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Economia
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Sistemi produttivi locali e sviluppo economico
di Gioacchino GAROFOLI
1. Introduzione
L’obiettivo di queste pagine quello di ricostruire la cronistoria del dibattito sui sistemi
produttivi locali e sull’articolazione territoriale dello sviluppo.
Il dibattito sui sistemi produttivi locali nasce, in gran parte, come risposta all’insufficienza
dei vecchi schemi interpretativi rispetto alla capacità di esplicazione dei fenomeni reali.
Ciò ha reso necessario l’introduzione di nuove categorie analitiche che hanno riscosso
molto successo nel dibattito italiano degli anni ’70 e ’80 e che hanno fatto “breccia” nel
dibattito internazionale durante gli anni ’80. Nella letteratura internazionale, tuttavia, la
mancanza di un’adeguata conoscenza dei casi concreti, da un lato, e l’insufficiente
conoscenza della cronistoria della ricerca italiana, dall’altro, ha spesso determinato la
sovrapposizione tra diverse categorie analitiche e la confusione tra diversi fenomeni.
Il dibattito italiano sull’articolazione territoriale dello sviluppo e sui sistemi produttivi
locali ha favorito l’emergere di una nuova concezione dello sviluppo in cui il territorio
diviene una variabile determinante, assumendo sempre più i connotati di ambiente
economico, come l’insieme delle variabili socio-economiche e istituzionali che si sono
sedimentate sul territorio e che consentono l’adozione di forme organizzative della
produzione e l’uso di tecniche produttive differenti, spesso a prescindere da differenze nei
costi delle risorse utilizzate. Questa nuova concezione dello sviluppo economico,
riallacciandosi e rinvigorendo alcune posizioni eterodosse della teoria dello sviluppo,
hanno dato nuovo impulso anche alla ricerca sullo sviluppo economico.
Il dibattito italiano ha, inoltre, sollevato la rilevanza delle forme di regolazione sociale a
livello locale, anche come conseguenza del progressivo venir meno delle capacità di
intervento degli strumenti tradizionalmente gestiti a livello nazionale.
Da ciò discende la riflessione sulla differenziazione del processo di sviluppo (e, quindi,
sulla tipologia dei modelli di sviluppo) e soprattutto sulla contrapposizione dei modelli di
sviluppo endogeno (paradigmatico il caso dei distretti industriali) rispetto ai modelli (e alle
politiche) di sviluppo esogeno (con la necessità di incentivare la localizzazione di imprese
esterne). All’interno di questa riflessione si è sviluppata l’analisi delle variabili
determinanti del processo di sviluppo, tornando in qualche modo, con un nuovo bagaglio
critico, alle questioni essenziali dello sviluppo economico e dell’industrializzazione delle
aree arretrate, della scelta delle strategie e delle politiche da attuare.
La ricerca condotta in Italia su questi temi è avvenuta all’interno di frange eterodosse delle
discipline sociali (economisti, sociologi, territorialisti, geografi) che hanno dialogato tra
loro su un terreno comune di indagine. L’ambiente dell’Associazione Italiana di Scienze
Regionali ha spesso consentito l’incontro di questi studiosi ed ha facilitato la diffusione
delle idee.
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Il percorso seguito dalla ricerca condotta in Italia su questi temi sembra, dunque,
particolarmente interessante e sembra allora utile tentare di ricostruire la cronistoria del
dibattito a partire dai primi anni ’70 e sottolineare, altresì, l’interazione con la ricerca dei
colleghi all’estero. Quella qui presentata sarà una cronistoria molto stilizzata,
probabilmente molto soggettiva, che non ha alcuna ambizione di passare in rassegna – e di
analizzare criticamente – tutti i contributi presentati su questi argomenti. Essa ha solo
l’obiettivo di ricostruire alcuni passaggi critici intervenuti nella ricerca individuando le
principali interpretazioni che si sono succedute, con la conseguente modifica del “fuoco”
della ricerca, e le relazioni che si sono stabilite tra le varie sezioni del tema generale
dell’analisi dell’articolazione territoriale del sistema economico e dei sistemi produttivi
locali.
Non mancheranno, nelle conclusioni, alcune osservazioni sulle opportunità per le strategie
e le politiche di sviluppo locale alla luce non solo dell’evoluzione del dibattito ma anche
delle scelte introdotte in Europa e nei vari paesi nei riguardi delle opportunità di rafforzare
la capacità competitiva e di innovazione dei sistemi produttivi locali.
2. L’inversione di tendenza dello sviluppo regionale in Italia
Gli studiosi italiani si sono trovati, già nella prima metà degli anni settanta, di fronte ad
alcuni sensibili cambiamenti nell’organizzazione territoriale della produzione che li hanno
spinti sia ad effettuare ricerche in profondità su alcuni fenomeni alla base di quei
cambiamenti (soprattutto avviando le prime ricerche sul campo per analizzare i
comportamenti delle imprese e la modofica dei rapporti tra le imprese) sia a svolgere
riflessioni teoriche per spiegare processi economici (cfr., soprattutto, lo sviluppo della
piccola impresa) che le teorie tradizionali non erano in grado di spiegare.
La crisi economica dei primi anni settanta dapprima assume un carattere prevalentemente
nazionale (come conseguenza della crisi del modello di sviluppo intensivo basato sulla
grande impresa). Successivamente essa si intreccia con la crisi internazionale che
determinerà sia un aumento dei prezzi relativi dei prodotti energetici e delle materie prime
(mettendo in difficoltà i paesi esportatori di manufatti) sia l’introduzione dei cambi
flessibili con l’opportunità di utilizzare congiunturalmente il tasso di cambio per facilitare
le esportazioni). La crisi economica di quegli anni modifica strutturalmente il modello
produttivo italiano e, in seguito, la sua posizione internazionale.
La crisi economica dei primi anni settanta evidenzia immediatamente la perdita di
competititvità del modello di sviluppo basato sulla grande impresa attraverso la chiusura e
il ridimensionamento occupazionale della grande impresa e dei grandi impianti industriali
con la progressiva sostituzione di una molteplicità di piccole e piccolissime imprese
“messe al lavoro” dalle commesse delle grandi imprese per recuperare flessibilità e margini
di profitto (Garofoli, 1978; Graziani, 1975). Si stava assistendo, in altri termini, ad un
processo di ricomposizione produttiva e territoriale della produzione manifatturiera, che
recuperava e inseriva nel ciclo produttivo delle grandi imprese piccole unità produttive,
flessibili, non sindacalizzate, che utilizzavano lavoratori marginali e senza garanzie sociali,
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sempre più in luoghi distanti dalle aree urbane e che consentivano più bassi costi di
“riproduzione della forza lavoro” (Brusco, 1975; Garofoli, 1978).
Si sta, in altri termini, accennando al fenomeno del decentramento produttivo che è stato
particolarmente rilevante in quegli anni in Italia e che è stato studiato da alcuni studiosi (1)
delle scienze sociali appartenenti a discipline diverse ma tra loro comunicanti. Il
decentramento produttivo ha consentito di reintrodurre flessibilità nel ciclo produttivo
controllato dalla grande impresa e di recuperare margini di redditività attraverso l’utilizzo
più intenso di forza lavoro nelle piccole imprese subfornitrici (con aumento delle ore
lavorate per addetto che ha garantito un aumento della produttività del lavoro per addetto
anche se non per ora lavorata) e con una riduzione dei costi del lavoro per l’opportunità di
eludere nelle piccole imprese del decentramento sia i contratti collettivi di lavoro che il
pagamento di imposte e di oneri sociali.
Le ricerche sul campo effettuate dagli studiosi italiani hanno sin da subito aperto delle
questioni rilevanti dal punto di vista produttivo e sociale consentendo di mettere in
discussione alcuni assunti teorici precedentemente riconosciuti inattaccabili. Ciò è
avvenuto perché è cambiato l’oggetto di studio e di conseguenza la prospettiva analitica
delle questioni studiate. Basta fare un esempio per tutti: l’analisi del decentramento
produttivo ha fatto emergere immediatamente l’esigenza di studiare il funzionamento delle
piccole imprese nel ciclo produttivo delle produzioni che andavano sul mercato attraverso
la mediazione delle grandi imprese. Questo obbligava a leggere ed interpretare i modelli
organizzativi della produzione e mettere a confronto le tecnologie e i modi di produzione
di imprese diverse, le differenze in termini di produttività del lavoro, la produzione del
valore aggiunto lungo la catena produttiva (la “regional value chain” si direbbe in termini
più recenti parafrasando la “global value chain”), le differenze in termini di qualifiche
professionali, il funzionamento del mercato del lavoro e le analisi sulle agglomerazioni di
imprese che pian piano si andavano individuando. Quindi a partire dall’analisi della
piccola impresa si aggiungevano via via altri temi nuovi: l’analisi delle reti tra imprese (e
la divisione del lavoro tra le imprese) e l’analisi dei processi di localizzazione industriale.
Le principali direttrici di ricerca sono, da un lato, le analisi sul decentramento produttivo e
sulla relativa dipendenza/autonomia delle piccole imprese nel ciclo di produzione
organizzato dalle commesse delle grandi imprese (Brusco; 1975; Paci et alii, 1974;
Garofoli, 1978), e dall’altro le analisi sull’industrializzazione diffusa e leggera che stava
dando luogo a forme di organizzazione territoriale della produzione basate su
agglomerazioni di piccole e medie imprese (Becattini, 1975 e 1979; Bagnasco, 1977;
Brusco, 1982; Fuà, 1983; Garofoli, 1981 e 1983a).
Fin da subito fu evidente il ruolo dell’IRPET (e di Giuliano Bianchi in particolare) e della
Scuola di Firenze e non è un caso che molte iniziative e convegni su queste tematiche
facessero perno su Firenze (cfr. la Conferenza AISRe nel 1983 e il Convegno su “Piccola
città e piccola impresa” organizzato da Raimondo Innocenti, con la collaborazione di
Gioacchino Garofoli, nel 1984) (Innocenti, 1985).
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Già i primi risultati di queste ricerche cominciavano a far sorgere dubbi sulla capacità
interpretativa dei modelli teorici tradizionali sia di quelli ottimistici che puntavano sul
riequilibrio regionale sia di quelli pessimistici che vedevano nella contrapposizione centro
- periferia una dialettica a senso unico.
L’introduzione delle “Tre Italie” di Bagnasco (Bagnasco, 1977) rompe con la visione
dualistica di contrapposizione Nord – Sud; l’industrializzazione leggera in Toscana
(Becattini-Irpet, 1975) rompe con la contrapposizione dualistica settori moderni – settori
tradizionali oltre che con la contrapposizione grandi imprese – piccole imprese. Quando si
aggiungono le risultanze dei lavori di Brusco (Brusco, 1975) sulla comparazione della
produttività del lavoro tra grandi e piccole imprese, comincia a prendere “corpo” (e a
fornire motivazioni analitiche) la possibilità di innescare processi di industrializzazione e
di sviluppo economico con la piccola impresa.
Lo sviluppo regionale assume direttrici diverse e quasi impensabili precedentemente
(Becattini-Bianchi, 1982 e 1984; Garofoli, 1983b), l’ “industrializzazione senza fratture”,
con logiche di continuità anziché di rottura con il passato, inizia a “prendere piede” (Fuà-
Zacchia, 1983). Le alternative alla produzione di massa e di grande impresa e l’esistenza di
una pluralità di modelli di sviluppo divengono i punti cruciali di questa riflessione e il
“deus agitans” delle riflessioni analitiche successive.
Una visione diversa, aperta a diverse traiettorie evolutive e a diverse modalità di
organizzazione della produzione, inizia ad emergere: tempo e spazio riassumono rilevanza
nell’analisi. Lo sviluppo regionale (come lo sviluppo economico) richiede tempi lunghi: la
storia lunga dei luoghi, l’accumulazione di conoscenze e competenze, l’instaurarsi di
regole e convenzioni, la condivisione di valori, l’organizzazione della società e
l’introduzione di specifiche forme di regolazione divengono particolarmente importanti.
Tutto ciò, come si vedrà più avanti, avrà particolare rilevanza nella letteratura sui distretti
industriali e sullo sviluppo endogeno.
3. Il modello del distretto industriale
Gli studi e le analisi sul distretto industriale rappresentano ovviamente il perno
fondamentale delle ricerche e dei risultati teorici in cui sfociano le analisi discusse nel
paragrafo precedente.
Non è qui necessario richiamare le caratteristiche strutturali e i meccanismi di
funzionamento dei distretti industriali perché la letteratura è molto ricca (cfr., soprattutto,
Becattini, 1979, 1987, 2000; Becattini et alii, 2009; Brusco, 1982, 1989; Garofoli, 1981,
1983a, 2003) e differente è lo scopo di questo scritto. È sufficiente ricordare i principali
temi e risultati delle analisi sui distretti industriali per individuare le novità determinanti di
questo approccio e le ripercussioni critiche che generano nei confronti delle posizioni
teoriche del “mainstream”:
a) le economie esterne determinate dall’agglomerazione delle imprese e dalla
sedimentazione storica di conoscenze e competenze specifiche prodotte
dall’interazione (e dal processo di divisione del lavoro) tra le imprese e dagli
investimenti privati e pubblici;
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b) i bassi costi di transazione determinati dalle regole fiduciarie tra gli operatori locali
oltre che dalla prossimità territoriale;
c) l’efficienza economica sistemica del modello produttivo che determina efficienza
collettiva e che contraddice l’ipotesi teorica del “mainstream” relativa alla
relazione performance – dimensione d’impresa (cfr., soprattutto, Garofoli, 1991b);
d) la dinamica evolutiva del modello è basata su meccanismi di apprendimento
collettivo e sull’introduzione di azioni collettive che rispondono a fabbisogni del
sistema delle imprese che non possono essere risolti dai meccanismi di mercato;
e) cambiamento e innovazione come condizioni strutturali della durabilità del
modello;
f) l’interazione economia – società – territorio rappresenta un elemento fondamentale
del modello che quindi presuppone l’inscindibilità delle tre dimensioni.
Il modello teorico del distretto industriale, in definitiva, oltre a dare spiegazione del
successo del modello di industrializzazione diffusa in Italia e in altri paesi, individua
elementi analitici e probatori che contraddicono la visione teorica tradizionale che implica
inefficienza economica e assenza di capacità innovativa nell’organizzazione produttiva
basata sulla piccola impresa e rompe definitivamente la contrapposizione dualistica tra
grande impresa (efficiente e innovativa) e piccola impresa (inefficiente e tradizionale).
4. Dal distretto industriale allo sviluppo locale
Il modello del distretto industriale apre, come si è visto, spazi per modelli alternativi di
sviluppo e questo spiega la sua centralità nei riguardi del dibattito sullo sviluppo locale che
nasce nella seconda metà degli anni ottanta.
Lo sviluppo locale si pone in un crocevia determinante di diverse variabili e di diversi
processi decisionali che combinano tra loro, in una sintesi dialettica, apparenti elementi
dicotomici. Si può infatti notare come, spesso, nel dibattito socio – politico
degli anni novanta siano stati contrapposti i seguenti termini:
- Locale vs. globale
- Cooperazione vs. competizione
- Stato vs. mercato
- Identità vs. apertura
Può essere utile ricordare, almeno brevemente, come queste antinomie siano del tutto
apparenti non solo nei distretti industriali ma anche nei casi di successo di sviluppo locale
“tout court” perché si è determinata una sintesi dialettica tra questi presunti opposti. I
distretti industriali, in particolare, hanno evidenziato come l’opposizione locale – globale è
del tutto inesistente; le imprese dei distretti sono abituate ad utilizzare le risorse specifiche
del territorio e i vantaggi competitivi dinamici resi disponibili dalle economie esterne
distrettuali con la capacità di muoversi sul mercato internazionale e anche ad effettuare
operazioni complesse di internazionalizzazione. Il distretto è dunque un modello
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organizzativo fortemente basato sull’interazione tra locale e globale e ciò rappresenta un
punto di riferimento essenziale per ogni strategia di sviluppo economico locale anche in
condizioni strutturali differenti da quelle del distretto industriale.
Analogamente una caratteristica strutturale del distretto industriale è data dal
bilanciamento tra competizione (che spinge alla continua ricerca dell’efficienza
economica) e cooperazione tra imprese. La cooperazione avviene non solo tra imprese
complementari lungo la filiera di produzione ma anche tra imprese posizionate sulla stessa
fascia di mercato qualora abbiano problemi comuni, in gran parte determinati
strutturalmente dalla piccola dimensione (cfr. l’accessibilità al credito, l’introduzione di
nuove figure e competenze professionali, l’introduzione di servizi specifici, il trasferimento
di tecnologia, la penetrazione di mercati lontani e difficili). La sintesi dialettica tra
competizione e cooperazione può dunque estendersi, anche come guida per le azioni di
intervento, ad ogni area che possa (e voglia) organizzarsi in una logica di sviluppo locale.
La capacità di introdurre progetti di trasformazione del sistema locale e di rispondere alle
sfide esterne dimostra ancora come lo sviluppo locale determini sintesi dialettica tra stato
(specie stato locale) e forme di regolazione (eventualmente anche esclusivamente come
introduzione di regole da parte di istituzioni collettive private – cfr. consorzi tra imprese -),
da un lato, e meccanismi di mercato, dall’altro. Gli interventi delle istituzioni intermedie in
risposta a fallimenti del mercato mostrano con grande chiarezza come le azioni collettive
(spesso con un ruolo determinante dello stato locale) consentano di produrre le condizioni
operative del mercato (in altri termini che il mercato, in conseguenza di questi interventi,
possa funzionare), introducendo quei servizi e quelle competenze professionali che
l’insufficienza del mercato non potrebbe garantire (cfr. le numerose esperienze dei centri
servizi e dei centri tecnologici).
Infine la questione della sintesi necessaria tra identità ed apertura. Non è possibile avere
una visione chiara delle prospettive future di una comunità locale senza aver fortemente
evidenziato le specificità e i fabbisogni locali e quindi l’identità del sistema locale. Senza
identità non vi è alcuna possibilità di costruire piani di sviluppo come risposta a problemi
comuni alle imprese. Senza identità della comunità locale non c’è dunque percezione dei
problemi e delle opportunità di soluzione; sarebbe inutile decretare dall’esterno (cfr. alcune
leggi regionali sui distretti industriali) l’appartenenza ad un particolare modello di sviluppo
per godere di eventuali “provvidenze legislative e finanziarie” se non è diffusa le
percezione dell’identità locale e dei problemi e, quindi, degli obiettivi strategici (e delle
azioni per la loro soluzione) che siano condivisi da parte della comunità locale. Certamente
l’identità sarebbe insufficiente senza l’apertura e l’attenzione al mondo esterno (ai
cambiamenti in atto nei mercati, nelle tecnologie, nel posizionamento delle imprese e delle
aree concorrenti); senza questo orientamento e senza le informazioni cruciali di questo
tipo altrimenti si cadrebbe esclusivamente nel “campanilismo “ e nel “provincialismo”.
La sintesi dialettica tra le apparenti dicotomie mostra non solo le opportunità di reazione
dei distretti industriali e delle aree che manifestano capacità di avviare processi di sviluppo
locale ma anche la complessità e i meccanismi interattivi tipici dello sviluppo locale.
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Proviamo ora ad identificare le condizioni territoriali per lo sviluppo, vale a dire
identificare quali sono i fattori cruciali che consentono che un processo di sviluppo sia
radicato sul territorio anziché essere il risultato esclusivo di processi decisionali esterni che
utilizzano il territorio come un “vaso da riempire” e in cui, quindi, la comunità locale gioca
un ruolo esclusivamente passivo nei riguardi dei processi economici fondamentali. Il
riquadro presentato riassume sinteticamente queste condizioni necessarie per uno sviluppo
“territorializzato” (Garofoli, 2001):
CONDIZIONI TERRITORIALI PER LO SVILUPPO ECONOMICO
A) ESISTENZA DI “RISORSE SPECIFICHE” NON TRASFERIBILI AD
ALTRI TERRITORI
B) ESISTENZA DI UNA “LOGICA DI SISTEMA”
C) ESISTENZA DI CAPACITÀ PROGETTUALE
(e, quindi, CAPACITA’ DI RISPONDERE ALLE SFIDE ESTERNE)
Da diversi anni l’attenzione degli economisti, e degli scienziati sociali in genere, è stata
attratta dall’analisi delle relazioni tra organizzazione della produzione e territorio, cercando
di individuare le variabili strategiche nei processi decisionali dell’impresa e il ruolo del
territorio tra le condizioni essenziali nella scelta della modalità organizzativa della
produzione, specie nelle scelte tra produzione interna e “outsourcing”, tra crescita interna e
crescita esterna. Ciò ha accresciuto l’attenzione alle reti tra imprese e ai network (spesso
localizzati sul territorio) così come al ruolo, tra le condizioni competitive dell’impresa,
delle competenze localizzate (e, quindi, le condizioni competitive del sistema locale). In
questo senso può divenire utile l’introduzione del concetto di sistema produttivo locale
che, in qualche modo, era già stato evocato dalla presentazione delle condizioni territoriali
per lo sviluppo economico.
Il concetto di "sistema produttivo locale" è stato inizialmente introdotto (Garofoli, 1983a)
(2) per evidenziare sia la stretta interrelazione tra dinamiche produttive e industriali, da un
lato, sia le dinamiche tra sistema produttivo e sistema socio-istituzionale, dall'altro, per i
casi di agglomerazione produttiva basati su piccole imprese, e quindi come sinonimo del
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sistema di piccole imprese (e del distretto industriale, in particolare). Ciò serviva a
sottolineare l'emergere di una identità socio-economica locale, l'esistenza di interessi
comuni a livello delle imprese e della collettività locale, l'identificazione di problemi
comuni che rendevano opportuna l'introduzione di specifiche forme di regolazione sociale
a livello locale.
L'attenzione sul tema delle interrelazioni tra sistema produttivo e sistema socio-
istituzionale (e sulle forme di regolazione sociale introdotte a livello locale e quindi
l'attenzione alle reti di relazione e ai rapporti di reciprocità) è fortemente sottolineata dal
dibattito nella letteratura francese sui "sistemi produttivi localizzati" ("systèmes productifs
localisés") (e sui sistemi produttivi territoriali). Nonostante la lieve modificazione
terminologica, non sono state introdotte sostanziali differenze rispetto al concetto di
"sistema produttivo locale" da cui è tratto, anche se il successo e l'estensione nel suo uso è
stato nettamente superiore in Francia e nei paesi di lingua francese (cfr., ad esempio,
Courlet-Judet, 1986; Courlet, 1987; Courlet-Pecqueur, 1992; Ganne, 1992; Maillat et alii,
2003; Maillat, 2007), non solo nelle analisi degli studiosi ma anche nelle politiche di
sviluppo (cfr. le strategie a favore dei “sistemi produttivi localizzati” nelle azioni del
Datar/Diact).
È possibile estendere l'uso del concetto di sistema produttivo localizzato ad ogni modello
organizzativo della produzione basato sulla presenza di economie esterne e di risorse
specifiche che non sono riproducibili in altre aree (Colletis-Pecqueur, 1995) e di
conoscenze tacite (Becattini-Rullani, 1993) non trasferibili all’esterno e sull'introduzione
di specifiche forme di regolazione che identificano e salvaguardano l'originalità del
percorso di sviluppo. Si può allora essere in grado di considerare tutti i processi di sviluppo
locale in cui il territorio gioca un ruolo attivo e in cui il sistema produttivo locale gode di
una forte identità e di specifiche caratteristiche che si ritiene opportuno, nell'interesse della
collettività locale, difendere e riprodurre. Allora è possibile considerare, oltre ai distretti
industriali, sistemi organizzativi che possono essere basati sia sulla grande impresa
(talvolta anche grande impresa esterna purché interessata alla creazione e sviluppo di
interrelazioni con l'ambiente locale) (cfr. i casi dei poli tecnologici di Grenoble e Toulouse
ma anche casi meno famosi e meno virtuosi) (cfr. Garofoli, Gilly, Vazquez Barquero,
1997) sia su modelli organizzativi che non determinano una elevata divisione sociale del
lavoro tra le imprese locali, includendo processi di industrializzazione basati su
meccanismi di riproduzione sociale (piuttosto che tecnico-economici), con la riproduzione
di nuova imprenditoria attraverso meccanismi imitativi e di "spin-off" (Garofoli, 2002,
2003).
Questo tipo di approccio ci avvicina, allora, notevolmente all'analisi delle condizioni e dei
vincoli dello sviluppo legati alla scarsa presenza del fattore organizzativo-imprenditoriale
(cfr. i contributi teorici di Hirschman – a partire dal suo lavoro seminale (Hirschman 1958)
- e le riflessioni della scuola di Ancona – cfr. Fuà, 1977, 1980, 1983); non sembra più un
caso, allora, che i processi di sviluppo avvengano lungo percorsi e traiettorie che utilizzano
l'addensamento e la socializzazione delle conoscenze, attraverso progressivi meccanismi di
connessione a monte e a valle.
Le interdipendenze produttive sono, dunque, una caratteristica strutturale non solo dei
distretti industriali ma anche dei sistemi produttivi locali. Ciò consente di utilizzare il
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concetto di "sistema produttivo locale" nella definizione più estensiva di modello
organizzativo della produzione a forte base territoriale, con forti interrelazioni tra il sistema
produttivo e il sistema socio-istituzionale locale, con le connesse implicazioni in termini di
economie esterne, conseguenti sia al fitto interscambio di merci e informazioni nell'ambito
del sistema produttivo che della continua produzione e riproduzione di conoscenze
specifiche, di professionalità e di forme di regolazione locale che caratterizzano il territorio
e che non sono facilmente esportabili altrove (Garofoli, 2002). In altri termini il concetto di
"sistema produttivo locale" qui utilizzato combina le caratteristiche di un modello
produttivo, di un modello spaziale e di un modello sociale: le tre dimensioni (economica,
territoriale e sociale) non sono scindibili per lo stretto intrecciarsi delle variabili e per la
loro mutua interdipendenza. Questo concetto, come si vedrà più avanti, sarà di particolare
aiuto nel discutere la questione delle politiche di sviluppo locale.
5. Sistemi produttivi locali e sviluppo economico: la scuola dello sviluppo endogeno
Il dibattito sullo sviluppo locale si arricchisce negli anni successivi sulla base di due
approfondimenti analitici: il primo portava l’attenzione alla differenziazione dei modelli
locali di sviluppo e l’altro cercava di individuare alcuni elementi comuni ai diversi modelli
locali da far confluire in una “famiglia” più generale e che ponesse le basi per un approccio
di tipo (anche) normativo.
Il concetto di sistema produttivo locale richiama alcune riflessioni teoriche sulla coerenza,
sull’autonomia e sulla stabilità di un sistema produttivo (Destanne de Bernis, 1983) e che
riporta l’attenzione ad alcuni grandi temi dello sviluppo economico. Un sistema produttivo
locale richiama, infatti, l’attenzione a temi relativi al modello produttivo (l’integrazione
produttiva tra settori e tra imprese e, quindi, ai rapporti tra le imprese), al modello di
distribuzione del reddito e di creazione di domanda (la coerenza tra produzione –
distribuzione – domanda aggregata), al modello di accumulazione e alla traiettoria
tecnologica.
Non è un caso che a partire dal dibattito sui distretti industriali, sullo sviluppo locale e sui
sistemi produttivi locali prende spunto la scuola dello sviluppo endogeno (Courlet, 2001 e
2008; Garofoli, 1991a, 1992, 2003, 2006; Maillat et alii, 2003; Vazquez Barquero, 2002)
che presenta una forte attenzione ai fenomeni concreti di organizzazione produttiva e di
trasformazione strutturale oltre che alla sua articolazione territoriale.
Lo sviluppo endogeno rappresenta una generalizzazione analitica che utilizza il contributo
della letteratura sui distretti industriali (e sullo sviluppo locale) e che recupera le riflessioni
critiche della teoria della dipendenza (cfr. Garofoli, 2006) che erano tuttavia restate
confinate in una dimensione pessimistica e che non trovavano opportunità di soluzione nel
campo delle strategie e delle politiche economiche (delle politiche di sviluppo economico,
in particolare).
Sembra, dunque, utile analizzare i caratteri prevalenti dello sviluppo endogeno. Un
modello di sviluppo endogeno garantisce autonomia al processo di trasformazione del
sistema economico, sottolineando la centralità dei processi decisionali degli attori sociali
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(locali e nazionali) e la loro capacità di controllare ed internalizzare conoscenze ed
informazioni esterne, assumendo generalmente caratteri di sviluppo autosostenentesi e
duratoro. Il processo di trasformazione si basa, dunque, su alcune specificità delle risorse
utilizzate e sulla capacità di governo di alcune variabili fondamentali.
Un modello di sviluppo endogeno è, infatti, basato sulla produzione di "social capability" a
livello della comunità di imprese e di istituzioni (che operano nell'ambito locale e
nazionale), attraverso la progressiva costruzione delle seguenti caratteristiche e capacità
(Garofoli, 1991a e 1992):
a. utilizzazione, valorizzazione e implementazione delle risorse interne (lavoro, capitale
storicamente accumulato, capacità imprenditoriale-organizzativa, conoscenze specifiche
sui processi di produzione, professionalità specifiche, risorse materiali);
b. capacità di controllo del processo di accumulazione;
c. controllo della capacità di innovazione;
d. esistenza di (e capacità di sviluppare le) interdipendenze produttive, sia di tipo
intrasettoriale che intersettoriale.
Sviluppo endogeno non è tuttavia sinonimo di "chiusura all'esterno", come talvolta agli
inizi del dibattito qualche commentatore rischiava di intendere; esso implica infatti il
progressivo rapportarsi con l'esterno, sia con i mercati esterni sia con la produzione di
conoscenze e tecnologia che sono prevalentemente prodotte all'esterno del sistema (locale
e nazionale). Sviluppo endogeno, infatti, significa (Garofoli, 1991a e 1992):
a. capacità di trasformazione del sistema economico-sociale;
b. capacità di reazione alle sfide esterne;
c. capacità di introdurre forme specifiche di regolazione sociale che favoriscano i punti già
elencati.
Sviluppo endogeno è, in altre parole, capacità di innovazione (e produzione di "intelligenza
collettiva") (a livello locale e nazionale).
Si può, dunque, sintetizzare sottolineando il ruolo dei fattori ambientali (del contesto socio-
economico), territoriali ed istituzionali nel processo di internalizzazione di conoscenze e di
sviluppo della capacità di relazionare il locale e il globale nei modelli di sviluppo
endogeno. Questa interazione locale – globale sottolinea il ruolo della dimensione
mesoeconomica per il coordinamento delle azioni e dei processi decisionali di attori
molteplici e, quindi, il ruolo attivo del territorio e degli attori sociali locali nella
governance del processo (Scott-Garofoli, 2007a).
Lo sviluppo endogeno, dunque, fa perno su tre dimensioni organizzative del sistema
economico e sociale:
a) il processo produttivo (e i suoi meccanismi di funzionamento);
b) la regolazione del circuito produzione – realizzazione;
c) la governance del processo di cambiamento (e la coerenza tra i livelli di governo.
11
Il processo di sviluppo endogeno può dunque durare nel tempo (da cui sostenibilità sociale
e temporale del sistema produttivo) solo in una prospettiva di continuo cambiamento che è
consentito dall’accumulazione crescente (con investimenti per l’aumento della produttività
del lavoro e per l’introduzione di innovazione). L’orientamento continuo all’innovazione
(da parte delle imprese e del sistema nel suo complesso) non significa che ogni paese ed
ogni area debbano spostare la frontiera tecnologica; è sufficiente che ciascun paese (o area)
segua una traiettoria evolutiva (anche attraverso l’adozione e la “metabolizzazione” – e
quindi l’internalizzazione - di conoscenza esterne) che consenta l’aumento di efficienza
economica e l’introduzione di nuovi prodotti e di beni pubblici che aumentano la qualità
della vita. Ciò ricorda, quindi, la rilevanza del rispetto della coerenza tra aumento
dell’efficienza e della produzione con la questione dell’aumento della domanda aggregata
(e, quindi, la soluzione del problema della realizzazione del ciclo produzione – consumo).
È ora chiaro che i due concetti di sistema produttivo locale e di sviluppo endogeno
presentano forti interconnessioni e sovrapposizioni: si può addirittura affermare che il
sistema produttivo locale rappresenta la dimensione territoriale della piena realizzazione
del processo di sviluppo endogeno.
6. Modelli locali di sviluppo: le tipologie
L’altra riflessione analitica, che si è sviluppata a partire dalla anni ottanta, ha posto
l’attenzione sulla differenziazione dei modelli locali di sviluppo, studiando sia le variabili
determinanti per la discriminazione dei modelli locali sia la costruzione di una tipologia
(cfr. Garofoli, 1983a e 1991a; Storper e Harrison, 1991; Leborgne e Lipietz, 1992;
Markusen, 1996).
Ciò che qui interessa ricordare è il ruolo cruciale dell’approccio alla differenziazione dello
sviluppo locale sui seguenti temi: meccanismi di funzionamento del sistema produttivo,
integrazione produttiva e rapporti tra le imprese, valorizzazione delle risorse locali,
“sviluppo dal basso”, ruolo degli attori locali, strategie di sviluppo locale. Vale a dire
un’analisi delle differenti condizioni dello sviluppo permette di affrontare
consapevolmente la questione delle traiettorie evolutive dello sviluppo locale e della scelta
delle azioni strategiche da introdurre nelle varie aree.
La molteplicità dei sentieri di sviluppo favorisce un approccio pragmatico e, in un certo
senso, più “ottimistico” alle questioni dello sviluppo specie nelle aree deboli. L’attenzione
degli studiosi viene infatti posta sulle condizioni alla base del processo di sviluppo locale e
quindi sulle opportunità da cogliere e sulle risorse da valorizzare. L’analisi si orienta,
dunque, sulla potenzialità di sviluppo e sulle opportunità di avviare progetti specifici e
iniziative di sviluppo da parte del sistema produttivo e della comunità locale. Un approccio
di questo tipo evidenzia in tutta la sua rilevanza la questione della responsabilità degli
attori locali nel perseguimento di un processo di sviluppo e toglie quindi ambiguità (e
deresponsabilizzazione) nei casi di relativo insuccesso. I progetti di sviluppo locale non
possono, infatti, evitare di affrontare le questioni nella loro diretta rilevanza, rispondendo a
12
bisogni specifici della “comunità di imprese e di persone” (Becattini, 1989) che insistono
sul territorio, togliendo “alibi” ad insuccessi che altrimenti sarebbero stati addebitati a
fattori esogeni o a impedimenti di carattere strutturale.
L’obiettivo degli studiosi che hanno affrontato la questione della tipologia di modelli di
sviluppo non è stato la costruzione di una esaustiva elencazione di tutti i possibili modelli
di sviluppo quanto, piuttosto, di sottolineare la presenza di diversi percorsi di sviluppo e di
mostrare le possibili biforcazioni nel processo di trasformazione e il ruolo dei diversi attori
(pubblici e privati) nell’assecondare i processi di cambiamento.
La costruzione di una tipologia offre linee guida ai policy maker (specie quelli locali r
regionali) che si trovano, pertanto, di fronte a specifici casi di “benchmark” e a traiettorie
evolutive di riferimento per le aree concrete sulle quali devono operare. La costruzione di
una tipologia, quindi, richiede un approccio che presenta obiettivi teorici relativamente
modesti ma grande enfasi sul potenziale impatto di queste costruzioni sul processo
decisionale nei riguardi delle strategie, delle politiche e degli strumenti da utilizzare per il
sostegno dello sviluppo locale.
Anche in questo tipo di letteratura gli studiosi italiani hanno anticipato il dibattito
internazionale. La prima tipologia è stata introdotta nel 1983 sebbene fosse destinata
soltanto ad individuare tratti strutturali distintivi nell’ambito dei distretti industriali e dei
sistemi di piccola impresa (Garofoli, 1983a). Successivamente, nell’ambito del progetto di
ricerca finalizzato CNR coordinato da Giorgio Fuà, è stato prodotto un lavoro che poneva
attenzione ai diversi modelli di organizzazione produttiva esistenti in Italia (con ben nove
tipologie di aree) e che, dopo alcuni paper presentati in diversi seminari in Italia e
all’estero, ha dato luogo al volume “Modelli locali di sviluppo” (Garofoli, 1991a).
Tre importanti contributi sono stati successivamente pubblicati: Storper –Harrison (1991),
Leborgne – Lipietz (1992) e Markusen (1996).
Discuterò, innanzitutto, il contributo di Danielle Leborgne e Alain Lipietz per la continuità
con quanto precedentemente ricordato. Leborgne - Lipietz (1992) presentano una tipologia
con tre modelli di sviluppo, con una trasposizione generale della tipologia di Garofoli
(1983a, 1986), utilizzando prevalentemente il breve articolo apparso sulla rivista
“Economie et Humanisme”, estendendo la tipologia predisposta per i sistemi di piccola
impresa alle agglomerazioni di imprese e ai sistemi territoriali più diversificati, con
riferimento anche a paesi di nuova industrializzazione.
L’area di specializzazione produttiva è, pertanto definita da Leborgne-Lipietz (1992) come
un’agglomerazione di sub-fornitori attorno ad imprese principali o di imprese specializzate
in zone a bassi salari (con riferimento soprattutto ai casi dell’Est e del Sud-Est asiatico già
studiati da Allen Scott (Scott, 1987 e 1988). Questa tipologia caratterizza, dunque, aree
monosettoriali, orientate all’esportazione – grazie ad una competitività da costi - e che
presentano deboli legami tra le imprese.
Il sistema produttivo locale presenta, invece, una organizzazione produttiva di “quasi-
integrazione” verticale, nonostante caratterizzi aree prevalentemente monosettoriali, ove
tuttavia è importante – soprattutto rispetto al primo modello - la produzione di competenze
professionali. L’esperienza asiatica, secondo gli Autori che citano nuovamente il lavoro di
13
A. Scott (Scott, 1987), dimostrerebbe che l’intervento pubblico può favorire la
trasformazione delle aree di specializzazione produttiva in sistemi produttivi locali.
L’area-sistema, infine, rappresenta una rete integrata territoriale tra imprese che
permettono una produzione diversificata e multisettoriale. Questa rete è determinata da una
combinazione di imprese fornitrici specializzate e da imprese committenti. Siamo, dunque,
di fronte ad aree molto più strutturate che presentano spesso anche estese forme di
partenariato tra imprese, sindacati, università e amministrazioni pubbliche locali, così da
guidare il processo di trasformazione dell’economia e della società locale. Si può, in questo
caso, parlare di un’alleanza strategica territoriale che dà luogo ad un blocco egemonico
territoriale “novateur”. L’attenzione anche di Leborgne-Lipietz è dunque alla capacità
strategica degli attori locali di rispondere alle sfide esterne e per questo i due Autori
discutono le opportunità di lanciare strategie a livello del sistema locale che suddividono
tra strategie difensive e strategie offensive.
Storper-Harrison (1991), nel loro lavoro, puntano l’attenzione alle relazioni tra imprese e
settori all’interno di sistemi territoriali che suddividono tra una sezione “core” e una
sezione “ring”, tra imprese che assumono una forte centralità e un consistente potere di
mercato ed imprese - in genere piccole – che operano invece in forme di mercato di tipo
concorrenziale (compresa ovviamente anche la concorrenza monopolistica). La
classificazione delle diverse tipologie è fortemente ma non esclusivamente fondato su
relazioni di scambio input-output tra le diverse imprese.
Possiamo discutere ora, brevemente, la tipologia proposta da Storper-Harrison (1991).
La prima tipologia è definita “All Ring, No Core” ed è organizzata sulla presenza di una
rete agglomerata di imprese (relativamente “periferiche”, senza cioè grande capacità di
autonomia rispetto al mercato finale e alle scelte tecnologiche) e che può assumere due
sotto-tipologie:
a1) un network agglomerato di imprese, prevalentemente di piccola dimensione;
a2) un network agglomerato di imprese, con alcuni grandi stabilimenti produttivi.
La seconda tipologia è definita “Core Ring, with Coordinating Firm”. Le imprese sono
prevalentemente medio-piccole ma grazie alla presenza di alcune imprese che giocano un
ruolo di coordinamento riescono ad avere una adeguata autonomia che porta a combinare e
bilanciare le due caratteristiche di “core” e “ring”.
La terza tipologia è definita “Core-Ring, with Lead Firm”: Vi sono, dunque siano piccole e
medie imprese ma anche grandi imprese (interne o esterne al sistema locale) che assumono
un ruolo di “leader” e di controllo dell’organizzazione produttiva. Questo modello può
assumere, secondo gli Autori, tre diverse sotto-tipologie:
c1) un network agglomerato di imprese;
c2) un network disperso di imprese, prevalentemente di piccola dimensione;
c3) un network disperso di imprese, con alcuni stabilimenti produttivi di grande
dimensione.
La quarta tipologia proposta dagli Autori è definita “All Core, No Ring”, con una
organizzazione produttiva basata su imprese verticalmente integrate, tipiche dell’industria
“di processo” (“process industry”) e che non necessita, dunque, di piccole e medie imprese
relativamente periferiche nella gestione organizzativa del sistema produttivo. .
14
Per quanto riguarda, infine, l’ultimo rilevante contributo sulla tipologia dei modelli di
sviluppo, Ann Markusen (1996) ha concentrato l’attenzione sugli “sticky places” con
quattro tipologie (Industrial districts, Hub and Spoke district, Satellite platform district,
State-anchored district). Saranno ora brevemente presentati e discussi i quattro modelli di
organizzazione della produzione di A. Markusen con le principali caratteristiche strutturali:
a) Industrial district di tipo marshalliano o “all’italiana” ripropone il modello classico
del distretto industriale;
b) Hub and Spoke district rappresenta il caso di aree dominate dalla presenza di una o
poche imprese di grande dimensione, spesso prevalentemente con processi
produttivi verticalmente integrati, con una elevata presenza di piccole imprese
fornitrici e con poco potere contrattuale. Anche sulla base dei riferimenti pratici
effettuati dalla Markusen (Detroit, Toyota City, Seattle) sembra che questa
tipologia non si discosti dal modello del “polo di sviluppo” di François Perroux
(Perroux, 1955, 1961);
c) Satellite platform district rappresenta le aree con una agglomerazione di impianti
produttivi che fanno capo ad imprese esterne e che svolgono funzioni di routine ed
effettuano lavorazioni standard. Nelle piattaforme produttive dei satelliti industriali
la struttura economica è dominata dalle imprese esterne che assumono le decisioni
cruciali per gli investimenti;
d) State-anchored district rappresenta, infine, le aree basate sul ruolo cruciale di una
grande organizzazione pubblica o non-profit (una base militare, una università, una
grande prigione, una concentrazione di uffici amministrativi) attorno alla quale si
organizza la struttura economica della città e del territorio circostante, con le
“facilities” e i servizi connessi a quella struttura e ai suoi dipendenti. Un’area
dunque in cui le trasformazioni e le relazioni economiche rispondono più a
decisioni dei “policy makers” che a logiche di mercato.
Nonostante il successo e le numerose citazioni ottenute da questo saggio, credo sia
necessario effettuare alcune osservazioni critiche sia per la rilevante ambiguità legata
all’utilizzo, per tutte le tipologie introdotte, del termine di distretto industriale sia per lo
scarso utilizzo che si può fare di questa tipologia dal punto di vista delle strategie e delle
politiche di sviluppo locale.
Innanzitutto, il concetto di distretto industriale non ha nessuna relazione logica con tre
delle tipologie proposte e quindi è oltremodo fuorviante e può spiegarsi solo per la volontà
di utilizzare la spinta di un certo tipo di letteratura che oramai, dopo diversi anni di
ricerche e pubblicazioni, era riuscita a “sfondare” a livello internazionale almeno tra gli
studiosi dello sviluppo locale e regionale.
La tipologia della Markusen mostra, inoltre, alcune evidenti difficoltà per l’analisi dei
modelli di sviluppo locale anche perché tre di quelle tipologie non manifestano alcune
capacità di autosostentamento cioè di sviluppo sostenibile e duraturo, rientrando piuttosto
in logiche di relativa dipendenza rispetto a centri decisionali esterni o, comunque, non
condizionabili dalle scelte degli attori locali, non rientranti quindi in una logica di
“governance” dello sviluppo di fronte a una complessità di processi e di attori. Anche il
secondo modello, pur in presenza di una o più grandi imprese locali non può certamente
15
essere governato dal coordinamento di attori locali ma piuttosto da una negoziazione tra la
grande impresa e lo Stato nazionale. Dal punto di vista operativo e della scelta di strategie
e di sviluppo territoriale, tre delle tipologie della Markusen non hanno alcuna rilevanza
pratica. La tipologia della Markusen, dunque, può essere utilizzata come schema per
interpretare casi concreti piuttosto che per guidare il processo di trasformazione dei sistemi
territoriali con un ruolo cruciale degli attori locali; può mostrare, in definitiva, in quali
circostanze le difficoltà per innescare processi di sviluppo endogeno diventano
praticamente insormontabili.
Alla fine degli anni ’90 e nell’ultimo decennio si è registrato lo sviluppo di una rilevante
letteratura sui cluster di piccole e medie imprese (PMI), specie con ricerche condotte nelle
regioni e nei paesi di recente industrializzazione (3) (4).
Si può provare a sintetizzare questa discussione sulle tipologie con la proposta di una
ripartizione dei principali modelli di sviluppo locale (5) in tre tipologie che riprendono
soprattutto i contributi di Garofoli (1983a), anche se nell’ottica più generale del sistema
produttivo locale come qui definito, e di Leborgne-Lipietz (1992):
a) Cluster di PMI specializzate, con una competizione basata su vantaggi competitivi
statici (in ultima istanza bassi salari e “dumping sociale” e con il rischio di essere
costrette nella cosiddetta “via bassa allo sviluppo” (“low road to development”
riprendendo la felice locuzione introdotta da Pyke e Sengerberger) (Pyke,
Sengerberger, 1992);
b) Distretti industriali e sistemi produttivi locali con una competizione basata
sull’organizzazione del mercato del lavoro (conoscenze, competenze professionali
specifiche,…) e su un’organizzazione produttiva con network di imprese interattive
e sufficientemente autonome (relazioni di collaborazione tra le imprese,
specializzazione produttiva a livello di impresa e divisione del lavoro);
c) Aree-sistema e poli tecnologici, con una competizione basata sulla continua
produzione di vantaggi competitivi dinamici, grazie alla continua introduzione di
risorse specifiche e di nuove competenze, perseguendo la cosiddetta “via alta allo
sviluppo” (“high road to development”) (Pyke, Sengerberger, 1992): queste aree
sono fortemente orientate all’innovazione e spesso si posizionano sulla “frontiera
tecnologica”.
7. Politiche e strategie di sviluppo economico locale
La riflessione sinora condotta dovrebbe facilitare il passaggio dalle tipologie alla capacità
di individuazione degli obiettivi e delle strategie per le politiche di sviluppo locale.
16
Innanzitutto sembra necessario partire dalla rilevanza della densità di imprese e dei
processi di integrazione economica territoriale perché facilitano l’individuazione di
problemi comuni affrontabili con adeguata massa critica a livello territoriale e consentono
di percepire la logica di sistema.
La sostenibilità di lungo periodo e la durabilità dei sistemi produttivi locali è, soprattutto,
basata sulla continua produzione e riproduzione di saperi e competenze professionali e di
capacità organizzative – imprenditoriali, che è facilitata dalle interconnessioni produttive
tra imprese complementari. La produzione di risorse specifiche e distinguibili facilita il
perseguimento di produzione innovativa e di qualità e non obbliga ad una competizione sui
costi che spesso significa competizione sui salari (prospettiva assolutamente non
perseguibile nei paesi avanzati ma rischiosa anche nei paesi in via di industrializzazione).
L’ultima considerazione sottolinea la centralità dell’efficace interazione tra sistema
produttivo e sistema educativo e della ricerca. Non è un caso che è proprio sulle relazioni
scuola – lavoro e ricerca – industria (ma si potrebbe aggiungere anche le relazioni impresa
– internazionalizzazione) che si riscontrano abitualmente i cosiddetti fallimenti del
mercato. Queste tematiche, tuttavia, non sono affrontabili alla scala nazionale e richiedono
una “governance” territoriale; questi temi, in altri termini, sottolineano il ruolo cruciale
della dimensione “mesoeconomica” e del coordinamento territoriale (Scott, Garofoli,
2007a; Courlet, 2008).
In definitiva stiamo entrando in una logica di costruzione sociale del cambiamento e dello
sviluppo piuttosto che in una visione deterministica - strutturalista. Non esistono aree
destinate al sottosviluppo come non esistono aree destinate a rimanere ricche ed evolute
per sempre. È lo sviluppo che produce risorse e non risorse precostituite e predeterminate
che consentono lo sviluppo economico (Courlet, 2008; Courlet, Garofoli, 2008).
La volontà e i valori della comunità locale possono costruire le “capabilities” per gestire il
cambiamento. Queste “capabilities” si producono con la formazione ma soprattutto con la
sperimentazione e con l’apprendimento collettivo nei progetti di sviluppo locale. Sono le
“capabilities” che consentono di interpretare coerentemente il posizionamento dei sistemi
locali e le sfide da affrontare e le opportunità da cogliere. Le “capabilities” e la
mobilitazione degli attori verso una ristrutturazione continua attraverso la produzione di
conoscenze e competenze, che rappresentano veri e propri beni pubblici, garantiscono la
costruzione di vantaggi competitivi dinamici.
È, dunque, necessario avere una visione prospettica e di medio-lungo periodo ed
apprendere a sviluppare progettualità, nella continua soluzione dei problemi comuni più
rilevanti e identificati come realizzabili perché adeguati al livello delle capacità esistenti e
costruibili e rafforzabili nel processo di sviluppo. Lo sviluppo economico rappresenta,
infatti, un processo e un dispiegarsi di decisioni, investimenti ed interventi coerenti e
coordinati nel tempo attraverso integrazione e consequenzialità di azioni che permettono
un progressivo aumento di “capabilities” e, quindi, della produttività del lavoro.
L’ultima considerazione per le strategie e le politiche di sviluppo locale riguardano la
necessità di organizzare una coerente e integrata filiera istituzionale in una prospettiva di
sussidiarietà, in cui i livelli di governo superiore accompagnano (integrando le competenze
17
e le “capabilities” locali) i progetti di sviluppo locale. Ciò rende necessario la continua
negoziazione tra i livelli di governo che è condizione fondamentale per garantire la
collaborazione tra i vari livelli di governo. Non si deve dimenticare, tuttavia, che i progetti
di sviluppo devono nascere “dal basso”, con il coinvolgimento e la gestione degli attori
locali.
I modelli di sviluppo locale devono, dunque, essere guida per la progettualità e non
obiettivi per sé. I modelli sono riferimenti logici per l’interpretazione del posizionamento
strategico dei territori e per individuare traiettorie evolutive possibili, non “gabbie” per
conservare il modello in una logica di riproduzione statica, con modalità conservatrici e
difensive, spesso antistoriche e non sostenibili.
Per terminare, mi sembra opportuno riprendere i tre temi cruciali per la “governance” dello
sviluppo locale nei sistemi produttivi locali e che abbiamo visto non essere affrontabili
dalle relazioni di mercato e che devono essere gestiti alla dimensione mesoeconomica
territoriale; i tre temi riguardano le seguenti relazioni:
- scuola – lavoro;
- ricerca – industria;
- impresa - internazionalizzazione
I sistemi produttivi locali, specie quando fortemente basati sulla presenza di piccole
imprese (PMI), soffrono strutturalmente di difficoltà di accesso a risorse pregiate e
strategiche, qualora non siano presenti istituzioni intermedie o non si introducano azioni
collettive che possano rispondere alle difficoltà di trovare soluzioni adatte ai problemi delle
imprese da parte di coerenti strutture di offerta. Gli interventi di sostegno alle aree di
piccola impresa sono, dunque, prevalentemente capacità di iniziativa dal basso che
permetta l’interconnessione tra imprese e tra organizzazioni (pubbliche e private) per
risolvere problemi comuni e questioni che non sono affrontabili alla scala della PMI.
Non è un caso che questi temi rappresentino argomenti sui quali non solo i fallimenti del
mercato ma anche i fallimenti dello stato trovano esempi numerosi e clamorosi.
È possibile, infatti, parlare dell’esistenza di diversi ostacoli all’innovazione, di ostacoli
all’internazionalizzazione delle imprese, oltre che di ostacoli in termini di formazione e
reclutamento di nuove figure professionali strategiche per imprese che vogliano introdurre
strategie “alte” di competizione.
Questi problemi sono affrontabili “dal basso” con il coinvolgimento diretto delle imprese
(e delle loro organizzazioni) in una interazione con le organizzazioni che si occupano di
formazione, ricerca e accompagnamento ai progetti di internazionalizzazione. Le risposte
possono dunque avvenire con l’avvio di progetti imprenditoriali collettivi, a partire
dall’identificazioni di problemi comuni a più imprese.
Diversi sono gli esempi di successo che si possono individuare e questi devono essere di
esempio per diffondere la consapevolezza sulla opportunità di perseguire dal basso
iniziative analoghe, attraverso la cosiddetta diffusione delle buone pratiche.
18
Il processo di innovazione è fortemente radicato sul territorio: innovazione e territorio si
intrecciano in modo indissolubile non solo come è chiarito in buona parte della letteratura
economica (a partire dai contributi pioneristici di François Perroux) ma come è stato ben
compreso nelle politiche per l’innovazione, non solo nei paesi e nelle regioni del Nord
Europa (Garofoli, Musyck, 2003) ma anche in Francia che in Spagna. Nel primo caso sono
stati avviate politiche di sostegno dei “pôles de compétitivité” incentivando le relazioni tra
imprese orientate all’innovazione e i centri di ricerca attraverso il lancio di bandi pubblici
promossi dallo Stato nazionale (Courlet, 2008; Pecqueur, 2007; Scandella, 2008). Nel
secondo caso è stata introdotta una nuova politica industriale che fa perno sul sostegno
all’interazione tra grandi imprese, piccole imprese innovative e mondo della ricerca nelle
agglomerazioni di impresa esistenti nel paese a prescindere dal modello di organizzazione
della produzione (e che, quindi, coinvolge tutte le tipologie: poli di sviluppo à la Perroux,
distretti industriali, cluster à la Porter) perché luoghi che producono saperi e competenze
radicate e, quindi, economie esterne (Trullen, 2007).
Anche il processo di internazionalizzazione richiede una crescita culturale e un lavoro di
“équipe” (con competenze e sensibilità complementari) all’interno dei sistemi produttivi
locali. È ovvio pensare come lo studio di mercati di sbocco alternativi, soprattutto in paesi
lontani (che richiede anche l’introduzione di nuovi saperi e di “mediatori culturali”), e
successivamente l’ingresso su mercati emergenti e l’organizzazione di un efficace presidio
di quei mercati non siano operazioni facilmente affrontabili alla scala della singola
impresa, specie quando di piccola e media dimensione. Sembrerebbe, dunque, più efficace
organizzare strategie di internazionalizzazione alla scala del sistema produttivo locale,
iniziando dall’attenzione a questi nuovi temi, dall’animazione e mobilitazione di saperi e
competenze complementari per giungere alla ideazione di progetti specifici che
coinvolgano più imprese, accompagnando il progetto imprenditoriale da parte delle
organizzazioni e istituzioni locali (a cominciare dalle Università) e poi via via da quelle a
livello regionale e nazionale piuttosto che organizzare politiche che partano dall’alto.
Quanto appena detto, consente di concludere con alcune idee e proposte di linee di
intervento per la competitività e l’innovazione dei sistemi locali (6). La “governance”
dello sviluppo locale passa prevalentemente dalla soluzione dei problemi nelle tre aree che
sono state discusse (formazione, innovazione, internazionalizzazione) e dalla capacità di
creare interazione tra mondi diversi. Ciò può essere favorito e promosso esclusivamente
attraverso il lancio di progetti pilota che permettano non solo cooperazione
interistituzionale e apprendimento collettivo ma anche formazione di nuove competenze
organizzative. La conoscenza di esperienze in altri territori (in Italia e all’estero) e l’avvio
di alleanze tra territori possono ulteriormente favorire la diffusione delle “buone pratiche”
e la moltiplicazione dei casi di successo.
Tutto ciò, anche sulla base di esperienze già avviate, non può che realizzarsi con processi
di sviluppo “dal basso” e con il successivo coinvolgimento e accompagnamento da parte
dei livelli di governo sovraordinati.
19
Note
1. Tra le ricerche condotte in quegli anni sul decentramento produttivo vanno ricordate
soprattutto quelle di Paci (Paci et alii, 1974), Brusco (1975), Frey (1975), Garofoli (1978).
2. È alquanto curioso che nello stesso anno sia stato introdotto, indipendentemente da due
autori, il concetto di “sistema produttivo” alla scala nazionale e globale (Destanne de
Bernis, 1983; Wilkinson, 1983).
3. Troppo numerosi sono i lavori pubblicati per cercare di indicare quelli più rilevanti. È
sufficiente richiamare alcune raccolte di saggi che presentano una ampia visione
internazionale con discussione di casi presenti nei vari continenti (Di Tommaso, Rabellotti,
1999; Schmitz, 2004; Scott, Garofoli, 2007b).
4. Secondo Hubert Schmitz e John Humphrey (Schmitz, 2004; Humphrey, Schmitz, 2000,
2002) si possono identificare, in relazione alla loro posizione all’interno della global value
chain quattro tipi di cluster nei paesi in via di industrializzazione: a) arm’s length market
relation (quando il prodotto è standardizzato e non richiede di sviluppare un sistema di
strette relazioni tra acquirente e produttore); b) networks: (quando le imprese sviluppano
relazioni ad alta intensità di informazioni, con divisione dei compiti e relativa autonomia
delle imprese fornitrici); c) quasi hierarchy: (quando esiste nella catena produttiva un alto
grado di controllo di un’impresa sulle altre); d) hierarchy (con un’impresa leader che
controllo direttamente le funzioni cruciali della catena produttiva).
5. Si possono, inoltre, ricordare altri modelli di sviluppo locale che, in alcuni paesi,
assumono una importanza rilevante come i distretti agro-alimentari e i sistemi turistici
integrati che presentano caratteristiche sostanzialmente analoghe a quelle dei sistemi
produttivi locali.
6. Non bisogna dimenticare che la nuova stagione della programmazione dei Fondi
strutturali europei (2007-2013) individua prioritariamente gli obiettivi dell’innovazione e
della competitività per i progetti di sviluppo cofinanziati dall’Unione Europea.
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