARTT. 1,COMMA 2, 3, 4 E 6 LR REGIONE LAZIO 24.12.2008, N. 26, ART.1 LR REGIONE LAZIO 24.12.2008, N. 27 E IN CONSEGUENZAARTT. 1, COMMA 1, 2, 5, 7, 8 LR REGIONE LAZIO 24.12.2008
SENTENZA N. 131ANNO 2010
REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici: Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria RitaSAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO,Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,ha pronunciato la seguente
SENTENZAnel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2,3, 4 e 6 della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n.26 (Norme per la tutela dei minori e la diffusione della culturadella mediazione familiare) e dell’art. 1 della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 27 (Modifiche alla deliberazionelegislativa approvata dal Consiglio regionale nella seduta del 10dicembre 2008, concernente ”Norme per la tutela dei minorie la diffusione della cultura della mediazione familiare”), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorsonotificato il 27 febbraio 2009, depositato in cancelleria il 5marzo 2009 ed iscritto al n. 18 del registro ricorsi 2009.Visto l’atto di costituzione della Regione Lazio;udito nell’udienza pubblica del 9 marzo 2010 il Giudice relatore Paolo Maddalena;uditi l’avvocato dello Stato Diana Ranucci per il Presidente delConsiglio dei ministri e l’avvocato Pa. Pa.Pe. per la RegioneLazio.Ritenuto in fatto1. Con ricorso notificato il 27 febbraio 2009 e depositato il 5marzo 2009, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato in via principale, a seguito di delibera governativa in data20 febbraio 2009, questione di legittimità costituzionale degliartt. 1, comma 2, 3, 4 e 6 della legge della Regione Lazio 24dicembre 2008, n. 26 (Norme per la tutela dei minori e ladiffusione della cultura della mediazione familiare), nonchédelle disposizioni con essi inscindibilmente connesse o dipendenti, e dell’art. 1 della legge della Regione Lazio 24 dicembre2008, n. 27 (Modifiche alla deliberazione legislativa approvatadal Consiglio regionale nella seduta del 10 dicembre 2008,concernente ”Norme per la tutela dei minori e la diffusionedella cultura della mediazione familiare”), affermandone il contrasto con l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, nellaparte in cui esso attribuisce allo Stato la competenza legislativariguardo ai principi fondamentali in materia di professioni.
Riferisce il ricorrente che la legge regionale n. 26 del 2008 sipropone di disciplinare, nell’ambito della Regione, le figure delmediatore familiare e del coordinatore per la mediazionefamiliare, introducendo una nuova figura professionale nonaltrimenti prevista da legge dello Stato. L’unico articolo dellacoeva legge regionale n. 27 del 2008 ha modificato l’art. 6 dellalegge n. 26 del 2008, integrandone i commi 1 e 2 ed eliminando il comma 3.Specificamente, l’art. 1, comma 2, della legge regionale n. 26del 2008 reca la definizione generale del ruolo e della figuraprofessionale del mediatore familiare; gli artt. 3 e 4, a lorovolta, prevedono e disciplinano la particolare figura di mediatore familiare costituita dal coordinatore per la mediazionefamiliare (istituito presso ogni ASL), del quale stabiliscono icompiti e le finalità; l’art. 6, infine, istituisce, presso l’assessorato regionale competente in materia di politiche sociali,l’elenco regionale dei mediatori familiari e reca l’analitica disciplina dei requisiti per l’accesso all’elenco stesso.L’art. 1 della legge regionale n. 27 del 2008, nel modificarel’art. 6 della legge regionale n. 26 del 2008, ha esteso anche ailaureati in pedagogia la possibilità di iscriversi al suddettoelenco, mentre ha abrogato l’incompatibilità tra mediazionefamiliare ed esercizio di altre professioni o attività di impresa.Ad avviso della difesa erariale, le disposizioni impugnate sipropongono di individuare la funzione e i compiti, anche disupporto ai tribunali, del mediatore familiare e del coordinatore per la mediazione familiare, nonché, previa istituzione di unapposito elenco regionale, gli specifici titoli di cui il mediatorefamiliare deve essere in possesso per l’iscrizione all’elenco e,di seguito, per l’esercizio della professione.Secondo l’Avvocatura, le norme denunciate sarebbero riconducibili alla materia delle ”professioni”, appartenente alla competenza legislativa concorrente, ai sensi dell’art. 117, terzocomma, Cost.Il ricorrente ricorda che, secondo la giurisprudenza costituzionale, spetta allo Stato la determinazione dei principi fondamentali nelle materie di competenza concorrente previstedall’art. 117, terzo comma, Cost., mentre la legislazione regionale deve svolgersi nel rispetto di quelli risultanti dalla normativa statale già in vigore; ed osserva che, in base all’art. 1,comma 3, del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 30 (Ricognizione deiprincipi fondamentali in materia di professioni, ai sensi dell’art.1 della legge 5 giugno 2003, n. 131), la potestà legislativaregionale si esercita relativamente alle professioni individuatee definite dalla normativa statale.Secondo la difesa erariale, l’art. 155sexies cod. civ., introdotto dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia diseparazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), hasoltanto previsto, ma non istituito, la figura professionale delmediatore familiare, che difatti non é definita né disciplinata inalcuna legge statale.La Regione osserva l’Avvocatura avrebbe riservato a sé ladeterminazione dei titoli professionali e dei correlativi contenuti della professione di mediatore familiare e di coordinatore.Ciò emergerebbe in particolare dall’art. 6 della legge n. 26 del
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2008, che tra l’altro equipara, ai fini della idoneità all’iscrizionenell’elenco di mediatore familiare, titoli di natura profondamente diversa perché conseguibili all’esito di percorsi formativi differenti e non assimilabili tra loro. Secondo la difesa erariale, non potrebbero infatti porsi sullo stesso piano titoli conseguiti a seguito di percorso formativo di livello universitariospecialistico e titoli ottenuti mediante percorso formativo dilivello inferiore, qual è il titolo di formazione regionale conseguito all’esito della frequenza di un corso della durata dicinquecento ore. Tale situazione potrebbe peraltro ingannarel’utenza, inducendola a ritenere di livello universitario un mediatore familiare munito invece del solo diploma regionale,con conseguente violazione del principio di tutela dell’utenza,che costituisce uno dei principi fondamentali tutelati dalle leggistatali in materia di attività professionali.2. Nel giudizio dinanzi alla Corte si è costituita la RegioneLazio, che ha concluso per l’infondatezza della questione.Secondo la difesa della Regione, il ricorso muoverebbe dalfalso presupposto che la legge regionale impugnata abbia introdotto e disciplinato una nuova professione: quella del ”mediatore familiare” e del ”coordinatore per la mediazione familiare”. In realtà, la legge regionale impugnata non avrebbeaffatto né introdotto né disciplinato una ”professione”, maavrebbe individuato una ”figura professionale”, cioè dotata diparticolari competenze, destinata ad essere impiegata nell’ambito di strutture pubbliche ed esercitante funzioni pubblicistiche.Secondo la difesa della Regione, la ratio che ispira l’interoprovvedimento normativo è quella di delineare una ”figuraprofessionale”, non un ”professionista” lavoratore autonomo,operante nell’ambito della mediazione familiare. Tale diversaprospettiva emergerebbe dall’analisi delle singole disposizionie, in particolare, di quelle che stabiliscono i compiti e le finalitàdel coordinatore per la mediazione familiare: compiti e finalitàdi natura essenzialmente pubblicistica, che, come tali, nonsono e non possono essere attuati o perseguiti da un professionista lavoratore autonomo.In particolare, l’art. 1, comma 2, della legge regionale n. 26 del2008 evidenzierebbe l’aspetto pubblicistico già nella parte incui prevede le modalità di accesso all’opera di tale soggetto. Siprescrive infatti che il mediatore familiare possa essere ”sollecitato” dalle parti a svolgere la sua opera. Tale locuzioneverbale afferma la Regione sarebbe indice del fatto che lalegge prevede, non già il conferimento di un mandato professionale nell’ambito di un contratto di opera professionale,bensì che tale soggetto, il quale opera all’interno di una struttura sanitaria (come chiarito dal successivo art. 3), possaessere richiesto dalle parti di intervenire per ”adoperarsi” nelsenso indicato dalla norma. La stessa disposizione prevede chel’intervento del mediatore professionale, oltre che sollecitatodalle parti, possa avvenire su invito del giudice o dei servizisociali comunali o dei consultori o del Garante dell’infanzia edell’adolescenza.Anche l’art. 3 della stessa legge regionale, nel disciplinare lafigura del coordinatore per la mediazione familiare, prevede
rebbe in realtà l’attribuzione a tale figura professionale di unvero e proprio ufficio pubblico.Le finalità che il mediatore familiare è chiamato a svolgere inbase all’art. 4 della legge regionale sarebbero ben lontanedall’esercizio di una professione, ai sensi dell’art. 117 Cost.Quanto all’art. 6 della legge regionale, è bensì vero osserva laRegione che esso ha previsto un elenco regionale dei mediatori familiari, ma tale elenco non può considerarsi istitutivo diuna professione operante a livello regionale, perché mancherebbero le caratteristiche proprie di un’attività professionaledi lavoro autonomo. Secondo la difesa della Regione Lazio, lalegge impugnata, pur avendo assegnato al mediatore familiarefunzioni (compiti e finalità) esclusivamente pubblicistiche, epur avendo previsto la sua collocazione presso ogni aziendaunità sanitaria locale, non ha tuttavia definito il tipo di rapporto che lega tale soggetto all’ente. La legge non chiarisce infattise il mediatore sia legato alle ASL da un rapporto di pubblicoimpiego ovvero se egli abbia un rapporto basato, ad esempio,su un contratto di collaborazione coordinata e continuativa.Queste modalità attuati ve precisa la Regione sarannochiarite da regolamenti attuativi. Intanto, l’elenco di cui all’art.6 assolve essenzialmente la funzione di individuare una lista disoggetti, dotati di particolari professionalità, dalla quale poterattingere per il loro inserimento nell’ambito delle ASL o eventualmente di altri enti regionali. Un chiaro sintomo di ciòsarebbe dato dal fatto che l’opera di tale figura professionale èa carico delle finanze della Regione, come si desume dall’art. 8,che prescrive che le risorse necessarie all’applicazione dellapresente legge sono individuate nei limiti delle disponibilitàfinanziarie di cui al fondo per l’attuazione del piano socioassistenziale regionale.Dopo aver ricordato i caratteri essenziali delle professionipropriamente dette, alle quali si riferisce l’art. 117, terzocomma, Cost. ed alla cui base vi è un contratto fra il professionista ed il cliente, la difesa della Regione ribadisce che l’attivitàdel mediatore familiare non trova la sua fonte in un contrattodi opera intellettuale, bensì in un sollecito da parte degliinteressati (cioè in una richiesta di intervento, quale può rivolgersi solo ad una pubblica autorità) ovvero in un invito delgiudice o di enti pubblici. Si è, in ogni caso, ben lontani dalconferimento di un mandato professionale di tipo privatistico.Inoltre, dal complesso delle norme regionali emergerebbe cheil mediatore familiare o il coordinatore per la mediazionefamiliare è, in realtà, un ufficio, nel quale i singoli addettisvolgono la loro opera non in quanto scelti dalle parti o dalgiudice o dalle altre autorità, ma in quanto inseriti in un’organizzazione gerarchicamente ordinata, nella quale non assumerilievo esterno l’intuitus personae del singolo operatore. Nelcaso della legge in esame, si riscontrerebbe, non l’autonomiadel professionista, ma, all’opposto, un vincolo ad agire secondo i compiti e le finalità, di cui agli artt. 3 e 4. Il mediatorefamiliare avrà, al più, un ambito di discrezionalità, propriadell’agire amministrativo, nell’ambito di obiettivi rigidamentepredeterminati. Tutta l’attività che deve svolgere il mediatorefamiliare è, infine, a beneficio della collettività e, solo indiretta
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mente, si riverbera sugli utenti del servizio.Da ultimo, la Regione sottolinea che anche altre Regioni hanno emanato regolamenti per disciplinare la professione dimediatore familiare.3. In prossimità dell’udienza l’Avvocatura generale dello Statoha depositato una memoria illustrativa.
Considerato in diritto1. Il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2, 3, 4 e 6della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 26 (Norme per la tutela dei minori e la diffusione della cultura dellamediazione familiare), nonché delle disposizioni con essi inscindibilmente connesse o dipendenti, e dell’art. 1 della leggedella Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 27 (Modifiche alladeliberazione legislativa approvata dal Consiglio regionale nellaseduta del 10 dicembre 2008, concernente ”Norme per latutela dei minori e la diffusione della cultura della mediazionefamiliare”), denunciandone il contrasto con l’art. 117, terzocomma, della Costituzione.Ad avviso del ricorrente, le citate disposizioni le quali: recano la definizione generale del ruolo e della figura professionaledel mediatore familiare, quale professionista deputato a svolgere, anche su invito del giudice, un ruolo di compiuta mediazione nei procedimenti di separazione della famiglia e dellacoppia nell’interesse dei figli; prevedono e disciplinano la particolare figura di mediatore familiare costituita dal coordinatoreper la mediazione familiare (istituito presso ogni ASL), delquale stabiliscono i compiti e le finalità, diretti da un lato arealizzare progetti di politiche efficaci a tutela della famiglia edall’altro a costituire un punto di riferimento per i tribunali e imagistrati che si occupano di separazioni che coinvolgono figliminori; istituiscono, presso l’assessorato regionale competente in materia di politiche sociali, l’elenco regionale dei mediatori familiari e recano la analitica disciplina dei requisiti perl’accesso all’elenco stesso si porrebbero in contrasto con ilprincipio fondamentale in materia di regolamento delle professioni, in base al quale spetta esclusivamente allo Stato l’individuazione delle figure professionali con i relativi profili e i titoliabilitanti.2. La questione è fondata.2.1. Con la legge n. 26 del 2008 la Regione Lazio pone unaregolamentazione complessiva della mediazione familiare, individuata secondo la definizione che ne dà l’art. 1 come il”percorso che sostiene e facilita la riorganizzazione della relazione genitoriale nell’ambito di un procedimento di separazione della famiglia e della coppia alla quale può conseguire unamodifica delle relazioni personali tra le parti”, e si proponecome obiettivi (art. 2) la tutela della ”famiglia e della coppiacon prole come principale nucleo di socializzazione”, il sostegno alla genitorialità, il mantenimento, in caso di separazione,dell’affidamento dei figli ”ad entrambi i genitori, mediantel’assunzione di accordi liberamente sottoscritti dalle parti chetengano conto della necessità di tutelare l’interesse morale emateriale dei figli”.
In questo quadro, con le norme impugnate (della stessa leggen. 26 del 2008 e della coeva legge n. 27 del 2008, recante unarticolo unico a modifica dell’art. 6 della legge n. 26 del 2008)la Regione: (a) individua nel mediatore familiare colui che,”sollecitato dalle parti o su invito del giudice o dei servizisociali comunali o dei consultori o del Garante dell’infanzia edell’adolescenza, si adopera, nella garanzia della riservatezza ein autonomia dall’ambito giudiziario, affinché i genitori elaborino personalmente un programma di separazione soddisfacente per loro e per i figli, nel quale siano specificati i termini dellacura, dell’educazione e della responsabilità verso i figli minori”;(b) istituisce, presso ogni azienda sanitaria locale, ”la figura delcoordinatore per la mediazione familiare avente la qualifica dimediatore familiare”, con il compito di ”acquisire dati relativialla condizione familiare attraverso indagini, studi e ricerchepresso gli enti locali, i tribunali, i servizi sociali, le associazionidi volontariato, le forze dell’ordine, le scuole e i consultori”, dicoadiuvare la Regione ”nella progettazione di politiche efficacidi tutela della vita della famiglia e della coppia e di sostegno allagenitorialità responsabile”, di ”costituire un punto di riferimento prioritario per i tribunali”, di avviare un dialogo contutti coloro, compresi i magistrati, che ”si occupano di situazioni di separazione ”disfunzionali” che vedano il coinvolgimento di figli minori”; (c) stabilisce le finalità del coordinatoreper la mediazione familiare (”rispondere alle esigenze di ascolto e di aiuto che provengono dalle famiglie e dalle coppie”;offrire un punto di riferimento ”per la risoluzione dei conflittirelazionali, con particolare riferimento alle fasi della separazione, del divorzio e della cessazione della convivenza”; ”raccordarsi con le istituzioni presenti sul territorio”; ”garantire unsupporto alla progettazione di interventi e servizi sul territorio”; ”identificare le aree a rischio”; ”attuare azioni positiveper la promozione della pariteticità”); (d) istituisce, ”pressol’assessorato regionale competente in materia di politiche sociali, l’elenco regionale dei mediatori professionali”, stabilendoche ad esso ”possono iscriversi coloro che sono in possessodi laurea specialistica in discipline pedagogiche psicologiche,sociali o giuridiche nonché di idoneo titolo universitario, qualemaster, specializzazione o perfezionamento, di durata biennale, di mediatore familiare oppure di specializzazione professionale conseguita a seguito della partecipazione ad un corso,riconosciuto dalla Regione Lazio, della durata minima di cinquecento ore”; ”coloro che, in possesso della laurea specialistica in discipline pedagogiche psicologiche, sociali o giuridichealla data di entrata in vigore della ]...] legge, abbiano svolto peralmeno due anni, nel quinquennio antecedente l’entrata invigore della legge, attività di mediazione familiare da comprovare sulla base di idonea documentazione”.2.2. L’impianto complessivo, lo scopo ed il contenuto precipuo delle disposizioni impugnate rendono palese che l’oggettodi esse deve essere ricondotto propriamente alla materiaconcorrente delle ”professioni” (art. 117, terzo comma,Cost.).Nello scrutinio di disposizioni legislative regionali aventi adoggetto la regolamentazione di attività di tipo professionale,
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questa Corte ha ripetutamente affermato che ”la potestàlegislativa regionale nella materia concorrente delle ”professioni” deve rispettare il principio secondo cui l’individuazionedelle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, èriservata, per il suo carattere necessariamente unitario, alloStato, rientrando nella competenza delle Regioni la disciplinadi quegli aspetti che presentano uno specifico collegamentocon la realtà regionale. Tale principio, al di là della particolareattuazione ad opera di singoli precetti normativi, si configurainfatti quale limite di ordine generale, invalicabile dalla leggeregionale” (sentenze n. 153 e n. 424 del 2006, n. 57 del 2007,n. 138 e n. 328 del 2009). Ha, altresì, precisato che la ”istituzione di un registro professionale e la previsione delle condizioni per la iscrizione in esso hanno già, di per sé, una funzioneindividuatrice della professione, preclusa alla competenza regionale” (sentenze n. 93 del 2008, n. 138 e n. 328 del 2009).Ora, la legislazione statale, con l’art. 155sexies del codicecivile, aggiunto dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54, ha soltantoaccennato alla attività di mediazione familiare, senza prevederealcuna specifica professione, stabilendo che ”qualora ne ravvisil’opportunità, il giudice, sentite le parti e ottenuto il loroconsenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti di cuiall’art. 155 per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti,tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli”, ma, a tutt’oggi, non ha introdotto la figura professionale del mediatore familiare, né stabilito i requisiti perl’esercizio dell’attività.Le disposizioni denunciate danno una definizione della mediazione familiare, disciplinano le caratteristiche del mediatorefamiliare e stabiliscono gli specifici requisiti per l’eserciziodell’attività, con la previsione di un apposito elenco e dellecondizioni per la iscrizione in esso. Ma, così facendo, invadonouna competenza sicuramente statale.Non pare dubbio, infatti, che, attraverso la predetta disciplina,siano stati individuati i titoli abilitanti per lo svolgimento inambito regionale della professione di mediatore familiare, intal modo travalicando, secondo quanto dianzi precisato, gliambiti di competenza legislativa regionale in materia di professioni.Non rileva la circostanza sottolineata dalla difesa della resistente che il mediatore familiare non sarebbe un professionista autonomo, ma una figura professionale, legata alla Regione,alla quale sarebbero affidati compiti e funzioni di rilievo pubblicistico.Per un verso, infatti, la competenza dello Stato ad individuare iprofili professionali ed i requisiti necessari per il relativo esercizio spetta anche quando l’attività professionale sia destinataa svolgersi in forma di lavoro dipendente (artt. 1, comma 3, e2, comma 3, del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 30, recante ”Ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni, aisensi dell’art. 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131”); per l’altro,”l’individuazione di una specifica area caratterizzante la ”professione” è ininfluente ai fini della regolamentazione dellecompetenze derivante dall’applicazione nella materia in esame
del terzo comma dell’art. 117 Cost.” (sentenza n. 40 del 2006,nonché, tra le altre, sentenze n. 355 e n. 424 del 2005). Su talipremesse,questa Corte (sentenza n. 153 del 2006) ha già dichiaratol’illegittimità costituzionale di una normativa regionale chedisciplinava figure professionali alle quali la Regione facevaricorso per il funzionamento del sistema integrato di interventi e servizi sociali.3. L’intera legge regionale n. 26 del 2008 è inscindibilmenteconnessa, per il suo contenuto, con le disposizioni specificamente censurate dal ricorrente e pertanto la declaratoria diillegittimità costituzionale deve essere estesa, in via consequenziale, anche agli artt. 1, comma 1, 2, 5, 7 e 8, non oggettodi impugnazione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE1) dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2,3, 4 e 6 della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n.26 (Norme per la tutela dei minori e la diffusione della culturadella mediazione familiare);2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della leggedella Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 27 (Modifiche alladeliberazione legislativa approvata dal Consiglio regionale nellaseduta del 10 dicembre 2008, concernente ”Norme per latutela dei minori e la diffusione della cultura della mediazionefamiliare”);3) dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n.87, l’illegittimità costituzionale in via consequenziale degli artt.1, comma 1, 2, 5, 7 e 8 della legge della Regione Lazio 24dicembre 2008, n. 26.Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,Palazzo della Consulta, il 12 aprile 2010.F.to:Francesco AMIRANTE, PresidentePaolo MADDALENA, RedattoreGiuseppe DI PAOLA, CancelliereDepositata in Cancelleria il 15 aprile 2010.Il Direttore della CancelleriaF.to: DI PAOLA
CASSAZIONE CIVILE INTERROGATORIO
Il Sole24 Ore NORME E TRIBUTI 16.04.2010 pag: 39
Le risposte evasive sono prova dei fattiG.Ne.
La risposta reticente all’interrogatorio in sede civile ha comeconseguenza quella di ritenere ammessi i fatti oggetto di contestazione. Lo sostiene la Corte di cassazione con la sentenzan. 7783 depositata il 31 marzo, che ha di fatto equiparatol’assenza di una risposta alla domanda dell’autorità giudiziariaalle dichiarazioni evasive.
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La Corte ricorda innanzitutto come l’articolo 232 del Codicedi procedura civile stabilisca che le ipotesi collegabili al «se laparte non si presenta o rifiuta di rispondere senza giustificatomotivo» rappresentano i presupposti perché il giudice, esaminati gli altri elementi probatori, possa ritenere, sulla base diuna valutazione discrezionale, «come ammessi i fatti dedottinell’interrogatorio». È evidente, pertanto, nella lettura dellaCorte, che il legislatore, con questa formulazione, ha volutoequiparare l’omessa risposta alle condotte comunque reticenti.Nel caso approdato al l’esame della Cassazione (che riguardava una richiesta di risarcimento danni nell’ambito di un contratto di appalto), la persona soggetta a interrogatorio avevareso una deposizione caratterizzata da numerose dichiarazionidel tipo «non ricordo», «non so», «forse».Dichiarazioni che, per la Corte, devono essere allineate a tuttigli effetti alle mancate risposte. Con la conseguenza che i fattisui quali la persona era stata interrogata dal giudice dovevanoessere considerati ormai come pienamente provati dopo unesame da parte della stessa autorità giudiziaria.G. Ne.© RIPRODUZIONE RISERVATA
Corte di Cassazione civ Sezione 3 CivileSentenza del 31 marzo 2010, n. 7783
ISTRUZIONE PROBATORIA INTERROGATORIO FORMALE DICHIARAZIONI EVASIVE EQUIPARABILI ALLA MANCATA RISPOSTA
REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONESEZIONE TERZA CIVILEComposta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:Dott. TRIFONE Francesco PresidenteDott. AMATUCCI Alfonso ConsigliereDott. URBAN Giancarlo ConsigliereDott. SPAGNA MUSSO Bruno rel. ConsigliereDott. SPIRITO Angelo Consigliereha pronunciato la seguente:
SENTENZAsul ricorso proposto da:SU. SRL (OMESSO) in persona del suo liquidatore e legalerappresentante protempore prof. SO. AL. , elettivamentedomiciliata in ROMA, VIA SESTO RUFO 23, presso lo studiodell’avvocato MOSCARINI LUCIO VALERIO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato GUASTADISEGNIANTONINO giusta delega a margine del ricorso; ricorrente controFI. AU. PA. SPA (OMESSO) (gia’ FI. AU. PA. S.P.A.) in persona
del suo procuratore speciale Dott. LA. RI. , elettivamentedomiciliata in ROMA, VIA ZANARDELLI 20, presso lo studiodell’avvocato LAIS FABIO MASSIMO, che la rappresenta edifende unitamente all’avvocato SPERANZA SERGIO giustadelega a margine del controricorso; controricorrente avverso la sentenza n. 761/2004 della CORTE D’APPELLO diTORINO, SEZIONE 3 CIVILE, emessa il 26/3/2004, depositatail 11/05/2004, R.G.N. 1718/2000;udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del21/01/2010 dal Consigliere Dott. BRUNO SPAGNA MUSSO;udito l’Avvocato LUCIO VALERIO MOSCARINI;udito l’Avvocato FABIO MASSIMO LAIS;udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore GeneraleDott. SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto delricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSOCon atto di citazione notificato in data 7.1.1993 la Su. s.r.l.conveniva la Fi. Au. s.p.a. innanzi al Tribunale di Torino persentirla condannare al pagamento in suo favore della sommalire 1.491.136.115, anche a titolo di risarcimento danni conrivalutazione monetaria ad interessi legali.A sostegno della domanda la Su. esponeva: di avere diritto alpagamento di lire 301.889.920 in relazione alla minor quantita’di ”particolari” consegnati dalla Fi. rispetto alla previsionecontenuta nel contratto di appalto (Alfa Lancia di (OMESSO))e di lire 27.966.560 quanto ai ”particolari” non ricevuti inlavorazione nel periodo dicembre 1990 aprile 1992 (appaltoSe. Ca. ); che la Fi. si era resa inadempiente all’obbligazioneassunta di invitare la Su. alle successive gare, con danno di lire1.014.479.631; di aver inoltre subito un danno di lire86.800.000 per lo scoppio di alcune bilancelle Fi. .Si costituiva la convenuta Fi. , eccependo il proprio difetto dilegittimazione passiva in ordine al pagamento di lire27.966.560 (appalto Se. Ca. ).Durante la trattazione della controversia la Su. rinunciava alladomanda relativa al danno di lire 86.800.000 (risarcitole dell’assicuratore) ed insisteva sull’ammissione dell’interrogatorioformale del legale rappresentante Fi. . In seguito all’entrata invigore della Legge n. 276 del 1997, la causa veniva trasmessaalla Sezione Stralcio.Con sentenza in data 10/04/2000, il Tribunale di Torino respingeva tutte le domande attoree.A seguito dell’appello della Su. (che, previa ammissione delleistanze istruttorie di interrogatorio formale del legale rappresentante Fi. e, in subordine, del giuramento decisorio, chiedeva condannarsi la Fi. Au. al pagamento di lire 1.404.336.115,oltre interesse e rivalutazione), costituitasi la Fi. Au. Pa. s.p.a.(gia’ Fi. Au. ), esperito interrogatorio formale del legale rappresentante Fi. ed espletata consulenza di ufficio, la Corte diAppello di Torino, con la sentenza in esame n. 761 depositatain data 11/5/2004, rigettava il gravame, ritenendo, tra l’altro,formatosi il giudicato sull’accertata circostanza della stipulazione di un contratto di transazione (accertato nella lettera
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31/5/1990 della Su. accettata dalla Fi. ).Ricorre per cassazione la Su. con quattro motivi; resiste concontroricorso la Fi. Pa. s.p.a.. Entrambe le parti hanno depositato memoria e inoltre il difensore della ricorrente Su. hadepositato all’odierna udienza ”note di replica” alle conclusioni del P.G..
MOTIVI DELLA DECISIONECon il primo motivo si deduce violazione dell’articolo 232c.p.c. e relativo difetto di motivazione in quanto la Corte dimerito, ”dopo aver individuato in modo corretto la natura delcontratto di transazione, ha reso un’interpretazione del tuttoerrata delle sue clausole, non avvedendosi delle moltepliciviolazioni dell’accordo in cui e’ incorsa la Fi. Au. ”. Si aggiungeche ”in particolare, la sentenza impugnata viola in modo palese l’articolo 232 c.p.c., nella parte in cui afferma che la deducente non avrebbe provato l’effettivo svolgimento delle numerose gare d’appalto svolte dalla Fi. nel periodo giugno 1990aprile 1992 alle quali non e’ stata inviata a partecipare.”.Con il secondo motivo si deduce violazione dell’articolo 210c.p.c. e relativo difetto di motivazione, in ordine alla relativaistanza istruttoria proposta dalla Su. .Con il terzo motivo si deduce violazione degli articoli 1362,1363, 1366, 1369 e 1371 c.c. e relativo difetto di motivazionein ordine all’interpretazione dell’accordo in data (OMESSO).Con il quarto motivo si deduce violazione degli articoli 1362,1371 c.c., relativo difetto di motivazione, in ordine ”all’altropalese profilo di illegittimita’ che inficia la sentenza impugnatariguarda la decisione resa sull’ulteriore domanda risarcitoria,con la quale la Su. ha denunciato il reiterato inadempimentoda parte della Fi. del contratto Alfa Lancia, avente ad oggettola sverniciatura di parti di automobili.Fondato e’ il primo motivo di ricorso con conseguente assorbimento delle censure di cui agli altri motivi.Censurabile e’ la decisione in esame la’ dove, in relazione aldedotto inadempimento di Fi. Au. nei confronti dell’odiernaricorrente, per non aver consentito a quest’ultima, contrariamente agli obblighi assunti, in sede di accordo transattivo, dipartecipare a gare di appalto ”considerandole affidate”, afferma che ”nonostante le considerazioni svolte in proposito daparte appellante (che ruotano tutte attorno alla scarsa attendibilita’ delle dichiarazioni di ignoranza delle circostanze dedotte a prova per interpello), appare assorbente il rilievo chenon e’ applicabile alla fattispecie il disposto di cui all’articolo232 c.p.c., che presuppone la non presentazione della parteall’udienza fissata per l’interrogatorio formale o il rifiuto dirispondervi senza giustificato motivo e non gia’ una rispostaconsiderata evasiva o non attendibile. Non e’ quindi applicabile alla fattispecie il disposto dell’articolo 232 c.p.c. e conseguentemente l’istituto ivi contemplato, tanto piu’ che sonocarenti gli ulteriori elementi di prova nel cui complessivocontesto e alla cui luce la legge impone di valutare la mancatarisposta, non assimilabile di per se’ ad una mera finta confessione”.Tale statuizione e’ fortemente censurabile.
Innanzi tutto l’articolo 232 c.p.c., in questione statuisce che leipotesi collegabili al ”se la parte non si presenta o rifiuta dirispondere senza giustificato motivo ...”, costituiscono i presupposti perche’ il giudice, valutati gli altri elementi probatori,possa ritenere, sulla base del suo potere discrezionale, ”comeammessi i fatti dedotti nell’interrogatorio”; e’ evidente, quindi,che il legislatore, con tale testuale formulazione, ha intesoequiparare, a detti fini probatori, sia l’omessa risposta sia icomportamenti comunque reticenti.Nella vicenda in esame, la condotta in sede di interrogatorioformale del procuratore speciale dell’odierna resistente (caratterizzata di dichiarazioni tipo ”non ricordo”, come si evincedall’impugnata decisione) deve ritenersi senz’altro equiparabile, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di merito,alla mancata risposta, con conseguente applicazione di talenorma al caso di specie e connesso esercizio del poterediscrezionale del giudice del merito (e quindi anche dellaCorte territoriale) in ordine alla rilevanza probatoria di dettocomportamento; ha errato, dunque, la Corte d’Appello, sianel non tener conto di tale disposto normativo, sia nel nonvalutarlo compiutamente sul piano probatorio (cosi’ comeindicato nell’articolo 232 c.p.c.).Inoltre, insufficiente e generica e’ la motivazione nel punto incui, senza ulteriori specificazioni, si limita ad affermare chel’inapplicabilita’ dell’articolo 232 c.p.c., deriva anche dalla carenza di ulteriori elementi probatori.Pertanto, a seguito della cassazione sul punto della sentenzaimpugnata ed al conseguente rinvio, deve enunciarsi il seguente principio di diritto: il disposto dell’articolo 232 c.p.c., nellaparte in cui statuisce che ”il collegio, valutato ogni altro elemento di prova, puo’ ritenere come ammessi i fatti dedottinell’interrogatorio” e’ applicabile anche in caso di dichiarazioniche, per il loro tenore evasivo o non attendibile (come nelcaso di specie), risultino equiparabili alla ”mancata risposta”.
P.Q.M.La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara assorbiti gli altri; cassa l’impugnata decisione in relazione al motivoaccolto e rinvia, anche per le spese della presente fase, allaCorte di Appello di Torino in diversa composizione.
CASSAZIONE CIVILE RISARCIMENTO
Risarcito il danno ”tanatologico” ai parenti di unavittima di un incidente
La Corte di Cassazione, con la sentenza dell’8 aprile 2010, n.8360, ha riconosciuto il diritto dei parenti della vittima di unincidente al risarcimento del c.d. danno ”tanatologico”, cioè lasofferenza patita a causa delle lesioni alle quali sia seguita, dopobreve tempo, la morte.I Giudici di legittimità, richiamando le famose sentenze delleSezioni Unite del 2008 in materia di danno non partimoniale(nn. 26972 e 26973), hanno precisato che anche l’agonia patita
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nei momenti antecedenti la morte causata da altre persone oda invidenti deve essere qualificata come un danno morale chedeve essere risarcito agli eredi.Gli Ermellini hanno enunciato questo principio, ribaltando ladecisione dei giudici di merito relativa alla vicenda di un bracciante agricolo che era rimasto fulminato su un albero a causadei cavi dell’energia elettrica che attraversavano i rami.L’uomo aveva sofferto, prima di morire, per quasi mezz’ora,ma la Corte di Appello di Salerno valutando che la morte erastata immediata aveva riconosciuto a carico dell’Enel e delproprietario terriero il risarcimento agli eredi dei soli dannipatrimoniali.
Corte di Cassazione civ Sezione 3 CivileSentenza del 8 aprile 2010, n. 8360
IINCIDENTE MORTALE RISARCIMENTO DEL DANNO TANATOLOGICO AI PARENTI DELLA VITTIMA
REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONETERZA SEZIONE CIVILEComposta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:Dott. FRANCESCO TRIFONE Presidente Dott. CAMILLO FILADORO Consigliere Dott. ADELAIDE AMENDOLA Consigliere Dott. GIACOMO TRAVAGLINO ConsigliereDott. RAFFAELLA LANZILLO Rel. Consigliere ha pronunciato la seguenteSENTENZAsul ricorso 140552006 proposto da:Ma. Po. Ru. (...), Ma. Fi. To. (...), An. To. (...), elettivamentedomiciliate in Ro., Via Pu. (...), presso lo studio dell’avvocatoGi. Fe., rappresentate e difese dall’avvocato An. D’A. giustadelega a margine del ricorso; ricorrenti controENEL DISTRIBUZIONE Ca. S.P.A. succeduta a titolo particolare alla S.p.A. ENEL (...) in persona del suo procuratore elegale rappresentante pro tempore Ing. Gi. Fi., elettivamentedomiciliata in Ro., Via Ci. (...), presso lo studio dell’avvocato El.Ra., rappresentato e difeso dall’avvocato Gi. Co. giusta delegain calce al controricorso; controricorrenti nonché controAl. Se., Lu. Pe., Vi. Pe.; intimati avverso la sentenza n. 184/2005 della Corte d’Appello diSALERNO, emessa il 16/9/2004, depositata il 15/03/2005,R.G.N. 1102/2002;udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del22/02/2010 dal Consigliere Dott. RAFFAELLA LANZILLO;
udito l’Avvocato Gi. Fe. per delega dell’Avvocato An. D’A.;udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore GeneraleDott. CARLO DESTRO che ha concluso per il rigetto delricorso.Svolgimento del processoIl 17.9.1990 è deceduto in An. l’agricoltore Gi. To., a causa diuna scarica elettrica, che lo ha colpito mentre era intento allavoro su di un albero di noce. Le fronde dell’albero, situatosotto la linea elettrica, erano cresciute, giungendo a toccare ifili dell’alta tensione.La morte non è stata immediata, ma è sopraggiunta dopo circamezz’ora, mentre l’infortunato si trovava a cavalcioni su di unramo, impossibilitato a muoversi per effetto dell’elettrolocuzione; benché chiedesse aiuto, nessuno era potuto intervenire.Nel giudizio penale seguito all’infortunio sono stati ritenutiresponsabili il proprietario del terreno, Ga. Pe., e l’impiegatodell’ENEL, responsabile dell’area sulla quale passa la linea elettrica, Al. Se.La sentenza penale di condanna, emessa dal Pretore di NoceraInferiore e passata in giudicato, a seguito del rigetto dell’appello e del ricorso per Cassazione, ha posto a carico dei responsabili il pagamento di una provvisionale di Lire 80 milioni, inrisarcimento dei danni patrimoniali, biologici e morali.Ma. Po. Ru., Ma. Fi. e An. To., rispettivamente vedova e figlie diGi. To., hanno proposto al Tribunale civile di Nocera Inferioredomanda di risarcimento dei danni contro Ga. Pe., Al. Se. e las.p.a. ENEL.L’ENEL e Al. Se. si sono costituiti, resistendo alle domande,mentre Ga. Pe. è rimasto contumace.Con sentenza n. 1098/2002 II Tribunale civile di Nocera Inferiore ha accolto le domande attrici, condannando i convenuti,in via fra loro solidale, a pagare Euro 60.456,45 complessivi, atitolo di risarcimento dei danni patrimoniali (già detratto datale somma l’importo della rendita costituita dall’INAIL); Euro100.000,00 complessivi in risarcimento dei danni non patrimoniali (di cui il 50% per la moglie ed il 25% a testa per le duefiglie), ed Euro 90.000,00 in risarcimento del danno biologico;oltre alla rivalutazione monetaria, agli interessi ed alle speseprocessuali.Proposto appello principale dalla s.p.a. Enel Distribuzione Ca.e incidentale da Vi. e Lu. Pe., quali eredi di Ga. Pe., si sonocostituite le danneggiate, le quali hanno eccepito il difetto dilegittimazione attiva della s.p.a. Enel Distribuzione, essendostata citata in primo grado l’Enel s.p.a, chiedendo comunque ilrigetto dell’appello.Si è costituito anche Al. Se., facendo propri i motivi di impugnazione dell’Enel.Gli eredi di Ga. Pe. hanno chiesto, con l’appello incidentale, diessere assolti da ogni domanda, per avere rinunciato all’eredità del padre.Con sentenza 16 settembre 2004 15 marzo 2005 n. 184 laCorte di appello di Salerno, in parziale riforma della sentenzaimpugnata, ha ridotto la somma liquidata in risarcimento deidanni patrimoniali ed ha negato il risarcimento del danno
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biologico iure haereditario, per il fatto che la morte era statapressoché immediata.Con atto notificato il 28 aprile 2006 le Ru.To. propongonosette motivi di ricorso per cassazione, illustrati da memoria.Resiste l’Enel Distribuzione con controricorso.
Motivi della decisione1. Con il primo e il secondo motivo le ricorrenti denuncianoviolazione degli artt. 99, 100 e 101 cod. proc. civ., per nonavere la Corte di appello rilevato l’inammissibilità dell’appelloper difetto di legittimazione attiva e per carenza di interessead agire dell’appellante, s.p.a. Enel Distribuzione Ca., essendostata la causa promossa in primo grado contro la s.p.a. Enel ela sentenza del Tribunale pronunciata nei confronti di quest’ultima società.2. I motivi non sono fondati.Vero è che l’atto di citazione in primo grado è stato notificatoalla s.p.a. Enel, con sede in Ro.Già in quella sede, tuttavia, la convenuta si è costituita comes.p.a. Enel Distribuzione Ca., Centro direzionale di Na. To.(...), settore quest’ultimo che non figurava come società separata ed autonoma rispetto all’Enel s.p.a., ma come un semplicecompartimento della stessa.Nei confronti dell’ente così costituito, in relazione al quale leodierne ricorrenti non hanno sollevato eccezioni, è stataemessa la sentenza di primo gradoL’atto di appello è stato proposto ancora dalla s.p.a. EnelDistribuzione Ca., Centro Direzionale di Na., Is. (anziché To.)(...), che parimenti figurava come mero settore organizzativodell’ente e non come società autonoma e distinta dalla s.p.a.Enel.E’ da escludere, quindi, che l’atto di appello sia stato propostoda un soggetto diverso dalla società che ha partecipato algiudizio di primo grado. Si trattava solo di stabilire se l’Enel sifosse ritualmente costituita in giudizio tramite il suddettocompartimento, ed in particolare se la procura alle liti fossestata conferita (per entrambi i gradi del giudizio, non solo perl’appello), da soggetto titolare del potere di rappresentarla.Su questi aspetti le ricorrenti non hanno dedotto e dimostrato in questa sede di avere sollevato alcuna eccezione, neigiudizi di merito ed in particolare in appello, nel quale ultimohanno solo (ed erroneamente) eccepito che l’appello era statoproposto da società diversa da quella che era stata condannatain primo grado, mentre all’epoca, come si è detto, il centrodirezionale della Campania non costituiva ancora società autonoma.In ogni caso, rileva la resistente nel controricorso che laprocura conferita dal Direttore della Distribuzione Ca. è daritenere valida in virtù dell’art. 14 dello statuto dell’Enel, approvato con D.P.R. 21 dicembre 1965 n. 1720, che attribuisceai direttori di compartimento, nell’ambito della circoscrizioneterritoriale e per gli affari di loro competenza, la rappresentanza processuale attiva e passiva dell’ente, anche per quantoconcerne la proposizione delle impugnazioni. (Cfr. anche, sultema, Cass. Civ. Sez. I, 19 novembre 1993 n. 11441; Cass. Civ.
20 dicembre 2007 n. 26977).Solo nel presente giudizio di cassazione si è costituita unas.p.a. Enel Distribuzione, come società autonoma e distintadalla s.p.a. Enel, costituita ai sensi dell’art. 13, 2° comma, d.lgs.16 marzo 1999 n. 79, sicché il controricorso è stato effettivamente depositato da un soggetto diverso da quello che hapartecipato ai giudizi di merito.Nella procura alle liti in calce al controricorso, tuttavia, lasocietà specifica che l’art. 13 cit. ha disposto la sua successione a titolo particolare in tutti i beni e i rapporti giuridici giàfacenti capo all’Enel, relativi all’attività di distribuzione e vendita dell’energia elettrica nella Regione Ca. (analogamente aquanto è stato disposto per gli altri compartimenti di distribuzione).La società resistente è quindi legittimata a contraddire, ai sensidell’art. 111, ult. comma, cod. proc. civ.3. Parimenti infondato è il terzo motivo, con cui il ricorrentelamenta violazione dell’art. 75 cod. proc. civ., per il fatto che ilsoggetto indicato come rappresentante dell’Enel Distribuzione in appello, ing. Vi. Fr., è diverso da quello indicato in primogrado, ing. Gi. Io., pur avendo l’Enel richiamato nell’atto diappello la procura conferita al difensore con la comparsa dicostituzione in primo grado.Ed invero, la rappresentanza processuale dell’ente ed il poteredi conferire la procura alle liti sono inerenti alla carica didirettore compartimentale, ed è sufficiente che tale carica siarivestita nel momento in cui la procura viene conferita.Se nel giudizio di primo grado i poteri di difesa sono statiattribuiti anche per il giudizio di appello dal soggetto che inquel momento era legittimato a concederli, l’eventuale, successiva cessazione dalla carica rimane irrilevante.4. Con il quarto motivo le ricorrenti lamentano la violazionedegli art. 2909 cod. civ., 324 cod. proc. civ., 538 e 539 cod.proc. pen., poiché la sentenza impugnata negando loro ildiritto al risarcimento del danno biologico a titolo ereditario ha disatteso una pronuncia già coperta da giudicato, ed inparticolare la sentenza del Pretore penale di Nocera Inferiore,la quale ha attribuito alle parti civili una somma a titolo diprovvisionale, menzionando espressamente il diritto delledanneggiate al risarcimento del danno biologico e rigettandole eccezioni di irrisarcibilità di tale danno, con specifica motivazione.Richiamano la giurisprudenza di questa Corte secondo cui, seil giudice penale non si sia limitato a statuire sulla potenzialitàdannosa del fatto addebitato, ma abbia accertato e statuitosull’esistenza in concreto del danno, la decisione produce glieffetti del giudicato (Cass. Civ. Sez. 3°, 9 luglio 2009 n. 16113).4.1. Il motivo non è fondato.La sentenza penale passata in giudicato è vincolante per ilgiudice civile per quanto concerne l’accertamento dei fatti;non quanto alle valutazioni e qualificazioni giuridiche attinentiagli effetti civili della pronuncia, quali sono quelle che attengono all’individuazione delle conseguenze dannose che possonodare luogo a fattispecie di danno risarcibile.La sentenza della Corte di cassazione n. 16113/2009, citata
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dalle ricorrenti a supporto della loro tesi, si riferisce infatti adun caso in cui venivano in questione gli accertamenti svolti insede penale circa l’esistenza in concreto del danno e la sussistenza del nesso causale fra il comportamento illecito ed ildanno medesimo.Nella specie, la sentenza penale viene invocata come giudicatonella parte in cui ha svolto le ragioni per cui ha ritenutorisarcibile in favore degli eredi anche il danno subito dallavittima per la perdita della vita, cioè in una sua parte meramente argomentativa, che quindi non vincola il giudice civile.5. Con il sesto ed il settimo motivo le ricorrenti lamentanovizi di motivazione e violazione degli artt. 2043, 2056, 2059,1223 e 1226 cod. civ., nella parte in cui la Corte di appello hanegato loro il diritto di conseguire iure haereditario il risarcimento del danno biologico subito dal defunto per effettodell’incidente.Le ricorrenti censurano l’interpretazione della Corte di appello, secondo cui ove la morte sopraggiunga immediatamenteo a breve distanza di tempo dall’evento lesivo la lesione vienea colpire non il diritto alla salute, ma il diritto alla vita, delquale ultimo non può essere attribuita riparazione alcuna,qualora venga a mancare, con la morte, il soggetto che dovrebbe soffrire la perdita; e sollecitano una revisione dellaconforme giurisprudenza di questa Corte.6. I motivi sono fondati, nei termini che seguono.Va in primo luogo rilevato che l’auspicata revisione della giurisprudenza di questa Corte sul tema in oggetto vi è già stata, indata successiva a quella in cui è stata emessa la sentenzaimpugnata, tramite una più puntuale sistemazione giuridica econcettuale della nozione di danno non patrimoniale e delleconseguenze risarcibili a questo titolo (Cfr. Cass. civ. S.U. 11novembre 2008 n. 26972 e n. 26973).La Corte di cassazione da un lato ha ricondotto i dannirisarcibili nell’ambito della classificazione bipolare stabilita dallegislatore, riassumendoli tutti nelle due categorie dei dannipatrimoniali e dei danni non patrimoniali, specificando che ledistinzioni elaborate dalla dottrina e dalla prassi fra dannobiologico, danno per morte, danno esistenziale, ecc., hannofunzione meramente descrittiva; dall’altro lato ha precisatoche, nel procedere alla quantificazione ed alla liquidazionedell’unica voce ”danno non patrimoniale”, il giudice deve tenere conto di tutti gli aspetti di cui sopra.Se pertanto debbono essere evitate duplicazioni risarcitorie,mediante l’attribuzione di somme separate e diverse in relazione alle diverse voci (sofferenza morale, danno alla salute,danno estetico, ecc.), i danni non patrimoniali debbono comunque essere integralmente risarciti, nei casi in cui la leggene ammette la riparazione : nel senso che il giudice, nelliquidare la somma spettante al danneggiato, deve tenere conto dei diversi aspetti in cui il danno si atteggia nel caso concreto.Quanto al c.d. danno tanatologico, si deve tenere conto, nelquantificare la somma dovuta in risarcimento dei danni morali,”anche della sofferenza psichica subita dalla vittima di lesionifisiche alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia
rimasta lucida durante l’agonia, in consapevole attesa dellafine”; ... sì da evitare ”... il vuoto di tutela determinato dallagiurisprudenza di legittimità che nega ... il risarcimento deldanno biologico per la perdita della vita” (Cass. S.U. n. 26972/2008, cit., § 4.9; Cass. civ. S.U. n. 26973/2006, § 2.14).Il giudice deve cioè personalizzare la liquidazione dell’unicasomma dovuta in risarcimento dei danni morali, tenendo conto anche del c.d. tanatologico, ove i danneggiati ne faccianospecifica e motivata richiesta e le circostanze del caso concreto ne giustifichino la rilevanza.Nella specie la Corte di appello, in contrasto con i suddettiprincipi, ha del tutto negato ai ricorrenti il risarcimento, atitolo ereditario, dei danni morali subiti dalla vittima, a causadelle gravi sofferenze che hanno preceduto la morte.La somma liquidata in risarcimento dei danni morali risultainfatti quantificata con esclusivo riferimento al compenso spettante ai superstiti per i danni morali subiti iure proprio, a causadella perdita del rapporto parentale.7. Il quinto motivo, con cui i ricorrenti lamentano chel’appello incidentale degli eredi di Ga. Pe. avrebbe dovutoessere dichiarato inammissibile per carenza di legittimazionepassiva degli stessi, avendo essi rinunciato all’eredità, è inammissibile per carenza di interesse, avendo la Corte di appellodisposto per l’appunto in questo senso, nella motivazione (cfr.pag. 6, terza riga, della sentenza).8. In accoglimento del sesto e del settimo motivo di ricorsola sentenza impugnata deve essere cassata, limitatamente alcapo relativo alla mancata liquidazione delle somme richieste atitolo di risarcimento del danno morale subito dal defunto(erroneamente definito come danno biologico) e, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito.La domanda di risarcimento dei danni morali subiti dalla vittima nel tempo che ha preceduto la morte, proposta dagliodierni ricorrenti a titolo ereditario, deve essere accolta, sullabase delle argomentazioni e della diversa qualificazione di cuisopra (cfr. Cass. civ. Sez. III, 28 novembre 2008 n. 28423; Cass.civ. Sez. III, 30 settembre 2009 n. 20949; Cass. civ. Sez. III, 19gennaio 2010 n. 702), ed alle somme già liquidate dalla Cortedi appello in risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dalle ricorrenti iure proprio, deve essere aggiunta una somma a compenso dei danni morali, loro spettante”iure haereditario”, somma che si ritiene di quantificare nelmedesimo importo di Euro 90.000,00, già liquidato dal Tribunale come danno biologico.Restano ferme le altre statuizioni della sentenza impugnata, iviincluse quelle attinenti al diritto delle danneggiate alla rivalutazione monetaria ed agli interessi legali sulle somme liquidate;rivalutazione ed interessi che spettano anche sull’importo liquidato in questa sede, con la decorrenza stabilita nella sentenza di primo grado.Gli intimati debbono essere condannati al pagamento dellespese del giudizio di appello, oltre che al pagamento dellespese del presente giudizio, cosi come liquidate in dispositivo.
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P.Q.M.La Corte di cassazione accoglie il sesto ed il settimo motivo diricorso e rigetta gli altri motivi.Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e,decidendo nel merito, condanna la s.p.a. Enel e Al. Se., in viafra loro solidale, a pagare alle ricorrenti, in aggiunta alle somme determinate dalla sentenza impugnata a titolo di risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, la sommacomplessiva di Euro 90.000,00 in risarcimento dei danni nonpatrimoniali subiti dal defunto, oltre alla rivalutazione monetaria ed agli interessi legali sulla somma annualmente rivalutata,con la decorrenza stabilita nella sentenza di primo grado.Condanna la s.p.a. Enel e Al. Se., in via fra loro solidale, alpagamento delle spese del giudizio di appello, liquidate complessivamente in Euro 7.500,00, di cui Euro 500,00 per esborsi, Euro 2.000,00 per diritti di procuratore ed Euro 5.000,00per onorari di avvocato; e al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 6.200,00, di cuiEuro 200,00 per esborsi ed Euro 6.000,00 per onorari. Inentrambi i casi con l’aggiunta del rimborso delle spese generalie degli accessori previdenziali e fiscali di legge.
CASSAZIONE CIVILE IMMOBILI
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I beni immobili inseriti dal Comune nel patrimonio indisponibile possono comunque essere usucapiti dai privati se nonsono effettivamente destinati al servizio indicato. Non è sufficiente, infatti, la sola determinazione dell’ente locale per imprimere al bene il carattere di indisponibilità. A chiarirlo lasezione II civile della Cassazione con la sentenza 7059/2010.
Corte di Cassazione civ Sezione 2 CivileSentenza del 24 marzo 2010, n. 7059
USUCAPIONE IMMOBILE DEL PATRIMONIO INDISPONIBILEDELLO STATO EFFETTIVA DESTINAZIONE AD USO DEL SERVIZIO PUBBLICO
REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONESEZIONE SECONDA CIVILEComposta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:Dott. SCHETTINO Olindo PresidenteDott. ODDO Massimo ConsigliereDott. ATRIPALDI Umberto ConsigliereDott. MIGLIUCCI Emilio rel. ConsigliereDott. SAN GIORGIO Maria Rosaria Consigliereha pronunciato la seguente:
SENTENZAsul ricorso 9442005 proposto da:COMUNE PATERNO’, (OMESSO) in persona del Sindaco protempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ENNIOQUIRINO VISCONTI 20, presso lo studio dell’avvocato ANTONINI MARIO, rappresentato e difeso dall’avvocato ORTORICCIARI SALVATORE; ricorrente e controVI. MA. (OMESSO); intimato avverso la sentenza n. 1131/2003 della CORTE D’APPELLO diCATANIA, depositata il 26/11/2003;udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del13/01/2010 dal Consigliere Dott. EMILIO MIGLIUCCI;udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore GeneraleDott. MARINELLI Vincenzo che ha concluso per il rigetto delricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSOIl Comune di Paterno’, in persona del Sindaco protempore,conveniva in giudizio dinanzi alla Pretura di Paterno’, Vi. Ma.per sentirlo condannare: al rilascio della casa a piano terra sitain (OMESSO) di proprieta’ dell’istante ed occupata senza titolo dal convenuto; al risarcimento del danno, nonche’ alla refusione delle spese processuali. Si costituiva in giudizio il Vi. , ilquale eccepiva preliminarmente la incompetenza per valoredel Pretore; nel merito, chiedeva il rigetto della domandaattrice e, in via riconvenzionale, che fosse dichiarato che egliera divenuto proprietario dell’immobile rivendicato per averloacquistato per usucapione.In seguito alla declaratoria della propria incompetenza pervalore da parte del Pretore, la causa veniva riassunta dinanzi alTribunale di Catania che con sentenza depositata il 3 maggio2000 accoglieva le domande attrici, ritenendo che l’immobilede quo facesse parte del patrimonio indisponibile del Comune.Con sentenza dep. il 26 novembre 2003 la Corte di appello diCatania in riforma della decisione impugnata dal Vi. , rigettavala domanda proposta dall’attore e, in accoglimento della spiegata riconvenzionale, dichiarava che il convenuto aveva acquistato la proprieta’ dell’immobile de quo per usucapione.Secondo i giudici di appello l’immobile in oggetto non facevaparte di quelli rientranti nel patrimonio indisponibile rilevandoche, ai fini dell’appartenenza di un bene al patrimonio indisponibile dello Stato, delle Province o dei Comuni per esseredestinato a pubblico servizio, occorre una effettiva destinazione a quel servizio, non essendo sufficiente la determinazionedell’ente di imprimere al bene il carattere di patrimonio indisponibile; nella specie, il fabbricato rivendicato dal Comuneera costituito da una piccolissima casa per civile abitazioneposta nel centro storico di (OMESSO) e del tutto priva deicaratteri strutturali necessari ad essere destinata al pretesoservizio sanitario: la stessa non era stata mai stata destinata atale servizio (neanche quando era appartenuta in proprieta’
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all’Ospedale (OMESSO)). D’altra parte, la Legge RegionaleSicilia 12 agosto 1980, articolo 39 (”Istituzione delle Unita’sanitarie locali”) aveva trasferito al patrimonio dei Comuni,”con vincolo di destinazione d’uso alla competente Unita’sanitaria locale”, soltanto i beni gia’ precedentemente destinatiai servizi igienicosanitari, e non anche gli altri beni, per cui ilcespite de quo non poteva rientrare fra quelli trasferiti aiComuni.f Veniva accolta la domanda di usucapione, essendo stata dalconvenuto fornita la prova attraverso la deposizione del testeescusso che aveva trovato riscontro nella relazione del consulente e nel verbale di arresto del convenuto avvenuto perl’appunto nell’immobile de quo di un possesso uti dominusesercitato fin dal 1964, mentre l’allegazione, peraltro tardivaformulata dal Comune circa un contratto di comodato concesso dall’Ospedale in virtu’ del quale il convenuto avrebbeiniziato a detenere l’immobile, non era in alcun modo provataed era addirittura inverosimile: irrilevanti erano le circostanzecirca lo stato di inabitabilita’ del cespite de quo o che il Vi. nonlo abitasse effettivamente, giacche’ mentre erano ininfluentiai fini dell’esercizio del possesso le modalita’ di utilizzo delbene era risultato che il convenuto non aveva mai cessato dipossederlo come acclarato dalla nota con cui il medesimoaveva immediatamente replicato alla richiesta di rilascio inoltratagli dal Comune.Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione il Comune di Paterno’ sulla base di due motivi.Non ha svolto attivita’ difensiva l’intimato.MOTIVI DELLA DECISIONECon il primo motivo il ricorrente, lamentando violazione efalsa applicazione della Legge n. 833 del 1978 e della LeggeRegionale Sicilia n. 87 del 1980 anche in relazione alla Legge n.2248 del 1865, articolo 5 censura la decisione gravata laddoveaveva ritenuto quale requisito per l’appartenenza di un bene laconcreta destinazione al servizio pubblico, deducendo che ilprincipio affermato al riguardo dalla Suprema Corte non erapertinente alla fattispecie in esame, posto che nella presentevicenda il carattere di bene patrimoniale indisponibile dell’immobile de quo trovava fonte non in un provvedimento amministrativo ma nelle legge, atteso che la Legge n. 833 del 1978,articolo 66, lettera b) prevede che tutti i beni appartenuti aglienti ospedalieri transitano nel patrimonio del Comune e cio’indipendentemente dalla loro effettiva destinazione al serviziopubblico, destinazione invece richiesta per i beni indicati dallalettera a) del citato articolo 66; la legislazione regionale si erapoi adeguata a tale disciplina e, in particolare la Regione Sicilia,con la Legge n. 87 del 1980, articoli 39 e 40.Il motivo e’ infondato.La sentenza, nell’escludere che l’immobile de quo facesse parte del patrimonio indisponibile del Comune di Paterno’ (altrimenti non sarebbe stato suscettibile di essere usucapito), haaccertato che il cespite, anche per le sue caratteristiche, nonera stato mai destinato al servizio igienicosanitario, anchequando apparteneva all’Ospedale (OMESSO).Non potrebbe invocarsi al riguardo il dettato dalla norma di
cui alla Legge n. 833 del 1978, articolo 66 dovendo qui considerarsi che, essendosi la Legge n. 833 del 1978, articolo 66,comma 2, lettera b) limitato a prevedere il trasferimento alpatrimonio del Comune, in cui sono collocati con vincolo didestinazione alle UU.SS.LL., dei beni e delle attrezzature gia’appartenenti agli enti ospedalieri, deve escludersi che inmancanza di una espressa previsione la norma abbia intesoattribuire al patrimonio del comune tutti i beni gia’ appartenenti ai predetti enti indipendentemente dalla loro effettivadestinazione pregressa e in assenza di qualsiasi collegamentodi carattere funzionale con le competenze attribuite alleUU.SS.LL. dalla legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale;infatti, lo stesso articolo 66 prevede l’affidamento alle medesime unita’ sanitarie della gestione (soltanto) dei beni mobili edimmobili e delle attrezzature destinate ai servizi igienicosanitari e all’esercizio di tutte le funzioni dei Comuni e dei loroconsorzi in materia igienicosanitaria (Cass. 1957/2007), ne’ iltrasferimento al patrimonio del Comune dei predetti benipotrebbe trovare titolo nella normativa (nella specie la LeggeRegionale Sicilia Calabria n. 87 del 1980, articolo 39) emanatadalle regioni in attuazione del citato articolo 66. La normaregionale, che aveva il compito di dare concreta attuazione alladisposizione dettata dalla norma statale, ha previsto all’articolo 39 citato appunto la necessaria ricognizione delle componenti del patrimonio al fine di stabilire in base alla effettivadestinazione totale o prevalente al servizio igienico sanitario quali sarebbero stati in concreto i beni da trasferire aiComuni con vincolo di destinazione alle UU.SS.LL..Con il secondo motivo il ricorrente, lamentando violazione efalsa applicazione dell’articolo 141 c.c., comma 2 e articolo1158 cod. civ. nonche’ omessa, insufficiente e contraddittoriamotivazione su un punto decisivo della controversia (articolo360 c.p.c., n. 5), censura la decisione che aveva accolto ladomanda di usucapione, ritenendo irrilevante la condizione difatiscenza dell’immobile de quo, mentre da tale circostanza sisarebbe dovuto presumere che il convenuto, dimostrandototale disinteresse, lo avesse abbandonato in epoca anterioreal 1986 rinunziando ad acquistarne la proprieta’.Il motivo e’ infondato.La sentenza ha accertato, alla stregua delle risultanze istruttorie che sin dal 1964 il convenuto aveva posseduto l’immobilede quo, abitandovi e compiendo lavori di ristrutturazionediretti a realizzare un bagno e una cucina: la situazione attualedel cespite, risultato inabitabile e in effetti non abitato dalconvenuto, non assumeva alcuna rilevanza , una volta che erarisultato dimostrato il decorso del termine utile per maturarel’usucapione; in proposito, i giudici hanno chiarito che, mentrele modalita’ di utilizzo del bene sono influenti, il possessodell’immobile da parte del Vi. non era mai cessato se e’ veroche il medesimo, di fronte alla richiesta di rilascio inoltrataglidal Comune il 741988, aveva immediatamente replicato connota del 18419888 dichiarando l’intenzione di continuare adesercitare il possesso;in tal modo la Corte ha correttamenteritenuto che il convenuto aveva esercitato e conservato ilpossesso anche solo animo, essendo in suo potere di ripristi
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nare in ogni tempo la relazione di fatto con la cosa senzaricorrere ad azioni violente o clandestine. La doglianza, purfacendo riferimento a violazioni di legge e a vizi di motivazione, da cui la sentenza e’ immune, si risolve in una inammissibilerichiesta di riesame del merito della causa. Al riguardo, varicordato che il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoriamotivazione denunci abile con ricorso per cassazione ai sensidell’articolo 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5, si configurasolo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi dellacontroversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate taleda non consentire l’identificazione del procedimento logicogiuridico posto a base della decisione; tali vizi non possonoconsistere nella difformita’ dell’apprezzamento dei fatti e delleprove dato dal giudice del merito rispetto a quello pretesodalla parte, spettando solo al giudice di merito individuare lefonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilita’ e la concludenza, scegliere tra le risultanzeistruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, mentre alla Corte di Cassazione non e’ conferito il potere diriesaminare e valutare autonomamente il merito della causa,non essendo compito del giudice di legittimita’ verificarel’esattezza della decisione rispetto alle risultanze istruttorie:spetta alla Cassazione, che non puo’ esaminare gli atti, tranneche sia dedotto un error in procedendo, quello di controllare,sotto il profilo logico e formale, la correttezza giuridica delprovvedimento impugnato attraverso l’esame del suo contenuto intrinseco.Il ricorso va rigettato.Non va adottata alcuna statuizione in ordine alla regolamentazione delle spese relative alla presente fase,non avendo l’intimato svolto attivita’ difensiva.P.Q.M.Rigetta il ricorso.
CASSAZIONE PENALE FAVOREGGIAMENTO
Il Sole24 Ore del lunedìsezione: GIUSTIZIA E SENTENZE data: 20100419 pag: 36
Il silenzio del pubblico ufficiale è reatodi Selene Pascasi
È favoreggiamento il silenzio del pubblico ufficiale che, tacendo su circostanze a lui note, intralci la cattura del latitante.Scatta, così, la condanna ai sensi dell’articolo 378 del codicepenale per l’agente che ometta di riferire ai propri superiorielementi utili all’arresto del ricercato. A sostenerlo la sezioneVI penale della Cassazione con la sentenza 11473/10.Configurabile, dunque, il reato di favoreggiamento anche incaso di mera ”omissione” purché proveniente si legge nellapronuncia da soggetti interni «alle istituzioni della giustiziapenale, nei confronti dei quali la legge configura una vera e
propria posizione di garanzia» nell’attività di ricerca del malvivente. Essenziale,allora,non solo l’intralcio alle indagini maanche il ruolo rivestito da chi era tenuto per posizione aldovere di collaborazione.Coinvolto nella vicenda, un carabiniere indagato di favoreggiamento e rivelazione di segreti d’ufficio, nei cui confronti erastata chiesta la sospensione cautelativa dal servizio. La misura,inizialmente non inflitta dal giudice per le indagini preliminari,veniva applicata dal tribunale che, su ricorso del pubblicoministero, sospendeva l’uomo dall’incarico per due mesi.Al pubblico ufficiale era stata contestata l’omessa comunicazione ai più alti graduati del luogo dove si nascondeva unlatitante, ricercato per tentata rapina aggravata commessa aidanni di uno straniero, peraltro irregolare.Il militare, difatti, venuto a conoscenza del rifugio per via deirapporti intrattenuti con la convivente del reo, anziché denunciare aveva taciuto. E aveva perfino consigliato la donna difar ricoverare il compagno viste le precarie condizioni di salute in cui versava in conseguenza delle reazioni della vittima.Così facendo, aveva ostacolato le attività di ricerca della polizia giudiziaria ritardando la cattura del latitante. Il pubblicoufficiale respinge gli addebiti e ricorre per Cassazione, postoche la legge punisce per favoreggiamento chi «aiuta taluno adeludere le investigazioni dell’autorità, o a sottrarsi alle ricerche di questa». Ma rileva la difesa l’ assistito ha solo ”omesso”.La Cassazione, invece, ravvisa il reato anche quando «il contegno addebitato si risolva in una mera omissione» purchéproveniente da chi rivesta una «posizione di garanzia nei confronti della giustizia penale». In altre parole, è il dovere diimpedire il reato e di collaborare con gli inquirenti che, sedisatteso, fa scattare il favoreggiamento. Rileverà penalmente,allora, la condotta tenuta dal ricorrente che, omettendo didenunciare il nascondiglio del latitante, ritardi l’interventodell’autorità anziché agevolarlo.Quanto alla rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio, lacontestazione mossa al militare riguardava l’aver riferito allaconvivente del latitante talune notizie apprese dalla banca datidelle forze dell’ordine. Circostanze che dovevano restaresegrete poiché relative a precedenti di polizia giudiziaria riguardanti i familiari dello straniero, irregolare, vittima dellatentata rapina da parte del ricercato.Al riguardo afferma la Cassazione non servirà verificare sedalla violazione del segreto, commessa dal pubblico ufficiale,sia derivato o meno un danno per la pubblica amministrazione.Sarà sufficiente, affinché sussista il reato, che la rivelazione delsegreto d’ufficio sia tale da poter cagionare un pregiudizioall’interesse tutelato. Motivazioni che hanno condotto al respingimento su entrambi i fronti del ricorso presentato.© RIPRODUZIONE RISERVATA
Corte di Cassazione pen Sezione 6 PenaleSentenza del 25 marzo 2010, n. 11473
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REATI CONTRO L’AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA DELITTI CONTRO L’ATTIVITA’ GIUDIZIARIA FAVOREGGIAMENTO
REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONESEZIONE SESTA PENALEComposta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:Dott. DE ROBERTO Giovanni PresidenteDott. MANNINO Saverio F. ConsigliereDott. SERPICO Francesco ConsigliereDott. IPPOLITO Francesco ConsigliereDott. ROTUNDO Vincenzo Consigliereha pronunciato la seguente:
SENTENZAsul ricorso proposto da:D’. Cl. ;avverso l’ordinanza 30 novembre 2009 il Tribunale di Roma;Visti gli atti, l’ordinanza denunciata ed il ricorso;Udita nell’udienza in camera di consiglio la relazione fatta dalPresidente DE ROBERTO Giovanni;Udite le conclusioni del Pubblico ministero, nella persona delSostituto Procuratore Generale, Dott. MURA Antonio, cheha concluso per l’inammissibilita’ del ricorso.
OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO1. Con ordinanza 30 novembre 2009 il Tribunale di Roma, inaccoglimento dell’appello del Pubblico ministero contro ilprovvedimento 21 settembre 2009 del Giudice per le indaginipreliminari del Tribunale di Velletri che aveva disatteso la richiesta di applicazione della misura interdittiva della sospensione dall’esercizio dal pubblico ufficio di carabiniere nei confronti di D’.Cl. , applicava la detta misura interdittiva per ladurata di due mesi essendo gravemente indagato dei reati difavoreggiamento (addebitatogli per avere aiutato Se.Ed. , all’epoca ricercato dal Commissariato di Velletri per tentatarapina aggravata commessa nell’abitazione di Cr.Al. , persona,per di piu’, presente irregolarmente nel territorio dello Statoin quanto espulso con provvedimento del Prefetto di Latina,eseguito mediante accompagnamento coattivo alla frontiera,ad eludere le investigazioni dell’autorita’, omettendo di denunciarlo quantunque fosse a conoscenza del luogo di rifugio,intrattenendo contatti con la convivente del Se. , Ha.Sa. , edincontrandolo nel periodo di irreperibilita’ almeno una volta,prima della presentazione dello stesso Se. , ferito, presso ilPoliclinico (OMESSO)) e di rivelazione di segreto di ufficio(addebitatogli perche’, violando i doveri inerenti le funzioni edil servizio rivelava alla Ha. notizie di ufficio relative a precedenti di polizia giudiziaria riguardanti i familiari di Cr. Al. appresi dagli atti di ufficio banca dati delle forze dell’ordine lequali dovevano rimanere segrete, circa fatti di usura).Il Tribunale, con riferimento al delitto di cui all’articolo 378
c.p., precisava che la condotta interlocutoriamente contestataal D’. era di natura esclusivamente omissiva e che tale omissione si era manifestata in un comportamento diretto a ritardare la ricerca del Se. ; piu’ in particolare, l’indagato, anziche’rivelare alla polizia giudiziaria il luogo ove era nascosto l’autore della rapina, aveva contattato la convivente dello stesso, siaera poi incontrato con il ricercato ed aveva consigliato la Ha.di far ricoverare il convivente in ospedale date le sue precariecondizioni di salute provocate dalla reazione della vittimadella rapina; giunto al Policlinico (OMESSO), il Se. era statosubito fermato in quanto colpito da provvedimento di fermo.Relativamente al delitto di rivelazione di segreto di ufficio, ilTribunale evocava le ”evidenze captative” e le ”espresse ammissioni rese dal D’. al GIP di Velletri, sull’avvenuta interrogazione del sistema SDI”.In punto di esigenze cautelari, il giudice dell’appello richiamava quelle di cui all’articolo 274, lettera c).2. Ricorre per cassazione il D’. denunciando violazione dilegge e mancanza e manifesta illogicita’ della motivazione.Con riferimento al delitto di cui all’articolo 378 c.p., deduceche dalle telefonate intercettate non sarebbe emersa alcunaattivita’ favoreggiatrice del ricorrente che non ebbe ad ospitare il latitante ma che si limito’ a consigliare la Ha. di far ricoverare subito il marito in ospedale, senza impedire o ritardare la cattura del latitante. Con riguardo al delitto di cui all’articolo 329 c.p. esclude di avere mai interrogato il sistema SDI.Analoga censura viene avanzata in punto di esigenze cautelari,stante il costante corretto servizio espletato dal ricorrentenell’Arma dei carabinieri e la sua incensuratezza.Il ricorso e’ infondato.3. Con riferimento al delitto di favoreggiamento, si riproponela problematica concernente la ipotizzabilita’ della condottadescritta nell’articolo 378 c.p. tutte le volte in cui il contegnoaddebitato si risolva in una mera omissione.Ed a tale riguardo la giurisprudenza dominante appare orientata in senso positivo, peraltro talora sovrapponendo (la tematica e’ stata infatti affrontata in relazione a dichiarazionirese meglio, non rese alla polizia giudiziaria, in grado dideterminare un turbamento della funzione giudiziaria) il modello esternativo della dichiarazione falsa alla natura dellacondotta costituente reato; tanto da consentire di qualificarecommissivo (mediante omissione) il contegno elusivo delleindagini.Sennonche’ nel caso di specie, e’ la qualita’ soggettiva delricorrente ad assumere rilievo esponenziale. Infatti, penetrando davvero nella tematica del favoreggiamento contrassegnato da una condotta omissiva puo’ qui ripetersi che se e’ veroche non qualsiasi dovere di collaborazione puo’ assumererilievo, e’ anche vero che ove la condotta concerna l’impedimento dell’evento delittuoso tipizzato secondo il modellodelineato nell’articolo 40 c.p., comma 2, il dovere si incentrain una posizione di garanzia nei confronti della giustizia penale, concernente le situazioni descritte nell’articolo 378 c.p..Cosicche’ il favoreggiamento omissivo e’ configurabile conriguardo a soggetti intranei alle istituzioni della giustizia pena
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le, nei confronti dei quali la legge configura una vera e propriaposizione di garanzia per la normalita’ delle ricerche postdelictum.Ed in proposito corrette si rivelano le argomentazioni utilizzate dal giudice a quo, il quale ha posto in luce come il D’. ,pur conoscendo la qualita’ di ricercato del Se. , essendo statoinformato (come risulta dalle conversazioni intercettate) deldelitto da lui commesso, anziche’ riferire immediatamente allapolizia giudiziaria (vale a dire, anche ai suoi diretti superiori)o alla autorita’ giudiziaria, proseguiva i suoi contatti telefonicicon la Ha. , consigliandola, ben tre giorni dopo la comunicazione della notizia di reato, di far ricoverare il convivente inospedale, tanto da ritardare il fermo, avvenuto solo a seguitodel detto ricovero e, dunque, non eseguito immediatamenteproprio in forza del contegno omissivo di chi aveva il doveregiuridico di provocare l’intervento dell’autorita’.Un grave quadro indiziario emerge anche in relazione al delitto di cui all’articolo 326 c.p., alla stregua sia del contenutodelle conversazioni intercettate sia delle stesse ammissionidel D’. . Il tutto senza che, peraltro, rilevi almeno allo statola necessita’ di verificare che dalla violazione del segreto,commessa dal pubblico ufficiale sia derivato un danno per lapubblica amministrazione, essendo sufficiente che la rivelazione del segreto sia tale da poter cagionare nocumento all’interesse tutelato (cfr., ex plurimis, Sez. 1, 29 novembre 2006,Bria).Infondate appaiono pure le censure in punto di esigenze cautelari, alla stregua dell’ampia corretta motivazione dell’ordinanza impugnata la quale non ha mancato di rimarcare comeil contegno dell’indagato appare, per le sue concrete caratteristiche, l’inquietante segnale di una personalita’ disancoratadalla mera occasione, capace percio’ di manifestarsi in ulteriori fatti dello stesso tipo, a prescindere dal luogo ove l’indagato sia chiamato a prestare servizio.4. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrenteal pagamento delle spese processuali.La cancelleria provvedere agli adempimenti di cui all’articolo28 disp. att. c.p.p..
P.Q.M.Ricetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento dellespese processuali. Manda alla cancelleria per gli adempimentidi cui all’articolo 28 disp. att. c.p.p..
CASSAZIONE PENALE INTERCETTAZIONI
Le Sezioni Unite prevedono più limiti
Le Sezioni Unite, con sentenza del 9 aprile 2010, n. 13426,hanno precisato che se una intercettazione viene effettuata inmodo illegittimo, questa deve essere ritenuta totalmenteinutilizzabile ed anzi non può trovare neppure spazio nel guidizio riguardante le misure di prevenzione.Il processo di prevenzione ha precisato la Corte di Cassazione a Sezioni Unite non deve essere valutato come un
procedimento ”minore”, inquanto ”la giurisprudenza dellaCorte europea dei Diritti dell’Uomo,da un lato, e quella costituzionale, dall’altro, impongono, dunque, una ”lettura” delprocedimento di prevenzione che sia in linea con i principidel ”giusto processo”.Il che, evidentemente, avvalora la tesi di quanti ritengonopreclusa la ”fruibilità”, anche se ai lmitati fini del giudizio diprevenzione, di intercettazioni inutilizzabili a norma dell’articolo 271 del codice di rito, in quanto la inosservanza dellerelative garanzie di legalità finirebbe altrimenti, per contaminaree compromettere il ”giusto procedimento di prevenzione”, che tale può definirsi soltanto se basato su atti ”legalmente” acquisiti.
Corte di Cassazione pen Sezioni Unite PenaleSentenza del 9 aprile 2010, n. 13426
PROCEDIMENTO DI PREVENZIONE USO DELLE INTERCETTAZIONI DICHIARATE INUTILIZZABILI NEL GIUDIZIO DI COGNIZIONE ILLEGITTIMO
REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONESEZIONI UNITE PENALI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri magistrati:Dott. Torquato GEMELLI PresidenteDott. Ernesto LUPO ComponenteDott. Umberto GIORDANO ComponenteDott. Carlo Giuseppe BRUSCO ComponenteDott. Antonio Stefano AGRO’ ComponenteDott. Mario ROTELLA ComponenteDott. Vincenzo ROMIS ComponenteDott. Giovanni CONTI ComponenteDott. Alberto MACCHIA Componente (Rel.)ha pronunciato la seguente
SENTENZAsul ricorso proposto da:Gi. Gi. Ca., nato a Li. il (...);Ca. Ca., nato a Li. il (...);Da. Pa. Me., nato a Ta. il (...);Pa. Sc., nato a Ta. l’(...);Pa. Lo., nato a Li. il (...);Li. D’E., nata a Li. il (...);Mi. Ar., nata a Ma. il (...);avverso l’ordinanza pronunciata dalla Corte di appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto, il 28 aprile 2006;udita in camera di consiglio la relazione fatta dal Consiglieredott. Alberto Macchia;letta la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale dott.Antonio Gialanella, che ha concluso chiedendo l’annullamentocon rinvio per nuovo esame alla Corte di appello di Lecce
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della ordinanza impugnata con riferimento alla posizione di Pa.Lo., Ca. Ca., Li. D’E., Pa. Sc. e Mi. Ar.; l’annullamento senzarinvio della decisone impugnata, perché venuta meno la persona destinataria della misura, nei confronti di Da. Pa. Me.limitatamente alla misura personale ed alla cauzione a costuirispettivamente applicata e imposta; l’annullamento con rinvioalla Corte di appello di Lecce della decisione impugnata conriguardo alla applicazione, al medesimo Da. Pa. Me., di misurapatrimoniale; la dichiarazione di inammissibilità del ricorsoproposto nei confronti di Gi. Gi. Ca.Ritenuto in fatto1. Con ordinanza del 28 aprile 2006, la Corte di appello diLecce, Sezione distaccata di Taranto, ha parzialmente riformato il provvedimento emesso il 3 aprile 2003 dal Tribunale diTaranto con il quale era stata applicata la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di P.S. per anni cinque, conobbligo di soggiorno nei rispettivi Comuni di residenza, neiconfronti, per quanto qui rileva, di Da. Pa. Me., Pa. Lo., Pa. Sc.e Ca. Ca., nonché la misura patrimoniale della confisca di benie terreni riconducibili agli stessi, revocando: la confisca dell’autovettura Fiat Punto tg. (...) appartenente aPa. Lo. e Ma. Lo. Me.; la confisca dell’autovettura Y10 tg. (...) e del ciclomotorePiaggio 50 tg. (...) telaio (...) appartenenti a Ca. Ca. e Li. D’E.; la confisca dell’autovettura Fiat Punto tg. (...) appartenente aMa. Ni.; la confisca dell’autovettura Fiat Punto tg. (...) appartenentead Mi. Ar.;confermava nel resto l’impugnato provvedimento che avevasottoposto anche Gi. Gi. Ca. a misura di prevenzione patrimoniale.Le indicate misure di prevenzione erano state applicate inrelazione all’accusa di partecipazione ad associazione mafiosa(art. 416bis cod. pen.), poi modificata in associazione finalizzata al traffico di stupefacenti (art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990),nell’ambito del processo avviato dall’operazione di polizia c.d.Qu. Va., che aveva inizialmente portato alla condanna degliattuali ricorrenti per poi concludersi con l’assoluzione. Inparticolare, con sentenza 13 gennaio 2005, la Corte d’appellodi Lecce, quale giudice di rinvio, aveva assolto, per insussistenza del fatto, gli imputati Da. Pa. Me., Fr. Ri. e Al. Ze., inconseguenza della ritenuta inutilizzabilità delle intercettazioniambientali per difetto di motivazione in ordine all’eccezionaleurgenza ed all’inidoneità ed insufficienza delle apparecchiatureesistenti presso la Procura della Repubblica. Ciò, in dipendenza dei dieta enunciati da questa Corte, Sezione VI penale, nellasentenza n. 32865 del 13 maggio 2004, con la quale era stataappunto annullata con rinvio, per tale ragione, la pronuncia dicondanna adottata dalla Corte territoriale.2. Avverso il provvedimento indicato in premessa hannoproposto ricorso per cassazione tanto i prevenuti ivi indicatiche i terzi interessati alle misure di prevenzione patrimoniali.Nel ricorso proposto nell’interesse di Da. Pa. Me., si deduce,nel primo motivo, violazione di legge e vizio di motivazione inriferimento alla sussistenza dei presupposti per l’applicazione
della misura di prevenzione disposta dal primo giudice e nonrevocata in appello, sul rilievo che, nella specie, essendo stataesclusa, nel giudizio di merito originato dalla operazione Qu.Va., la fattispecie di cui all’art. 416bis cod. pen., ma pronunciata condanna per diversi reati in tema di violazione della leggesugli stupefacenti (artt. 73 e 73 del d.P.R.n. 309 del 1990), nonsussisterebbero i presupposti di legge per l’applicazione dellasorveglianza speciale di cui alla disciplina antimafia previstadalla legge n. 575 del 1965. In particolare, risulterebbe erratoil richiamo, operato dai giudici a quibus, all’art. 14 della legge n.55 del 1990, in quanto tale disposizione consente di svolgerele indagini e applicare le misure di prevenzione a caratterepatrimoniale anche ai soggetti indiziati di altri reati diversi daquelli di cui all’art. 416bis cod. pen. (art. 75 della legge n. 685del 1975, poi sostituito dall’art. 74 del d.P.R. n 309 del 1990),ma non consentirebbe l’estensione a tali categorie anche dellenorme sulla applicazione delle misure di prevenzione a carattere personale. L’applicazione della misura non prevista dallalegge integrerebbe, pertanto, ad avviso del ricorrente, unaillegittima estensione in malam partem, vietata dall’ordinamento. Si sottolinea, poi, la incongruenza degli elementi desunti, asostegno della pericolosità sociale, dalle emergenze scaturitedal procedimento Qu. Va., posto che una larga parte deiprovvedimenti adottati nel corso di quel procedimento a carico di coimputati sono stati poi annullati o revocati. Difetterebbe, inoltre, la attualità della pericolosità, considerato che i fattioggetto di imputazione in quel processo risalirebbero ormai al2000. Viene poi contestata la motivazione del provvedimentoimpugnato in riferimento alla durata della misura di prevenzione ed al mantenimento dell’obbligo di soggiorno. Nel secondomotivo di ricorso viene dedotta la mancanza del requisito dicui all’art. 1, n. 2), della legge n. 1425 del 1956, avendo ilprevenuto sempre lavorato onestamente, mentre nel terzo edultimo motivo si prospetta la sussistenza di un bis in idem, perdi più promanante da una pronuncia ultra petita, in quanto neiconfronti del prevenuto era stata già applicata la misura diprevenzione personale con provvedimento non ancora eseguito ma irrevocabile.Il ricorrente risulta nelle more deceduto in data 9 giugno2008, come da certificazione in atti.Nel ricorso proposto nell’interesse di Pa. Lo., si deduce violazione di legge, in quanto l’assunto accusatorio nei suoi confronti si fondava, nell’ambito del procedimento Qu. Va., sulleintercettazioni ambientali che poi sono state dichiarate inutilizzabili, al punto che la Corte di appello di Lecce aveva estesoil giudicato di proscioglimento anche nei confronti dello stessoricorrente. La tesi dei giudei a quibus di utilizzare le intercettazioni ai fini del procedimento di prevenzione si fonderebbe,adavviso del ricorrente, su una erronea interpretazione dellagiurisprudenza di legittimità, giacché l’autonomia del procedimento di prevenzione non può valere nei casi in cui la intercettazione sia stata effettuata, come nella specie, fuori dei casiprevisti dalla legge. Pertanto, in virtù del rinvio operato dall’artt. 20 della legge n. 152 del 1975 e dall’art. 208 disp. coord.cod. proc. pen., alla disciplina delle indagini preliminari ed alle
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norme processuali che disciplinano l’attività investigativa delpubblico ministero, le intercettazioni illegittime non possonotrovare ingresso neppure nel procedimento di prevenzione.Il primo motivo dei ricorsi proposti nell’interesse di Ca. Ca. edi Li. D’E., terza interessata, nonché di quello rassegnato perPa. Sc. e Mi. Ar., terza interessata, è uguale al primo motivo delricorso proposto nell’interesse di Da. Pa. Me., del quale già siè detto. Il secondo motivo dei ricorsi del Ca. Ca. e dello Pa.Sc. prende in considerazione le misure patrimoniali. Per iconiugi Ca. Ca. Li. D’E. si deduce la circostanza che il primoavrebbe lavorato come bracciante agricolo e si contesta l’affermazione secondo la quale i beni sequestrati al proposto edalla moglie sarebbero frutto di attività delittuosa e si osservache i cespiti oggetto delle misure patrimoniali sarebbero statiacquisiti in epoca antecedente ai fatti cui si è riferita l’attivitàdella associazione contestata nell’ambito del procedimentoQu. Va. Ciò vale sia per le disponibilità relative al contocorrente che per quanto attiene all’appartamento confiscato,le cui provviste si assumono essere, per entrambi i cespiti, dilecita provenienza. Nella sostanza non dissimili i rilievi checompongono il corrispondente motivo di ricorso propostoper la coppia Pa. Sc. Mi. Ar.. Si deduce, infatti, che la famigliaPa. Sc. era titolare di diverse fonti di reddito, sicché si rivelerebbe immotivato il provvedimento di confisca, in quanto nonassistito da congrui elementi di fatto, mentre sarebbe stataimmotivatamente ritenuta non credibile la prospettazione difensiva relativa agli aiuti economici che provenivano dai familiari. Quanto, poi, all’acquisto dell’immobile, gravato da mutuoipotecario, si asserisce che l’epoca del relativo acquisto sarebbe antecedente a quella a partire dalla quale avrebbe iniziatoad operare il sodalizio diretto dal Da. Pa. Me. e si contesta,infine, la sussistenza dei presupposti per il mantenimento dellaconfisca del conto corrente bancario di cui la coppia disponeva.Con successive memorie e motivi aggiunti, il difensore di Ca.Ca., Pa. Sc., Li. D’E. e Mi. Ar. ha sottolineato la inutilizzabilità,anche nel procedimento di prevenzione, delle intercettazionidichiarate inutilizzabili nel processo cosiddetto Qu. Va., segnalando, a tale proposito, anche la pronuncia nel frattempointervenuta di queste Sezioni unite del 30 ottobre 2008, n.1153, Racco, che ha sancito il principio secondo il quale lainutilizzabilità delle intercettazioni produce effetti anche nelprocedimento per ottenere la riparazione per l’ingiusta detenzione.Nel ricorso proposto, infine, da Gi. Gi. Ca., si deduce lainsussistenza delle condizioni che legittimano i provvedimentodi confisca di un immobile, ribadendosi, nella sostanza, lemedesime censure già sviluppate in sede di gravame. In particolare, si sottolinea che il terreno sarebbe pervenuto al proposto per donazione dalla madre e che vi era una costruzionerisalente ad oltre venti anni prima, come sarebbe riscontratoda un rilievo aerofotogrammometrico effettuato dal Comunedel luogo nel 1983. Ad avviso del ricorrente, poi, il provvedimento impugnato affermerebbe senza prove che sarebberostati registrati cospicui investimenti immobiliari da parte de
prevenuto, mentre sarebbero state invece trascurate le entrate legittime, di cui il medesimo disponeva. Le deduzioni sonostate poi ribadite con successiva memoria.3. Dopo il deposito, in data 19 luglio 2008, della richiesta delProcuratore generale presso questa Corte, di rigetto del ricorso presentato nell’interesse di Pa. Lo., e di declaratoria diinammissibilità degli altri ricorsi, la Sesta sezione penale, cui iricorsi erano stati assegnati, con ordinanza del 24 marzo 2009,rilevato che, in merito alla utilizzabilità, nel procedimento diprevenzione, di intercettazioni dichiarate inutilizzabili nell’ambito del giudizio di cognizione, sussisteva un persistente contrasto giurisprudenziale, ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite.In data 5 giugno 2009, il Presidente Aggiunto della Corte diCassazione ha restituito alla Sesta sezione il procedimento,osservando che l’ordinanza di rimessione tendeva ”chiaramente a riaprire i termini di una questione recentementerisolta dalle S.U. (sentenza 30/10/2008 Racco), con una seriedi puntualizzazioni critiche che non assurgono ad effettive,nuove linee argomentative in tema di prova ”incostituzionale””.La Sesta sezione, con ordinanza del 21 ottobre 2009, rilevatoche, in merito all’utilizzabilità, nel procedimento di prevenzione, di intercettazioni dichiarate inutilizzabili nell’ambito delgiudizio di cognizione, sussisteva un persistente contrasto giurisprudenziale, ha nuovamente rimesso il ricorso alle SezioniUnite. In presenza del nuovo, motivato atto di rimessione, ilPresidente Aggiunto della Corte di cassazione, con provvedimento del 1 dicembre 2009, ha assegnato il ricorso alle Sezioni unite penali.Con successiva memoria, depositata il 1 marzo 2010, il difensore di Ca. Ca., Li. D’E., Pa. Sc. e Mi. Ar., nel reiterare larichiesta di remissione dei ricorsi alle Sezioni Unite, ha ulteriormente ribadito i termini del contrasto di giurisprudenzacon riferimento alla questione relativa all’utilizzabilità, nel procedimento di prevenzione, delle intercettazioni ritenute inutilizzabili nel processo di cognizione per omessa motivazionesull’inidoneità degli impianti disponibili presso gli uffici di Procura, deducendo argomenti in senso contrario alle prospettazioni poste in risalto dalla ordinanza della Sesta sezione.4. L’ordinanza di rimessione ha evidenziato i termini delpersistente contrasto giurisprudenziale in merito all’utilizzabilità o meno, nel procedimento di prevenzione, di intercettazioni dichiarate inutilizzabili nell’ambito del giudizio di cognizione.Secondo un primo orientamento, infatti, si è osservato che,ferma restando l’autonomia dei due giudizi, di cognizione daun lato e di prevenzione dall’altro, che conoscono regoleprobatorie differenti, giustificabili in relazione alla diversità delloro oggetto, il materiale probatorio acquisito nel processopenale possa essere utilizzato, ma non in maniera indiscriminata, dovendo essere individuati freni all’utilizzazione, in presenza di vizi che, ad esempio, ”determinano una patologica inutilizzabilità”, collegata cioè alla violazione delle regole e deipresupposti previsti direttamente da norme costituzionali, di
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rettamente applicabili nel processo di prevenzione. Sulla basedi tali premesse, alcune decisioni hanno ritenuto che l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, dichiarata per undifetto del provvedimento con cui si autorizza l’uso degliimpianti diversi da quelli installati presso la procura della Repubblica, ”non rilevi ai fini dell’acquisizione nel giudizio diprevenzione, in quanto riguarda una regola interna al processopenale, che non è in grado di proiettare i suoi effetti nell’ambito delle regole probatorie del regime della prevenzione”. Sitratterebbe di una inutilizzabilità specifica del processo penale,”un vizio relativo che non intacca in maniera sostanziale lavalidità della prova che è stata disposta e che per questaragione può essere acquisita nel giudizio di prevenzione peressere valutata sulla base del diverso regime probatorio (Sez.VI, 30 settembre 2005, n. 39953; Sez. VI, 25 ottobre 2007, n.1161; Sez. II, 28 maggio 2008, n. 25919).Secondo altro orientamento, invece, la norma sul divieto diutilizzazione di cui all’art. 271 cod. proc. pen., è a tutela diregole ”poste a garanzia della segretezza e della libertà dellecomunicazioni, costituzionalmente presidiata e cioè della libertà dei cittadini (art. 15 Cost.), che la stessa Corte costituzionale ha ritenuto debba essere assicurata attraverso il rispetto di precise disposizioni, avuto riguardo alla particolareinvasività del mezzo della intercettazione telefonica o ambientale, attinenti pure alla loro esecuzione presso impianti dellaprocura della Repubblica, con una deroga in casi eccezionalispecificamente motivati (v. Corte Cost. 19.7,2000 n. 304)”.Per cui, le intercettazioni che non rispettano tali regole, devono essere considerate illegali e non utilizzabili in alcun modo,non solo nell’ambito del processo penale. La ”illegalità” delleintercettazioni rende quindi non valutabile quella prova inqualsiasi tipo di procedimento, compreso quello di prevenzione, in quanto ”la utilizzabilità di una prova, anche se diversa daquella propria del processo penale e se assunta con formediverse da quelle stabilite dal codice di procedura penale, purse ammessa in linea di principio in procedimenti diversi daquello del giudizio ordinario di cognizione, non è mai possibilese si tratti di una prova illegale, assunta in violazione dei dirittidei cittadini garantiti dai principi costituzionali” (Sez. I, 15giugno 2007, n.29688).Il collegio rimettente è consapevole che quest’ultima interpretazione è stata accolta dalle Sezioni unite che, con la sentenza30 ottobre 2008, n. 1153, Racco, hanno risolto un analogocontrasto avente ad oggetto i limiti di utilizzabilità nel giudizioper la riparazione da ingiusta detenzione dei risultati delleintercettazioni disposte nel processo penale; tuttavia, ritieneche detta decisione si presti ad una serie di puntualizzazionicritiche. Per un verso, infatti, non sembrerebbe condivisibilel’assunto che tende ad equiparare fra loro la inutilizzabilità fenomeno tutto interno al processo con la illegalità. Sottoaltro profilo, si rileva, in contrasto con la tesi espressa nellasentenza Racco, che anche la previsione che impone la motivazione circa il ricorso ad impianti esterni alla procura dellaRepubblica non può ritenersi direttamente attuativa del precetto costituzionale: l’art. 268, comma 3, cod. proc. pen.
riguarderebbe, infatti, le modalità di esecuzione dell’intercettazione,e non sarebbe dunque funzionale alla tutela della libertàe della segretezza delle comunicazioni, che l’art. 15 Cost.,garantisce attraverso la previsione dell’atto motivato dell’autorità giudiziaria; atto che corrisponderebbe al decreto di autorizzazione di cui all’art. 267 cod. proc. pen. ”La motivazionecui fa riferimento la Costituzione sottolinea l’ordinanza dirimessione è infatti quella con cui il giudice autorizza l’intercettazione e, quindi, l’intrusione nella sfera di riservatezza,non anche la motivazione relativa all’uso di impianti esterni”.Si evidenzia, inoltre, sotto altro profilo, che ”la nuova formulazione dell’art. 240 c.p.p., non costituisca un argomento dirimente a favore della tesi della assoluta inutilizzabilità nel procedimento di prevenzione delle intercettazioni eseguite in violazione delle prescrizioni dell’art. 268 c.p.p., comma 3, cosìcome sostenuto dalle Sezioni unite nella citata sentenza Racco”. Infatti sottolinea l’ordinanza di rimessione il riferimento contenuto nell’art. 240 cit. ai dati e contenuti di conversazioni o comunicazioni relativi a traffico telefonico ”illegalmente formati” e destinati alla distruzione non può essere estesoanche alle ipotesi di inutilizzabilità di cui all’art. 271 cod. proc.pen. La disposizione in esame, introdotta dal D.L. n. 259 del2006, convertito con L. n. 281 del 2006, si riferisce secondola Sezione rimettente ”a condotte di formazione e acquisizione illegale, espressione da intendere nel senso di condotteillecite, poste in essere attraverso la perpetrazione di un reato.In altri termini, il procedimento previsto dall’art. 240 cod.proc. pen. che porta alla distruzione del materiale, ha adoggetto quelle che possono essere definite ”captazioni illecite” e che, secondo autorevole dottrina, devono essere distinte dalle intercettazioni in senso tecnico, termine che va riservato alle captazioni operate dall’autorità giudiziaria e disciplinate dagli artt. 266 c.p.p. e segg. Appare allora difficile ricomprendere nella definizione di captazioni illecite le intercettazioni regolarmente autorizzate dal giudice, ma eseguite in violazione degli obblighi motivazionali previsti dell’art. 268 c.p.p.,comma 3”.5. Il 16 marzo 2010, infine, il Procuratore generale pressoquesta Corte ha rassegnato nuova, articolata requisitoria, nella quale, dato atto della sopravvenuta decisione delle Sezioniunite Racco, ha chiesto annullarsi con rinvio il provvedimentoimpugnato con riferimento alla posizione di Pa. Lo., Ca. Ca., Li.D’E. Pa. Sc. e Mi. Ar.; annullarsi senza rinvio la decisioneimpugnata nei confronti di Da. Pa. Me. limitatamente allamisura personale ed alla cauzione, in quanto nel frattempodeceduto e disporsi l’annullamento con rinvio quanto allamisura patrimoniale; e dichiararsi, infine, inammissibile il ricorso proposto nell’interesse di Gi. Gi. Ca.
Considerato in diritto1. Come già evidenziato dalla ordinanza di rimessione delricorso alle Sezioni Unite di questa Corte, si registra unpersistente contrasto di giurisprudenza in ordine alla questione se possano o meno essere utilizzati, nell’ambito del procedimento di prevenzione, i risultati di intercettazioni dichiarate
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inutilizzabili nel giudizio di cognizione. Secondo un primoorientamento, infatti, la inutilizzabilità delle intercettazioni nelgiudizio di cognizione non preclude la loro utilizzabilità nelprocedimento di prevenzione, se non in presenza di vizi tali dadeterminare una patologica inutilizzabilità; come accade, adesempio, quando siano violate le regole indicate dall’art. 15Cost. In ogni altro caso si è affermato i risultati delleintercettazioni inutilizzabili possono essere acquisiti e valutatinel processo di prevenzione. Si è in particolare sottolineatoche, ferma restando la autonomia fra i due giudizi, che conoscono regole probatorie diverse, giustificabili in ragione delladiversità del rispettivo oggetto, possono configurarsi dei limitialla utilizzazione, nel procedimento di prevenzione, di materiale acquisito nel processo penale, ”in presenza di vizi che, adesempio, determinino una ”patologica” inutilizzabilità”. Il che,proiettato sul tema delle intercettazioni, induce a distingueretra la inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni che abbiano violato le ”regole e i presupposti previsti direttamentedall’art. 15 Cost., sicuramente applicabili anche nel processo diprevenzione”, e la inutilizzabilità dipendente dalla mancanza dimotivazione del provvedimento con il quale viene autorizzatol’impiego di impianti diversi da quelli installati presso la procura della Repubblica, che, invece, non precluderebbe la utilizzazione dei risultati delle intercettazioni ai fini del processo diprevenzione. Si tratterebbe, infatti, ”di una inutilizzabilità che,ai fini dell’acquisizione nel giudizio di prevenzione, non rileva,in quanto riguarda una regola interna al processo penale, chenon è in grado di proiettare i suoi effetti nell’ambito delleregole probatorie del regime della prevenzione. Con termineatecnico si è puntualizzato potrebbe parlarsi di una inutilizzabilità specifica del processo penale, nel senso che si tratta diun vizio relativo che non intacca in maniera sostanziale lavalidità della prova che è stata disposta e che per questaragione può essere acquisita nel giudizio di prevenzione peressere valutata sulla base del diverso regime probatorio” (v., intal senso, Sez. VI, 30 settembre 2005, n. 39953; Sez. VI, 25ottobre 2007, n. 1161; Sez. II, 28 maggio 2008, n. 25919).Secondo un diverso orientamento, le intercettazioni dichiarate inutilizzabili, anche nella ipotesi in cui la inutilizzabilità siastata pronunciata per difetto di adeguata motivazione sull’indisponibilità degli impianti interni, non possono essere utilizzateneanche nel procedimento di prevenzione, trattandosi di prove illegali, assunte in violazione dei diritti dei cittadini garantitidai principi costituzionali. Le intercettazioni che non rispettano le regole poste a garanzia della libertà e segretezza dellecomunicazioni, secondo le previsioni dettate dall’art. 15 Cost.,vanno infatti ritenute illegali ”al di là della sanzione che illegislatore denomina inutilizzabilità”, e pertanto i relativi risultati non sono suscettibili di apprezzamento, anche al di fuoridel processo penale. ”La ”illegalità” delle intercettazioni rendequindi non valutabile quella prova in qualsiasi tipo di procedimento”, con ovvi riverberi anche agli effetti del procedimentodi prevenzione (Sez. I, 15 giugno 2007, n. 29688). Nel medesimo senso, si è affermato, criticando l’opposto orientamento,che la distinzione tra inutilizzabilità patologica, limitata alle
ipotesi di intercettazione effettuata in violazione dell’art. 15Cost., perché priva della autorizzazione legale, ed inutilizzabilità ”non patologica”, che caratterizzerebbe la ipotesi di assenzadi motivazione del decreto del pubblico ministero circa lautilizzazione di impianti extra moenia, in quanto concernenteaspetto meramente esecutivo delle operazioni, risulterebbeuna distinzione ”gratuita”. Infatti, riprendendo, adesivamente,gli argomenti utilizzati nella sentenza delle Sezioni unite Racco,di cui si dirà fra breve, si è affermato che ”il sacrificio dellasfera privata altrui è consentito dall’art. 15 Cost., soltanto peratto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilitedalla legge. Ne consegue si è aggiunto che le disposizionidel codice procedurale apprestano la garanzia di legge richiesta dalla Costituzione. Ed il divieto di utilizzabilità dei risultatidi intercettazione per questa ragione ha la stessa insuperabileratio anche nel procedimento di prevenzione” (Sez. V, 5 febbraio 2009, n. 8538).Sul tema, va infine rammentato il recente arresto di questeSezioni unite sul finitimo versante della estensione della inutilizzabilità delle intercettazioni, dichiarate inutilizzabili nel giudizio di cognizione, anche agli effetti del procedimento di riparazione per ingiusta detenzione (Sez. un., 30 ottobre 2008, n. 29,Racco). Pronuncia, questa, che, come si è già rammentato inparte narrativa, aveva indotto a restituire il ricorso alla Sezione rimettente, avuto riguardo al novum rappresentato dalrelativo principio di diritto, secondo il quale ”l’inutilizzabilitàdei risultati delle intercettazioni, accertata nel giudizio penale,ha effetti anche nel giudizio promosso per ottenere la riparazione per ingiusta detenzione”. Nel frangente, al lume dellaconsolidata giurisprudenza costituzionale, si è rilevato che, ”alcospetto di intercettazioni eseguite fuori dei casi previsti dallalegge ovvero in violazione degli artt. 267 e 268 commi 1 e 3c.p.p., si versa in ipotesi di chiara ”illegalità” (...) donde lacondivisibile affermazione che, costituendo la disciplina delleintercettazioni concreta attuazione del precetto costituzionale, in quanto attuativa delle garanzie da esso richieste a presidio della libertà e della segretezza delle comunicazioni, la suainosservanza deve determinare la totale ”espunzione” dal materiale processuale delle intercettazioni illegittime, che si concreta nella loro giuridica inutilizzabilità e nella ”fisica eliminazione””.2. La disamina della questione sottoposta all’esame di questeSezioni Unite non può prescindere dalla rievocazione dei passaggi più significativi che hanno contrassegnato la evoluzionedella giurisprudenza costituzionale soffermatasi sul tema edella corrispondente evoluzione subita dal quadro normativodi riferimento. Il punto essenziale di partenza è rappresentatodalla fondamentale sentenza n. 34 del 1973, con la quale ilgiudice delle leggi tracciò i confini costituzionalmente compatibili delle intercettazioni delle comunicazioni all’epoca telefoniche nel quadro del necessario bilanciamento tra le esigenze di prevenzione e repressione dei reati, da un lato, e delfondamentale diritto alla sfera della riservatezza presidiato,come valore fondamentale della persona, dall’art. 15 dellaCarta costituzionale. La Corte, infatti, ebbe a sottolineare
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come nel sistema processuale all’epoca vigente, per comenovellato ad opera della legge 18 giugno 1955, n. 517, intesaproprio ad armonizzare il potere di intercettazione della polizia giudiziaria al dettato costituzionale, ”la compressione deldiritto alla riservatezza delle comunicazioni telefoniche, chel’intercettazione innegabilmente comporta, non resta(va) affidata all’organo di polizia, ma si attua(va) sotto il diretto controllo del giudice”, al quale competeva di adottare il relativoprovvedimento autorizzatorio, debitamente motivato, quantoa presupposti e durata delle operazioni. Ma il rispetto delparametro di costituzionalità sottolineò la Corte ”nontrova soddisfazione solo nell’obbligo della puntuale motivazione del decreto dell’autorità giudiziaria. Altre garanzie sonorichieste: a) garanzie che attengono alla predisposizione anchemateriale dei servizi tecnici necessari per le intercettazionitelefoniche, in modo che l’autorità giudiziaria possa esercitareanche di fatto il controllo necessario ad assicurare che siproceda alle intercettazioni autorizzate, solo a queste e solonei limiti dell’autorizzazione; b) garanzie di ordine giuridicoche attengono al controllo sulla legittimità del decreto diautorizzazione ed ai limiti entro i quali il materiale raccoltoattraverso le intercettazioni sia utilizzabile nel processo”. Formulandosi, al tempo stesso, ”l’auspicio che si realizzino opportuni interventi legislativi idonei ad attuare anche sul pianotecnico le condizioni necessarie all’effettivo controllo di cuiinnanzi si è detto”. La Corte, però ed il punto assume nonpoco significato ai fini che qui interessano non mancò diporre in risalto quelle che dovevano essere le conseguenze,per così dire ”sanzonatorie”, che dovevano scaturire dal sistema processuale, ove fossero state eluse le garanzie che dovevano assistere le attività di intercettazione, enunciando, a talproposito, ”il principio secondo il quale attività compiute indispregio dei fondamentali diritti del cittadino non possonoessere assunte di per sé a giustificazione ed a fondamento diatti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito”. Ebbene, evocando a comparazionela disciplina, all’epoca di ”recente formulazione”, enunciatanell’ultima parte del terzo comma dell’art. 304 cod. proc. pen.1930, ove si escludeva la ”utilizzabilità” delle dichiarazioni resedall’imputato prima della nomina del difensore di fiducia, laCorte sottolineò come l’identico epilogo potesse configurarsiquale specifica garanzia, che l’indicato principio legittimava eche il sistema non precludeva. Un assunto, questo, ribaditoanche nella successiva sentenza n. 120 del 1975, ove si sottolineò come le intercettazioni illegittime ”sono assolutamenteinidonee a produrre alcun effetto, anche se raccolte primadella entrata in vigore della legge” 8 aprile 1974, n. 98, adottata proprio per adeguare la disciplina codicistica dell’epoca aiprincipi enunciati dalla Corte nella richiamata sentenza n. 34del 1973.3. Già da tutto ciò possono trarsi alcuni significativi corollari.Nella prospettiva additata dalla Corte, nella più volte citatasentenza n. 34 del 1973 e poi ribadita in altre numerosepronunce (v. le ordinanze n. 304 del 2000, n. 259 del 2001,209 del 2004 e n. 443 del 2004), la previsione normativa che
privilegia, ai fini della effettuazione delle operazioni di intercettazione, la utilizzazione degli impianti esistenti presso la procura della Repubblica, non rappresenta un elemento estraneoalla sfera delle garanzie di ”legalità” che l’ordinamento deveapprontare secondo il dettato costituzionale. Se, infatti, l’art.15 della Carta fondamentale prevede che la libertà e la segretezza di ogni forma di comunicazione rappresentano un dirittoinviolabile della persona, sancendo che qualsiasi limitazionepossa avvenire soltanto per atto motivato della autorità giudiziaria e ”con le garanzie stabilite dalla legge”, ciò significa che,ove il legislatore abbia individuato un determinato perimetroentro il quale quelle garanzie devono trovare soddisfacimento,non potranno essere arbitrariamente resecate, nel quadrodella prospettiva costituzionale, previsioni normative che, proprio perché specificamente destinate a concretare il parametro di costituzionalità, coinvolgano non soltanto il provvedimento autorizzatorio, ma anche le modalità esecutive delleoperazioni di un mezzo destinato a ”limitare” un diritto fondamentale. L’avere il legislatore, tanto nel vecchio codice che nelnuovo, ”privilegiato, per l’effettuazione delle operazioni di intercettazione, l’impiego degli apparati esistenti negli uffici giudiziari dettando una disciplina volta a circoscrivere, conapposite garanzie, l’uso di impianti esterni non può qualificarsi, in sé, come scelta arbitraria, avuto riguardo anche allaparticolare invasività del mezzo nella sfera della segretezza elibertà delle comunicazioni costituzionalmente presidiata: eciò proprio perché si tratta di scelta finalizzata ad evitare chegli organi deputati alla esecuzione delle operazioni di intercettazione ed al relativo ascolto possano operare controlli sultraffico telefonico, al di fuori di una specifica e puntuale verificada parte della autorità giudiziaria” (v., da ultimo, la citataordinanza della Corte costituzionale n. 443 del 2004).Se è, dunque, la legge a dover prevedere le ”garanzie” cui èsubordinata la legittimità delle intercettazioni; e se, ancora, lescelte a tal fine operate si collocano nel quadro del ragionevole esercizio della discrezionalità legislativa, saldandosi, anzi, aduna esigenza (controllo della esecuzione delle operazioni daparte della autorità giudiziaria) sottolineata dalla stessa Cortecostituzionale, ne deriva che una interpretazione ”riduttiva”del complesso di tali garanzie quale è quello che la Sezionerimettente implicitamente propugna, svalutando il momentoesecutivo rispetto a quello autorizzatorio si porrebbe intermini sostanzialmente ”abrogativi” rispetto a scelte chiarenella loro ormai lontana genesi (di conformazione costituzionale del sistema) e nella stessa perdurante attualità.4. L’altro simmetrico profilo additato dalla richiamata sentenza n. 34 del 1973, e prontamente recepito dal legislatore, hariguardato la ”definizione” (prescrittiva) delle conseguenze cuiassoggettare i risultati delle intercettazioni effettuate al di fuoridelle garanzie di legalità, stabilendosi per essi l’effetto dellarelativa ”inutilizzabilità”. Di ”Divieto di utilizzazione delle intercettazioni illecite” parlava la rubrica dell’art. 226quinquiesdel codice di procedura penale del 1930, così come introdotto dall’art. 5 della legge 8 aprile 1974, n. 98, e di ”Divieti diutilizzazione” fa menzione pure la rubrica dell’art. 271 del
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codice vigente, richiamando, fra le relative ipotesi, anche quella che qui interessa concernente la mancata osservanzadelle disposizioni previste dall’art. 268, comma 3, in tema dioperazioni eseguite extra moenia. La inutilizzabilità, rappresenta, dunque, una sorta di ”filo rosso” che collega fra loro lafondamentale sentenza della Corte costituzionale di cui si èdetto; la relativa ”attuazione” normativa, operata, di lì a poco,con la novella sulle intercettazioni, inserita nel corpo del vecchio codice di procedura; la scelta, infine, di mantenere, edanzi allargare, quella particolare categoria di sanzione processuale, a tutti i casi di prova vietata dalla legge, fra i quali,pertanto, le ipotesi di intercettazioni ”illegittime” finisconoper atteggiarsi alla stregua di una species rispetto al genus.Ebbene, due aspetti, fra loro strettamente connessi ed interagenti, varrano a chiarire le ragioni per le quali ”la sanzione diinutilizzabilità di cui all’art. 271 c.p.p.” ”non può derubricarsi se non in termini costituzionalmente discutibili a mero connotato endoprocessuale, tutt’interno, cioè, al processo penale” (v. la sentenza Racco, già citata). Da un lato, infatti, dovràriflettersi sulle ”ragioni” storiche per le quali si è avvertital’esigenza di introdurre, per specifici atti processuali, qualiquelli destinati a svolgere una funzione probatoria, una peculiare categoria di ”invalidità”, in aggiunta a quelle già elaboratedalla tradizione codicistica. Dall’altro, e di riflesso, occorreràesaminare l’essenza e la funzione di tale ”fenomeno” squisitamente processuale, per verificare se da esso residui e in chemisura un quid ”esportabile” al di fuori del processo penale.Quanto al primo aspetto, uno spunto ricostruttivo di significativo interesse è offerto dalla Relazione al Progetto preliminaredel nuovo codice, laddove ha puntualizzato le ragioni dellascelta posta a base della previsione dettata dall’art. 191, comma 1, ove si è introdotto il principio generale secondo cui le”prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge nonpossono essere utilizzate”. Dopo aver, infatti rievocato la nonassoluta novità del tema già presente nel vecchio codicesotto gli artt. 304, terzo comma, e 226quinquies e rammentato gli apporti offerti dalla più volte citata sentenza n. 34 del1973 della Corte costituzionale, la Relazione ha in particolaresottolineato come nella dottrina processualistica fosse datempo particolarmente avvertita ”una profonda insoddisfazione circa il modo di operare della nullità in rapporto a divietiprobatori che il regime delle sanatorie costringe a ritenerecome non scritti, quando è acquisita una prova contra legem(...) ed il vizio non venga tempestivamente eccepito”. Da qui lascelta di delineare ”un regime normativo che esclude in viagenerale l’utilizzabilità delle prove acquisite in violazione diuno specifico divieto probatorio. Anche quando le norme diparte speciale non prevedono espressamente alcuna sanzione,l’inutilizzabilità può desumersi dall’art. 191 comma 1 là dovesiano configurabili veri e propri divieti probatori” (v. Relazione, cit. pag. 61).Ciò sta dunque a significare che, essendo il diritto alla provaun connotato ineludibile del nuovo processo penale, assurto alrango di paradigma del parametro costituzionale sul ”giustoprocesso”, qualsiasi divieto probatorio positivamente intro
dotto dal legislatore può spiegarsi solo nell’ottica di preservare equivalenti valori, anch’essi di rango costituzionale. Ne èprova significativa, ad esempio, il ”caso” affrontato dalla Cortecostituzionale nella sentenza n. 229 del 1998. Chiamata infattia pronunciarsi su una questione di legittimità costituzionaledell’art. 103, comma 6, cod. proc. pen., sollevata nella parte incui tale disposizione non prevedeva ”il divieto di sottoporre asequestro gli scritti formati dall’imputato (e dall’indagato) appositamente ed esclusivamente come appunto per facilitare ladifesa negli interrogatori” nella specie, documenti sequestratinel corso di una perquisizione eseguita nella cella, ove l’imputato si trovava ristretto la Corte ritenne superflua la pronuncia additiva richiesta, in quanto i documenti sequestrati dovevano comunque ritenersi ”inutilizzabili per la parte concernente la tutela del diritto di difesa personale, trattandosi diprove illecitamente acquisite (art. 191 cod. proc. pen.)”. Sicché, osservò la Corte, la supposta lacuna normativa si rivelava”conseguenza, non soltanto di un’errata interpretazione degliartt. 247 e 253 del codice di procedura penale, ma anche diuna palese violazione dei principi costituzionali posti a tuteladella persona umana”. Non è, dunque, l’atto processuale in séad essere ”invalidato”, quanto sono, piuttosto, i relativi effettiche vengono ad essere direttamente neutralizzati. Ma se ciò èvero, ne deriva che la stessa ragione ”storica,” che ha indotto illegislatore a sancire la inutilizzabilità degli atti compiuti inviolazione di divieti probatori, impedisce di ritenere ”utilizzabili” quegli stessi atti nell’ambito di ”altri” procedimenti giurisdizionali, giacché, ove così non fosse, la prova, vietata pertutelare come si è detto altri valori costituzionalmentepreservati, troverebbe una inammissibile ”reviviscenza,” eludendo la stessa ragion d’essere della inutilizzabilità. A differenza, dunque, dei ”limiti” probatori civili, i divieti probatoripenali producono i loro effetti, se violati, in qualsiasi settoredell’ordinamento, proprio perché la logica che presiede allagaranzia della inutilizzabilità non è interna ed esclusiva al processo penale.A proposito, poi, della ”fenomenologia” della inutilizzabilità da taluno descritta, rievocando categorie di sapore civilistico,come un difetto funzionale della ”causa” dell’atto probatorio,vale a dire come una inidoneità dell’atto stesso a svolgere lafunzione che l’ordinamento processuale gli assegna la giurisprudenza di questa Corte ha in più occasioni teso a distinguere tra una inutilizzabilità ”patologica”, quale è quella che derivadalla violazione di divieti probatori, ed una inutilizzabilità definita ”fisiologica”, in quanto correlata alle caratteristiche delprocesso ed alla distinzione tra atti delle indagini e provedibattimentali (v. tra le tante, specie in tema di giudizio abbreviato, Sez. II, 7 novembre 2007, n. 46023; Sez. V, 9 maggio2006, n. 19388; Sez. V, 23 marzo 2005, n. 34686). E’ evidenteche per quest’ultima non si pongono problemi di sorta circa lapossibilità di ”utilizzare”, come elementi di valutazione e digiudizio, anche gli atti delle indagini ai fini del processo diprevenzione, posto che i ”limiti” sono soltanto interni edesclusivi al procedimento penale. Ma, a ben guardare, anche inipotesi riconducibili alla cosiddetta inutilizzabilità patologica
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possono residuare spazi non ”coperti” da questa peculiaresanzione processuale. Così, ad esempio, il mancato avvertimento di cui all’art. 64, comma 3, lettera e), cod. proc. pen.,rende inutilizzabili le dichiarazioni eventualmente rese ergaalios, ma non quelle contra se, consentendo di reputare dunque più pertinente, semmai, una distinzione tra inutilizzabilità”assoluta” rispetto ad altra, per così dire, ”relativa”. Ciò cheperò rileva è che la prova vietata e tale deve ritenersi laintercettazione inutilizzabile a norma dell’art. 271 cod. proc.pen. è ”inutilizzabile” tout court, senza aggettivi, limiti oderoghe di sorta, che ne consentano un qualsivoglia ”recupero”, sia pure in ambiti ed a fini diversi da quelli del processopenale. Esce dunque rafforzata, anche per questa via, l’esegesiposta a base della sentenza Racco, il cui principio di dirittodeve ritenersi senz’altro valido anche sul versante del processo di prevenzione.5. A quest’ultimo proposito va in particolare rammentatocome, secondo l’ordinanza di rimessione, sia proprio l’insistitorichiamo alla ”autonomia” del procedimento di prevenzionerispetto al processo penale a giustificare la utilizzabilità, inquella sede, dei risultati delle intercettazioni inutilizzabili nelprocesso penale per carenza di motivazione del provvedimento che autorizza l’uso di impianti esterni, posto che tale sanzione risulterebbe pertinente, non alla sfera protetta dall’art.15 Cost., ma ad un profilo esecutivo, tutto ”interno” al processo penale. L’autonomia del procedimento di prevenzionelegittimerebbe, dunque, una sorta di ”degradazione” della inutilizzabilità, dovendosi reputare quella sanzione irreparabile edemolitoria di qualsiasi effetto probatorio come giustificabileai fini dell’accertamento della responsabilità sulla regiudicanda,ma non confacente agli effetti dello scrutinio che sottostà allaapplicazione di una misura di prevenzione.L’assunto non è però condivisibile, in quanto trae alimento dauna lettura non corretta del concetto di ”autonomia” checontraddistingue i due ”tipi” di procedimento posti a raffronto. In linea di principio, l’autonomia delle sfere decisorie eprocedimentali sta a denotare la reciproca ”insensibilità” delleacquisizioni dell’una sede rispetto a quelle dell’altra e, dunque,l’assenza di connotati di pregiudizialità dei relativi moduli digiudizio. E’ infatti consolidato l’orientamento secondo il quale,nel corso del procedimento di prevenzione, il giudice di merito è legittimato a servirsi di elementi di prova o di tipoindiziario tratti da procedimenti penali, anche se non ancoradefiniti con sentenza irrevocabile, e, in tale ultimo caso, anchea prescindere dalla natura delle statuizioni terminali in ordineall’accertamento della responsabilità. Sicché, pure l’assoluzione, anche se irrevocabile, dal delitto di cui all’art. 416bis cod.pen., non comporta la automatica esclusione della pericolositàsociale, potendosi il relativo scrutinio fondare sia sugli stessifatti storici in ordine ai quali è stata esclusa la configurabilità diilliceità penale, sia su altri fatti acquisiti o autonomamentedesunti nel giudizio di prevenzione. Ciò che rileva, si è osservato, è che il giudizio di pericolosità sia fondato su elementicerti, dai quali possa legittimamente farsi discendere l’affermazione dell’esistenza della pericolosità, sulla base di un ragiona
mento immune da vizi, fermo restando che gli indizi sulla cuibase formulare il giudizio di pericolosità non devono necessariamente avere i caratteri di gravità, precisione e concordanzarichiesti dall’art. 192 cod. proc. pen. (cfr., ex plurimis, Sez. I, 6novembre 2008, n. 47764; Sez. II, 28 maggio 2008, n. 25919;Sez. I, 13 giugno 2007, n. 27655; Sez. VI, 30 settembre 2005, n.39953).Nella medesima linea, d’altra parte, si è collocata pure laCorte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale (Grande Camera, 1 marzo 6 aprile 2000, Labita c. Italia) ha ritenuto non incontrasto con i principi della CEDU il fatto che le misure diprevenzione ”siano applicate nei confronti di individui sospettati di appartenere alla mafia anche prima della loro condanna,poiché tendono ad impedire il compimento di atti criminali”;mentre ”il proscioglimento eventualmente sopravvenuto nonle priva necessariamente di ogni ragion d’essere: infatti, elementi concreti raccolti durante un processo, anche se insufficienti per giungere ad una condanna, possono tuttavia giustificare dei ragionevoli dubbi che l’individuo in questione possa infuturo commettere dei reati penali”. Il tutto in linea con ”leprofonde differenze, di procedimento e di sostanza” che èpossibile intravedere tra le due sedi, penale e di prevenzione:”la prima ricollegata a un determinato fattoreato oggetto diverifica nel processo, a seguito dell’esercizio della azione penale; la seconda riferita a una complessiva notazione di pericolosità, espressa mediante condotte che non necessariamentecostituiscono reato e che sono (...) verificate in un procedimento che, pur se giurisdizionalizzato, vede quali titolari delibazione” di prevenzione soggetti diversi, appartenenti all’amministrazione” (v. Corte cost., sentenza n. 275 del 1996).Discende da tutto ciò che, il vero tratto distintivo che qualifical’autonomia del procedimento di prevenzione dal processopenale, va intravisto nella diversa ”grammatica probatoria” chedeve sostenere i rispettivi giudizi: una diversità, però, che,proprio in quanto riferita esclusivamente al ”modo d’essere”degli elementi di apprezzamento del ”merito”, non incideaffatto sulla legittimità delle acquisizioni, a prescindere evidentemente dalla sede in cui le stesse siano operate. Laprova inutilizzabile, ad esempio perché ”estorta”, e acquisita,dunque, in violazione dell’art. 188 del codice di rito, non può”proiettarsi” sul terreno della prevenzione, al pari di qualsiasialtra ipotesi di prova ”illegale” in quanto assunta in contrastocon i divieti di legge. Pretendere, dunque, di fondare su di unmalinteso concetto di ”autonomia” dei procedimenti la possibilità di distinguere il regime di utilizzazione di prove che lalegge processuale qualifica come illegittimamente assunte inun’area, per di più, costituzionalmente presidiata, quale è quella garantita dall’art. 15 Cost. si rivela operazione concettualmente scorretta, in quanto è solo la legge che ha il compito didelineare ( e, quindi, eventualmente circoscrivere) la portatadegli effetti demolitori che scaturiscono dalla sanzione di inutilizzabilità, con cui la legge stessa ha inteso presidiare la violazione dei divieti probatori.6. D’altra parte, i connotati di sicura giurisdizionalità checaratterizzano il processo di prevenzione si sono venuti ulte
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riormente ad esaltare alla luce dei più recenti apporti chehanno contrassegnato la giurisprudenza della Corte di Strasburgo e, di riflesso, quella costituzionale in materia. La Cortedi Strasburgo, come è noto, ha in varie occasioni avuto mododi censurare la previsione secondo la quale il procedimentoper l’applicazione delle misure di prevenzione si celebra incamera di consiglio, reputandola in contrasto con l’art. 6,paragrafo 1, della CEDU, nella parte in cui stabilisce che ”ognipersona ha diritto che la sua causa sia esaminata (...) pubblicamente e in un tempo ragionevole, da parte di un tribunaleindipendente e imparziale (...)”. Con giurisprudenza ormaiconsolidata, infatti, la Corte ha ritenuto sussistente la violazione dell’indicato principio della Convenzione europea, in quanto ha ritenuto ”essenziale” a tal fine che ”le persone coinvoltein un procedimento di applicazione delle misure di prevenzione si vedano almeno offrire la possibilità di sollecitare unapubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunalie delle corti di appello”. Una conclusione, questa, cui la stessaCorte è pervenuta rievocando la propria giurisprudenza, allume della quale la pubblicità delle procedure giudiziarie tutelale persone soggette alla giurisdizione contro una giustizia segreta, che sfugge al controllo del pubblico e costituisce unostrumento per preservare la fiducia nei giudici. Con la trasparenza che essa conferisce alla amministrazione della giustizia ha osservato in varie occasioni la Corte di Strasburgo contribuisce quindi a realizzare lo scopo dell’art. 6, paragrafo 1, dellaCEDU che è proprio quello di realizzare il ”giusto processo”(v. sentenza 15 novembre 2007, Bocellari e Rizza c. Italia;sentenza 8 luglio 2008, Pierre ed altri c. Italia; sentenza 5gennaio 2010, Bongiorno e. Italia).Il tema è stato ripreso e ”recepito” anche dalla Corte costituzionale, la quale, proprio in aderenza alla indicata giurisprudenza della Corte di Strasburgo e della interpretazione daessa data alla fonte convenzionale ormai assurta al rango difonte interposta rispetto all’art. 117, primo comma, Cost.,secondo una consolidata giurisprudenza costituzionale (v.Corte cost., le decisioni nn. 348 e 349 del 2007, 39 del 2008,311 e 317 del 2009) ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 e dell’art.2ter della legge 31 maggio 1965, n. 575, nella parte in cui nonprevedono che, su istanza degli interessati, il procedimentoper l’applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davantial tribunale e alla corte di appello, nelle forme dell’udienzapubblica (v. sentenza n. 93 del 2010). Le osservazioni dellaCorte di Strasburgo ha in particolare osservato il giudicedelle leggi ”colgono, d’altro canto, le specifiche peculiarità delprocedimento di prevenzione, che valgono a differenziarlo daun complesso di altre procedure camerali. Si tratta cioè hapuntualizzato la Corte di un procedimento all’esito del qualeil giudice è chiamato ad esprimere un giudizio di merito,idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale subeni dell’individuo costituzionalmente tutelati, quali la libertàpersonale (art. 13, primo comma, Cost.) e il patrimonio (quest’ultimo, tra l’altro, aggredito in modo normalmente ”massiccio” e in componenti di particolare rilievo (...)), nonché la
stessa libertà di iniziativa economica, incisa dalle misure anchegravemente ”inabilitanti” previste a carico del soggetto cui èapplicata la misura di prevenzione (...). Il che ha concluso laCorte conferisce specifico risalto alle esigenze alla cui soddisfazione il principio di pubblicità delle udienze è preordinato”.La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo,da un lato, e quella costituzionale, dall’altro, impongono, dunque, una ”lettura” del procedimento di prevenzione che sia inlinea con i principi del ”giusto processo.” Il che, evidentemente, avvalora la tesi di quanti ritengono preclusa la ”fruibilità”,anche se ai limitati fini del giudizio di prevenzione, di intercettazioni inutilizzabili a norma dell’art. 271 del codice di rito, inquanto la inosservanza delle relative garanzie di legalità finirebbe, altrimenti, per contaminare e compromettere il ”giustoprocedimento di prevenzione”, che tale può definirsi soltantose basato su atti ”legalmente” acquisiti.7. L’ultimo profilo sul quale la sezione rimettente si concentra per ”aggredire” la sentenza Racco e dedurre la inapplicabilità dei relativi dicta all’odierno tema, pertinente al giudizio diprevenzione, riguarda il profilo della distruzione delle intercettazioni illegittime, in riferimento alla disciplina dettata dall’art.240 cod. proc. pen., come modificato dall’art. 1 del decretolegge 22 settembre 2006, n. 259 (Disposizioni urgenti per ilriordino della normativa in tema di intercettazioni telefoniche), convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre2006, n. 281. Ad avviso della sezione rimettente, infatti, lanuova formulazione dell’art. 240 del codice di rito non costituirebbe un argomento dirimente a favore della tesi dellaassoluta inutilizzabilità nel processo di prevenzione delle intercettazioni eseguite in violazione delle prescrizioni dell’art. 268,comma 3, cod. proc. pen. Si osserva, infatti, che la nuovadisciplina, che prevede la distruzione del materiale concernente dati e contenuti di conversazioni o comunicazioni relativi atraffico telefonico ”illegalmente formati”, ”si riferisce a condotte di formazione e acquisizione illegale, espressione osserva la ordinanza di rimessione da intendersi nel senso dicondotte illecite, poste in essere attraverso la perpetrazionedi un reato”. Ciò escluderebbe, dunque, la possibilità di ritenere comprese nel novero di siffatte ”captazioni illecite” ”leintercettazioni regolarmente autorizzate dal giudice ma eseguite in violazione degli obblighi motivazionali previsti dall’art.268 c.p.p. comma 3”.L’assunto è in sé condivisibile, in quanto in linea con la ratioche ha ispirato la novella e con la stessa lettera della legge, laquale, nel fare riferimento al concetto di ”illegalità” della attività acquisitiva, evoca, per l’appunto, una attività di assunzione didati e notizie preservate dall’art. 15 Cost., estranea all’ordinario procedimento che disciplina le intercettazioni. Sul punto,infatti, si è espressa in termini più che perspicui la stessa Cortecostituzionale, la quale, chiamata a pronunciarsi sulla disciplinain esame, ha avuto modo di censurare l’art. 240, commi 4, 5 e6, cod. proc. pen., come novellati, nella parte in cui la relativaprocedura di distruzione comprometteva il diritto al contraddittorio e di difesa, proprio di chi è incolpato in ragione dellaillegalità della attività di intercettazione. La Corte, infatti, ha
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avuto modo di sottolineare come la normativa oggetto discrutinio di costituzionalità ”è stata approvata per porre rimedio ad un dilagante e preoccupante fenomeno di violazionedella riservatezza, che deriva dalla incontrollata diffusione mediatica di dati e informazioni personali, sia provenienti daattività di raccolta e intercettazione legalmente autorizzate, sia fatto più grave, che riguarda direttamente il presente giudizio effettuate al di fuori dell’esercizio di ogni legittimo potere dapubblici ufficiali o da privati mossi da finalità diverse, checomunque non giustificano l’intrusione nella vita delle persone. La preoccupazione del legislatore ha sottolineato laCorte è stata quella di evitare che la doverosa osservanzadelle norme che impongono la pubblicità degli atti del processo possa risolversi in un ulteriore danno per le vittime dellaillecita interferenza, le quali, oltre ad aver subito indebiteintrusioni nella propria sfera personale, rimarrebbero esposte,per un lungo periodo, al rischio che il frutto dell’attività illegaledi informazione e intercettazione possa diventare strumentodi campagne diffamatorie e delegittimanti nei loro riguardi (...)L’intento di prevenire tali possibili abusi ha, dunque, conclusivamente rilevato la Corte ha indotto lo stesso legislatore adintrodurre una disciplina derogatoria rispetto alla normativaordinaria sulla conservazione del corpo di reato: i documenti,i supporti e gli atti concernenti dati e contenuti di conversazioni e comunicazioni, relativi a traffico telefonico e telematico, illegalmente formati e acquisiti, devono essere distrutti,per disposizione del giudice per le indagini preliminari, al piùpresto possibile, nell’ambito di un procedimento incidentalemolto rapido, che deve precedere la chiusura delle indaginipreliminari” (v. sentenza n. 173 del 2009).Può, quindi, ritenersi condivisibile l’assunto della Sezione rimettente di reputare inconferente, agli effetti che qui rilevano,il procedimento di distruzione delle intercettazioni ”illegali” dicui al nuovo testo dell’art. 240 cod. proc. pen., riferendosi lostesso alle ipotesi in cui i supporti e gli atti siano stati custoditiin quanto corpo di reato. Ma la stessa Sezione trascura però diconsiderare che è lo stesso art. 271, comma 3, cod. proc. pen.a stabilire che ”in ogni stato e grado del processo il giudicedispone che la documentazione delle intercettazioni previstedai commi 1 e 2 sia distrutta, salvo che costituisca corpo direato”. Dunque, la eliminazione ”fisica” della intercettazione”illegittima”, perché compiuta in violazione (anche soltanto)dell’art. 268, comma 3, dello stesso codice, era e resta l’epilogo ”ordinario”; mentre la ipotesi della intercettazione ”illegale”, che rappresentava la deroga alla distruzione, secondo laclausola di salvezza riferita al fatto che essa costituisse, appunto, ”corpo di reato”, trova ora previsione e disciplina nelladiversa sede offerta dal novellato art. 240.Avendo quindi il legislatore stabilito, accanto alla inutilizzabilitàdei risultati, la distruzione delle intercettazioni nei casi previstidal richiamato art. 271 cod. proc. pen., se ne deve dedurre secondo la più plastica delle evidenze che nelle ipotesi normativamente indicate, la volontà perseguita dalla legge è stataquella di escludere, non soltanto sul piano giuridico, ma financo su quello della ”materialità” degli atti, qualsiasi possibilità di
legittima fruizione di quelle acquisizioni: dunque, non soltantoai fini del processo, nel cui ambito le intercettazioni sono stateeffettuate, ma in qualsiasi altro procedimento, penale, civile,amministrativo o disciplinare che sia, posto che un diversoregime non potrebbe logicamente sostenersi, se non facendoleva sulla del tutto casuale ”non distruzione” di quegli atti esupporti.8. Tutto ciò non esclude, peraltro, la sussistenza di un diffuso”disagio” per il particolare rigore con il quale il legislatore haaccomunato, fra loro, sotto la medesima sanzione della inutilizzabilità, ipotesi obiettivamente diverse per ”gravità”, quali,da un lato, la illegittimità del provvedimento autorizzatoriodelle intercettazioni o, addirittura, la sua inesistenza, e, dall’altro, il ”semplice” difetto di motivazione del provvedimento delpubblico ministero che autorizza l’espletamento delle intercettazioni extra moenia. Un ”disagio”, quello di cui si è fattocenno, attestato dai vari contrasti di giurisprudenza che hannopiù volte richiesto l’intervento di queste Sezioni Unite, e dauna nutrita serie di questioni di legittimità costituzionale, tuttedisattese dalla Corte costituzionale. In particolare, si è in variecircostanze sottolineato la ”inattualità” delle ragioni a suotempo evidenziate nella più volte richiamata sentenza n. 34 del1973 della Corte costituzionale che avevano suggerito dicircondare di garanzie anche la fase esecutiva, per impedirepossibili abusi da parte della polizia giudiziaria. Ciò, sia infunzione dei ritrovati della tecnica (v., ad es., in tema di legittimità dell’ascolto ”remotizzato”, Sez. un.,26 giugno 2008, n.36359, Carli), sia in considerazione del diverso spettro digaranzie che sono invece previste, ad esempio, proprio intema di intercettazioni eseguite a fini di prevenzione, dall’art.16 della legge n. 646 del 1982. Si tratta di rilievi non privi disuggestione, ma ai quali non può che replicarsi negli stessitermini con i quali la Corte costituzionale ha respinto lecensure di legittimità delle linee di sistema che vengono qui indiscorso. A proposito, infatti, del carattere in assunto ”anacronistico” della disciplina dettata dall’art. 268, comma 3, cod.proc. pen., la Corte ha replicato come non fosse propriocompito così come non lo è di nessun giudice quello di””inseguire” il progresso tecnologico, valutando se esso rendanecessario od opportuno un adeguamento, o addirittura ilsuperamento delle originarie regole di cautela: trattandosi, alcontrario, di valutazione istituzionalmente rimessa al legislatore”. Allo stesso modo, ha soggiunto la Corte, ”rientra in unragionevole ambito di discrezionalità legislativa tenuto contodella pregnanza dei valori in gioco stabilire se la violazionedelle regole in questione debba essere o meno equiparata, sulpiano della sanzione processuale, alla carenza dell’autorizzazione e all’esecuzione delle intercettazioni al di fuori dei casiconsentiti dalla legge”. A proposito, infine, della (allora) denunciata disparità di trattamento, in parte qua, delle intercettazioni a fini di ricerca della prova rispetto alle intercettazionipreventive, la Corte non ha mancato di rilevare come ”affermare che la disciplina in tema di localizzazione degli impianti(...) è costituzionalmente compatibile, non equivalga a dire chesia addirittura costituzionalmente obbligata: ben potendo, al
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contrario, il legislatore modulare in maniera diversa in unventaglio di possibili alternative, caratterizzate da maggiore ominore ”rigidezza” i meccanismi di garanzia degli interessi ingioco” (v. la già citata ordinanza n. 443 del 2004). Si tratta,pertanto, di scelte normative, in ipotesi criticabili, ma, evidentemente, non manipolabili a livello ermeneutico.9. Deve in conclusione affermarsi il principio che le intercettazioni dichiarate inutilizzabili a norma dell’art. 271 cod. proc.pen. (nella specie, per mancata osservanza delle disposizionipreviste dall’art. 268, comma 3, dello stesso codice), cosìcome le prove inutilizzabili a norma dell’art. 191 cod. proc.pen., perché acquisite in violazione dei divieti stabiliti dallalegge, non sono suscettibili di utilizzazione agli effetti di qualsiasi tipo di giudizio, ivi compreso quello relativo alla applicazione di misure di prevenzione.10. Alla stregua, pertanto, dell’appena indicato principio didiritto e scendendo all’esame dei singoli ricorsi, il provvedimento oggetto di impugnativa deve essere annullato con rinvio nei confronti di Pa. Lo., Ca. Ca., Li. D’E., Pa. Sc., Mi. Ar. (oMi.), affinché, in sede di rinvio, venga rivalutato il quadrocomplessivo degli elementi acquisiti e verificata la relativa idoneità a fondare su di esso le statuizioni già adottate, previaespunzione, dalle acquisizioni a tal fine delibabili, delle risultanze scaturite dalle intercettazioni dichiarate inutilizzabili.Nei confronti di Da. Pa. Me. il decreto impugnato deve essereannullato senza rinvio per morte del ricorrente.Quanto a Gi. Gi. Ca., il relativo ricorso è palesemente inammissibile, essendosi il ricorrente limitato a formulare censuredel tutto generiche e fortemente orientate a conseguire unasemplice rivalutazione dei fatti posti a base della misura applicata. Il ricorrente deve conseguentemente essere condannatoal pagamento delle spese processuali ed al versamento allaCassa delle ammende di una somma che si stima equo determinare in Euro mille, alla luce dei principi affermati dalla Cortecostituzionale nella sentenza n. 186 del 2000.Deve da ultimo rilevarsi la palese inconsistenza del motivo diricorso, comune a Da. Pa. Me., Ca. Ca. e Pa. Sc., secondo ilquale l’art. 14 della legge n. 55 del 1990 consentirebbe ”diestendere le disposizioni di cui alla legge 575/65 sulle indaginie sull’applicazione delle misure di prevenzione a caratterepatrimoniale anche ai soggetti indiziati di altri reati diversi daquello di cui all’art. 416bis c.p. (art. 75 L. 685/75 poi sostituitodall’art. 74 d.P.R. 309/90) ma non consente l’estensione a talicategorie anche delle norme sull’applicazione delle misure diprevenzione a carattere personale (come è, invece, illegittimamente avvenuto nel caso di specie)”. Come, infatti, puntualmente rilevato dal Procuratore Generale requirente, con riferimento alle misure di prevenzione personali, l’art. 13 dellalegge 3 agosto 1988, n. 327, modificando il primo commadell’art. 19 della legge 22 maggio 1975, n. 152, ha stabilito chele disposizioni di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575, siapplichino anche alle persone indicate nell’art. 1, numeri 1) e2), della legge 27 dicembre 1956, n. 1423. Per effetto di talenorma sussiste, quindi, una completa equiparazione, in materia di misure di prevenzione personali, tra soggetti pericolosi
in quanto indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso o ad esse corrispondenti (pericolosità cosiddetta ”qualificata” ai sensi della legge n. 575 del 1965) e soggetti pericolosi inquanto abitualmente dediti a traffici delittuosi ovvero ad attività delittuose da cui, almeno in parte, traggano i mezzi di vita(pericolosità cosiddetta ”generica”, ai sensi della legge ”base”n. 1423 del 1956). Risultando quindi compresa in tale sferaapplicativa anche la condotta illecita di cui all’art. 74 del d.P.R.n. 309 del 1990, ne deriva che lo scrutinio di pericolosità”generica” legittima la applicazione delle conseguenti misure diprevenzione personali. Va d’altra parte osservato che la materia è stata di recente profondamente incisa dalle modificheintrodotte dal decretolegge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, ilquale, per quel che qui interessa, ha, da un lato, abrogato l’art.14 della legge n. 55 del 1990, dall’altro, introdotto modifiche alprimo comma dell’art. 19 della legge n.152 del 1975, malasciandone inalterata la portata precettiva. Da ciò la confermadella perdurante validità del consolidato orientamento dellagiurisprudenza di questa Corte, secondo il quale il rinvioenunciato dall’art. 19, primo comma, della citata legge n. 152del 1975 non ha carattere materiale o recettizio, ma è diordine formale, nel senso che, in difetto di una espressaesclusione o limitazione, deve ritenersi esteso a tutte le norme successivamente interpolate nell’attofonte, in sostituzione, modificazione o integrazione di quelle originarie. Donde laconclusione che, accanto alle misure di prevenzione personali,già pacificamente applicabili, a seguito della novella introdottadal d.l n. 92 del 2008, pure le misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca possono essere applicatenei confronti di soggetti ritenuti socialmente pericolosi inquanto abitualmente dediti a traffici delittuosi o che vivonoabitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose, a prescindere dalla tipologia dei reati in riferimento (cosiddetta pericolosità ”generica”) (Sez. I, 17 settembre 2008, n.36748; Sez. I, 5 febbraio 2009, n. 8510; Sez. 1,26 maggio 2009,n. 26751; Sez. II, 14 maggio 2009, n. 33597).Anche le restanti doglianze proposte dai ricorrenti si rivelanopalesemente inammissibili, sia perché sterilmente riproduttivedi censure già puntualmente disattese in sede di gravame dimerito, sia perché tutte concentrate su profili di mero fatto,evidentemente estranei al rigoroso perimetro entro il quale ècircoscritto il sindacato di legittimità in tema di misure diprevenzione.
P.Q.M.Dichiara inammissibile il ricorso di Gi. Gi. Ca. e condanna ilricorrente al pagamento delle spese processuali e della sommadi Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.Annulla senza rinvio il decreto impugnato nei confronti di Da.Pa. Me. per morte del ricorrente.Annulla il decreto impugnato nei confronti di Pa. Lo., Ca. Ca.,Li. D’E., Pa. Sc., Mi. Ar. (o Mi.) e rinvia per nuovo esame allaCorte di appello di Lecce.
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Newsletter n. 15 20 aprile 201040
CASSAZIONE PENALE TESTIMONIANZA
Quando è utilizzabile la testimonianza indiretta?
La Corte di Cassazione, Terza Sezione Penale , con la sentenza n. 12916 del 7 aprile 2010 ha ricordato che la testimonianza indiretta è utilizzabile (art. 195, comma 7, c.p.p.) solo incaso di irreperibilità del testimone primario, non anche nelcaso in cui ne risulti impossibile l’identificazione, atteso che lalegge prescindendo dalla volontà del dichiarante pone acarico della parte che abbia interesse all’utilizzazione dellatestimonianza indiretta o, in mancanza, del giudice, ai sensidell’art. 507 c.p.p., l’obbligo di compiere ogni accertamentoutile all’identificazione del testimone diretto, in vista del diritto delle parti di chiederne l’escussione (Cass. n. 32464/2001).
CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITÀ EUROPEETUTELA CONSUMATORI
Guida al Diritto, news online 16.04.2010
No alle spese di consegna per recesso da una venditaa distanza
I l consumatore che esercita legittimamente il proprio dirittodi recesso, cioè entro sette giorni dalla conclusione del contratto a distanza, non ha l’obbligo di pagare le spese di consegna. Queste, infatti, se già sostenute restano a carico delfornitore che dal cliente può pretendere, invece, solo le spesedi spedizione. La Corte di giustizia, con la sentenza di ieri sullacausa C511/08, ha così fornito un’interessante interpretazione della direttiva 97/7/Ce che tutela i consumatori in questatipologia di compravendite e che in Italia è stata recepita con ilDlgs 185/1999. (Pa.Ros.)
IN GAZZETTA OGGI
Guida al Diritto, news online 20.04.2010
CONTRATTI PUBBLICI: Esclusa dal codice la raccolta del risparmio
Sulla ”Gazzetta Ufficiale” n. 90 del 19 aprile 2010 è pubblicatoil decreto della Presidenza del consiglio dei ministri del 25gennaio 2010 sull’esclusione di determinati appalti dall’applicazione del codice dei contratti pubblici. In particolare, il provvedimento prevede che il Dlgs n. 163 del 2006, in attuazionedelle direttive 2004/17/Ce e 2004/18/Ce, non si applica ailavori attribuiti da enti aggiudicatari destinati a consentirel’esecuzione di alcuni servizi, come la raccolta del risparmiotramite i conti correnti ai prestiti per conto di banche e altriintermediari finanziari abilitati e quelli di investimento.
AVVOCATI 2416/04/2010
Avvocato d’affari e imprenditore insieme contro lacrisidi Antonello MartinezAvvocato, Studio Legale Martinez Novebaci
Il Venture capital ed il private equity possono fornire i mezzi disviluppo per le PMI con modelli di business vincenti.Dalla crisi emergono esperienze e modelli di business di successo, il venture capital può ulteriormente valorizzare impresemeritevoli generando valore per tutto il sistema Paese.L’essere Avvocato d’affari ti offre il raro privilegio di esserecollocato come al centro di una sensibilissima centralina chemonitorizza 24 ore al giorno le vitali dinamiche che pulsanoall’interno del sistema “azienda”; il che ti porta inevitabilmentead avere gli stessi suoi entusiasmi e patire le medesime paure,visto che entrambi sono accomunati dallo stesso tipo di alimentazione costituita da un cibo che si chiama adrenalina eche da questi viene ingerita al suo stato puro.Dal 2006 ad oggi è stato poi un continuo registrare dei picchiimpressionanti come in un elettrocardiogramma impazzito,aziende modello sconquassate dalla crisi e aziende nate con lamedesima crisi o che da questa hanno invece trovato il mododi moltiplicare i propri fatturati.L’Imprenditore italiano reagisce e mette in campo tutte le suecaratteristiche migliori: creatività, tenacia e una grandissimacapacità di andare a proporre soluzioni innovative il tuttoattraverso il denominatore comune della qualità, ma l’armavincente che oggi sembra fare la differenza è soprattutto laflessibilità, la capacità di investire in una intuizione e la possibilità di lasciare velocemente ciò che non risulta più proficuo oefficiente.Ed in questo, dal mio osservatorio, ho potuto notare cometalvolta le piccole e medie imprese abbiano dimostrato maggiore dinamismo e capacità di intraprendere analizzando rapidamente la situazione ed elaborarando una diagnosi per poiavviare in modo estremamente repentino l’adeguata terapia.Velocità che purtroppo spesso non trova spesso riscontro inalcune grandi aziende che, Risultano appesantite da processiinterni macchinosi e spesso non hanno avuto la fortuna/capacità di dotarsi di risorse manageriali in grado di saper rischiare,accettare l’errore ed eventualmente aggiustare il tiro in corsa.Ovviamente questa è la sensazione e non può certamenteessere considerata come un principio generale ed assolutoma, semplicemente, una prima analisi seppure suffragata darilevanti elementi statistici che costituiscono quello che glianalisti definiscono un campione significativo.Tralasciando gli esempi negativi voglio concludere, riportando,tra i tanti, due esempi in positivo tra le piccole e medieaziende che hanno saputo muoversi con velocità sorprendente assecondando il loro istinto.La prima è una società Siciliana, la V & B Corporation srl,
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Italian Luxure Contract, che produce mobili di altissimo livelloe qualità. L’imprenditore è un giovane di 30 anni, FrancescoBascio, il quale sul solco della tradizione familiare, ha proseguito nel medesimo settore dei mobili di prestigio ma ha saputodare una incredibile svolta di natura commerciale andando adindividuare nuovi mercati esteri come quello degli EmiratiArabi Uniti dove la sensibilità per lo stile Italiano e le cosebelle si accompagna ad una capacità di spesa estremamenteinteressante hanno permesso all’azienda di generare importantissime commesse in un arco di tempo brevissimo consentendo la creazione di un consorzio di 15 aziende artigianaliche ha trovato consistenti sbocchi per le sue merci ed ora è ingrado di investire ulteriormente nella propria crescita e nellavalorizzazione dei propri prodotti.Il secondo esempio è costituito dalla Value Group Spa, unasocietà costituita quattro anni orsono da due Soci che oggi sidividono il 95% del capitale sociale, il Dr. Giuseppe Sergnese eil Dr. Marco Bottieri. Entrambi ex dirigenti nel settore aeronautico che pur provenendo da ruoli e aziende diverse, hannoindividuato una nicchia di mercato nella fornitura di servizi diBrokeraggio aeronautico, Air chartering, Crew accomodatione consulenza per le compagnie aeree. Oggi a distanza di soli 48mesi l’azienda ha raggiunto un fatturato di oltre quarantamilioni di euro ed e pianifica lo sviluppo internazionale.Valorizzare le forze creative e imprenditoriali, aiutare le piccole e medie imprese sono parole d’ordine che però ancora inItalia non trovano una ricetta vincente.Se la flessibilità e la capacità di reazione diventa un valore,soprattutto in momenti economici di crisi, occorre che ancheil sistema sappia individuare e valorizzare queste caratteristiche. La speranza è che progredisca ulteriormente e si affermianche in Italia quella che gli operatori chiamano la filieradell’early stage e cioè aumenti l’offerta di operatori e fondispecializzati dedicati ad investimenti in imprese innovative nelle prime fasi del percorso di vita.Questo segmento del capitale di rischio potrebbe infatti rappresentare un tassello fondamentale in grado di dare ulterioreimpulso ad energie imprenditoriali che in Italia fortunatamentenon mancano.
IL MERITO
I Focus de Il Merito 14 aprile 2010
L’amministratore di sostegnodi Corea Nicola Avvocato
La ratio dell’introduzione dell’amministrazione di sostegnoLa legge 9 gennaio 2004 n. 6, mediante l’introduzione dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, ha profondamentemodificato il sistema delle misure di protezione dei maggiorenni incapaci.I principi alla base del nuovo istituto sono: la volontà di porre al centro della misura di tutela la persona umana;
la rimodulazione del concetto stesso di protezione, intesanon più quale limitazione ed emarginazione, bensì alla lucedel principio di cui all’art. 3 Cost. quale rimozione degliostacoli che si frappongono alla piena realizzazione del soggetto privo di autonomia;Tale novella legislativa non presenta più alcun riferimento allamancanza totale o parziale di capacità della persona, si parlasolo di ’insufficienza di autonomia. Questa impostazione risulta confermata dalla modifica che riguarda l’intitolazione delTitolo XII del Libro I c. c., la quale, abbandonato il termine«incapacità», recita: «Misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia». Le norme sull’amministrazione di sostegno sono state poste nel capo I (art.404413 c.c) e quelle riguardanti i vecchi istituti, con alcuniadattamenti, nel capo II ( art. 414432 c.c.).Presupposti applicativiEx art. 404 c. c. possono beneficiare dell’amministrazione disostegno: coloro che, a causa di un’infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trovino nell’impossibilità parzialeoppure temporanea di attendere ai propri interessi. L’ambito applicativo è, quindi, molto ampio, in quanto potenzialmente è idoneo a proteggere sia chi è affetto da un’infermitào menomazione totalmente incapacitante o abituale, sia chisia soggetto mentalmente sano, ma non in grado di curare ipropri interessi in quanto menomato fisicamente; dal che si evince che è richiesto un ulteriore presupposto,ovvero l’impossibilità attuale, anche parziale o temporanea, diprendersi cura dei propri interessi.Oggetto della misura di protezionePrincipi informatori:• principio di gradualità . Il giudice deve scegliere tra gli strumenti di tutela offerti dall’ordinamento, quello che realizzi lafunzione di protezione con la minore restrizione possibiledella capacità del soggetto interessato;• principio di flessibilità . L’oggetto dell’amministrazione disostegno può essere definito nel decreto avuto riguardo aglispecifici bisogni del soggetto, come un vestito disegnato secondo le esigenze della singola persona.Ricadute disciplinatorie:• ampia discrezionalità conferita al giudice in ordine alla determinazione dell’oggetto dell’incarico, che si estrinseca in:a. la previsione che il decreto contenga l’indicazione degli attiche l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere innome e per conto del beneficiario e di quelli che quest’ultimopuò porre in essere soltanto con l’assistenza dell’amministratore (art. 405 c.c.);b. la possibilità per il beneficiario di conservare la capacità inordine al compimento degli atti necessari a soddisfare le esigenze della vita quotidiana (art. 409, comma 2, c.c.)• il principio di massima conservazione della capacità in capoal beneficiario fa da limite all’oggetto dell’amministrazione disostegno. Ciò in quanto:a. è necessaria la corrispondenza tra portata degli effetti incapacitanti e specifiche esigenze di sostituzione o di assistenza
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Newsletter n. 15 20 aprile 201042
del soggetto debole;b. in caso di una impossibilità totale e probabilmente permanente, il giudice potrebbe estendere l’oggetto dell’amministrazione fino a comprendere ogni atto di ordinaria e straordinaria amministrazione oltre a specifici effetti, limitazioni odecadenze previste per l’interdetto o l’inabilitato, in osservanza del disposto di cui all’art. 411 c.c.c. l’amministrazionc di sostegno potrebbe essere in potenza,quindi, una misura equivalente all’interdizione, stante la possibilità di annullare ex art. 412 c.c. tutti gli atti che ne formanol’oggetto e, pertanto, quando necessario, anche di tutti gli attidi ordinaria e straordinaria amministrazione; contra Cortecost., 09.12.2005, n. 440, secondo cui sarebbe preferibile unainterpretazione restrittiva secondo cui il giudice può estendere al beneficiario determinati effetti, limitazioni o decadenzepreviste per l’interdetto o l’inabilitato;• l’ambito applicativo dell’istituto appare definito dall’art. 414c.c.: il quale, sancendo la residualità dell’interdizione, prevedeche questa sia disposta solo se necessaria alla protezione delsoggetto: a contrario può ricavarsi che, essendo l’interdizionemisura residuale, da applicarsi in mancanza di diverso strumento idoneo a garantire adeguata tutela al soggetto debole,così l’amministrazione di sostegno incontra nella idoneità(rectius inidoneità) protettiva il limite ultimo della propriasfera di operatività.I rapporti con l’interdizione e l’inabilitazioneIl problema interpretativo si è posto perché si è introdottonel Codice civile il nuovo strumento di protezione della persona senza abrogare le norme relative alla interdizione e allainabilitazione e senza delimitare il rispettivo campo di applicazione.Nei primi commenti dottrinari, si è sottolineata l’incongruenza della scelta legislativa. Essendovi alla base dell’introduzionedel nuovo istituto l’inadeguatezza di quelli esistenti (si pensiall’interdizione utilizzata spesso come strumento per privarela persona di prerogative essenziali in violazione di principicostituzionali), è apparso illogico lasciare in vigore una regolamentazione ormai avvertita come obsoleta e non idonea atutelare la persona nel rispetto dei principi costituzionali.Come visto, però, il legislatore, con la legge 9 gennaio 2004,n. 6, ha invece ritenuto che l’amministrazione di sostegnodovesse convivere con l’interdizione e l’inabilitazione, purassegnando alla prima un carattere prevalente, poiché, comerisulta dall’art. 1 della stessa legge, tale istituto ha «la finalitàdi tutelare, con la minore limitazione possibile della capacitàdi agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomianell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, medianre interventi di sostegno temporaneo o permanente».Alla luce di queste considerazioni, una parte della dottrina haaffermato che le norme sull’interdizione fossero state tacitamente abrogate; non si è mancato, poi, alternativamente dirilevare come la sopravvivenza di quest’ultimo istituto comporterebbe una violazione del principio di eguaglianza, stantela possibilità che persone ugualmente inferme di mente sivedano applicare discipline diverse a seconda che il giudice
scelga il rimedio dell’amministrazione di sostegno o pronuncil’interdizione.Tali doglianze sono state portate anche all’attenzione dellaCorte Costituzionale (sentenza 09.12.2005, n. 440), che hainvece ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale, sulla base delle seguenti considerazioni:a. sussiste la possibilità di coordinare le norme in tema diamministrazione di sostegno con quelle in tema di interdizione, attraverso l’individuazione di una gradualità delle misuredi protezione;b. in altre parole, il giudice deve scegliere l’istituto più adattotenendo conto del principio che impone di limitare la capacità della persona nella minore misura possibile;c. soltanto nel caso in cui il giudice non ravvisi interventi disostegno idonei ad assicurare all’incapace la necessaria protezione, «può ricorrere alle ben più invasive misure dell’inabilitazione e dell’interdizione, che attribuiscono uno status diincapacità, estesa per l’inabilitato agli atti di straordinaria amministrazione e per l’interdetto a quelli di amministrazioneordinaria».Altra parte della dottrina ha ritenuto non pienamente condivisibili le conclusioni cui è giunta la Consulta, in quanto nonviene risolto in modo adeguato il problema sollevato dall’ordinanza di rinvio, secondo cui i labili confini tra i suddetti istituti possono determinare una inammissibile discrezionalitàdell’organo giudicante, con conseguente violazione del principio di eguaglianza. In altri termini, la ”gradazione” delle misure, ipotizzata in dottrina e accolta dalla Corte Costituzionale,non cancella i problemi che derivano dalla sostanziale coincidenza dei presupposti di applicazione. Infatti, l’abituale infermità di mente, tradizionale requisito della interdizione, puòanche costituire il fondamento dell’amministrazione di sostegno, poiché secondo la formulazione dell’art. 404 c.c. l’impossibilità della persona di provvedere ai propri interessi puòanche essere ”totale” e derivare da una infermità di mente”permanente”.Sulla problematica è intervenuta anche la Suprema Corte diCassazione, che nell’affrontare per la prima volta con la sentenza n. 13584 del 12/06/2006, la disamina dell’istituto inanalisi, ha dettato una serie di principi interpretativi:a. richiamando l’interpretazione fornita dalla Corte Costituzionale fa proprio come primo criterio di delimitazione deidue istituti quello che viene definito ”quantitativo”, poichécorrelato al diverso grado di incapacità della persona e tendente quindi a limitare i casi di interdizione a quelli di incapacità totale, assoluta, irrecuperabile. Questa soluzione «a prima vista, piana e ragionevole» non viene vista come esaustiva,in quanto non mette in luce «la specificità dell’istituto» e rischia di trascurare «una serie di elementi di interpretazioneofferti dalla lettera e dallo spirito della legge».b. Sarebbe, allora, necessario che il giudice esamini, di volta involta, più che la gravità delle patologie (trovando applicazioneentrambi gli istituti anche in presenza di patologie particolarmente gravi), le esigenze da soddisfare nel caso concreto. Percui si dovrebbe scegliere:
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* l’amministrazione di sostegno nel caso di «un’attività minima, estremamente semplice, e tale da non rischiare di pregiudicare gli interessi del soggetto vuoi per la scarsa consistenza del patrimonio disponibile, vuoi per la semplicità delleoperazioni da svolgere (attinenti, ad esempio, alla gestioneordinaria del reddito da pensione), e per l’attitudine del soggetto protetto a non porre in discussione i risultati dell’attività di sostegno nei suoi confronti»;* l’interdizione quando occorre «gestire un’attività di unacerta complessità», essendo l’unico strumento idoneo adassicurare l’adeguata protezione degli interessi della personarichiesta dalla legge.In conclusione, «il criterio del tipo di attività da compiersi innome del bendìciario viene ritenuto quello decisivo «ai finidella scelta dello strumento meglio rispondente alle esigenzedi tutela», pur non escludendosi il ricorso al primo principioricordato, ovvero «la considerazione, in via concorrente, diquelli concernenti la gravità e la durata della malattia, ovverola natura e la durata dell’impedimento».La disciplina processuale dell’amministrazione di sostegnoLa disciplina processuale dell’amministrazione di sostegno èstata oggetto di diverse critiche, frutto in particolare di alcuniproblemi interpretativi a cui ha dato origine; in particolare siè sottolineato come:* il procedimento relativo a questo istituto si articola su disposizioni eterogenee, alcune speciticamente previste per ilnuovo istituto (dal 403 al 413 c.c.), altre mutuate, anche secon il limite della clausola di compatibilità, dal processo diinterdizione e di inabilitazione (mediante il richiamo operatodall’art. 720 bis c.p.c.: gli art. 712,713, 716, 719 e 720 c.p.c.),altre riconducibili al modello dei procedimenti in camera diconsiglio (720 bis c.p.c), giudizio «alquanto destrutturato», dacui discende la difficoltà di ricondurlo alla categoria della giurisdizione contenziosa o di quella volontaria, con conseguentiproblematiche applicative; le tesi che valorizzano le affinità trail nuovo istituto e l’interdizione e l’inabilitazione ricondunoquesto nuovo giudizio nella prima categoria; di converso, gliinterpreti che ne valorizzano gli elementi innovativi e la diversa ratio ispiratrice propendono per l’inserimento nella seconda categoria;* il principale oggetto di contrasto si è, però, focalizzato sull’interrogativo se fosse nec3ssario che le parti stessero ingiudizio col ministero di un difensore oppure no. Due sonogli orientamenti:a. tesi che esclude l’obbligo del ministero del procuratore;alla base di questo orientarnento vi sono essenzialmente dueargomenti:* valorizzando la funzione e le esigenze di tutela proprie delnuovo istituto si afferma che l’amministrazione di sostegno èuno strumento di tutela connotato da estrema duttilità, celerità e facilità di accesso. Il rapporto immediato tra il giudice ele parti ne costituisce condizione per il proprio corretto funzionamento;* l’ammissibilità della difesa personale delle parti deriva dallanatura volontaria di tale procedimento, essendo richiesto
l’obbligo del patrocinio solo per giudizi contenziosi;b. a favore dell’opposta tesi militerebbero fondamentalmente:* la parziale similitudine di disciplina processuale esistente trail procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno equello di interdizione e inabilitazione;* la possibilità ex art. 411 c.c. per il giudice tutelare di disporre ”che determinati effetti, limitazioni o decadenze, previstida disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato si estendano al benefìciario dell’amministrazione di sostegno, avutoriguardo all’interesse del medesimo ed a quello tutelato dallemedesime disposizioni”.Si sottolinea come una ”terza via” è stata intrapresa dallaSuprema Corte nella prima sentenza che ha affrontato lasuddetta problematica (n. 25366/2006). In via preliminare iGiudici osservano come la problematica in analisi tragga origine dalla mancanza, nella legge n. 6/2004, di alcuna disposizione che espressamente preveda la difesa tecnica nel procedimento di cui si tratta, né che ne escluda dichiaratamente lanecessità. Quanto alla soluzione ermeneutica sposata dalSupremo Consesso, essa involge una scelta relativa sulla basedella rilevata impossibilitià di (ed addirittura la preclusione ad)una soluzione unitaria del problema applicabile indistintamente a tutte le ipotesi sussumibili sotto l’amministrazione disostegno. In sintesi, quindi, il principio di diritto enunciato dalCollegio sottende due alternative:* ai fini della nomina dell’amministratore non sarà necessarioil ministero del difensore nelle ipotesi in cui l’emanando provvedimento debba limitarsi ad individuare specificamente isingoli atti o categorie di atti, in relazione ai quali si richiedel’intervento dell’amministratore;* sarà richiesto l’intervento della difesa tecnica ogni qualvoltail decreto che il giudice ritenga di emettere incida sui dirittifondamentali della persona, attraverso la previsione di effetti,limitazioni o decadenze, analoghi a quelli previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato. In pratica, in quest’ultimo caso si incontra il limite del rispetto dei principicostituzionali in materia di diritto di difesa e del contraddittorio.L’ultima questione affrontata permette di introdurre un ulteriore profilo che è stato, da ultimo, portato all’attenzionedella Corte Costituzionale, ovvero la compatibilità costituzionale dei nuovi artt. 407 e 410 del codice civile nella parte incui non sembrano subordinare al consenso dell’interessatol’attivazione della misura dell’amministrazione di sostegno edil compimento dei singoli atti gestionali, o comunque nonsembrano attribuire efficacia paralizzante al suo dissenso inordine a tale attivazione e al compimento di tali atti, per violazione degli artt. 2 e 3 della Costimzione. A favore dell’incostituzionalità militerebbero:a. la violazione da parte delle norme censurate della dignitàdella persona e la relativa sfera di libertà giuridica;b. si trasformerebbe il nuovo strumento di protezione deisoggetti in difficoltà in una sorta di interdizione camuffata,nella quale la volontà della persona viene annullata senza unaragionevole giustificazione e senza le relative garanzie e cau
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Newsletter n. 15 20 aprile 201044
tele.Di diverso avviso la Corte costituzionale secondo cui l’art.407 del Codice civile, nel disciplinare il procedimento perl’istituzione dell’amministrazione di sostegno, prevede espressamente che il giudice tutelare deve sentire personalmente lapersona cui il procedimento si riferisce e deve tenere conto«compatibilmente con gli interessi e le esigenze di protezionedella persona, dei bisogni e delle richieste di questa» (comma2).Tale dato normativo non esclude, ma anzi chiaramente attribuisce al giudice anche il potere di non procedere alla nominadell’amministratore di sostegno in presenza del dissenso dell’interessato, ove 1’autorità giudiziaria, nell’ambito della discrezionalità riconosciutale dalla norma censurata, ritengadetto dissenso nel contesto della fattispecie sottoposta alsuo giudizio giustificato e prevalente su ogni altra diversaconsiderazione, senza che la sottoposizione del rilievo deldissenso alla condizione della sua compatibilità con gli interessi e con le esigenze di protezione della persona integriviolazione dei parametri costituzionali denunciati (artt. 2 e 3della Costituzione), i quali, invece, sono in questo modo realizzati.
PROFESSIONISTI24
Camera di conciliazione e arbitratoMediazione civile, domande alla Consob per arbitrientro il 24 maggio
Guida al Diritto news online
Roma,15 aprile 2010 (Ansa) Entra nel vivo l’attività dellaCamera di conciliazione e arbitrato, istituita presso la Consob per risolvere le controversie tra semplici investitori eintermediari finanziari senza ricorrere alla giustizia ordinaria.Da oggi è possibile presentare le domande per l’iscrizione aglielenchi degli arbitri e dei conciliatori: sono interessati avvocati, commercialisti, notai, magistrati, professori universitari oalti dirigenti dello Stato. Si tratta di figure che, se in possessodei requisiti professionali e deontologici previsti dai regolamenti della Camera, potranno svolgere l’attività di conciliatore e arbitro: a loro potranno rivolgersi i singoli risparmiatorinei casi di mancata trasparenza, scorrettezze o illeciti relativialla collocazione di titoli, a fondi comuni o ad altri tipi di investimenti finanziari.
Domande entro il 24 maggioLe richieste di candidatura da parte dei professionisti dovranno pervenire alla Consob entro il 24 maggio (quelle giuntesuccessivamente saranno prese in considerazione per gli aggiornamenti semestrali degli elenchi). Subito dopo sarannostilati gli elenchi ufficiali, e la Camera di conciliazione conta«di diventare pienamente operativa da prima dell’estate,compatibilmente con il numero di domande pervenute», spiega il presidente dell’organismo, il presidente onorario della
Corte dei Conti Fulvio Balsamo.«Rapidità ed economicitàsono le caratteristiche principali degli strumenti offerti dallaCamera a tutto vantaggio del mercato e in particolare deirisparmiatori», ha sottolineato il presidente dell’organismo,Fulvio Balsamo, nel corso di un incontro con la stampa perpresentare la fase di reclutamento degli arbitri e dei conciliatori.
Il funzionamento della nuova strutturaLe controversie dovranno risolversi in tempi stretti (60 giorniper la conciliazione, 120 per l’arbitrato, che possono essereraddoppiati su richiesta dalle parti), mentre i costi sottolineano dalla Camera di conciliazione «sono contenuti: unacomponente fissa per le spese amministrative (30 euro per laconciliazione, 100 per l’arbitrato), più una componente variabile come compenso per conciliatori e arbitri, variabile aseconda degli importi della controversia» (si va da 40 a76.000 euro, soglia massima in caso di arbitrati su controversie di valore superiore ai 5 milioni di euro).
La proceduraResta la possibilità di rivolgersi al giudice nel caso in cui laconciliazione fallisca; anzi a partire dal prossimo anno, in accordo con la normativa vigente, l’aver tentato preventivamente la conciliazione sarà requisito necessario per intraprenderele vie legali: un modo per alleviare il carico di lavoro dellestrutture giudiziarie.In pratica, di volta in volta dagli elenchidei conciliatoriarbitri le parti in accordo tra loro, o la Camera in caso di mancata intesa, verrà scelto il professionista piùadatto a risolvere la controversia. L’obiettivo della Camera diconciliazione è quello di costituire una rete capillare in tuttele Regioni, in modo da permettere ai risparmiatori di seguirela propria procedura ”vicino casa”.Nel dettaglio, la conciliazione riguarderà la ricerca di un accordo tra le parti, che sarà svolta da un mediatore scelto tra iprofessionisti iscritti all’elenco, e che, nel caso di raggiuntaintesa, sfocerà in un contratto vincolante tra le parti. Al conciliatore potranno rivolgersi i singoli risparmiatori, da soli ocoadiuvati da un legale o dal rappresentante di un’associazione dei consumatori. L’arbitrato invece costituisce una formadi giudizio alternativa al normale processo civile: deve essereprevisto dall’accordo tra le parti, e può sfociare in un lodo,ovvero una decisione arbitrale con forza di sentenza. Si trattadi una procedura più formalizzata, nella quale le parti sarannocoadiuvate da procuratori legali.
La sovrapposizione con Banca d’ItaliaPer quanto riguarda la possibile sovrapposizione con l’attivitàdi un’altro ”arbitro”, quello istituito dalla Banca d’Italia, il presidente Balsamo ha precisato che «stiamo lavorando a unprotocollo per dividere con precisione gli ambiti di azione eper condividere informazioni sui ricorsi presentati presso idue organismi».
Le istruzioni per le domande
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http://www.consob.it/main/camera/avvisi/index.html
REPERTORIO24
Tribunale Velletri Civile Sentenza del 8 marzo 2010
CONCORDATO PREVENTIVO SOCIETÀ PER AZIONI A TOTALEPARTECIPAZIONE PUBBLICA RACCOLTA E TRASPORTO DI RIFIUTI SOLIDI URBANI AMMISSIBILITÀ ATTIVITÀ INQUADRABILE NEL MODELLO PRIVATISTITICO ASSENZA DI POTERI DIINGERENZA DELL’ENTE PUBBLICO ATTIVITÀ A FAVORE DITERZI.
È assoggettabile a procedura concorsuale e può quindi essere ammessa al concordato preventivo la società per azioniinteramente partecipata da capitale pubblico e che utilizzirisorse pubbliche per lo svolgimento della propria attivitàqualora la sua sfera d’azione sia riconducibile al diritto privatosecondo uno schema comunque inquadrabile nel modello previsto dal codice civile. (Nella specie, il potere di indirizzoriconosciuto all’ente pubblico è limitato all’espletamento delservizio nel territorio di riferimento, gli enti locali non hannoalcun potere di ingerenza nella gestione complessiva dellasocietà e di verifica del bilancio e non esercitano comunque unpotere analogo a quello esercitato dall’ente pubblico sui propri servizi; l’oggetto sociale ammette infine l’espletamentodell’attività a favore di terzi).Repertorio24PUBBLICAZIONECentro studi giuridici di Mantova, www.Ilcaso.it, 2010, pg.2108, pt. I
Tribunale Mondovì Civile Sentenza del 22 marzo2010
PROCESSO CIVILE DOVERE DI LEALTÀ E PROBITÀ PROCESSUALE INOTTEMPERANZA ALL’ORDINE DI ESIBIZIONE DEL GIUDICE CONSEGUENZE COMPORTAMENTO PROCESSUALEGRAVEMENTE SCORRETTO VALORE CONFESSORIO DELLACONDOTTA CONSEGUENZE.
In virtù dell’interpretazione congiunta degli articoli 88 e 116codice procedura civile è possibile, nei casi di comportamentoprocessuale gravemente scorretto, sanzionare la parte con ilriconoscere alla sua condotta un valore quasi confessorio, diriconoscimento implicito della fondatezza delle domande avversarie. Solo la consapevolezza della propria virtuale soccombenza, infatti, può condurre la parte alla violazione ripetuta egrave di quei doveri di correttezza e leale collaborazioneche la legge impone. (Nel caso di specie, la parte ha ripetutamente omesso l’esibizione dei documenti richiesti dal giudice,ha ripetutamente dichiarato, contrariamente al vero, di nonessere in grado di reperire la documentazione richiesta, haripetutamente depositato fuori udienza memorie non autorizzate, contenenti anche valutazioni in diritto, ha riportato tra
virgolette frasi asseritamente contenute nella comparsa dicostituzione, che invece non esistevano o erano diverse).Repertorio24PUBBLICAZIONECentro studi giuridici di Mantova, www.Ilcaso.it, 2010, pg.2112, pt. I
Tribunale Mondovì Civile Sentenza del 22 marzo2010
PROCESSO CIVILE MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA RIFERIMENTO A PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI CONFORMI FINALITÀ SNELLIMENTO DELLE MOTIVAZIONI RIPETIZIONEDEL PERCORSO MOTIVAZIONALE ESCLUSIONE.
La modifica all’art. 118 delle disposizioni per l’attuazione delcodice procedura civile operata dalla legge n. 69/2009, per laquale la motivazione della sentenza di cui all’articolo 132 delcodice, può aver luogo anche facendo riferimento a precedenti conformi, ha il significato non tanto di consentire la citazione di precedenti giurisprudenziali (facoltà, costantemente osservata, della quale non si è mai dubitato), quanto piuttosto diconsentire un deciso snellimento delle motivazioni, evitandodi dover ripetere per intero un percorso motivazionale giàdisponibile altrove e facilmente rintracciabile attraverso lebanche dati e gli archivi specializzati del web.Repertorio24PUBBLICAZIONECentro studi giuridici di Mantova, www.Ilcaso.it, 2010, pg.2104, pt. I
Tribunale Mondovì Civile Sentenza del 22 marzo2010
RAPPORTI BANCARI VARIAZIONE UNILATERALE DELLE CONDIZIONI CONTRATTUALI COMUNICAZIONE CHIARA E SPECIFICA NECESSITÀ.
La comunicazione della variazione delle condizioni applicate airapporti di conto corrente prevista dall’art. 6 della legge 17/2/1992, n. 154 (norma ora abrogata dall’art. 161 D.Lgs. 1/9/1993, n. 385), deve essere chiara ed esplicita, non potendosiritenere a tal fine sufficiente l’indicazione della variazione (nellaspecie relativa al tasso di interesse) nei riepiloghi tecnici deiconteggi periodicamente inviati al cliente. È, infatti, noto chetali documenti non sono di immediata comprensione per iclienti specie se privi di adeguata cultura o preparazione neiconfronti dei quali solo una comunicazione tempestiva e specifica, resa per iscritto, può garantire il raggiungimento delloscopo prefisso dalla norma.Repertorio24PUBBLICAZIONECentro studi giuridici di Mantova, www.Ilcaso.it, 2010, pg.2104, pt. I
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Newsletter n. 15 20 aprile 201046
Consiglio di Stato Sezione 6 Sentenza del 7 aprile2010, n. 1967
APPALTI ESCLUSIONE DALLA GARA PER PRESUNTO COLLEGAMENTO TRA IMPRESE.
È illegittimo l’operato di una stazione appaltante che abbiaescluso da una gara un concorrente, aggiudicatario provvisorio, per via di un presunto collegamento tra questi ed altraimpresa partecipante alla medesima gara, senza che il provvedimento espulsivo sia stato preceduto da una comunicazionedi avvio del procedimento, in quanto l’acquisizione di elementinuovi impone alla stazione appaltante di riaprire il confrontocon l’impresa interessata mettendola in condizioni di conoscere le ragioni di tale ”revirement”. La semplice constatazionedell’esistenza di un rapporto di controllo tra le imprese concorrenti non è sufficiente affinché la stazione appaltante possadisporne l’esclusione automatica dalla procedura di aggiudicazione, senza verificare se un tale rapporto abbia avuto unimpatto concreto sul loro rispettivo comportamento nell’ambito della procedura; da qui l’esigenza, nel caso di specie, che,ai fini della riapertura dell’indagine relativa al collegamento econtrollo tra imprese, fosse offerta alla concorrente, a mezzodi comunicazione ai sensi dell’art. 7 della legge n. 241/1990, lapossibilità di controdedurre a quanto dalla stazione appaltanteposto in evidenza sulla base dei nuovi elementi acquisiti.Repertorio24PUBBLICAZIONEAvv. Costantino Tessarolo, Diritto dei servizi Pubblici, 2010
Corte Costituzionale Sentenza del 18 marzo 2010,n. 107
GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA PRINCIPALE INTERVENTO IN GIUDIZIO DI SOGGETTI NON TITOLARI DIPOTESTÀ LEGISLATIVA INAMMISSIBILITÀ.
È inammissibile, nel giudizio di legittimità costituzionale in viaprincipale, l’intervento di soggetti privi di potestà legislativa.Tale giudizio, infatti, si svolge esclusivamente fra soggetti titolari di potestà legislativa, fermi restando per i soggetti privi ditale potestà i mezzi di tutela delle loro posizioni soggettive,anche costituzionali, di fronte ad altre istanze giurisdizionali edeventualmente anche di fronte alla Corte in via incidentale.Negli stessi termini, v. le citate sentenze n. 254/2009, n.233/2009, n. 405/2008, n. 51/2008, n. 265/2006, n. 129/2006,n. 116/2006, n. 103/2006, n. 80/2006, n. 59/2006, n. 51/2006,n. 469/2005, n. 383/2005, n. 336/2005 e n. 150/2005.Repertorio24PUBBLICAZIONEIl Sole 24 Ore, Guida al Diritto, 2010, 14, pg. 81, annotata daG.M. Salerno
Corte Costituzionale Sentenza del 17 marzo 2010,n. 106
AVVOCATO E PROCURATORE PRATICANTI AVVOCATI AMMESSIAL PATROCINIO DAVANTI AI TRIBUNALI DEL DISTRETTO NELQUALE È COMPRESO L’ORDINE CIRCONDARIALE CHE HA LATENUTA DEL RELATIVO REGISTRO, LIMITATAMENTE AIPROCEDIMENTI GIÀ RIENTRANTI NELLE COMPETENZE DELPRETORE POSSIBILITÀ PER I DETTI PRATICANTI DI ESSERENOMINATI, IN SEDE PENALE, DIFENSORI D’UFFICIO DAVANTIAI MEDESIMI TRIBUNALI E NEGLI STESSI LIMITI INCIDENZASULL’EFFETTIVITÀ DELLA DIFESA D’UFFICIO, ATTESA LA DIFFERENTE CAPACITÀ PROFESSIONALE E PROCESSUALE DEL PRATICANTE E DELL’AVVOCATO ISCRITTO ALL’ALBO ILLEGITTIMITÀCOSTITUZIONALE IN PARTE QUA ASSORBIMENTO DELLEQUESTIONI ULTERIORI.
È costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 24,comma secondo, Cost., l’art. 8, comma secondo, ultimo periodo, del R.D.L. 27/11/1933, n. 1578 convertito, con modificazioni, dalla legge 22/1/1934, n. 36, come modificato dall’art. 1della legge 24/7/1985, n. 406, dall’art. 10 della legge 27/6/1988,n. 242 e dall’art. 246 del D.Lgs. 19/2/1998, n. 51 nella parte incui prevede che i praticanti avvocati possono essere nominatidifensori d’ufficio. La norma censurata compromette l’effettività della difesa d’ufficio poiché all’indagato o all’imputato potrebbe essere assegnato, senza il concorso della sua volontà,un difensore che non ha percorso l’intero iter abilitativo allaprofessione, mentre nel caso di nomina a favore dell’irreperibile sarebbe esclusa ogni possibilità di porre rimedio all’inconveniente denunciato mediante la sostituzione con un difensoredi fiducia. Inoltre, la differenza tra il praticante e l’avvocatoiscritto all’albo si apprezza non solo sotto il profilo prospettato dal rimettente della capacità professionale (che, nel casodel praticante, è in corso di maturazione), ma anche sottol’aspetto della capacità processuale, intesa come legittimazione ad esercitare, in tutto o in parte, i diritti e le facoltà propriedella funzione defensionale: infatti, il praticante iscritto nelregistro, pur essendo abilitato a proporre dichiarazione diimpugnazione, non può partecipare all’eventuale giudizio digravame e si trova, altresì, nell’impossibilità di esercitare attività difensiva davanti al tribunale in composizione collegiale,competente in caso di richiesta di riesame nei giudizi cautelari.(Restano assorbite le questioni sollevate in riferimento agliartt. 3, 24, comma terzo, e 97 Cost.). Per la non fondatezza diuna questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, commasecondo, prima parte, del R.D.L. n. 1578 del 1933, sollevata inriferimento agli artt. 3, 24, comma secondo, e 33, commaquinto, Cost., v. la citata sentenza n. 5/1999.Repertorio24PUBBLICAZIONECorte Costituzionale, Sito Ufficiale C.Cost., 2010
Corte d’Appello Napoli Civile Sentenza del 26 marzo 2010
FALLIMENTO DICHIARAZIONE DI COMPETENZA TRASFERI
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MENTO DI SEDE LEGALE ALL’ESTERO FITTIZIETÀ CANCELLAZIONE DAL REGISTRO IMPRESE IRRILEVANZA.
Ove il trasferimento all’estero della sede della società dovesserivelarsi fittizio, non potrà darsi rilievo alla circostanza dellacancellazione da oltre un anno dal registro delle imprese edapplicarsi l’art. 10, legge fallimentare, dovendosi, invece, concludere per la perdurante operatività dell’impresa in Italia.Repertorio24PUBBLICAZIONECentro studi giuridici di Mantova, www.Ilcaso.it, 2010, pg.2107, pt. I
Corte d’Appello Napoli Civile Sentenza del 26 marzo 2010
FALLIMENTO DICHIARAZIONE DI COMPETENZA TRASFERIMENTO DI SEDE LEGALE ALL’ESTERO FITTIZIETÀ FATTISPECIE ELEMENTI INDIZIARI.
Deve ritenersi fittizio il trasferimento di sede all’estero anchenel caso in cui la società sia stata cancellata dal registro delleimprese italiano ed iscritta in quello dello stato estero, abbiapresentato un bilancio conforme alla legislazione di quellostato, abbia ivi effettuato alcuni pagamenti ed istituito un ufficio con personale dipendente. Non si può infatti affermareche al trasferimento all’estero della sede legale abbia fattoseguito l’esercizio di attività imprenditoriale ed il trasferimento del centrodell’attività direttiva, amministrativa ed organizzativa qualorala società non svolga nello stato di destinazione alcuna realeattività, la compagine sociale sia ancora interamente italiana, lasocietà svolga di fatto in Italia buona parte della sua attività, lastruttura allestita all’estero sia poco più che un ufficio dirappresentanza con un unico dipendente parttime a dispettodi un considerevole volume d’affari e si rivelino, infine, inconsistenti le motivazioni addotte per giustificare il trasferimentodellasede.Repertorio24PUBBLICAZIONECentro studi giuridici di Mantova, www.Ilcaso.it, 2010, pg.2107, pt. I
Tribunale Torino Sezione Lavoro Civile Sentenza del22 febbraio 2010
LAVORO SUBORDINATO (RAPPORTO DI) LICENZIAMENTO PERGIUSTA CAUSA OPERAZIONE PACIFICA DI OPERAZIONI ANOMALE CONSEGUENZE IN TEMA DI RIPARTO DELL’ONEREDELLA PROVA CONDANNA ALLE SPESE.
Il compimento di un’operazione oggettivamente anomala daparte del lavoratore subordinato costituisce una giusta causadi licenziamento ai sensi dell’art. 2119 c.c.. La pacifica verifi
cazione dell’operazione, da una parte, esonera il datore dilavoro dall’onere della prova impostogli dall’art. 5 della Legge15/7/1966, n. 604 e, dall’altra, impone al lavoratore che intenda liberarsi della responsabilità l’onere di giustificare la bontàdel comportamento posto alla base del licenziamento (nellaspecie, a fronte della documentazione fornita dalla banca datore di lavoro , attestante la fittizietà di un’operazione diprelievo da conto corrente per evidente difformità della firmadel cliente, sarebbe stato onere dell’operatore di sportellolicenziato provare che il prelievo era avvenuto secondo leregole bancarie previste e che i beneficiari dello stesso eranostati il titolare del conto corrente o il suo delegato).Repertorio24PUBBLICAZIONECentro studi giuridici di Mantova, www.Ilcaso.it, 2010, pg.2106, pt. I
SENATO
Martedì 20 aprile 2010alle ore 16,30362ª Seduta PubblicaORDINE DEL GIORNO
Seguito della discussione dei disegni di legge:
GIULIANO. Modifiche al regio decretolegge 27 novembre1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22gennaio 1934, n. 36, in materia di riforma dell’accesso allaprofessione forense e raccordo con l’istruzione universitaria(601) CASSON ed altri. Disciplina dell’ordinamento della professione forense (711) BIANCHI ed altri. Norme concernenti l’esercizio dell’attività forense durante il mandato parlamentare (1171) MUGNAI. Riforma dell’ordinamento della professione diavvocato (1198) Relatore VALENTINO
CAMERA
Convocazione della II Commissione GiustiziaMartedì 20 aprile 2010
Ore 11.30 COMMISSIONI RIUNITE (Aula II)(II e X) INDAGINE CONOSCITIVAAudizione di rappresentanti dell’Osservatorio sulle crisi d’impresa e del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti edegli esperti contabili, nonché del professore Luigi Foffani,ordinario di diritto penale, e del professore Massimo Fabiani,ordinario di diritto processuale civile, in relazione all’esamedel disegno di legge C. 1741 Governo, recante disposizioni inmateria di gestione delle crisi aziendali
Ore 13 SEDE CONSULTIVA
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Newsletter n. 15 20 aprile 201048
Alla XI Commissione: Delega al Governo in materia di lavoriusuranti e di riorganizzazione di enti, misure contro il lavorosommerso e norme in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro (esame C. 1441 quater /D Governo, rinviato alleCamere dal Presidente della Repubblica – Rel. Lo Presti)
Al termine ATTI COMUNITARI
Iniziativa per una direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sull’ordine di protezione europeo (esame 17513/09 COPEN 247, COR 1 e PECONS 2/10 Rel. Sisto)
Ore 13.30 SEDE REFERENTE Riforma della disciplina delle persone giuridiche e delle associazioni non riconosciute (seguito esame C. 1090 Vietti – Rel.Vietti)
Disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio dellepene detentive non superiori ad un anno e sospensione delprocedimento con messa alla prova (seguito esame C. 3291Governo e C. 3009 Vitali – Rel. Papa)
Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia (seguito esame C. 3290Governo e C. 529 Vitali – Rel. Torrisi)
Al termine UFFICIO DI PRESIDENZA INTEGRATO DAIRAPPRESENTANTI DEI GRUPPI
Convocazione della II Commissione GiustiziaMercoledì 21 aprile 2010
Ore 14.15 SEDE CONSULTIVAAlla XI Commissione: Delega al Governo in materia di lavoriusuranti e di riorganizzazione di enti, misure contro il lavorosommerso e norme in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro (seguito esame C. 1441 quater /D Governo,rinviato alle Camere dal Presidente della Repubblica – Rel. LoPresti)
Ore 14.30 SEDE REFERENTE Riforma della disciplina delle persone giuridiche e delle associazioni non riconosciute (seguito esame C. 1090 Vietti – Rel.Vietti)
Disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio dellepene detentive non superiori ad un anno e sospensione delprocedimento con messa alla prova (seguito esame C. 3291Governo e C. 3009 Vitali – Rel. Papa)
Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia (seguito esame C. 3290Governo e C. 529 Vitali – Rel. Torrisi)
Norme per il contrasto dell’omofobia e transfobia (seguito
esame C. 2802 Soro e C. 2807 Di Pietro – Rel. Concia)
Convocazione della II Commissione GiustiziaGiovedì 22 aprile 2010
Al termine votazioni a.m. Assemblea SEDE REFERENTE
Riforma della disciplina delle persone giuridiche e delle associazioni non riconosciute (seguito esame C. 1090 Vietti ? Rel.Vietti)
Disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio dellepene detentive non superiori ad un anno e sospensione delprocedimento con messa alla prova (seguito esame C. 3291Governo e C. 3009 Vitali ? Rel. Papa)
Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia (seguito esame C. 3290Governo e C. 529 Vitali ? Rel. Torrisi)
Ore 13 AUDIZIONI INFORMALI
Audizione di rappresentanti dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia, nonché della dottoressa Rosanna De Palo, presidente del Tribunale per i minorenni di Bari, e dell’avvocato Maria Giovanna Ruo, presidentedella Camera minorile nazionale, nell’ambito dell’esame dellaproposta di legge C. 2919 Paniz e abb., in materia di accessodell’adottato alle informazioni sulla propria origine e sull’identità dei genitori biologici
Ore 14.15 COMMISSIONI RIUNITE (Aula X)(II e X) ATTI COMUNITARIProposta di direttiva del Parlamento Europeo e del Consigliorelativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (Rifusione) Attuazione del quadro fondamentale per la piccola impresa (Small Business Act) (seguito esameCOM(2009)126 def. – Rel. per la II Commissione: Cassinelli;Rel. per la X Commissione Fava)
GAZZETTA UFFICIALE
Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 89 del 1742010
DECRETO MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITA’ CULTURALI 10 novembre 2009Determinazione della misura della provvigione spettante allaSIAE per le attività di gestione del diritto di seguito.
CIRCOLARE MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE 22 marzo 2010, n. 14Revisione dei Programmi di spesa per l’anno 2011.
Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 88 del 1642010
Stampato dal sito www.lex24.ilsole24ore.com
49Newsletter n. 15 20 aprile 2010
DECRETO MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI 23 marzo2010Modifica dei decreti ministeriali 30 dicembre 1978, n.4668bis, 12 maggio 1982, n. 1681bis, 19 giugno 1989, n.3211bis, che regolano il rilascio dei passaporti diplomatici e diservizio.
DECRETO MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLEFINANZE 30 marzo 2010Disposizioni per il contrasto alle frodi fiscali IVA internazionali e nazionali.
Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 87 del 1542010
DECRETO MINISTERO DELLA DIFESA 22 ottobre 2009Procedure per la gestione dei materiali e dei rifiuti e la bonificadei siti e delle infrastrutture direttamente destinati alla difesamilitare e alla sicurezza nazionale.
DECRETO MINISTERO DELLE POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI 16 febbraio 2010Criteri di assegnazione dei contributi ai sensi della legge n.133/2008 per il settore apistico.
Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 86 del 1442010
DECRETO MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE 8 marzo 2010Certificazione relativa al rispetto degli obiettivi del patto distabilità interno per l’anno 2009 delle province e dei comunicon popolazione superiore a 5.000 abitanti.
COMUNICATO MINISTERO DELLA GIUSTIZIAMancata conversione del decretolegge 5 marzo 2010, n. 29,recante: «Interpretazione autentica di disposizioni del procedimento elettorale e relativa disciplina di attuazione».
Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 85 del 1342010
DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 1 febbraio 2010, n. 54Regolamento recante norme in materia di autonomia gestionale e finanziaria delle rappresentanze diplomatiche e degliUffici consolari di I categoria del Ministero degli affari esteri, anorma dell’articolo 6 dellalegge 6 giugno 2006, n. 69.
Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 84 del 1242010
DECRETO LEGISLATIVO 20 marzo 2010, n. 53Attuazione della direttiva 2007/66/CE che modifica le direttive89/665/CEE e 92/13/CEE per quanto riguarda il miglioramentodell’efficacia delle procedure di ricorso in materia d’aggiudicazione degli appaltipubblici.
DECRETO MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHESOCIALI 24 marzo 2010Criteri per la concessione del trattamento straordinario diintegrazione salariale e del trattamento di mobilità, per l’anno2010, per le imprese esercenti attività commerciale che occupino più di cinquanta addetti, per i lavoratori dipendenti dalleaziende operanti nei settori delle agenzie di viaggio e turismo,compresi gli operatori turistici, che occupino più di cinquantaaddetti, e delle imprese di vigilanza con più di quindici dipendenti. (Decreto n. 50948).