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Lo scrittoio antico Romanzo Antonio Paganelli http://www.antoniopaganelli.altervista.org

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Lo scrittoio antico

Romanzo

Antonio Paganelli

http://www.antoniopaganelli.altervista.org

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A Matilda, che mi ha aiutato e incoraggiato.

Similia similibus curantur (I simili si curano con i simili)

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PRIMA PARTE

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Capitolo I

In medias res *(In mezzo alle cose)

Un paio d’anni fa, a ottobre, organizzai unabattuta di caccia al cinghiale, per festeggiare ilbuon esito delle vendemmie. Durante uninseguimento caddi malamente da cavallo erimasi a terra, condannato all’immobilità.“Paralisi perpetua al bacino e agli arti inferiori”,sentenziarono i dottori.

Avevo quarantacinque anni appena compiuti:da allora, per me tutto è cambiato. Mio figlioGuglielmo ha assunto l’incombenza della signoriae, qualche tempo dopo l’incidente, mi sonoritrovato relegato in un angolo del castello, comesuccede a quegli oggetti che non servono più,dopo anni di laboriosa presenza e di tacitacomplicità.

Certo, anch’io sono stato crudele senzaaverne avuto mai, però, l’intento o la precisacoscienza, spesso per distrazione, che forse èanche peggio. Ora vivo quassù isolato nelle miestanze, a riflettere soprattutto sul mio passato.Uno dei miei trastulli preferiti, per ingannare iltempo o per mantenermi vivo, è quello diriportare alla memoria, poi sulla carta, spicchi divita vissuta così come affiorano, senza forzarli. Ladistanza temporale da quegli avvenimenti e lamia condizione attuale di distacco dalla realtà, mipermettono una maggiore lucidità di giudizio.

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Distacco dalla realtà… lucidità digiudizio: mete al di fuori della mia portata. Davent’anni vivo con un uomo che mi conosceancora così poco! Il mese scorso, in occasione delmio compleanno, mi ha regalato uno scrittoio digrande pregio. Se avessi amato i mobili antichi nesarei stata fiera, ma io preferisco le comodità diquelli moderni.

Ieri, come sempre, ero tesa e scontentaquando un flebile fastidiosissimo sibilo,proveniente da quello scrittoio, ha aumentato lamia agitazione. L’ho rovesciato, ma non hotrovato il tarlo. Ho scoperto, però, unnascondiglio segreto, una specie di astucciochiuso, ricavato con grande precisione nel retrodel cassetto.

Si apriva tirando da un lato e spingendodall’altro un coperchietto sotto il fondo, moltoben dissimulato. L’interno, foderato e polveroso,conteneva tanti foglietti ingialliti, corrosi daltempo e dagli insetti, riempiti di una scritturaminuta, antica e difficile da decifrare.

Lo ammetto: sono curiosa. I misteri, gliintrighi irrisolti, le storie private: questi sono gliunici aspetti delle antichità che mi affascinano.Entrare nella vita di persone sconosciute, nellaloro intimità, leggere le loro emozioni,condividerle, qualsiasi appiglio, pur di nonsentire quella cosa in me. Ne ho letto solo pocherighe, ma sento che dovrò continuare...

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Ricordo il volto di una ragazza senza nome,un volto di tanti anni fa. Chissà perché proprioquello e non un altro. Mi disse che era stataoggetto di derisione, appunto per il suo visosmunto, il suo pallore, la sua goffaggine. Eppure,mi aveva amato con una forza, una tenacia, che ionon avevo mai provato, né per lei né pernessun’altra. Viveva da suo zio, il curato diSecchiano.

Occupava una stanzetta bianca e luminosa alprimo piano. Una coperta color pastello,disegnata con motivi religiosi e il cuscino,bordato di candido pizzo, impreziosivano unmodesto lettino di legno addossato alla parete. Inalto, un Cristo di pietra nuda sovrastava unamensola rossiccia, di ciliegio o di noce, cheserviva d’appoggio a un vasetto scrostato dimaiolica bianca decorata d’azzurro, da dove unapiantina di edera scendeva sul capoletto di stoffafiorita, a disegnarvi attorno una specie di corniceverde.

Il tavolino a lato della finestra era spoglio.Lo utilizzava per leggere e per pregare. Nelcassetto, alcuni fogli di carta levigata di Fabrianoe due minuscoli libri: uno di orazioni, l’altro dipoesie. Da quella cameretta senza pretese, dovetutto era semplice, preciso e ordinato, emanavaun’idea di pulizia e di dignità che,inevitabilmente, si rifletteva in lei che vitrascorreva gran parte della sua vita.

Ora penso a quella ragazza comune, dolce ebuona, con un pizzico di nostalgia per sensazioni

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e sentimenti, che il mio carattere d’uomosanguigno e autoritario allora non mi permise diprovare. L’avevo incontrata in marzo, per la festadi S. Giuseppe, poi l’avevo rivista cinque o seivolte ancora, non di più. L’ultimo giorno, non soperché, non per affetto ma per pietà o per dirleaddio, le offrii un mazzo di piccole rose rosse cheavevo colto sul ciglio della strada.

Le annusò teneramente, poi intuendoprobabilmente il significato profondo di quelgesto scappò nella sua stanza e richiuse la portadietro di sé. Non protestai; nuovi desideriaffioravano alla mia mente. Era già tempo d’altreavventure. Un misero mazzo di fiori, nient’altroebbe da me.

_____* Orazio, nell’Arte Poetica, usa questa espressione col sensodi entrare, appunto, subito nel vivo del racconto.

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Capitolo II

In medio stat virtus?(La virtù sta nel mezzo?)

Gertrude, che ha la mia età, da molti annioramai è una persona stanca, spenta, deturpatadai reumatismi e dalle gravidanze. La sposai adiciassette anni senza amore, per assecondare leultime volontà di mio padre, poco prima chemorisse. La conobbi la mattina stessa delmatrimonio: una graziosa fanciulla in fior.

Quel giorno mi comparve davantiall’improvviso, tutta vestita di bianco, con unmazzetto di margarite in testa come i quattrocavalli della sua carrozza. Mi fece un leggeroinchino e arrossì un poco. Portava dei capellineri, lunghi, annodati in treccine minute, che lescendevano sulle spalle candide e ben fatte. Eraalta e slanciata, garbata nei gesti enell’espressione, ma non sembrava allegra.

Quel ricordo ora è lontano e alquantosbiadito. Nei miei confronti dimostrava una certatimidezza e un senso di rispetto che sitramutarono presto in eccessiva formalità,distacco e freddezza. Si chiuse in un mondo chesi costruì su misura, divisa tra i compiti di unaperfetta castellana e quelli di una scrupolosa efedele cristiana. Interpretò sempre gli uni e glialtri come caratteristiche intrinseche dei dovericoniugali.

Passava le giornate a istruire, comandare e

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punire la servitù, i cuochi o i giardinieri,alternando queste mansioni, impegnative egratificanti al tempo stesso, con orazioni o altriobblighi religiosi. Nelle feste date a palazzo, poi,era sempre al mio fianco, impeccabile nei suoivestiti eleganti, mai sfarzosi, sempre pronta afare complimenti agli invitati per le loro imprese,o alle nobildonne presenti per l’abbigliamento, adapprovare i miei discorsi e a sorridere alle miebattute di spirito. Gli altri mi consideravanofortunato, per il fatto stesso di averla sposata.

Gertrude non ha mai conosciuto entusiasmio passioni. Ha sempre fatto tutto per spirito disacrificio o per dovere, senza trasporti. Non l’homai sentita lamentarsi della sua sorte, nemmenonei giorni più duri. Eppure, le occasioni per farlonon mancavano: cinque dei sette figli che partorìmorirono precocemente, alla nascita o in teneraetà.

Non mi ricordo d’averla mai vista piangere oridere in modo spontaneo, con naturalezza oconvinzione: solo modeste contrazioni del volto esorrisi di circostanza. Tutto per lei è già deciso,predestinato. L’uomo, fin dalla nascita, non èaltro che un fuscello in balia della divinaprovvidenza.

Mi ha sempre rispettato e ubbidito, forsetemuto, senza provare particolare affetto per mee nemmeno per altri, credo. L’amore l’ha semprecondannato come un sentimento forte e volgare,disdicevole per le persone bennate, una malattiada curare e guarirne al più presto.

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Fra noi non c’è mai stato un vero dialogo,solo colloqui formali sull’accaduto, laquotidianità, o il da fare. Ha sempre accettato ilmio punto di vista, senza mai tentare d’imporre lasua opinione, o di capire le mie ragioni. Io non homai cercato di penetrare il suo mondo.

L’altro ieri è salita quassù per informarsi sulservizio delle cameriere, sul decorso della miamalattia e per farmi coraggio alla sua maniera,con devozione, senza slanci né emozioni. Lo fadue volte la settimana, il giovedì pomeriggio e ladomenica mattina, sempre alle stesse ore, conmaniacale puntualità. Pur non provando un fortesentimento d’affetto nei miei confronti, dopo ognivisita va nella cappella privata a pregare per lasalvezza della mia anima.

Ora, profonde rughe le solcano il volto. Untremore intermittente e fastidioso le scuote illabbro inferiore, là nell’angolo dove si unisce conquello superiore. Sono alcuni anni, oramai, chemanifesta questo disturbo. Avevo già notato chequesto fenomeno, all’inizio appena percettibile inmia presenza, col tempo si stava accentuando.Dal mio incidente in poi, le pause fra lecontrazioni si sono accorciate e l’intensità deisussulti è notevolmente aumentata. La bocca haassunto, così, un’espressione amara di sofferenzae di disgusto.

Come in tutte le sue manifestazioni, anchenel mangiare è sempre stata parca, sobria. Non èingrassata ma col peso del tempo e degliacciacchi il busto si è piegato un poco in avanti,

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in modo asimmetrico, maggiormente dalla partesinistra. Ora il corpo è sbilanciato e il capo tendea pendere su quel lato. Lei, con uno sforzocontinuo, ostinato e inflessibile, cerca di tenerlorialzato, conseguendo un risultato che fapensare, a chi non la conosce, a uno stranotorcicollo.

Alcuni anni fa cadde dalle scale e si ruppeuna gamba. Fu curata da un vecchio frateguaritore di Urbino, del quale aveva la massimafiducia. Rimase a letto per un mese, immobile conl’arto steccato, poi svolse per un lungo periodo,con determinazione e volontà, tutti gli esercizifisici che lui le consigliò.

La cura diede i suoi frutti. Riacquisì unabuona sensibilità e la completa funzionalità dellagamba lesionata, per cui ora il suo passo è francoe sicuro. Le dita lunghe e affusolate, ben curate,quasi sempre inguantate di raso o di pizzo, dannoancora a Gertrude un aspetto di distinzione e diraffinatezza non comuni.

Gertrude o Anna, Maria o Concetta, lastessa immagine sbiadita, lo stesso pianto. Sonoandata a un funerale e tra la gente horiconosciuto a stento la sorella minore di un uomoche ho amato. La piega del naso, le labbra, l’ovaledel volto mi restituivano il viso caro e le immaginidi un’estate felice.

Mi sono avvicinata fino ad averla accanto,fino a sentire il suo respiro, fino a sfiorarle il

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braccio abbandonato sul fianco gracile. Ègiovanissima, ma già così diversa; c’è nei suoiocchi una tranquilla agonia che mi ferisce. Dov’èla baldanza di prima? Dove il riso? Dove i sogni?Ha già nella carne la fatica dei parti, degliorgasmi mancati, dei troppi panni lavati e lareclusione in un paese avaro, tra quattronostalgici vecchi.

Seria, seguiva il blabla del prete e io avreivoluto arruffarle i capelli, toglierle quel vestitoaustero, restituirle i suoi anni teneri. L’ho seguitanel cimitero, poi è sparita tra un gruppo di donne.

Un uomo entra nel suo letto tutte le sere,esige da lei piacere, la umilia, forse perché lei èsolo il ricettacolo del suo seme: donna-incavo,donna-interstizio, donna-alveolo. Lui la vedràavvizzire anzitempo, accartocciarsi perstanchezza e delusioni.

Lei aspetterà un gesto, una parola. Poiaspetterà ancora. Non confesserà mai neanche asé stessa, forse, che l’inganno c’è stato e simentirà felice, si convincerà che altro non c’era,che altro non si poteva fare. Ma io sento la sua, lamia musica ferita.

Fu Gertrude, senza saperlo, che mi diedel’idea di scrivere queste memorie. Sapevo che avolte, quando mi allontanavo dal castello, sichiudeva nello studio e vi passava delle ore.Gliene avevo chiesto ragione: mi aveva rispostoche non voleva essere disturbata durante le sue

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letture.Infatti, accanto alla finestra vi era un

cassone appartenuto a sua nonna e portato indote, che conteneva preziosi manoscritti religiosi.Sulla facciata esterna del mobile, decorato atempera magra con colori sbiaditi, vi eranoraffigurati i capostipiti della sua famiglia acavallo e altri antenati illustri. Nel centrotroneggiava, più grande, un pingue cardinaletutto rosso, con un buffo cappello in testa a largafalda.

In sua assenza, il mobile era sempre chiuso elei ne custodiva gelosamente la chiave. Avevoscoperto, per caso, che la nascondeva in unapiccola cavità del muro ricoperta dallatappezzeria, in un angolo della camera da letto.Appena sposati me l’ero fatto aprire; avevosfogliato alcuni libri e, visti gli argomenti trattati,non mi ero spinto oltre. La mia curiosità aveva unlimite. Fu solo dopo l’incidente che m’interessaialla cosa.

Mastro Nicola, il falegname, creativo egeniale come sempre, mi aveva costruito unaparticolare sedia di legno, con due grandi ruoteai lati, che avrei potuto manovrare io stesso perspostarmi, o farmi spingere se preferivo. In quelmodo avevo ritrovato un minimo d’autonomia chemi permetteva, all’occasione, di poter girovagaresullo stesso piano, da una stanza all’altra.

In un momento di grande sconfortom’aggrappai alla speranza religiosa. Mi ricordaidel cassone e del suo contenuto. Allora non mi

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ero ancora trasferito quassù definitivamente.Passavo giorni interi giù con Gertrude. Cercai lachiave che trovai nel solito buco e condussi, nonsenza fatica, la mia strana sedia-mobile fino allostudio.

Aprii quel forziere, alla disperata ricerca diun’ultima illusione. Incominciai a leggere il primolibro che trovai, ma mi annoiai presto. Passai a unsecondo, a un terzo, ma non trovai materia aplacare le mie angosce. Ero interessato, però,all’aspetto estetico dei fregi e delle miniaturedorate. Pur non avendo io particolari doticreative in quel campo, ho sempre apprezzato leforme artistiche più significative. Di fronte atanta bellezza, stupito ed estasiato, continuavo laricerca.

Pagina dopo pagina sfogliai tutti i volumi,impiegandoci diversi pomeriggi. Alla fine la miacuriosità fu doppiamente premiata. All’internodel tomo numero Venti, che avevo accantonatoperché meno interessante degli altri dal punto divista artistico, trovai un piccolo tesoro di altranatura.

I sogni, le ambizioni e soprattutto lesofferenze di una vita, concentrati in dodicilunghe lettere, scritte da mia moglie a unamisteriosa badessa, dissimulate tra le pagine dellibro con le relative risposte. Da una mia discretaindagine appurai quello che avevo subito intuito.La badessa non era mai esistita, quindi tutte lelettere, risposte comprese, erano scritte di suopugno e frutto della sua fantasia.

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Completai le mie letture con la massimaprudenza e precauzione, sempre in assenza diGertrude. Non ebbi il coraggio di confessarle laviolazione della sua intimità, ma da quel giornoincominciai a guardarla con occhi diversi. Scopriiin lei un’insospettabile profondità di pensiero eun’umanità del tutto sconosciuta.

Provai nei suoi confronti sentimenti nuovi, disincera simpatia e tanta amarezza per le feriteprovocate dalla mia totale insensibilità. Volevocomunicarle il mio disagio e farle qualchecomplimento, o cortesia, per attenuare i mieisensi di colpa, ma non ci riuscii.

Una vita incrostata dai veleni dell’esercizioquotidiano del potere e condizionata dallavolontà di conservarlo, ci rende rassegnati eapatici. Anch’io, come un attore sulla scenaavevo recitato la mia parte, seguendo un copionegià scritto e gli altri si erano adattati a me, comeci si adatta a una malattia, o alla guerra.

Cercai di inviarle messaggi di tenerezza, mafurono giudicati male o non capiti. In occasionedi una sua visita di conforto, tentai diaccarezzarla; interpretò quel gesto come uninvito al silenzio o, peggio, al commiato. Nonforzai le barriere oltremisura. Rimanere sedutinella propria poltrona, anche se con le ruote,richiede minori energie.

L’inizio del carteggio fra Gertrude e la suabadessa immaginaria si riferiva a un incidenteche l’aveva sconvolta, durante il banchetto dinozze di nostra figlia Elisabetta. Quel giorno era

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molto felice e ne aveva ben donde. Unmatrimonio al quale lei aveva collaboratointensamente, fin dalla scelta dello sposo, andavaa buon fine.

Lei, così sobria e controllata, durante ilpranzo si era lasciata andare. Aveva bevutoalcuni bicchieri di vino. La lingua si era sciolta edimostrava gioia, allegria, non solo nelle parolema anche nei gesti, eccezionalmente espansivi,esagerati. Fu uno di quelli, la causa dellospiacevole evento.

Era seduta alla mia sinistra e discutevaanimatamente con un prelato presente, sui pregidel Trebbiano di Romagna rispetto a quellodell’Arno. L’interlocutore, invece, preferiva ilsecondo. Si trattava d’un argomento decisamentepoco femminile, ma stranamente non se nepreoccupava. Presa dalla discussione, inebriatadal vino e dalla situazione, effettuò con le maniun gesto ampio e brusco, non controllato, chefece rovesciare una caraffa di Sangiovese sultavolo e buona parte del suo contenuto miprecipitò addosso.

Accecato dalla collera, anche perché giàinfastidito dal suo comportamento inusuale, leassestai un tale ceffone che la rovesciò a terra, lìdavanti a tutti. Lei si alzò, seppur con qualchedifficoltà e, coi capelli e il vestito in disordine,corse nei suoi appartamenti. Alcuni minuti doporientrò, riassestata ed elegante più che mai.

Ricambiò qualche sorriso di circostanza, siscusò con gli ospiti, impartì l’ordine al suo scalco

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di porre rimedio al danno causato e, come nonfosse successo nulla, ritornò al suo posto. Nellalettera alla badessa raccontava in dettaglio ladisperazione provata in quei momenti.

Anche Gertrude, come gli altri, avrebbevoluto avere un amico, un confidente, permanifestargli le proprie gioie, i propri dolori, osemplicemente per poter confrontare le proprieopinioni. Lo avrebbe voluto di buon rango,riservato, sensibile, intelligente e colto, perchiedergli magari anche qualche consiglio.Attorno a lei non lo trovò. Lo dovette inventare.

Quella notte non dormì: pianse in silenzio.Certo, non si era sposata per ricevere affetto oamore, ma sperava che vincoli come il rispetto, lastima, la considerazione, o la riconoscenza, chelei reputava peculiarità del matrimonio stesso,non fossero solo suoi doveri, ma anche suoidiritti.

Da me aveva avuto tante umiliazioni etristezze, ma quell’offesa ricevuta in pubblicodavanti al suo mondo, in un giornoparticolarmente fausto, minava alle basi lacredibilità stessa della sua autorità e quindi dellasua identità. Ormai ogni soddisfazione, ognigratificazione le era preclusa. Si sentivaingannata, avvilita, abbattuta.

I festeggiamenti durarono tre giorni. Lei vipartecipò attivamente col sorriso sulle labbra el’agonia nel cuore. Idee vaghe di rovina e dimorte circolavano nella sua mente. Il giorno dopole nozze si chiuse nello studio, per cercare di

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mettere ordine a quei pensieri. Vedeva il suicidiocome ultima possibilità di riscatto, come unicavia d’uscita.

Era il solo mezzo che le rimaneva percomunicarmi la sua terribile angoscia e,soprattutto per inculcarmi il senso di colpa,ultima arma delle vittime. Con freddezza edeterminazione analizzò alcune ipotesi. Dapprimai veleni. Li scartò per scarsa conoscenza deglieffetti e difficoltà di reperimento. Poi pensò aifunghi. Ne conosceva alcuni, capaci di produrrela morte quasi istantanea. Non lo ritenne il modomigliore. Si sarebbe potuto pensare a un banaleerrore, a una disgrazia, non al suicidio.

L’idea di buttarsi dalla finestra l’attirava perla tragicità dell’esito. Il suo corpo schiacciato,orribilmente straziato ai piedi delle mura: unascena certamente di grande effetto. Ne sareirimasto colpito, forse angosciato, ma sarebbedovuta salire sulla finestra e buttarsi nel vuoto.Non le parve abbastanza femminile. Richiedevaun coraggio virile, una determinazione che nonera certa di possedere.

Non lontano dal castello, sotto il dirupo, vi èun laghetto profondo. Lei, che non sa nuotare,con qualche scusa avrebbe potutoaccompagnarmi da quelle parti e lì, davanti a me,lasciarsi andare dolcemente in acqua. Soluzioneragionevole in apparenza, ma più facile da direche da farsi. Anche questa scelta presupponevadoti che le sembravano al di sopra delle suepossibilità.

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Nella lettera all’interlocutrice illustrava tuttele ipotesi, informandola che aspettava un suoconsiglio spassionato, prima di decidere.L’attenta badessa non si fece pregare perrispondere. In una missiva, che portava la datadel giorno dopo, le assicurava innanzitutto lamassima comprensione e le dava tutto il suoaffetto e conforto.

Poi, dilungandosi sulla missione e i compitidella sposa ideale, cacciava l’idea del suicidiodefinendola malvagia, generata nella mente deldemonio. Abbondava quindi in miti consigli,esaltando le sue doti d’ubbidienza,sopportazione, indulgenza, stimolandola a vederein quella prova un segno della bontà divina, perfar maturare in lei, come moglie, il senso deldovere cristiano. Sicura che avrebbe seguito lesue esortazioni, la elogiava, infine, per il coraggiodelle sue decisioni.

Gertrude, nelle lettere successive laringraziava per i preziosi suggerimenti che,diceva, le permettevano di affrontare con dignitàle dure prove della vita coniugale. La badessa,dal canto suo, continuava a incoraggiare lasublimazione delle cattiverie e meschinità che iole prodigavo.

La lettura di questo carteggio turbòulteriormente la mia già angosciante condizioned’impotenza: avrei voluto farmi perdonare inqualche modo, manifestarle il mio disagio. In unprimo tempo, viste le difficoltà di comunicazioneche avevo con Gertrude, avevo pensato anch’io di

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comporre un ipotetico epistolario rivolto a lei,senza decidermi tuttavia se farglielo trovareprima, o dopo la mia morte.

Avrei voluto analizzare a fondo il nostrorapporto, per capire i motivi dei reciprocicomportamenti. Certo, ognuno di noi ha la suafunzione, in società come in famiglia, ma nonsiamo statue di pietra. Io sono il suo sposo e ilsuo signore, ma anch’io ho un cuore.

La sua quotidiana freddezza e l’apparenteinsensibilità che dimostrava verso la miacondizione mi distolsero, comunque, da quelproposito. Fu così che decisi di scrivere questememorie, non per Gertrude o per altri,essenzialmente per me, per ritrovare il sensoperduto della mia storia e ridarle vita. Poterleggere col distacco del tempo la trama deglieventi, le connessioni latenti, per capire seeffettivamente ho partecipato al gioco da attore,da arbitro, o da spettatore.

La sorte del mio scritto dopo la morte non miappartiene, mi è estranea. Immaginare che questifoglietti siano conservati in qualche cassettoammuffito di un vecchio mobile, in uno scaffalepolveroso di una biblioteca, o distrutti dal fuoco,mi lascia del tutto indifferente.

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Capitolo III

Inexpletae cupiditates (Desideri insoddisfatti)

Ricordo il giorno del mio trentesimocompleanno. La mattinata di quel ventottosettembre scivolò via come tante altre. Primaandai dal curato per ammirare i nuovi dipintidella sagrestia, poi ricevetti alcuni contadini chemi avevano portato delle regalie e, dopo unpranzo leggero consumato con mia moglie sotto ilporticato, feci una pennichella. Gertrude, alrisveglio, mi accolse con un bicchiere diBianchello fresco.

La settimana precedente avevo ordinato amastro Nicola, giù in paese, un piccolo scrittoioper leggere e scrivere, come quello dei notari: lamisura ideale per trasportarlo agilmente da unastanza all’altra, a cercare il caldo o il fresco aseconda delle stagioni. Così nel pomeriggio scesinel borgo, a cavallo, per vedere a che punto fossela lavorazione, o forse solo per fare duechiacchiere con una persona non comune, dibuon gusto e sempre informata su tutto.

A parte il curato, Nicola era l’unico in paesecol quale scambiassi volentieri qualche parola.Gli altri erano rozzi analfabeti, abbruttiti dallavoro o dalla fame, per i quali provavo piùdisprezzo che pietà. Nella piazzetta antistantealla bottega, vidi un monello che correva dietro auna palla di stracci, a torso nudo e senza scarpe.

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Indossava solo un paio di brache bucate chegli scendevano ai polpacci. Aveva sedici anni,forse meno. Ci guardammo negli occhi. I nostrisguardi s’incrociarono per un attimo più deldovuto. Il ragazzo prima arrossì un poco, poisorridendo fece un timido inchino. Sentii unbrivido lungo la schiena. Provai disagio, senzacapirne il motivo. Avrei voluto rispondere a quelsaluto, ma rimasi lì davanti a lui in piedi,impietrito come quel S. Rocco della mia cappellaprivata che ogni mattina mi fissavaimperturbabile, dall’alto del suo piedistallo.Aveva un visino appuntito, con un nasoschiacciato e un ciuffo di capelli rossi chesvolazzavano al volere del vento, dando alla testauna simpatica aria arruffata. Finalmente glichiesi il nome: si chiamava Marco. La sua voceera aspra e frizzante, come il vino del curato cheavevo bevuto in matti-

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INDICE

I PARTE

Capitolo

I In medias resII In medio stat virtus?III Inexpletae cupiditatesIV Ars deluditur arteV Quem di diligunt adulescens moritur VI Occasio facit furemVII Quia nominor leoVIII Audaces fortuna iuvat IX Senesco multa in dies addiscensX Colubra restem non parit XI Per aspera ad astraXII Nulla dies sine lineaXIII Mulierem ornat silentium XIV Iustae nuptiae XV Investigatio veriXVI Usque ad finem

II PARTE

Capitolo

1 Ritorno alla vita2 In treno verso Roma 3 Breve soggiorno a Roma e ritorno 4 Un viaggio in moto5 A Barcellona, in auto6 Una crociera nel Mediterraneo7 A casa

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Page 24: Romanzo - antoniopaganelli.altervista.org · ancora così poco! Il mese scorso, in occasione del mio compleanno, mi ha regalato uno scrittoio di grande pregio. Se avessi amato i mobili

8 E la vita continua

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