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Sommario EDITORIALE di P. Meloni ......................................................... 2 DOSSIER a cura di V. Cottini ..................................................... 4 La spiritualità musulmana ............................................................ 5 Spiritualità teocentrica o spiritualità dell’unità ............................ 7 Spiritualità coranica .................................................................... 10 Spiritualità della legge ................................................................ 17 La «via» dei sufi (tasawwuf) ...................................................... 32 Cenni bibliografici in italiano..................................................... 37 NOTE.......................................................................................... 38 Gesù e Maria tra Vangelo e Corano di G. O. Navarrete............... 39 Lo studio della missiologia nella formazione teologica dei seminari di C. Dotolo ................................................................. 50 ATTUALITÀ MISSIONARIA………………………………...60 Traccia di un'esperienza educativa in Bangladesh. Di F. Calegari .......... 59 Bibliografia sulla la catechesi catecumenale .............................. 67 SUSSIDI MISSIONARI……………………………………… 75 Dei Verbum: chiesa e missione dalla parola .............................. 73 La Bibbia nella pastorale. ........................................................... 83

So mario - lucianomeddi.eu 03_1.pdf · All’Islam , in particolare al confronto tra le figure di Maria e di Gesù nel Vangelo e nel Corano, è dedicato anche l’articolo di Graciela

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Sommario

EDITORIALE di P. Meloni ......................................................... 2

DOSSIER a cura di V. Cottini ..................................................... 4 La spiritualità musulmana ............................................................ 5 Spiritualità teocentrica o spiritualità dell’unità ............................ 7 Spiritualità coranica.................................................................... 10 Spiritualità della legge................................................................ 17 La «via» dei sufi (tasawwuf) ...................................................... 32 Cenni bibliografici in italiano..................................................... 37

NOTE.......................................................................................... 38 Gesù e Maria tra Vangelo e Corano di G. O. Navarrete............... 39 Lo studio della missiologia nella formazione teologica dei seminari di C. Dotolo ................................................................. 50

ATTUALITÀ MISSIONARIA………………………………...60 Traccia di un'esperienza educativa in Bangladesh. Di F. Calegari .......... 59 Bibliografia sulla la catechesi catecumenale.............................. 67 SUSSIDI MISSIONARI……………………………………… 75 Dei Verbum: chiesa e missione dalla parola .............................. 73 La Bibbia nella pastorale. ........................................................... 83

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Editoriale

di Paola MELONI

Il frastuono assordante dell’attualità (guerra, terrorismo, genocidi) ci impedisce spesso di riflettere, studiare, capire le dinamiche sottese. La violenza che tutto distrugge ed estremizza riduce fortemente gli spazi del ragionamento e della consapevolezza, anche in luoghi distanti dalla sua azione. Appare così sempre più urgente recuperare opportunità per una pacata riflessione e meditazione.

Uno dei temi che sembra sempre più di vitale importanza per la società e l’uomo contemporaneo, “stretti” tra globalizzazione selvaggia e grandi movimenti migratori, è l’incontro tra culture e religioni diverse. E’ necessario avviare dei percorsi di conoscenza reciproca in vista di un costruttivo dialogo: sul terreno dell’ignoranza prosperano infatti i pregiudizi, il razzismo e l’intolleranza,

L’università Urbaniana, come ha auspicato di recente Giovanni Paolo II dovrebbe distinguersi dagli altri Atenei proprio per “un’attenzione particolare alle culture dei popoli e alle grandi religioni mondiali” e dovrebbe considerare “con cura il problema del dialogo interreligioso nelle sue implicanze teologiche, cristologiche ed ecclesiologiche”.

In questa precisa direzione si muove il presente numero della nostra rivista che riprende il tema della spiritualità nelle grandi religioni dedicando l’intero dossier, a cura di V. Cottini docente nella Facoltà di Missiologia, alla Spiritualità dell’Islam. Il dossier, particolarmente ricco ed accurato, si compone di una breve introduzione e di quattro articoli che illustrano diversi aspetti della dottrina e della spiritualità musulmana, sottolineandone le caratteristiche di fondo e la unitaria ispirazione di base (coranocentrica e teocentrica) che influenza anche i riti e le tradizioni più diverse. Come valido strumento per un primo approccio a questi temi il dossier si conclude con una breve bibliografia in italiano

All’Islam , in particolare al confronto tra le figure di Maria e di Gesù nel Vangelo e nel Corano, è dedicato anche l’articolo di Graciela Otsu Navarrete, contenuto nella sezione Note. L’autrice sottolinea le profonde divergenze tra le due tradizioni, ma indica anche alcuni importanti punti di

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contatto che preludono ad un possibile proficuo confronto: in particolare il messaggio morale e sociale di Gesù e soprattutto quello spirituale, come accade nella tradizione più propriamente mistica del sufismo. A questa affascinante “corrente” del mondo musulmano è dedicato anche uno degli articoli del dossier.

Uno dei risultati più rilevanti del confronto tra culture e tradizioni diverse è dato dal fatto che vengono a delinearsi con maggior precisione le reciproche caratteristiche “identitarie”. Così per i cristiani questo comporta una riflessione su quali siano i punti irrinunciabili della propria fede e su quale sia il vero senso dell’”annuncio” da portare a tutti i popoli. E’ questo uno degli elementi di considerazione contenuti nell’intervento del Prof. Carmelo Dotolo, docente nella facoltà di Missiologia. Il suo articolo è dedicato al tema dello Studio della missiologia nella formazione teologica dei seminari, e sottolinea l’esigenza che la formazione teologica e culturale sia sempre collegata alla dimensione missionaria e pastorale.

La rubrica Attualità Missionaria ospita la descrizione dell’esperienza educativa nel Bangladesh vissuta da un missionario del Pime, P. Fabrizio Calegari. L’affetto e l’empatia con cui si è avvicinato ai bambini ed agli adolescenti di quel lontano paese mostrano, forse meglio di molti dibattiti accademici, che la vera evangelizzazione consiste non nel cercare conversioni dottrinarie, ma nel “dono” del messaggio d’amore di Gesù ai vari popoli.

Nei Percorsi bibliografici troviamo una ricca bibliografia sull’argomento della Catechesi catecumenale, sia antica che contemporanea, curata dal Prof. Cavallotto. La Costituzione conciliare Dei Verbum, dedicata alla Sacra Scrittura è, infine, al centro della rubrica Sussidi Missionari. Essa ospita l’articolo della prof. Donatella Scaiola che riassume e commenta i temi principali affrontati dal documento ed un breve, ma efficace Decalogo sull’uso della Bibbia nella pastorale del prof. Bissoli , docente dell’Università Salesiana. Ringraziamo, come sempre, tutti i collaboratori che hanno permesso di realizzare questo numero particolarmente denso ed interessante. La pausa estiva ci regali un sereno e meritato riposo, arricchito dalla meditazione e dallo studio: Buona lettura!

[P. M.]

Dossier

L’intero dossier è stato realizzato da V. Cottini

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La spiritualità musulmana

di V. C Se1 è vero che la dimensione

spirituale appartiene alla persona umana, è vero anche che ogni religione forma a una dimensione spirituale particolare. Quali sono i nuclei che caratterizzano la spiritualità musulmana rispetto alle altre religioni?

Per comprendere è necessario partire dall’inizio, dalla

1 Per questo dossier, che dovrà essere di dimensioni contenute, mi si impongono delle scelte. Cercherò di illustrare sinteticamente le basi della spiritualità musulmana sunnita, che abbraccia la stragrande maggioranza dell’islâm mondiale, tralasciando quindi il pur interessante filone dell’islâm sciita. Mi soffermerò inoltre in particolare sulla spiritualità musulmana “tradizionale”, fondata sui testi del Corano e della Sunna, sviluppando in particolare la spiritualità dei cosiddetti “pilastri dell’islâm” e riservando solo una trattazione ridotta al sufismo. La motivazione di questa scelta è che il sufismo, pur essendo il movimento che sviluppa in sommo grado l’ansia spirituale di matrice musulmana, non è che “una” delle filiazioni prodotte dalla radice coranica e non è visto di buon occhio dall’islâm “ortodosso”. Ho scelto dunque di soffermarmi maggiormente sulla spiritualità tradizionale, affinché non si ingeneri il sospetto che la spiritualità dell’islam si concentri quasi esclusivamente nella mistica e che chi non è sufi ne sia “sprovvisto”.

“rivelazione”2 ricevuta da Muhammad in una grotta del monte Hirâ’ (così ci informa la Tradizione)3, non lontano dalla Mecca, nel 610 o 612 della nostra era. In quel primo annuncio è compreso, in un certo senso, tutto l’islâm: non certo dal punto di vista del contenuto, poiché le “rivelazioni” continuarono poi ancora per un’altra ventina di anni, ma sicuramente dal punto di vista formale. In quell’istante infatti per l’islâm Dio ha cominciato a parlare

2 Il Concilio Vaticano II (NA 3) precisa

lo sguardo cristiano sull’islâm (precisazione importante: non parla direttamente dell’islâm ma dei musulmani!). Esattamente nella prima proposizione nomina l’adorazione dell’unico Dio (tawhîd) e il fatto che egli ha parlato agli uomini. Accenna inoltre ad alcuni “bei Nomi” di Dio; precisa la pratica dell’islâm come sottomissione del cuore a Dio; esplicita alcuni “pilastri della fede” e alcuni “pilastri della pratica”. È significativo che non nomini affatto il sufismo. Metto normalmente tra virgolette il termine “rivelazione” per l’islâm, perché la sua formalità e il suo contenuto sono fondamentalmente diversi da quanto intendiamo nel cristianesimo con la medesima parola.

3 AL-BUKHÂRÎ, Detti e fatti del Profeta dell’islâm (a cura di V. VACCA – S. NOJA – M. VALLARO), U.T.E.T., Torino 1982, pp. 74-76.

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per l’ultima volta, in arabo chiaro, agli uomini, manifestando loro la sua volontà e la loro identità.

La sua volontà è che gli uomini Lo riconoscano come Dio uno e unico, Signore incontrastato dei mondi, e che seguano la “via” tracciata da Lui, costituita da prescrizioni che riguardano l’interiore e l’esteriore dell’uomo - prescrizioni che non richiedono giustificazione alcuna, semplicemente perché provengono da Lui – in vista del giudizio imminente che piomberà sul mondo.

Di conseguenza anche l’identità dell’uomo risulta altrettanto definita: rispetto al Signore dell’universo egli è in primo luogo il “servo adoratore” (‘abd), chiamato a modellare la sua esistenza sul riconoscimento del suo Dio e a seguire le prescrizioni che gli sono state “rivelate”, riconoscendo, accettando e accogliendo in esse il dono della sua stessa identità.

La via della spiritualità musulmana è tracciata: partendo dalla “rivelazione” del Corano-recitazione, essa riconosce la sua origine, il suo centro e il suo vertice nell’adorazione del Dio uno, unico, Signore. Essa è dunque coranocentrica e di conseguenza teocentrica. Non si tratta di una contraddizione in termini. La concezione di Dio e quella del Corano sono come i due fuochi di un’ellisse, che si

rimandano reciprocamente. Le articolazioni successive dell’islâm nella storia e, di conseguenza, le variazioni della sua spiritualità non usciranno quasi mai da questi binari fondamentali, tracciati dalla struttura di base, nemmeno quando, soprattutto in alcune regioni della galassia musulmana, prenderanno il sopravvento la venerazione dei santi, il marabuttismo o forme di pietà con sfumature magiche o apparentate con spiritualità altre, suggerite dalla cultura del luogo; nemmeno nella grande tradizione “mistica”, quella che in occidente ha contribuito forse più di ogni altra espressione musulmana a dare dell’islâm un’immagine positiva e apparentemente più vicina al cristianesimo. Nella spiritualità musulmana è il radicamento nel Corano, Parola di Dio in senso stretto e peculiare, a fissare la mediazione, il linguaggio, la base imprescindibile mediante la quale il Dio invisibile e trascendente, uno e unico si mette in relazione con gli uomini. È attraverso il Corano, infatti, che i musulmani apprendono che «Egli, Dio, è uno, Dio, l’Eterno. Non generò né fu generato e nessuno Gli è pari» (Cor 112)4.

4 Tutte le citazioni dal Corano sono

prese da A. BAUSANI, Il Corano, B.U.R., Milano 1994.

Spiritualità teocentrica o spiritualità dell’unità di V. C

La struttura fondamentale

dell’islâm è unitaria5. Dall’unità-unicità divina (tawhîd) discende l’unicità della Parola rivelata (il Corano); l’unicità del Profeta che la promulga sulla terra (Muhammad); l’unicità della legge (sharî’a) che ne consegue, come norma strutturante un’unica comunità di credenti (umma), che prega in un’unica direzione (qibla) e che è la migliore delle comunità volute da Dio creatore (Cor 3,110); all’interno di essa si colloca, e in qualche modo si perde, l’individuo, chiamato a fare unità nelle sue componenti spirituali e fisiche, professando la fede (îmân) e sottomettendosi alle pratiche prescritte (islâm), che gli permettono di raggiungere la

5 Preciso che qui tratto dell’islâm nella

sua struttura fondamentale. Come sappiamo, esso storicamente ha assunto forme differenti. Nella grande maggioranza dei Paesi musulmani convivono più o meno pacificamente espressioni differenti di islâm. Una formula, piuttosto vaga, di mutuo riconoscimento tra i sunniti è ahl al-sunna wa-l-jamâ’a (gente che si riconosce nella sunna e nel consenso). Naturalmente, anche nell’islâm ci sono le eresie, la più rilevante in assoluto, per i sunniti, è lo sciismo.

piena realizzazione (salâm) del suo essere creaturale.

Questa unitarietà influenza profondamente anche la spiritualità musulmana, che, al di là delle divisioni storiche e nazionali, delle mille sfaccettature che vanno dall’intransigenza ottusa del wahhâbismo fino ai pittoreschi sincretismi dell’islâm africano, dell’assenza di una leadership riconosciuta da tutti, vive la nostalgia dell’unità.

La dimensione visibile permette di pensare l’islâm come profondamente attento alle componenti temporali della vita: esso si presenta non solamente come religione dell’interiorità e della vita ultraterrena, ma come realizzatore di un progetto che mette insieme pratiche religiose e “mondane” (dîn wa-dunyâ), fino a formare una comunità capace di fondare una struttura politica che la esprima (dîn wa-dawla). Quest’ultima conseguenza, che è diventata la bandiera dei moderni movimenti islamici integralisti e fondamentalisti, non è priva di basi nell’origine stessa dell’islâm medinese, a prescindere dalle ermeneutiche e dai metodi di fatto messi in atto per attuare il progetto. È la passione dell’unità che guida i

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musulmani sinceri e che li porta talora a formulare e a tentare di realizzare utopie dirompenti e a non fare i conti con la storia concretamente vissuta dalla modernità.

Di Dio è da notare in primo luogo l’assoluta trascendenza (tanzîh): egli rimane sempre akbar, più grande rispetto a qualsiasi altra realtà. È questa trascendenza assoluta ad avere conseguenze enormi per la struttura dell’islâm e per la stessa spiritualità che ne deriva. In mancanza del concetto e della realtà dell’analogia entis, Dio non comunica direttamente con gli uomini. La stessa “rivelazione” ai suoi profeti e inviati avviene come “attraverso un velo”, in modo che la divinità non sia mai sfiorata da alcun contatto diretto con la corporeità (tashbîh) delle creature. Questo fatto impedisce quanto, ad esempio, nella spiritualità cristiana è il modo comune di rapportarsi dell’uomo con Dio grazie all’incarnazione di Gesù:

«Il Misericordioso, dicono gli empi, s’è preso un figlio». Avete proferito un’affermazione abominevole! Poco manca che si spacchino i cieli, e si squarci la terra e crollino in polvere i monti per ciò ch’essi hanno attribuito al Misericordioso un figlio! No, non s’addice al Misericordioso prendersi un figlio! (Cor 19,88-92).

Per quanto il concetto di “generazione” sia inteso in maniera differente dal cristianesimo nelle relazioni intratrinitarie, il presupposto per l’islâm resta. Tra Dio e gli uomini c’è solamente il rapporto Creatore-creatura. La trascendenza divina non indica di per sé la distanza in senso fisico ma la differenza di natura: Dio rimane Dio, autosufficiente in se stesso, e l’uomo rimane uomo, nella sua condizione di servo e di creatura. Per l’islâm “ortodosso” non esiste comunicazione possibile tra l’uomo e Dio.

Questo Dio possiede tutti gli attributi (nomi) più belli (al-asmâ’ al-husnâ):

Egli è Dio: non v’ha altro dio che Lui, Conoscitore dell’Invisibile e del Visibile, il Clemente, il Misericordioso! Egli è Dio: non v’ha altro dio che Lui, il Re, il Santo, la Pace, il Fedele, il Custode, il Possente, il Soggiogatore, il Grandissimo. Sia gloria a Dio oltre quel che a Lui associano! Egli è Dio, il Creatore, il Plasmatore, il Forgiatore, suoi sono i Nomi Bellissimi, e canta le Sue lodi tutto quel ch’è nei cieli e sulla terra, egli è il Possente Sapiente! (Cor 59,22-24; cf. 7,180; 17,110)

L’uomo non può che proclamare

instancabilmente la grandezza e la bellezza del suo Dio, sapendo che non aggiunge nulla alla sua gloria: ne riconosce e adora la realtà. La

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pietà musulmana ha raccolto una lista di novantanove “Nomi più belli” di Dio e piamente li recita sgranando una specie di rosario (subha). Hanno un valore particolare nel Corano gli attributi che proclamano la misericordia e la bontà di Dio nei confronti degli uomini. I due attributi più frequenti e spesso appaiati sono al-rahmân al-rahîm, che rimandano alla rahma, la misericordia infinita di Dio, che crea, mantiene in vita, perdona e infine acccoglie tutti gli uomini nel grande raduno alla fine del mondo6. Egli è sempre disponibile al perdono (ra’ûf) verso coloro che, pur peccatori, tornano a lui pentiti e gli si sottomettono (cf. Cor 3,135-136). La conversione del cuore al riconoscimento della realtà divina

6 I due attributi al-rahmân al-rahîm sono di fatto sinonimi e vengono tradotti in modo differente nelle versioni coraniche. È sufficiente qui richiamare il concetto fondamentale della misericordia divina. Notiamo, di passaggio, anche il parallelo con l’Antico Testamento, in cui i primi attributi di Dio sono rahûm we-hannûn (cf. Es 34,6). La riflessione musulmana “ortodossa”, per evitare in qualsiasi modo una comprensione “umana” degli attributi di Dio, ha escogitato la formula del bi-lâ kayf (= senza come), che evita l’analogia: noi, per esempio, sappiamo che cosa significa la misericordia umana, ma non sappiamo “come” essa si realizzi in Dio. Il primo appellativo (al-rahmân), di origine pre-islamica, è l’unico che possa sostituire direttamente il nome di Allah (cf. Cor 17,110) e costituisce il titolo della bellissima sura 55.

ha quindi un’importanza straordinaria nell’islâm, informandone profondamente la spiritualità.

A questo Dio nello stesso tempo onnipotente e misericordioso si affida l’uomo. Il termine che descrive il musulmano (muslim) è attivo. Egli è colui che attivamente si affida al suo Signore e si riceve da Lui. Da Dio infatti viene il tutto dell’uomo: il suo destino in terra e la sua sorte nell’aldilà. In modo particolare questo atteggiamento di fiducia totale emerge nei momenti della sofferenza, della malattia e di fronte alla morte7. Tale concezione teocentrica e unitaria rimanda alla concezione della “rivelazione” coranica.

7 Cf. V. COTTINI, Spiritualità e prassi

nel tempo della sofferenza. L’immigrato musulmano destinatario e protagonista di cure mediche e religiose, «L’Ancora nell’Unità di Salute» 18 (2003/1) 43-58.

Spiritualità coranica

di V. C La spiritualità musulmana trova il

suo punto di partenza nella Parola divina, discesa direttamente da Dio (Cor 3,3), dalle tavole celesti, su cui è custodita fin dall’eternità (umm al-kitâb, “la Madre del Libro”, Cor 13,39; 85,21-22), su Muhammad, mediante l’Angelo Gabriele (Cor 2,97). È possibile affermare che questo ruolo mediatore del Corano è la caratteristica peculiare della spiritualità di base dell’islâm, una spiritualità “mediana”, che rifugge dalle esagerazioni di qualsiasi tipo8 (cf. Cor 7,31). Si comprende quindi il ruolo decisamente unico che il Corano svolge sia in quanto recitazione (il termine Corano – qur’ân – significa appunto “recitazione”) sia in quanto Libro (kitâb). Il pio musulmano crede che esso è “inimitabile” appunto perché direttamente disceso dal cielo, non opera della mente dell’uomo (Cor 10,37).

Corano come recitazione. Impararlo a memoria, salmodiandolo (cf. Cor 73,4)

8 Cf. Cor 7,31, ma è una caratteristica

che attraversa tutto il Libro sacro dell’islâm.

secondo una tecnica antica di secoli, è opera altamente meritoria, anche se il contenuto non è compreso in tutte le sue sfumature. Entriamo qui nella caratteristica “oggettiva” della spiritualità dell’islâm, che in qualche modo la pervade tutta e che quindi ritroveremo anche in altre modalità: la pronuncia ad alta voce, esatta, delle Parole di Dio ha valore in sé, a prescindere dalla comprensione “soggettiva”. Il fedele crede e testimonia che ciò che sta recitando non gli appartiene, non è frutto della sua mente e della sua creatività ma viene dal cielo, Parola unica e santissima di Dio. E tanto basta. Le esagerazioni che vediamo ora in alcuni paesi islamici, in cui i bambini nelle scuole coraniche vengono costretti a memorizzare il testo sacro cantilenandolo, non è che la deformazione di un atteggiamento genuino della spiritualità musulmana.

Nello stesso tempo la recitazione richiama la vera natura del Corano: esso non è fatto per restare uno “scritto” confinato in una biblioteca ma per diventare tessuto vitale di ogni fedele, che in questo modo si imbeve della

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Parola di Dio. I modelli di grandi “memorizzatori” (huffâz) del Corano sono sparsi lungo tutta la storia dell’islâm. Essi vengono chiamati a dare un contributo spirituale alle cerimonie più significative della vita come la nascita, il matrimonio, la morte. In qualche modo quindi il Corano accompagna l’esistenza dell’individuo e della comunità musulmana e pone individui e comunità sotto la protezione divina contro gli influssi negativi provenienti da Satana (shaytân), dai jinn o dagli uomini. Particolarmente significative, a questo riguardo, sono le ultime due sure (capitoli) del Libro sacro, che hanno valore deprecatorio e di scongiuro:

Dì: «Io mi rifugio presso il Signore dell’Alba dai mali del creato, e dal male di una notte buia quando s’addensa, e dal male delle soffianti sui nodi, e dal male dell’invidioso che invidia» (Cor 113). Dì: «Io mi rifugio presso il Signore degli uomini, Re degli uomini, Dio degli uomini, dal male del sussurratore furtivo che sussurra nel cuore degli uomini, dal male dei jinn e degli uomini» (Cor 114; cf. anche 16,98).

Quanto all’inimitabilità (i’jâz) del

Corano (cf. Cor 17,88), essa è soprattutto di carattere estetico e letterario: richiama la bellezza della prosa ritmata, delle assonanze, dei giochi di parola, delle sonorità

dell’arabo, impossibili da rendere in qualsiasi altra lingua. La recitazione coranica conduce insensibilmente anche a una certa “arabizzazione” della spiritualità musulmana, benché gli arabi non siano attualmente che circa un quinto della umma. Ma la lingua araba ha anche un suo valore intrinseco estremamente importante per l’islâm. In quanto la “rivelazione” musulmana ha carattere direttamente “letterario”, poiché si identifica con un’espressione verbale, la lingua non è più indifferente. Essa ha a che fare con la “rivelazione” in sé, è il “vestito” o meglio ancora il “corpo” della Parola nella sua espressione e nella sua modalità terrene e umane. Ed è ancora per questo che solamente da un secolo e mezzo circa – e non senza difficoltà – sono state autorizzate, a causa di comprensibili problemi pratici, non delle “traduzioni” del Corano, ma dei “tentativi di interpretazione del nobile Corano inimitabile”.

Il Corano come libro. Tuttavia anche il Corano in quanto Libro ha avuto e ha ancora un’importanza grandissima per la spiritualità musulmana. Benché il significato esatto del termine kitâb non sia affatto chiaro a livello del testo “ispirato”, il credente musulmano professa fermamente che la parola scritta del Corano è lo specchio veritiero, l’eco umana fedele e incorrotta – a differenza dei libri

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dei cristiani e degli ebrei – del Corano celeste e increato che sta presso Dio. A esso occorre dunque accostarsi con devozione, da credenti, con le mani e il cuore purificati; non va consegnato nelle mani di coloro che non ne riconoscono il valore, ai non musulmani (cf Cor 56,79). Le edizioni a stampa o manoscritte sono spesso ornate e abbellite con fregi e frasi coraniche scritte con grafia artistica decorano le moschee e i luoghi di raduno dei musulmani, in modo da porre sotto la protezione della Parola di Dio tutti i luoghi in cui vi siano musulmani che pregano, studiano o semplicemente stanno.

Il Corano, insomma, funziona come principio di identificazione e di identità della comunità musulmana. Ma anche del singolo credente. Edizioni tascabili consentono di portarlo con sé senza fatica ed edizioni minuscole servono anche come pendagli da collana, come amuleti contro le cattive influenze: il Corano infatti è considerato avere anche funzione terapeutica (cf. Cor 17,82).

Il Corano come contenuto. Il valore spirituale del Corano riguarda infine il suo contenuto. In questo ambito non ci interessano direttamente le suddivisioni che gli studiosi trovano al suo interno ma il suo contributo specifico alla pietà musulmana. Il Libro ribadisce in primo luogo l’assoluta unicità di

Dio: è un ritornello che, se trova una delle sue espressioni più compiute nella sura 112 citata sopra, si ripete infinite volte. Si tratta dunque di una spiritualità dell’unità, che indirizza tutte le forze e le intenzioni nella proclamazione dell’unico, forse, dogma assoluto dell’islâm, come vedremo in seguito.

In secondo luogo il Corano viene presentato come la “guida” (hudâ) (Cor 2,2) sicura della “via” (sirât), cioè del retto modo di comportarsi in questo mondo: ciò che viene comandato o proibito, consigliato o sconsigliato nel libro diventa legge inderogabile e principio di condotta per tutti i musulmani. Nessuna autorità umana potrebbe modificare quanto è stato “rivelato” direttamente da Dio stesso. Questa caratteristica normativa del Corano, interpretata fino a oggi dall’ortodossia musulmana senza lo spessore storico rilevato, per esempio, dal metodo storico-critico, informa profondamente anche la spiritualità musulmana, che diventa essenzialmente “pratica”, spiritualità dell’obbedienza alla Parola, agendo secondo la convinzione profonda che la giustificazione delle azioni da fare o da non fare viene dal comando divino9. È ciò che chiameremo la spiritualità della legge (sharî’a).

9 Benché ogni comando sia anche

“comprensibile” razionalmente, come

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È ancora il Corano, in terzo luogo, che fissa lo statuto dell’uomo in quanto creatura totalmente dipendente dal suo Creatore, rispetto al quale si pone in atteggiamento di timore reverenziale e di adorazione (taqwâ), che dà un’impronta “sapienziale” a tutta la spiritualità. Il rapporto tra i versetti coranici (âyât) e i segni (âyât) del Creatore presenti nel mondo formano una sintesi coerente: i secondi sarebbero evidenti per se stessi nel condurre alla fede nel Creatore e i primi lo confermano autoritativamente, in modo tale che la Parola coranica diventa l’evidenziazione e la via maestra per aiutare l’uomo a muoversi senza incertezze nel mondo pieno di misteri e di enigmi, quando la ragione umana fatica a ritrovarsi perché dimentica o traviata. Il Corano si presenta dunque come il “criterio discriminante” (furqân, Cor 25,1) tra il bene e il male, tra coloro che credono e coloro che rifiutano la verità, tra coloro che si sottomettono e coloro che ricusano i segni di Dio.

In quarto luogo il Corano presenta alcune storie esemplari, soprattutto dei “profeti”, di persone cioè che hanno creduto e che, seguendo la via di Dio hanno avuto successo sia in questo mondo che nel mondo futuro. Sfilano così nel Libro personaggi

In quinto luogo il Corano mostra la fine e il fine di questa vita, annunciando non solo il grande giudizio finale, ma anche ciò che lo segue: la risurrezione dei corpi, il paradiso e l’inferno. Il linguaggio è apocalittico ma la prospettiva della spiritualità viene allargata: non viene comandato di agire bene solamente per questa vita ma anche in vista di una vita futura, che appare sì come il prolungamento di questa, ma dal comportamento in questa viene decisa per sempre. La professa fino a oggi l’ortodossia

musulmana.

già conosciuti nella stragrande maggioranza dalla tradizione ebraico-cristiana, ma che sono rivisitati e in parte modificati secondo il criterio veritativo coranico, che mira a farne degli esempi utili alla vita e alla spiritualità musulmane. Di particolare spessore sono le figure “profetiche” di Abramo, di Mosè, di Gesù e infine di Muhammad. Una parte notevole viene riservata anche a Maria, la madre del “Messia Gesù”, la cui venerazione continua anche oggi nella pietà musulmana. Le “storie dei profeti” (qisas al-anbiâ’) costituiranno in seguito una ricca letteratura, che anima e sostiene tuttora soprattutto la pietà popolare. La figura e l’opera di Muhammad, che viene presentato come il “bell’esempio” dei musulmani (Cor 33,21), fonderà la Sunna, a sua volta fonte della spiritualità musulmana.

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vicinanza divina che scruta le azioni dell’uomo (cf. Cor 50,16-19; 3,29; 5,117) dà alla spiritualità musulmana la caratteristica della vita alla presenza di Dio.

In sesto luogo, infine, il Corano presenta un modo di pregare e dei contenuti di preghiera. Ne presento solamente qualche stralcio. Il prototipo della preghiera musulmana coranica è la Fâtiha, la prima o sura “aprente” del Corano, ripetuta più volte al giorno dai musulmani nella salât, la preghiera canonica rituale:

1Nel nome di Dio, clemente misericordioso! 2Sia lode a Dio, il Signor del Creato, 3il Clemente, il Misericordioso, 4il Padrone del dì del Giudizio! 5Te noi adoriamo, Te invochiamo in aiuto: 6guidaci per la retta via, 7la via di coloro sui quali hai effuso la Tua grazia, la via coi quali non sei adirato, la via di quelli che non vagolano nell’errore!

La struttura formale di questa

preghiera è estremamente importante per comprendere una specificità della spiritualità musulmana. Essa si qualifica infatti come spiritualità dell’attestazione o della testimonianza. Le prime affermazioni che riguardano Dio (vv. 1-4) sono costituite in arabo da proposizioni nominali, senza un verbo espresso. Queste proposizioni espongono la constatazione di una realtà, non indicano la

partecipazione diretta dell’uomo. La lode umana non aggiunge nulla alla grandezza e alla potenza di Dio: si limita a testimoniarla e a proclamarla. Nella preghiera l’uomo non è mai “agente”, perché l’unico agente in tutte le cose è solamente Dio. Al massimo è spettatore dell’immensa gloria di Dio che invade il mondo nella sua origine (creazione) e nella sua fine (giudizio) e della sua sconfinata misericordia che mantiene in vita questo mondo. Di fronte a tanta grandezza non resta all’uomo che l’adorazione, espressa in arabo dal verbo che indica il servizio o la schiavitù, qui religiosamente intesa (‘abada) e l’invocazione di aiuto per essere in grado di seguire la via diritta (al-sirât al-mustaqîm), assegnata da Dio a ognuno, cioè il comportamento morale a lui gradito, in modo da essere destinatari del suo beneplacito e da non incorrere nel suo castigo. La prima affermazione della Fâtiha, inoltre, che con formula abbreviata, viene chiamata basmala, ha un valore particolare: è consigliata prima di qualsiasi azione della giornata, per mettere tutto l’agire umano sotto la protezione del nome di Dio.

La preghiera dunque può essere solo teocentrica (cf. Cor 13,14) come appare da quest’altro splendido esempio di testimonianza sulla potenza divina:

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«O mio Dio! Padrone del Regno! Tu dai il Regno a chi vuoi, e strappi il Regno a chi vuoi, esalti chi Tu vuoi, umili chi Tu vuoi: in mano Tua è il Bene, e Tu sei sovra tutte le cose potente! Insinui la notte nel giorno e il giorno nella notte, estrai il vivo dal morto e il morto dal vivo, doni cibo a chi vuoi, senza conto» (Cor 3,26-27).

Il Corano offre esempi di

preghiera “pedagogica”, che purificano la domanda:

C’è gente che chiede a Dio: «Signore! Dacci delle cose del mondo! », e non avran parte nell’altro. E altri chiedono: «Dacci in questo mondo cosa buona, e nell’altro cosa buona, e preservaci dal castigo del fuoco!». Questi avran parte in quel che si son meritati, ché Dio è rapido al conto (Cor 2,200b-202).

Se la preghiera solo per i beni di

questo mondo non viene ascoltata, ma anzi si ritorce contro coloro che la formulano, vengono offerti dei formulari “corretti”, come nelle invocazioni di Abramo, prima quando si separa da suo padre e dai suoi concittadini e poi quando, insieme con il figlio Ismaele, sta costruendo la Ka’ba:

«Signor nostro! In Te noi confidiamo, a Te ci volgiamo

contriti, a Te tutto ritorna! Signore! Non indurci in tentazione di fronte ai Negatori della Fede, e perdonaci. Signor nostro, in verità Tu sei il Possente Sapiente» (Cor 60,4b-5). «O Signor nostro! Fa che noi possiamo darci tutti (muslimayn) a Te, e fa della nostra progenie una nazione a Te devota (muslima), mostraci i Tuoi santi riti, e volgiti benigno verso di noi, o Tu clemente, che sempre perdoni! O Signor nostro! Suscita fra loro un Messaggero della loro stirpe(cioè: Muhammad), che reciti loro i Tuoi segni e che apprenda loro la Scrittura (kitâb) e la Sapienza e li faccia puri, poiché Tu sei il Potente, il Saggio!» (Cor 2,128-129).

Ciò che si deve chiedere nella

preghiera musulmana dunque è la fedeltà a Dio nella sottomissione fiduciosa, il perdono dei peccati, la capacità di comprendere il Corano che dà la sapienza e la capacità di sfuggire le seduzioni dei non credenti; in una parola, di essere guidati sulla via dei precetti divini manifestati dalla “rivelazione”.

Infine richiamo una splendida istruzione sulla preghiera che unisce la percezione di Dio con la professione del monoteismo e una caratterizzazione classica dell’atteggiamento “mediano” dell’islâm rispetto al cristianesimo e all’ebraismo:

Dì: «Invocatelo come Allah, o invocatelo come Rahmân, comunque

16

lo invochiate, a Lui appartengono i nomi più belli». E nella preghiera non parlar troppo alto e troppo basso: ma cerca il giusto mezzo fra i due e dì: «Sia lode a Dio, che niun figlio si scelse né si prese compagno nel Regno, che non ha bisogno d’amici a salvarlo», e grida grande la Sua grandezza! (Cor 17,110-111).

Concludo questo breve paragrafo

sulla spiritualità coranica con la citazione di un versetto classico, che unisce in sintesi armoniosa i vari aspetti della vita del buon musulmano. Si tratta del famoso versetto che descrive il concetto di birr, che possiamo rendere con pietà, rettitudine, bontà:

La pietà (birr) non consiste nel volger la faccia verso l’oriente o verso l’occidente, bensì la vera pietà è quella di chi crede in Dio, e nell’Ultimo Giorno, e negli Angeli, e nel Libro, e nei Profeti, e dà dei suoi averi, per amore di Dio, ai parenti e agli orfani e ai poveri e ai viandanti e ai mendicanti e per riscattar prigionieri, di chi compie la Preghiera e paga la Decima, chi mantiene le proprie promesse quando le ha fatte, di chi nei dolori e nelle avversità è paziente e nei dì di strettura; questi sono i sinceri, questi i timorati di Dio (Cor 2,177).

La spiritualità coranocentrica e

teocentrica fonde insieme i precetti della fede (unità e unicità di Dio, Angeli, Libri rivelati, Profeti, a cui si aggiungerà il Decreto divino) con

la pratica dell’islâm, che comprende i cosiddetti “cinque pilastri” (ne vengono qui nominati due: la Preghiera rituale e l’Elemosina legale), la solidarietà con i poveri e con chi si trova nella necessità, la fedeltà alla parola data e la pazienza fiduciosa nei momenti di avversità, sapendo che ogni cosa viene da Dio. È la “rivelazione” che apre i cuori agli uomini: la solidarietà è frutto del precetto divino.

17

Spiritualità della legge di V. C

La spiritualità della legge deriva dalla struttura stessa della “rivelazione” musulmana. Poiché la Parola di Dio si identifica direttamente con una espressione letteraria, la conseguenza immediata è che è possibile essere in sintonia con il Creatore solamente conformandosi al codice rivelato. La nozione di “via”, nel senso di codice etico, è qui fondamentale. Nel Corano il medesimo concetto è espresso mediante più termini sinonimi. Nella prassi odierna il concetto è espresso con un termine onnicomprensivo e spesso equivoco, o, meglio, equivocato: sharî’a. Esso dovrebbe indicare la via maestra sulla quale è stato posto l’uomo nel patto primordiale, pre-adamitico (mîthâq), quindi creaturale:

E quando il tuo Signore trasse dai lombi dei figli di Adamo tutti i lor discendenti e li fece testimoniare contro se stessi: «Non sono io, chiese, il vostro Signore?» Ed essi risposero: «Sì, l’attestiamo!» E questo facemmo perché non aveste poi a dire, il Giorno della Risurrezione: «Noi tutto questo non lo sapevamo!» (Cor 7,172).

Riconoscere Dio come l’uno e

unico Signore è ciò che costituisce l’uomo in quanto uomo. Per questo nell’islâm non sono previsti veri e propri riti di iniziazione. Per l’uomo si tratta solamente di riconoscere chi e ciò che è nei confronti del suo Dio, la propria “natura”10. Di fatto, se il concetto in sé è chiaro, la sharî’a è stata variamente interpretata nelle sue ricadute concrete lungo la storia11.

10 Così viene normalmente inteso in

ambito musulmano il difficile e complesso termine coranico fitra, cf. Cor 30,30.

11 Prima dalle quattro scuole giuridiche classiche, riconosciute come facenti parte dell’ortodossia sunnita (hanafita, malikita, hanbalita, shafi’ita) e poi dagli adattamenti alle situazioni storiche e ambientali delle regioni in cui si è impiantato l’islâm. Concretamente, anche se i primi due principi di partenza dell’interpretazione della legge fondamentale sono uguali per tutti i musulmani sunniti (Corano e Sunna del Profeta o Tradizione) ci sono tante articolazioni della sharî’a quante sono le articolazioni dell’islâm (dipendendo la sua determinazione, almeno teoricamente, dagli altri due principi interpretativi del diritto o fiqh, cioè il “ragionamento per analogia” o qiyâs e il “consenso” o ijmâ’, nominalmente di tutta la umma, di fatto

18

Un detto (hadîth) della Tradizione del Profeta (sunna) presenta sinteticamente il cammino spirituale del musulmano:

Una volta il Profeta – Iddio lo benedica e gli dia eterna salute – si presentò alla gente ed un uomo lo avvicinò e gli disse: «Che cos’è la fede (îmân)?». Rispose: «La fede è che tu creda in Dio e nei suoi angeli, nell’incontro con Lui, nei suoi Inviati, e che tu creda alla risurrezione». «Che cos’è l’islâm?». «L’islâm è che tu creda a Dio e non associ nessuno a Lui, che tu compia la preghiera, che tu paghi la decima d’obbligo e che tu digiuni nel Ramadân». «E che cosa sono le buone azioni (ihsân)?». «Che tu adori Iddio come se tu lo vedessi, perché se tu non lo vedi, egli vede te»12.

Il detto riassume in maniera

mirabile i doveri verso Dio (‘ibâdât) e i doveri verso il prossimo (mu’âmalât). Da questa spiritualità della legge dipende anche la pratica di una serie di obblighi e divieti, tra i quali spiccano in modo particolare quelli alimentari (macellazione rituale degli animali, divieto del sangue, proibizione della carne di maiale, di bere alcolici, ecc.). Questi “tabù” non obbediscono a nessuna

all’interno della scuola giuridica). In questo contributo consideriamo il tema nel suo fondamento, in quanto su di esso si basa la spiritualità musulmana tradizionale.

12 AL-BUKHÂRÎ, Detti e fatti, p. 92.

regola igienica e non se ne conoscono le origini storiche, ma vengono osservati solamente perché provenienti da una legge data dal Creatore. Tali ordini e divieti, che occupano una variegata gamma di distinzioni, hanno per la spiritualità musulmana significati speciali: rafforzano il senso di appartenenza alla comunità dei credenti, creando divisione rispetto alle comunità che non li osservano; danno il “senso” dell’attenzione anche alle cose materiali e fisiche, passando da una spiritualità centrata solo sull’interiorità e sull’intenzione a una spiritualità concreta, della prassi; favoriscono il senso dell’ascesi e della disciplina del credente, ricordandogli che le “cose” sono “segni” della presenza di Dio nel mondo; soprattutto ricordano che tutto nell’universo è regolato da una legge divina, che riempie di senso sia la vita umana sia le cose create.

Ci fermeremo brevemente a considerare in particolare la spiritualità che emerge dai cosiddetti cinque pilastri (arkân) dell’islâm13, che hanno tutti una dimensione normativa, rispondono cioè alla volontà di Dio, che esige la sottomissione dell’uomo.

13 Dedicherò, per ovvi motivi, uno

spazio più ampio alla preghiera rituale.

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1. La professione di fede (shahâda). Essa suona in questo modo: «Attesto che non c’è dio oltre a Dio e che Muhammad è il suo Inviato». La professione di fede ha dunque le caratteristiche della “testimonianza”. I due “articoli” sono espressi in arabo mediante due proposizioni nominali, la prima delle quali indica il termine della fede (unicità di Dio), la seconda la modalità concreta e individuante (l’invio di Muhammad) attraverso la quale la prima si è manifestata. Vengono ribadite in questo modo le due dimensioni fondamentali – teocentrica e coranocentrica – che individuano la modalità musulmana del credere, anche rispetto alle altre religioni “monoteistiche”.

Basta questa professione di fede, fatta con l’intenzione (niyya) e davanti a due testimoni qualificati, per diventare musulmani, riconoscendo in questo modo anche la propria creaturalità e la propria sottomissione a Dio14. Dal punto di vista spirituale, la professione di fede esprime l’orientamento di tutta l’esistenza verso Dio nel solco della “rivelazione” passata attraverso Muhammad e, secondo l’islâm, garantisce la salvezza eterna, come afferma a più riprese la sunna.15

14 La circoncisione maschile,

abitualmente praticata, è “tradizione” ma di per sé non indispensabile.

15 Così si esprime un hadîth: L’Inviato di Dio disse: «Colui le cui ultime parole

Ma la menzione di Muhammad ha un’importanza fondamentale. Egli è stato il Profeta o Inviato prescelto da Dio ed è diventato il modello (Corano 33,21) di ogni vero musulmano. Come dunque esprimere al meglio la propria sottomissione a Dio se non imitando la sua condotta nelle varie circostanze della vita, obbedendo concretamente alle sue parole dette in situazioni particolari della quotidianità? La “sunna del Profeta” dunque ha concretamente una dimensione altrettanto normativa del Corano per la spiritualità musulmana, benché non sia equiparabile, formalmente, alla Parola diretta di Dio (wahy, tanzîl). Secondo una tradizione che si è imposta nell’islâm, la salvezza eterna è assicurata a coloro che imparano a memoria e praticano almeno quaranta hadîth del Profeta. Tra le varie raccolte apparse nel corso dei secoli spicca quella di al-Nawawî, continuamente riedita fino ad oggi. Nei casi in cui la professione di fede esplicita non potesse essere pronunciata, basta al musulmano alzare l’indice della mano destra.

sono “Non vi è Dio oltre a Dio” entrerà in Paradiso» (AL-NAWAWÎ, Il giardino dei devoti. Detti e fatti del Profeta (a cura di A. SCARABEL), Società Italiana Testi Islamici, Trieste 1990, p. 277).

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2. La preghiera rituale (salât). Deve essere compiuta cinque volte al giorno, in orari stabiliti in modo piuttosto rigoroso16. Il numero non risulta a livello coranico ma si è imposto in seguito, grazie alla Tradizione17. Il numero cinque inoltre esprimerebbe la linea “mediana” dell’islam tra le tre preghiere canoniche degli ebrei e le sette dei monaci cristiani.

Di fatto essa copre tutto l’arco della giornata: l’alba, il mezzogiorno, il pomeriggio, il tramonto e la sera, in modo che tutta l’attività giornaliera sia sotto la protezione di Dio e che sia siglata dal “ricordo” di Lui da parte dei fedeli musulmani. La dimensione normativa della preghiera rituale ha quindi anche valore pedagogico.

La salât è un atto complesso. Nei Paesi musulmani è normalmente preceduta dal richiamo (adhân) ufficiale e solenne da parte del

16 Nei Paesi non a maggioranza musulmana e nei Paesi che contano molti immigrati musulmani, dove gli orari di lavoro non consentono la scansione della giornata secondo i ritmi della salât, i giuristi hanno operato degli aggiustamenti, prevedendo, per esempio, la possibilità di unire la preghiera del pomeriggio con quella del mezzogiorno o con quella della sera.

17 Un celebre hadîth, ad esempio, afferma che è stato stabilito in seguito alla trattativa di Muhammad con il suo Signore in occasione della sua ascensione al cielo (mi’râj).

mu’adhdhin dall’alto del minareto18. Questo è il primo atto che esprime la normatività della salât. L’invito è composto normalmente da sette formule: «Dio è (il) più grande» (Allah Akbar) (4 volte). «Attesto che non c’è dio oltre a Dio» (2 volte). «Attesto che Muhammad è l’inviato di Dio» (2 volte). «Venite alla preghiera» (2 volte). «Venite al successo» (2 volte). «Dio è (il) più grande» (Allah akbar) (2 volte). «Non c’è Dio oltre a Dio» (2 volte). Nell’invito del mattino, dopo la quinta formula, viene inserito: «La preghiera è migliore del sonno».

Prima della salât è necessaria la purificazione rituale o abluzione, la cui norma è stabilita nel Corano19. L’impurità legale, che non è legata a mancanze di ordine morale ma a contatti fisici, è di due tipi: “minore”, che richiede abluzioni semplici e “maggiore”, dovuta

18 Ora correntemente sostituito da un

megafono, mentre il mu’adhdhin sta nella moschea.

19 «O voi che credete, quando vi levate a pregare lavatevi il volto e le mani fino ai gomiti, e strofinate con la mano bagnata la testa e i piedi fino alle caviglie, e se siete in stato di impurità, purificatevi; e se siete malati o in viaggio, o se uscite dalla latrina o avete avuto rapporti con donne e non trovate acqua, usate allora buona sabbia e passatevela sul volto e sulle mani. Ricordatevi (udhkurû) della grazia che Iddio vi ha elargito e del Patto (mîthâq) che avete stretto con Lui, quando diceste: “Abbiamo ascoltato e siam pronti a ubbidire”» (Cor 5,6-7).

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generalmente a rapporti sessuali, che richiede un bagno completo. Per questo accanto alle moschee è sempre previsto un luogo adatto per le abluzioni. La purificazione rituale e la sua obbligatorietà prima della preghiera sono molto significative per comprendere il rapporto tra Dio e uomo nell’islâm. Dio rimane il “totalmente Altro”, il trascendente assoluto, racchiuso nel regno del sacro. L’uomo rimane nello stato altrettanto chiuso della sua immanenza profana. La preghiera rituale non infrange questo limite, che resta invalicabile. Se le abluzioni rispondono in primo luogo a una norma imposta dallo stesso Dio nel Corano, in secondo luogo hanno anche la funzione di attestare e testimoniare la radicale diversità tra l’ambito del Creatore e quello della creatura: “ricordano” all’uomo il patto originario creaturale. Lungo il corso della storia l’islâm ha pedagogicamente e razionalmente giustificato la norma presentandola come un atto di “buona educazione”: la pulizia del corpo quando ci si presenta davanti a una persona importante; tanto più quando ci si presenta davanti a Dio.

Infine, le abluzioni introducono a un’altra caratteristica importante della salât: il rapporto tra l’atteggiamento interiore e quello esteriore dell’uomo. Il primo viene accentuato dall’obbligo dell’intenzione (niyya). La più

importante raccolta di Tradizioni del Profeta, quella di Bukhârî, inizia con questo hadîth:

Le azioni dipendono dalle intenzioni, ed ogni essere umano ha quello che intende avere: chi ha compiuto l’egira in favore di Dio e del suo inviato, la sua egira sarà verso Dio e il Suo inviato; chi avrà compiuto la sua egira per il mondo, lo conseguirà; se per una donna, la sposerà; e la sua egira arriverà a ciò in vista di cui l’avrà compiuta20.

Seguendo Rizzardi, «possiamo

riconoscere alla niyya un triplice aspetto: un aspetto oggettivo che significa la volontà di mettersi nello stato di sottomissione mentre si compiono determinati atti; essa è la consapevole collocazione nel “sistema religioso” islamico. C’è poi un aspetto soggettivo che consiste nel creare le condizioni interne, spirituali, che predispongono all’atto richiesto. Potremmo parlare di concentrazione interiore, ritenuta necessaria e richiesta come indispensabile, perché essa è ciò che dà la “forma religiosa” all’operato. C’è infine un aspetto soggettivo purificativo, che consiste nell’eliminazione della intenzionalità individuali umane mondane al fine di compiere

20 AL-NAWAWÎ, Il giardino, p. 4.

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l’azione per “piacere a Dio” e per “seguire l’esempio del Profeta”»21.

L’intenzione interiore dunque serve a creare l’unità nell’orante ma non la “comunione” – parola tipicamente cristiana – tra Dio e il fedele. Nella salât i piani ontologici (Dio e uomo) rimangono rigorosamente distinti. La preghiera rimane sul piano “oggettivo”. Non è l’intenzionalità umana che crea la lode di Dio: questa appartiene già a Dio. Solo la testimonianza di questo dato appartiene all’intenzionalità dell’uomo.

La salât va indirizzata da parte di tutti i musulmani in un’unica direzione (qibla), segnalata nelle moschee da una nicchia scavata nel muro (mihrâb). Nella moschea il mihrâb è il punto di convergenza di tutto l’edificio, il punto focale da cui essa deriva tutta la sua architettura. La qibla, dal punto di vista spirituale, obbedisce a una prescrizione coranica:

Vediamo che tu volgi la faccia verso il cielo, ma ti doneremo ora una qibla che ti piacerà: volgi dunque il volto verso il Tempio Sacro, rivolgetevi tutti, ovunque siate, verso quella direzione (Cor 2,144).

La Ka’ba è dunque il centro

dell’islâm perché è la direzione

21 G. RIZZARDI, Islam. Spiritualità e mistica, Nardini, Fiesole 1994, p. 64.

scelta da Dio e diventa anche il punto di convergenza della comunità musulmana di tutto il mondo (cf. Cor 22,25). L’unica direzione della preghiera, inoltre, testimonia ancora una volta l’unicità di Dio e l’unicità della umma. Quando la preghiera è fatta in gruppo in una moschea, i fedeli si dispongono a ranghi serrati dietro l’imâm22, posto davanti al mihrâb, e si lasciano guidare da lui per il rito complesso della salât vera e propria, che è costituita dalla ripetizione di più unità, chiamate raka’ât (sing. rak’a), il cui numero varia secondo l’orario stabilito per la preghiera rituale. Ogni unità si svolge nel modo seguente.

All’inizio della rak’a l’orante, le mani alzate all’altezza delle spalle nell’atteggiamento dell’orante, pronuncia il takbîr (cioè: Allah akbar, Allah è (il) più grande) e recita la Fâtiha, cioè la prima sura del Corano. Al termine si dice âmîn, “amen”, aggiungendo di solito due versetti del Corano. Poi ripete ancora il takbîr e fa un profondo inchino, piegando il corpo in avanti in modo che le palme delle mani tocchino le ginocchia (rukû’), dicendo per tre volte: «Gloria al mio Signore, il Grande!». Quindi si alza in piedi (wuqûf) per dire: «Il Signore ascolta chiunque lo lodi» e «Allah akbar». Segue una prostrazione

22 Nel sunnismo è la persona che “sta

davanti” per guidare la preghiera.

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profonda (sujûd), in modo che prima le ginocchia, poi le mani e la fronte tocchino il suolo, dicendo per tre volte: «Gloria al mio Signore, il più Alto». Ci si mette quindi seduti sui talloni, con il tronco eretto (julûs), per dire: «Allah akbar». Segue una seconda prostrazione completa (sujûd), accompagnata dalle medesime parole della prima. Poi il fedele si alza in piedi (wuqûf) e, se la preghiera rituale lo richiede, comincia una nuova rak’a, dopo aver detto un’altra volta: «Allah akbar». Dopo l’ultima rak’a, prima di alzarsi e andarsene, l’orante si siede di nuovo sui talloni (julûs) e recita la professione di fede (tashahhud), poi gira la testa verso destra dicendo: «La pace e la misericordia di Allah siano su di voi» e verso sinistra pronunciando la medesima formula23.

Sia il complesso dei gesti sia soprattutto le parole che vengono pronunciate manifestano la qualità della preghiera rituale musulmana in quanto rito di sottomissione e di testimonianza. Le espressioni che siglano i gesti richiamano all’orante l’unicità, la grandezza e la trascendenza di Dio. L’uomo che prega lo fa in quanto si riconosce come adoratore, come servo e come testimone che sa chi è il suo Dio e si sottomette volentieri a Lui.

23 Cf. C. M. GUZZETTI, Islam [Dizionari San Paolo], San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2003, pp. 206-207.

Indubbiamente c’è qualche cosa di grandioso in questa lode pura e in questo affidarsi totalmente al Dio grande e potente.

La preghiera rituale può essere effettuata sia individualmente sia in gruppo, ripetendo sempre il medesimo schema. La preghiera della comunità è quella del mezzogiorno del venerdì – che viene chiamato “giorno dell’adunanza” (yawm al-jumu’a) – e che obbedisce a una prescrizione coranica: «O voi che credete! Allorché, il giorno dell’Adunanza, udite l’invito alla Preghiera, accorrete alla menzione del Nome di Dio e lasciate ogni traffico!» (Cor 62,9)24. Caratteristica principale della preghiera del venerdì è la predica (khutba), tenuta da una persona incaricata, che non necessariamente svolge temi di carattere spirituale.

Le donne, nella moschea, pregano in un luogo separato da quello degli uomini, in una specie di matroneo. Se questo mancasse, esse pregano dietro agli uomini.

Oltre alla preghiera rituale, esiste naturalmente nell’islâm anche la preghiera facoltativa (du’â’), caldamente raccomandata sia nel

24 Nell’islâm, infatti, il venerdì non è

giorno di riposo dal lavoro: lo è diventato recentemente in molti Paesi musulmani adeguandosi alle usanze dell’occidente e marcando la differenza scegliendo appunto il venerdì rispetto al sabato per gli ebrei e alla domenica per i cristiani.

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Corano che nella Tradizione (sunna). Un esempio tratto dal Corano:

Compi la preghiera (salât) al declinare del sole fino al primo oscurarsi della notte, e compi la Recitazione (qur’ân) dell’Alba, ché alla Recitazione dell’Alba assistono gli angeli; e parte della notte ancora veglia in orazione volontaria, che forse il Signore ti susciti a luogo di gloria, e dì così: «O Signore! Fammi entrare da giusto e da giusto uscire e accordami Potenza Tua che m’assista! ». E dì ancora: «È venuta la verità e svanito è l’errore: per certo, evanescente cosa è l’errore!» (Cor 17,78-81).

Alla recitazione del Corano il pio

musulmano ricorre spesso come alla sorgente prima della sua spiritualità25, ma vi si accompagna spesso anche la lettura edificante

25 Un esempio di preghiera tratto dalla

sunna: Il Profeta soleva pregare rivolgendo a Dio questa invocazione. «Mio Dio, perdonami i miei peccati e la mia ignoranza, e la mia intemperanza nel condurre le mie faccende, e tutto ciò di cui Tu sei migliore Conoscitore di me; mio Dio, perdonami il mio essere serio e il mio essere faceto, ciò che è da parte mia involontario e ciò che è volontario, e tutto ciò che sta in me; mio Dio, perdonami quello che ho già fatto e quello che farò, quel che ho tenuto nascosto e quel che ho palesato, e ciò di cui Tu sei migliore Conoscitore di me: Tu sei Colui che è prima e Tu sei Colui che è dopo, e Tu sei sovra tutte le cose Potente» (AL-NAWAWÎ, Il giardino, p. 398).

delle “storie dei profeti” (qisas al-anbiyâ’), modelli inesauribili di imitazione per la loro sottomissione a Dio e per la loro pietà.

3. L’elemosina legale (zakât).

Rispetto al pilastro precedente, quello che riguarda l’elemosina legale ha la sua base nel fondamentale principio dell’uguaglianza di tutti gli uomini richiesta dalla rivelazione coranica. Di fronte al Dio unico, trascendente e creatore che rivela la sua volontà mediante un codice, gli uomini si collocano tutti sul medesimo piano: “sotto la legge”. Solo Dio è veramente possessore di tutte le cose: «In verità a Dio appartiene il Regno dei cieli e della terra» (Corano 9,116). La parità “ontologica” di tutti gli uomini richiede solidarietà anche nei beni dati in usufrutto agli uomini. Se ci sono destini diversi, chi ha ottenuto di più non può dimenticare chi ha ottenuto di meno. L’offerta di beni in vista della giustizia sociale ed economica è richiesta innanzitutto dalla volontà espressa di Dio. Questa è la zakât. A sua volta essa stimola anche l’offerta volontaria (sadaqa). Le due modalità sono coordinate ma non andrebbero confuse.

Questo pilastro sottolinea inoltre un altro aspetto: la spiritualità non può e non deve limitarsi alla preghiera ma diventare aiuto fattivo

25

e concreto alle persone che si trovano nel bisogno; crea unità nella persona e solidarietà nella umma. Il Corano fissa non solo l’obbligo dell’elemosina ma ne specifica anche i destinatari:

Perché il frutto delle Decime e delle elemosine appartiene ai poveri e ai bisognosi e agli incaricati di raccoglierle, e a quelli di cui ci siam conciliati il cuore, e così anche per riscattar gli schiavi e i debitori, e per la lotta sulla Via di Dio e pel viandante. Obbligo questo imposto da Dio, e Dio è saggio sapiente (Cor 9,60).

La tradizione successiva si

incaricherà di determinare in maniera capillare a quali categorie di persone concrete si riferiscano i termini della Parola di Dio, come pure di precisare su quale tipo di patrimonio vada prelevata la zakât, che può variare da situazione a situazione e che non mira a un puro e semplice livellamento dei patrimoni privati.

Il Corano e la Tradizione del Profeta riservano molto spazio a questa attività caritativa, sia obbligatoria che spontanea e facoltativa, modellando una meravigliosa spiritualità della solidarietà e dell’attenzione al povero, particolarmente in situazioni di precarietà26.

26 Ne propongo solamente qualche esempio: «E quando uno dona dei suoi beni sulla Via di Dio è come un granello che fa

4. Il digiuno (sawm o siyâm). Anche in questo caso occorre distinguere tra quello che è precetto coranico e quello che è volontario.

germinare sette spighe, ognuna delle quali contiene cento granelli... Coloro che donano dei propri beni sulla Via di Dio e in seguito non rinfacciano quello che hanno donato e non offendono, avranno la loro ricompensa presso il Signore; nessun timore essi avranno né li coglierà tristezza» (Cor 2, 261.262). «Se le elemosine le farete pubblicamente, buona cosa è questa, ma se le farete in segreto dando dei vostri beni ai poveri, questa è cosa migliore per voi e servirà d’espiazione per le vostre colpe, ché Dio è bene informato di quello che fate» (Cor 2,271). L’Inviato di Dio disse: «Il giorno della risurrezione, Iddio Potente e Glorioso dirà: “Figlio di Adamo, ero ammalato e non sei venuto a trovarmi”; “Signore!, e come potrei venire a trovare Te, che sei il Signore dei mondi?!”: “Forse non sapevi che il Mio servo Tal dei Tali era ammalato, e non sei andato a trovarlo?! Non sapevi forse che andando a trovare lui avresti trovato Me con lui?! Figlio di Adamo, ti ho chiesto di darmi da mangiare, e non me ne hai dato!”; “Signore!, e come potrei dar da mangiare a Te, che sei il Signore dei mondi!?”; “Non sapevi forse che il Mio servo Tal dei Tali ti aveva chiesto da mangiare, e tu non gliene hai dato?! Non sapevi forse che se tu gli avessi dato da mangiare qualcosa, l’avresti ritrovato presso di Me?! Figlio di Adamo, ti ho chiesto di darmi da bere e non me ne hai dato!”; “Signore!, e come avrei potuto dar da bere a Te, che sei il Signore dei mondi?!”; “Ti ha chiesto da bere il Mio servo Tal dei Tali e tu non gliene hai dato; non sapevi forse che se tu gli avessi dato da bere qualcosa, l’avresti ritrovato presso di Me?!”» (hadîth qudsî) (AL-NAWAWÎ, Il giardino, p. 272).

26

In questo contesto ci interessa il primo, che riguarda esplicitamente il nono mese del calendario, il Ramadân27. Il sawm del Ramadân comporta l’astensione, dall’alba al tramonto, dal cibo, dalle bevande, dai rapporti sessuali e in genere da ogni sostanza estranea che entra nel corpo, come, per esempio, il fumo. Alla fine del giorno viene consumato un primo pasto (fatûr) e più tardi, verso la fine della notte, ne viene consumato un secondo (sahûr), in vista del giorno successivo. Il tempo intermedio è dedicato alla festa e anche alla preghiera e alla carità. La base coranica del precetto si trova in 2,183-185.187:

O voi che credete! V’è prescritto il digiuno, come fu prescritto a coloro che furono prima di voi, nella speranza che voi possiate divenir timorati di Dio, per un numero determinato di giorni; ma chi di voi è malato o si trovi in viaggio, digiunerà in seguito per altrettanti giorni. Quanto agli abili che lo rompano, lo riscatteranno col nutrire un povero. Ma chi fa spontaneamente del bene, meglio sarà per lui; il digiuno è un’opera buona per voi, se ben lo sapeste! E il mese di Ramadân, il mese in cui fu rivelato il Corano come guida per gli uomini e prova chiara di retta

27 Ricordiamo che il calendario

musulmano è esclusivamente lunare, quindi i mesi “girano” lungo l’anno solare, che è mediamente più lungo di undici giorni.

direzione e salvazione, non appena ne vedete la nuova luna, digiunate per tutto quel mese, e chi è malato o in viaggio digiuni in seguito per altrettanti giorni. Iddio desidera agio per voi, non disagio, e vuole che compiate il numero dei giorni e che glorifichiate Iddio, perché vi ha guidato sulla retta Via, nella speranza che Gli siate grati [...] V’è permesso, nelle notti del mese del digiuno, d’accostarvi alle vostre donne: esse sono una veste per voi e voi una veste per loro. Iddio sapeva che voi ingannavate voi stessi, e s’è rivolto misericorde su di voi, condonandovi quel rigore; pertanto ora giacetevi pure con loro e desiderate liberamente quel che Do vi ha concesso, bevete e mangiate, fino a quell’ora dell’alba in cui potrete distinguere un filo bianco da un filo nero, poi compite il digiuno fino alla notte e non giacetevi con le vostre donne, ma ritiratevi in preghiera nei luoghi d’orazione. Questi sono i termini di Dio, non li sfiorate. Così Iddio dichiara i Suoi segni agli uomini, nella speranza ch’essi Lo temano.

La lunga citazione contiene i

significati del precetto del digiuno. La Tradizione e i giuristi musulmani ne preciseranno in seguito tutte le modalità concrete e le regole minuziose. Il digiuno è un ordine divino (vi è prescritto... questi sono i termini di Dio, non li sfiorate). Non è questione qui di asperità o di facilità del digiuno stesso: facile o difficile che sia, esso va praticato perché è prescritto da Dio, si giustifica perché è la legge divina

27

che lo esige. Il suo scopo è di ottenere dagli uomini il “timore del Signore” (taqwâ) (nella speranza che voi possiate divenir timorati di Dio... così Iddio dichiara i Suoi segni agli uomini, nella speranza che essi Lo temano), cioè raggiungere, “sapienzialmente”, l’ordine creaturale, riconoscendolo come unico Dio e Signore. Il precetto è pedagogico: ricorda all’uomo chi è il suo Dio e chi è lui in rapporto a Dio. Il “timore” non è la paura ma piuttosto il riconoscimento umile e riconoscente, da parte dell’uomo, della sua condizione rispetto alla potenza divina, da cui nasce la sottomissione e l’affidamento (cf. Cor 2,189: «La vera pietà (birr) sta nel temere Iddio»).

Il digiuno limitato alle ore diurne stabilisce da un lato la “via mediana” dell’islâm (il Signore desidera agio per voi, non disagio), dove tutto è contemperato tra la rilassatezza dei costumi e il rigore estremo; dall’altro manifesta la misericordia divina nei confronti della debolezza umana (si è rivolto misericorde su di voi, condonandovi quel rigore). La scelta del mese di Ramadân è giustificata con la straordinaria importanza assunta dalla “rivelazione” del Corano nella “notte del destino”, celebrata

normalmente tra il 26 e il 27 del mese28.

Alla “purificazione” fisica del digiuno deve corrispondere la purificazione interiore (ritiratevi in preghiera nei luoghi d’orazione) per essere in grado di accogliere “puri” la guida per gli uomini e prova chiara di retta direzione. In questo senso il digiuno, come la zakât, tende a creare unità nell’uomo tra la sua componente fisica e la sua componente spirituale, in modo che tutta la persona corrisponda all’ordine creaturale stabilito da Dio e cammini sulla via da Lui tracciata. Infine il mese di digiuno di Ramadân, ancora come la zakât, tende a ristabilire l’ordine nella comunità, attenuando le cause di disparità nella umma (lo riscatteranno col nutrire un povero) dal punto di vista economico. La carità durante il mese di digiuno è diventata quasi proverbiale in ambito musulmano. In questo modo si evidenzia come la spiritualità musulmana tenda a essere globale nell’ordine creaturale, legando l’unità dell’individuo con l’unità della società.

Il mese di Ramadân gode di larghissimo seguito nella pratica dei

28 «In verità lo rivelammo nella Notte

del Destino. Cos’è mai la Notte del destino? La Notte del Destino è più bella di mille mesi. Vi scendono gli angeli e lo Spirito, col permesso di Dio, a fissare ogni cosa. Notte di pace fino allo spuntar dell’aurora» (Cor 97).

28

musulmani, anche se non sempre è praticato in tutto il suo rigore, non solo nei paesi a maggioranza musulmana ma anche tra gli emigrati in paesi non musulmani, in quanto viene sentito come un periodo tradizionalmente e culturalmente identificante.

La fine del digiuno di Ramadân, è siglata da una festa, chiamata ‘îd al-fitr, cioè la festa della rottura del digiuno, o anche ‘îd al-saghîr, cioè la festa “piccola”, per distinguerla dalla festa “maggiore”, quella dei sacrifici, che avviene durante il mese del pellegrinaggio.

Vi sono altre specie di digiuno che rispondono a una prescrizione coranica, come quello che deve seguire l’omicidio di un musulmano per errore (4,92) o quello previsto in seguito a un’offesa grave fatta alla moglie (58,3-8). Ma è soprattutto nella sunna del Profeta che vengono proposte regole per il digiuno obbligatorio e per quello volontario, come quello dell’Ashûrâ (obbligatorio per gli sciiti), quello del martedì e del giovedì, e così via29. Il digiuno legale obbedisce

29 Riporto un hadîth qudsî, in cui è sottolineato il fatto che il digiuno è un’opera fatta per lo stesso Dio e che non riguarda solamente l’astensione da ciò che è materiale: L’Inviato di Dio disse: «Iddio Potente e Glorioso ha detto: “Ogni azione del figlio di Adamo gli appartiene, eccetto il digiuno, che appartiene a Me, ed Io ne do ricompensa; il digiuno è un’armatura, e quando sia giorno di digiuno per uno di voi,

alla prescrizione divina stabilita dal Corano ma indirizza poi il fedele a una partecipazione più attiva e globale, in vista di un’unità interiore nella sottomissione umile e attiva. Si tratta quindi di una spiritualità che parte dalla legge e che nella legge stessa tende a ritrovare l’unità di Dio e l’unità dell’uomo.

5. Il pellegrinaggio (hajj). Il

quinto pilastro dell’islâm riguarda il pellegrinaggio alla Mecca, una volta nella vita, per ogni musulmano libero, dotato di capacità legale, sano di corpo, in grado di acquistarsi le provviste per il viaggio e i mezzi di trasporto, che può assicurare il mantenimento dei suoi per tutta la durata del viaggio, a condizione che le vie che conducono alla meta siano sicure. Il pellegrinaggio obbligatorio (hajj) si distingue dalle altre forme facoltative di visita ai luoghi sacri della Mecca (ad esempio la ‘umra, che può essere fatta in qualsiasi periodo dell’anno e che non comprende tutti i riti che

non nutra propositi osceni né vociferi, e se qualcuno lo ingiuria o lo combatte, dica: Sto digiunando; e per Colui nella Cui Mano è l’anima di Muhammad, l’alito cattivo che promana dalla bocca di colui che sta digiunando è migliore davanti a Dio del profumo del muschio; chi digiuna ha due motivi di cui rallegrarsi: si rallegra quando lo rompe, e si rallegrerà del digiuno fatto quando incontrerà il suo Signore”» (AL-NAWAWÎ, Il giardino, pp. 341-342).

29

verranno descritti sotto) e tanto più dai pellegrinaggi alle tombe dei santi (ziyâra), così frequenti e praticati nelle forme della pietà popolare, di fatto diffusissime nella galassia musulmana. Il fondamento coranico del hajj si trova in 22,26-30, nella sura chiamata appunto del “pellegrinaggio”:

Rammenta quando facemmo abitare Abramo nel recinto (maqâm, cf. anche 2,125) della Casa di Dio dicendogli: «Non associarmi oggetto alcuno, ma purifica la Mia Casa per quei che l’aggirano pii, per i ritti in preghiera, per chi si inchina e si prostra! E leva fra gli uomini voce d’invito (adhân) al pellegrinaggio (hajj), sì che vengano a te a piedi, e su cammelli slanciati, che vengano a te da ogni valico fondo tra i monti, acciocché siano testimoni dei vantaggi che ne avranno, e in giorni determinati menzionino il nome di Dio sulle bestie dei greggi di che Iddio li ha provveduti. Mangiatene quindi, e datene al misero e al bisognoso. Mettano poi fine ai loro interdetti, sciolgano il voto, e venerabondi aggirino la Casa Antica. Sì, perché chiunque rispetterà le sacre interdizioni di Dio, sarà meglio per lui presso il Signore» (cf. anche Cor 2, 196-200.203; 3,97).

Il pellegrinaggio alla Ka’ba ha

origini pre-islamiche, risignificate poi nell’islâm in funzione del Dio unico e mediante il richiamo al primo “monoteista” Abramo, che avrebbe restaurato e purificato il

luogo sacro insieme con Ismaele (cf. Corano 2,127). Il richiamo di Abram ha un’importanza straordinaria per tutte le celebrazioni del pellegrinaggio.

Il rito è complesso. Ne presento una sintesi30. Esso si svolge nel mese di dhû l-hijja, ultimo mese del calendario islamico, dal giorno 8 al 12 o 13. I pellegrini indossano un vestito speciale, detto ihrâm, uguale per tutti e formato da due pezze di cotone bianco: l’una è avvolta intorno alla vita, l’altra copre la spalla sinistra ed è legata sotto la spalla destra. Le donne non indossano vesti speciali. I pellegrini entrano così in uno stato di sacralità, detto anch’esso ihrâm, durante il quale non possono avere rapporti sessuali, usare profumi, indossare vestiti cuciti, tagliarsi le unghie o i capelli. Il pellegrinaggi ha inizio l’8 del mese di dhû l-hijja, con un’abluzione e con la recita della formula rituale: «O Dio, eccoci a te!» (Allâhumma, labbayka!). I pellegrini entrano poi nel cortile della Grande Moschea della Mecca e, partendo dalla Pietra Nera, incastonata nella parete est della Ka’ba, compiono sette volte il tawâf o giro rituale attorno al santuario. Dopo una preghiera presso la «Stazione di Abramo» (maqâm Ibrâhîm), bevono un po’ dell’acqua di Zamzam (secondo la tradizione, sgorgata miracolosamente per Agar

30 Cf. GUZZETTI, Islam, pp. 111-112.

30

e per Ismaele nel deserto della Mecca) e compiono sette volte – parte di corsa e parte a passo normale – il percorso (sa’y) tra le due piccole alture di al-Marwa e al-Safâ (altro richiamo ad Agar, che correva ansiosa tra queste due località mentre cercava da bere per il piccolo Ismaele). Una volta compiuto il sa’y, i pellegrini si tagliano una ciocca di capelli per indicare la fine del pellegrinaggio minore (‘umra). Il giorno 9 di dhû l-hijja comincia il pellegrinaggio maggiore (hajj). I pellegrini si recano nella valle di Minâ, circa dieci chilometri dalla Mecca, dove passano la notte. Il giorno dopo proseguono per la pianura di ‘Arafa, circa venti chilometri dalla Mecca, al cui centro si trova una piccola altura, chiamata «Monte della Misericordia» (jabal al-rahma) e vi rimangono in piedi (wuqûf) fino al tramonto del sole, pregando e ascoltando sermoni. Vanno poi a passo svelto (ifâda) a Muzdalifa, tra ‘Arafa e Minâ, vi passano la notte e il giorno dopo ritornano a Minâ. Cammin facendo gettano sette pietruzze contro una delle tre colonne (jamra) che simboleggiano Satana. Giunti a Minâ, sacrificano una vittima, di solito una pecora, ricordando il montone che Abramo sacrificò al posto del figlio, si fanno rasare la testa (le donne solo la punta dei capelli) e indossano i vestiti normali. La carne degli

animali sacrificati, ora debitamente congelata, viene distribuita tra i poveri dei paesi musulmani. I pellegrini tornano quindi alla Mecca per un ultimo giro rituale attorno alla Ka’ba e passano gli ultimi tre giorni (11,12 e 13 di dhû l-hijja) a Minâ, gettando ancora pietruzze contro le tre colonne simboliche. Prima di ritornare ai loro paesi di origine, molti pellegrini fanno una visita alla tomba di Muhammad a Medina.

I riti del pellegrinaggio sono accompagnati da numerose preghiere e formule, che esprimono gli atteggiamenti più vari da parte del pellegrino. In primo luogo il desiderio di obbedire e di sottomettersi alla volontà di Dio nella maniera che egli prescrive, cioè l’intenzionalità (niyya) del pellegrinaggio, come nella formula continuamente ripetuta labbayka o come in questa preghiera di inizio:

Signore, tu sei il mio compagno in questo viaggio, mi sostituisci accanto a mia moglie, ai miei beni, ai miei bambini e ai miei amici: proteggi me e loro da ogni sventura e da ogni male! Concedimi nel viaggio virtù e fede, suggeriscimi azioni che ti siano gradite, fa’ che i miei passi percorrano agevolmente il sentiero, facilitami il percorso! Concedimi salute del corpo, fede e buona sorte! Concedimi di compiere il pellegrinaggio alla tua Casa e la

31

visita alla tomba del tuo Inviato, Muhammad!31

In secondo luogo l’attestazione

della propria identità di musulmano, a esclusivo servizio del Dio unico nel luogo da Lui scelto per la sua adorazione, come in questa preghiera di ingresso nel territorio sacro della Mecca:

Eccomi al tuo servizio, Signore, eccomi al tuo servizio! Eccomi al tuo servizio: tu non hai uguali! Eccomi al tuo servizio! A te la lode, la grazia, il regno! Tu non hai uguali! Eccomi al tuo servizio!32

In terzo luogo l’unità della

umma. Tutti i musulmani arrivano allo stesso luogo su un piano di assoluta parità, tutti indossano il medesimo vestito, dal più piccolo al più grande, dal re all’ultimo dei suoi servi, tutti compiono i medesimi riti e pronunciano le medesime parole. Forse nessuno dei pilastri dell’islâm come il pellegrinaggio raggiunge questo senso di parità di tutti gli uomini di fronte alla trascendenza assoluta di Dio e all’unica mediazione della legge coranica. La spiritualità che ne deriva è di una profonda unità, che abbraccia nello stesso tempo quella di Dio, quella dell’individuo e quella della

31 Cit. in GUZZETTI, Islam, p. 276.

32 Cit. in GUZZETTI, Islam, pp. 276-277.

comunità musulmana. Come diceva il grande teologo al-Ghazâlî (morto nel 1111), «il hajj si pone in alternativa al monachesimo, che invece si trova in altre religioni. Dio altissimo ha fatto del hajj il monachesimo della comunità di Muhammad ed ha esaltato su tutti gli altri templi la Santa Casa»33.

Il decimo giorno del mese del pellegrinaggio tutta la umma celebra la “festa dei sacrifici” (‘îd al-adhâ), chiamata anche la “grande festa” (‘îd al-kabîr), in spirituale sintonia con i fratelli che stanno compiendo il pellegrinaggio, sacrificando un agnello. La “festa dei sacrifici” e quella della “rottura del digiuno” del mese di Ramadân sono considerate in tutta la comunità musulmana come le uniche festività ufficiali. Altre ricorrenze, come la nascita del Profeta (al-mawlid) o il capodanno lunare o l’ascensione al cielo di Muhammad (al-mi’râj), non hanno la medesima diffusione e il medesimo riconoscimento.

33 Cit. in GUZZETTI, Islam, p. 112.

32

La «via» dei sufi (tasawwuf) di V. C

Rispetto alla spiritualità

“tradizionale” dell’islâm, la spiritualità mistica o, più propriamente ed esattamente, sufica (tasawwuf)34, non rappresenta un’alternativa ma uno sviluppo particolare.

Le radici infatti sono comuni: il primato assoluto dell’unità-unicità

34 «Gli stessi autori musulmani non sono riusciti a fornire un’etimologia univoca e soddisfacente di questa espressione. Nei testi islamici, essa viene di frequente riferita al sostantivo suf (“lana”), che alluderebbe al materiale di cui era fatto il saio indossato dai primi asceti, ma assai frequente è stata anche la proposta di far derivare la parola dall’idea di “purezza” (safâ’) o dal sostantivo suffa, che ricorda una categoria di poveri e pii personaggi che il Profeta aveva ospitato sotto un portico (suffa appunto) adiacente alla sua casa di Medina. Ad ogni modo, già sul finire dell’VIII secolo abbiamo la prima attestazione conosciuta del termine sufi per indicare un devoto di Kufa, e attorno alla metà del IX secolo l’uso di definire con questa espressione coloro che si dedicavano con particolare intensità alle discipline spirituali è ormai ampiamente affermato; di poco successiva è la diffusione del termine tasawwuf (“professare di essere sufi”) per indicare la tendenza nel suo complesso» (A. VENTURA, in G. FILORAMO (a cura), Islam, Laterza, Bari 1999, p. 181).

di Dio (tawhîd), il Corano come mediazione tra Dio e uomo, la sunna e la figura del Profeta dell’islâm come modello e punto di riferimento di quanto Dio opera nell’uomo. È all’interno del Corano che la spiritualità dei sufi trova le sue preferenze, quando sceglie i versetti che parlano dell’amore tra Dio e uomo35 o accentua le espressioni della prossimità di Dio all’uomo e alla sua presenza non solo accanto ma in lui: «Quando i Miei servi ti chiedono di Me, Io sono vicino; ed esaudirò la preghiera di chi prega quando Mi prega» (Cor 2,186); «In verità Noi creammo l’uomo, e sappiamo quello che gli sussurra l’anima dentro, e siamo a lui più vicini che la vena grande del collo» (Cor 50,16). I sufi sono appassionati dall’esperienza straordinaria di Muhammad nel suo viaggio

35 «Di’: “Se veramente amate Dio,

seguite me e Dio v’amerà e vi perdonerà i vostri peccati”» (Cor 3,31); «Se qualcuno di voi rinnega la sua religione, ebbene, Iddio susciterà uomini che Egli amerà come essi ameranno Lui, umili coi credenti, fieri coi miscredenti, combattenti sulla via di Dio, impavidi di fronte a ogni biasimo» (Cor 5,54).

33

notturno dal santuario della Mecca al “tempio più lontano” (Cor 17,1) e dalle visioni del Profeta che si è avvicinato, come preciseranno le tradizioni successive, alla grande e misteriosa dimora di Dio al “loto del limite” (Cor 53,1-18). L’uomo è sì “servo adoratore” ma anche “vicario” (khalîfa) di Dio (Cor 2,30), benché sempre a lui sottomesso, in quanto “per natura” (fitra) (Cor 30,30) è vicino a Dio e capace di rendergli lode “ricordandolo” in continuazione mediante i suoi Nomi (o attributi). L’unica Realtà vera e sussistente viene scoperta in Dio: «E non invocare insieme con Dio un altro dio: non v’è altro Dio che Lui, e tutte le cose periscono salvo il Suo volto» (Cor 28,88).

A partire da queste sottolineature si sviluppa all’interno dell’islâm fin dai primi secoli un movimento36 di particolare ascesi che non rifiuta ma sorpassa la “via media” della spiritualità tradizionale. Se Dio è veramente l’unico sussistente, allora

36 Se è abbastanza scontato il fatto che

l’anima interiore dell’islâm si manifesta fin dagli inizi e che si tratta quindi di uno sviluppo interno all’islâm che solo in seguito ha assorbito influenze esterne come quella neoplatonica, non è altrettanto facile sintetizzare le ramificazioni prodotte da questo movimento. In questo contesto è possibile balbettare e tratteggiare solo alcune linee di fondo. Un’ampia, accurata scelta di testi delle figure principali del sufismo si può trovare nei tre volumi a cura di G. SCATTOLIN (cf. bibliografia).

tutta la realtà visibile e sperimentabile è transitoria. Progressivamente gli asceti e poi i sufi scoprono la vacuità della dimensione corporea, sussistente solo perché sostenuta dall’unica vera Realtà e Verità (haqq) divina. Dio è la Realtà delle realtà. L’ascesi è il tentativo di liberarsi dalla dimensione fisica, per scoprire la presenza di Dio nella profondità del sé. Queste forme di ascetismo in vista della ricerca di Dio si trasformano in una continua emigrazione (hijra), che è nello stesso tempo fisica e spirituale. Il sufi infatti è un perenne migrante (muhâjir): fisicamente, da un sapiente o da un maestro all’altro, da un luogo all’altro, per cogliere nella varietà delle esperienze ciò che è essenziale; spiritualmente, dall’esteriorità superficiale e vana verso un’interiorità sempre più profonda, alla ricerca dell’abitazione e della verità divina. L’ascesi quindi non è fine a se stessa: è piuttosto la vera coscienza della precarietà dell’essere creaturale, che ha bisogno di spogliarsi di tutto, anche di se stesso per raggiungere l’unica realtà, che è Dio.

Questa coscienza non è frutto di un ragionamento prodotto dalla sola forza della mente umana ma piuttosto un’illuminazione interiore prodotta dalla luce divina (Cor 24,35), la stessa che un giorno aveva illuminato Muhammad

34

(nûr muhammadî) e che ora illumina il sufi. Questi allora diviene in qualche modo partecipe dello stesso privilegio del Profeta dell’islam e di fatto a lui si raccorda. Tale luce è una conoscenza superiore, una gnosi (ma’rifa, spesso opposta alla conoscenza religiosa ‘ilm), data da una grazia divina che pone il sufi in uno stato di particolare vicinanza a Dio. Di per sé questa conoscenza non supera i limiti della sharî’a – consiste infatti nella sua massima interiorizzazione – ma di fatto la supera, perché ne coglie il significato autentico. Il sufi non abiura il senso esterno, letterale (zâhir) del Corano ma per grazia divina è in grado di coglierne la radice prima, unitaria e unica (ta’wîl), scoprendone il significato profondo e nascosto (bâtin). La spiritualità dei sufi esprime dunque il desiderio di superare tutto ciò che è umano, materiale, esteriore per cercare l’unificazione, nell’interiorità, con il Dio della sharî’a.

La meta ultima è raggiunta, dopo una lunga serie di tappe (makâm) ascetico-mistiche e di stati particolari (ahl, pl. ahwâl) concessi da Dio, per via negativa con l’annientamento del sé individuale (fanâ’)37 e per via

37 Non è facile cercare di definire che cosa intendano realmente i sufi quando parlano dell’annientamento del sé o, letteralmente, dello “spegnimento” (fanâ’).

positiva con l’unificazione con Dio, che comprende la vita vera e perenne (baqâ’), fino a sperimentare e a poter dire: «Io sono Lui e Lui è me». In questo modo si realizza la verità del tawhîd: l’unità assoluta di Dio coincide con l’unificazione dell’uomo, la cui vera vita è solo in Dio. Di qui le espressioni tipiche di questa spiritualità che privilegia la fede rispetto alla pratica, la dimensione interiore rispetto all’esteriore, l’amore rispetto alle opere della legge, il silenzio rispetto alla parola, la passività rispetto all’attività.

Lungo la storia dell’islâm il sufismo ha attraversato momenti di forte tensione con l’ortodossia

Di qui le interpretazioni molto diversificate degli studiosi e i problemi sorti all’interno dello stesso islâm. Mi limito a riportare una citazione tratta da Akbarabadi: «Quando l’essenza della creatura svanisce, si estingue nell’Essenza di Dio e cessa di esistere, come una goccia d’acqua perde la propria individualità nell’oceano. Questo fanâ’ si produce quando si manifesta l’Essenza divina. Quando gli attributi della creatura si estinguono negli Attributi di Dio: allora i suoi attributi umani sono sostituiti dagli Attributi divini, e Dio diviene il suo orecchio e il suo occhio. Quando l’essenza della creatura scompare nella luce dell’Essenza divina, come scompaiono le stelle nella luce del sole, la sua qualità di creatura non cessa di esistere, ma è dissimulata sotto l’aspetto della Creatività: il Signore è manifesto, e il servitore invisibile» (riportato da RIZZARDI, Islam, p. 109).

35

sunnita. Il culmine fu raggiunto nel corso del decimo secolo dell’era cristiana a Baghdad con l’esecuzione particolarmente crudele di al-Hallâj, le cui affermazioni sulla sua identità con Dio («Io sono il Vero») suscitarono la ribellione degli ambienti ortodossi più rigidi. Ma già pochi decenni dopo la sua morte il movimento rifiorì, sorsero le prime sistematizzazioni della “via sufi”, mentre il suo definitivo avallo nell’ufficialità e il riconoscimento anche da parte dell’ortodossia si ebbe con al-Ghazâlî (m. 1111), straordinario pensatore e sufi lui stesso, chiamato “la prova dell’islâm”.

Le tensioni tra i sufi e le confraternite successive da una parte e l’ortodossia sunnita dall’altra meritano una precisazione, per evitare un equivoco sulla comprensione della spiritualità dei sufi. L’atteggiamento del mistico musulmano, infatti, proprio a causa del suo disinteresse personale per il potere temporale e i suoi equilibri, giustificati spesso in base alla religione, si è posto spesso come una forte critica alle autorità e al loro modo di governare. La ricerca sufi non si è mai staccata dalle vicende della storia concreta degli uomini. Secondo i mistici musulmani la ricerca di Dio va di pari passo con la ricerca dell’uomo: l’assoluta unicità e trascendenza di Dio relativizzano

ogni potere umano e lo privano di autorità quando prevarica sull’uomo. In questo contesto è possibile comprendere perché, soprattutto a partire dal XVIII secolo, le confraternite sufi abbiano svolto un ruolo di primo piano nella politica di molti stati musulmani. Se il caso più clamoroso e più noto dei tempi moderni è quello del sufi algerino ‘Abd el-Kader38, ancora oggi molti mistici hanno serie difficoltà con il potere e non pochi vengono soppressi.

La meravigliosa spiritualità dei sufi si presenta dunque come una “via” (tarîqa, pl. turuq), che richiede un lungo apprendistato. Già nei primi secoli dell’islam i sufi attiravano attorno a loro schiere di discepoli e di ammiratori, che desideravano percorrere la loro stessa via. Tali associazioni si strutturarono a partire dal XII-XIII secolo in “confraternite” (turuq), che ebbero enorme diffusione in tutta la galassia musulmana e che ancora oggi rappresentano una larga parte dell’islam mondiale.

La prima disposizione di un aspirante (murîd) al percorso sufi è l’obbedienza assoluta al suo maestro spirituale (shaykh, murshid, pîr). Egli rappresenta infatti per lui non solo la persona che gli forgerà un cammino su misura, adattato alle

38 Cf. ora anche in italiano il suo Libro

delle soste (a cura di M. CHODKIEWICZ), Bompiani, Milano 2001.

36

sue capacità, ma anche l’uomo perfetto (al-insân al-kâmil), portatore della luce (nûr) o realtà interiore del Profeta dell’islâm (haqîqa muhammadiyya), al quale è collegato da una catena ininterrotta di maestri. Lo shaykh lo guiderà attraverso le differenti tappe (maqâm) del cammino insegnandogli, secondo quanto lui stesso ha ricevuto, le “convenienze” o “buone maniere” spirituali (adab) che si addicono al suo stato e trasmettendogli la baraka, cioè l’influsso divino di cui è portatore. L’aspirante si sottometterà docilmente ai diversi servizi che gli sono imposti e che lo renderanno idoneo a far parte della cerchia del maestro.

L’attività spirituale di maggior rilievo nelle confraternite sufi è il dhikr – un vero e proprio rito che deve obbedire a requisiti precisi – che significa “ricordo” o “menzione” del Nome o dei Nomi di Dio. È il maestro infatti che impone al discepolo le modalità, gli orari, i toni e i ritmi dell’invocazione. Ma la realtà forse più spettacolare è il samâ’ (lett. “ascolto”, ma chiamato anche “concerto”): sotto la supervisione del maestro la confraternita si ritrova in tempi determinati per un’invocazione (dhikr) collettiva, spesso con effetti estatici straordinari. È questa forma suggestiva, cui si aggiungono spesso danze rituali o lettura di poesie del

maestro, che ancora oggi è praticata dalle confraternite sufi.

Concludendo: la spiritualità

dell’islam parte dal tawhîd e termina nel tawhîd; essa cerca da un lato l’unità tra le differenti componenti del creato, della comunità musulmana e dell’individuo e dall’altro l’unificazione dell’uomo con lo stesso Dio. Le due anime dell’islam, quella “tradizionale” e quella sufi seguono percorsi differenti ma condividono lo stesso punto di partenza e di arrivo.

Molti sarebbero i punti di convergenza e altrettanti i punti di divergenza con la spiritualità cristiana. I percorsi spesso sono analoghi mentre i punti di partenza sono differenti. Il percorso del dialogo non è quello della convergenza a tutti i costi, ma quello di un tratto di strada da percorrere insieme rispettando il cammino dell’altro. Il Corano afferma:

A ognuno di voi abbiamo assegnato una regola e una via, mentre, se Dio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una Comunità Unica, ma ciò non ha fatto per provarvi in quel che vi ha dato. Gareggiate dunque nelle opere buone, ché a Dio tutti tornerete, e allora Egli vi informerà di quelle cose per le quali ora siete in discordia (Cor 5,48).

37

Cenni bibliografici in italiano

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Note

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Gesù e Maria tra Vangelo e Corano

di Graciela Otsu Navarrete

Per un corretto approccio alle figure di Gesù e di Maria nel Corano, bisogna considerare che il Corano si forma attorno ai primi decenni del VII secolo. In quel tempo le notizie del cristianesimo arrivavano all’Arabia (la Mecca e Yatrib) nella sua forma monofisita- nestoriana, ma si tratta di elementi frammentari, idee vaghe e inesatte sulla Trinità, sul cristianesimo, e notizie leggendarie su Gesù.39 Sarà anche importante considerare che le fonti usate da Maometto [o da suoi informatori] su Maria e su Gesù sono, oltre ai quattro Vangeli canonici, i racconti e leggende apocrifi come il Protoevangelo di Giacomo, lo Pseudo-Matteo e soprattutto il Vangelo di Tommaso (detto anche il Vangelo dell’infanzia del Salvatore)40, facendo una sintesi tra Vangeli canonici e apocrifi dando però particolare preferenza a questi ultimi.

Questo fatto insieme ad altri motivi storici e politici, volontari o involontari (difficile da individuare) hanno dato come risultato inesattezze, contraddizioni, imprecisioni degli elementi evangelici disseminati nel Corano e che determinano delle divergenze sostanziali attorno alla figura e personalità di Gesù e Maria; ciò nonostante, si possono trovare anche delle convergenze. E’ importante conoscere le une e le altre, ma soprattutto il patrimonio comune al cristianesimo e all’Islamismo che ci consenta di intraprendere un dialogo costruttivo. In queste poche pagine, cerco di individuare alcuni elementi importanti che potrebbero essere utili a tale scopo fermandomi allo strettamente essenziale. Per questa presentazione mi servo fondamentalmente di Guzzetti nel suo interessante confronto sinottico Bibbia e Corano, e di altri autori.

I. Maria, la madre di Gesù nel Corano Maria appare come una delle figure più belle del Corano che parla di lei

sempre con il massimo rispetto. Fuori del dogma della divina maternità, tutti gli altri dogmi e le tradizioni mariane della Chiesa possono trovare, in

39 Cf. A. BAUSANI, Il Corano, R.C.S. Rizzoli Libri S.p.A., Milano 1994, p.XVII-XVIII.

39

40 Cf. CH. M. GUZZETTI, Bibbia e Corano: confronto sinottico,Milano, San Paolo, 1995, p. 233; F.PEIRONE, Cristo nell’Islam, Ed. Consolata, Torino, 1964, p.56.

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un certo senso, un punto di appoggio nel Corano41. Tra le tradizioni, la nascita di Maria riportata dal Corano (Sura 3,33-37) fa chiaro riferimento al Protoevangelo di Giacomo 4,1; 5,2 e al Pseudo-Matteo IV42. Senza fermarmi agli avvenimenti evangelici che pur trovano una loro risonanza nel Corano, come l’Annunciazione (Sura 19,17-21; 3,45-46), la Concezione Verginale (Sura 19,20-22), il Natale (Sura 19,22), cerco di individuare qui alcune convergenze e divergenze che mi sembrano importanti tra Vangelo e Corano a livello mariologico:

1.1. Convergenze mariologiche

DIGNITA’ E SANTITA’ DI MARIA43

NEL VANGELO NEL CORANO - Maria è madre di Gesù, figlio di Dio, quindi Madre di Dio (Mt 1,16)

- Maria è madre di Gesù (Sura 2,87b; 2,87.253; 3,45;4,157.171; 5,17.46.72.75.78; 21,91;23,50;43,57.)

- Vergine (Mt 1,20b) - prescelta da Dio, pura, eletta su tutte le donne (Sura 3,42) - mai toccata da uomo (Sura 3,47) - custodisce la sua verginità ed è un segno (esempio) per le creature (Sura21,91; 66,12a)

- vera credente (Lc 1,38) - vera credente e donna devota (Sura 66,12b)

- Benedetta, piena di grazia (Lc 1,28)

- Santa (Sura 5,75), senza peccato (3,42-48; 21,91)44

1.2. Tre divergenze fondamentali a. Maternità divina Tra le differenze, la più essenziale è senza dubbio il fatto che il Corano

respinge con orrore che Maria sia Madre di Dio, come Gesù stesso non può 41 Cf. F.PEIRONE, Cristo nell’Islam, p.43. 42 Cf. CH. M. GUZZETTI, Bibbia e Corano, p.234-235. 43 Cf. Ibid., p.244-245. 44 Cf. Ibid., p. 237, nota a. Sulla Sura 3,42-48, “Possiamo affermare che, con una terminologia

assai meno elaborata di quella cristiana [il Corano], ammette in pratica che Dio ha preservato Maria da ogni peccato (cf. 21,91; 66,12)”.

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essere Dio, ma una semplice creatura umana: “Il Cristo figlio di Maria non era che un Messo di Dio come gli altri che furono prima di lui, e sua madre era una santa, ma ambedue mangiavano cibo.” (Sura 5,75a). Alla base di questo si trova il fatto che il Corano ha una concezione estremamente materiale della paternità, compresa quella divina, essa è inconcepibile senza rapporti sessuali tra due persone di sesso diverso, come affermato dalla Sura 6,101a: “Creatore nuovissimo dei cieli e della terra, come potrebbe egli avere un figlio se non ha una compagna (consorte)…?”.45

b. Maria, membro della Trinità Il Corano afferma che i cristiani considerano Maria come un membro

della Trinità (Sura 5,116). La Sura 4,171-172 nega la Trinità e la divinità di Gesù: “non dite: ‘Tre!’ Basta!”; ma è evidente una misconoscenza del dogma cristiano per cui il Corano non condanna in realtà la Trinità come conosciuta dal cristianesimo, ma piuttosto un “triteismo composto da Dio Padre, da Gesù e da Maria sua Madre”46.

c. Maria, “sorella di Aronne” Apparentemente c’è una confusione nel Corano tra Maria, Madre di

Gesù e Maria sorella d’Aronne e Mosè, difficilmente attribuibile a Maometto però ugualmente non risolta. Per Guzzetti questo può essere interpretato invece come “della discendenza di Aronne”47.

II. Gesù nel Corano: un profeta eccezionale Ci sono delle divergenze fondamentali tra cristianesimo ed Islamismo per

quanto riguarda la persona e la missione di Gesù. La figura di Maria appare nel Corano sempre legata a quella del figlio Gesù a tal punto da dire (in più brani) che i due costituiscono “un solo segno”48 E Gesù viene chiamato nel Corano il “figlio di Maria”, il che vuole indicare sì la sua origine del tutto eccezionale, ma anche che Gesù è un semplice uomo e non Figlio di Dio. Questo costituisce, come si vedrà, una differenza fondamentale che separa abissalmente l’Islam dal Cristianesimo. L’atteggiamento coranico verso Gesù va in due direzioni: una di grande rispetto in quanto uomo eminente,

45 Cf. Ibid., p.253, nota d. 46 Ibid.. 47 Cf. Ibid., p.241, nota b. 48 “E così anche del Figlio di Maria e di sua Madre facemmo un Segno” (Sura 23,50; cf. 21,91.)

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profeta e messia (non in senso cristiano) e l’altra di condanna categorica della sua divinità nel nome di un monoteismo assoluto e intransigente49.

Oltre ai racconti aneddotici, il Corano, riporta elementi fondamentali della missione profetica di Gesù. Di fatto Gesù nel Corano è fondamentalmente un inviato di Dio, apportatore di una rivelazione, il Vangelo; ultimo dei profeti che precedette Maometto, il quale ha il primato. Però Gesù è nato in modo miracoloso e ha una missione eccezionale, il che viene confermato dall’elenco dei titoli che gli si attribuisce, che potrebbero entusiasmare a primo colpo d’occhio. Essi però devono essere presi in “senso Coranico”, cioè, il significato teologico che le espressioni possono avere nel contesto evangelico viene di fatto minimizzato dalla tradizione Islamica. Tutti i privilegi attribuiti a Gesù non cambiano il suo carattere sostanzialmente umano50.

Cerco d’individuare qui le principali convergenze e divergenze tra Vangelo e Corano:

2.1. Cristologia coranica Per il Vangelo Gesù è il Cristo, Figlio di Dio, mentre per il Corano

non è il Figlio di Dio ma un semplice uomo, ciò è espresso specie nella Sura 4,171-172:

CONDANNA DELLA DIVINITA’ DI GESU’ E DELLA TRINITA’51

Vangelo Corano Senso Coranico - Gesù è “il Cristo, il Figlio del Dio vivente” Mt. 16,16; Mc 8,29.

- “Il Cristo (Messia), figlio di Maria, non è che: ??

- Cristo o Messia: nome proprio riservato a Gesù con significato diverso da quello ebraico-cristiano. Non significa “unto” o “consacrato” da Dio, ma “toccare” o “toccato” perché Gesù tocca i malati e li guarisce o perché egli stesso è toccato dalla

49 “Dì: ‘Egli, Dio è uno -Dio, l’Eterno. Non generò né fu generato- e nessuno Gli è pari” (Sura

112,1-4). 50 Cf. CH. M. GUZZETTI, Bibbia e Corano, p.246: Il Corano “ne interpreta i privilegi nel

contesto del monoteismo più intransigente e condannando come imperdonabile bestemmia l’affermazione della sua divinità”.

51 Cf. Ibid., p.252-253

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benedizione divina. L’islam ignora il concetto cristiano di Gesù come redentore dell’umanità.

- Venuto nel nome del Padre suo (Gv 5,43).

- il Messaggero di Dio,

- I profeti o messaggeri sono uomini, impeccabili e infallibili, eletti e mandati da Dio per ammonire i diversi popoli (Gesù per gli ebrei)

- Il Verbo di Dio fatto carne (Gv 1,14)

- il suo Verbo che egli depose in Maria

- Verbo o Parola di Dio: Non nel senso cristiano ma perché è frutto della Parola creatrice senza concorso umano.

- Concepito per opera dello Spirito Santo (Mt 1,18-20)

- e uno Spirito da Lui esalato.” (Sura 4, 171).

- Spirito di Dio: in quanto prodotto dal soffio (Ruah) creatore di Dio o anche dal soffio dell’angelo Gabriele.

- Una sola cosa con il Padre (Gv 10,30) - “Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?”(Gv 14,10) - “D’avvero costui era Figlio di Dio!” (Mt 27,54)

- Condanna della Trinità cristiana: “Non dite: ‘Tre!’Basta! (4,171). - Non è Figlio di Dio: “Perché Dio è un Dio solo, troppo glorioso e alto per avere un figlio! (Sura 4,171) - “Non c’è divinità all’infuori di Dio” (Sura 3,62)

-Trinità: Come già spiegato (per Maria), il Corano ha una concezione estremamente materiale della paternità divina e una conoscenza incompleta del dogma della Trinità cristiana. La “triade” (Padre, Gesù, Maria) non fa riferimento affatto alla fede cristiana.

- Il Servo di Jahweh (Mt 3,17; At3,13) preannunciato dai profeti (Is 42,1).

- “un Servo cui concedemmo i Nostri favori” (Sura 43,59; cf. 4,172).

- un semplice “servo” come gli Angeli Cherubini

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2.2. Gesù è solo un uomo Il Corano riporta dei miracoli compiuti da Gesù anche se con delle

sfumature magiche52, tuttavia esse non devono trarre in inganno sulla sua personalità: lui compie i miracoli, ma sempre “col permesso di Dio” (Sura 3,49), questa precisazione vuole sottolineare che Gesù è solo un uomo53. La Sura 5,112 ss. parla di una mensa fatta scendere da Gesù dal cielo. Alcuni commentatori cristiani vedono qui un riferimento all’Eucarestia o alla moltiplicazione dei pani e dei pesci (Gv 6,48). Bausani lo collega alla petizione del Padre Nostro: “dacci oggi il nostro pane quotidiano”. Guzzetti ritiene che tanto il Corano come la tradizione islamica, considerano questo brano da annoverarsi tra i “miracoli”: Gesù non è che un operatore di miracoli54.

D’altra parte nella Sura 3,50 Gesù si presenta come colui che conferma la Legge: è “venuto a confermare quella Torah che fu rivelata prima di me” (cf. Mt.5,17). Non solo, ma gli è superiore in quanto viene a “dichiararvi lecite alcune cose che v’erano state proibite” (cf. Mt 12,6; Mc 2,27; 7,5; 14-15.19b). Però il versetto 51, a modo di chiarimento, afferma che non è Dio né Figlio di Dio: “Poiché certo Dio è il mio Signore e il vostro Signore”55.

2.3. Negazione della crocifissione e morte di Gesù Seguendo un così detto Pseudo Vangelo di Barnaba56, nella Sura 4,157-

158 si nega la crocifissione e morte di Gesù. Secondo la mentalità coranica, non può morire vinto dai giudei un profeta; questo sarebbe uno scandalo tanto più perché questa morte è priva di qualsiasi funzione redentrice. La spiegazione che dà il Corano, riprendendo la eresia del docetismo, è la negazione della morte reale di Gesù: era lui solo in apparenza57, “qualcuno

52 Nella Sura 3, 49 Gesù è capace di creare un uccello dall’argilla (cf. Protovangelo apocrifo di

Tommaso e Pseudo-Matteo), guarire il cieco nato (cf. Gv 9,1-41), e il lebbroso (cf. Mt8,1-4), risuscitare i morti (cf. Lc7,11-17, 8,49-56), ma anche indovinare quel che si mangia o si conserva nelle case.

53 Cf. CH. M. GUZZETTI, Bibbia e Corano, p. 249. 54 Cf. Ibid., p. 256-257. 55 Cf. Ibid., p. 250-251. 56 Cf. M. BORRMANS, Orientamenti per un dialogo tra cristiani e musulmani, P.U.U., Roma

1991,p.100: il Pseudo Vangelo di Barnaba “risale alla fine del XVI secolo; molti dotti musulmani presentano oggi (in traduzione araba) questo Pseudo Vangelo come l’unico e autentico(…)si tratta di un apocrifo di recente fabbricazione”.

57 Cf. CH. M. GUZZETTI, Bibbia e Corano, p. 269 nota a.

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fu reso ai loro occhi simile a Lui”58, “non lo uccisero, ma Iddio lo innalzò a sé” (v.157). Secondo sviluppi nella tradizione islamica che si poggiano nella Sura 43,61 i musulmani aspettano il ritorno di Gesù: “egli non è che un presagio dell’Ora” ultima. Lui tornerà in terra, ucciderà l’anticristo, debellerà i suoi seguaci, si farà musulmano, chiamerà tutti a pregare dietro di lui e Lui dietro Maometto, morirà di morte naturale e sarà sepolto accanto a Maometto59. Resta fermo, però, che il profeta Maometto completa e porta a perfezione la rivelazione che si è avuta attraverso Mosè e poi attraverso Gesù. Maometto resta per l’Islam il sigillo dei profeti; a lui vengono attribuiti la profezia della Torah sulla venuta di Gesù (cf. Dt 18,15.18-19) e l’annuncio fatto da Gesù sull’invio del Paraclito (Gv 15,26-27). Questi due brani, secondo la Sura 7,157 e 61,6 sono allusivi alla venuta di Maometto60.

2.4. Soteriologia coranica Possiamo riassumere così con Filoramo la soteriologia Islamica: “Gesù è

presentato dal Corano essenzialmente come un profeta, mentre viene completamente ignorata la sua azione redentrice, che sta al centro dell’annuncio del Nuovo Testamento”. Infatti il Corano tace sul battesimo, sul mistero Pasquale, sull’Epifania come sulla vittoria sulla morte. “Gli uomini, secondo l’annuncio islamico, non necessitano di salvezza e dunque di un redentore, ma della misericordia divina. Ognuno è peccatore davanti a Dio e responsabile dei propri peccati, di conseguenza, nessuno può farsi carico di salvarlo attraverso una sofferenza vicaria”61.

III. Gesù come argomento di dialogo tra cristiani e musulmani Dopo aver visto la figura di Gesù come presentata dal Corano, cerco di

individuare alcune difficoltà e possibilità importanti d’avere presente per un approccio dialogico cristianesimo-islamismo.

3.1. Le difficoltà del dialogo attorno ai testi evangelici La dottrina islamica su Gesù, come abbiamo visto, si presta ben poco al

dialogo con i musulmani, perché essi hanno già un loro concetto 58 Cf. Ibid., p.259 nota f: Secondo il Pseudo Vangelo di Barnaba questo sarebbe stato Giuda in

castigo del suo tradimento. 59 Cf. Ibid., p.273, nota b. 60 Cf. Ibid., p. 266-267. 61 G. FILORAMO, Manuale di storia delle religioni, Ed.La terza, 1998, p. 253.

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irreformabile sulla sua persona e sulla sua missione. “In ultima analisi, per il Corano, Gesù è un perfetto musulmano”. D’altra parte, non sarebbe giusto “interpretare in chiave cristiana i passi essenziali della cristologia coranica” 62.

Un’altra difficoltà viene dal fatto che le Sacre Scritture cristiane come quelle degli Ebrei, sono considerati dall’Islam come “falsificazioni”. E’ importante averlo presente perché questo rende inutile il ricorso ad un confronto dei testi in vista di un dialogo. Per loro i nostri Vangeli “non sono state trasmessi nel loro testo originale né comunicati secondo il volere divino”, ma adulterati sia nel loro contenuto che nel messaggio e quindi nel loro spirito originario63.

Per il cristianesimo, però, la persona di Gesù come rivelata nei Vangeli, il Figlio di Dio incarnato e il suo Mistero Pasquale restano la “pietra angolare” sulla quale non è possibile transigere. Le profonde divergenze sulla sua persona e missione sembrano insuperabili. Tuttavia Gesù, come è presentato dal Corano, potrebbe essere accettato dai musulmani come un esempio di Santità e di sottomissione a Dio, un modello capace di portarli ad un’interiorizzazione dei valori fondamentali della loro fede e del loro culto.

3.2. Il messaggio di Gesù come possibilità di dialogo La persona del Messia, Gesù, la sua santità di vita e il suo messaggio

suscitano grande interesse tra i musulmani. Questi aspetti meritano di essere considerati e approfonditi per un possibile avvicinamento tra le due religioni.

Riguardo al suo messaggio, è soprattutto a livello dei valori morali e religiosi contenuti negli insegnamenti di Gesù, specie nelle beatitudini, il punto dove il Corano e il Vangelo trovano maggiori convergenze; esse potrebbero essere accettate dai musulmani in quanto non dipendono dall’Incarnazione del Verbo:

INSEGNAMENTI ISLAMICI CHE RICHIAMANO ILVANGELO

Nel Corano Nel Vangelo - “I miei giusti erediteranno la terra” - “Beati i miti perché erediteranno la

62 Cf. CH. M. GUZZETTI, Bibbia e Corano, p. 246-247. 63 Cf. M. BORRMANS, Orientamenti per un dialogo, op. cit. p.109-110: viene invece

considerato come originale da molti dotti musulmani, quindi come unico punto di riferimento il Pseudo Vangelo di Barnaba.

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(Sura 21,105 cf. 39,74) terra” (Mt 5,5). - Chi perdona, Dio gliene darà ricompensa (Sura 42,20b)

- Non occhio per occhio ma porgete anche la guancia sinistra (Mt 5,38).-

- “Non fatte di Dio l’oggetto dei vostri giuramenti” (Sura 2,224).

- Non giurate… (Mt 5,34)

- L’elemosina è meglio farla in segreto ( Sura 2,270; cf. 2,264)

- La elemosina sia fatta in segreto (Mt 6,1-4)

- Non pregare come gli ipocriti per farsi vedere. ( Sura 4,142; 107,4-7).

- Non pregate come gli ipocriti per farsi notare dagli uomini (Mt 6,5).

- La provvidenza di Dio sostenta gli esseri viventi …egli ascolta e sa ogni cosa (Sura 29,60) - Dio sostiene gli uccelli ( Sura 16,79)

- avere fiducia nella providenza ( Mt6,25) - Il Padre celeste si preoccupa anche degli uccelli (Mt 6,26)

- “Le due grandi vie”: quella comoda e quella della perdizione (Sura 90,8-10)

- Entrate per la porta stretta… (Mt 7,24-27)

- Fondare l’edificio sul timore di Dio, non sull’orlo di un banco di terra (Sura 9,109).

- La casa costruita sulla roccia: ascoltare la Parola e metterla in pratica (Mt 7,13).

- Parabola della “luce dei credenti” (Sura 57,12-15)

- Parabola delle 10 vergini ( Mt25,1-13)

Queste convergenze possono significare per il credente musulmano, che

vuole approfondire la sua fede, un cammino verso l’interiorizzazione del culto (valori religiosi) e della legge (valori morali)64, liberandoli da un’interpretazione alquanto legalistica dei loro precetti65, nonché una possibilità di dialogo tra le due religioni.

3.3. Gesù nella tradizione mistica del sufismo

64 La esperienza religiosa musulmana si riassume nella professione di fede, il compimento del

culto e l’ubbidienza alla Legge : cf. Ibid p.90. 65 Considerando il culto della Legge che l’Islam manifesta attraverso le precisioni nelle sue

prescrizioni si può intuire che essa si presta facilmente a un legalismo moralizzante: cf. Ibid., p.100. E’ interessante considerare come alcune pensatori ebrei, come Martin Buber o Schalom Ben-

Chorin hanno analizzato il problema del significato della figura del Gesù “storico” per il giudaismo. Questo ultimo vede in Gesù “un’autorità” che spinge verso un’interiorizzazione della legge giudaica: cf. P. MEINHOLD, Manuale delle religioni, Queriniana, Brescia 1997, p. 219.

48

Il “sufismo” vuole indicare l’esperienza mistica islamica che fiorisce nel IX-X secolo d.C., come segno di una matura e ricca esperienza spirituale. Il cammino dei “sufi” ci porta al cuore dell’esperienza religiosa islamica. Il sufi66 è colui che ha sperimentato che cosa significa veramente l’incontro col Dio vivente. Questa esperienza lo porta al di là delle spiegazioni ufficiali dei teologi e delle elucubrazioni dei filosofi: nessuno come lui può capire e ripetere che una cosa è parlare su Dio e un’altra è entrare in un incontro reale con Lui. Perciò molti specialisti vedono nel sufismo l’ambiente più propizio per il superamento di tanti pregiudizi teorici e storici, cioè per un dialogo fruttuoso tra cristiani e musulmani67.

Infatti, nella tradizione mistica islamica del sufismo, la figura di Gesù ha avuto uno sviluppo notevole come esempio perfetto di santità e di unione con Dio68. Al-Hasan al Basri (m.110/728), una delle personalità più note nel primo secolo dell’Islam, ed altri sufi presentano Gesù (‘Isā, nel Corano) come “il tipo dell’uomo asceta e spirituale”69. E’ seguendo questa strada del sufismo che il grande mistico Al-Hallāg (m 309/922), uno dei più conosciuti e popolari sufi del mondo islamico, oltrepassando i dogmi della religione islamica, arriva ad affermare “Dio, nell’essenza della sua essenza, è amore”70, parole che sigillò con la propria vita accettando la morte dalle mani di coloro che si credevano zelanti della religione di Dio71. In questo annuncio, che non è lontano da quello cristiano del Dio Padre-Amore, potrebbe trovare risposta la ricerca di tanti musulmani che ricercano Dio con cuore sincero.

Conclusione Dal confronto fatto dei testi evangelici e coranici attorno alle figure di

Gesù e di Maria si può vedere chiaramente che sebbene nel Corano ci siano delle apparenti convergenze col Vangelo, nelle stesse convergenze si

66 Cf. G. SCATTOLIN, Esperienze mistiche nell’Islam, i primi tre secoli, EMI, Bologna 1994,

p.146: “Sufi: “Asceta, mistico”. Tale termine indicava all’inizio il tipo di vestito di lana (in arabo “suf”) che i primi asceti musulmani avevano adottato come segno del loro particolare tipo di vita. In seguito, tuttavia, il termine venne ad indicare tale tipo di vita in se stesso, indipendentemente dal genere di vestito adottato.”

67 Cf. Ibid., p.17-18; cf. M. BORRMANS, Orientamenti per un dialogo, p. 91-92. 68 Cf. CH. M. GUZZETTI, Bibbia e Corano, p. 273. 69 Cf. G. SCATTOLIN, Esperienze mistiche nell’Islam, p.44-46; p.47: “egli, pur non possedendo

nulla, possiede tutto. In tale stato sperimenta un nuovo rapporto con gli esseri, una comunione profonda con essi: egli infatti è-con-loro, perciò è libero.”

70 Cf. G. SCATTOLIN, Esperienze mistiche nell’Islam, p. 105. 71 Cf. Ibid., p. 129-132.

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trovano delle divergenze sostanziali a livello storico-teologico. Possiamo attribuire queste divergenze alla qualità delle informazioni sul Vangelo a cui attinse Maometto, come alle vicende attorno all’elaborazione del testo Coranico (sappiamo che Maometto non scrisse nulla) ed altri motivi che sarebbero da valutare. In ogni caso, quello che interessa è che l’Islam ha una sua concezione immutabile di Gesù e di Maria che certo non lascia molto spazio al dialogo a livello teologico, però che dona un posto di grande onore e rispetto ad ambedue le persone.

Tuttavia quegli aspetti della vita e del messaggio profetico del Gesù evangelico, che non dipendono degli intoccabili dogmi islamici e che trovano un loro riscontro nel Corano, possono essere un argomento di dialogo con i musulmani. In questo senso, i valori sociali, morali ma soprattutto spirituali (come nel caso del sufismo), del messaggio di Gesù possono essere un patrimonio comune alle due religioni e una via di dialogo. Possono significare un arricchimento vicendevolmente nel confronto delle mutue esperienze religiose che vada al di là di ogni discussione teorica.

Graciela Otsu Navarrete Dottoranda in Missiologia

Bibliografia

BAUSANI A., Il Corano, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1994 BORRMANS M., Orientamenti per un dialogo tra cristiani e musulmani, P.U.U., Roma 1991 FILORAMO G. Manuale di storia delle religioni, Ed.Laterza 1998 GUZZETTI CHERUBINO M., Bibbia e Corano: confronto sinottico, San Paolo Milano 1995 MEINHOLD P., Manuale delle religioni, Queriniana, Brescia 1997 PEIRONE F., Cristo nell’Islam, Ed. Missioni Consolata, Torino 1964 SCATTOLIN G., Esperienze mistiche nell’Islam, i primi tre secoli, EMI, Bologna 1994 SCATTOLIN G., Esperienze mistiche nell’Islam, secoli X e XI, EMI, Bologna 1996.

Lo studio della missiologia

nella formazione teologica dei seminari*

di Carmelo Dotolo

La tesi di fondo che guida la presente riflessione si basa sulla convinzione

che la formazione teologica e culturale72 non può non essere legata alla dimensione missionaria e pastorale. Anzi, la correlazione tra i due aspetti è vitale, proprio in virtù di ciò che caratterizza l’esercizio della riflessione teologica e della sua prospettiva formativa. Se la missionarietà della chiesa è al servizio dell’annuncio della Parola perché ogni uomo possa scoprire la bellezza del diventare cristiano73, l’obiettivo della formazione deve farsi attenta alle istanze di una pedagogia della fede che sappia tener conto della complessità della storia e della umanità, puntando alla qualità dell’identità cristiana in una concreta esperienza ecclesiale. Seppur in modo schematico e a forma di tesi, è da questo contesto che scaturiscono le presenti indicazioni:

1. Partiamo da un dato che attraversa la narrazione dell’esperienza unica e

irripetibile contenuta nel Nuovo Testamento. Nella coscienza ecclesiologica neotestamentaria, la riflessione teologica si inscrive nella esigenza di collegare e tematizzare il kerygma e la sua definizione dogmatica. E’, in fondo, l’annuncio della novità e dell’alterità del Vangelo a indicare i percorsi di una teologia capace di saper “rendere ragione” (1 Pt 3,15). Il motivo risiede nella singolarità dell’evento rivelativo di Gesù Cristo e nel suo straordinario impatto in ordine alla verità di Dio e alla verità dell’uomo.

* Il presente testo corrisponde, con alcune integrazioni, alla Comunicazione tenuta

dall’autore al 48° Convegno Missionario Nazionale dei Seminaristi, organizzato dalla CEI, Ufficio Nazionale per la Cooperazione Missionaria fra le Chiese e la Pontificia Unione Missionaria, Catania 2 maggio 2003.

72 Circa l’esigenza di una riconsiderazione attuale della formazione nelle Facoltà teologiche e nei Seminari cf. G. BETORI, Facoltà teologiche e progetto culturale della Chiesa italiana, in “ho theológos” 20 (2002) 109-125; G. MUCCI, La formazione degli alunni nei seminari maggiori, in “La Civiltà Cattolica” 2003 I 221-228.

50

73 Cf. la ricchezza e l’articolata riflessione presente in L. MEDDI (ed.), Diventare cristiani. La catechesi come percorso formativo, Luciano Editore, Napoli 2002.

51

E’ qui che nasce il processo di evangelizzazione, la dinamica di una missione che lentamente definisce l’identità cristiana a contatto costante con le sfide e le provocazioni delle culture e delle religioni, con i loro valori simbolici ed esistenziali. Le prime comunità cristiane individuano, per esperienza riflessa, che la risposta al desiderio della vita è rintracciabile nella novità cristologica, in quel di più che conduce al bisogno di annunciare ad ogni uomo la scoperta della eccedenza di senso del Vangelo74. La missione si situa, dunque, nella fedeltà a Gesù Cristo e al suo Vangelo e nell’inserimento in un contesto storico-culturale al servizio di un processo formativo all’esistenza cristiana.

2. Il modello che ispira l’evangelizzazione è l’incarnazione (cf

Redemptoris Missio, 5)75, l’evento della kenosi, di cui la teologia è chiamata a diventare “intelligenza” (Fides et Ratio, 93). Detto in altre parole, l’evangelizzazione è inculturazione del Vangelo, la cui dimensione escatologica76 sta ad indicare che il contenuto del messaggio cristiano non è riducibile a semplici schemi culturali del momento storico, ma li oltrepassa pur nella condizionatezza storica dell’annuncio. E’ in virtù di questa alterità che rinvia alla logica della rivelazione trinitaria nella presenza storica di Gesù, che il Vangelo non solo può coniugarsi con la cultura e le culture, ma innesta nei processi culturali istanze e valori che contribuiscono alla promozione dell’uomo e del mondo, anche attraverso la sua carica profetica e contro-culturale. Ecco perché il compito teologico è dinamicamente alimentato dalla prassi pastorale e dalla visione missionaria che cooperano alla rilettura che la teologia è chiamata a operare costantemente. Come evidenzia J. Alfaro: “Fare teologia significa ri-fare criticamente il processo di comprensione che si produsse all’interno

74 Cf. R. FISICHELLA, La via della verità. Il mistero dell’uomo nel mistero di Cristo,

Editoriale Paoline Libri, Milano 2003, 13-29. 75 Cf. CONGREGAZIONE PER L’EVANGELIZZAZIONE DEI POPOLI – PONTIFICIA

UNIVERSITÀ URBANIANA, A dieci anni dall’Enciclica Redemptoris Missio, Urbaniana University Press, Roma 2001.

76 Si vedano le riflessione di R. PENNA, Gesù Cristo Salvatore: cristologia e sue implicanze missiologiche, in G. COLZANI – P. GIGLIONI – S. KAROTEMPREL (edd.), Cristologia e Missione oggi. Atti del Congresso Internazionale di Missiologia. Pontificia Università Urbaniana – International Association of Catholic Missiologist (Roma 17-20 ottobre 2000), Urbaniana University Press, Roma 2001, 364-372 e di G. BIGUZZI, Unicità del Cristo nel Nuovo Testamento, Ibidem, 83-89.

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della storia della rivelazione e della interpretazione di essa da parte della tradizione ecclesiale”77.

Una conseguenza decisiva è che sapere critico della fede e comunicazione della fede si coappartengono e interagiscono. Ciò equivale a dire che la dimensione missionaria è costitutiva della riflessione teologica, è non è aspetto regionale della stessa.

3. Ne deriva che la teologia è strettamente legata alle domande che

provengono dalla vita e alle sfide che la comunità ecclesiale è chiamata ad affrontare nella sua testimonianza al Regno. In altri termini, significa che la teologia è sempre in contesto, cioè interpreta il significato del progetto di Dio per la storia e il mondo nel quale la fede è vissuta e pensata in circostanza determinate; e che la missione, come profezia storico-salvifica del Regno, si esprime nell’ essere-sacramento della Chiesa, il cui “potere dei segni” sta nel compito di essere testimone nella logica della gratuità. “Se prende la Chiesa sul serio, la teologia dovrà diventare, al pari di essa, una funzione del Regno di Dio nel mondo. E in questa funzione del Regno di Dio la teologia investe anche le sfere della vita politica, culturale, economica ed ecologica di una società […] in ciascuno di questi ambiti la teologia del Regno di Dio è teologia pubblica, che partecipa quindi alla res publica della società e si coinvolge ‘in termini critici e profetici’, perché essa vede la realtà pubblica nella prospettiva del Regno di Dio che viene”78.

4. Proprio in virtù di questa coniugazione tra riflessione teologica e

dimensione missionaria, cioè di una reciprocità tra riflessione e annuncio che si ponga in ascolto dei segni dei tempi, è opportuno chiedersi quali sono le grandi provocazioni contemporanee che chiedono alla teologia e alla missione della Chiesa una capacità estroversa79. Vale a dire: l’istanza di un ampliamento della riflessione teologica che sappia rispondere ai bisogni reali della contemporaneità e provocare una conversione culturale e pastorale. Tre sembrano essere le sfide che orientano la riflessione sulle

77 J. ALFARO, Rivelazione cristiana, fede e teologia, Queriniana, Brescia 1986, 161. 78 J. MOLTMANN, Dio nel progetto del mondo moderno. Contributi per una rilevanza

pubblica della teologia, Queriniana, Brescia 1999, 238. 79 Cf. G. COLZANI, Unicità ed organicità della Teologia. Unità ed organicità del

curriculum teologico, in G. LORIZIO – S. MURATORE (edd.), La frammentazione del sapere teologico, San Paolo, Cinisello Balsamo 1998, 145-159

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prospettive teologiche80 e missiologiche81 per il XXI secolo e che richiedono una lettura attenta e capace di risposte educative.

• Innanzitutto, la visione del mondo inaugurata dalla post-modernità,

tempo ambiguo e aperto alla ricerca di nuovi sentieri (cf. Conferenza Episcopale Italiana, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 36-43), le cui caratteristiche sono: l’affermazione del soggetto e il desiderio di prossimità, il ritorno del religioso e la ricerca di nuovo senso, ma anche una mentalità alla new age, in cui il benessere psico-fisico del proprio Io è in testa alla classifica dei desideri e della passioni della cultura contemporanea. Non si tratta solo di egoistiche rivendicazioni, ma di proposte di altri mondi possibili, in cui liberare e dare voce alla differenza, in un costante cambiamento di modelli di vita82.

• In secondo luogo, l’impatto del fenomeno della globalizzazione83 come narrazione ideologica della contemporaneità culturale e sociale, che porta alla ribalta la questione dell’identità e dell’alterità, ma anche la logica del profitto e del mercato come criterio di interpretazione antropologica e cosmologica. E’ evidente che, al di là degli aspetti positivi, il rischio che la globalizzazione diventi un pensiero unico e ideologicamente inattaccabile è più di una semplice ipotesi. Le conseguenze di un cambiamento dello scenario antropologico ed etico, ma anche di una riduzione dell’esperienza religiosa al mercato degli interessi, chiamano in causa il potere critico del cristianesimo di resistenza a forme di assimilazione che riducono

80 Indicativamente si veda R. GIBELLINI (ed.), Prospettive teologiche per il XXI secolo,

Queriniana, Brescia 2003. 81 Cf. C. DOTOLO (ed.), La Missione oggi. Problemi e prospettive, Urbaniana

University Press, Roma 2002, e in particolare la lettura panoramica di G. CAVALOTTO, Sfide e compiti della missione, 3-7.

82 Si veda J. MARDONES, Postmodernidad y cristianismo. El desafío del fragmento, Editorial Sal Terrae, Santader 1988; P. GISEL – P. EVRARD (edd.), La théologie en postmodernité, Labor et Fides, Genève 1996; P. HEELAS –D. MARTIN- P. MORRIS (edd.), Religion, Modernity and Postmodernity, Blackwell, Oxford 1998; R. SCHREITER, La teologia postmoderna e oltre in una chiesa mondiale, in GIBELLINI (ed.), Prospettive teologiche, 373-388.

83 Rinviamo a C. DOTOLO, Globalizzazione e Vangelo. Mutamenti antropologici e umanesimo cristiano, in “Ad Gentes” 6 (2002) 264-278; J. PARÉ, Défis à la mission du troisième millénaire, Missionnaires de la Consolata, Montréal 2002, 283-297; J. B. METZ, Proposta di programma universale del cristianesimo nell’età della globalizzazione, in GIBELLINI (ed.), Prospettive teologiche, 389-402.

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la visione della vita ad una falsa idea di libertà illimitata e alla convinzione che l’informazione (il mito della Rete) equivale alla realtà.

• Infine, l’irruzione della pluralità delle grandi religioni. E’ proprio l’orizzonte del pluralismo religioso a costituirsi come questione teologica84, laddove è pensato non come un semplice fatto, ma quale principio interpretativo del disegno salvifico di Dio. L’incontro con mondi culturali e religiosi differenti esige dalla teologia il difficile compito di pensare la molteplicità delle vie di Dio in relazione alla singolarità e unicità della mediazione di Cristo85; e trasforma la missione della Chiesa nell’attenzione alla istanza del dialogo interreligioso86 e alla comprensione dell’altro attraverso una ermeneutica interculturale87.

5. Quali conseguenze per la teologia che assuma la dimensione

missionaria come decisiva per un adeguato cammino di formazione? Secondo la lettura e le suggestioni di D. Bosch88, la missiologia ha una duplice funzione nel quadro della teologia:

a) Una funzione dimensionale: la missiologia, nel quadro di una

concezione ampia della missione, è chiamata a permeare la riflessione teologica, nel recupero di quella universalità del Vangelo che mette in relazione la verità di Dio per l’uomo e la novità di Gesù Cristo e del suo

84 Cf. A. AMATO, L’unicità della mediazione salvifica di Cristo: il dibattito

contemporaneo, in M. CROCIATA (ed.), Gesù Cristo e l’unicità della mediazione, Paoline Editoriale Libri, Milano 2000, 13-44; M. BORDONI, Le inculturazioni della cristologia e la tradizione cristologica della chiesa, in COLZANI – GIGLIONI – KAROTEMPREL (edd.), Cristologia e Misione oggi, 67-81. In relazione al dettato della Dominus Iesus cf. le annotazioni di M. SECKLER, Zeitgenössicher Philosophisch-Theologischer Kontext und “Dominus Iesus” Säkularisierung, Postmodernismus, Religiöser Pluralismus, in PATH 1(2002) 145-171.

85 Cf. W. KASPER, The Unicity and Universality of Jesus Christ, in COLZANI – GIGLIONI – KAROTEMPREL (edd.), Cristologia e Misione oggi, 35-45; C. GEFFRÉ, Verso una nuova teologia delle religioni, in GIBELLINI (ed.), Prospettive teologiche, 353-372, e in particolare circa il significato per una formazione teologica 368-372.

86 Rinviamo alla riflessione di K. LEHMANN, Una religione tra le altre?, in “Il regno-documenti” 1(2003) 42-49.

87 Cf. G. RUGGIERI, Molteplicità delle culture: cambiamento di paradigma in teologia?, in “Vita Monastica” 48 (1994) 51-80; T. SUNDERMEIER, Comprendere lo straniero. Una ermeneutica interculturale, Queriniana, Brescia 1999.

88 D. BOSCH, La trasformazione della missione. Mutamenti di paradigma in missiologia, Queriniana, Brescia 2000, 676-688.

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Spirito per la ricerca di senso e di salvezza che abita nelle vicende della storia umana. In tal senso, è più che mai evidente la presenza non esclusiva di diversi interlocutori della teologia del XXI secolo “Ma, nel mondo contemporaneo, come può la teologia sistematica […] permettersi di trascurare le ideologia anticristiane e le credenze degli appartenenti ad altre fedi? Altrettanto cruciale, come può la teologia sistematica occidentale continuare ad agire come se fosse universalmente valida e respingere l’indispensabile contributo al pensiero teologico delle situazioni del Terzo mondo? come può, addirittura, essere cieca al proprio innato carattere missionario? Se ignora la domanda: «Perché la missione?», essa ignora implicitamente anche le domande: «Perché la chiesa?» e «Perché lo stesso vangelo?»”89.

b) Una funzione intenzionale della missione: tematiche come il primo annuncio, l’inculturazione, la liberazione, il dialogo, lo sviluppo sostenibile, il ritorno del religioso, la non credenza, non costituiscono un problema legato alle altre chiese, ma rappresentano ambiti per una creatività teologica che può, questo sì, arricchirsi dal confronto critico con la prassi missionaria. In altre parole, il compito della missiologia è interno al ripensamento della sistematica teologica, ma anche pungolo critico onde evitare qualsiasi inclinazione al provincialismo teoretico o alla frammentazione ideologica e culturale. In una simile ottica va riletta l’indicazione presente in Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 46: “l’allargamento dello sguardo verso un orizzonte planetario compiuto riaprendo il «libro delle missioni», aiuterà le nostre comunità a non chiudersi nel «qui e ora» della loro situazione peculiare e consentirà loro di attingere risorse di speranza e intuizione apostoliche nuove guardando a realtà spesso più povere materialmente, ma nient’affatto tali a livello spirituale e pastorale”90.

In tal senso, proprio perché il compito della missiologia non ricalca una tipologia puramente pragmatica, essa richiede un adeguato spazio di studio e di ricerca nell’ambito della preparazione teologico-pastorale, che va oltre la semplice risposta ad una precisa “committenza”91. Già la

89 BOSCH, La trasformazione della missione, 684. 90 Sono utili le indicazioni di A. STAGLIANÒ, Vangelo e comunicazione. Radicare la

fede nel nuovo millennio, EDB, Bologna 2001, 31-82; 169-184. 91 Non condividiamo fino in fondo, al di là della reale problematicità di un’eventuale

completezza del curriculum studiorum, quanto annota T. CITRINI, Sull’insegnamento della teologia, in specie nei seminari, in S. MURATORE (ed.), Teologia e formazione teologica. Problemi e prospettive, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996, 78-79: “Una completezza materiale dell’insegnamento teologico è in senso proprio impossibile, e quindi non è

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CEI nella Ratio Studiorum dei Seminari Maggiori del 1983 poneva in evidenza la necessità di coniugare ricerca speculativa e contesto culturale dell’attualità, riflessione teologica e compito dell’evangelizzazione92. Necessità ribadita dalla stessa CEI nelle Indicazioni per un’«Agenda Pastorale» del Prossimo Decennio in Appendice al documento Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, là dove nel paragrafo relativo alle esigenze della missione alla lettera f. si legge: “verificare le scelte formative di coloro che si preparano a diventare presbiteri e la formazione permanente dei sacerdoti, perché siano veramente padri nella fede e acquisiscano una mentalità missionaria”. In concreto, ciò richiederà sempre più un’attenzione curriculare nell’organizzazione dei piani di studio per il Baccellierato e/o sessennio di studio seminaristici, che più che mai oggi esigono, a nostro avviso, l’introduzione di corsi obbligatori di teologia sistematica della missione e di teologia delle religioni, quale servizio decisivo alla teologia e alla missionarietà della Chiesa, per il fatto che la comunicazione della fede deve essere in grado di parlare nelle e attraverso la cultura e le culture, che vanno conosciute come spazio nel quale l’uomo e la storia possono incontrare Gesù Cristo.

Per questo, scrive il card. C. Sepe nella sua Introduzione alla sessione inaugurale del Convegno per il 375° anniversario della fondazione del Collegio Urbano: “Proprio in virtù dell’originalità del Vangelo, l’azione missionaria della Chiesa «esperta in umanità», è chiamata ad offrire ad ogni cultura il progetto di un umanesimo cristiano che la ricerca universitaria testimonia. E’ questa una delle forme di diaconia culturale più

neanche un obiettivo sensato […] La soluzione semplicistica di ‘aggiungere un corso nella formazione seminaristica’, evidentemente obbligatorio, si para con estrema facilità e ingenuità di fronte a chi percepisca unilateralmente un’urgenza; […] Abbiamo sentito questa proposta propugnata con forza da forze ecclesiali che, quanto a pertinenza delle istanze che portano, hanno ragioni da vendere: gli ambienti missionari vorrebbero almeno un corso di missiologia, gli ambienti ecumenici un corso di ecumenismo […] L’elenco potrebbe continuare a lungo, senza utilità. Più i portatori dell’istanza sono ‘potenti’, più l’ipotesi che i curricoli ulteriormente si ingolfino può diventare reale”. E‘ proprio la necessità di reperire criteri di completezza per un processo formativo orientato alla preparazione teologica e al ripensamento della ministerialità della Chiesa, ad esigere la presenza dell’ambito disciplinare missiologico all’interno della riflessione e didattica teologica. E non per motivi estrinseci o di committenza, ma interni all’esercizio teologico stesso.

92 In questa linea cf. S. DIANICH, Profilo culturale e compito di una facoltà di teologia, in “Vivens Homo” 13 (2002) 30: “Se l’evangelizzazione non può mai prescindere da quello che è il suo naturale habitat, cioè da uno spazio dialogico, la missione della Chiesa ha bisogno di essere sostenuta dalla riflessione teologica”.

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urgente, soprattutto in risposta a quelle derive nichilistiche che sembrano non tenere in conto la centralità della persona umana, emarginandola dai processi economici e sociali. L’evangelizzazione, così, attraverso l’inculturazione della fede diventa profezia di una cultura nuova, nella quale i valori del Regno di Dio sono al servizio di quelle attese di salvezza che si nascondono nelle domande e nelle aspirazioni di ogni uomo e di ogni cultura”. (La cultura al servizio della missionarietà, in “L’Osservatore Romano” del 30 novembre 2002, 4)

Carmelo Dotolo

docente nella Facoltà di Missiologia della Università Urbaniana

attualità missionaria

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Traccia di un'esperienza educativa in Bangladesh.

di Fabrizio Calegari, PIME

1. Ambiente e contesto. Sono un missionario del PIME e per quasi cinque anni mi sono trovato a

lavorare nel nord Bangladesh, alla parrocchia di Suihari, nella diocesi di Dinajpur. Fin dal mio arrivo in missione furono naturalmente diverse le cose a colpire la mia attenzione. Una di queste - forse per una passione che ho sempre avuto nel campo dell'educazione - è stata certamente la presenza costante nelle nostre missioni di ostelli che ospitano centinaia di bambini/e, o ragazzi/e, a seconda della scuola che frequentano. In Bangladesh purtroppo il problema della scolarizzazione è ancora a livelli preoccupanti: spesso la scuola è totalmente assente nei villaggi o, se c'è, è largamente inefficace per l'inettitudine degli insegnanti. Attraverso gli ostelli invece le missioni danno modo agli studenti di poter frequentare la scuola elementare e superiore, anche se questo vuol dire allontanarli da casa per molti mesi l'anno, a causa delle distanze dei villaggi dai quali provengono. Sono loro stessi del resto a cercarci, consapevoli che solo alla missione potranno ricevere un 'istruzione dignitosa. Anche se la maggioranza di questi studenti è composta da cristiani, non mancano nei nostri ostelli gruppi numerosi di non-cristiani, provenienti dal mondo tribale o dall'induismo, gruppi ai quali soprattutto si rivolge il nostro lavoro di evangelizzazione. Capita che molte famiglie non cristiane, già in contatto con noi o con altri cristiani della parrocchia, mandino da noi i loro figli e vogliono che ricevano un'istruzione cristiana, anche se naturalmente questa non sfocerà necessariamente nella conversione e nel battesimo (che rimangono, in Bangladesh, non un "affare" personale, ma uno che riguarda un'intera famiglia, quando non un intero dan o un intero villaggio), cosa per la quale noi non forziamo mai. Per cui paradossalmente abbiamo bambini che conoscono bene catechismo e preghiere, che seguono la Messa con fervore, magari desiderosi di ricevere il battesimo, ma che potrebbero non diventare mai cristiani.

Nella parrocchia dove mi trovavo c'è un ostello che ospita circa 270 bambini della scuola elementare, e fin da subito mi è parsa evidente l'occasione che il Signore mi offriva per mettermi a loro servizio.

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Ho notato che, di fatto, nei nostri ostelli ci si limita alla conduzione ordinaria delle cose: scuola e catechismo, sostanzialmente. Tutte cose ottime, si capisce, sempre meglio che analfabeti nei villaggi, certamente. Però, mi sono chiesto, è davvero abbastanza?

1.1 Istruzione o formazione?

E' fuori discussione il fatto che l'ostello non sia per un bambino il meglio

auspicabile: lo trattiene per troppi anni lontano dal suo ambiente naturale che è la famiglia e il villaggio, con tutte le dinamiche e le leggi che lo regolano. Io qui però non discuto più l'opportunità o meno di tenerli,perché si è già compreso che sono necessari.93 Parto dalla semplice constatazione che ci sono: dunque, come utilizzarli?

In tutte le nostre missioni abbiamo ostelli che ospitano per una media di quattro-cinque anni centinaia di bambini/e, di ragazzi/e, in una fascia d'età che va dai 5/6 anni ai 17/18. Quindi tutta l'infanzia, l'adolescenza e la prima giovinezza con il loro carico di doni e problematicità che queste età comportano. Anni in cui si gettano le basi - fragili o solide che siano - della struttura propria di una persona. Basi che resteranno per tutta la vita.

Il punto a mio parere è che questi studenti passano anni da noi, ma rischiano di non crescere in una formazione più completa della loro persona. L'istruzione è senz'altro una cosa indispensabile, così come dare cibo e vestiti, ma questo non coincide necessariamente con la formazione di una persona. Altro è istruire, altro è formare. E' chiaro che per me in questo lavoro, come missionario, c'era da una parte l'attenzione al rispetto delle diverse culture e dall'altra anche la consapevolezza di una proposta educativa che non poteva prescindere da Gesù e dal vangelo. Un'educazione dunque non strumentale alla conversione dei non cristiani, ma consapevole della ricchezza dei valori evangelici che non tradiscono ma valorizzano qualsiasi uomo di qualsiasi cultura.

Ecco perché ho subito cercato di portare all'interno dell'ostello uno stile e una proposta che conducessero in questa direzione, tentando di coinvolgere in questo cammino anche le persone che con me collaboravano.

93 La questione è stata molto dibattuta nel passato, dopo gli anni settanta. I nuovi padri

che arrivavano in missione criticavano questo stile, giudicandolo "innaturale", e chiudendo tutti gli ostelli a favore di nuovi tentativi nei villaggi. Fallirono tutti per diversi motivi, e si tornò al modello antico, accettandolo come "male necessario”.

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1.2 Alcune difficoltà.

All'interno dell'ostello lavorano a tempo pieno due suore di una congregazione locale e sei ragazze che fanno da assistenti nelle classi. Nel tentativo di gestire la vita dell'ostello in modo meno passivo, mi sono spesso accorto di dover fare i conti con loro, e non solo. Ci sono state alcune difficoltà che, com'è nella logica delle cose, dovevano emergere. Provo a sintetizzarle brevemente.

• La mia inesperienza della cultura e della gente bengalese, che mi ha fatto

sbagliare più di una volta. • Mi sono ritrovato solo a portare avanti un certo tipo di discorso: le suore, le

assistenti, hanno un'idea di educazione e di educatore agli antipodi della nostra. L'idea di mettersi al livello dei ragazzi, di farsi uno con loro (senza per questo rinunciare al proprio ruolo), contrasta decisamente con la loro mens culturale per la quale un boro (grande) non si abbassa mai al livello del cioto (piccolo). L'educatore per loro è assai più vicino al poliziotto che a un fratello o a un padre. L'uso della verga come metodo persuasivo o punitivo, la dice lunga sulla distanza che esiste a livello di idee e di stili. Ho ottenuto che le suore e le assistenti non usino più il bastone. Ho spiegato loro più volte i motivi per i quali non tollero questo "argomento" nell'ostello. Se abbiano capito o no, o non lo usino solo perché io non voglio, non saprei dirlo. Per ora il risultato mi basta.

• La differenza culturale impedisce anche di proporre programmi più articolati e coinvolgenti, anche a livello didattico. In genere i programmi scolastici, già abbastanza asfittici di per sé, non educano alla ricerca, non allargano gli orizzonti della fantasia e della curiosità che nel bambino sono praterie. Qui a volte è anche la scarsità di mezzi a fare la differenza. Un esempio che in Italia può sembrare banale ma che da noi è ordinario: dove trovare matite colorate per tutti? Dove reperire libri con belle foto di animali, di geografia, di scienze?...

• La questione del grande-piccolo, e del rispetto formale che deve comunque esistere, fa da freno anche ad una relazione più libera e fiduciosa con i ragazzi, soprattutto i giovani e gli adolescenti.

• Legata a questa metterei anche la differente idea di amicizia che c'è nelle rispettive culture: qui normalmente l'amico mi pare concepito o nel senso cameratesco o come uno che non ti può rifiutare nessun tipo di favore o raccomandazione. Quindi se mi faccio il padre come amico...

• L'idea di religione. La separazione tra jibon (vita) e dhormo (religione) è netta. Non si considerano le due cose un tutt'uno, con un coinvolgimento pieno di tutta la vita come chiede chiaramente il discepolato di Gesù nella Chiesa, ma il sostrato culturale indù porta anche il cristiano a ritenere la religione cosa del prete (guru), e ad assistere alla Messa come alla pujia (offerta), finita la quale finisce tutto.

• La mancanza spesso dell'idea di gratitudine e di gratuità. Concetti a mio parere importanti perché riflettono atteggiamenti fondamentali della fede cristiana e della crescita anche umana.

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2. L'obiettivo: un'esperienza di Dio e del suo amore.

Quello che è davvero fondamentale è fare in modo che tutto, nella vita dell’ostello, possa diventare un’occasione per i ragazzi di fare un’esperienza di Dio che li ama. Se nell'ostello non si offre questa possibilità, perdiamo un’occasione preziosa oltre a commettere un errore grave. Avremo forse buoni studenti ma non avremo certo formato cristiani e, ne sono convinto, nemmeno persone. Se solo invece si riuscisse a far fare un'esperienza anche piccola del Signore e del suo amore, io sono certissimo che questa luce non sarà persa mai. Rimarrà sempre nel cuore il ricordo di una cosa bella alla quale magari non si saprà dare un nome e un volto preciso, ma di cui si ha nostalgia. Perché è Dio che rivela se stesso anche al cuore di chi non lo conosce. Questo l'esperienza me lo ha confermato innumerevoli volte, sia in Italia sia in Bangladesh. Penso, ad esempio, a Radica, una bambina della tribù oraon, non cristiana, che lo scorso anno è morta mentre era a casa in vacanza. Stroncata in un giorno, forse per difterite. La cosa che mi ha colpito e commosso profondamente è che prima di morire, sapendo cosa stava accadendo, ha chiesto alla sua famiglia di pregare insieme, ha spiegato che stava andando da Gesù, ha chiesto perdono, e ha infine cercato i padri e le suore della missione. Una bambina di dieci anni! E cosa cercava, cercando noi, se non quella vita che aveva trovato? Io non so spiegarmelo altrimenti. Il primo frutto di questa testimonianza è che ora anche suo papà vuole fare chiesa la domenica, in villaggio.

Penso anche a Sumittra, Roton, Matul, loro pure non cristiani, che sono delle vere perle. Chiedono il battesimo con un entusiasmo, un'insistenza e una serietà commoventi. Ma sanno che dovranno aspettare fino a che la loro famiglia darà il consenso o deciderà lei stessa di fare lo stesso passo.

3. Sull'educatore: alcune convinzioni.

La vita nell'ostello è già ampiamente strutturata e la scuola con lo studio portano via gran parte della giornata. Ecco perché, nell'impossibilità di trovare spazi educativi particolari, la presenza dell'educatore, laico o consacrato che sia, deve essere qualitativamente significativa. Questo concretamente significa che deve essere anche quantitativamente presente. Ogni attività è un'occasione per educare. Ma anche, e soprattutto, per amare i ragazzi. Condividere per quanto possibile la loro vita è già dire: "tutto quello che fate è importante anche per me".

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La radice di questo agire, a mio parere, risiede nella convinzione che da una parte siamo chiamati a riconoscere nel bambino una presenza del Signore ("Ogni volta che avete fatto che avete fatto queste cose a uno dei miei fratelli più piccoli l'avete fatta a me." Mt.25,40), e dall'altra che siamo noi stessi strumenti perché Lui si faccia presente ai bambini. Insomma: vedere Gesù nei bambini e far loro vedere Gesù.

L'educatore (a maggior ragione se prete o suora) deve essere radicalmente convinto che il suo modo di agire, pensare, rapportarsi, lo voglia o no, comunica un’ immagine di Dio al ragazzo/a che accosta (un prete o una suora che usano la verga, che idea di Dio comunicano?). Anche per questo l'espressione profonda della propria paternità/maternità spirituale è condizione indispensabile per un qualsiasi rapporto educativo. Del resto, non è stato così anche per noi? Se abbiamo capito qualcosa di Gesù è perché qualcuno ci ha voluto bene. Anche l'aspetto disciplinare visto in quest'ottica cambia prospettiva. Il ragazzo deve sentirsi amato e valorizzato per quello che è e preso dentro un clima di fiducia e di amore, nel quale anche le punizioni non saranno accettate come rappresaglia ad un errore commesso, ma forse più facilmente comprese come aiuto correttivo. Non poche volte si confondono autorità e autorevolezza. Essere autoritario non è difficile: basta fare il poliziotto. Molto più difficile essere autorevole, perché l'autorevolezza si fonda sulla credibilità dell'educatore, che è la sua capacità di conquistare la fiducia, di guadagnare il cuore del ragazzo/a. Ai suoi occhi un educatore è credibile quando vede che è disposto a spendersi per lui. Quanto più ameremo, tanto più saremo autorevoli.

3.1 Farsi bambino con i bambini.

Nella fatica di entrare in una cultura diversa e per molti aspetti opposta

alla mia, ho scoperto una strada maestra nella quale incamminarmi: quella a cui S. Paolo fa riferimento scrivendo ai Corinti:

"Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei (...)Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti per guadagnare ad ogni costo qualcuno."(l Cor. 9,1 9s). Farmi bambino con i bambini, ecco la strada. Ho scoperto, nella

concretezza della quotidianità, che il "farsi uno" con loro diventa un metodo straordinario tanto per l'educazione quanto per l'inculturazione. Abbassarsi al loro livello senza rinunciare al ruolo di educatore. Senza fare "l'amico" a

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tutti i costi. In una cultura come quella bengalese, dove chi è "in alto" non si abbassa mai a livelli inferiori, questa è una vera rivoluzione.

Così ho trovato che ci sono mille modi per amare i bambini ed entrare nella loro cultura: medicandoli quando si feriscono o quando sono ammalati, cantando con loro o raccontando una storia; imparando a pilotare un aquilone (loro sono bravissimi) o a catturare un topo, impastando il pane con le bambine o facendo collanine; creando la squadra di calcio con tanto di allenamenti o facendo scuola, la sera, di scienze e geografia; spiegando come funziona un vulcano e dove si trova il Brasile, ma imparando anche dove si trova il nido del picchio e come si pesca con la loro rete, imparando a mangiare con loro per terra e con le mani a pranzo o a cena...

Gli episodi da raccontare sarebbero centinaia, che riempiono la vita di tutti i giorni. Per me ogni cosa, anche piccola, era una scusa per stare con loro, capire il loro mondo, e conoscere di più il ragazzo che ho davanti.

Piccoli esempi, magari banali, possono forse concretizzare il discorso. • In occasione del nostro annuale torneo di pallone, al quale partecipano anche

squadre di altre missioni, con molto anticipo ho avviato gli allenamenti con i ragazzi di quarta e quinta per scegliere quelli che ritenevo i migliori. Però ho chiesto anche a loro stessi di scrivermi la loro squadra ideale. Messe a confronto le due, soprattutto una differenza mi balzava all'occhio: l'assenza nella loro squadra di Gabriel, quello che per me era il numero 10, e senza dubbio il talento migliore dei nostri. Loro non l'avevano nemmeno preso in considerazione e lui stesso alla mia proposta non era convinto. Ma ho puntato comunque su di lui. Alla fine del torneo Gabriel è stato premiato dalla giuria come miglior giocatore, e questo lo ha certamente aiutato ad avere maggior fiducia in se stesso e nei propri mezzi.

• Una volta ho visto un ragazzo di quarta che se ne stava appartato, intristito, mentre tutti i bambini, finiti gli esami, stavano preparando eccitati le loro cose per andare a casa. Avevo la netta impressione che volesse dirmi qualcosa ma che non ne avesse il coraggio. Ho atteso per un po’ e poi, credendo di indovinare quello che aveva dentro, mi sono avvicinato, proponendogli - se lo voleva - di rimanere all'ostello ancora per una decina di giorni con quelli di quinta che preparavano gli esami. Era quello desiderava, e mi ha ringraziato con gioia. Il motivo lo sapevo ma ho gli ho evitato l'umiliazione di dirmelo: a casa non c'era da mangiare e tornare voleva dire patire.

• Capire ad esempio se un ragazzo non rende a scuola perché è semplicemente svogliato o perché ci sono problemi a casa, non è un particolare secondario. Per Moses è stato così: non è diventato il primo della classe, ma tranquillizzandolo e dandogli fiducia i miglioramenti a livello di impegno si sono visti.

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4. Il Crocifisso alla radice.

Forse perché ci viene consegnato alla nostra partenza, forse perché è così

parte della nostra vita quotidiana, fatto sta che l'immagine di Gesù abbandonato in croce, è stata per me guida anche nel campo educativo. La radice di tutta questa esperienza, quella da cui si attinge la linfa vitale, è Lui.

Anche nell'educazione la scelta di Gesù, che per amore muore crocifisso e solo, non è senza conseguenze. Ne penso almeno tre:

• La misura dell'amore: l'educatore è chiamato ad amare fino a quella misura lì:

"Come io vi ho amati..." • Il distacco che è chiesto a chi educa: per amore dare tutto e allo stesso tempo

perdere tutto. I bambini non sono "nostri". Sono suoi. • Imparare a non evitare le difficoltà (tanto chi educa quanto chi è educato): le fatiche,

i dolori, le prove, qualunque volto abbiano, non sono in se stesse delle obiezioni alla crescita, alle scelte da compiere. Hanno tutte una grazia nascosta, perché tutte sono un volto di Lui. Tutte possono diventare un trampolino per salire e crescere. Senza paura.

5. Tentativi.

Come ho già detto prima, la vita già ampiamente strutturata dei boardings

non lascia spazi particolari per chi sa quali programmi. Nondimeno qualcosa ci si può inventare. Personalmente in questi tre anni ho trovato fruttuose queste piste che ho tentato di percorrere, soprattutto con i bambini/e di quarta e quinta.

• Un impegno preso da ciascuno a inizio anno e comunicatomi personalmente. Esso

può riguardare la scuola (una materia in cui si fa maggior fatica), un aspetto del proprio carattere, una persona che non si digerisce, un lavoro che si tende ad evitare, ecc. A fine anno si tirano le somme sulla fedeltà a questa consegna.

• Colloqui personali: quelli di fine anno e quelli occasionali, anche in cortile, che servono molto per crescere nel ragazzo/a la consapevolezza di essere seguito personalmente e di non essere uno tra i tanti.

• La catechesi biblica incentrata sulla figura di Gesù, cercando di mettere in rilievo sempre lo stupore e la bellezza che la buona notizia del Vangelo posta con sé.

• Una parola del vangelo che mensilmente ci impegnavamo a vivere e a mettere in pratica insieme. La frase era appesa fuori sul cortile così che tutti la vedevano durante il giorno. Lo scopo era duplice: aiutarli a cogliere il legame tra vita e Vangelo e fare in modo che la parola di Gesù li aiutasse ad assumere valori umani e

virtù cristiane: l'amore reciproco, il perdono, la gratitudine, la gratuità, la condivisione... Ho visto che dopo un po' di disorientamento iniziale per la nuova proposta, sono nati tanti piccoli segni e gesti di attenzione e di amore. Naturalmente era fondamentale l'essere presenti per aiutarli a cogliere l'occasione buona o per far notare quella mancata: e questa cosa metteva anzitutto alla frusta me che per primo dovevo vivere questo impegno. Le esperienze qui sono state veramente molte e belle. Penso ad esempio ad Angelus e a Roton (quest'ultimo non cristiano), che si trovavano entrambi, a turni diversi, in infermeria ad assistere altri bambini ammalati. Era il mese di luglio e la frase da vivere era: "Ogni volta che avete fatto che avete fatto queste cose a uno dei miei fratelli più piccoli l'avete fatta a me." (Mt.25,40). Ho cercato di dire loro che occasione magnifica era quella: in ognuno di quei fratellini c'era Gesù! Aiutando loro aiutavano Lui, a Lui portavano il riso, per Lui l'acqua, le medicine... Angelus e Roton hanno continuato a fare lo stesso servizio di prima ma era cambiato radicalmente il modo e il movente, lo si vedeva a occhio nudo. Ed era una gioia per me vederli gioire per questi atti d'amore. Questo intendo quando sostengo che dobbiamo offrire loro la possibilità di fare l'esperienza di un'amicizia bella con Gesù, perché solo questa fa la differenza. Lo stesso potrei dire quando a settembre si viveva la parola: "Beati gli operatori di pace. (Mt. 5,9). Ogni volta che c'era un litigio o una zuffa li mettevo di fronte alla frase appesa sul muro e chiedevo: "E adesso? Cosa mi chiede di fare Gesù?". Scattava naturalmente la rappacificazione. E più di una volta ho visto loro stessi farlo senza il mio intervento. Così la Parola a poco a poco entra nella vita.

• Responsabilizzare un gruppetto dei più grandi perché essi stessi aiutino nella conduzione dell'ostello, soprattutto con i piccoli. Con loro, senza che si sentano più bravi o i migliori, alcuni brevi incontri di verifica su come procedono le cose aiutano a tenerli desti e positivi nell' impegno.

• Una cosa a cui stavo pensando, ma non ancora attuata, erano lavori di gruppo, piccole attività didattiche, giochi, "street-theatre", perché si possa tentare di far riflettere su concetti come l'onestà, la legalità, il rispetto delle cose di tutti, la pulizia personale, ecc. Rimane sempre la difficoltà di coinvolgere anche suore e le assistenti in queste proposte.

6. Alcuni frutti.

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Mi pare giusto dire, per concludere, che un frutto visibile e concreto di questo percorso educativo, che ho tentato di spiegare, sia stata anche la coesione e l'unità tra i bambini.Da noi sono presenti almeno 5 gruppi di diverse etnie: bengalesi, oraon, mahali, santai, Idiottrio. Ora, non solo la convivenza tra loro è pacifica (cosa tutt'altro che scontata e anzi difficile in altri ostelli), ma sono anche nate molte belle amicizie fra etnie diverse. Anche il mio parroco lo rilevava sorpreso. La scoperta dell'amore reciproco come "regola" sorgiva dello stare insieme, ha portato al superamento dei pregiudizi tra una tribù e l'altra, alla possibilità dell'amicizia a dispetto della diversità, e a beneficiare di un clima di famiglia nel quale ci si sente accolti e amati tutti. Vorrei anche dire, a costo di sembrare retorico, che ho avuto spesso l'impressione di poter gustare la presenza stessa del Signore Gesù, a guidarci. Ricordo ad esempio, certe lezioni di catechismo nelle

quali avvertivo un "clima" così alto da lasciarmi stupito. Tanto che finivo col dire cose che non avevo neppure preparato, ma che andavano benissimo per quel momento. O certe scelte prese non da solo ma con i bambini, cercando di capire insieme qual'era la volontà di Dio. Era Lui il maestro, lo è stato per tutti.

percorsi bibliografici

la catechesi catecumenale

di Giuseppe Cavallotto

1. Catechesi catecumenale antica

1.1. Fonti e studi. Testi patristici: la catechesi ai catecumeni

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RUFINO DI CONCORDIA -Expositio in Symbolum. Edizione: CCL 20, 133-182. Traduzione: Spiegazione del Credo. Traduzione, introduzione e note a cura di M. Simonetti, Città Nuova, Roma 1978. NICETA DI REMESIANA -Frammenti di catechesi ai competenti. Edizione: Patrologiae latinae cursus completus (PL) 52, 847-876. Traduzione: Catechesi preparatorie al battesimo. Traduzione, introduzione e note a cura di C. Riggi, Città Nuova, Roma 1985.

AGOSTINO DI IPPONA -De catechizandis rudibus. Edizione: PL 40. Traduzione: De catechizandis rudibus, a cura di A. Mura, La Scuola, Brescia 1956; La catechesi ai principianti. De catechizandis rudibus, a cura di A. VALLI, EP, Roma 1984; Prima catechesi ai non cristiani. Introduzione e note di P. Siniscalco, Città Nuova, Roma 1993. -Discorsi 212-216 sulla spiegazione del Credo; Discorsi 56-59 sulla spiegazione del Padre Nostro. Edizione e traduzione: Discorsi, Nuova Biblioteca Agostiniana (NBA) 32/1, Città Nuova, Roma 1985, 194-263; NBA 30/1, Città Nuova, Roma 1983, 140-206. Studi: SINISCALCO P., “Christum narrare et dilectationem movere”, in Augustinianum 14 (1974), 605-623; A. TRAPÉ, “S. Agostino e la catechesi: teoria e prassi”, in FELICI S. (ed.), Valori attuali della catechesi patristica, LAS, Roma 1979, 117-126; REIL E., Aurelius Augustinus: De catechizandis rudibus. Eine Religions didaktisches Konzept, EOS Verlag, St. Ottilien 1989. QUODVULTDEUS -9 Sermoni ai catecumeni. Edizione: CCL 60, 227-258 e 305-347. Studi: DE SIMONE R. J., “The Baptismal and Christological Catechesis of Quodvultdeus”, in Augustinianum 25 (1985), 265-282.

1.2 Approfondimento e orientamenti generali DANIELOU J. - DU CHARLAT R., La catéchèse aux premiers siècles, Instit. Catéchètique, Paris 1968. Trat. ital., La catechesi nei primi secoli, LDC, Leumann-Torino 1970. GERMAIN E., 2000 ans d’éducation de la foi, Desclée, Paris 1983, 7-42. LAITI G., “La catechesi nel catecumenato antico”, in CAVALLOTTO G. (ed.), Iniziazione cristiana e catecumenato. Divenire cristiani per essere battezzati, EDB, Bologna 1996, 63-90. LEGARDE C. e J. - EQUIPE EPHETA, Catechesi patristica e pedagogia moderna, EDB, Bologna 1991. MARTINEZ J. F., “Iniciación y catequesis en la Iglesia antigua: apuntes marginales”, in Teología y Catequesis 4 (1984)m 335-350.

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2. Catechesi catecumenale nel nostro tempo 2.1. Studi e orientamenti generali

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Giuseppe Cavallotto Docente di catechetica

Nella facoltà di Missiologia Dell’Università Urbaniana

Sussidi missionari

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Dei Verbum: chiesa e missione dalla parola Dopo aver incontrato molte resistenze e dopo una storia

redazionale particolarmente tormentata (cinque diversi schemi), la costituzione Dei Verbum (DV), proposta alla discussione dei Padri nel 1962, nella prima sessione, è stata promulgata il 18 novembre 1965, nella quarta ed ultima sessione.

La DV è la magna charta della Scrittura. Innanzitutto perché inserisce quest'ultima nel vasto movimento della rivelazione stessa. Inoltre la DV presenta una visione unitaria della rivelazione, in cui la Scrittura si inserisce come una forma privilegiata della Parola, ma in costante contatto con la tradizione. Infine, i tre punti nevralgici toccati dalla Costituzione riguardano appunto la Scrittura, e cioè il rapporto tra Scrittura e Tradizione, il problema della verità della Scrittura, il valore storico dei Vangeli. Noi non presenteremo tutto il Documento, ma ci soffermeremo su alcuni punti salienti.

Il Proemio, che è assente nel primo schema, ma appare con il

secondo, insieme alla citazione della prima lettera di Giovanni, dà la chiave di tutta la Costituzione, ed in particolare della nozione di rivelazione che il Concilio intende esporre. La citazione della 1Gv orienta in senso nuovo il modo stesso di comprendere la rivelazione: non più come la comunicazione di alcune verità, ma come la comunicazione della vita divina identificata nella persona stessa di Gesù Cristo. Il Proemio indica il movimento della Rivelazione: la vita in Dio, la vita che discende verso l'uomo e, in Gesù Cristo, gli si manifesta al fine di operare il ritorno alla vita. Questo testo è il filo conduttore di tutta la Costituzione.

1. La rivelazione. Il capitolo 1 si articola in: natura della

rivelazione, tappe della stessa, risposta umana alla Rivelazione, verità rivelate. Il testo si preoccupa innanzitutto di rispondere alla domanda: che cos'è la Rivelazione? Interessante il fatto che quello

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che viene proposto non è una definizione quanto una descrizione della Rivelazione. A differenza del Concilio Vaticano I, che parlava della manifestazione di Dio attraverso la creazione e poi della rivelazione storica, Il Vaticano II parla subito della rivelazione personale di Dio in Gesù Cristo: capovolge cioè la prospettiva. Questa rivelazione è essenzialmente dovuta alla libera iniziativa di Dio e non è effetto di una costrizione o di un'esigenza dell'uomo: "Piacque a Dio" rivelarsi. Nell'ordine della salvezza, tutto è grazia, iniziativa di Dio.

A proposito dell'oggetto della rivelazione, la DV dichiara che è Dio stesso e il mistero della sua volontà. La Rivelazione, prima di far conoscere qualcosa, ci mette di fronte a Qualcuno. Adottando poi il termine paolino "mistero", il testo evoca tutto il disegno salvifico e spiega anche in che cosa consista il mistero della volontà di Dio. Il disegno di Dio è che «gli uomini per mezzo di Gesù Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura» (DV 2).

Usando questa espressione, il testo sottolinea il carattere personalistico, trinitario e cristocentrico della Rivelazione. Essa è essenzialmente rivelazione di persone; impegna il Padre, il Figlio e lo Spirito, e Cristo ne è il mediatore.

Dopo avere indicato il fatto e l'oggetto della Rivelazione, la Costituzione ne precisa la natura: «Con questa rivelazione Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con Sé» (DV 2).

La Rivelazione viene definita una parola che interpella e diventa dialogo, colloquio amichevole con gli uomini. Questa parola è per la nostra salvezza. Questo è lo scopo della Rivelazione: «Piacque a Dio nella sua bontà…rivelare se stesso» perché gli uomini abbiano «accesso al Padre».

Il Concilio afferma che la Rivelazione si realizza mediante l'unione di gesti e parole (DV 2). Le opere «compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole» (DV 2). Le parole, a loro volta, «proclamano le opere e chiariscono il mistero in esse contenuto» (DV 2). Le opere, infatti, spesso sono ambigue, si possono interpretare in modi diversi. Quindi sono le parole che spiegano il senso dei gesti. Il senso dell'evento matura nella parola. Insistendo sulle azioni e sulle parole come

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elementi costitutivi della Rivelazione, il Concilio sottolinea il carattere storico di quest'ultima. Dio, nello stesso momento, agisce e commenta la propria azione. L'aggettivo "storico", applicato alla Rivelazione, può avere vari significati:

a) può indicare la storia in quanto è scenario della Rivelazione.

Ciò significa che la Rivelazione si effettua in tempi e luoghi determinati, ed è perciò sottoposta alle coordinate storiche. Leggiamo che Abramo si trovava a Ur, a Bethel, o a Mamre quando ricevette la Rivelazione; Isaia ci dice l'anno in cui profetizzò; Ezechiele specifica persino il giorno. Ancora più chiaramente appartiene alle coordinate della storia la rivelazione di Cristo. Nessuno mette in dubbio che, in questo senso, la Rivelazione sia storica. Il fatto importante è che tale sottomissione alla storia è costitutiva della Rivelazione, la quale non si presenta come un assoluto atemporale, ma si comunica in un processo. Tale carattere storico si oppone sia ad una concezione naturale che mitica della rivelazione.

b) In un secondo senso, la storia è oggetto e contenuto di Rivelazione. Ciò appare chiaramente dal nostro simbolo di fede, i cui articoli non sono verità astratte, universali e atemporali, bensì fatti storici: nacque, patì sotto Ponzio Pilato, morì, fu sepolto, risuscitò. I simboli di fede di Israele sono analoghi. Per esempio, in Dt 26 gli Israeliti, i padri di famiglia, portano i cesti delle primizie, le offrono al sacerdote che le depone sull'altare. Fin qui il rito; contemporaneamente essi recitano il loro atto di fede. Presso altri popoli la festa del raccolto è invece di tipo mitico: in essa si attualizza l'avvenimento del dio che scende sulla terra, la feconda e risorge. La ripetizione del fatto e del rito è puramente ciclica. Israele, invece, nel festeggiare liturgicamente il raccolto, recita un brano della sua storia: il possesso della terra non è un dato ovvio, bensì un dono storico. Vi fu un tempo in cui Israele non abitava là; tale limite temporale manifesta il senso della terra, la rende rivelatrice. Il raccolto attualizza il dono storico, e l'offerta delle primizie, parallelamente alla professione di fede, è testimonianza di riconoscenza.

c) In terzo luogo, l'aggettivo "storico" significa che i fatti sono rivelatori. I fatti della storia rinchiudono un mistero che è il piano salvifico e la sua realizzazione. La realtà profonda si realizza, e perciò si manifesta, nell'evento storico. Ne deriva che il fatto empirico

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possiede una capacità di significare che diventa attuale per colui che è capace di vedere.

Tale carattere storico della Rivelazione culmina col Cristo (DV 3-

4). In Lui, Dio ci ha dato la sua unica Parola, quindi «non è da aspettarsi alcun'altra rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo» (DV 4).

A Dio che rivela, bisogna credere, bisogna obbedire (DV 5).

Rivelazione e fede sono realtà correlate. La Rivelazione descritta dalla DV è iniziativa personale del Dio vivente e manifestazione del suo mistero personale. La fede, a sua volta, è libera risposta dell'uomo alla chiamata di Dio. Tramite la fede, «l'uomo si abbandona a Dio tutt'intero liberamente, prestandogli "il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà" (DS 3008) e acconsentendo volontariamente alla rivelazione data da Lui» (DV 5). La fede cristiana è dono e consenso, conoscenza e amore.

2. La trasmissione della rivelazione. Dopo aver parlato della

Rivelazione in sé, il cap. 2 affronta il problema della trasmissione di essa. La Tradizione non si riduce a degli enunciati verbali. È presente nella dottrina apostolica, nell'organizzazione e nella vita della Chiesa, nell'interpretazione della Scrittura, nell'attività liturgica e sacramentale (DV 8). In pratica, la Tradizione comprende l'insegnamento, la vita e il culto. Proprio perché è vita, la Tradizione è soggetta ad un'evoluzione: «La Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo» (DV 8). Si tratta di rendere attuale il messaggio di sempre, per andare incontro agli uomini del nostro tempo e per rispondere ai loro interrogativi. Si tratta comunque di uno sviluppo nella fedeltà. Scrittura e Tradizione sono intimamente unite e in comunicazione reciproca. Non sono dunque due vie indipendenti e parallele. Scrittura e Tradizione sono indissociabili e costituiscono un tutto organico, anche se nel n. 9 viene aggirato il problema del contenuto materiale della Tradizione e dell'estensione di questo contenuto in rapporto alla Scrittura. Quello che si può sottolineare è che la DV parla di una Tradizione viva. Anche nella vita umana, la vita si conserva perché si trasmette; l'atto di trasmettere la vita è un atto supremamente vitale. La tradizione biologica si ripete analogamente

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nell'ambito spirituale dell'uomo. Così è la Chiesa: realtà viva che trasmette non solo una dottrina, ma anche una vita totale. Si trasmette non un deposito inerte, ma un seme che cresce e diventa un albero sul quale si riposano gli uccelli del cielo. Il cap. 1 diceva che la Rivelazione si realizza per mezzo di gesti e parole intrinsecamente uniti, e il cap. 2 dice che la Rivelazione si trasmette per mezzo di opere e di parole. La Tradizione è la realizzazione storica dell'essere della Chiesa. Sorgono comunque dei problemi: come può il cristiano distinguere ciò che è vero progresso da ciò che è falso? Come si garantiscono nella Chiesa la continuità, la fedeltà, l'identità a se stessa,e il progresso autentico? Come distinguere le tradizioni autentiche da quelle false? I criteri offerti dalla DV sono due: la Scrittura e il Magistero (DV 10).

Bisogna aggiungere infine che la Costituzione afferma l'unità di Scrittura, Tradizione e Magistero, senza esporre analiticamente le relazioni che esistono tra essi; questo sarà uno dei compiti della teologia successiva.

3. Ispirazione. Il cap. 3 affronta il tema dell'ispirazione con parole

del Vaticano I. Si espone brevemente la natura dell'ispirazione usando la categoria del duplice autore e insinuando l'idea dello strumento. Da qui si ricavano due conseguenze: la verità della Scrittura e la sua utilità per la salvezza. Per quel che riguarda la verità della Scrittura, bisogna considerare non solo il suo oggetto materiale, cioè i settori che tocca, ma soprattutto il suo oggetto formale, cioè il punto di vista specifico sotto il quale li affronta. Questo punto di vista è "la nostra salvezza". Con questa affermazione, frutto di un ampio dibattito, la DV supera la concezione dell'inerranza per aprirsi ad una considerazione positiva, non polemica della verità della Scrittura.

4. La ricerca esegetica. Il n. 12 si riferisce all'interpretazione della

Scrittura e merita di essere commentato in maniera più approfondita. Il punto di partenza è la riaffermazione della dimensione umana, storica, della Rivelazione. Dio parla agli uomini in modo umano. Ammesso questo principio fondamentale, si richiede all'esegeta una ricerca vera e propria, eseguita con tutto l'impegno, e che appare orientata verso due direzioni parallele, ma distinte: ciò che gli autori sacri hanno voluto di fatto esprimere e quello che Dio ha voluto

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rivelare con le loro parole. La Costituzione si riferisce anzitutto alla prima linea, quella che riguarda la percezione dell'intenzionalità degli autori sacri. Ne precisa il senso con due puntualizzazioni: parla anzitutto dei generi letterari (l'autore sacro si esprime secondo la sua cultura e secondo le categorie proprie del suo tempo) e poi della necessità di considerare il quadro generale di comunicazione allora vigente. Oltre ai generi letterari, bisogna considerare la documentazione letteraria profana parallela. Cosa è richiesto dunque all'esegeta? L'attenzione generale alla storia, l'esigenza di una determinazione accurata dei generi letterari, il confronto con altri testi anche profani, dunque una ricerca di tipo storico-letterario.

Ma il compito dell'esegeta non termina qui, dal momento che lo Spirito che ha diretto l'agiografo deve animare sia la lettura che l'interpretazione del testo, e ciò non come una sovrapposizione o una idealizzazione, ma proprio per estrarne il senso preciso. Senza questa attenzione allo Spirito, nell'interpretazione ci sarebbe un vuoto. Due aspetti connessi all'azione dello Spirito sono: la tradizione viva di tutta la Chiesa e l'analogia della fede. Un'esegesi che voglia essere completamente tale, che tenda quindi a comprendere e spiegare il testo, non può fare a meno né della parte di indagine puramente letteraria né dell'attenzione a quel di più che deriva dallo Spirito. Si avrebbe, nell'uno e nell'altro caso, un'esegesi riduttiva, che, perdendo la sua completezza e la sua specificità, risulterebbe inadeguata e quindi non scientifica. Questo discorso viene ripreso nel cap. 6 per dire che la Scrittura tende ad animare tutta la vita della Chiesa, penetrandone dal di dentro i vari aspetti. Riesce a farlo, accompagnata dalla mediazione dello studio. Ed è allo studio, in vista di questa attualizzazione, che l'esegeta dà il suo contributo specifico. Bisogna ricordare, contro una tendenza alla lettura-ascolto realizzati ad apertura di libro, che una lettura povera della Bibbia porta inevitabilmente ad una attualizzazione parziale.

5. La Bibbia nella vita della Chiesa. E con queste osservazioni ci siamo già introdotti all'ultimo punto della nostra analisi della DV, che riguarda proprio il cap. 6. Dopo aver esposto le verità fondamentali riguardanti la Rivelazione e la sua trasmissione, in particolare la sua presenza nei libri sacri, il Concilio passa a trarne le conseguenze pratiche per il popolo cristiano. Il tema della S. Scrittura nella vita della Chiesa è stato oggetto di considerazione anche in altri documenti, in particolare quello sulla Sacra Liturgia,

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sull'Ecumenismo, sulla vita religiosa, sulla formazione sacerdotale, sull'apostolato dei laici, sulle missioni, sul ministero e la vita dei sacerdoti.

Il contenuto del capitolo si può riassumere brevemente così: la Chiesa venera le Sacre Scritture e le considera regola della fede, nutrimento della predicazione, sostegno dei suoi figli (DV 21). Perciò i fedeli devono avervi largo accesso, sia attraverso accurate versioni (DV 22), sia mediante il lavoro esegetico (DV 23). Tanto la teologia che la predicazione trovano nelle Scritture la loro anima e il loro alimento (DV 24). Occorre dunque che i sacerdoti e i chierici conservino un contatto continuo con le Scritture; anche tutti i fedeli sono esortati ad accostarsi volentieri al sacro testo: perciò i Vescovi procurino che si producano testi accuratamente annotati (DV 25). In tal modo, con la lettura e lo studio dei sacri libri, è lecito sperare un nuovo impulso di vita spirituale (DV 26).

La struttura dell'insieme del capitolo non risponde tanto ad esigenze logiche, quanto a motivi pastorali. Non mancano infatti alcune ripetizioni. Così, ad esempio, si parla due volte delle versioni (DV 22 e 25). Ciò che si dice della Scrittura come nutrimento della predicazione al n. 24 era già stato anticipato al n. 21. Il parallelismo tra Scrittura ed Eucaristia torna ai nn. 21 e 26.

Il n. 21 è il fondamento di tutto quanto si dirà nel resto del capitolo per l'uso della Bibbia nella vita dei fedeli. Esso ha quindi il carattere di esposizione dottrinale, e in ciò si ricollega ai capitoli precedenti. Insieme però esso enuncia già una conseguenza pratica di ordine generale che è preludio alle disposizioni pastorali che vengono date nei numeri seguenti. Il paragrafo rappresenta così il naturale passaggio dall'esposizione dottrinale alle esortazioni pastorali. «La Chiesa ha sempre venerato le Divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo» (DV 21): si espone un fatto generale, ricordando un parallelo, la venerazione della Chiesa per il corpo di Cristo. Il paragone è antichissimo, e ha il suo fondamento in Gv 6,32-33.51-59 (cfr. anche Gv 3,11). Esso è stato ampiamente sviluppato dai Padri (Girolamo, Agostino) e ha trovato espressione classica nel cap. XI dell'"Imitazione di Cristo". Esso è particolarmente felice perché nella celebrazione eucaristica i due nutrimenti vengono offerti insieme ai fedeli, come da un'unica mensa. Per questo il Concilio continua dicendo che la Chiesa non manca mai «soprattutto nella sacra Liturgia, di nutrirsi del pane della vita dalla mensa sia della

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Parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli» (DV 21). Si designa così la funzione della Chiesa, specialmente nella liturgia, di dispensare a tutti i fedeli il tesoro eucaristico e scritturale che le è stato affidato.

«Insieme con la Sacra Tradizione, la Chiesa ha sempre considerato e considera le Divine Scritture come la regola suprema della propria fede; esse infatti, ispirate come sono da Dio e redatte una volta per sempre, impartiscono immutabilmente la parola di Dio stesso e fanno risuonare, nelle parole dei Profeti e degli Apostoli, la voce dello Spirito Santo» (DV 21). L'affermazione che la Scrittura è la regola suprema della fede della Chiesa è tradizionale nella teologia cattolica. Essa significa che, in ultima analisi, tutto ciò che nella Chiesa viene proposto all'assenso dei fedeli, è misurato col metro della Scrittura, a cui è associata strettamente la Tradizione (DV 7-10). Come conseguenza di questo primato della Scrittura nella Chiesa, deriva la necessità che «la predicazione…sia nutrita e regolata dalla S. Scrittura» (DV 21). La qualifica di "regola" della predicazione era stata finora poco comune nei documenti ufficiali, per timore di interpretazioni errate. Per questo è tanto più da sottolineare l'importanza ecumenica di questa affermazione del Concilio, anche se essa, dottrinalmente, non aggiunge nulla di nuovo.

Come conseguenza pratica di quanto si è detto nel numero precedente sulla Scrittura, cibo dei fedeli e sorgente di vita spirituale, si afferma che «è necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla S. Scrittura» (DV 22). L'affermazione potrebbe sembrare ovvia. Tuttavia non si può negare che la prassi del popolo cristiano non era caratterizzata da un "largo accesso alla S. Scrittura". P. Claudel affermava che tra i cristiani «il rispetto per la Scrittura è senza limiti, ma esso si manifesta soprattutto con lo starne lontani». L'affermazione del Concilio acquista maggior rilievo se paragonata alle espressioni in parte restrittive di documenti più antichi.

Fino al Medio Evo non si ha notizia di provvedimenti intesi a limitare l'accesso alle Scritture. Nel 1199 Innocenzo III scrive al vescovo di Metz invitandolo ad investigare sull'origine e sull'intenzione di alcune traduzioni in volgare. Il Vescovo di Metz si era infatti mostrato preoccupato per alcuni dei suoi fedeli laici, uomini e donne ("laicorum et mulierum multitudo non modica"), che, per il desiderio di conoscere le Scritture, si erano tradotti in francese i

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Vangeli, le lettere di Paolo e i Salmi. Essi, riferisce il Vescovo, si radunano segretamente, predicano a vicenda gli uni agli altri, pur senza essere sacerdoti, e si mostrano arroganti verso i preti della loro parrocchia.

La risposta del Papa è cauta, ma non restrittiva. Le restrizioni vengono messe in opera nel secolo seguente da alcuni Concili regionali, ad esempio, quello di Tolosa del 1229 in occasione della lotta contro gli Albigesi. Questo Concilio assunse una posizione fortemente negativa nei riguardi di ogni traduzione biblica, anzi, dell'uso stesso della Bibbia da parte dei laici.

Il Concilio di Oxford del 1408 proibì ogni traduzione della Bibbia che non avesse avuto un'approvazione ufficiale. Più oltre andavano le norme stabilite in Catalogna a partire dal sec. XIII dall'autorità civile, e divenute leggi di stato agli inizi del sec. XVI, che stabilirono che nessuno potesse tenere presso di sé alcuna versione biblica. Si trattava di disposizioni estreme, prese sotto la spinta di gravissime circostanze. Esse rimasero inoltre locali e temporanee.

Il Concilio di Trento, nel decreto Super Lectione, incoraggiava soltanto le letture fatte in pubblico da maestri autorizzati e non in genere un accesso diretto dei fedeli al testo sacro. Paolo IV nel 1559 e Pio IV nel 1564, promulgando l'Indice dei libri proibiti, vietarono pure di stampare e tenere Bibbie in volgare senza uno speciale permesso. Se ciò non rappresentava una vera proibizione, era tuttavia un provvedimento destinato a limitare assai l'uso concreto della Bibbia per chi non sapesse il latino. Solo nel 1757 si permisero di nuovo in maniera generale le edizioni in volgare, purchè approvate dalle competenti autorità e munite di note. Nel frattempo, le controversie sulle teorie di Quesnel avevano riportato alla ribalta il problema della lettura della Bibbia da parte dei fedeli. Nel 1713 erano state dichiarate sospette alcune proposizioni dello stesso Quesnel, tendenti a sottolineare la necessità di un accostamento universale e diretto ai libri della Bibbia. Ciò che suonava male in queste affermazioni, riprovate dalla Chiesa, era il considerare un tale accesso diretto e privato a tutta la Scrittura come un mezzo necessario di salvezza, dimenticando che la Scrittura può essere avvicinata anche nella liturgia.

Tuttavia bisogna riconoscere che, nell'intento di prevenire interpretazioni errate, non si facevano volentieri affermazioni di carattere generale sull'urgenza ed utilità di accostarsi alla Bibbia,

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come quelle contenute nella DV. Essa segna dunque la fine di un periodo di cautele e il principio di un'èra in cui si ripone grande fiducia nella lettura dei testi sacri aperti a tutti.

Quindi, da una parte gli esegeti e i teologi devono penetrare la Scrittura (DV 23), ma, dall'altra, la Scrittura profondamente capita è il fondamento di ogni lavoro teologico (DV 24). La teologia, come "scienza della rivelazione", non ha altro scopo che di scrutare la verità rivelata. Ora, poiché, come espongono i capp. 2-3 della DV, i libri sacri contengono ed esprimono questa verità, ne segue che la teologia si basa su di essi come sul suo fondamento. Se la teologia si basa sulla Parola di Dio scritta, ne deriva che «lo studio delle sacre pagine è come l'anima della teologia» (DV 24). Questa esortazione riprende quella di Leone XIII nell'enciclica Providentissimus Deus: «È sommamente desiderabile e necessario che l'uso di questa divina Scrittura influisca in tutta la scienza teologica e ne sia come l'anima». Tale esortazione era stata ripetuta letteralmente da Benedetto XV nell'enciclica Spiritus Paraclitus. Il documento sulla formazione sacerdotale si richiama allo stesso principio (OT 16).

Però la Scrittura non deve soltanto essere l'anima della teologia, ma anche delle varie forme del ministero della Parola: la predicazione pastorale, la catechesi, l'omelia.

Donatella Scaiola

Università Urbaniana

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LA BIBBIA NELLA PASTORALE. DECALOGO PER L’USO

1. Un segnalatore indispensabile nel cammino della fede La Bibbia attesta con verità la Parola di Dio per la salvezza dell’ uomo (cfr DV, n. 11) Perciò la comunità cristiana, e ogni singola persona in essa, accosta la Bibbia come guida sicura e necessaria per il cammino della fede nelle sue diverse espressioni: annuncio, celebrazione, preghiera, vita spirituale, condotta morale… (cfr. DV, 21, 25) 2. Dio parla con parole nostre La Bibbia è un segno forte del mistero dell’ incarnazione: Dio si accosta all’uomo diventando simile a lui, parlando il suo linguaggio, adottando la sua cultura, rispettando la sua debolezza, senza mai accettarne il male ( cfr DV, 13). Questo comporta che il testo biblico venga compreso nel senso genuino, sia storico che spirituale, riconoscendo il genere letterario, valutando il contesto culturale, sapendo unire AT e NT, ecc. 3. Storia di una relazione di amore “Nei Libri Sacri il Padre viene con molta amorevolezza incontro ai suoi figli e discorre con essi” (DV, 21).

Questo richiede di leggere la Bibbia non come un manuale di verità e di doveri su Dio e sull’uomo, ma come il racconto di una relazione di amore tra Dio e l’uomo, fatto di proposte e di risposte, di dono e di rifiuto. Quel Dio è il nostro Dio, quell’uomo sei tu, siamo noi

4. Una grande biblioteca, il cui libro centrale è il Vangelo Vuol dire che tutto nella Bibbia, parola di Dio, tende a quella pienezza di Parola che è Gesù Cristo, la relazione Dio-uomo fatta persona (cfr DV, 4, 13, 16).

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Questo comporta di riconoscere la centralità dei Vangeli e dunque dare preferenza alla loro lettura, di abituarsi a vedere nella persona di Gesù morto e risorto il senso ultimo e perfetto di quanto dice il Libro Sacro su Dio, sull’uomo, sulla vita, sul futuro, sulla condotta. Ciò è facilitato dal confrontare i rimandi che stanno tra vangeli e il resto della Bibbia 5. Una sinfonia di voci per l’unica Parola di Dio L’evento della Parola se ha nella Bibbia la chiave armonica , realizza in pieno la sua potenza di salvezza con gli strumenti della dottrina, dei sacramenti, della carità , ed anche della cultura (cfr DV, 8). Per cui è giusto e costruttivo soltanto un uso integrato della Bibbia che unisca strettamente e faccia interagire Bibbia e insegnamenti della Chiesa, Bibbia e liturgia, Bibbia e servizio, Bibbia e il sapere umano… 6. Una parola di Vita per la vita “Dio che ha parlato in passato, non cessa di parlare con la Sposa del suo Figlio, e lo Spirito Santo fa risiedere nei credenti la parola di Cristo in tutta la sua ricchezza” ( DV, 8) Vuol dire la Bibbia, nata non da speculazioni a tavolino , ma dalla vita intensa del popolo di Dio, grazie allo Spirito Santo e alla riflessione dei credenti continua ad essere attuale oggi, parla, anzi interpella ogni lettore. In concreto vuol dire che, ad es., un gruppo biblico si preoccupa di cogliere di un determinato passo le implicanze esistenziali ( vita, morte, felicità, male…) , alla luce della Bibbia discerne le vicende della vita e della storia , suscita fra i partecipanti le risonanze della Parola e ne fa una condivisione , traduce il testo in preghiera , stimola a scelte di vita, specie nell’ambito della carità 7. La Bibbia, inesauribile scuola di preghiera

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“La lettura della Sacra Scrittura deve essere accompagnata dalla preghiera” (DV, 25).E’ fondamentale riconoscere e praticare ogni contatto con il Libro Sacro come incontro con il mistero di Dio, nell’ascolto e nella risposta di fede, cioè nella preghiera. Fuori di questa prospettiva la Bibbia svanisce, perde il suo peso specifico. In pratica la comunità cristiana esplora e fa proprie le grandi preghiere bibliche nell’AT e NT, dà preferenza alla preghiera dei Salmi secondo l’ufficio della Chiesa, privilegia la Parola di Dio nella liturgia eucaristica, si propone come obiettivo comunitario e personale, la Lectio Divina ( Novo Millennio Ineunte, 39; Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 49) 8. Alle radici della nostra cultura La Bibbia, un tesoro per riempire sempre di più il cuore dell’uomo ( cfr DV, 26). Qui si vuol richiamare che essa sta alla base della civiltà occidentale, in quanto i valori ebraico-cristiani hanno impregnato visione della vita, valori etici, arte… producendo una ineguagliata storia degli effetti. Ciò spinge i cristiani ad avvicinare il Libro Sacro, non soltanto con la semplice lettura, ma con iniziative di studio, adeguato alle diverse condizioni , ad esplorare gli effetti prodotti nel contesto umano, sociale, culturale, a confrontare la visione biblica con altre visioni religiose (Islam, induismo…) e laiche ( filosofie, sistemi di significato), a farne fonte di ispirazione per la musica, le arti , la letteratura, il cinema… 9. Attenti all’uso “E necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla Sacra Scrittura” (DV, 22). Ma non ogni uso è corretto. Fondamentalismo, lettura ideologica, moralismo, fretta consumista ed impiego funzionale … sono tarli da cui il cristiano si difende. Lo studio del testo, la preghiera con esso e l’esperienza viva di esso garantiscono un impiego corretto del

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Libro Sacro. La presenza di un animatore esperto nel gruppo biblico è oggi una pratica necessità ed una vera benedizione 10. La Bibbia in mano “I figli della Chiesa si familiarizzino con sicurezza ed utilità con le Sacre Scritture” (DV, 25) La Bibbia è ‘ la lettera di Dio’ che ogni cristiano riceve nella sue mani, e quindi deve poterla leggere con i suoi occhi, sfogliare con le sue mani, gustare nel suo cuore. Diventa obiettivo concreto che il cristiano possieda una Bibbia intera come il libro della sua fede, la possa leggere secondo un itinerario bene fissato, si avvalga di commenti esegetici che lo aiutano a cogliere il vero senso di un passo, e se svolge un servizio nella comunità, sia capace di comunicare la Bibbia a piccoli e grandi. In ogni diocesi dovrebbe esserci un Settore per l’Apostolato Biblico che animi la pastorale biblica per via inclusiva (catechesi, liturgia, IR) e diretta (LD, gruppo del Vangelo, giornata della Bibbia…)

Cesare Bissoli

Università Salesiana, Roma

Cenno bibliografico Dei Verbum, v. VI; PCB, Interpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993), IV; Nota dei Vescovi italiani, La Bibbia nella vita della Chiesa (1995); UCN, Un anno con la Parola di Dio, LDC, 1997; UCN, Grandi temi della pastorale biblica, LDC 2002, V. Collana: Bibbia. Proposte e metodi, LDV, Leumann (Torino); Cappelletto G.( a cura di),”Ascoltate ’oggi’ la sua voce”. La parola di Dio nella vita della Chiesa, Messaggero, Padova, 2003. Sito: www.c-b-f.org (Federazione Biblica Cattolica, rivista Dei Verbum: inglese, francese, tedesco, spagnolo).