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D e d a l i Saperi e Semiotiche P a p e S a t à n, S a t à n A - l e x Satanismo e strategia di un drugo a orologeria di Marco Benoît Carbone “IT WAS THE DEVIL THAT WAS ABROAD and was like ferreting his way into like young innocent flesh, and it was the adult world that could take responsability for this with their wars and bombs and nonsense […] So we young innocent malchicks could take no blame” A Clockwork Orange

Saperi e Semiotiche...L’Arancia Meccanica è una ludolinguistica tragica-mente semi-autobiografica, un parto romanzesco che gene-ra un figlio degenere e rinnegato, un rampollo adottivo

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D e d a l i Saperi e Semiotiche

P a p e S a t à n, S a t à n A - l e x

Satanismo e strategia di un drugo a orologeria

di Marco Benoît Carbone

“IT WAS THE DEVIL THAT WAS ABROAD

and was like ferreting his way into like young innocent flesh, and it was the adult world that could take responsability for this

with their wars and bombs and nonsense […] So we young innocent malchicks could take no blame”

A Clockwork Orange

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L’Arancia Meccanica è una ludolinguistica tragica-mente semi-autobiografica, un parto romanzesco che gene-ra un figlio degenere e rinnegato, un rampollo adottivo fin troppo “autoriale”, un culto cinematico kubrickiano che sfida il rappresentabile da generazioni. È un mito d'oggi prismatico, postmoderno e mercuriale, un cono di mille violenze che inghiotte e riproietta scomposte e rimescolate, evidenti e occulte. Ed è infine un mondo possibile poroso, variamente ri-ammobiliato, e da tutti ri-ammobiliabile: fila via cinebrivido tra le nostre sinapsi, così che i lucidi tentativi di assalto logico dei più coraggiosi cedono il pas-so alle scariche di ultraviolenta empatia dei più. Il drugo, la banda, la cattiva compagnia sono il sostrato che ci ribolle in profondità, lo specchio delle nostre peggiori brame.

Opera policefala, con più di un autore e quindi priva di esso, l’Arancia Meccanica è uno spectaculum che ci tira dentro lusingandoci, aspettando che non ci si limiti ad amarlo ma lo si omaggi, citi, imiti. È un prodotto del male, dall’anomala compiutezza, un’opera che si definisce come tale proprio attraverso la sua paradossale non-finitezza, che è contraddittoria rispetto all’estremo con-trollo esercitato da chi, con i propri mezzi artistici, l’ha plasmata o ha tentato di ri-educarla dopo la “nascita”.

Di quale opera si parla, poi? Del romanzo, del film? O delle loro traduzioni e meta-testi, dell’infinito di-scorso, dell’eredità di mille e milioni di omaggi, costumi, testi, affissioni, press-play, cos-play, più o meno innocui, più o meno dangereuse? Di tutto, e niente di tutto ciò. Se esistesse la perfezione, l’Arancia Meccanica la incarnereb-be. Solo, non si tratterebbe di una perfezione intesa insul-samente, come volgare autosufficienza compiuta di un te-sto di un certo “tipo”, come solida e ben diretta intenzione di un autore su un “mezzo”, o come obsoleta illusione ro-mantica sull’identità creativamente espressa dell’individuo. Non sarebbe una perfezione come compimento-thoroughness, ma come viscosità, proteiforme apertura a che chi può aggiunga. Una perfezione “anti-autoriale”, un qualcosa privo di paternità che la richiama e reclama, privo di un senso univoco perché attende che vi si sprechi il pro-prio all’interno del suo buco senza fondo. Quella di Aran-cia Meccanica è una perfezione tentacolare, dispersa, fram-mentaria, un crocevia di trucche su cui arrovellarsi il gulli-ver e pensare di renderla, oppure in cui voler mettere le mani in pasta. Non è che non vi sia salvezza al di fuori dal testo, è che si può scegliere di non aderire alla salvezza e, invece, offrire il muso all’abisso interpretativo, lasciare che ce lo riduca in brandelli, ritornarvi dentro come detriti, come contributo da agglomerare a un corpo gravitazionale già esistente. Nel cosmo dei significati, Arancia Meccanica non è un quindi un pianeta facile da riconoscere: è un cam-po di asteroidi instabili.

È un’opera malefica. Perché induce alla tentazione della trappola biografica: e così, Burgess vi esorcizza e proietta il suo cancro tragicamente reale. È un’opera che

cresce sul suo scrittore, quasi assorbendo il tumore al cer-vello che sembra attanagliarlo per trarne sostentamento e, poi, esternalizzarsi. Da cancro interno, che causa il moto a lasciare un’eredità economica alla moglie attraverso la scrit-tura, a cancro esterno, che danna le sue intenzioni sull’ope-ra perché trascende e complica il suo imprimatur.

“ nel negare Burgess, Arancia Mecca-nica lo afferma: e forse è proprio nella

tensione centrifuga dell’opera che trae linfa mortale, o vitale metastasi, il germe del

romanzo, pronto a far portare in giro il proprio polline da altre api ”

Opera dal finale incerto, perché Burgess darà il via alle stampe alla prima edizione di quest’opera acconsenten-do al taglio del finale “moralista” suggerito dall’editore, ma successivamente – dopo l’immane successo della pelli-cola di Kubrick – ritratterà fino a ripristinare il finale nella seconda edizione del romanzo. Da quel momento in poi, avrebbe difeso sempre e comunque quella col finale più lungo, in una serie di ripensamenti e tentativi di dimostrare la sua maggiore validità.

In quella versione, che Kubrick non conobbe per-ché assente nell’edizione americana, o che proprio non vol-le considerare, Alex ripensa criticamente al suo passato e intravede il germe del cambiamento e del rientro in socie-tà.; ma la versione dell’opera che circolava era quella priva dell’ultimo capitolo, dal finale che è quindi inconcludente quanto perfetto, che non lascia scampo a moralismi. In quel finale, inizialmente tagliato, la potenza della non-conclusione era neutralizzata narrativamente col rientro “dalla finestra”, nell’ordine di una società ipocrita, di A-Lex, mina vagante pronta a essere re-incorporata nell’arse-nale dopo il giro di boa della (anti)morale al potere. Ma il vero Arancia Meccanica, con buona pace di Burgess stesso, è quello tormentoso, privo di simili chiusure e chiose. E certo non solo perchè è questo che offrirà la base per il film di Kubrick (come ricorda GREGORI).

L’Arancia Meccanica è quindi un’opera rinnegata, ma non ha bisogno di attendere il tradimento di chi la tra-ghetta da un mezzo espressivo all’altro: prende in giro il proprio autore già come istanza creativa, esponendone l’in-decisione e le psicosi letterarie. Eppure, paradossalmente, proprio nel negare Burgess Arancia Meccanica lo afferma. Forse è proprio nella sua tensione e insoddisfazione enun-ciativa che trae linfa mortale, o vitale metastasi, il germe contraddittorio del romanzo, pronto a germogliare e farsi portare in giro come polline da altre api. Ancora una volta, cedendo al biografismo: lo stupro nel mondo reale a cui assiste Burgess dall’esterno è trasformato in visione lettera-ria e si fa interno nei confronti di chi lo esorcizzava, an-

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dando contro le sue intenzioni moralistiche da fuori, quan-do l’opera torna nel mondo e Burgess si troverà a difender-la, a recintarne inutilmente il significato, a tirarla fuori dal-le critiche di incitamento alla violenza che istiga e richiama a sé. Burgess avrebbe rivendicato, contro il vero spirito del suo stesso libro, un presunto intento illustrativo, catartico, morale, che si sarebbe espresso nel finale troncato e che invece, con buona pace dello scrittore, l’Arancia non espri-me affatto. Quel finale, rivendicato dal Burgess del ripen-samento, suona infatti come una posticcia appendice, e la sua morale non si ricollega a un convincente filo rosso che dovrebbe riuscire a convincerci di una soluzione al dram-ma della violenza e del peccato originale dell’umanità, po-sta la possibilità del suo libero arbitrio.

C’è del resto un manicheismo apertamente ammes-so in Burgess quando riflette sull’attività dello scrittore, e proietta l’istanza del raccontare sulla propria psicologia. A suo dire, ci sarebbe un ché di necessariamente manicheo in ogni narratore, e questa disposizione si rivelerrebbe come una vera e propria esigenza per l’attività narrativa.

“ fuori dal ghetto estetizzante in cui è relegato il satanismo, verso un suo

snodo più interno, potremmo forse trovare in Arancia Meccanica uno

specchio delle illusioni e dei paradossi dell’individualismo, un paracadute

contro la caduta nel pentolone del posticcio individualismo di massa ”

Ma che la questione si riveli interessante o meno ai fini di un’analisi dell’enunciazione, resta il fatto che il mo-tore narrativo di Burgess finisce col dare lo scacco al pessi-mismo parodistico in cui spererebbe di portare la morale della fiaba o, meglio, per rientrare nel labirinto invece che fornirci le chiavi di uscita. Dietro all’assiologia che Burgess tenta di dipanare con le cronache in prima persona di un drugo si celano i suoi drammi intellettuali e teologici irri-solti: quello del libero arbitrio nella cultura protestante, della non-dottrina anarchica, del pensiero del politico e del sostrato tragicamente etologico prima ancora che etico del comportamento dell’individuo. La sua morale è affidata a un ciclo di fasi pelagiane-agostiniane in cui si alternano la fiducia nel progresso umano incondizionato e la sfiducia nei confronti di una natura data come contaminata sin dal-la sua genesi (confronta a proposito di questo il saggio di Laura Matiz su questo numero di Gorgòn).

Ma Burgess non sorride di fronte a una tale alter-nanza tra un umanesimo esaltato dalle sue possibilità inte-grali e uno invece sfiduciato nella constatazione della sua

irreparabile anomia: se non esiste come coscienza interna al romanzo, al di fuori si dibatte dolorosamente in questo ciclo. Se il giudizio morale è insito nel modo in cui Bur-gess preferiva riferirsi alla sua opera, parlando di una caco-topia, il meccanismo di Arancia Meccanica non produce che un’archetipica distinzione tra un potere paternalistico e una serie di individualità puramente onanistiche, per finire poi nel corto circuito. In questo labirinto non v’è da pensa-re, come lo stesso Burgess tenta di fare in seconda battuta, una comoda uscita attraverso il filo di una rassicurante morale, più o meno borghese. E poco importano i tentativi di contraddire le proprie scelte iniziali, attuate in accordo con l’editore.

I carteggi epistolari, come riferisce (ÀBISWELL), parlano chiaro. L’ultimo, edulcorante, superfluo capitolo di Arancia Meccanica, famigerato perchè eliminato dalla prima edizione e che avrebbe dovuto incorniciare l’opera in una specie di parabola morale, non ha mai assunto grossa rilevanza per Burgess inizialmente. La sua importanza sa-rebbe stata ingigantita a posteriori. È in questo senso che, per fortuna di tutti, il testo ignora i ripensamenti del pro-prio autore, si presta alla propria capacità autonoma di dialogare e istigare, rimbalza via sbarrando la via che ci farebbe scappare, sconfitti ma salvi, dal labirinto. Produce, nelle parole di (GREGORI), una “involontaria parodia di una distopia critica”. Opera parricida, allora. Romanzo degenere, dalla morale schizofrenica, opera bastarda perché malamente recisa dal cordone, sottratta alla crescita morale sperata e pronta a trovarsi pessime compagnie. Del padre-padrone il testo si sbarazza. Non è il soggetto a produrre il testo, ma il suo incontro con le condizioni di esistenza del testo che, una volta ottenutolo, contraddiranno l’autore. Arancia Meccanica si presenta a Burgess, lo usa come una larva di cui si nutre, come una serpe in seno. E poi va via, gli servi-vano nuove e peggiori compagnie. Come quella di Stanley Kubrick, padre adottivo che non si fa alcun rimorso sull’e-liminazione del capitolo moralistico. Kubrick alleverà la bestia aiutandola a liberarsi della vecchia pelle, plasmando-la in una nuova e più aggressiva forma cinematografica, senza negarne lo spirito ludolinguistico ma piegandolo a un turbinio diverso, rileggendo il testo e sostituendo la ritmica linguistica con la danza visiva e musicale, la neb-biolina del nadsat con quella dello straniamento ironico, iperbolico della violenza. Film-puttana, opera tentacolare perché immaginario collettivo, linguisticamente ibrida, fatta di arti ed epoche favolosamente impiastricciate, Aran-cia Meccanica rinnega il padre per il patrigno, istiga l’invi-dia e il ripensamento del primo, dona più soddisfazioni al secondo con la sua riuscita messa in scena di un drugo il cui principio di piacere è, nelle parole di (CREMONINI), “una miscela iperbolica di oscenità e immaturità”. Opera, infine, satanista. E non solo perché parricida, e quindi anti-autoritaria e fondata sulla rivendicazione di

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un valore al grado zero. E non tanto perché sfida il rappre-sentabile da decenni e si offre come il più immediato dei profeti, radunando insieme i saggi insieme agli stolti e con-tinuando a offrirsi a muso duro contro le pietrate di chi cerca un capro espiatorio per i propri valori morali, censo-ri, politici, linguistici, cinematografici. Ma soprattutto per-ché invece di andare a parole oltre il bene e il male si con-torce nel suo stesso labirinto, istigando interpretazioni che si mordono la coda. Cosa proteiforme che, a prescindere dalla forma di libro, film o discorso, esalta il soggetto e, per implicazione logica, lo spinge a fare il contrario di quel che vuole l’altro, ad andargli contro. Così tanto da diventa-re da opera che ami a opera che odi pure, perché conquista il vicino di cui faresti a meno. Opera di antagonismo, e quindi di satanismo. A-spetto su cui è necessario operare delle irrinunciabili preci-sazioni perché il satanismo, in chi l’ha saputo interpretare, ha sempre rifuggito le troppo scontate coppie oppositive e non ha mai davvero avuto a che vedere con lo scontro ba-nalmente inteso tra un bene a un male cattolici, metafisici o reificati in una qualche entità ultraterrena. L’assenza di una finalità ultima nel satanismo è tale che Satana assurge a gratuita metafora, dall’innegabile e sempre valido fascino, per conte-stare i malefici meccanismi del bene assolutizzato e dei suoi assiomi. Gli esseri del resto si incontrano nel male, mentre nel bene appare il germe della loro distruzione, la promessa della nullità delle gabbie del telos. D’al-tro canto, in quest’epoca di satanismi plastificati, in cui la massa blatera la pro-pria totale e inutile libertà, ci resta soltanto la possibili-tà di iscrivere l’Arancia Mecca-nica e il drugo Alex nei gironi di un rinnovato satanismo letterario in cui la libertà dell’Io è più pro-blematica che catartica. Fuori dal ghetto estetizzante in cui è relegato il satanismo, e verso un suo snodo più interno, potremmo forse

trovare in Arancia Meccanica uno specchio letterario e cinematografico delle illusioni e dei paradossi dell’indivi-dualismo, qualcosa che possa salvarci dalla caduta nel pen-tolone del posticcio individualismo di massa. Perché è vero come dice (PRAZ) che “una volta lanciata una moda, i più ne imitano gli aspetti esterni senza rendersi conto dello spirito che l’ha originata”. Perchè se il satanismo è materia di libertà dell’indi-viduo, Arancia Meccanica è un’opera innegabilmente sata-nista e A-Lex ne è la pietra angolare. Ma se Satana non è che uno dei nomi, delle accezioni o delle metafore del Ma-le, saremo forse costretti ad allargare il campo. Il parados-so è questo: o accettiamo che l’unica accezione possibile sia quella dell’antagonismo assoluto, e interpretiamo Satana come somma metafora deuteragonista, incorporando A-Lex in questo modello, oppure è fuor di dubbio che sia Satana che l’Io dovrebbero essere riconsiderati sotto una luce che ne metta in risalto alcune implicazioni paradossali.

Ora, che l’Io sia morto non è una novità. E non solo in materia di enunciazione, o per le discipline che hanno visto nella sua contestazione un modo per fare evol-vere e non arrovellare intorno alla mitologia e alla biografia il discorso intorno a come nascono le opere. Il pensiero

occidentale meno chiassoso e più profondo ci aveva avvertito già decenni fa, quando il virus dell’indi-vidualismo esasperato non ardeva che in pochi focolai. Roger Caillois ci aveva già ammonito su questa questione in (CAILLOIS/LEVI-STRAUSS), in tempi in cui la pressione della popolazione

umana sull’illusione egoistica era molto mi-nore. Eppure, già ci si domandava se non si

fosse ormai privi di quella distanza che lascia gli esseri “lo spazio di manovra e la facoltà di inventarsi ciascuno una condot-

ta” (ibidem) non derivata, contami-nata, svuotata. Si doveva forse, già da allora, evitare di attribui-

re privilegi al soggetto umano, o meglio “l’inutile lusso” di un io

inconsistente. Perché oggi la nausea della civiltà ci costringe a buttare fuo-

ri dalla finestra il soggetto non appe-na interviene il solo sospetto di

un’intossicazione egocentrica.

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Ma Satana non se la passa meglio. Perché è vero che la riflessione demoniaca dell’arte contemporanea si situa nell’orizzonte di insicurezza dell’uomo moderno; ed è vero che, con la morte di Dio, cessa effettivamente la descrizio-ne del demonio tipica del bestiario medievale, che cede il posto a un demonio del caotico, del dramma individuali-sta; il quale, come ci insegna (PRAZ), trova nel satanismo letterario una matrice privilegiata in Milton e Sade, per innestarsi poi, tra gli altri, in una serie di rimescolamenti, negli Inni di Leopardi e Carducci. Ma è anche vero che non si è poi mai andati molto oltre nell’interpretare, rac-contare o tentare di scimmiottare nella vita questo modello letterario, i cui abusi – come anche i travasi indebiti in al-tre forme di rappresentazione - dovrebbero essere messi in discussione.

Né basta più, forse, la felice contrapposizione che Roger Caillois, leggendo gli sviluppi dell'anti-eroe ribelle letterario, istituiva tra l’abusato romanticismo titanico di Satana e la strategia lucida di un Lucifero stratega, che in-carnerebbe un sentimento strategico del soggetto. Il Luci-fero di (CAILLOIS) è “Satana in azione”: razionale, calcola-tore, mosso dalla capacità di godere dei frutti più maturi e dolci dell’affermazione invece che degli slanci più acerbi. E non negherebbe quindi un settario snobismo, una Sehnsucht di sette e società segrete che animava il Collège in discorsi su comunità elettive, su minoranze intellettualmente armate in cui l’individuo non si negava nella sua banalizzante affermazione.

Questo modello Satana-Lucifero va però portato all’estremo, o ri-azzerato. Riconosciuta l’obsolescenza del tema dell’individualismo titanico, scomparso il sogno della "minoranza militante" dei primi ideali del College, volga-rizzato all’inverosimile l’individualismo in un’epoca di tra-sgressioni normative e posture posticce, non ci rimane for-se null’altro che il ritorno alla corda tesa tra la parole del-l’infante e la langue dell’accordo semantico. Che è poi, for-se, il carashow di A-lèx, il suo manifesto sui limiti del sata-nismo così felicemente privo degli stilemi del genere da riuscire ciclicamente a rifrangersi come una vertigine tra attanti e spettatori, tra manipolati e manipolatori. La pro-va? Il più elementare e insospettato dei poteri, quello tele-visivo e delle vecchie logiche del visibile nel palinsesto, bullett-tiranno di generazioni di teledipendenti, ha sempre tenuto fuori Arancia Meccanica, opera filmica vietata la cui prima, vera proiezione televisiva è avvenuta recentemente, dopo una trentina d’anni dalla sua uscita nelle sale.

A-Lex era un nuovo tipo di maudit, favolosamente privo delle caratteristiche psicologiche che condannano l’intera storia del satanismo letterario al fallimento nella masturbazione intellettuale o nel risciacquo dei suoi più banali attorucoli. Arancia Meccanica è del resto ancora opera vietata perché istigatrice. A-lèx è l’anti-eroe che diva-rica l'utopia e la distopia, il cerebrum caotico di un con-tratto sociale schizofrenico. La pietra angolare, e amorale,

del non-superamento tra anarchia e ordine sociale. Il punto in cui tutti gli egoismi si bilanciano dolorosamente. Il più volgare degli "io voglio", il più infantilistico tra i dadaismi ferini, la più radicale distopia dell'annullamento di ogni contratto sociale si trasferiscono bruscamente per suo tra-mite sul piano complesso della strategia, della sopraffazio-ne per sede socialmente differita. Da leader brutalizzatore dalla pragmatica ludica, antipolitica e antisociale a vittima del suo stesso, inconsapevole complotto, da infante onni-potente a larva pavloviana, A-lèx scorrazza o si contorce letale e vulnerabile sbrindellando il mito delle progressive sorti dell’animale politikòn in quanto la sua scalata ai pri-mi stadi del superomismo è solo apparentemente dotata dei suoi presupposti e conosce una battuta d’arresto pre-matura, ma intanto inizia, pericolosa e seducente, naïve e demoniaca.

Siamo davvero tentati di seguire bie-camente alla lettera il do what thou wilt? A-Lex è un maudit così naïve da affascinarci come l’accezione più radicale del male?

Il Nadsat, il gergo dei drughi, è la più evidente pietra di volta ambigua, idiosincratica e deformante che si erge tra l’io e la società connotando l’animale A-Lex. È, come ricorda (GREGORI) il dialetto delle tribù, “una spe-cie di lallazione” che si distacca dall’uso condizionato del linguaggio per avvicinarsi all’appercezione immediata, all’-onomatopea, al babytalk più ingenuo, “ricoprendo e fil-trando la violenza sotto una coltre di candore” (ibidem).

La sirena di Burgess conduce dentro al meccani-smo che associa violenza e creatività distruttrice, libera ma meccanica proprio perché libera da obiettivi, sganciata da un orizzonte condiviso o etico. E il vero motore dell’Aran-cia Meccanica è proprio questo concretissimo, meraviglio-so pericolo: quello che dietro al subliminale richiamo alle armi, al non dichiarato inno al puro egocentrismo armato si celino un’idea così al grado zero, un nucleo dal tale ri-schio archetipico, un’opposizione così fondamentale, un richiamo così primigenio che il loro germe, attraverso i mezzi della rappresentazione, germogli. Certo, come ricor-da (BOTTIROLI), bisogna sempre restituire alla famigerata dicotomia Natura-Cultura la complessità che le compete, visto che l’equazione <<A- privativa sta alla Lex come il Soggetto sta alla Società>> è una vieta semplificazione. Il soggetto è un’idea debole, la natura un difficile noumeno. Ossimoro che sembra assumere la contraddizione di Natura e Cultura nello stesso titolo, Arancia Meccanica getta la sua fune che ci porterebbe ben oltre l’adorazione estetica per quel mondo possibile, offrendoci la mela proi-bita del transito dalla pura immaginazione al mondo “reale”, dalla letteratura alla vita. Il ponte verso la “traduzione dell’immaginazione” in una vita esteriore

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“leggendaria” di (CAILLOIS), o verso il suo incubo specula-re. L’incubo reso possibile da quel sostrato, che (LEVI) tra gli altri ritenne del tutto pre-culturale, che spinge l’uomo, per istinto di naturale sanità, a essere anche razzista, vio-lento e insensibile, in ragione di un puro e semplice princi-pium di identità alla base della distinzione dall’altro. La volontà di conoscenza diventerebbe allora, come ammoni-sce (PORRO), una volontà di potenza soltanto per una ver-tiginosa e irresponsabile lettura nel linguaggio della violen-za, nutrendosi di una pulsione più lontana dalla visione a tabula rasa del soggetto di quanto vorrebbe qualunque dottrina sbilanciata sull’influenza della cultura sul compor-tamento? Forse, o forse non si darebbe il ritorno del cer-vello del rettile o del predatore, ma di un essere a loro im-parentato, diverso, che li sussume bene entrambi: l’uomo. La questione dell’effetto della violenza dei media sul sog-getto cinematografico è davvero obsoleta e triviale?

Siamo davvero tentati di seguire biecamente alla lettera il do what thou wilt? A-Lex corrisponde a un tipo diverso di maudit, così naïve da rischiare di non esserlo e quindi di rientrare nella accezione più radicale del male? Anche Sata-na è morto insieme a dio? Sia come sia, Arancia Meccanica forse è meglio non veder-lo o leggerlo, è meglio vietarlo. Bruciarne le copie stampate e le magliette, spezzare i dischi ottici. Cancellarlo dalla memoria digitale. Fare sì che diventi una visione o una let-tura proibita per restituire ai pochi che potranno conqui-starlo l’illusione di farne parte. Ché nell’inflazione del cul-to del sé, che è uno dei peggiori inferni concepibili, la solu-zione di andare alla ricerca di vittime volontarie, che era solito proporre Bataille al Collège di Sociologia, è di diffi-cile soddisfazione. Non ci rimarrebbe allora che prendere alla lettera il consiglio di Breton, uscendo di casa e sparan-do completamente alla cieca.

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L e t t u r e U l t e r i o r i

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