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SALA VERDI DEL CONSERVATORIO Orchestra of the Age of Enlightenment Matthew Truscott direttore Isabelle Faust violino Haydn - Sinfonia n. 49 in fa minore “La Passione” Hob.I.49 Mozart - Concerto n. 1 in si bemolle maggiore K 207 C.P.E. Bach - Sinfonia n. 1 in sol maggiore Wq 182/1 Mozart - Concerto n. 5 in la maggiore K 219 21 Giovedì 20 aprile 2017, ore 20.30

SALA VERDI DEL CONSERVATORIO Orchestra of the Age of ... · l Anno di composizione: 1768 L’autografo della Sinfonia in fa minore, ... finale della Nona di Beethoven, erano forse

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SALA VERDI DEL CONSERVATORIO

Orchestra of the Age of EnlightenmentMatthew Truscottdirettore

Isabelle Faustviolino

Haydn - Sinfonia n. 49 in fa minore “La Passione” Hob.I.49Mozart - Concerto n. 1 in si bemolle maggiore K 207

C.P.E. Bach - Sinfonia n. 1 in sol maggiore Wq 182/1Mozart - Concerto n. 5 in la maggiore K 219

21Giovedì 20 aprile 2017, ore 20.30

Di turnoMarco Magnifico Fracaro Antonio Magnocavallo

Direttore artisticoPaolo Arcà

Con il contributo e il patrocinio di

5 minuti prima di ascoltare: Gaia Varon

Franz Joseph Haydn(Rohrau 1732 - Vienna 1809)

Sinfonia n. 49 in fa minore “La Passione” Hob.I.49 (ca. 21’)I. Adagio II. Allegro di molto III. Menuet - Trio IV. Finale. Presto

l Anno di composizione: 1768

L’autografo della Sinfonia in fa minore, conservato nella Biblioteca dell’Acca-demia reale di musica di Stoccolma, reca la data del 1768. È una delle poche notizie certe sui primi anni di Haydn, che con questo lavoro ritorna a scrivere sinfonie dopo un intervallo di quasi due anni. La nomina a Kapellmeister del principe Esterházy nel 1766 gli aveva infatti permesso di dedicarsi finalmente alla musica sacra, un genere fino ad allora precluso allo scalpitante vice-diret-tore dalle prerogative del vecchio maestro di cappella Gregor Werner. Haydn torna dunque a scrivere musica strumentale per l’orchestra con un lavoro nella cupa tonalità di fa minore, in sintonia con gli umori espressionisti serpeggianti nella cultura tedesca del secondo Settecento che prenderanno il nome in segui-to di Sturm und Drang. Il titolo “La Passione” è quasi certamente spurio, e si trova solo in una tarda fonte del 1790, lontana geograficamente e anche ideal-mente dal mondo di Haydn. Più interessante invece è il ritrovamento, in una miscellanea di parti d’orchestra conservata a Vienna, di un manoscritto del basso continuo della Sinfonia recante l’iscrizione “nel suo antusiasmo [sic] il Quakuo di bel’humore”. La scritta si riferisce a una commedia in un atto dello scrittore francese Sébastien-Roch Nicolas de Chamfort, La jeune Indienne, rappresentata a Salisburgo nel 1776, e quasi certamente anche nel teatrino di corte degli Esterházy. La commedia, conosciuta in tedesco con il titolo alterna-tivo di Der Quäker, era piaciuta sia a Voltaire, sia a Rousseau, anche in virtù del tema trattato, il mito del buon selvaggio. Non era la prima volta che Haydn adattava la sua musica sinfonica per gli spettacoli della famosa compagnia di Karl Wahr, più volte ospite degli Esterházy. Questo rapporto con il teatro mette in luce l’evoluzione del linguaggio strumentale di Haydn verso una retorica degli affetti più complessa e strutturata. Dal punto di vista formale, la Sinfonia in fa minore mostra una caratteristica eccentrica, con lo spostamento del tempo lento all’inizio della composizione. Il linguaggio invece si lega alla ricerca già ben avviata di una forte coesione temati-ca tra i diversi movimenti, che si sviluppano a partire da una stessa cellula melo-dica di tre note (do-re bemolle-si bemolle), sottoposta a una costante metamorfo-si ritmica e morfologica. Anche l’uniforme sfondo armonico di fa minore che avvolge i quattro movimenti, rotto solo dal bucolico “Trio” in fa maggiore del “Menuet”, rende la Sinfonia più compatta e come scolpita in un unico blocco.

Wolfgang Amadeus Mozart (Salisburgo 1756 - Vienna 1791)

Concerto n. 1 in si bemolle maggiore K 207 (ca. 23’)(cadenza di Andreas Staier)I. Allegro moderato II. Adagio III. Presto

l Anno di composizione: 1773l Anno di pubblicazione: Offenbach am Main, 1870

Il 9 ottobre 1777 Leopold Mozart scrive al suo “très cher Fils”, che si trovava ad Augusta in viaggio verso Parigi: « Quando eri a Monaco, non ti sei esercitato sul violino? Questo mi farebbe molto dispiacere: Brunetti adesso ti loda in maniera sbalorditiva! Ultimamente gli ho detto che tu suonavi anche il violino bassabilmente, al che ha gridato: Cosa? Cazo? se suonava tutto! questo era del Principe un puntiglio mal inteso, col suo proprio dano». Antonio Brunetti era un virtuoso italiano che il Colloredo aveva voluto ingaggiare come primo violino dell’orchestra al posto di Mozart con grave scorno di Leopold, che avrebbe voluto una carriera sicura per il figlio a Salisburgo. In realtà Mozart non voleva saperne di passare la vita in mezzo a musicisti di second’ordine, anche se il padre cercava di lusingarlo scrivendogli in un’altra lettera: «Se solo tu facessi giustizia a te stesso e suonassi con baldanza, spirito e fuoco, saresti il più gran-de violinista d’Europa!». Il violino incarnava in quel momento agli occhi di Mozart tutto quello da cui desiderava fuggire, Salisburgo e la protettiva ma ingombrante tutela del padre. Lo strumento tuttavia era stato anche il suo primo amore musicale, fin da quando, da bambino, faceva i capricci per suonare i quartetti insieme ai grandi, lasciando sbalorditi Leopold e i suoi amici per la precisione e il carattere del suo modo di suonare. Le tracce di questo antico amore per il violino sono sparse in numerosi lavori, magari sotto forma di asso-li all’interno di musiche d’occasione come divertimenti e serenate oppure come accompagnamento obbligato di arie per cantanti. La testimonianza più importante del rapporto tra Mozart e il violino rimangono tuttavia i 5 Concerti scritti a Salisburgo tra il 1773 e il 1775, di cui nel program-ma di stasera vengono eseguiti il primo e l’ultimo. L’autografo del Concerto in si bemolle maggiore K 207 riporta in realtà la data del 14 aprile 1775, ma le ultime due cifre dell’anno sono state cancellate e riscritte più volte. Gli studiosi ritengono infatti che il lavoro sia stato scritto almeno un paio d’anni prima del Concerto in la maggiore K 219, che chiude la serie con un notevole balzo in avanti dal punto di vista stilistico e formale. Non è chiaro se i Concerti siano stati composti per sé o per Brunetti, ma per nessuno di loro sono sopravvissute delle cadenze, che per tradizione venivano affidate ai solisti. La rivalità con Brunetti tuttavia era sofferta più da Leopold che da Wolfgang, il quale non si

curava di competere con il violinista italiano, tanto da cedere a lui un paio d’an-ni dopo la parte del violino, tenendo per sé quella della viola, nella Sinfonia concertante K 364, una sorta di toccante congedo dallo strumento della sua gio-ventù.Il Concerto K 207 è chiaramente modellato sul tipo del concerto grosso barocco. Le dinamiche sono fissate nello stereotipo formale del contrasto a terrazze tra piano e forte, così come il dialogo tra solista e orchestra segue il cliché del fra-seggio a fasi alterne tra solo e tutti. I colori dell’orchestra sono limitati a oboi e corni, che rinforzano il tessuto armonico degli archi. La bellezza del Concerto è racchiusa in gran parte nello splendido “Adagio” in mi bemolle maggiore, un’in-cantevole melodia del violino soffusa di un lirismo melanconico. A differenza degli altri Concerti, il K 207 ha come finale una forma sonata e non un rondò, che forse in origine era il K 269, poi sostituito con il “Presto” attuale. L’energico e tambureggiante movimento chiude il Concerto nel segno della rapidità e con un guizzo di umorismo da commedia. Ben diverso invece è l’ultimo Concerto per violino sicuramente scritto da Mozart, quello in la maggiore K 219. La sua popolarità non deriva solo dal fatto di essere il più imponente e dal rondò alla turca finale, una venatura di orienta-lismo che non ha mai mancato di fare presa sul pubblico, ma anche in virtù di una forma più originale e movimentata rispetto agli altri. La natura teatrale del Concerto viene a galla già dall’indicazione espressiva del primo movimento, “Allegro aperto”, un aggettivo raro nella sua musica strumentale ma più fre-quente nelle partiture d’opera. Le sorprese infatti non mancano, a partire dal tenero “Adagio” con cui il solista si presenta in scena, al termine della fervente esposizione dell’orchestra. Mozart non si cura di conservare le idee del-l’“Adagio”, così come non esita a elargire al solista un materiale melodico com-pletamente nuovo per la sua esposizione, retrocedendo quello dell’orchestra a mero accompagnamento. La parte del violino è talmente ricca di umori, di gesti drammatici, di arte retorica che è impossibile non immaginare una rappresen-tazione operistica, in cui il solista incarna di volta in volta dialoghi amorosi e contrasti appassionati. La dolce cantilena dell’“Adagio” successivo in mi mag-giore evoca invece la perlacea lucentezza di un lago illuminato dal chiaro di luna. Violino e orchestra si scambiano i sospiri e le melodie, irrorate da una linfa armonica sempre leggermente cangiante. La bellezza di questo “Adagio canta-bile” è arricchita da qualche tocco di contrappunto, come l’ultimo ritorno del tema in canone tra il solista e l’orchestra. Un Concerto così teatrale non poteva chiudersi che con un finale spettacolare. Il “Rondeau” inizia con un galante minuetto intonato dal violino. Il primo cou-plet è di carattere gioioso, mentre il secondo mette in luce un lato più oscuro e drammatico, che conduce verso uno sbocco imprevedibile. Dopo il terzo ritor-nello infatti inizia una marcia esotica e minacciosa, che si trasforma presto in una vera e propria banda militare turca. Mozart imita il suono percussivo dei tamburi, facendo suonare violoncelli e contrabbassi con l’archetto alla rovescia,

ovvero battendo le corde con il legno anziché con i crini. Questo genere di cari-cature, sparse dovunque nella musica del periodo classico fino a culminare nel finale della Nona di Beethoven, erano forse una maniera di scongiurare il peri-colo di un’aggressione del mondo musulmano, che premeva sempre sul confine meridionale dell’Impero. La tonalità di la minore e il timbro scuro della quarta corda del violino suggeriscono che il ricordo dell’assedio di Vienna non era ancora svanito nelle impaurite fantasie dei sudditi di Maria Teresa. Il ritornello del minuetto riporta la luce serena dell’inizio, mentre il violino chiude con un’elegante riverenza l’ultima fatica del neghittoso Mozart violinista.

Carl Philipp Emanuel Bach(Weimar 1714 - Amburgo 1788)

Sinfonia n. 1 in sol maggiore Wq 182/1 (ca. 11’)I. Allegro di molto II. Poco adagio III. Presto

l Anno di composizione: 1773l Anno di pubblicazione: Offenbach am Main, 1870

In una lettera del 1784, Carl Philipp Emanuel Bach, ormai anziano e con vasta esperienza del mondo musicale, offriva preziosi consigli al giovane collega Johann Christoph Kühnau: «Nei lavori destinati alla pubblicazione, cioè per tutti, sia meno artistico e ci metta più zucchero… Nelle cose invece che non devono essere stampate, lasci correre liberamente il suo ingegno». Per Bach esisteva una netta discrepanza tra la maniera di scrivere per intrattenere il pubblico e i lavori com-posti secondo seri principî artistici, che solo una ristretta cerchia di conoscitori era in grado di comprendere e apprezzare. Tra questi figurava anche il barone Gottfried van Swieten, che nei primi anni Settanta aveva conosciuto a Berlino la musica di Bach e se n’era innamorato. Nel 1773 commissiona a Bach un gruppo di sinfonie, destinate a un uso privato e quindi libere di spaziare con la fantasia nelle regioni più ardite dell’armonia e del linguaggio strumentale. Non ci sono documenti che attestino un rapporto diretto tra i due uomini, ma sta di fatto che a partire da quest’epoca Swieten diventa un attivo sostenitore di Bach e favorisce la diffusione della sua musica anche a Vienna. Ai primi dell’Ottocento, il violinista Johann Friedrich Reichardt ricordava come Swieten avesse espressamente richiesto Sinfonie scritte con la massima libertà, “senza curarsi delle difficoltà esecutive per gli interpreti”. Questo gusto per la musica “seria” e “difficile”, divi-so con altri mecenati e connoisseur del tempo, come la famosa Sara Levy di Berlino, zia di Felix Mendelssohn, corrispondeva in pieno alla sensibilità di Bach, che coltivava la memoria della musica del padre in un mondo che prediligeva di gran lunga le leggerezze e i vaporosi sbuffi del Rococò.

Il gruppo delle Sinfonie per Swieten, numerate dal belga Alfred Wotquenne come 182, sono rimaste semisconosciute per tutto l’Ottocento, probabilmente a causa di questo marcato carattere di serietà artistica, tanto che il musicologo Hugo Riemann le pubblicò nel 1897 come Quartetti, ignorando che si trattava di Sinfonie per strumenti ad arco. Una copia manoscritta si trovava anche nella biblioteca della Singakademie di Berlino, diretta da Carl Zelter, che ne aveva fatto la spina dorsale del repertorio dell’orchestra amatoriale che affiancava l’attività del coro. Mendelssohn, allievo di Zelter, ha sicuramente avuto pre-sente il modello di Bach per comporre le sue Sinfonie per archi giovanili. La prima Sinfonia in sol maggiore mette in luce subito il carattere originale della scrittura di Bach. I tre movimenti sono collegati attraverso delle cadenze sos-pese armonicamente, che rivelano la natura aperta della forma. Il primo movi-mento infatti termina su un accordo tenuto di dominante nella remota tonalità, rispetto al sol maggiore iniziale, di mi maggiore, nel quale si sviluppa il “Poco adagio” successivo. Lo stesso avviene prima del “Presto” finale, preparato da un’espressiva cadenza che non chiude la forma. Lo stile della scrittura è altret-tanto frenetico e umbratile, dal punto di vista armonico, con improvvisi scarti ritmici e colpi d’arco tambureggianti. L’orchestra è costantemente spazzata da un vento impetuoso, che fa oscillare le dinamiche fino ai lati estremi del piano e del forte. Bach, fedele all’insegnamento contrappuntistico del grande genitore, basa la forma sul principio dell’elaborazione tematica, prendendo spunto da idee e motivi ritmici elementari. Il primo movimento è particolarmente ricco di idee, che vengono sviluppate in maniera molto libera dal punto di vista armo-nico e con una scrittura brillante e virtuosistica per i violini. Il “Poco adagio”, infarcito di abbellimenti, ha un andamento un po’ solenne e pomposo, mentre il “Presto” finale chiude con una graziosa e spumeggiante giga un lavoro scritto da Bach “meramente per sé”.

Wolfgang Amadeus Mozart

Concerto n. 5 in la maggiore K 219 (ca. 29’)(cadenza di Andreas Staier)I. Allegro aperto - Adagio - Allegro aperto II. Adagio III. Rondeau. Tempo di Menuetto - Allegro - Tempo di Menuetto

l Anno di composizione: 1775

Vedi commento a pag. 5

Oreste Bossini

L’artificio si fa natura, l’accademia salotto: il Settecento galante

“Ah! Mia Julie! Che ho mai sentito? Che suoni commoventi! Che musica! Che fonte deliziosa di sentimenti e di piaceri!” (Jean-Jacques Rousseau, Julie ou la nouvelle Hélöise, 1761). Se è la Francia illuminista, con i suoi philosophes e le sue querelles, a ragionare sopra una concezione rivisitata e ideale della musica, sono i musicisti a mettere in pratica le nuove regole del fare musica. Leggerezza, scorrevolezza, sponta-neità, naturalezza, leggibilità, buon gusto: queste le parole d’ordine del nuovo stile che Johann Mattheson battezza nel 1713 “galante” e che viene elaborato contestualmente alla sua teorizzazione. La musica si afferma come arte creati-va, non più scienza costruttiva: secondo la divisione del sapere sancita nell’Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, essa viene traghettata dal Quadrivium medievale per approdare alla sezione della Imagination.Un’opera come l’Arte della Fuga di bachiana memoria non può che apparire ostica e artificiosa al rinnovato orecchio settecentesco: sarà sempre Rousseau nel suo Dictionnaire de musique (1767) a precisare che la fuga piuttosto che melodie gradevoli produce, alla fine, soprattutto “du bruit”, del rumore fastidio-so per l’orecchio. Il contrappunto – tecnica secolare nella storia della musica – non scompare nel Settecento bensì viene addomesticato dalla nuova generazio-ne di musicisti, con il ricorso a una scrittura sfoltita e meno complessa, che avvantaggia la chiarezza melodica.“L’esecuzione scorreva senza sforzo con un’incantevole facilità” commenta ancora Rousseau in uno dei passaggi del suo romanzo epistolare Julie… La musica è da porgere con grazia e misura, come in una conversazione fra gentiluomini. E gli strumenti musicali sono i veicoli di questo “garbato” dialogo che non è più appannaggio esclusivo delle corti, ma anche dei salotti nobili o borghesi, figli di questa epoca. Rispondendo a tali esigenze, gli editori musicali offrono sia al conoscitore di musica che al dilettante un repertorio adatto alle proprie possibilità esecutive; i cataloghi editoriali classificano i titoli delle com-posizioni in base alla difficoltà, includendo musiche per esecutori “abili e non abili”.Il fine ultimo di chi suona non è più l’esclusivo sfoggio di virtuosismo bensì “l’interpretare veramente e commuovere”, di “comunicare al cuore, parlando all’immaginazione”: così scrive Carl Philipp Emanuel Bach nel suo “saggio di metodo” sulla tastiera (Versuch über die wahre Art das Klavier zu spielen, Berlino 1753) sottolineando quanto il linguaggio dei suoni possa rispecchiare l’intensità e la varietà del sentire umano.

Dei tre autori in programma, Carl Philipp Emanuel Bach è forse quello che, in forza del suo stesso cognome, può meglio simboleggiare la portata della piccola grande rivoluzione estetica che lo stile galante, ramo deviante del barocco, apporta nel linguaggio musicale, soprattutto dal punto di vista della ricerca espressiva e interpretativa.Egli scrive, nel capitolo del citato metodo dedicato all’interpretazione, che talu-ni compositori – pur abili esecutori – non riescono a mettere in risalto le loro stesse composizioni, incapaci come sono di “esternarne il contenuto poetico”; ma se un determinato pezzo viene eseguito da altri, “dotati di fine sensibilità e in grado di conoscere il valore della buona interpretazione”, allora gli stessi autori potranno scoprire “con stupore” che nelle loro opere c’è assai più di quanto avessero pensato e immaginato. Una buona interpretazione può, dun-que, rendere apprezzabile persino un pezzo mediocre. La figura dell’interprete cresce in dignità, valore e autonomia, separandosi e diventando complementare a quella del compositore. Il “saggio di metodo”, che sarà oggetto di successive rielaborazioni e nel quale non mancano affettuosi omaggi agli insegnamenti paterni, è corredato dai Probestücke (brani di esemplificazione); ogni composizione riporta la propria formula espressiva, secondo quello che diventerà un consolidato repertorio di indicazioni agogiche: Andante ma innocentemente, Poco allegro ma cantabile, Tempo di Menuetto, con tenerezza, Adagio affettuoso e sostenuto, Allegretto grazioso, Allegro con spirito, Allegro scherzando... Tali indicazioni non si riferi-scono più agli stilizzati affetti barocchi; indicano caratteri, sfumature sentimen-tali che l’ottimale esecutore dovrà provare in prima persona e comunicare all’ascoltatore.Nel contempo, affiora in Philipp Emanuel una crescente insofferenza verso gli obblighi artistici e sociali del musicista di corte. Ciascuno dei tre autori in pro-gramma vive in prima persona questo altro aspetto caratteristico dell’età dei lumi: se Bach figlio deplora gli “ordini ridicoli”, Haydn rivendica quella libertà che “l’orecchio e il cuore” esigono. Abbracciare la libera professione sarà per Mozart un passaggio obbligato.

Maria Grazia Campisi e Paola RossettiBiennio di Discipline Storiche, Critiche e Analitiche della Musica

del Conservatorio “G. Verdi” di Milano

Isabelle Faust violino

Vincitrice in giovane età dei prestigiosi Concorsi Leopold Mozart e Paganini, Isabelle Faust è oggi una delle violiniste più ricercate del panorama internazio-nale. Sempre desiderosa di esplorare nuovi orizzonti musicali, è a suo agio sia come musicista da camera sia come solista delle più importanti orchestre sinfo-niche e da camera. A testimonianza della sua versatilità ricordiamo l’esecuzio-ne di Kafka Fragments di Kurtág con la soprano Christine Schäfer e i Quintetti per clarinetto di Brahms e Mozart eseguiti su strumenti d’epoca.Con un repertorio molto ampio che spazia da Bach fino ai compositori contem-poranei quali Ligeti, Lachenmann e Widmann, ha collaborato con direttori d’orchestra di primo piano quali Frans Brüggen, Mariss Jansons, Giovanni Antonini, Philippe Herreweghe, Daniel Harding e Bernard Haitink. Partico-larmente intensa è stata la collaborazione con Claudio Abbado; il loro CD con i Concerti per violino di Beethoven e Berg con l’Orchestra Mozart è stato premiato con il “Diapason d’or” (Francia), “Echo Klassik” (Germania), “Gramophone Award 2012” (Gran Bretagna) e “Record Academy Award” (Giappone).Incide per harmonia mundi con il suo partner abituale Alexander Melnikov. Il loro ultimo CD con le Sonate per violino e pianoforte di Brahms è stato pubbli-cato nel settembre 2015. La seconda parte della Trilogia Schumann - registrata con Alexander Melnikov, Jean-Guihen Queyras, la Freiburger Barockorchester e Pablo Heras-Casado, che comprende il Concerto per pianoforte e il Trio per pianoforte n. 2 op. 63 - è stata pubblicata nell’agosto 2015. La terza parte con il Concerto per violoncello e il Trio n. 1 per pianoforte, verrà pubblicato nel 2016.Isabelle Faust suona lo Stradivari “Bella Addormentata” del 1704, per gentile concessione della L-Bank Baden-Württemberg.È per la prima volta ospite della nostra Società.

Matthew Truscott direttore

Violinista versatile che si divide tra esecuzioni moderne e su strumenti d’epo-ca, dal 2007 Matthew Truscott è uno dei direttori dell’Orchestra of the Age of Enlightenment e recentemente è stato nominato primo violino della Mahler Chamber Orchestra. In qualità di direttore ospite ha collaborato con alcune importanti formazioni dedite alla musica antica. Appassionato camerista, ha all’attivo la registrazione delle Trio Sonate di Purcell con il Retrospect Trio, un CD dedicato a Bach con Trevor Pinnock, Emmanuel Pahud e Jonathan Man-son, e uno con i Trii di Haydn con Richard Lester e Simon Crawford-Phillips. Insegna violino barocco alla Royal Academy of Music di Londra.È per la prima volta ospite della nostra Società.

Orchestra of the Age of Enlightenment

Trent’anni fa a un gruppo di creativi musicisti londinesi venne voglia di “ficcare il naso” in quella bizzarra istituzione che noi chiamiamo orchestra. Decisero di voltare pagina e ricominciare da zero iniziando, come prima cosa, a sbarazzarsi delle vecchie regole. Avere un solo direttore in carica? Neanche a parlarne. Specializzarsi nel repertorio di un periodo limitato? Troppo restrittivo. Approfondire un brano e poi proseguire? Troppo indo-lente. Così è nata l’Orchestra of the Age of Enlightenment.E quando il gruppo che suonava su strumenti d’epoca iniziò ad affermarsi, i musicisti si fecero una promessa. Giurarono di continuare a interrogarsi e a inventare per tutto il resto della loro vita. Le residenze al Southbank Centre e al Glyndebourne Festival non soffocarono la loro voglia di sperimentazi-one. Un importante contratto discografico non appiattì la loro curiosità. Al contrario l’Orchestra of the Age of Enlightenment approfondì lo studio degli spartiti con ancora maggiore libertà e determinazione. Quella sete di novità è tuttora inappagata e i loro singolari “concerti notturni” hanno scardinato il rituale del concerto tradizionale.L’Orchestra collabora frequentemente con orchestre sinfoniche e teatri d’opera alla ricerca di un repertorio sempre più vasto. Le migliori esecuzioni vengo-no registrate da una propria etichetta discografica. L’orchestra si afferma a livello internazionale: New York e Amsterdam la corteggiano; Oxford e Bristol la adorano. Con quattro talenti direttoriali straordinari quali Mark Elder, Simon Rattle, Vladimir Jurowskj e Ivan Fisher, crea un legame sta-bile. Nuove generazioni di musicisti curiosi vengono accolti tra le loro fila.Nel suo 31° anno di attività la OAE è ormai parte integrante del panorama musicale internazionale, ma non pensiate affatto che abbia perso la sua mis-sione fondativa. Non tutte le orchestra sono uguali. E non ce n’è nessuna che le assomigli.È stata ospite della nostra Società nel 2000 (13° ciclo delle Settimane Bach).

Matthew Truscott, Iona Davies, Andrew Roberts, Henry Tong, Roy Mowatt,Claire Holden violini primiColin Scobie, James Toll, Debbie Diamond, Dominika Feher, Stephen Rouse,Joanna Lawrence violini secondiMax Mandel, Martin Kelly, Nicholas Logie, Katie Heller violeLuise Buchberger, Andrew Skidmore, Helen Verney violoncelliCecelia Bruggemeyer, Carina Cosgrave contrabbassiDaniel Bates, Michael O’Donnell oboiSally Jackson fagottoPhillip Eastop, Martin Lawrence corni

Prossimo concerto:Martedì 2 maggio 2017, ore 20.30Sala Verdi del ConservatorioTrio di Parma

Ciclo integrale delle opere per Trio con pianoforte di Beethoven - II

Il Trio di Parma torna al Quartetto per la seconda tappa dell’Integrale dei Trii con pianoforte di Beethoven, che si concluderà nella prossima stagione. Il programma mette a confronto due immagini speculari dell’autore, da una parte il pianista avido d’impossessarsi di uno spazio sonoro più vasto di quello del suo strumento, dall’altra il compositore abile a giocare con i generi per mandare messaggi riservati. Sono soprattutto due brevi lavori, non entrati nel catalogo ufficiale di Beethoven, a permettere il raffronto tra le due dimensioni, il settecentesco Trio in mi bemolle maggiore WoO 38 e l’Allegretto in si bemolle maggiore WoO 39, scritto più di vent’anni dopo e dedicato alla figlia della donna che probabilmente è stata la famosa “amata immortale”.

Società del Quartetto di Milano - via Durini 2420122 Milano - tel. 02.795.393www.quartettomilano.it - [email protected]