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SCIENZA IN PRIMO PIANO DE RERUM NATURA OGGI: ALLA SCOPERTA DELLA MATERIA OSCURA MASSIMO CAPACCIOLI 1 , MIKHAIL V. SAZHIN 2 , OLGA S. SAZHINA 2 1 Dipartimento di Fisica, Università di Napoli Federico II, Napoli, Italia 2 Osservatorio Astronomico Sternberg, Università Statale di Mosca Lomonosov, Mosca, Russia 1 Il problema L’oscurità, temuta dagli uomini perché fonte di pericolo e icona del peccato, trova una sua realtà nella Genesi, là dove si dice che Dio, avendo visto che la luce è cosa buona, la separò dalle tenebre. ma nella filosofia antica, e in particolare in quella vincente di Aristotele, non c’era posto per una materia sconosciuta e invisibile. Le nozioni di luce e di visione erano troppo rudimentali per falsificare una struttura della materia fondata sui cinque elementi di empedocle e sui sublimi equilibrismi del pensatore di Stagira, che finirono per travolgere le intuizioni degli atomisti. e il cosmo geocentrico sembrava sufficientemente piccolo, entro la coltre delle stelle fisse, perché il buio dei globi come la Luna non fosse domato dai raggi del Sole. Con le osservazioni telescopiche avviate nel 1609, Galilei dilatò enormemente questo gretto orizzonte a misura d’uomo, promuovendo un sistema eliocentrico necessariamente più ampio di quello tolemaico, scoprendo la natura stellare della Via Lattea e dando corpo Se non è vero, è molto ben trovato Giordano Bruno, De gl’heroici furori (1585) Che cos’è la materia oscura oggi? Un’ipotetica componente della materia – risponderebbe senza esitazione un cosmologo – che può essere rivelata unicamente attraverso i suoi effetti gravitazionali in quanto non assorbe, riflette o emette luce, e tanto abbondante da giganteggiare sulla materia ordinaria. Saccheggiando Metastasio, verrebbe subito da aggiungere, però, “che ci sia ognun lo dice, cosa sia nessun lo sa”. Infatti, quantunque negli ultimi 35 anni sia cresciuta sistematicamente la frequenza con cui il termine dark matter (DM) compare già nel titolo degli articoli scientifici, a riprova di una dilagante popolarità, la vera natura di questo nuovo ingrediente della materia cosmica e le sue intime proprietà restano ancora oggi un mistero nonostante gli sforzi per rivelarle. Pende persino il dubbio che DM sia solo uno pseudonimo sotto cui si cela una nuova fisica piuttosto che una particella nera. Al fine di dipanare l’intricata matassa occorre, come al solito, salire sulle spalle dei giganti per vedere più lontano e, più che mai in questo caso, conoscere il percorso che li ha indotti a introdurre un nuovo ente sul filo del rasoio di Occam. Insomma, mentre si cerca di avanzare conviene tenere sott’occhio il cammino già fatto: una regola d’oro non di rado travolta dalla fretta di tagliare il traguardo, propria dei nostri tempi. VOL32 / NO3-4 / ANNO2016 > 19

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dE rErum natura oggi: alla ScoPErta dElla matEria oScura

MASSIMo cAPAccIolI1, MIkhAIl V. SAzhIn2, olGA S. SAzhInA2

1Dipartimento di Fisica, Università di Napoli Federico II, Napoli, Italia 2Osservatorio Astronomico Sternberg, Università Statale di Mosca Lomonosov, Mosca, Russia

1 Il problemaL’oscurità, temuta dagli uomini perché fonte di pericolo e icona del peccato, trova una sua

realtà nella Genesi, là dove si dice che Dio, avendo visto che la luce è cosa buona, la separò dalle tenebre. ma nella filosofia antica, e in particolare in quella vincente di Aristotele, non c’era posto per una materia sconosciuta e invisibile. Le nozioni di luce e di visione erano troppo rudimentali per falsificare una struttura della materia fondata sui cinque elementi di empedocle e sui sublimi equilibrismi del pensatore di Stagira, che finirono per travolgere le intuizioni degli atomisti. e il cosmo geocentrico sembrava sufficientemente piccolo, entro la coltre delle stelle fisse, perché il buio dei globi come la Luna non fosse domato dai raggi del Sole. Con le osservazioni telescopiche avviate nel 1609, Galilei dilatò enormemente questo gretto orizzonte a misura d’uomo, promuovendo un sistema eliocentrico necessariamente più ampio di quello tolemaico, scoprendo la natura stellare della Via Lattea e dando corpo

Se non è vero, è molto ben trovato

Giordano Bruno, De gl’heroici furori (1585)

Che cos’è la materia oscura oggi? Un’ipotetica componente della materia – risponderebbe senza esitazione un cosmologo – che può essere rivelata unicamente attraverso i suoi effetti gravitazionali in quanto non assorbe, riflette o emette luce, e tanto abbondante da giganteggiare sulla materia ordinaria. Saccheggiando Metastasio, verrebbe subito da aggiungere, però, “che ci sia ognun lo dice, cosa sia nessun lo sa”. Infatti, quantunque negli ultimi 35 anni sia cresciuta sistematicamente la frequenza con cui il termine dark matter (DM) compare già nel titolo degli articoli scientifici, a riprova di una dilagante popolarità, la vera natura di questo nuovo ingrediente della materia cosmica e le sue intime proprietà restano ancora oggi un mistero nonostante gli sforzi per rivelarle. Pende persino il dubbio che DM sia solo uno pseudonimo sotto cui si cela una nuova fisica piuttosto che una particella nera. Al fine di dipanare l’intricata matassa occorre, come al solito, salire sulle spalle dei giganti per vedere più lontano e, più che mai in questo caso, conoscere il percorso che li ha indotti a introdurre un nuovo ente sul filo del rasoio di Occam. Insomma, mentre si cerca di avanzare conviene tenere sott’occhio il cammino già fatto: una regola d’oro non di rado travolta dalla fretta di tagliare il traguardo, propria dei nostri tempi.

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pIANOall’intuizione bruniana dell’esistenza di “innumerabili ed infiniti globi, come […] questo in cui vivemo e vegetamo noi”[1]. mondi intrinsecamente bui, rischiarati dalle loro stelle, che a loro volta ci si mostrano fioche per via della grande distanza.

Si trattava sin qui di una materia oscura per così dire fortuita, che sfugge al principio copernicano di universalità, sia nello spazio che nel tempo. Normalissime stelle che non si vedono perché troppo lontane, o corpi spenti che risplendono di luce riflessa, che tuttavia non manifestano alcun segno evidente di una natura stravagante o di una particolare abbondanza: non solo pianeti, maggiori o minori, come quello scoperto da Piazzi la notte del primo dell’anno 1801, ma anche nubi di polveri, che le survey della Via Lattea cominciavano a rivelare soprattutto in direzione del Sagittario, e stelle morte, tirate in ballo dalle nascenti teorie evolutive.

Alla fine del Settecento, il reverendo John michell, e indipendentemente Pierre-Simon de Laplace, concepirono un ente costituito di materia ordinaria – nello specifico, acqua – e tuttavia invisibile per via di una velocità di fuga capace di imprigionare la luce. un buco nero ante litteram che, sebbene strutturalmente assurdo, dimostrava la possibilità di singolari aggregazioni di materia in grado di compromettere la presunta alleanza tra massa e luce. friedrich Bessel espose [2] questo concetto con limpida chiarezza in una nota del 1844, letta davanti alla Royal astronomical Society da John Herschel: “la luce non è una vera proprietà della massa. L’evidenza di innumerevoli stelle visibili non è la prova contro l’evidenza di innumerevoli stelle invisibili”. L’astronomo tedesco cercava una via per interpretare gli ondeggiamenti osservati nei moti propri di Procione e Sirio, che – egli aveva intuito – potevano essere provocate da compagni non ancora visti. Aveva sostanzialmente ragione, ma di certo non poteva immaginare che in queste stelle fantasma, che oggi chiamiamo nane bianche, la materia si presentasse in uno stato (degenere) così diverso da tutto ciò che allora si sapeva.

L’intuizione di Bessel fa pendant con quella associata alla scoperta del pianeta Nettuno: una vicenda con un esemplare contenuto educativo. Nel marzo del 1781, scandagliando il cielo William Herschel aveva rinvenuto casualmente un astro che venne identificato come nuovo pianeta del Sistema Solare e battezzato con il nome del dio greco del cielo, urano. Grazie alle posizioni astrometriche raccolte dagli astronomi, riguardanti anche epoche antecedenti la scoperta, fu possibile calcolare un’orbita provvisoria del pianeta. Si trattava di risolvere, coi metodi della meccanica celeste, il problema del moto degli N-corpi noti costituenti il sistema planetario, soggetti a mutue forze gravitazionali e obbedienti alle leggi della meccanica newtoniana. ma, a dispetto dei volonterosi ritocchi fatti via via alle condizioni iniziali, urano non pareva intenzionato ad avanzare come il modello

meccanico pretendeva. evidentemente una o più ipotesi dovevano essere sbagliate. ma quali?

La fama di Newton e i successi dei suoi “Principia” blindavano saldamente la forma sia della legge d’inerzia che della forza gravitazionale; nessuno scienziato sano di mente avrebbe osato contestare ciò che ipse dixit. Non restava che puntare il dito sui dati in input, ossia sul pacchetto dei corpi interagenti, immaginando che le bizzarrie di urano costituissero le reazioni a un invisibile e sin lì sconosciuto perturbatore. insomma, si trattava di calcolare massa e traiettoria di un pianeta fantasma in modo da rimettere il modello dinamico di urano sul binario delle osservazioni. Ci riuscì urbain Le Verrier, che seppe indicare con tanta precisione la posizione dell’oscuro intruso da farlo snidare al primo colpo. “La planète dont le lieu que vous avez [calculé] existe vraiment”1. Aveva vinto la scelta di ritoccare il numero dei giocatori piuttosto che le regole del gioco: una strategia che però non sempre paga, come dimostra il caso di mercurio.

Le perturbazioni gravitazionali dei corpi maggiori e lo schiacciamento dell’astro centrale fanno sì che l’orbita del pianeta più prossimo al Sole preceda di 5600 secondi d’arco in cento anni. A metà dell’ottocento, il solito Le Verrier aveva calcolato che le leggi della meccanica celeste applicate conteggiando tutti i corpi noti del Sistema Solare davano conto quasi completamente della lenta rotazione dell’asse maggiore orbitale, lasciando inesplicati soltanto 43 secondi (0.8%). Pochi, ma sufficienti a fargli ipotizzare la presenza di un minuto perturbatore tra mercurio e il Sole, cui l’astronomo francese trovò anche un nome, Vulcano. questa volta, però, la causa dell’anomalia gravitazionale non stava in un corpo buio e/o di natura ignota, ma in un limite della fisica classica2, superato da einstein con l’introduzione di una nuova teoria della gravitazione (di cui, per inciso, la risoluzione del problema di mercurio fu la prima robusta stampella).

in conclusione, per snidare un corpo intrinsecamente invisibile, o reso tale dalle condizioni in cui si trova, può essere vincente guardare agli effetti gravitazionali che la sua presenza induce sulla materia vicina; ma non è detto che delle inattese peculiarità cinematiche trovino sempre spiegazione in un ingrediente materiale nascosto, standard o esotico che sia.

1 testo del laconico telegramma inviato a Le Verrier da Johann Galle la notte stessa delle scoperta.2 fu quanto proposto da Poincaré, che, nel discutere le conseguenze osservative della sua “nuova” meccanica relativistica, scriveva nel 1909 [3]: “Le Verrier attribua cette anomalie à un planète non encore découverte et un astronome amateur crut observer son passage sur le Soleil. Depuis lors, plus personne ne l’a vue et il est malheureusement certain que cette planète aperçue n’était qu’un oiseau” [N.d.C.].

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pIANO2 I pionieri

All’inizio del Novecento non si sapeva ancora se le “nebulose bianche” fossero sistemi extragalattici o se l’universo si esaurisse entro la Via Lattea. tuttavia gli astronomi, con pazienza e coraggio, prendevano spettri a lunghissima posa delle grandi spirali, come m31 in Andromeda e m33 nel triangolo, alla ricerca di qualcosa, di un filo rosso che aiutasse a dipanare la matassa. e lo trovarono: qualche volta le righe d’emissione si mostravano inclinate. firma Doppler – si speculò, non senza azzardo – di una rotazione interna che poteva essere ricostruita e utilizzata per calcolare la massa della nebula, a condizione di assumere una dinamica d’equilibrio e di saper stimare la distanza. Confrontando poi la massa con la luce emessa dall’oggetto (espressa tipicamente in unità solari) si poteva valutare una sorta di efficienza a produrre luce da parte dell’oggetto. i numeri che uscivano, sparpagliati in un ampio ventaglio a riprova della precarietà delle misure (e soprattutto delle incerte distanze), puntavano consistentemente verso una netta inefficienza. Diciamo, per capirci, che una tipica nebula poteva essere 5 volte meno brillante di un ipotetico oggetto di egual massa, interamente costituito di stelle come il Sole. Niente di sorprendente, sin qui, se si considera che gli astri i più abbondanti sono quelli di taglia piccola, nei quali la potenza luminosa crolla (una debacle che però concede loro una vita lunghissima).

Così, alla fine degli anni Venti, quando le nebulae avevano ormai acquisito la dignità di galassie, gli astronomi capitanati dall’olandese Jacobus Kapteyn si convinsero che nell’universo la materia priva di luce fosse un’eccezione piuttosto che la regola: proprio come nel Sistema Solare, dove la massa intrinsecamente oscura è solo una parte su mille. La situazione mutò nel 1932, quando Jan oort, giovane allievo di Kapteyn, pensò di rielaborare un’idea del maestro, a sua volta mutuata da un’intuizione di Lord Kelvin: trattare le stelle del disco della Via Lattea come un gas e applicare alla loro distribuzione verticale le leggi adoprate per descrivere l’atmosfera della terra. La strategia di oort fu di isolare, entro un cilindro verticale contenente il Sole, classi di stelle di eguale tipo spettrale (e quindi di eguale massa ed età) e poi stimare, tramite le loro velocità medie e le distanze verticali coperte, la forza gravitazionale di richiamo indispensabile a mantenerle legate.

il risultato colse tutti di sorpresa. La densità della materia richiesta dall’equilibrio verticale eccedeva di almeno la metà quella della materia visibile, ottenuta conteggiando sapientemente le stelle osservabili; un parametro che da allora è chiamato “limite di oort”. ovviamente nessuno pretendeva che le controparti della materia fantasma fossero oggetti esotici. Potevano essere, per esempio, stelline deboli, come nane bianche o al più nane nere. insomma, quantunque intrigante, la misura non costituiva

nessuna rottura di paradigma rispetto alla natura della materia; e per fortuna, visto che qualche decennio dopo essa sarebbe stata confutata per via di una significativa imprecisione del modello. Nel conteggio della forza di richiamo delle stelle oort aveva effettivamente ignorato l’effetto del rigonfiamento centrale (bulge) della Via Lattea, con conseguente sovrastima della densità del disco.

Nel medesimo anno – a riprova della natura epidemica delle idee nuove – lo svizzero fritz Zwicky fece un’osservazione che spalancò la porta a un autentico fiume di materia oscura. Zwicky era emigrato al Caltech nel 1925 grazie a una borsa di studio della fondazione Rockefeller. Aveva 27 anni, una solida preparazione in fisica teorica ricevuta al Politecnico di Zurigo, e la capacità di guardare alla Natura, e alle cose, con una mente fresca e aperta. A Pasadena si trovò nel bel mezzo di un’epocale rivoluzione cosmologica scatenata dalle intuizioni di Hubble, dalle osservazioni del suo fedele assistente “milt” Humason e dalla potenza dei telescopi di mt. Wilson voluti da George Hale. Galassie, morfologia, profili di luminosità, redshift, ammassi, membership, espansione, distanze: erano queste le parole gergali della nuova astronomia extragalattica, che si presentava come una rinnovata corsa all’oro del Klondike. Bisognava stare nel giro, avere coraggio, fantasia e un pizzico di fortuna.

Guardando ai redshift misurati da Hubble, Zwicky venne attirato dal fatto che i residui delle velocità rispetto alla media (cioè rispetto alla velocità radiale sistemica) per 8 oggetti appartenenti al grande ammasso di galassie nella costellazione della Chioma di Berenice (Coma) mostravano clamorose deviazioni, sin oltre 2000 km/s. ispirandosi a un precedente lavoro di Poincaré, pensò [4] allora di utilizzare il teorema del viriale, preso a prestito dalla termodinamica, per stabilire quale dovesse essere la dispersione delle velocità delle “particelle” di Coma necessaria all’equilibrio del gas di galassie. Disponeva di un campione di 800 oggetti. Adoprando una massa media per galassia di 109 masse solari, come pretendeva Hubble, calcolò che sarebbero bastati 80 km/s per reggere l’impalcatura gravitazionale: oltre un ordine di grandezza meno della dispersione della velocità lungo la linea di vista restituita dal suo campione. un risultato che, “se confermato, porterebbe come conseguenza che la materia oscura sia presente in un ammontare molto più grande di quella luminosa”, aveva concluso, lanciando il sasso ma mettendo saggiamente le mani avanti.

il lavoro, redatto in tedesco e inviato a una rivista svizzera in una stagione in cui ormai l’inglese dominava come la lingua franca della scienza, venne praticamente ignorato. La causa principale non fu la barriera linguistica: Hubble, per esempio, parlava bene il tedesco. Zwicky era il classico lupo solitario, orgoglioso, aggressivo e spietatamente diretto. Chiamava i colleghi “bastardi sferici”, perché tali erano, a suo avviso, da qualunque direzione li si guardasse, arrivando a definirli

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pIANOper iscritto [5] come “decerebrati, sicofanti, e semplici ladri […che] falsificano i propri dati osservativi per nasconderne i difetti […e pubblicano] inutile spazzatura nelle preminenti riviste astronomiche”.

A dimostrazione del conseguente e comprensibile ostracismo della comunità scientifica, c’è l’indifferenza con cui venne accolto anche il successivo lavoro [6], questa volta in inglese, nel quale Zwicky perfezionava il suo risultato e lo discuteva nel contesto delle nuove scoperte nel mondo extragalattico, analizzando magistralmente ogni fonte d’incertezza e proponendo nuove linee di ricerca. L’intento dell’autore era di mettere le basi per una stima accurata delle “masse delle nebulae e degli ammassi di nebulae”, come recitava il titolo dell’articolo. il risultato più eclatante riguardava ancora una volta il popoloso e denso ammasso di Coma. Zwicky disponeva ora dei dati per 1000 galassie circa: un campione conservativamente ripulito dalle contaminazioni spurie scartando gli oggetti con velocità estreme. La diretta applicazione del viriale gli restituiva un rapporto massa-luminosità spaventosamente maggiore del valore stimato per l’universo locale: M/L ∼ 500 (dove M/L = 1 per il Sole) contro M/L ∼ 3 per l’area solare. è ben vero che, con la distanza di Coma derivata dalla legge di Hubble adottando per il parametro H0 il valore di 560 km/s/mpc allora in voga, Zwicky aveva sovrastimato M/L di un buon fattore 8 (oggi H0 = 67 km/s/mpc), ma il gioco degli errori aveva fatto sì che il suo risultato fosse fondamentalmente corretto, come provano le ricerche più recenti (fig. 1).

insomma, le pionieristiche intuizioni di Zwicky non vennero prese sul serio. mancavano tra l’altro i candidati per una sostanziosa componente di materia barionica. oggi sappiamo che le stelle brillanti contano solo per una piccola frazione della massa di un ammasso, e che il più dei barioni si trova nello stato di un fluido caldo intracluster visibile nello spettro dei raggi X, tanto più abbondante (fino a 15 volte la densità stellare) quanto più ricco l’ammasso stesso. ma era ancora troppo presto per osservare l’emissione X dei gas caldi o l’irraggiamento nell’infrarosso da parte delle polveri. Né i tempi erano maturi anche solo per immaginare una via d’uscita non barionica. i fisici stavano ancora costruendo la struttura della materia classica, come ci ricorda la concomitante scoperta del primo barione neutro, fatta da James Chadwick nel 1932. Nell’arco di quarant’anni il lavoro di Zwicky ricevette meno di 20 citazioni. “Peggio di un crimine”, avrebbe probabilmente commentato talleyrand riprendendo un suo celebre rimbrotto a Napoleone. “è un errore”. il testo contiene infatti numerosi illuminanti spunti sacrificati da un insano oblio. Vediamone qualcuno.

In primis, non immemore delle sue radici teoriche cui pur aveva abdicato per un’Astronomia morfologica [7], Zwicky osservava che “il teorema del viriale applicato agli

ammassi di galassie fornisce un test della validità per la legge dell’inverso del quadrato delle forze gravitazionali […] Poiché gli ammassi di galassie sono i più grandi aggregati di materia che conosciamo, lo studio del loro comportamento dinamico costituisce l’ultimo trampolino di lancio prima di affrontare l’indagine sull’universo nel suo insieme”. Non solo un test, però, ma anche un caveat rispetto al dilagare della dark matter. Dobbiamo assumere, sottolineava infatti, che “la legge di Newton dell’inverso del quadrato descriva le interazioni tra galassie”. e se invece il disaccordo tra le misure locali e quelle su scala di ammasso fosse dovuto a un vizio della teoria piuttosto che a un ingrediente materiale? una suggestione tutt’altro che bizzarra, ripresa nell’ambito della dinamica newtoniana modificata (moND) e delle cosiddette teorie f (R).

Proposta nel 1983 da mordehai milgrom più che altro come un’ipotesi fenomenologica, e poi assurta al rango di teoria completa sia in ambiente classico che relativistico (non senza difficoltà residuali, però), moND contempla una radicale trasformazione della legge d’inerzia là dove le accelerazioni gravitazionali sono estremamente basse, come per esempio alla periferia delle galassie. La tesi è che, in condizioni di campo debole, la forza diventi proporzionale al quadrato dell’accelerazione. questo comportamento simula, per così dire, un’accresciuta efficienza della gravità e genera l’illusione newtoniana di una massa fittizia che, in quanto inesistente, non può che essere oscura. Dal punto di vista formale si ottiene il medesimo risultato agendo sulla legge di forza piuttosto che su quella inerziale [8]. moND funziona egregiamente in ambito galattico (fig. 2), ma zoppica proprio sulla scala degli ammassi di galassie [9].

Con f (R) ci si riferisce invece a una serie di teorie estese della gravitazione [10] che, generalizzando la lagrangiana dell’azione di einstein-Hilbert, ampliano la relatività generale di einstein consentendo di considerare altri gradi di libertà della curvatura. in questo modo, alla materia come sorgente del campo gravitazionale si può aggiungere un ulteriore fluido di curvatura dello spazio-tempo. Sebbene molto stimolanti sul piano dell’esplorazione concettuale (sono diventate un attivo campo di ricerca a seguito del lavoro sull’inflazione cosmica di Alexei Starobinsky), le teorie f (R) incontrano numerose difficoltà nel confronto con le evidenze osservative, e non godono ancora di un credito diffuso.

torniamo a Zwicky. impostando il suo calcolo statistico, egli aveva dovuto accettare il compromesso di considerare una sorta di “nebulosa quadratica media”. ma nel discutere il risultato si preoccupò invece delle galassie vere, e si domandò come l’ambiente intervenisse a determinarne l’evoluzione. Pensava che “le nebulae più compatte e massicce siano le meno vulnerabili alla distruzione” in conseguenza degli “incontri ravvicinati” e indicava negli effetti selettivi la

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causa delle differenze morfologiche tra le popolazioni delle galassie di campo e degli ammassi. questa intuizione sulla segregazione delle forme delle nebulose trova oggi uno strumento di verifica nelle simulazioni numeriche (e.g. iLLuStRiS [11]) e ha importanti implicazioni nella definizione dei meccanismi di formazione ed evoluzione delle galassie.

Zwicky si chiese anche dove andassero i debris prodotti dalle interazioni gravitazionali e si interrogò sul peso che avrebbero potuto avere nella costruzione del risultato del viriale. Dichiarò che, per venire a capo della faccenda, si sarebbe personalmente impegnato in una campagna di survey del cielo. Sul Palomar, in attesa del gigante da 200 pollici, era stato collocato un piccolo telescopio con apertura di 46 cm e un campo corretto di 4°×4° grazie a un innovativo

disegno dell’ottico estone Barnard Schmidt. Per 13 anni la piccola cupola sarebbe diventata la tana del lupo solitario per snidare le supernove, assieme a Walter Baade, e mappare gli ammassi di galassie. oggi sappiamo che l’intracluster light immaginata da Zwicky esiste, e che si concentra prevalentemente attorno alle galassie giganti [12] (fig. 3), ma anche che il suo contributo alla massa resta trascurabile [13]. insomma, si tratta di un ingrediente sicuramente poco visibile con un contenuto di massa marginale.

L’ultima delle intuizioni riportate da Zwicky nel suo magistrale lavoro del 1937 riguarda l’utilizzo del lensing gravitazione per misurare le masse. “Come ho già fatto vedere – scriveva – la probabilità che le immagini delle nebulae si sovrappongano è considerevole. Ci si può

fig. 1 tendenza del rapporto tra la massa e la luminosità blu nell’ammasso di galassie di Coma, in funzione della distanza dal centro (Łokas e mamon, 2003), per diversi modelli di densità della materia oscura (responsabili delle differenze verso il centro). in rosso, senza alcuna correzione, è riportato il valore medio trovato da Zwicky nel 1937.

fig. 2 Discrepanza tra la massa di galassie spirali (sostenute da rotazione) calcolata dinamicamente e quella dedotta dalla luce (barioni) prodotta cresce al diminuire dell’intensità del campo gravitazionale, in accordo con le ragioni di moND (adattata da mcGaugh, Galaxies, 2 (2014) 601).

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dunque aspettare che il campo gravitazionale di un numero di galassie ‘in primo piano’ defletta la luce che ci viene da certi oggetti di sfondo. L’osservazione di tali lenti gravitazionali promette di fornirci la più semplice e accurata determinazione della massa delle galassie”. L’idea che una massa potesse deviare la luce non era nuova. Già Newton l’aveva considerata nell’opticks, alla Domanda 1: “è possibile che i corpi agiscano a distanza sulla luce, e con la loro azione pieghino i suoi raggi; e non è questa azione (a parità di altre condizioni) più forte alla minima distanza?”. Nel 1912 einstein aveva cercato di formalizzare il fenomeno della lente gravitazionale (geometrica) nell’ambito della nascente relatività generale, ma un errore concettuale lo aveva indotto a desistere. Aveva ripreso la questione nel 1936 sotto la pressione di un ingegnere cecoslovacco, sviluppando e pubblicando il relativo formalismo, ma

con una massa. Naturalmente, i quanti di luce che si propagano sui diversi lati del corpo intruso, dopo che sono stati deflessi possono convergere in un punto dello spazio (fig. 4). La geometria del fenomeno fa sì che un osservatore riesca a vedere più immagini della sorgente, proprio come se la massa interposta funzionasse da lente (potente seppure fortemente aberrata). in sostanza, misurando i parametri delle immagini focalizzate gravitazionalmente, si può ricostruire – risolvendo un classico problema inverso – la massa del corpo che funge da lente, anche se esso è buio.

Dal punto di vista operativo si riconoscono tre diversi regimi di lensing gravitazionale: forte, debole, e di microlensing. La distinzione dipende dalle posizioni relative della sorgente, della lente e dell’osservatore, e dalla massa e forma della lente, che controlla quanto e dove la luce viene deviata. il lensing forte si ha quando la

concludendo che “naturalmente non c’è speranza di osservare il fenomeno” [14]. Zwicky, che a giudicare dalle date aveva letto il lavoro di einstein proprio mentre scriveva il suo (sebbene non ne faccia cenno), era di diverso avviso. Aveva ragione e torto insieme. Ragione perché il fenomeno è oggi osservabile e osservato in tutte le sue manifestazioni; torto perché, con i mezzi di allora, non avrebbe avuto speranza alcuna di rivelarlo. Vediamo di che si tratta.

Lo spazio nel quale transitano i fotoni di una remota sorgente di luce non è vuoto: esso è riempito dai campi gravitazionali degli oggetti celesti interposti, come stelle, galassie o ammassi di galassie. Sappiamo che una particella di prova in moto entro un campo gravitazionale segue una traiettoria iperbolica se il suo passo supera la velocità di fuga del generatore del campo. Succede più o meno lo stesso anche a un fotone che esperimenti un incontro ravvicinato

fig. 3 Profonda immagine visuale (in falsi colori) del cuore dell’ammasso di galassie della fornace nel cielo boreale, ottenuta con il telescopio VSt e la camera a grande campo omegaCam, che per la prima volta mostra l’enorme estensione dell’alone della galassia dominante l’ammasso, NGC 1399 (iodice et al., Ap.J., 820 (2016) 42).

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in maniera più contenuta, anche in quello della Vergine studiato in quei medesimi anni da Sinclair Smith [15] – venne compiuto da un giovane svedese. Per la sua tesi di dottorato (1937, Annali dell’osservatorio di Lund), erik Holmberg disponeva di una ricca collezione di lastre raccolte all’osservatorio di Heidelberg. Poté così accertare che le galassie appaiono spesso associate in coppie o in piccolo gruppi e, applicando al suo campione argomenti statistici ed elementari ipotesi di equilibrio, riuscì a stimare il rapporto massa-luminosità delle coppie. trovò valori nettamente inferiori a quello per il volume di Coma, ma superiori a quanto misurato nell’area solare. era una prima indicazione di una dipendenza di M/L dalla scala di campionamento. una moderna compilazione [16] per varie classi di oggetti e per diverse scale (fig. 5) fa vedere che la crescita esponenziale si arresta a 250 kpc circa (stima corretta

fig. 5 Andamento del rapporto M/L in funzione della lunghezza di campionamento R (da Bahcall et al., 1995).

fig. 4 Schema della focalizzazione gravitazionale (disegno di olga S. Sazhina).

lente è molto massiccia e la sorgente angolarmente vicina a essa. Nel regime debole la lente è invece troppo “fuori asse” e non ce la fa a formare immagini multiple o archi. tuttavia, la sorgente può essere ancora distorta, sia allungata (taglio) che ingrandita (convergenza). inutile per sorgenti singole, può diventare un potente strumento statistico qualora si disponga di campioni molto abbondanti e accurati (cfr. il sito della survey KiDS: http://kids.strw.leidenuniv.nl/ ). Nel microlensing, poi, la sorgente focalizzata è così piccola o debole che non si riescono a vedere le immagini multiple nonostante un allineamento con l’osservatore quasi perfetto. il fenomeno fa soltanto apparire la sorgente più luminosa, e per questo deve essere transiente affinché si possa notare.

un passo avanti nella comprensione dell’elevatissimo rapporto M/L nell’ammasso di Coma – e , sia pure

a H0 = 67 km/s/mpc), dove M/L si appiattisce al valore cosmico medio.

Holmberg fu anche tra i pochi a commentare i risultati di Zwicky (riguardo quelli di Smith su Virgo, con il suo proverbiale fiuto Hubble aveva scritto: “la discrepanza sembra reale e importante”). Per cercare di contenere il rapporto massa-luminosità entro limiti “accettabili”, lo svedese suggerì che alcune galassie appartenessero solo provvisoriamente agli ammassi, che esse occasionalmente visitavano viaggiando su orbite iperboliche slegate. martin Schwarzschild, figlio del grande Karl, provò a individuare gli intrusi, ma la sua pulizia ridusse di un misero 20% il valore trovato da Zwicky: troppo poco per eliminare il problema che l’astronomo svizzero, per una volta prudente, non chiamava della materia oscura ma della “massa mancante”. Victor Ambartsumian fu ancora più diretto nel dichiarare la sua avversione alla dark matter. Sostenne senza mezzi

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pIANOtermini che gli ammassi sono sistemi instabili in rapida espansione, ai quali non può essere applicato il teorema del viriale; ma venne subito rintuzzato con l’argomento che allora, in un tempo di Hubble, essi avrebbero avuto tutto l’agio per disciogliersi completamente.

Negli anni Sessanta il tema della Dm prese maggiormente piede anche per l’insorgere di un rinnovato interesse a esplorare la possibile natura di questo ingrediente: un’attenzione stimolata dai progressi tecnologici che, aprendo a nuove bande spettrali, rivelavano un universo sconosciuto e inatteso. ma la vera rivoluzione scoppiò con le curve di rotazione in Hi, alla metà degli anni Settanta.

3 La svolta La Seconda Guerra mondiale aveva dato un formidabile

impulso alla tecnologia radar. Alla fine del conflitto, una parte di questo nuovo sapere e alcune antenne poterono essere riconvertite a fini di pace per studiare il cielo. Gli olandesi furono tra i pionieri di un nuovo genere di radioastronomia. Ancora in tempo di guerra oort aveva commissionato allo studente Hendrik van de Hulst di valutare la fattibilità di osservare nello spazio celeste la transizione iperfine dell’idrogeno neutro studiata teoricamente da Hendrik Casimir, più noto per l’omonimo effetto del campo quantistico di punto zero. Si tratta di una transizione spontanea di spin che interviene allo stato fondamentale, cui corrisponde un salto d’energia pari a un quanto di lunghezza d’onda λ = 21 cm circa. Van de Hulst considerò tutte le incertezze dell’impresa: la natura ancora sconosciuta delle spazio tra le stelle, per cui la riga avrebbe potuto trovarsi in emissione ma anche in assorbimento, e la possibilità che tutto l’idrogeno si presentasse in forma molecolare. Concluse che c’erano però margini di successo. quanto bastava per accendere il dinamismo di oort.

Sebbene il primato della rivelazione della riga di Hi spetti a Harvard (per un pugno di settimane), gli olandesi si specializzarono nel settore costruendo antenne via via più potenti, incalzati dal mondo anglosassone. Divenne presto chiaro che le galassie a spirale erano circondate da aloni di idrogeno neutro, e che, applicando l’effetto Doppler all’emissione monocromatica di Hi, si potevano ricavare curve di rotazione estese oltre i limiti ottici degli oggetti. questo avrebbe dato modo di misurare la massa totale delle galassie invece che estrapolarla assumendo che M/L si mantenesse costante con il raggio. Per capire cosa ci si aspettava di trovare, si consideri la fig. 6. Le due curve di velocità circolare (quella necessaria all’equilibrio dinamico in assenza di moti caotici) sono state calcolate per un disco infinitamente

sottile e per una sfera assumendo che la densità superficiale di materia segua lo stesso andamento esponenziale della luce. in altre parole, i due toy model estremi riproducono le condizioni in cui M/L = costante. in entrambi i casi, a circa 2 raggi di scala dell’esponenziale cessa il regime di rotazione quasi-rigida e la velocità circolare prende a scendere al modo kepleriano. Come per i pianeti del Sistema Solare, la causa risiede nel fatto che la massa non aumenta più (in modo significativo) al crescere del raggio.

Le curve di rotazione prodotte dal gruppo statunitense di morton Roberts e quelle degli olandesi mostravano invece, dopo il turning point, un inatteso andamento piatto (fig. 7), indicativo di una rapida crescita di M/L. Di colpo le quotazioni di Zwicky salirono e le citazioni al suo lavoro del 1937 si moltiplicarono. in effetti, già da oltre trent’anni gli astronomi avevano osservato comportamenti anomali nella cinematica di alcune galassie. Per esempio, nel 1939 oort notava che “la distribuzione della massa in NGC 3115 sembra non avere alcuna relazione con quella della luce”, concludendo che “nelle regioni più esterne della nebulosa il rapporto [massa-luminosità] f risulta molto alto, e questa conclusione vale qualunque sia il modello dinamico considerato [...] Dal momento che f non può essere molto più grande di 1 per [le tipiche] stelle di [NGC 3115], esse possono rappresentare solo 1/2 per cento circa della massa; il resto deve essere costituito o da stelle nane aventi un rapporto massa-luminosità medio di 200 a 1 o altrimenti da gas e polveri interstellari”. un’osservazione preziosa, confutata però dall’influente martin Schwarzschild che nel 1954 sentenziava di non avere elementi per scartare l’ipotesi che “la massa abbia uguale distribuzione della luce”.

L’avvento dei rivelatori elettro-ottici, come gli intensificatori di immagine e i CCD, permise anche all’astronomia ottica di estendere le misure cinematiche alle flebili regioni periferiche di numerose galassie a spirale [17], e di confermare l’andamento costante della velocità circolare a grandi distanze dal centro. e così, come avevano fatto le Cefeidi con gli universi isola nel 1925, le curve di rotazione piatte convinsero la comunità degli astronomi ad assegnare completa cittadinanza scientifica alla dark matter, almeno nella forma di aloni oscuri attorno alle galassie. Passato il Rubicone, il nuovo ingrediente venne rapidamente promosso a deus ex machina di svariati fenomeni. Per esempio, secondo le pionieristiche simulazioni numeriche di Jeremy ostricker e James Peebles [18], un alone oscuro poteva spiegare perché il 50% circa delle spirali non avesse ancora sviluppato una barra nonostante l’estrema fragilità dei dischi galattici (in moto circolare e dunque dinamicamente freddi). questo modello venne poi contestato, ma sul momento causò un certo

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scalpore. L’anno dopo, i medesimi due cosmologi di Princeton, insieme a Amos yahil [19], collezionarono sufficienti evidenze per affermare che “la massa delle galassie a spirale cresce quasi linearmente con il raggio sino ad 1 mpc”, mente Jaan einasto e collaboratori [20], analizzando gli aloni galattici di gas caldo appena scoperti dal satellite uhuru, offrirono la prova dinamica che le galassie dovevano essere circondate da “corone massicce”. finalmente, il russo Leonid ozernoy [21] arguì che la massa mancante doveva essere localizzata principalmente fuori dalle galassie, nello spazio intergalattico. era l’ingresso della Dm in cosmologia, dove doveva servire a dar conto di molte cose. tra queste i processi di formazione delle strutture cosmiche, altrimenti inspiegabili solo con una materia sensibile alla pressione e pertanto incapace di far crescere le fluttuazioni primordiali [22].

fig. 7 Curva di rotazione piatta da osservazioni in Hi lungo l’asse maggiore della galassia a spirale barrata NGC 3198. Si vede come, per dar conto delle osservazioni, il puro disco barionico con M/L = costante debba essere coadiuvato da un alone di materia oscura (adattata da van Albada, t.S., et al., Ap.J., 295 (1985) 305).

fig. 6 Andamento radiale della velocità circolare (in unità arbitrarie) per un disco sottile e una sfera con densità superficiale che imita la distribuzione esponenziale della brillanza caratteristica delle galassie a spirale (M/L =cost.), confrontato con la velocità kepleriana, quando cioè la massa è ridotta a un punto centrale. La distanza dal centro è in unità della lunghezza di scala esponenziale Rd (ripreso da Binney e tremaine, Galactic Dynamics (Princeton university Press) 1988).

Per parte sua, la cosmologia stava dando un contributo essenziale alla comprensione della Dm, insinuando che “non può essere tutto oro quel che luccica!”. Vediamo di che si tratta. il modello Cosmologico Standard contiene alcuni parametri globali, fissati oggi con grande precisione dalle missioni spaziali WmAP e Planck. uno di essi, la densità totale (somma delle densità di materia e di energia), è pari alla densità critica dell’universo ρc , quella per cui la metrica è euclidea. La frazione materiale consiste presumibilmente di barioni e di materia oscura (che a sua volta può essere barionica ma anche no) e, secondo il WmAP e Planck, vale circa il 28% del totale. ora, già negli anni ’70 il modello di sintesi degli elementi leggeri (D, 3He, 4He e 7Li) elaborato nell’ambito della teoria del Big Bang caldo fissava per la densità barionica un limite intorno al 4–5% di ρc . una concentrazione maggiore di protoni e neutroni avrebbe

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pIANOinfatti compromesso la sopravvivenza del deuterio – isotopo instabile che le stelle consumano piuttosto che fabbricare – contro l’evidenza osservativa. Ne segue che il rimanente della densità di materia, pari al 25% circa, deve avere natura non barionica, e intrinsecamente oscura.

questa constatazione pone due problemi. il primo è di caratterizzare la controparte di quella frazione dei barioni che appaiono oscuri (circa il 50% del totale dei barioni), cioè che non si vedono perché troppo deboli. in gergo vengono chiamati mACHos (massive Compact Halo objects) in quanto ne sono stati osservati numerosi esemplari nell’alone della Via Lattea tramite il microlensing. Si ritiene comprendano buchi neri, stelle di neutroni, ma anche stelle nane morenti e morte. e pianeti apolidi.

La questione riguardante le particelle responsabili della consistente fetta della dark matter non barionica è più complessa e travalica l’astronomia per entrare nella sfera delle metodologie fisiche, con l’utilizzo di rilevatori terrestri o spaziali progettati per osservare la collisione della Dm con la materia ordinaria. Gli esperimenti sono tagliati sulla natura presunta dei diversi candidati proposti, una vasta categoria dei quali va sotto il nome di WimPS (particelle massicce debolmente interagenti). Se esistono e se sono stabili, esse vengono prodotte naturalmente con una densità residua coerente con quella richiesta dalla Dm. Possono essere neutralini (superpartner massicci di neutrini, provenienti dalle teorie supersimmetriche delle particelle elementari), o particelle di Kaluza-Klein (che sono stati di dimensioni superiori compattate nella teoria delle superstringhe). oltre ai WimPS, ci sono poi molti altri candidati provenienti principalmente da estensioni del modello Standard delle particelle. in generale, tre sono i tipi principali di rilevatori di Dm: gassosi o solidi, a bassa temperatura, e telescopi per neutrini. il meccanismo fisico è il trasferimento del momento necessario a produrre un rinculo rilevabile da uno strumento.

L’unico rivelatore ad aver dato un segnale positivo è DAmA/LiBRA, un gioiello montato nel Laboratori del Gran Sasso. Da lungo tempo l’esperimento restituisce un segnale consistente che tuttavia, se interpretato come diffusione elastica, parrebbe implicare masse di materia oscura e sezioni d’urto escluse da altri esperimenti. Nel gioco sono entrati anche i grandi acceleratori di particelle come il Large Hadron Collider (LHC) al CeRN. La ricerca di Dm costituisce uno degli obiettivi più prestigiosi dopo la scoperta del bosone di Higgs. oggi, gli esperimenti a LHC danno robusti limiti superiori sulla rilevazione diretta della Dm.

torniamo all’astronomia. una ventina d’anni fa venne osservata un’emissione X con temperatura record, generata da un’imponente nube di gas posta a sandwich tra due lontani ammassi di galassie. La sorgente guadagnò

rapidamente interesse come primo esempio chiaro di onda d’urto (bow shock) in un plasma intergalattico partecipe dell’interazione gravitazionale tra due agglomerati di galassie. il minore dei due ammassi, in recessione a scontro avvenuto (sostanzialmente incruento perché gli ammassi di galassie sono assimilabili a sistemi non collisionali di particelle), venne battezzato Bullet Cluster, appellativo esteso poi all’intera coppia: un “proiettile” della prima pistola fumante rintracciata nella detective story della materia oscura. Grazie all’occhio aguzzo del telescopio spaziale Hubble, furono infatti scoperte, sparse tra gli oggetti del Bullet Cluster, alcune immagini distorte di galassie remote focalizzate dal campo gravitazionale globale dei due ammassi, tramite le quali venne ricostruita la distribuzione di massa delle lenti. Risultò che nei due ammassi il grosso della materia non si vede e si disloca proprio come i barioni (fig. 8). Prova, a giudizio degli autori del lavoro [23], a favore dell’esistenza della materia oscura e contro la necessità di modificare la gravità newtoniana. Sebbene queste conclusioni, una volta esaurita l’iniziale eccitazione, siano ancora sotto il tiro dei fautori di moND nelle sue varie accezioni, esse hanno aperto la via a un’altra importante linea di ricerca riguardante la possibilità della self-interaction.

il fatto è questo. oggi esistono numerose evidenze che una parte importante della materia cosmica si trovi in una forma al di fuori del modello Standard delle particelle. Nella versione più popolare “fredda” (particelle pesanti e lente), la dark matter funziona bene a scale cosmologiche. essa spiega la formazione e crescita delle strutture cosmiche secondo un meccanismo che va dal piccolo al grande (bottom-up) e che da conto della primordiale omogeneità della materia nell’universo e dell’attuale estrema discretizzazione in galassie. tuttavia, il modello pare fallire a scale più piccole, perché alcune delle sue previsioni sono falsificate dalle osservazioni. Come quando, per esempio, pretende che al centro delle galassie la densità abbia un picco, che invece non si vede, o che il numero di satelliti della Via Lattea sia più abbondante di quanto osservato.

una scappatoia potrebbe essere l’adozione di un modello di Dm tiepida (warm): un percorso non meno irto della via vecchia, che riproporrebbe almeno in parte la necessità di una formazione top-down, per frammentazione, sovrapposta a quella bottom-up, e il ritorno dei neutrini come candidati Dm. oppure bisognerebbe ammettere che, oltre alla gravità, la dark matter abbia un’ulteriore se pur debole capacità di interagire con se stessa. ma come rendersi conto se questa auto-interazione esiste davvero? Le forze che negli acceleratori agiscono sulle particelle sono dedotte dalle collisioni (traiettorie e quantità del materiale emergente dall’urto). Per la materia oscura si possono analogamente

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utilizzare gli scontri tra ammassi di galassie. Ciò che si cerca è una imperfetta coincidenza, dopo il titanico urto, tra la distribuzione della materia oscura e quella dei barioni, che permetta di ricavare un limite superiore alla sezione d’urto dell’eventuale interazione della Dm con se medesima. La ricerca è in corso con risultati ancora contraddittori [24]. Così come procedono le titaniche imprese di affollati team internazionali impegnati a mappare gli effetti del lensing debole e le frequenze spaziali della distribuzione dei barioni (BAo: oscillazioni acustiche dei barioni) su aree di cielo sufficientemente vaste per abbattere le incertezze statistiche

e ricavare solide misure di densità della materia cosmica.

4 La somma che si vede dal totaleConcludiamo questa carrellata con qualche domanda

e risposta. La dark matter esiste? molto probabilmente sì, ma ricordiamoci della storia di Vulcano! quanto conta la sua densità media sul budget totale del cosmo? molto, ma meno di quanto si pensasse due decenni fa, quando ancora non si sapeva della dark energy. Di che è fatta? Per ora lo sa solo iddio. Com’è distribuita? ovunque, ma con singolari

fig. 8 immagine composita in falsi colori del Bullet Cluster, che mostra la localizzazione intermedia del gas ad altissima temperatura (in rosso). in blu è indicata la distribuzione della materia oscura che ben si sovrappone a quella delle galassie dei due ammassi ormai separati dopo collisione (Clowe et al., 2006; © NASA/CXC/CfA, NASA/StSci, eSo, magellan/u.Arizona).

fig. 9 La materia oscura dell’universo in una interpretazione artistica (olga Sazhina). Stelle, galassie e archi gravitazionali sono associati a misteriosi e invisibili accumuli di materia oscura che abbraccia tutto il cosmo.

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Bibliografia

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[21] L.m. ozernoi, Where is the ‘hidden’ mass, Sov. Astron., 18 (1975) 654.[22] Per una review sul ruolo della Dm nella costruzione ed evoluzione

delle strutture cosmiche, con riferimento anche alle oscillazioni acustiche dei barioni (BAo) quale metro per la Dm, si veda p.e. l’articolo di Christopher Conselice all’indirizzo: https://ned.ipac.caltech.edu/level5/March14/Conselice/Conselice_contents.html.

[23] D. Clowe et al., A Direct Empirical Proof of the Existence of Dark Matter, Astrophys. J., 648 (2006) L109.

[24] D. Harvey et al., The nongravitational interactions of dark matter in colliding galaxy clusters, Science, 347 (2015) 1462.

massimo Capacciolimassimo Capaccioli è nato in maremma. è stato ordinario di Astronomia nelle università di Padova e di Napoli federico ii, dove è attualmente emerito. Allievo di Gerard de Vaucouleurs, s’è occupato di dinamica ed evoluzione dei sistemi stellari e di cosmologia osservativa, pubblicando oltre 500 articoli. A lungo direttore dell’osservatorio di Capodimonte, ha realizzato sul Cerro Paranal in Cile, in sinergia con l’eSo, il telescopio per survey VSt. è stato Presidente della Società Astronomica italiana e della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in Napoli. Giornalista pubblicista, ha collaborato con vari quotidiani e con la RAi. è professore onorario dell’università Statale di mosca Lomonosov.

mikhail V. Sazhinmikhail V. Sazhin è nato in Russia, nella regione degli urali. è ordinario di fisica e astronomia all’osservatorio Astronomico Sternberg dell’università statale di mosca Lomonosov, dove attualmente lavora e insegna. Studente e poi collaboratore di ya. B. Zeldovich, s’è occupato di cosmologia osservativa e teorica, partecipando nel 1992 alla scoperta dell’anisotropia del CmB. Ha pubblicato oltre 300 articoli scientifici. Dal 2013 è socio straniero della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in Napoli.

olga S. Sazhinaolga S. Sazhina è nata a mosca. Ha ottenuto il Dottorato in scienze matematiche e fisiche presso l’osservatorio Astronomico Sternberg della università statale di mosca Lomonosov, dove attualmente lavora e insegna. Allieva di mikhail V. Sazhin, s’è occupata di cosmologia osservativa e teorica, pubblicando oltre 70 articoli scientifici. Nel 2002 ha vinto il premio Peter Gruber per la cosmologia riservato a giovani ricercatori, e nel 2013 il premio i. i. Shuvalov per la sua tesi di dottorato.

preferenze rispetto agli addensamenti barionici (fig. 9). è in grado di interagire con se stessa oltre la gravità? forse. Dunque non è fredda ma tiepida? Chissà! Che resta da fare? Continuare la caccia con armi più potenti: i telescopi giganti del futuro come LSSt e l’european-extremely Large telescope (e-eLt) dell’eSo per l’ottico, il nuovo telescopio spaziale della NASA JWSt e la missione spaziale euclid dell’eSo, il network

radioastronomico Square Kilometer Array (SKA), con un area equivalente di raccolta di 1 km quadrato, simulazioni cosmologiche sempre più raffinate come iLLuStRiS, grandi macchine terrestri per rivelare le particelle nere come nell’esperimento Large underground Xenon (LuX) o in LHC, e spendere sul problema le migliori menti di astronomi e fisici. il gioco è duro, ma vale la candela.