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Ripensando la cura domiciliare per gli anziani Casa Comune: un progetto transfrontaliero Italia-Svizzera A cura di Carlo Catania Edizioni Filos © 2015 Filos Società Cooperativa ISBN 978-88-941537-0-5

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Ripensando la cura domiciliare

per gli anziani

Casa Comune: un progetto transfrontaliero Italia-Svizzera

A cura di Carlo Catania

Edizioni Filos

© 2015 Filos Società Cooperativa

ISBN 978-88-941537-0-5

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Indice Introduzione L’innovazione nasce dallo scambio. Un esempio di cooperazione transfrontaliera di Furio Bednarz, Federico Manfredda

Parte prima

La condizione anziana tra nuovi bisogni e offerta di servizi in Ticino e a Novara

1. Famiglie e anziani nel cambiamento sociale: il caso di

Novara di Maurizio Ambrosini 2. Il sistema curante a domicilio: rappresentazioni, vissuti,

trasformazioni identitarie e aspetti transculturali di Luz Cardenas e Ilaria Ferrero

3. I servizi a sostegno della domiciliarità degli anziani non autosufficienti nell’esperienza novarese di Paolo Moroni

4. Spitex: il sistema delle cure a domicilio nell’esperienza svizzera e nel Canton Ticino di Paola Quadri

Parte seconda

Ri-progettare l’azione sociale

5. Alla base dei Modelli: lo scambio e il benchmarking transfrontalieri di Ilaria Ferrero

6. La progettazione dell’azione sociale nel sistema delle cure domicilio. I casi del Canton Ticino e di Novara di Franca Maino

7. Partecipare per progettare: un laboratorio di pratica riflessiva in Ticino di Sara Riggio e Chiara Vanetti

8. Il modello: l’ “officina sociale” per la riprogettazione della domiciliarità di Paolo Moroni e Ilaria Ferrero

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Parte terza

Competenze emergenti e processi di qualificazione

9. Supportare lo sviluppo professionale delle Assistenti familiari. Un modello formativo centrato sul Workplace Learning di Giuseppe Porzio

10. La scuola della vita. Biografie di apprendimento al lavoro di cura, a cavallo delle frontiere di Furio Bednarz

11. Riconoscere gli apprendimenti informali e qualificare i percorsi formali: una contaminazione possibile di Carlo Catania

Conclusioni L’attore pubblico locale assume il ruolo di facilitatore di processi e di coordinatore di reti multi-attore di Patrizia Spina Riferimenti bibliografici Presentazione degli autori

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Introduzione

L’innovazione nasce dalla scambio. Un esempio di cooperazione transfrontaliera

di Furio Bednarz e Federico Manfredda Il progetto Casa Comune aveva l’obiettivo di favorire l’innovazione

delle modalità di organizzazione dei servizi di cura a domicilio nei due territori coinvolti, in un contesto di invecchiamento della popolazione ed evoluzione socio-economica e culturale che determina, in entrambe le situazioni, l’insorgere di bisogni nuovi e mette in crisi le tradizionali risposte date dai sistemi di welfare di prima generazione. Alla base vi era l’idea che una risposta andasse cercata nel superamento della logica della moltiplicazione e frammentazione delle prestazioni, in direzione della promozione dell’autonomia e dell’integrazione a rete dei servizi sociali e sanitari. In questa prospettiva il progetto si è proposto di rileggere i bisogni espressi dalla popolazione anziana novarese e ticinese, come primo passo nella costruzione di modalità di azione, saperi, stili e servizi in grado di dare risposte alle problematiche rilevate, nell’ottica di sostenere la persona anziana e la sua famiglia, con le loro fragilità e potenzialità, nel complesso e poliedrico percorso di cura e di assistenza.

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Dati principali del Progetto Interreg Italia Svizzera “Casa Comune” Programma Operativo di Cooperazione Transfrontaliera Italia – Svizzera 2007-2013 Periodo di sviluppo del progetto 2013 - 2015 Obiettivo Cooperazione territoriale europea Partner: Comune di Novara (Capofila di parte italiana) Associazione Opera Prima (Capofila di parte svizzera) Filos Formazione Nuova Assistenza Cooperativa Sociale Onlus Centro servizi per il volontariato della Provincia di Novara (CSV) Azioni Azione 1 – Pilotaggio e management congiunto Azione trasversale a tutto il progetto finalizzata a garantire la gestione congiunta e sinergica della rete di attori coinvolti dal progetto. Azione 2 – Analisi comparata dei bisogni e dei sistemi, costruzione di un repertorio di buone pratiche e Workshop di scambio e confronto. Fase di ricerca finalizzata alla raccolta delle esperienze pregresse, all’ analisi comparata (tra i due versanti della frontiera) dei bisogni emergenti dalla popolazione anziana e allo scambio di buone pratiche Azione 3 – Disegno e sperimentazione di interventi Fase di progettazione e sperimentazione sui due lati della frontiera di un modello di intervento in grado di fornire un servizio individualizzato, modulabile e modificabile e nel quale la componente interculturale sia considerata un valore aggiunto. Azione 4 – Comunicazione Azione trasversale a tutto il progetto finalizzata ad assicurare la comunicazione e scambio all’interno della partnership e nei confronti dei territori interessati Azione 5 – Trasferimento dei risultati del progetto Strategia di mainstreaming finalizzata alla valorizzazione e diffusione capillare delle innovazioni prodotte e sperimentate dal progetto e delle buone pratiche

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Il progetto si è proposto di valorizzare la dimensione dello scambio transfrontaliero come luogo ideale per costruire innovazione. La dimensione transfrontaliera offriva l’opportunità a contesti di servizi alla persona territorialmente vicini ma culturalmente distanti, di confrontarsi, rivedersi e possibilmente ripensarsi in relazione allo scambio di sguardi, esperienze, riflessioni e pratiche. Dalle differenti culture dei territori, oltre che dalle loro condizioni economico-sociali, erano nati approcci e politiche di servizi alla persona molto diversi e proprio a partire dal confronto di questi sistemi di cura, nel reciproco di-spiegarsi all’altro, era possibile per ciascuno rintracciare i propri presupposti concettuali, metodologici, operativi di ideazione del disegno e di costruzione degli interventi. Proprio guardando a quel disegno, fatta salva una trama di sistema certamente molto differente tra Italia e Svizzera (vedi i contributi dedicati ai due sistemi in questo stesso volume), il progetto Interreg Casa Comune ha costituito l’occasione per definire una “visione” comune delle sfide presenti, degli obiettivi strategici e delle priorità nell’ambito dei sistemi di cura per la popolazione anziana.

Ogni fase ha permesso di approfondire gli snodi teorici, metodologi e progettuali presenti sul tema messo al centro e ha concorso a costruire una “visione” necessaria per supportare la definizione degli interventi. Molti si sono rivelati i meriti del confronto transfrontaliero: si è dimostrato, in coerenza con le indicazioni relative alla cooperazione tra territori confinanti, un vero terreno neutro, uno spazio aperto di riflessione, per poter acquisire nuovi punti di vista e uno spazio reale per sviluppare una attenzione al confronto e voler crescere insieme come partenariato.

Grazie al lavoro sono stati raggiunti risultati concreti, in linea con le attese, ma il progetto ha anche saputo seguire traiettorie originali, ripensarsi nei tempi e nei modi, e lascia “suggestioni” ed evidenze che in questa sede riteniamo utile riprendere in sintesi, per dare al lettore una traccia utile a orientarsi tra i capitoli del volume.

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Il progetto era nato, sul versante italiano, dalla necessità di immaginare una strutturazione "pensata e progettata" dei servizi (che favorisse il superamento del bricolage assistenziale, alle prese con la crisi delle risorse pubbliche): lo scambio con il Canton Ticino era immaginato come risorsa nell’ottica di far tesoro di una buona pratica, ma ha fatto emergere anche la necessità di rileggere su entrambi i versanti del confine le modalità di progettazione, andando verso una maggiore flessibilità e personalizzazione degli interventi, favorendo la progettazione partecipata come sede di mutuo riconoscimento, di costruzione della sostenibilità e della rete possibile (e stabile). Ci si è interrogati assieme sul punto fino al quale la strutturazione dei servizi e delle reti debba basarsi sui protocolli e sull'azione standardizzata.

Si sono verificate dunque interessanti convergenze tra le due esperienze: il tavolo multi-attore, il facilitatore esterno come catalizzatore, la ricostruzione costante del percorso e degli obiettivi da raggiungere. Un terreno comune di riflessione ha permesso infatti di dare spazio a una forte intenzionalità progettuale che è cresciuta nella declinazione dei propri obiettivi con gradualità nel corso del progetto stesso e nello specifico dei temi: 1) nella ricerca su come definire una visione comune delle sfide future e dei passi necessari per passare dalla logica della prestazione a quella della promozione; 2) nell’individuazione di piste per superare la frammentazione delle risposte alla domanda di servizi che viene dalla popolazione anziana, nella consapevolezza che la presa in carico debba considerare in modo olistico la condizione dell'anziano (non come malattia, ma come condizione evolutiva del ciclo di vita).

Nel corso del progetto, che si è sviluppato per oltre due anni, l’intenzionalità ha spesso “fatto i conti” con le fasi che connotano ogni percorso di apprendimento articolato e multiattore: il processo ha perciò registrato fatiche, limiti, ritarature, successi, dubbi, acquisizioni di elementi, condivisione di metodi e strumenti in una logica di crescita

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nei due contesti territoriali e nelle rispettive reti territoriali che si sono evolute “ a geometria variabile” in rapporto ai cambiamenti in corso.

L’avvio è stato finalizzato al “comprendere per agire”; il senso della ricerca originale e della messa in valore delle conoscenze esistenti si è infatti orientato a raccogliere punti di forza, aree grigie e aree problematiche nella popolazione anziana presente nei territori.

Dalla ricerca quantitativa e qualitativa sono emerse risorse e bisogni che parlano di rapporti presenti e di forti relazioni ma anche di solitudini cui rispondere: rapporti e solitudini espressi dalle famiglie, dai caregiver, dall'anziano, dalla badante.

Si sono svolte “prove” di progettazione partecipata: i tavoli attivati si sono collocati a supporto della qualificazione della dimensione transfrontaliera e a supporto delle attività precipue delle peculiarità locali.

Un altro elemento qualificante è stato il tentativo di fare rete e ridefinire le rappresentazioni della rete stessa. In specifico questo ha significato, rispettivamente, ridurre la strutturazione istituzionale per liberare energie e risorse in Ticino e sostenere un percorso per “cucire” relazioni stabili tra attori che operano in ordine sparso a Novara (per fronteggiare la dispersione di energie e risorse), dotandosi di strumenti relativi quali ad esempio il Portale inteso come spunto informativo unico di accesso ai servizi.

La scoperta e la valorizzazione delle nuove figure presenti nelle reti territoriali, e particolarmente il riconoscimento del ruolo dell’assistente familiare, e la messa in luce della centralità dei sistemi di relazione nel lavoro di cura a domicilio sono stati altrettanti punti chiave del progetto: si tratta di triangolazioni complesse che connotano l’esigenza di un pensiero strutturato sulla filiera emergente dei white job. Si tratta infatti di competenze “al lavoro”, perché il cambiamento sociale rende impensabile il ritorno al modello familistico di presa in carico. Il progetto tematizza bene come i processi di cambiamento abbiano forti connotazioni interculturali: nel futuro del lavoro di cura la dimensione

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del confronto, dello scambio e della negoziazione tra valori e appartenenze sarà centrale, sia nell’accezione transnazionale (considerata la generalizzata dipendenza del settore professionale dal lavoro delle migranti), sia in quella interprofessionale (vista la necessità di reimpostare in modo paritario le relazioni tra i diversi ruoli nel lavoro di cura), sia in quella intergenerazionale e di genere. Emerge il bisogno di riconoscere il valore delle nuove competenze agite nel secondo welfare, quelle del familiare curante, del volontario, delle figure di prossimità, della badante. Ci si è interrogati su come queste nuove realtà possono essere formate, riconosciute, fatte dialogare coi servizi e le figure codificate in una logica di servizio territoriale partecipato.

In specifico emerge l’urgenza di passare dalla logica delle prestazioni standardizzate all'intervento in continua ridefinizione e personalizzazione, che presuppone l'azione complementare di più attori.

In particolare, tra le competenze emergenti si evidenzia il passaggio dal fare al saper raccontare (la funzione chiave della narrazione, come riflessione, relazione, transfer).

Il progetto fa emergere in una nuova luce ruoli e funzioni professionali, da quelle codificate degli operatori socio-sanitari e socio-assistenziali a quelle non codificate che si dedicano all’aiuto domestico e all’accompagnamento dell’anziano. Si tratta di figure “perno”. Gli operatori socio sanitari (OSS) riconosciuti sul campo come prestatori, appaiono sul versante italiano misconosciuti nella loro competenza progettuale e poco valorizzati nella rete della presa in carico; questo fa emergere degli spazi per riflettere sul contributo di questa figura al presidio di una progetto in continua ridefinizione e personalizzazione. In entrambi i contesti si tratta inoltre di portare a visibilità il ruolo della “badante” / assistente famigliare a partire dalle sue rappresentazioni di ruolo, dalle sperimentazioni di codificazione del ruolo (vedi l’esperienza sviluppatasi anche grazie al progetto in Ticino, con la definizione del Diploma Cantonale per collaboratori/collaboratrici

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famigliari), dalle convergenze che si riscontrano nei vari contesti, pur in un sistema di relazioni molto diverso. In tal senso la domanda a cui le riflessioni contenute in questo volume cercano di dare alcune risposte è: si possono immaginare prospettive per tale figura come vero perno della cura a domicilio?

Un’altra pista è relativa al costruire competenze partendo dalle pratiche e dalle biografie; si tratta di riflessioni sulla pratica, sullo scambio, sul problem setting e problem solving, per contribuire alla definizione di identità professionali solide. Emerge una riflessione concreta sul ruolo delle biografie nella costruzione della competenza, sulla necessità di pratiche che facciano dell’esperienza una sede di apprendimento attraverso la riflessione, sul peer learning e sull’assunzione di funzioni formative nuove da parte delle prestatrici esperte (ad esempio le OSS) come mentori nei confronti di chi entra nella cura a domicilio senza una formazione formale.

Questo volume, che raccoglie risultati e suggestioni, intende anche dialogare con alcune recenti esperienze maturate in contesti vicini nel medesimo territorio dell’innovazione sociale. L’approfondimento di una recente pubblicazione particolarmente importante a livello piemontese, ma non solo, (“Alla prova della crisi. L’innovazione sociale in provincia di Cuneo. Secondo rapporto”. I quaderni della Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo, n. 24, marzo 2015) offre la possibilità di confrontarsi e rispecchiamento con gli “insegnamenti” che vengono da uno dei contesti “socialmente” più avanzati del territorio piemontese. Declinando l’innovazione sociale secondo le politiche europee (Guida all’innovazione sociale 2013) ci rendiamo conto che siamo di fronte non ad una mera innovazione nella fornitura di un servizio o produzione di un bene, ma ad una radicale trasformazione del modo in cui un servizio o un bene sono concepiti, ideati, progettati, offerti, verificati, attraverso processi di partecipazione e coinvolgimento allargato. Ne consegue che “innovazione sociale non è semplicemente l’esito, il prodotto finito, ma un processo che deve

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prevedere momenti di coinvolgimento e partecipazione, passando attraverso quattro fasi distinte: 1. identificazione del bisogno insoddisfatto; 2. sviluppo di nuove soluzioni in risposta a tale bisogno; 3. valutazione di efficacia di tale soluzione; 4. proposta di estensione su scala più ampia di essa.”

Sicuramente una prospettiva di riflessione da sviluppare a conclusione del progetto Casa Comune è relativa al comprendere se gli esiti presenti anche in questo volume possano annoverarsi tra le esperienza di innovazione sociale e quali siano i limiti e gli elementi di perfezionamento. Si tratta infatti di una pre-condizione culturale per presentare l’esperienza realizzata come prassi fruibile e spendibile ai territori vicini ( in Piemonte e in Ticino ) e ai soggetti sovraordinati in una logica di vera disseminazione, di mainstreaming e di sostenibilità in una fase di selezione delle priorità e delle risorse da dedicare.

Dalle conclusioni e proposte del Quaderno citato in precedenza vengono fornite, in sintesi, “Indicazione di prospettiva” per sostenere innovazione sociale nel futuro: − adozione di patti di cooperazione a rilievo istituzionale; − gradualismo in un orizzonte definito nell’ambito di piani pluriennali,

con previsione di azioni di monitoraggio e valutazioni intermedie; − sostegno alla diffusione delle buone prassi; − valorizzazione selettiva degli stimoli nazionali ed europei.

Questi stimoli interrogano il partenariato che ha promosso il progetto Casa Comune e spingono a praticare ulteriormente, ad esempio sul primo punto, uno sforzo per recuperare la dimensione della governance e del metodo di lavoro integrato per affrontare un tema specifico partendo da pratiche già esistenti nel territorio piemontese1, laddove si riferisce che “le reti vanno costruite e

1L’e-book“Lavorare è vivere”(http://www.provincia.torino.gov.it/formazione/eventi) raccoglie le esperienze della Provincia di Torino ( ora Città Metropolitana) realizzate

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presidiate anche all’interno delle strutture operative, progettuali e programmatorie, connettendo tra loro i diversi filoni organizzativi intervenienti nello specifico campo di azione”. Lo sforzo prodotto, pur con le non poche difficoltà organizzative, ha facilitato la messa in comune delle risorse e una migliore definizione dei bisogni emergenti.

Anche il quarto punto sulla valorizzazione selettiva degli stimoli offre spunti di urgente attualizzazione; per esempio il processo avviato dalla Regione Piemonte con il “Patto per il sociale” che individua il livello locale come ambito per praticare il “distretto della coesione sociale”, implica l’urgenza di ripensare nelle prossime settimane e nei prossimi mesi responsabilità e modelli di azione tra pubblico e privato. Si riportano di seguito alcuni rapidi spunti dalle bozze di documenti prodotti dall’Assessorato regionale al Welfare sul “Patto per il sociale” laddove si propone come ambiti di intervento: − Sperimentazione di sostegni all’abitare presso le proprie

residenze con voucher per l’acquisto di servizi di cura e utenze domestiche. A ciò sarà collegata l'emissione di un nuovo profilo formativo per chi esercita attività di cura presso i domicili degli anziani, con l'avvio di brevi corsi di formazione. Questo percorso (dare alle famiglie la possibilità di acquistare un servizio qualificato tramite le Agenzie per il lavoro), garantirà l'emersione di quote di lavoro nero, nuove assunzioni, ma, soprattutto, maggiore qualità nell’erogazione dei servizi;

− Definizione del profilo di assistente familiare, della durata di 200 ore, a cui si possono affiancare percorsi di certificazione delle

dal 2009 al 2014 a favore delle persone con disabilità utilizzando le risorse del Fondo Regionale Disabili

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competenze, con crediti in ingresso per ridurre le ore di formazione, destinati a lavoratori con buona esperienza nel settore;

− Costituzione di elenchi di assistenti familiari qualificate, in possesso, quindi, di adeguate competenze, appositamente predisposti presso gli sportelli dedicati all’incontro fra domanda e offerta di lavoro. A tal proposito, nei territori regionali, vi sono già state molteplici sperimentazioni di sportelli specialistici sul lavoro di cura rivolti ad anziani e disabili. Per esempio, i Centri per l’Impiego della Città metropolitana di Torino, a titolo gratuito, favoriscono l’incontro tra la domanda e l’offerta di assistenti familiari qualificate. Inoltre, con propri operatori accompagnano famiglie ed assistenti familiari in tutto il percorso di selezione e di inserimento lavorativo, offrendo un servizio di consulenza sui contratti di lavoro e sulle pratiche amministrative per l’attivazione di un regolare rapporto di lavoro”. Sul versante ticinese, d’altro canto, ci si interroga oggi sul come

favorire l’integrazione delle nuove figure di aiuto domestico, accompagnamento e presa in carico dell’anziano nella complessa rete pubblico – privata della cura a domicilio (Spitex). Un passo importante è la codificazione del ruolo della collaboratrice famigliare (Diploma Cantonale), ma ulteriori passi e riflessioni sono attesi nel contesto del nuovo programma di legislatura del Cantone, nel campo dell’organizzazione dei servizi sociali e sanitari, che sarà la sede per dare sbocco alle esperienze di progettazione partecipata sviluppate nel contesto del progetto Casa Comune. Ci si interroga su come modulare in modo differenziato il servizio (fornendo alternative al modello della badante coresidente), come valorizzare forme di housing sociale, come mettere in valore le reti di prossimità e vicinato, come ottimizzare il partenariato pubblico – privato nel passaggio dalla logica della prestazione a quella della promozione. Si prova a costruire un modello di governance in cui la dimensione cantonale e quella delle regioni, presidiate dalla rete dei SACD, possano interagire in modo ottimale.

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Si tratta in entrambi i contesti di ulteriori scelte che pur in una fase di diminuzione di risorse spingono a una finalizzazione delle stesse verso elementi coprogettati in cui si inseriscono da oggi gli esiti di Casa Comune per nuovi percorsi di crescita e di progettualità ad essa dedicate.

Queste ultime considerazioni sono sicuramente strategiche rispetto all’incrocio con gli obiettivi della prossima programmazione FSE e FESR e possono costituire la base di un nuovo paradigma per il futuro, come per esempio comprendere e approfondire a livello transfrontaliero quali sono le condizioni istituzionali, culturali, organizzative e professionali per forme innovative di housing che declinino socialità e sostenibilità (nelle sue varie dimensioni).

Il volume “Ripensando la cura domiciliare per gli anziani” raccoglie

e problematizza l’insieme di queste riflessioni e suggestioni all’interno di tre sezioni.

La prima sezione si propone di ricostruire il profilo della popolazione anziana a Novara e nel Canton Ticino e dei servizi a sostegno della domiciliarità che i due territori offrono. Al centro di questa prima parte c’è l’anziano e i suoi bisogni ma gli sguardi da cui si legge questa condizione sono plurimi e coinvolgono anche gli altri soggetti della rete delle cure domiciliari: i familiari, le assistenti familiari, le istituzioni pubbliche, il volontariato. Da prospettive differenti (sociologica, transculturale, istituzionale) gli autori restituiscono così al lettore una fotografia policromatica della condizione anziana, delle sue problematiche e delle strategie di risposta attuali e possibili. Nonostante la diversità di approcci e di sensibilità emergono in questi contributi diversi punti di convergenza nelle analisi dei bisogni e nella proposta di strategie nuove di risposta a una pluralità di domande di assistenza che gli anziani esprimono sui due versanti della frontiera.

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All’interno di questa cornice si inseriscono i contributi della seconda sezione del volume il cui principale focus di analisi è relativo alla (ri) progettazione dell’azione sociale nel sistema delle cure domiciliari. Se i contributi della prima sezione rappresentano sguardi paralleli, complementari ma allo stesso tempo autonomi, i contributi della seconda sezione si possono leggere anche su un piano più cronologico, che segue la storia e l’evoluzione delle fasi del progetto Casa Comune: dallo scambio e dal benchmarking transfrontaliero sono emersi temi, proposte e suggestioni che hanno orientato le successive scelte degli attori sociali e istituzionali coinvolti nel progetto verso la proposta di nuovi modelli di intervento nell’ambito dell’assistenza domiciliare, basati sulla prospettiva del secondo welfare (dalla protezione alla promozione sociale) e sugli assunti teorici e metodologici della progettazione partecipata e del modello “Officina sociale”.

La terza sezione è dedicata alle competenze “emergenti” e ai processi di formazione e qualificazione professionale. Se il protagonista della prima sezione è l’anziano, i contributi di questa terza parte ruotano attorno al riconoscimento del ruolo e delle funzioni dell’assistente familiare, superando l’anomalia che ha finora contrapposto una crescente domanda del mercato del lavoro ad una mancanza di riconoscimento del ruolo e ad una scarsa codificazione dello statuto professionale. La raccolta delle biografie ci restituisce un quadro di vissuti personali complesso e ricco di esperienze di vita e di lavoro da parte delle persone, spesso straniere, che esercitano questa difficile professione. La proposta di un dispositivo formativo che sostenga i processi di sviluppo professionale delle assistenti familiari, anche attraverso un adeguato riconoscimento degli apprendimenti formali e informali, si propone invece di fornire suggerimenti alle istituzioni preposte per (ri) pensare la formazione di questa importante figura professionale.

Il volume si conclude con un approfondimento dedicato al ruolo dell’attore pubblico locale nei nuovi scenari dell’innovazione sociale e

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del secondo welfare. La prospettiva di una governance allargata e condivisa, più volte richiamata in questo volume, spinge l’attore pubblico a livello locale verso l’assunzione di un nuovo ruolo dei facilitatore dei processi, di coordinatore delle reti, di promotore di partnership pubblico-privato. Anche dalla capacità di assunzione di questa nuova responsabilità dipenderà in futuro la possibilità di tradurre nella pratica le proposte e le suggestioni che questa pubblicazione ha voluto raccogliere, nella direzione di favorire sviluppo e innovazione sociale.

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Parte prima La condizione anziana tra nuovi bisogni e offerta di

servizi in Ticino e a Novara

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1.

Famiglie e anziani nel cambiamento sociale: il caso di Novara

di Maurizio Ambrosini2

1.1 Il problema e l’indagine Non servono molte parole per sottolineare che l’invecchiamento

della popolazione rappresenta una grande conquista e insieme un grande problema del nostro tempo.

Secondo l’Istat (2013), la speranza di vita alla nascita (vita media) dei maschi è arrivata a 79,4 anni nel 2010, mentre quella delle femmine raggiunge gli 84,4 anni. In media, ogni anno i cittadini del nostro paese guadagnano oltre un mese di vita in più. L’Italia è uno dei paesi più longevi dell’Europa e del mondo, superata nell’Unione europea soltanto dalla Svezia per longevità maschile, da Francia e Spagna per quella femminile. Se si considera la speranza di vita alla soglia dei 65 anni, l’orizzonte temporale per i maschi è di 18,3 anni mentre per le donne arriva a 21,9 anni.

Il rovescio della medaglia di questo grande progresso consiste nel fatto che l’aumento della capacità di sopravvivenza, combinandosi con il calo della fecondità, rende l’Italia uno dei paesi più vecchi al mondo. Questo fenomeno è espresso sul piano demografico dall’indice di

2. Ha collaborato all’analisi Giuseppe Porzio

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vecchiaia, che illustra il rapporto tra popolazione “anziana” (65 anni e oltre) e popolazione “giovane” (0-14 anni): al 31 dicembre 2011, ultimo dato disponibile, l’Italia, con 148,6 anziani ogni 100 giovani, è al secondo posto fra i paesi europei nel processo di invecchiamento della popolazione, preceduta soltanto dalla Germania (155,8 per cento) e seguita a una certa distanza da Bulgaria e Grecia (rispettivamente 140,9 e 137,0).

E’ ampiamente noto che il prolungamento della vita comporta anche la formazione di una popolazione classificata come “anziana” sotto il profilo demografico, ma in realtà ancora molto attiva, sia nella collaborazione con le generazioni successive nell’ambito familiare, sia nel dominio più ampio della vita sociale, della domanda culturale, dei consumi, del turismo, senza dimenticare la partecipazione civica e il volontariato.

Inevitabilmente però l’invecchiamento si traduce a un certo punto in domanda di sostegno e assistenza. I successi medici conseguiti nella cura delle patologie acute hanno come conseguenza un aumento delle patologie degenerative e croniche, che si traducono in una crescita dei fabbisogni assistenziali.

Specialmente in Italia, come nel resto dell’Europa meridionale, il regime delle cure delle persone in condizioni di bisogno si organizza tuttora intorno al ruolo centrale delle famiglie, e più precisamente delle donne, come mogli e madri prima, come figlie o nuore di genitori anziani dopo. Alla crescita della partecipazione femminile al lavoro extradomestico non ha corrisposto né un adeguato sviluppo dei servizi pubblici, né una sufficiente redistribuzione dei compiti all’interno delle famiglie. La cura degli anziani, così come di bambini, ammalati, persone con disabilità, nonché delle abitazioni e dei servizi necessari per la vita quotidiana, continua a pesare principalmente sulle donne adulte. In questo regime delle cure le politiche sociali non solo sono comparativamente meno sviluppate, ma consistono anche prevalentemente in trasferimenti di reddito: pensioni relativamente

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generose e indennità a favore delle persone con seri problemi di autosufficienza, non selettive in relazione al reddito e alla struttura familiare delle persone in stato di bisogno.

Le famiglie quindi beneficiano dei trasferimenti di reddito e di molteplici forme di aiuto da parte dei congiunti anziani, ma si trovano anche a fronteggiare gli stessi compiti del passato, aggravati dai processi di invecchiamento. Hanno una minore disponibilità di forze per farsene carico, ma possiedono una dotazione relativamente maggiore di risorse economiche per acquistare privatamente lavoro o servizi, grazie al doppio reddito da lavoro o pensione, senza particolari controlli sulle modalità di impiego degli aiuti economici da parte dalle istituzioni pubbliche.

Tutto ciò comporta che le famiglie tendono a compensare la ridotta disponibilità di tempo ed energie femminili ricorrendo, al mercato, prevalentemente sotto forma di assunzione di aiuti domestici.

A differenza dei tradizionali servizi domestici, che rimangono associati prevalentemente con condizioni di classe sociale medio-alta, invecchiamento e bisogno di assistenza coinvolgono individui e famiglie di ogni condizione sociale. Tra pensioni, sovvenzioni pubbliche e aiuti dei figli, anche molti anziani di condizione popolare sono assistiti a domicilio da un’ “assistente familiare”, così come viene definita nel contratto collettivo di lavoro italiano, ma detta “badante” in un linguaggio comune riduttivo e svalutante. Sul versante opposto della scala sociale, è degno di nota il fatto che anche famiglie che non avrebbero problemi economici nell’affidare un congiunto anziano a una struttura residenziale di buon livello, ritengono più rispettoso e amorevole nei suoi confronti mantenerlo nella propria abitazione, assumendo un’assistente familiare, o se necessario anche due. Una cultura della domiciliarità e della diffidenza verso pratiche di istituzionalizzazione si è fatta strada anche nelle concezioni relative alla buona assistenza nei confronti degli anziani. Ma la preoccupazione di mantenere gli anziani nel proprio ambiente domestico e di assicurare

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loro un’assistenza personalizzata e sempre disponibile comporta l’instaurazione di un regime di lavoro e di vita imperniato sulla coabitazione, nei confronti delle lavoratrici (giacché si tratta in prevalenza di donne) assunte per prendersi cura di loro.

Si è sviluppato in sostanza dal basso un imponente e misconosciuto fenomeno di ristrutturazione dell’assistenza a domicilio degli anziani, gestita direttamente dalle famiglie al di fuori degli schemi di regolazione pubblica del settore, ma tollerata e sussidiata dai poteri pubblici. Accanto al sistema di welfare ufficiale, se ne è formato un altro, autogestito con modalità del tutto private dalle famiglie. Possiamo parlare al riguardo della formazione di un “welfare informale” o “parallelo”. Secondo i dati dell’INPS, sono circa 800.000 i lavoratori del settore domestico, per l’80% stranieri. Altre stime (Ismu-Censis) fanno salire la cifra fino a un 1.600.000. Per fornire un termine di paragone, gli occupati del Sistema sanitario nazionale sono circa 400.000.

L’invecchiamento richiede pertanto una presa in carico più sistematica da parte della società e delle sue istituzioni, valorizzando quanto di positivo esiste nella solidarietà familiare e nel welfare informale e introducendo gli elementi possibili di sostegno e correzione del funzionamento del sistema.

1.2 Il campione e la popolazione di riferimento

Un’adeguata conoscenza della situazione è alla base di ogni serio

progetto di innovazione nelle politiche sociali. Per questa ragione il progetto “Casa comune” ha previsto come passaggio iniziale un’indagine sul territorio, rappresentato dalla città di Novara.

La ricerca di cui presentiamo qui i risultati3 ha inteso disegnare il profilo della popolazione anziana novarese, rilevandone le condizioni

3. L’indagine si è svolta nell’estate del 2013 e ha coinvolto un campione rappresentativo della popolazione anziana novarese, stratificato per genere, età e

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di vita, i legami sociali, le domande assistenziali, il ricorso ad aiuti domestici. La finalità è quella di contribuire al ripensamento e allo sviluppo di soluzioni più avanzate per la risposta ai bisogni dell’invecchiamento, anche grazie al confronto con i partner ticinesi del progetto INTERREG nel cui ambito si colloca la ricerca.

La popolazione assunta come riferimento dalla ricerca è costituita dai residenti a Novara con età uguale o superiore ai 70 anni e nati in Italia, che di seguito verranno indicati come anziani. Complessivamente si tratta di 17.902 persone, con una prevalenza di femmine (62% del totale) rispetto ai maschi.

Il campione di anziani intervistati è composto da 213 persone. La sua individuazione ha cercato di tenere conto delle caratteristiche generali della popolazione di riferimento: Il 61% degli intervistati sono donne, il 39% uomini.

Le diverse caratteristiche di età e stato civile che contraddistinguono le femmine rispetto ai maschi si ripercuotono sulla loro condizione famigliare. Più della metà delle donne si trovano a vivere da sole, mentre la condizione più ricorrente tra gli uomini è quella di chi vive in una famiglia di più membri (in genere i coniugi) composta da soli anziani.

Una parte degli intervistati gode dei benefici che sono a diverso titolo riconosciuti dalla normativa alle persone che hanno bisogno di agevolazioni e assistenza. Al 15% degli anziani coinvolti è riconosciuta una invalidità. Il 9% ha un’indennità di accompagnamento, mentre coloro che hanno parenti che usufruiscono dei permessi concessi dalla legge n. 104 del 5 febbraio 1992 sono il 5%. Complessivamente, quasi il 18% degli intervistati gode di almeno uno di questi benefici. Le femmine tendono a godere di queste prestazioni in misura leggermente

quartiere di residenza. Si è basata su questionari strutturati somministrati direttamente agli anziani o in un certo numero di casi a chi si prende cura di loro, presso il domicilio degli intervistati.

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superiore dei maschi, anche se la percentuale di coloro che cumulano più di uno di questi benefici è praticamente simile per entrambi i generi.

La fruizione di qualche forma di beneficio riconosciuto dalla normativa tende a crescere con l’avanzare dell’età. Tra le persone che hanno raggiunto gli 85 anni il numero di coloro che si vedono riconosciuta qualche forma di sostegno e agevolazione tende decisamente ad aumentare. Così come risulta più frequente la presenza di un cumulo tra diversi tipi di benefici.

Il 70% degli anziani intervistati risiede in una casa di sua proprietà. Ad essi va aggiunto un altro 8% che vive nella casa di proprietà del convivente.

Complessivamente siamo quindi in presenza di persone che, almeno per quanto riguarda la casa, godono di una relativa sicurezza. Per una parte di popolazione anziana il problema potrebbe semmai essere quello del sovradimensionamento della propria abitazione rispetto alle reali esigenze, con i costi e le difficoltà di gestione che a volte questo comporta.

Alla sicurezza rispetto al godimento della casa in cui risiedono si associa una condizione abitativa che nella grande maggioranza dei casi non presenta particolari situazioni di disagio. Anche se naturalmente non vanno trascurate le situazioni in cui esistono difficoltà che influiscono sulla vita quotidiana degli anziani che vi risiedono.

Il 14% degli intervistati segnala che vi sono ostacoli o scale che rendono faticoso l’accesso all’abitazione. Il 7% denuncia un riscaldamento inadeguato. Il 4% ha a che fare con ostacoli che rendono problematico l’utilizzo autonomo dei servizi igienici.

1.3 Le attività svolte, il senso di benessere e le reti sociali Le attività più diffuse tra gli anziani sono la fruizione della

televisione (89% degli intervistati) e la lettura (65%). Subito dopo 23

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vengono le attività domestiche quali la cucina (65%) e la cura della casa (61%), a cui si aggiungono gli acquisti (50%). Altre attività riguardano gruppi più circoscritti di anziani. Il 28% dichiara di ascoltare e/o suonare musica. Altrettanti si prendono cura dei nipoti. Di lavoro a maglia e dell’orto/giardinaggio si occupano circa un quarto degli intervistati. Meno diffusi sono la pratica sportiva (13%) e lavori di bricolage (10%). Solo l’8% degli intervistati dichiara di non fare nulla e di annoiarsi.

Le femmine si dedicano in misura decisamente superiore rispetto ai maschi alla cucina e alla cura della casa, oltre che a lavori di maglia e cucito. Inoltre leggono di più rispetto ai maschi. Questi ultimi si dedicano in misura proporzionalmente maggiore rispetto alle femmine ad attività sportive, a lavoretti di artigianato e all’ascolto della musica. Anche la cura dei nipoti è appannaggio più frequentemente dei maschi.

Per i maschi le fonti di piacere indicate più frequentemente risultano essere la possibilità di occuparsi dei propri hobbies e la cura dei parenti (in particolare dei nipoti). La maggior parte delle femmine trovano soddisfazione nella cura della casa e, oltre che nei propri passatempi, nella possibilità di ricevere visite di parenti ed amici.

Per quanto riguarda la valutazione delle proprie condizioni, la debolezza fisica è il fattore che viene indicato più frequentemente dagli anziani (36% degli intervistati) come fattore di malessere. Cominciare ad avvertire che le forze vengono meno costituisce un problema particolarmente sentito da molti anziani.

Un altro fattore critico viene indicato dal 18% degli intervistati nella solitudine affettiva. Il senso di una perdita di autonomia e di un minor riconoscimento sociale circa un proprio ruolo “produttivo” sono avvertiti con disagio da circa un intervistato su dieci. Più contenuto appare invece il disagio associato ad una percezione di isolamento sociale o alla lontananza dai figli.

Tra gli anziani che vivono soli è relativamente più presente un senso di solitudine affettiva, mentre coloro che vivono con famigliari non

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anziani sembrano avvertire un po’ più degli altri un senso di debolezza fisica e di dipendenza dagli altri oltre che, forse un po’ sorprendentemente, di isolamento sociale. Tra coloro che appartengono a famiglie di soli anziani è un po’ più avvertito un disagio legato alla perdita di un ruolo produttivo.

La solitudine affettiva sembra quindi relativamente più diffusa tra le donne che vivono sole. Il senso di debolezza fisica invece è un problema che diventa progressivamente più evidente con l’età, che è diffuso soprattutto tra le donne intervistate (che abbiamo visto essere più numerose nelle fasce di età più elevate) ed è avvertito in misura più marcata da coloro che vivono con famigliari più giovani. Questi ultimi sentono maggiormente anche il disagio di dipendere da altri.

La perdita di un ruolo produttivo è un problema avvertito soprattutto dagli intervistati relativamente più giovani di genere maschile, che per lo più vivono in famiglie composte da soli anziani.

A fronte di possibili emergenze e imprevisti i figli costituiscono la fonte a cui chiedere immediatamente aiuto e supporto per il 65% degli intervistati. Un altro gruppo (15%) farebbe in primo luogo ricorso ai parenti. Altri riferimenti per un primo soccorso risultano con una qualche frequenza anche i vicini ed il telesoccorso (entrambi indicati da un 8% di intervistati). Decisamente trascurabile il ricorso ad altre categorie di soggetti quali amici, servizi pubblici, assistenti famigliari, volontari.

In generale tra gli anziani è comunque diffuso un forte senso di sicurezza circa la possibilità di ricevere un tempestivo aiuto in caso di emergenze o imprevisti. La grande maggioranza degli intervistati ritiene che , al di là del telesoccorso, ci sia comunque qualcuno a cui potersi rivolgere e che potrebbe intervenire in pochi minuti.

Abbiamo già evidenziato come la presenza di figli rappresenti una risorsa a cui si può potenzialmente ricorrere per rispondere a bisogni di relazione o di aiuto. Gli anziani con un figlio convivente sono il 24%. Ma anche in caso di figli non conviventi il tempo necessario per recarsi

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dall’anziano è di pochi minuti (86% dei casi). La presenza e/o la vicinanza dei figli, che caratterizza la condizione della maggior parte degli anziani, non deve tuttavia portare a trascurare che il 12% di essi non può contare su questo aiuto. Aspetto che va tenuto a maggior ragione presente considerando che il 58% di queste persone vivono da sole.

La maggioranza degli anziani è inserita in una rete di frequentazioni che tende in primo luogo ad essere costituita dai parenti (l’85% degli intervistati dichiara di frequentare dei parenti), ma rimane comunque molto significativa anche se si considerano gli amici (67%) ed i vicini (63%). Meno frequenti sono coloro che partecipano alle attività dei centri di aggregazione diurna (che rappresentano comunque il 23% del totale), mentre solo il 5% riceve la visita di volontari.

Oltre ad essere diffuse, le relazioni con la cerchia parentale appaiono anche molto ricorrenti. Quasi la metà di coloro che dichiarano di frequentare i propri parenti lo fa con una cadenza giornaliera. Ad essi va aggiunto un altro 34% che li incontra una o più volte alla settimana. Anche i rapporti con la rete amicale si alimentano attraverso relazioni frequenti e regolari. La situazione più ricorrente è quella di una o più occasioni di frequentazione nell’arco della settimana (44% di coloro che dichiarano di frequentare abitualmente degli amici). Ad essi si aggiunge un 34% di casi in cui la cadenza delle relazioni con gli amici è giornaliera. Solo in un caso su cinque le relazioni con gli amici assume un carattere più sporadico.

A questa fitta e gratificante rete di relazioni, sviluppate per lo più all’interno di un contesto parentale ed amicale, una parte di anziani unisce un proprio contributo attivo di cura e supporto alle esigenze di altre persone della cerchia famigliare e sociale. Gli anziani che dichiarano di prendersi cura dei nipoti sono il 26%. Quelli che lo fanno risultano parecchio coinvolti in questa attività. Il 59% di coloro che accudisce i nipoti è chiamato ad un impegno giornaliero, mentre un altro 20% dà comunque un contributo una o più volte alla settimana. Si

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tratta di una quota non trascurabile, se si considera che stiamo parlando di persone che hanno almeno 70 anni e, per una parte significativa, anche 80 e più anni. In una analoga prospettiva va valutata anche la partecipazione ad attività di volontariato da parte di un 14% degli intervistati.

1.4 I bisogni di supporto Le attività per cui una quota più elevate di anziani segnala di non

avere una piena autonomia riguardano in primo luogo la gestione delle pratiche burocratiche (solo il 54% dichiara di essere pienamente autonomo). Anche la gestione delle relazioni con il sistema sanitario costituisce un ambito che per una parte significativa di anziani comporta delle difficoltà: la percentuale di coloro che si dichiarano pienamente autonomi nella prenotazione di visite ed esami e nel recarsi successivamente presso l’ASL per la loro effettuazione è rispettivamente del 64% e del 62%. Un po’ più semplice appare la relazione con il medico di

La gestione dei prelievi in denaro è un’altra attività vissuta come relativamente critica da una parte considerevole di intervistati (62% di pienamente autonomi). Subito dopo emerge un bisogno abbastanza diffuso di supporto per quanto famiglia (73% pienamente autonomi).riguarda attività come le faccende domestiche (65% di pienamente autonomi) e la spesa (66%).

Più circoscritto appare il bisogno di supporto relativo alla mobilità fisica, anche se comunque il 20% non è pienamente autonomo per quanto riguarda la deambulazione e l’utilizzo delle scale. Il problema diventa decisamente più rilevante viene interpretato come un bisogno di spostamenti significativi nel territorio: coloro che non sono pienamente autonomi nell’uso di mezzi di trasporto salgono al 36%. E’ inoltre da rilevare che la mancanza di autonomia relativamente all’uso delle scale e dei mezzi di trasporto è anche quella che provoca

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più frequentemente situazioni di criticità, perché una parte degli intervistati (il 3%) non può contare su un supporto che li aiuti a superare queste difficoltà.

Ancora più ridotto è il numero di coloro che non sono pienamente autonomi nelle attività relative in modo più diretto alla propria cura personale, anche se si tratta pur sempre di percentuali che oscillano tra il 13% e il 15% degli intervistati.

A fronte dei livelli di autonomia e dei bisogni di supporto ricordati in precedenza gli anziani che ricorrono ad un aiuto al proprio domicilio sono il 42% del totale. La percentuale di donne è più del doppio di quella degli uomini. Più della metà delle donne (55%) dichiara di ricorrere ad un aiuto a domicilio. Mentre solo poco più di un maschio su cinque (22%) fa altrettanto.

Anche l’età e la condizione familiare influiscono sul ricorso o meno ad un aiuto a domicilio. La percentuale di coloro che ricorrono ad un aiuto domestico sale sensibilmente a partire dagli 80 anni. Nella fascia 80-84 anni la percentuale di coloro che ne usufruiscono sale di più di 15 punti percentuali rispetto a quelle precedenti, per aumentare ulteriormente in quelle successive.

Le famiglie composte da coppie di anziani sembrano quelle che hanno meno bisogno di ricorrere ad un aiuto domestico, mentre la percentuale è decisamente più alta per quelli che vivono soli, riguardando più della metà dei casi.

Il fatto che i maschi presenti nel campione siano in generale più giovani e più frequentemente inseriti in una famiglia composta da più anziani contribuisce a spiegare, almeno in parte, come la percentuale di coloro che dichiarano di ricorrere ad un aiuto domestico risulti decisamente inferiore rispetto alle femmine.

La fonte di aiuto a cui si fa più frequentemente riferimento è una collaboratrice familiare (il 54% dei casi). Subito dopo vengono i figli (32%) e le assistenti famigliari (17%). Meno frequente il ricorso a parenti (10%), amici/vicini (6%) e assistente comunale (4%).

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In quasi la metà dei casi l’aiuto dei figli si integra con altre fonti di supporto all’anziano. Nel 17% dei casi esso costituisce un tassello di una più ampia rete parentale. Ma appare soprattutto interessante sottolineare come l’aiuto dei figli venga integrato dall’apporto di una collaboratrice famigliare (17%) o, ancor di più, da un’assistente famigliare (26%). Sembrerebbe possibile ipotizzare che in queste situazioni il ruolo dei figli, oltre che per lo svolgimento di attività specifiche (soprattutto quelle che prevedono un impegno meno assiduo per lo svolgimento delle incombenze), si connoti in qualche modo come regia o supervisione rispetto all’apporto di altre risorse. Possiamo parlare in questi casi di care management.

1.5 L’aiuto di collaboratrici/collaboratori domestiche e assistenti famigliari Abbiamo visto in precedenza come il ricorso a

collaboratrici/collaboratori domestici risulti la modalità più frequente tra coloro che dichiarano di ricevere qualche forma di aiuto a domicilio, riguardando il 23% del totale degli intervistati.

Le prestazioni di queste lavoratrici hanno l’estensione di alcune ore alla settimana, indipendentemente dal tipo di famiglia in cui è inserito l’anziano. I casi di un impegno più assiduo sono molto meno frequenti. Una parziale eccezione è riscontrabile nelle famiglie di soli anziani. Tra le famiglie di questo tipo, quando si ricorre ad una collaboratrice/collaboratore domestica/o, in quasi un caso su quattro si richiede un supporto giornaliero. Sembrerebbe che queste famiglie, che tendenzialmente hanno meno bisogno di aiuto delle altre e ricorrono ai figli solo saltuariamente, nel momento in cui si avvalgono di un supporto per il lavoro domestico tendano ad utilizzarlo con più frequenza. Non è da escludere che anche la presenza di un ammontare complessivamente maggiore di introiti legati alle pensioni di più

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anziani renda possibile avvalersi di queste collaborazioni con maggiore frequenza.

Il contributo della collaboratrice/collaboratore domestica/o appare molto mirato alla pulizia di casa (80% dei casi) e allo svolgimento di altri lavori domestici (53%). Una piccola parte si occupa anche di fare la spesa (12%). Del tutto trascurabile appare il loro apporto per quanto riguarda attività di assistenza più diretta per i bisogni più attinenti alla sfera personale dell’anziano. Nello stesso tempo essi non sono quasi mai vissuti come la risposta ad un bisogno di compagnia.

In generale l’apporto di collaboratrici o collaboratori domestici, pur relativamente diffuso all’interno del campione, appare orientato a mansioni molto specifiche. Esso sembra utilizzato per lo più da anziani che non hanno bisogno di altre forme di supporto e che quindi solo in una quota poco rilevante di casi associano questo contributo all’aiuto ricevuto da altri soggetti.

Dell’aiuto di assistenti famigliari (comunemente definite “badanti”) dichiara di avvalersi il 7% del campione di anziani intervistati. Nella maggioranza dei casi (53%) si tratta di una presenza continua presso l’anziano. Un altro 20% di coloro che ricorrono ad un’assistente famigliare utilizzano questo servizio per alcune ore al giorno. Un altro 27% richiede la sua presenza solo per alcune ore la settimana.

A ricorrere in modo meno intensivo al supporto di un’assistente famigliare sono le famiglie composte da coppie di anziani. Mentre la loro presenza è nella maggioranza dei casi continua, o comunque almeno giornaliera, in tutti i casi di aiuto ad anziani soli.

Il contributo richiesto alle assistenti famigliari, a differenza di quanto evidenziato nel caso di collaboratrici/collaboratori domestiche/i, tende ad essere meno specifico e a riguardare l’insieme della maggior parte delle incombenze che gli anziani si trovano ad affrontare.

In primo luogo, nella grande maggioranza dei casi (80%) sono percepite anche come occasione di compagnia da parte dell’anziano. Inoltre si occupano principalmente di attività di assistenza nella cura

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diretta della persona anziana quali l’aiuto nell’igiene personale (80% dei casi), le medicazioni/somministrazioni di terapie (73%), l’aiuto nel vestirsi/svestirsi (66%). Tuttavia il loro apporto si estende molto spesso anche al disbrigo di lavori domestici (73%) e alla pulizia della casa(60%). Il loro contributo sembra quindi caratterizzarsi per una presa in carico complessiva dei bisogni dell’anziano e per lo sviluppo di una relazione di stretta prossimità.

Un altro elemento che sembra distinguere l’apporto di assistenti famigliari rispetto a collaboratrici/collaboratori domestici riguarda la sua integrazione con altre figure di aiuto che supportano l’anziano. In più della metà dei casi gli anziani che dichiarano di ricorrere ad un’assistente famigliare evidenziano anche l’aiuto che viene loro fornito dai figli. In altre situazioni il contributo di queste lavoratrici viene associato a quello ricevuto da parenti, amici/vicini o collaboratrici/collaboratori domestici. Solo il 27% degli anziani che si avvalgono del contributo di assistenti famigliari dichiarano di non ricevere aiuto da altre persone. L’intensità e la multidimensionalità dell’aiuto fornito, oltre al loro inserimento all’interno di una rete di supporto che prevede anche altre presenze, sembrano rappresentare la peculiarità di queste figure.

Le persone che prestano il servizio di aiuto domestico agli anziani intervistati sono in grandissima maggioranza donne. Si tratta di persone in età matura. Quelle che hanno meno di 40 anni sono solo l’8% del totale. La fascia di età più numerosa è costituita da cinquantenni (il 43% del totale). Il 17% hanno a loro volta superato i 60 anni. Quasi la metà (45%) di coloro che erogano un servizio di aiuto domestico sono stranieri. Il gruppo di gran lunga più consistente proviene dall’Ucraina.

Già dalla fase di reperimento delle persone disposte ad erogare il servizio di aiuto domestico si configura una modalità di regolazione di tipo informale e personalistico. Nella quasi totalità dei casi il reperimento del collaboratore domestico è avvenuto attraverso il

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passaparola (79%) o mediante una conoscenza pregressa della persona individuata (11%).

Non solo in questa ricerca sono quasi assenti i riferimenti ai canali istituzionali e professionali, ma anche la presenza di un ruolo del mondo dell’associazionismo e del volontariato appare del tutto trascurabile. L’elevata informalità e l’assenza di riferimenti normativi e professionali che caratterizza l’erogazione di questi servizi è confermata dalle modalità con cui vengono regolate le prestazioni. Nell’82% dei casi siamo infatti in presenza di un accordo verbale con cui si definiscono reciprocamente gli impegni assunti e le modalità con cui verrà fornito il servizio.

La cittadinanza italiana non appare un elemento che favorisce una formalizzazione del rapporto di lavoro rispetto alle persone straniere. La percentuale di lavoratrici straniere che erogano il servizio con un rapporto di lavoro formalizzato risulta infatti superiore a quella dei cittadini italiani.

Alle prestazioni erogate corrispondono dei guadagni contenuti, anche perché che nella grande maggioranza dei casi siamo in presenza di rapporti di lavoro informali. Nel 76% dei casi il compenso non supera i 300 euro. Solo nel 6% dei casi arriva ad un ammontare tra i 900 ed i 1200 euro mensili. In nessun caso i guadagni superano quest’ultima soglia.

Anche in questo caso non sembra esistere una discriminazione ai danni degli stranieri, tra i quali vanno annoverati, probabilmente in virtù della presenza di una maggior quota di rapporti di lavoro formalizzati, coloro che fanno registrare i guadagni più alti. Nonostante l’elevata informalità i rapporti appaiono comunque duraturi. Nella metà dei casi gli anziani che ricorrono all’aiuto domestico hanno lo stesso collaboratore da almeno 5 anni. Nel caso dei collaboratori italiani la presenza di rapporti di lunga durata è più frequente. Ma anche per quanto riguarda gli stranieri più della metà prestano il servizio all’anziano da più di 2 anni.

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Agli intervistati è stato quindi richiesto in modo più diretto di precisare se utilizzano un servizio di assistenza domiciliare per la cura alla persona da parte di terzi, cercando di approfondire le caratteristiche e le condizioni che regolano la sua erogazione. Ad un servizio di assistenza domiciliare ricorre l’8% degli intervistati. Anche nel caso del servizio di assistenza domiciliare gli anziani che ne usufruiscono sono essenzialmente donne. Nel loro caso la percentuale sale al 12% delle intervistate, mentre nel caso dei maschi gli utilizzatori sono solo l’1% del totale. In realtà il ricorso ad un servizio di assistenza domiciliare sembra cominciare ad essere significativamente preso in considerazione dagli anziani solo dopo gli 85 anni. E’ infatti a partire da quelle classi di età che comincia a comparire una significativa quota di persone che utilizza un servizio di questo tipo. Nella classe di età 85-89 anni gli anziani intervistati che dichiarano di ricorrere ad un servizio di assistenza sono il 25% del totale. La loro quota sale al 45% nel caso di persone con 90 anni e oltre. La quota di anziani con meno di 85anni che utilizza il servizio appare molto limitata.

La condizione di anziano solo sembra inoltre aumentare la propensione a ricorrere ad un servizio di assistenza a domicilio. Un intervistato su dieci in quella condizione dichiara di utilizzarlo, praticamente il doppio rispetto a coloro che appartengono a nuclei familiari più numerosi.

Come già nel caso del ricorso al servizio di aiuto domestico, sia il procedere dell’età che il vivere da soli sembrano essere fattori che spingono più frequentemente ad utilizzare l’assistenza domiciliare per la cura della persona. Abbiamo già ricordato come entrambe queste condizioni siano più diffuse tra le femmine rispetto ai maschi, anche se c’è da chiedersi se questo elemento sia di per sé sufficiente a spiegare perché al servizio di assistenza domiciliare ricorra un numero così esiguo degli anziani maschi intervistati. Nella metà dei casi il servizio prevede una assistenza continuativa 24 ore al giorno. In tutte queste situazioni chi presta il servizio convive con la persona anziana.

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Un altro 31% di coloro che utilizzano questo servizio richiedono la presenza per alcune ore della giornata. Solo per un 19% degli anziani che ne usufruiscono l’impegno risulta di minore intensità, limitandosi ad alcune ore alla settimana.

Le attività che fanno più frequentemente parte del servizio di assistenza a domicilio sono naturalmente quelle inerenti il supporto alla cura della persona, quali l’aiuto nel vestirsi/svestirsi (presente nel 75% dei casi), le medicazioni/somministrazioni di terapie(75%), l’aiuto nell’igiene personale (69%). Abbastanza limitata è la sottolineatura da parte degli anziani della funzione di compagnia, che viene segnalata dal 19% di coloro che ricorrono ad un’assistente famigliare.

In realtà nella maggioranza delle situazioni considerate fanno parte integrante del servizio anche attività di aiuto domestico come il fare la spesa, la pulizia della casa e la preparazione dei pasti. Il servizio di assistenza domiciliare si caratterizza quindi per lo più come una attività di supporto all’insieme dei bisogni della persona anziana. In particolare quando l’assistenza è continuativa chi presta il servizio convive con l’anziano.

La ragione più frequente per cui si è deciso di attivare un servizio di assistenza domiciliare riguarda l’aggravamento delle condizioni di salute (40% degli interessati). In un terzo dei casi la decisione è scaturita da un insieme di ragioni. In questi casi al peggioramento della salute si uniscono ragioni legate alla volontà di rimanere comunque nel proprio contesto di vita o il bisogno comunque di avere qualcuno con cui relazionarsi più frequentemente.

Le persone che prestano il servizio di assistenza domiciliare agli anziani intervistati sono tutte donne. Tutte le assistenti domiciliari hanno almeno 40 anni di età. La fascia di età 50-59 anni, con il 53% del totale, rappresenta il gruppo più numeroso. L’età delle persone che prestano i servizi agli anziani, già elevata nel caso dell’aiuto domestico, aumenta ancora per quanto riguarda l’assistenza per la cura della persona.

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La quota di assistenti domiciliare di nazionalità straniera è decisamente più alta di quella, già rilevante, che si registra tra le collaboratrici domestiche. L’80% delle donne che svolgono questo lavoro di cura presso il domicilio dell’anziano sono straniere, e la maggior parte proviene dall’Europa orientale (83% delle assistenti domiciliari di nazionalità straniera). Le ucraine da sole rappresentano il 66% di tutte le persone di cittadinanza straniera. E’ inoltre interessante notare che le assistenti domiciliari di cittadinanza italiana erogano i servizi che richiedono una presenza meno assidua presso l’anziano, mentre quando i bisogni dell’anziano richiedono un maggiore impegno e coinvolgimento le assistenti sono sempre straniere.

Anche il reperimento delle assistenti domiciliari si caratterizza per l’assenza di un ruolo di mediazione da parte delle istituzioni e delle agenzie professionali, oltre che per quello marginale ricoperto dalle associazioni di volontariato. I contatti interpersonali e le modalità informali rimangono di gran lunga la strada più seguita per arrivare a reperire la lavoratrice di cui si necessita.

Nonostante il reperimento avvenga per lo più attraverso canali informali, nel caso dei sevizi di assistenza domiciliare la percentuale di persone con un rapporto regolato attraverso un contratto part time o full time è decisamente superiore rispetto a quella di chi fornisce un aiuto domestico. Solo il 27% risulta erogare il servizio sulla base di un accordo verbale, mentre il 60% ha un contratto a tempo pieno.

1.6 L’interesse a ricorrere a servizi di assistenza Gli anziani che in caso di necessità si dichiarano propensi ad

assumere un’assistente famigliare corrispondono alla metà degli intervistati. I maschi appaiono più propensi delle femmine. Se si esclude la classe di età 74-79 anni, i cui membri appaiono particolarmente poco propensi ad accogliere un’assistente famigliare presso la propria abitazione, la dichiarazione di eventuale interesse a

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ricorrere a questo servizio tende comunque a decrescere con l’avanzare dell’età. Le persone che teoricamente potrebbero averne più bisogno sembrano quindi essere quelle tendenzialmente più restie a considerare l’eventualità di accogliere un’assistente famigliare presso la propria abitazione.

La stessa considerazione può essere espressa anche osservando la dichiarazione di interesse verso questo servizio sulla base del tipo di famiglia in cui è attualmente inserito l’anziano. La propensione relativamente minore da parte di chi convive con membri non anziani potrebbe essere spiegata dal fatto che, per una parte di essi, questa scelta potrebbe costituire già una risposta ad un bisogno di maggiore assistenza (a fronte di una parziale limitazione di autonomia legata alla rinuncia a vivere da soli). E’ tuttavia interessante rilevare che chi vive solo manifesta una propensione ad accogliere un’assistente famigliare più bassa di coloro che vivono in una famiglia composta da più membri anziani.

I soggetti che appaiono in condizione di potenziale maggiore “fragilità”( persone avanti negli anni e/o che vivono soli) sono quelli che tendono a mostrarsi meno interessati all’eventualità di ricorrere ad un’assistente famigliare presso la propria abitazione.

E’ interessante notare però come poi l’effettivo utilizzo dei servizi di assistenza domiciliare riguardi soprattutto quei gruppi che in generale si dichiarano meno propensi ad accogliere in casa un’assistente famigliare. Una quota significativa di anziani mostra, in termini generali, una diffidenza verso l’eventualità di ricorrere ad una assistente famigliare presso la propria abitazione in quanto non la considera una soluzione in grado di garantire loro la necessaria “sicurezza”. Sembra quasi si possa riscontrare una sorta di “resistenza culturale” a prendere in considerazione questa opportunità, particolarmente diffusa proprio tra i soggetti potenzialmente più bisognosi di supporto. Salvo poi essere costretti a ricorrervi quando emergono concrete (e forse improcrastinabili) necessità di assistenza.

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Tuttavia, da un altro punto di vista, la metà degli anziani intervistati si dice comunque disposta a valutare il ricorso a un’assistente familiare presso la propria abitazione. Esiste quindi già oggi una notevole base di domanda potenziale di questi servizi, che gli attuali andamenti demografici indicano in forte crescita per i prossimi anni.

La domanda è sostenuta non solo da fattori soggettivi, ma anche da condizioni strutturali che potrebbero incentivarne la crescita. Il 76% degli intervistati dichiara che avrebbe la possibilità di ospitare un’assistente famigliare presso la propria abitazione.

1.7 Conclusioni. Dai risultati dell’indagine alle indicazioni propositive Riepiloghiamo in queste pagine conclusive i principali risultati

scaturiti dall’indagine, privilegiando gli aspetti meritevoli di maggiore attenzione sotto il profilo delle politiche sociali per la condizione anziana. Anzitutto, la famiglia si conferma come istituzione centrale sotto il profilo relazionale e della risposta alle diverse necessità: una famiglia, è bene ricordarlo, in cui gli anziani non sono soltanto beneficiari di aiuti, ma anche soggetti attivi e fornitori a loro volta di sostegno. Il 26% infatti si prende cura dei nipoti, in sei casi su dieci ogni giorno.

Grazie anche alle dimensioni della città di Novara, la presenza di familiari nelle vicinanze è pressoché generalizzata. Le reti primarie basate sulla famiglia risultano il principale sostegno degli anziani: i figli sono il punto di riferimento per il 65% degli intervistati, per il 15% gli altri parenti. Anche la rete di frequentazioni è basata soprattutto sui parenti (85%). La famiglia allargata è quindi il principale riferimento, sia nella vita quotidiana, sia negli eventi che richiedono interventi di supporto. Inoltre una percentuale altissima, il 99%, è soddisfatta del rapporto con i figli, il 90% per quanto concerne i parenti.

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Non va però trascurato il fatto che il 12% degli anziani è senza figli, e di questi più della metà vive solo: questa è un’area critica nella prospettiva della domanda assistenziale e delle misure di sostegno. Anche se hanno figli nelle vicinanze, il 37% degli anziani novaresi vive solo: gli anziani senza figli sono quindi il segmento più sensibile di un più ampio gruppo da tenere monitorato. Più della metà delle donne intervistate vivono sole, tra gli uomini molto pochi: una differenza che dipende da fattori epidemiologici, ma che rivela una diversa capacità di organizzazione della vita quotidiana e di fronteggiamento della solitudine. La solitudine nell’età avanzata ha quindi un genere, quello femminile.

La situazione abitativa è generalmente soddisfacente. Il 70% è proprietario di casa, e più ampiamente gli intervistati si rivelano contenti della propria abitazione. Su una scala da 1 a 10, il punteggio medio attribuito alla propria casa raggiunge il livello di 8,7. Va rimarcato un deciso progresso rispetto ad alcuni decenni or sono, quando le case degli anziani si rivelavano spesso carenti sotto il profilo della struttura, del riscaldamento o della dotazione di servizi. I problemi tuttavia non mancano, nella prospettiva del progressivo invecchiamento, e trovano espressione nel fatto che il 14% segnala scale o altre barriere. Più ancora, si profila un problema maggiore che andrebbe approfondito: oggi gli anziani sono spesso proprietari di case acquistate nella fase centrale del loro ciclo di vita, quando convivevano con nuclei familiari più numerosi. Oggi quelle case si rivelano troppo ampie e costose per le loro esigenze attuali.

Anche l’autonomia funzionale è mediamente elevata. Proprio per questo, va rilevato che circa un quarto della popolazione ha dichiarato di avere problemi in proposito. Confrontando i generi, i maschi si mostrano più autonomi delle donne, grazie alla minore età media e alla convivenza con persone in grado eventualmente di aiutarli. Sotto il profilo dei riconoscimenti istituzionali delle situazioni di fragilità, l’indagine ha registrato che il 15% degli anziani beneficia di una

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pensione di invalidità, il 9% di un’indennità di accompagnamento, il 5% ha familiari che usufruiscono dei permessi ex lege 104. Complessivamente, i beneficiari rappresentano quasi il 18% del campione.

L’invecchiamento comporta una crescita della domanda di aiuto per varie necessità, a partire da quelle della gestione domestica. Nel nostro campione, il 42% ha dichiarato di ricevere qualche tipo di aiuto al proprio domicilio, un dato che sale al 55% per le donne, mentre scende al 22% per gli uomini, che possono contare solitamente su una partner. La percentuale, come si può immaginare, sale con l’età, e la necessità di aiuto riguarda soprattutto chi vive solo.

Nel 54% dei casi questo aiuto è fornito da una persona retribuita, in qualità di collaboratrice familiare. È il 23% del campione complessivo: un gruppo composto, per le ragioni già illustrate, più da donne che da uomini. L’impiego di personale domestico salariato avviene soprattutto su base oraria, per la pulizia della casa e per altri compiti domestici, mentre il ricorso a figure esplicitamente definite come assistenti familiari è dichiarato soltanto dal 7-8% degli intervistati. La scarsa definizione delle mansioni e la sovrapposizione di compiti diversi è rivelata però dall’ampiezza delle incombenze affidate alle persone assunte. Le assistenti famigliari sono tutte donne, hanno almeno 40 anni, e per l’80% sono di nazionalità straniera, perlopiù ucraina.

Si tratta generalmente di rapporti di lavoro durevoli: in metà dei casi, in corso da più di cinque anni. Per contro, un aspetto problematico concerne il fatto che in quattro casi su cinque il rapporto è regolato sulla base di accordi informali, tende quindi a fuoriuscire dalla regolamentazione normativa e contrattuale. Va osservato che la percentuale di persone straniere occupate in ambito domestico con un rapporto di lavoro formalizzato risulta superiore a quella delle lavoratrici italiane.

Un dato controintuitivo rispetto alle attese si riferisce invece alla disponibilità ad accogliere in casa un’assistente familiare. Questa

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infatti decresce con l’età ed è più bassa tra le persone sole, oltre che, più comprensibilmente, tra coloro che vivono insieme ai figli. E’ inoltre più bassa tra le donne, più longeve e più sole, che tra gli uomini, presumibilmente più consapevoli di una condizione di potenziale dipendenza dall’aiuto di altri. In definitiva, i soggetti in condizione maggiore fragilità si mostrano meno interessati all’eventualità di ricorrere a un’assistente familiare presso la propria abitazione. Si può soltanto suggerire una possibile interpretazione: più l’eventualità si avvicina e appare incombente, più viene percepita come minacciosa, quasi come uno stigma di perdita di autonomia, più tende quindi a essere respinta.

Diversa è invece la valutazione della possibilità di essere accolti in contesti protetti. Il 39% del campione si dichiara molto interessato, il 31% manifesta un certo interesse. Il dato sale tra le persone sole, tra le quali la preoccupazione della solitudine è di certo più viva. L’età invece influisce poco, rivelando che il contesto relazionale è più influente del mero dato biografico.

La ricerca offre una serie di spunti sul piano progettuale e più propriamente politico. Cerchiamo di coglierne alcuni. In linea generale, una considerazione di fondo riguarda l’esigenza di rafforzare e sistematizzare i rapporti tra il welfare formale e il welfare informale. Oggi questi due mondi intervengono in modo il più delle volte separato nei confronti dell’anziano fragile, incontrandosi solo sporadicamente e in genere soprattutto in momenti di crisi. Le famiglie si fanno carico delle cure domiciliari finché la situazione lo consente, ma si abituano a gestirle in forme privatizzate, ricorrendo eventualmente ad aiuti salariati. Pensano in questo modo di controllare direttamente le modalità di assistenza del loro congiunto e di gestirle nel modo più confacente ai suoi bisogni, ma non è detto che questo accada. Forme di supervisione da parte di personale qualificato, raccordi tra cure domiciliari e sistema socio-sanitario pubblico, garantirebbero invece un monitoraggio e un’assistenza più adeguata. La predisposizione di piani

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individuali di cura e accudimento, con la collaborazione del medico di base e delle altre figure che eventualmente seguono il caso, contribuirebbero ad accrescere la coerenza degli interventi e attribuirebbero responsabilità meglio definite alle assistenti familiari.

L’investimento nella formazione, delle assistenti familiari e delle figure di supervisione e consulenza, è un altro passaggio necessario per il miglioramento dei livelli assistenziali. Oggi gli anziani vengono assistiti da persone che di solito non hanno alle spalle nessuna base formativa, assunte sulla base della presunzione della sufficienza delle normali competenze femminili per svolgere compiti in realtà molto più delicati e impegnativi. Nel migliore dei casi, si formano sul campo, ma non è detto che acquisiscano le modalità di intervento più adeguate. L’abbinamento tra moduli formativi ed esperienza lavorativa certificabile potrebbe inoltre consentire di acquisire titoli formativi spendibili anche in vista di forme di mobilità lavorativa: per esempio, nell’assistenza domiciliare pubblica o nelle residenze sanitarie assistenziali.

Un altro spazio di iniziativa potrebbe riguardare l’introduzione di interventi di sollievo a beneficio delle famiglie gravate da compiti assistenziali più gravosi e non in grado di assumere persone salariate. Interventi sostitutivi su base giornaliera, settimanale o annuale potrebbero consentire di recuperare spazi di autonomia e di recupero delle energie necessarie per reggere efficacemente l’impegno dell’assistenza a domicilio.

Nell’ottica del superamento della privatizzazione, e anche del risparmio economico, sarebbe da studiare la possibilità di abbinare due-tre anziani vicini di casa, in condizioni di salute ancora buone, affidandoli alla gestione di un’unica assistente familiare. Soluzioni di questo tipo favorirebbero gli scambi sociali, l’organizzazione di uscite e attività in comune, la fruizione di servizi esterni. La sorveglianza notturna potrebbe essere gestita con l’ausilio delle tecnologie del

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telesoccorso. La regia pubblica potrebbe assicurare il monitoraggio e l’intervento in caso di emergenza.

Sotto il profilo più strutturale, infine, si avverte l’esigenza di introdurre e incrementare soluzioni residenziali intermedie tra la situazione privatizzata della famiglia che segue il parente anziano con l’aiuto di un’assistente familiare e il ricovero in una struttura protetta. In altri paesi, forme di residenzialità leggera, che abbinano autonomia abitativa, servizi comuni, presidio di sorveglianza, sono già diffuse. La ricerca indica un interesse degli anziani novaresi per soluzioni di questo tipo. Varrebbe la pena di approfondirle.

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2.

Il sistema curante a domicilio: rappresentazioni, vissuti, trasformazioni identitarie e aspetti transculturali.

di Luz Cardenas e Ilaria Ferrero

2.1 Il sistema curante come sistema complesso

Con l’espressione “sistema curante” s’intende la combinazione fra

soggetti (attori) e pratiche di cura, dalla quale si generano processi auto sostenuti, i quali a loro volta riproducono continuamente la possibilità di curare il soggetto compreso all’interno del sistema a domicilio. Si definisce “cura” una “pratica che ha luogo in una relazione in cui qualcuno si prende a cuore un’altra persona dedicandosi attraverso azioni cognitive, affettive, materiali, sociali e politiche alla promozione di una buona qualità della sua esistenza”4. La cura quindi è sempre relazionale visto che la cura dell’altro avviene sempre in una relazione. La relazione di cura può essere letta attraverso i molteplici paradigmi: lavorista, di genere, sistemico, adattivo (la famiglia e la rete vengono visti come insieme di nodi che interagiscono e sono in grado di modificarsi per far fronte a eventi perturbatori quali la malattia e la condizione di non autosufficienza) e politico/ sociale (diversi mix di forme di care in concorrenza tra loro). Si tratta dunque di un concetto

4. Mortari L., La pratica dell’aver cura Bruno Mondadori, Milano, 2006 p.55.

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denso, la cui complessità può essere indagata attraverso sette dimensioni comuni a tutte le prospettive5.

L prima dimensione è quella dell'identità sociale di chi cura. L'identità di ogni soggetto racchiude le esperienze passate e la progettualità futura, intesa come dimensione soggettiva compresa in una cornice sociale e culturale ben definita, che determina i modelli di comportamento. Nel sistema delle cure domiciliari poi molto spesso chi cura è un/una migrante straniero/a per il/la quale quella cornice sociale e culturale risulta doppiamente impositiva e innaturale. Appare interessante, a questo proposito, il riferimento a due concetti ripresi tra gli altri da Ambrosini6: “caring self” e “capitale emozionale”. Il primo si riferisce alla costruzione, da parte delle lavoratrici, di una identità professionale centrata sul prendersi cura della fragilità, in virtù di una serie di caratteristiche considerate tipiche di donne che sono madri, mogli, figlie, e grazie alla quale, pur all’interno di un rapporto di potere asimmetrico e ambiguo, riescono a ricavare un senso di utilità sociale e orgoglio professionale. Viene definito “emozionale” invece un peculiare tipo di capitale che le donne, in maggior misura rispetto agli uomini, sono in grado di produrre e accumulare attraverso i legami affettivi privati e che le care workers riescono a impiegare all’interno delle relazioni lavorative con gli assistiti, per produrre identità, senso e gratificazione.

La seconda dimensione fa riferimento all'identità sociale di chi è curato: la chiave di identificazione sociale di chi riceve le cure è generalmente caratterizzata in termini di status di dipendenza. Tuttavia, accanto alla dimensione del bisogno emerge anche quella del diritto a ricevere le cure (perchè si paga per averle) e ciò complica la relazione tra curante e curato, poiché scioglie il debito di riconoscenza nei

5. Thomas C., De-constructing Concept of Care, Sociology, Vol. 27, n.2, May 1993. 6. Ambrosini M., Immigrazione irregolare e welfare invisibile. Il lavoro di cura attraverso le frontiere, Il Mulino, Bologna 2013 pagg 91-94.

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confronti della/del curante e spesso risulta denso di pretesa e aggressività.

La relazione curante/curato rappresenta, infatti, la terza dimensione d’indagine. Se è evidente che persino quando la cura avviene all'interno del vincolo famigliare (e dunque il fondamento della relazione interpersonale è l'amore) vi è un elemento emergente di obbligo, a maggior ragione gli equilibri si complicano quando il vincolo entro cui si sviluppa la relazione è di tipo lavorativo (anche se l'obbligo al rispetto delle regole del rapporto lavorativo ha chiaramente una natura diversa). Il tipo di relazione che si instaura appare poi inoltre molto legato al grado di investimento e dalle prefigurazioni del/della lavoratore/lavoratrice rispetto alla propria attività. Non sembrano dunque esserci criteri comuni, condivisibili da tutti i soggetti coinvolti, per contrattare una modalità di rapporto sufficientemente chiara e rispettosa delle attese di ciascuno. Non va inoltre dimenticato che quello che qui si vuole indagare è il “sistema curante”, quindi la relazione è di fatto triangolare, essendo presente una figura, quella del care manager, che media tra l’anziano (formalmente il datore di lavoro) e la lavoratrice;

La quarta dimensione rimanda ai contenuti della cura. Una definizione chiara dei contenuti della cura è resa difficoltosa dalla coesistenza e inscindibilità di due dimensioni del lavoro di cura, vale a dire quella materiale (curare è un lavoro, un insieme di azioni e compiti precisi che occorre saper fare) e quella emotiva (è anche un evento emotivo, che riguarda i sentimenti, l'amore, l'affetto, il supporto emotivo). Tenere insieme queste due dimensioni nell'ambito di una attività lavorativa implica rischi ben noti che spesso mettono a repentaglio la tenuta psicofisica dei soggetti implicati. Ma non solo: appare del tutto evidente che se da un lato il lavoro di cura nel contesto famigliare non è solo una veicolazione d'amore, ma anche un lavoro materiale, dall’altro lato il lavoro di cura all’interno di un rapporto di

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lavoro non è solo una serie definita di prestazioni, ma è anche vicinanza emotiva.

La quinta dimensione è quella dell’ambito sociale in cui è collocata la cura. Dalla netta separazione, che caratterizza le società complesse, nell'ambito della divisione del lavoro, tra sfera pubblica e sfera privata/domestica, discende una altrettanto netta caratterizzazione del concetto di cura, a seconda della collocazione che la relazione assume. I soggetti che svolgono il lavoro di cura, anche retribuito, in una sfera privata utilizzano nella relazione in prevalenza modalità affettive, mentre per lo stesso lavoro svolto in un contesto pubblico utilizzano in prevalenza modalità legate all'attività.

La sesta dimensione d’indagine fa riferimento al luogo della cura. Il lavoro di cura svolto all'interno della casa, spazio privato per eccellenza e nel quale le relazioni hanno una forte densità emotiva, implica per il/la lavoratore/lavoratrice l'emersione di una dimensione “emozionale” del lavoro, vale a dire l'espressione di emozioni private nell'ambito di un rapporto pubblico, fondamentale affinchè il servizio possa essere prodotto7. Ancora, la condivisione dell’abitazione provoca una sovrapposizione di tempi e spazi tra lavoro e tempo libero che a sua volta genera un duplice effetto: da un lato, l’anziano si aspetta non solo che la lavoratrice sia realmente disponibile per ogni necessità (anche solo di ascolto e compagnia), ma che lo faccia anche con reale coinvolgimento e partecipazione affettiva; d’altra parte, il fatto stesso di accogliere in casa una persona che altrimenti non avrebbe un posto proprio in cui stare, di offrirle il vitto e magari anche un aiuto per la gestione di alcune incombenze burocratiche, fa sentire alcuni tra i datori di lavoro veri e propri “benefattori”, portatori di un “diritto alla riconoscenza” che va al di là di ogni contrattualizzazione formale.

Questo aspetto chiama in causa l’ultima dimensione d’indagine che non caso riguarda il carattere economico della relazione di cura:

7. M. Ambrosini (2013), pag. 90.

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ancora una volta, il tentativo di conciliare la dimensione materiale e quella emotiva del lavoro di cura genera ambiguità e contraddizioni, sopratutto perchè, diversamente di quanto avviene nell'ambito di un contesto familiare, nel caso del lavoro di cura svolto all'interno di un rapporto di lavoro le prestazioni vengono retribuite. Questo particolare fa si che nei datori di lavoro si generi l’aspettativa di un coinvolgimento totale, affettivo e personale, da parte del/della lavoratrice, perchè “i datori generalmente non amano pensare che per i loro dipendenti domestici il lavoro che svolgono consista soltanto in un freddo scambio economico, regolato da un contratto di lavoro”8.

La “relazione di cura” è dunque un concetto denso, irto di ambiguità e contraddizioni: a complicare ulteriormente l’analisi concorre il fatto che, nella realtà, le assistenti famigliari sono nella quasi totalità dei casi donne, per giunta immigrate.

Nella realizzazione delle interviste di gruppo ci si è prefissati di fare emergere e analizzare le rappresentazioni sociali e culturali che intervengono nella costante e spesso difficile interazione comunicativa sulla cura che si costruisce tra i tre protagonisti in scena - l'anziano, i famigliari, l'assistente familiare - all'interno di quel setting peculiare che è il domicilio dell'assistito stesso. Un tale dialogo, che di per sé è carico di criticità e di difficile decifrabilità, diventa ancora più complesso e meno leggibile quando subentrano elementi riconducibili ai significati culturali diversi di cui ciascun attore è portatore.

Nello specifico quindi l’indagine si è concentrata sulle idee e sulle rappresentazioni che accompagnano l’incontro dell'anziano e della sua famiglia con le assistenti familiari, tendenzialmente donne provenienti da diverse parti del mondo, nonchè sulle forme che le relazioni vanno assumendo nella convivenza reciproca. Come si evince dai dati elaborati nel contesto del progetto Casa Comune, il territorio novarese

8. M. Ambrosini (2013), pag. 88.

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rappresenta la meta di flussi migratori provenienti per lo più dall’Europa dell’est e dall’America Latina. Sono donne che hanno lasciato la propria famiglia nei rispettivi paesi per farsi carico degli anziani bisognosi di assistenza e il fatto stesso di essere migranti, dunque portatrici di differenze culturali importanti, introduce nel sistema della cura a domicilio un ulteriore elemento di complessità che merita comprensioni ed approfondimenti specifici.

Nel modello transculturale della cura i soggetti in scena sono costretti a vivere negli stessi spazi facendo insieme ciò che è comunemente considerato intimo o familiare. Per tutti i tre attori si tratta di una condizione potenzialmente difficile: per l'anziano, che nella propria vita ha quasi sempre sperimentato la convivenza solo con parenti molto stretti e non è abituato alla coabitazione continuativa neppure con persone amiche ospiti e per il quale inoltre l'accettazione della presenza di una assistente a domicilio implica il contestuale riconoscimento, sempre traumatico e difficile, di una definitiva perdita della propria autonomia funzionale; per i familiari, che devono affidarsi ad un “Altro” estraneo per l’assistenza dei propri cari, un Altro a cui forzatamente devono delegare, parzialmente o totalmente, alcune attribuzioni derivanti dal ruolo ricoperto all'interno della relazione con l'anziano (figlio/coniuge/nipote); per l’assistente familiare che assiste e cura affrontando situazioni sconosciute e complesse nel contesto di una cultura che non è la propria e per la quale luogo di lavoro / luogo abitativo e tempo di lavoro / tempo di vita si sovrappongono in un groviglio difficilmente districabile.

In letteratura l'attenzione raramente è stata posta sui vissuti specifici dell’anziano assistito, del suo entourage familiare, dei famigliari caregiver e in particolar modo dell’assistente famigliare. Tuttavia ci pare di poter rilevare che vissuti e attese reciproche giochino un ruolo fondamentale nella definizione dei significati attribuiti all’assistenza e alla cura dagli attori nel concreto della relazione vissuta a domicilio. Proprio per questo si è scelto di condurre gli incontri in modo tale da

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stimolare una riflessione sulle modalità vissute di accoglienza e inserimento delle assistenti famigliari in seno al nucleo familiare; sulle modalità assunte dalla pratica di cura quotidiana; sugli effetti prodotti dall'azione delle assistenti sulla qualità della vita dell'anziano, della sua famiglia e naturalmente dall'assistente stessa. Il tutto avendo sempre come riferimento un ideale cui tendere, rappresentato da una condizione di equilibrio tra i diversi bisogni, nel quale siano rispettati diritti e doveri di tutti gli attori coinvolti.

Obiettivo ultimo anche di questa parte del lavoro è stato quello di individuare bisogni, criticità, e proposte di innovazione espressi dagli attori in gioco, nonché di tentare di ipotizzare, nella seconda fase del progetto Casa Comune, azioni e pratiche percorribili sulla strada di un modello innovativo di organizzazione a sostegno della cura a domicilio

2.2 La metodologia d’indagine Per la raccolta delle informazioni sono state realizzate delle

interviste di gruppo finalizzate ad approfondire in modo dialogico e qualitativo alcuni aspetti relativi al sistema della cura a domicilio. La traccia delle interviste, strutturata in coerenza con gli ambiti di analisi del questionario quantitativo, si rivolgeva a tre gruppi di intervistati: anziani over 70, maschi e femmine, che facciano ricorso all’aiuto delle assistenti familiari o ne abbiano fatto esperienza anche indiretta, residenti a Novara; familiari di anziani non autosufficienti che ricorrano o abbiano fatto ricorso all’aiuto di assistenti familiari; assistenti familiari che lavorino o abbiano lavorato presso l'abitazione di anziani vulnerabili. Sono state realizzate tre interviste di gruppo9, che avevano

9. L’indagine si è svolta nell’estate del 2013. Sono state intervistate complessivamente 16 persone suddivise tra rappresentanti della consulta della terza età (7), familiari di anziani assistiti (5) e assistenti familiari (4). Queste ultime avevano un’età compresa tra i 30 e i 50 anni ed erano di quattro diverse nazionalità: marocchina, camerunese, ucraina e peruviana.

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lo scopo di focalizzare l’attenzione sulle idee e sulle rappresentazioni che accompagnano e seguono l’incontro dell'anziano e della sua famiglia con le assistenti familiari, nonchè sulle molteplici forme che le relazioni reciproche vanno assumendo nella convivenza quotidiana.

La lettura dei materiali raccolti è stata condotta su tre piani distinti. In primo luogo, si è cercato di evidenziare le idee e le rappresentazioni della realtà che sostengono la quotidiana azione di cura e i vissuti che ne derivano. In altre parole, si è cercato di mettere a fuoco le posizioni che le persone assumono nell’adattarsi e nel riportarsi alla pratica della cura. In secondo luogo, si sono ricercati i nodi relazionali emergenti sia dalla relazione lavorativa che più genericamente dai rapporti interpersonali in cui i tre attori sono coinvolti. Nelle parole degli intervistati si è cercato cioè di evidenziare elementi e rappresentazioni percepite come significative, spiazzanti, difensive o generatrici di sofferenza. Infine, si è indagata la questione della “diversità culturale”, si è cercato cioè di cogliere in modo trasversale gli elementi della relazione di cura che risultano essere culturalmente definiti, e che nella pratica quotidiana finiscono per essere fonte di criticità, nella convinzione che riuscire a rendere esplicito ciò che rimane quasi sempre sullo sfondo possa contribuire a ipotizzare vie d'uscita percorribili da quelli che si configurano il più delle volte come conflitti e tensioni tra “cornici interpretative” diverse.

2.3 I risultati Gli elementi così individuati sono stati in un secondo momento

riaggregati e rielaborati secondo lo schema concettuale definito dalle sette dimensioni del lavoro di cura. Il presente contributo illustra i principali risultati emersi con riferimento a quattro di queste dimensioni, con particolare attenzione alla ricostruzione delle rappresentazioni sociali e culturali nei confronti delle assistenti familiari (l’identità sociale di chi cura), dell’anziano, del care manager

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e della rete familiare (l’identità sociale di chi riceve le cure), nonché della relazione tra i tre principali attori del sistema delle cure domiciliari (la relazione curato, curante, care manager). Per la specificità di questo sistema si è scelto inoltre di dedicare un breve focus anche al luogo della cura in quanto spazio privilegiato in cui tutte queste relazioni assumono significati peculiari.

2.3.1 L’Identità sociale di chi cura e le rispettive visioni da parte

degli altri attori

Tutte le quattro donne intervistate sono straniere. In tre casi su quattro la meta del percorso migratorio (Italia) è stata scelta per motivi di rete famigliare: fratelli o sorelle già stabilitisi qui. Tutte dunque dichiarano di essere state in possesso, al momento della partenza, di informazioni veritiere e accurate rispetto al contesto di arrivo: ciononostante c’è stata una fortissima spinta a partire verso l’Italia. Dai racconti non sembrerebbe che nel paese d’origine le condizioni fossero così terribili da giustificare comunque l’emigrazione, ma in questi casi occorre scontare sempre una dose variabile di reticenze e manipolazioni dei fatti presente nei racconti dei migranti, soprattutto per quello che riguarda le motivazioni alla base della scelta di partire. Certamente occorre notare che proprio la presenza massiccia di connazionali e famigliari in Italia fa sì che il paese diventi oggetto di desiderio10 e di identificazione, stati mentali che precedono all’immigrazione vera e propria. Si evince che alcune di loro hanno fatto ricorso alle reti di intermediazione del lavoro: le lavoratrici ottengono un prestito per pagarsi il viaggio e per essere collocate. Devono poi restituire il debito con gli interessi per la somma ricevuta e ripagare il collocamento. Nel caso raccontato, il mediatore era polacco, ma spesso si tratta di

10. Sayad A., La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Raffaello Cortina, 2002.

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connazionali, a volte anche parenti. Dai vissuti di queste donne emergono duri percorsi di migrazione con alti rischi sul piano fisico e psichico, che configurano condizioni di estrema vulnerabilità. L’arrivo in una grande città viene descritto come traumatico, un’esperienza dura con il “rischio di perderti”. Nell’accezione della testimone il “perdersi” implica accettare qualsiasi tipo di lavoro, anche quelli “sporchi”.

La relazione con la propria rete famigliare e i legami forti caratterizzano la condizione delle donne migranti. Una di loro racconta di essere partita lasciando il figlio piccolissimo con la madre perché doveva procurarsi il sostentamento del figlio, due donne raccontano invece di essersi fermate in Italia per aiutare emotivamente ma anche praticamente le sorelle che erano già qui (in un caso la sorella era separata con un figlio da crescere, nell’altro la sorella aveva bisogno del sostegno che i fratelli maschi non le potevano dare). Questi elementi ci introducono a questioni riconducibili alle relazioni all’ interno dei gruppi familiari di origine: relazioni spesso modellate dalle “deleghe” che all’interno delle famiglie o della propria comunità vengono conferite a chi parte (il sostentamento economico) e a chi resta (l’accudimento dei figli e dei famigliari anziani). L’emigrato avrà a che fare sempre con questa appartenenza e i suoi mandati lo accompagneranno permanentemente nella sua nuova condizione di immigrato: è il “doppio legame tra là e qua” descritto da Sayad, secondo il quale migrante è colui che vive l’ esperienza di essere al contempo e per sempre emigrato-immigrato. Una delle intervistate è stata vittima di “ricatto” da parte dell’ex compagno, il quale ha messo come condizione per l’autorizzazione della partenza del figlio che la donna gli procurasse i documenti per entrare in Italia. Questo episodio ci fa intravedere come le situazioni che le donne spesso si lasciano alle spalle non sono sempre facili e come dietro alla decisione di partire ci siano aspetti misconosciuti che incidono profondamente sull’identità delle protagoniste. Una delle intervistate racconta la dolorosa perdita del rapporto con il proprio figlio e la dissoluzione della sua

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autorevolezza come mamma, a causa dell’assenza fisica: “tornavo spesso a casa ma mancava la convivenza quotidiana”. Il figlio capisce solo una volta cresciuto il senso di questa mancanza.

Rispetto all’accoglienza ricevuta in Italia presso le famiglie per le quali hanno lavorato emerge una gamma di discorsi in cui si esprimono i vantaggi reciproci con consapevolezza del valore del proprio lavoro e dei propri diritti. Alcuni di questi discorsi non sempre sono coerenti e denotano sentimenti di forte ambivalenza. Ad esempio si dichiara una totale “riconoscenza” e “gratitudine” nei confronti dell’accoglienza ricevuta ma nel discorso successivo si racconta come il datore di lavoro - che utilizza la formula paternalistica “sei come una figlia”- si rifiuta di metterla in regola.

Nell’atteggiamento di alcune donne si intravede la presenza significativa di quello che è stato definito “caring self”: il lavoro di cura viene valorizzato rispetto a quelle che si ritengono essere le caratteristiche di un lavoro femminile, il tempo della cura viene visto come tempo lento, dilatato e centrato sulla relazione. Esse parlano del loro lavoro in termini relazionali e affettivi. La fiducia accordata da chi ti fa entrare a casa sua, la percezione di un lavoro fatto con la “coscienza pulita” contrasta con il lavoro di fabbrica le cui caratteristiche (tempi, e relazioni) appaiono come non adatte alle donne. Per queste donne il lavoro di cura è un lavoro perfetto, non degradante e assolutamente femminile:

“La cura dell’anziano ti dà più sicurezza”; “Nel lavoro come

badante mi trovavo meglio. Devi gestire tutta la casa, ti senti più utile”; “Senti che queste persone dipendono da te”; “Lavoro con la coscienza pulita. Io lavoro con una persona, come fosse della mia famiglia non solo per guadagnare soldi”; “Senza fiducia non vai avanti nel rapporto con la persona. In fabbrica non devi lavorare con il cuore aperto, con amore”; “Sto facendo del bene a due anziani, come se fossero miei nonni”

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Sembrerebbe, nel racconto di alcune delle donne, che nell’approdo al lavoro di cura vi fosse fin dall’inizio la consapevolezza che fare la badante significasse fare un lavoro non consono a sé per lo più trattandosi di donne laureate o diplomate. Emerge la sofferenza identitaria nel collocarsi in questa occupazione (“l’impatto con il lavoro è stato terribile”) e quindi la necessità per alcune donne di adattarsi a questa tipologia di lavoro pur di raggiungere il traguardo nel proprio percorso migratorio (inteso principalmente in chiave economica) e soprattutto la consapevolezza che non ci sono altre possibilità per loro perché sanno che nel sistema del paese che le accoglie l’immagine di immigrate viene accompagnata quasi sempre a una precisa definizione sociale del lavoro. Si tratta di un esempio di economia dell’alterità11: l’inserimento degli immigrati ai livelli inferiori della gerarchia occupazionale viene giustificato con una presunta attitudine culturale e predisposizione a questo tipo di mansioni. In risposta dunque a questa sorta di etero-definizione identitaria, dal quale si genera un gap tra quello che loro “facevano e/o erano là” e quello che ora “fanno e/o sono qua”, emerge la necessità di una strategia che aiuti ad assimilare e ad accettare la nuova condizione, il caring self appunto: “sto facendo del bene a due anziani, come se fossero miei nonni”. Si tratta comunque di un travaglio identitario con trappole e rischi perché la persona potrebbe oscillare tra rifiuto e accettazione, idealizzando e collocandosi in una posizione salvifica come difesa del sé.

Ancora, fin dalla scelta dei termini utilizzati nel corso delle presentazioni emerge la fatica a collocarsi in un ruolo e a definire il lavoro svolto in relazione alla propria identità: “lavoro sul territorio” è un’espressione che sembra parafrasare il termine “assistente famigliare” o “badante”. L’essere stato qualcosa di diverso in una tappa precedente della propria vita e non esserlo più, rende difficoltoso

11. M. Ambrosini (2012), pag . 92.

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l’identificarsi e denominare ora il lavoro. Per adattarsi alle nuove situazioni ciascuna delle nostre intervistate ha messo in moto strategie personali, nelle quali si intravede la riproduzione di modalità soggettive impregnate dai riferimenti culturali di origine. Così, c’è la donna peruviana che trova la propria via all’ adattamento assimilando l’altro e negando sé stessa: nonostante le sia chiesto, rifiuta di cucinare i piatti del proprio paese, perché teme che possano fare male agli anziani. Neppure lei mangia davanti ai signori i suoi piatti tradizionali. Anche sul fronte del lavoro, azzera qualsiasi sapere e competenza pregressa: “il signore mi ha insegnato tutto, ero in cucina e non sapevo nulla”. In altre testimonianze, viceversa, emergono forme diverse di adattamento per cui esperienze e competenze pregresse vengono valorizzate nella pratica della cura. Al di là di queste differenze tutte concordano che l’ esperienza della migrazione le ha cambiate radicalmente: una delle intervistate ora mangia italiano anche a casa sua, ma non dimentica la propria cucina, anzi, “la prima cosa che ho cucinato per loro è stato un piatto ucraino tipico”. La donna marocchina, che ha sposato un italiano, dice di avere cambiato tutto di sé (tranne che mangiare il prosciutto) e che quando torna al proprio paese ora si trova a disagio davanti all’abitudine dei suoi connazionali di mangiare con le mani. Stereotipi e luoghi comuni sono presenti in tante affermazioni delle intervistate mettendo in risalto le differenze soprattutto rispetto alla cura degli anziani.

Fin qui si è trattato dell’identità sociale di queste donne partendo dal loro punto di vista. Ci pare fruttuoso allargare la prospettiva, includendo anche il punto di vista degli altri due attori in gioco, indagando cioè quale siano le rispettive visoni che sulla scena si incrociano. Dal punto di vista degli anziani della consulta, una serie di immagini stereotipate precedono e accompagnano l’ingresso delle assistenti famigliari sulla scena della cura a domicilio:

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“Ti svuotano la casa”; “La sudamericana è brava”; “Le ucraine sono molto brave, molto legate tra loro, molto legate alla famiglia di origine. Il loro difetto è che sono molto legate all’aspetto economico”; “ Le straniere si adattano più delle italiane, fanno qualsiasi cosa pur di lavorare”; “La badante che beve”; “la badante che si fa sposare”; “L’anziano che lascia tutto alla badante”; “Tutte sanno benissimo i loro diritti”; “Sono furbe: tutte lavorano, però vanno alla mensa dei frati”. Persino rispetto alle realtà dei legami famigliari divisi

dall’esperienza della migrazione, si rintraccia una sottile stigmatizzazione preconcetta: “(dei figli lontani) non ne parlano mai, le vedi serene”. Donne doppie, donne di limbo che realizzano un grande investimento nel tentativo di mantenere i legame con chi rimane a casa e in questo senso i mezzi di comunicazione diventano fondamentali (telefono, facebook, skype), per mantenere il ponte con le famiglie, con i figli, con gli affetti. Donne di limbo, doppiamente sradicate e giudicate: nel paese di arrivo vengono viste come madri “snaturate” che non hanno difficoltà a lasciare a migliaia di chilometri i figli per guadagnare dei soldi e che nei paesi di origine, allo stesso modo, soffrono per la stigmatizzazione sociale di cui sono vittime e per il giudizio, spesso durissimo, da parte dei loro stessi figli, che le accusano di averli abbandonati (nonostante tutti i loro sforzi per mantenere i contatti e per inviare loro enormi quantità di denaro e di merci).

Anche dal focus con i famigliari emergono scenari variegati rispetto al livello di integrazione della lavoratrice: si va dalla massima integrazione (“la vita della mamma è migliorata per assurdo, servita e riverita. Mangia i piatti ucraini”) a situazioni davvero drammatiche (“la badante e la mamma vivono in mondi paralleli. La badante non le ha mai cucinato piatti ucraini, è riservata, non parla, non si confida, è segregata in casa”). In alcuni casi si assiste dunque a una “contaminazione” di abitudini e costumi che conduce ad arricchimento

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reciproco. In altri casi non c'è curiosità per la cultura dell'altro, ma sopportazione nella convenienza. In altri casi ancora la convivenza assume le forme dell’indifferenza: essere invisibile è una esperienza devastante a livello emotivo, un vero e proprio furto di identità per queste donne.

2.3.2 L’identità sociale di chi è curato. L’identità e i vissuti del care manager e della rete famigliare

“Serve un esercito per seguire un anziano”, “l’anziano può rovinare

le famiglie” sono parole che sintetizzano i pensieri dei rappresentanti della Consulta rispetto all’accompagnamento alla non autosufficienza a lungo termine. La non autosufficienza è vista essenzialmente come decadimento fisico con le conseguenti problematiche mediche e sanitarie e con la dipendenza dagli altri per le funzioni essenziali della vita quotidiana. La riflessione è riferita alle gravi ripercussioni che il veloce “declino” degli anziani verso la cosiddetta “autosufficienza vulnerabile” ha sulle famiglie, soprattutto quando queste non sono preparate a fronteggiare le complicazioni che ne derivano. Improvvisamente l’anziano ha bisogno di qualcuno che organizzi la sua vita. In questa condizione accade una sorta di inversione della naturale posizione asimmetrica tipica del rapporto tra genitore e figlio (“diventano bambini, vogliono essere consolati”), con tutti i risvolti psicologici che ciò implica. Il mondo esterno risulta sempre più alieno per gli anziani in queste condizioni, diventa impossibile per loro riuscire a decodificare i messaggi provenienti dall’esterno. Si fa fatica a seguire le odierne configurazioni sociali rispetto al tempo, allo spazio, alle tecnologie. Gli ostacoli e le barriere creati dall'innovazione tecnologica si presentano sia all’interno (cellulari, cordless e in generale elettrodomestici iper-tecnologici) che all'esterno della loro abitazione (la città): diventa difficile, se non impossibile, decodificare la realtà e comunicare con l'esterno per persone che hanno una

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concezione rallentata del tempo e circoscritta dello spazio. Il vissuto degli anziani rispetto al loro decadimento viene definito dagli intervistati con i concetti di “mancanza di speranza”, mancata visione del futuro, il passato è tutto bello, il futuro non esiste, c’è nostalgia per il tempo passato. “La mancanza di speranza” è tuttavia una interpretazione dell’osservatore, che dà l’idea della connotazione con cui si legge questa età. La nostalgia che emerge richiede forse di uno spazio di ascolto per essere trasformata e caricata di significati vitali: l’anziano ha l’urgenza di trasmettere la sua storia per rimanere nella memoria degli altri, piuttosto che desiderare un futuro che lui sa che sarà breve, inevitabilmente.

Dipendenza, solitudine, paura, rischio di emarginazione sono le immagini emerse che evidenziano la precarietà dell’equilibrio nella non autosufficienza e quindi l’incrementata fragilità sia dell'anziano che del nucleo famigliare. Nell’attuale condizione delle famiglie nucleari infatti queste situazioni sono difficili da gestire: l’assistenza prolungata può minare le risorse già limitate della famiglia, subentrando stanchezza e logoramento il rischio di burnout è altissimo. Senza supporti e aiuti si può intravedere la morte come unica soluzione. L’ampia gamma di necessità degli anziani evocate dai protagonisti del focus porta ad ipotizzare l'esistenza di una convinzione diffusa secondo la quale l’assistenza dovrebbe essere garantita in modo prioritario rispetto alle questioni di salute e meno su attività ritenute più “secondarie” (accompagnamento a fare visita ad una amica o andare a spasso). Questa idea sembra denotare una impostazione culturalmente condizionata: il bisogno è sempre individuato nella sfera sanitaria, intendendo per salute il contrario della malattia. L’isolamento sociale, relazionale e psicologico dell’anziano non sono considerati bisogni per cui chiedere aiuto, l’accompagnamento per uscire di casa o andare a trovare qualcuno è considerato secondario quando non addirittura un “lusso”. Viceversa, facendo propria una concezione di salute tipica dell'ottica bio-psico-sociale è possibile evidenziare tutta una gamma di

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bisogni diversi, che possono essere definiti “bisogni psicosociali” ai quali alcuni cercano di far fronte ricorrendo ad amicizie o al volontariato, ma che dal punto di vista dell'assistenza comunemente intesa risultano totalmente misconosciuti . E' proprio in riferimento a questa sorta di “spazio vuoto” che si colloca il ruolo del volontariato spontaneo e/o organizzato, il quale agisce come meccanismo di compensazione, offrendo risposte mirate a quei tipi di bisogni di natura relazionale e sociale che incidono sulla qualità di vita e benessere delle persone anziane (ma anche, è importante sottolinearlo, dei famigliari che li assistono) in queste condizioni al pari di quelli di natura sanitaria.

Emerge dunque un vissuto dell’anziano come un peso, un pericolo, una fatica. L'età anziana non ha alcuna funzione al di là dell’essere il passaggio alla morte. I bisogni degli anziani sono solo quelli legati alle funzioni essenziali della vita quotidiana. Anche rispetto all’opportunità di mantenere l’anziano non autosufficiente presso il proprio domicilio, i membri della Consulta sembrano avere una posizione molto più sfumata rispetto a quanto ci si potrebbe aspettare: concordano sul fatto che la scelta di mantenere al domicilio l'anziano dipende dalle condizioni dell’anziano stesso, dalle possibilità della famiglie e delle risorse del sistema. Chiunque preferirebbe rimanere a casa propria fino a quando si senta in grado di gestire la propria vita, ma con il subentrare delle complicazioni tipiche dell’ingresso nella non autosufficienza ci si trova a dovere svolgere scelte cruciali. Le situazioni concrete sono estremamente variegate, esistono diverse gradazioni di vulnerabilità, e d'altra parte esistono soluzioni diversificate per l’ampia gamma di bisogni e di problemi. Pertanto non si rinuncerà mai alla domiciliarità, tuttavia esistono situazioni con bisogni ad alta intensità di assistenza rispetto alle quali le famiglie e le assistenti famigliari non possono essere sufficienti. Per poter scegliere di tenere a casa un anziano serve un lavoro di rete, le cui fila devono essere tenute da qualcuno della famiglia, un care manager che

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coordini tutte le forze in campo, e che organizzi la quotidianità. La scelta tra le diverse soluzioni - rimanere a casa, un mix tra casa e centri diurni o la delega totale ad una residenza per anziani – dipenderà in ultima istanza dalla valutazione, all'interno del nucleo famigliare, del quadro complessivo dell'anziano e della rete di supporto di cui può godere. Dalle parole degli intervistati emergono idee diverse rispetto al contributo dei vari membri della rete nella gestione dell'anziano: “i figli hanno la loro vita, non devono essere assillati con questi problemi”. Per molti di loro infatti, i figli sono un supporto per i problemi pratici, ma non vogliono o non devono rispondere al loro bisogno di essere ascoltati, perchè alle prese con le proprie preoccupazioni quotidiane. Gli anziani stessi non parlano volentieri con i figli, preferiscono rivolgersi agli amici, coetanei con i quali condividono una stessa concezione del tempo, rallentata e rivolta al passato più che al futuro. Esistono inoltre diverse aspettative di cura rispetto alle figlie e ai figli maschi: “un figlio maschio non serve a nulla”, per assistere un anziano occorrono delle competenze (“saperci fare” “non essere bruschi”) considerate tipicamente femminili. Queste rappresentazioni cariche di connotazioni culturali e di genere configurano specifiche tipologie di approccio alla cura e all'assistenza da parte di coloro che devono essere assistiti, e hanno ripercussioni rilevabili anche sulle aspettative degli anziani rispetto alla relazione con una assistente famigliare retribuita. Infine, emerge una grossa difficoltà a reperire le informazioni riferite ai servizi o alle risorse presenti sul territorio: non si sa se esistono servizi pubblici di fornitura di assistenza a ore, come funzionano, a chi si richiedono, quale tipo di supporto essi offrano. Analogo disorientamento si registra nei confronti dei volontari: non è chiaro come incontrare il volontariato, e non si sa bene il ruolo delle strutture intermedie o dei centro diurni.

Anche rispetto a questa dimensione del lavoro di cura, ci sembra che una integrazione importante possa venire dall’analisi dell’identità sociale e degli stati emotivi del terzo attore in gioco nel momento in cui

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è necessario compiere scelte dolorose per affrontare la perdita di autosufficienza: i famigliari. Gli stati emotivi che accompagnano il declino dei genitori parlano di un difficile approdo alla cura per la complessità a cui si va di incontro. La situazione assume la forma di emergenza quando gli eventi si presentano in modo dirompente e repentino: “All'inizio provavo rabbia volevo scuotere la mamma, poi avevo senso di colpa per averlo fatto;” Un omone grosso che di colpo crolla. Cambiamento totale di vita”.. Ci si trova davanti a decisioni e scelte cruciali in cui si mettono in luce le dinamiche familiari preesistenti alla situazione critica. Per esempio padre e figlio non riescono a trovare una linea comune per la gestione della situazione. In un caso, madre e figlio convengono che la casa doveva essere il luogo per la cura, ma la situazione era molto critica perché l’anziana non accettava la badante, era aggressiva con lei, ma il figlio non cede. La rete familiare diventa importante per la gestione della situazione e quando l’atteggiamento è di collaborazione reciproca la situazione è più sostenibile. Diverso il caso della intervistata figlia unica che dichiara quanto sia “pesantissimo a livello mentale” gestire la situazione in solitudine. Rispetto alla rete allargata ovvero i nipoti, amici e parenti emerge una pluralità di situazioni e di opinioni:

“Sua nipote si è auto coinvolta … la nonna era attaccatissima a

lei, l’ha cresciuta, c'era un rapporto fortissimo”; “i nipoti? non si è preteso che curassero i nonni, alla loro età non si deve pretendere… il figlio deve cambiare vita, il nipote no “; “Non ci sono altri parenti che possono aiutare. Al massimo qualcuno telefona, ma fanno solo perdere tempo”; “Due vicine di casa, amiche di mamma. Disponibili per l'assistenza e per la compagnia…una goccia nel mare dei problemi”; “É un momento di benessere per chi sta male, avere vicino qualcuno che non siano sempre i soliti”; “Una vicina ha aiutato tantissimo. Le faceva i lavori, la accompagnava fuori con la macchina. Bella esperienza, meglio dei parenti”.

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Si evince l’importanza delle rete di prossimità: il peso emotivo condiviso è più sostenibile. Si evince anche che la qualità del legame nelle reti è il prodotto della loro storia. In nessuno dei quattro casi il volontariato appare come una risorsa a cui far ricorso per avere sollievo emotivo e materiale in situazioni critiche. A differenza dei membri della Consulta, tra i famigliari appare in modo netto l’atteggiamento di stigmatizzazione culturale rispetto alla casa di riposo: “nessuno ha parlato di casa di riposo. Non vogliamo sradicare la mamma”. L’aggravamento delle condizioni dell’anziano, il costo dell’assistenza a ore, il bisogno di assistenza continuativa fanno pensare alla soluzione “badanti” che può offrire una copertura 24/24: non sempre però l’anziano accoglie volentieri una assistente famigliare nella propria casa.

2.3.3 La relazione curante/ curato/ care manager Ai rappresentanti della consulta viene posta direttamente la domanda

circa il ruolo dell’assistente famigliare: lavoratrice o parte della famiglia? Le risposte non sono univoche. In particolare sembra, e non è sorprendente, che chi non ha mai avuto esperienza diretta di questa relazione, abbia più agio nel sottolineare gli aspetti formali del rapporto, mentre chi ha avuto modo di sperimentare nella realtà quanto la relazione possa essere ambigua abbia giudizi molto più sfumati. Ancora, chi cura le relazioni con la lavoratrice? “le figlie …ma c’è una lotta perché anche la madre vuole avere voce in capitolo. Esiste un conflitto: ciascuno ha la sua idea di ciò che la badante deve fare”.. Emergono poi questioni delicate e in certo senso “tabù” riferite all’avvicinamento corporeo ad aree intime da parte dell’assistente famigliare, quindi riconducibili dagli intervistati alla sfera della sessualità degli anziani. Per i figli e i famigliari in genere, affrontare questi elementi implica entrare nella sfera privata dei genitori, quindi il

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controllo e la sorveglianza rispetto a questa dimensione da parte del care manager si fanno ancora più ardui. Ancora una volta però, lo sguardo sulla realtà obbliga a prendere atto della pluralità di dimensioni e direzioni del problema: stando ai nostri intervistati ci può essere il rischio di violenza ai danni della lavoratrice ma lo stesso assistito, specie se uomo, può diventare la vittima. Non va poi dimenticato che a volte, l’assistente famigliare condivide l’abitazione con una coppia di coniugi, assistendo solo uno di essi (“La moglie gelosa della badante”) con tutto il carico di difficoltà e complicazioni ulteriori che questo stato di fatto comporta. Gli intervistati concordano sul fatto che accanto alle questioni legate alle mansioni, agli orari, agli spazi andrebbero affrontati anche questi aspetti della convivenza.

Anche dal punto di vista dei famigliari, il quadro complessivo della relazione appare complesso e denso di sfumature. Essi hanno dovuto crearsi aggiustamenti familiari – in autonomia e solitudine rispetto al sistema dei servizi – per garantire la cura ventiquattr’ore su ventiquattro ai loro cari attraverso la permanenza stabile di una donna proveniente da un altro paese, garantendone la regia - quando non con un contributo costante e quotidiano - in un equilibrio più o meno stabile, influenzato da ciascuno dei soggetti in campo. La necessità di mantenere un equilibrio relazionale è fortemente sentita e spesso assume la dimensione dell’adattamento e della fatica quotidiana per ciascuna della parti in causa che, peraltro, è mossa da interessi e bisogni differenti. “La badante si sente padrona, gestisce la casa, perché io sono sempre fuori per lavoro”. Alle volte si realizzano coalizioni tra due attori contro il terzo, con tutta la fatica e i risvolti psicologici che l’opera di mediazione richiede in tali frangenti. Da alcune testimonianze emerge poi in modo sottile il fastidio provocato, soprattutto nelle figlie femmine, dal fatto che molto spesso l'assistente famigliare diventa agli occhi dell'anziano una figura più significativa rispetto ai figli. Questo “rimescolamento” di ruoli complica ulteriormente la relazione a tre: da un lato, i famigliari pretendono da

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parte dell'assistente un coinvolgimento totale dunque anche affettivo, però subiscono spesso con fastidio l'instaurarsi di un bel legame tra i due se questo significa estrometterli dal loro ruolo di figlio:

“É il punto di riferimento della mamma. Le chiede quello che

vuole mangiare, scelgono insieme gli abiti. Sono rassegnata”; “La mamma… si vede che è curata bene. In alcuni momenti forse troppo stimolata. A volte la mamma guarda la badante prima di rispondere”. Si tratta di un elemento interessante perché rintracciabile, in maniera

speculare, anche nelle parole delle Assistenti famigliari. La criticità in questo caso è rappresentata dalla difficoltà da parte dei parenti ad accettare la nuova condizione del proprio caro, e il tentativo di proiettare sull’operatore tutto quello che si vorrebbe fare per loro.

Le interviste mettono in evidenza le modalità con cui i familiari cercano di attivare pensieri, rappresentazioni, spiegazioni e azioni in relazione alla presenza della nuova figura sulla scena della cura, cercando ordine, coerenza, significato. Lo status sociale e il ruolo attribuito agli altri si configura e si mantiene secondo rappresentazioni e regole proprie, di conseguenza lo schema che ci si aspetta nella relazione con le assistenti familiari è quello up (padrona) – down (badante). Quando questo schema funziona, sembra essere soddisfacente (per lo più per una delle parti), ma quando questo schema non si adatta perfettamente alla realtà, scattano reazioni di fastidio. Nella convivenza, le persone portano e utilizzano valori e regole tipiche del proprio contesto di origine, in certe condizioni dunque la comunicazione e la comprensione reciproca possono diventare particolarmente difficili e si possono produrre incomprensioni e conflitti. Nelle situazioni comunicative gli interlocutori si propongono di essere efficaci, perciò si mettono in moto parole, linguaggi e si eseguono “mosse” che sono una serie di «atti» comunicativi che perseguono dei micro scopi. Alcune “mosse” possono essere

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interpretate diversamente all’interno di due contesti sociali e culturali diversi: “Troppo diretta, perde il senso del rispetto “Troppa confidenza”. Qualche volta queste incomprensioni causano una trasformazione del rapporto, da una modalità familiare ad una prettamente lavorativa e questo passaggio viene vissuto con sentimenti di perdita: “rapporto che si è deteriorato col tempo si è passati da considerarla parte della famiglia ad essere lì per lavoro”.

Una delle Assistenti famigliari intervistate dice: “se ti affezioni anche ad un animale figuriamoci ad una persona”. Le persone hanno bisogno di nutrirsi affettivamente e quindi di dare e ricevere affetto, dunque i lavoro in co-residenza porta ad un coinvolgimento affettivo inevitabile proprio perché rappresenta un bisogno di entrambe le parti coinvolte in un legame che da più parti è stato definito come un “incontro tra due vulnerabilità”. Su questo aspetto tutte le intervistate concordano. Questo coinvolgimento accade spontaneamente, è espresso attraverso modalità soggettive e può assumere diversi livelli di intensità. Accade a volte però che questa naturale risultante dei processi di interazione umana sia considerata dall’assistito e/o dai famigliari come un “dovere”, un obbligo connesso al rapporto di lavoro, retribuito, con l’assistente e come tale preteso in maniera imperativa. Certamente, il coinvolgimento, il costante confronto con la malattia, il dolore e la morte perlopiù vissuto in solitudine, rappresentano un fardello psicologico gravoso per le lavoratrici, che individuano nella formazione una possibile tutela personale:

“Convivendo si crea un rapporto affettivo che non ci dovrebbe

essere … quando l’anziano è morto ci sono rimasta male … per questo che sono andata a fare il corso oss”; “Nel nostro ruolo ci deve essere una giusta distanza e se manca questa distanza, diventa pericoloso … ma in famiglia è diverso”.

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Altre immagini mettono in evidenza quanto possa essere difficile anche per l’assistito stesso elaborare la costrizione alla convivenza e alla dipendenza totale dall’altro. Una possibile reazione è dunque quella di imporre un controllo assoluto e totalizzante sull’altra persona (“L’anziana mi diceva di comprare per lei il cibo di buona qualità e per me quello di qualità più scadente”). Alle volte emergono forme relazionali ambigue, contraddittorie, manipolatorie che generano trappole con i conseguenti risvolti psicologici. Ricatti e strumentalizzazioni sono tentativi di legare a sé l’altro con una serie di strategie relazionali, che possono andare dalla commiserazione, al vittimismo, al comando, che hanno come secondo fine maggiori vantaggi nel rapporto con l’altro e innescano modalità relazionali drammatiche all’interno dello schema vittima-salvatore-persecutore. La convivenza diventa dunque una relazione confusa, divisa tra ricatti, favori, gratitudine e altri sentimenti ambivalenti. Una danza che invischia entrambi nella scena della casa comune, come si evince dall’esperienza vissuta da una delle intervistate: l’anziano (datore di lavoro) dichiara un rapporto paternalistico (“sei come una figlia”), ma intanto rifiuta di regolarizzare la lavoratrice per paura di perderla, la donna accetta il gioco, pur nella consapevolezza di non essere nella posizione di una vera figlia (“lo so che non è vero”), ma ottiene in cambio la regolarizzazione dell’ingresso in Italia del proprio marito. Il tema dell’ambiguità insita nella relazione e quello dei “giochi” reciproci di strumentalizzazione rappresentano una sfida cruciale per la formazione, che è vista dalle assistenti come un’opportunità per migliorare la propria qualità di vita (“ho fatto il corso OSS proprio per non fare più l’assistente famigliare, devo avere la mia vita mi sono detta”) e per uscire da una condizione di isolamento.

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2.3.4 Il luogo della cura La casa per l’anziano ha tanti significati; è il luogo della sua

sicurezza, è lo spazio che si adatta al suo tempo e raccoglie la sua storia e i suoi affetti, è lo spazio in cui il corpo dell’anziano modula l’incessante adattamento alle trasformazioni che subentrano per via dell’età. Esiste tuttavia un aspetto complementare legato all’esigenza delle assistenti familiari di beneficiare di uno spazio personale. Non è difficile immaginare il bisogno di tutte le persone di potere contare su uno spazio privato. A maggiore ragione per chi svolge un lavoro in copresidenza. Oltre a contribuire a un equilibrio psicologico poter contare su uno spazio privato e intimo contribuisce a presidiare i confini lavorativi da quelli privati. Negli accordi all’inizio della collaborazione, è necessario trattare gli aspetti relativi alle condizioni della convivenza: alle volte non c’è attenzione per questi elementi, quasi si trattasse di elementi di nessuna importanza. In alcuni casi, tuttavia, si registra una resistenza da parte dell’anziano in questo senso (“La badante dorme in sala anche se potrebbe avere una camera per sé visto che la casa ha una camera per gli ospiti”). Accettare in casa in maniera definitiva una persona col ruolo di assistente significa accettare la propria non autosufficienza, forse in un certo senso darle un posto provvisorio fa illudere che sia una condizione transitoria. D’altra parte, gli anziani della Consulta rilevano come spesso queste donne, utilizzino le ore di riposo non per sé ma per andare a lavorare altrove, anche nel caso in cui abbiano uno spazio privato all’interno dell’abitazione. Per interpretare correttamente questa pratica bisogna ricordare che la motivazione principale alla base del loro viaggio sono le promesse e le deleghe che si sono assunte rispetto ai propri cari rimasti in patria. Tuttavia non si può escludere che non vi sia anche una dimensione più personale, ovvero il tentativo di riempire un vuoto esistenziale aggravato dalla costante consapevolezza di essere comunque sempre ospite in casa d’altri.

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3.

I servizi a sostegno della domiciliarità degli anziani non autosufficienti nell’esperienza novarese

di Paolo Moroni

3.1 Obiettivi e metodologia della ricerca L’analisi qualitativa riferita ai servizi e alle organizzazioni presenti

sul territorio del Comune di Novara che a vario titolo si occupano di promuovere e garantire la permanenza degli anziani non autosufficienti presso il proprio domicilio12.era finalizzata ad un duplice obiettivo: da un lato, ricostruire la presenza e le attività dei soggetti che promuovono la “domiciliarità” sul territorio novarese; dall’altro lato, cogliere l’occasione del progetto per sviluppare la collaborazione tra questi soggetti allo scopo di consolidare una rete territoriale volta a sperimentare interventi personalizzati e coordinati a favore degli anziani non autosufficienti.

Per la realizzazione delle interviste è stata predisposta una traccia costruita attorno ad alcuni nuclei tematici di particolare interesse per la ricerca: un primo nucleo chiedeva al testimone una descrizione relativa

12. La ricerca è stata realizzata tra l’autunno 2013 e la primavera del 2014 attraverso una serie di interviste a testimoni privilegiati scelti tra gli operatori e i responsabili dei servizi. Inoltre, sono stati promossi due momenti di confronto con le associazioni più rappresentative che fanno parte del coordinamento delle organizzazioni di volontariato e con i responsabili di alcuni progetti finalizzati a favorire la domiciliarità.

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ai problemi e ai bisogni a cui faceva fronte il servizio prestato dall’organizzazione insieme a una breve storia relativa alla nascita ed evoluzione dello stesso; un secondo nucleo era organizzato attorno ai temi relativi alla struttura organizzativa del servizio, alle procedure di accesso da parte degli utenti, alle tipologia e caratteristiche del personale e alla formazione; una terza serie di domande affrontava il delicato tema delle relazioni interpersonali, sia all’interno del servizio che in riferimento all’anziano e ai suoi famigliari; un quarto nucleo indagava i rapporti con le altre strutture e organizzazioni sia di carattere formale che informale operanti sul territorio a favore della domiciliarità; infine, al testimone veniva richiesta un’analisi sull’attrattività del servizio, sulle criticità e sui punti di forza, ma anche sulle possibili evoluzioni.

Tutte le interviste sono state registrate e successivamente trascritte integralmente. Di ciascuna è poi stata realizzata una scheda organizzata attorno ai nuclei tematici definiti. Il Report completo delle interviste è disponibile tra le risorse documentali allegate al presente contributo.

L’individuazione dei servizi/organizzazioni con i quali avviare il confronto è avvenuta attraverso successivi incontri del gruppo di progetto e si è sviluppata utilizzando una tecnica simile a quella del brain storming in cui i vari componenti, ciascuno portatore di esperienze differenziate in riferimento alla propria pratica professionale, hanno contribuito alla identificazione di organizzazioni e persone che potessero portare significativi contributi alla ricerca. Naturalmente le prime due interviste hanno avuto come focus il Servizio di Assistenza Domiciliare della città (d’ora in poi SAD)13.

13. Per il Comune di Novara è stata intervistata la responsabile Carla Olivero. Il servizio di assistenza domiciliare, a partire dalla sua istituzione nel 1994, è stato appaltato ad un soggetto esterno, attualmente la cooperativa Nuova Assistenza. Una seconda intervista è stata pertanto realizzata con la responsabile della cooperativa Stefania Benvenuti. Poiché questo servizio pubblico, a partire dalla sua istituzione nel 1994, è stato appaltato da parte dell’Ente gestore ad un soggetto esterno, attualmente

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sono state sentite le responsabili Carla Olivero per il Comune di Novara e Stefania Benvenuti per la cooperativa Nuova Assistenza.. Gli altri servizi a carattere pubblico presenti nella città di Novara e su cui si basa attualmente la possibilità di mantenere l’anziano, pur in presenza di alcuni deficit, presso la sua abitazione sono rappresentati dall’Assistenza Domiciliare Integrata (ADI), rivolta ad anziani con problematiche a valenza sanitaria e prestato dall’ASL e il Centro Diurno Integrato, servizio semiresidenziale rivolto a non autosufficienti, ospitato presso la struttura per anziani De Pagave14.

Sul fronte del privato, il cardine su cui si regge la possibilità per gli anziani non autosufficienti di continuare a vivere presso la propria abitazione è rappresentato dal lavoro di cura svolto dalle Assistenti famigliari, comunemente conosciute come “Badanti”. A questo proposito, e per avere un quadro il più vicino possibile alla realtà del fenomeno, sono state sentite le organizzazioni che sotto vari aspetti si occupano o si sono occupate del fenomeno: il Centro per l’Impiego di Novara che per circa due anni ha gestito il servizio di incontro domanda offerta di lavoro; lo Sportello Famiglia CISL che si occupa di problematiche legate alla gestione dei contratti di lavoro; i Centri di Ascolto di Caritas Diocesana impegnati sul fronte dell’incontro tra la domanda di assistenza da parte delle famiglie e la disponibilità ad offrire il servizio da parte delle assistenti famigliari15.

Sempre in riferimento ai servizi privati rivolti alle famiglie e indirizzati a gestire le problematiche riferite alla domiciliarità si segnalano altre tre esperienze: il contributo fornito dal progetto “Care

la cooperativa Nuova Assistenza, le persone intervistate hanno svolto in questa occasione il duplice ruolo di partner di progetto e di testimoni privilegiati. 14. Sono state intervistate la responsabile dell’ADI del distretto sanitario di Novara e la coordinatrice dell’Istituto Gaudenzio De Pagave. 15. Per il Centro per l’impiego sono stati intervistati i responsabili dell’ATS che ha gestito il servizio. Per lo sportello Famiglia Cisl è stata intervistata la responsabile Elena Ugazio. Per i Centri di Ascolto Caritas è stata intervista la coordinatrice dei centri Daniela Menis.

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Family Care” gestito dalla cooperativa sociale Vedogiovane, l’iniziativa Viva gli Anziani, realizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, l’esperienza dell’assistenza privata a ore in ambito domestico e ospedaliero16.

Per concludere la panoramica è stato affrontato il contributo che le organizzazioni di volontariato portano, attraverso le varie iniziative di cui sono protagoniste, al mondo della domiciliarità17. La funzione svolta da queste organizzazioni, il più delle volte formate a loro volta di anziani, è fondamentale sia attraverso l’attività di quelle che si occupano di specifiche problematiche (telesoccorso ed Alzheimer ad esempio) sia di quelle che svolgono un ruolo di attivazione delle risorse della popolazione anziana attraverso l’organizzazione di momenti di aggregazione favorendo il cosiddetto “invecchiamento attivo”.

Di seguito lo schema riassuntivo delle reti, formali e informali, presenti sul territorio della Città di Novara, a supporto della domiciliarità.

16. Per il progetto “Care Family Care è stato intervistato il referente della cooperativa sociale Vedogiovane che gestisce l’iniziativa. Per il progetto Viva gli Anziani è stata intervista Daniela Sironi, presidente della Comunità di Sant’Egidio. Per l’assistenza privata a ore è stata intervistata Marilena Giorgetti, presidente della cooperativa Prontassistenza. 17. Per il Centro di servizi per il Volontariato è stata intervistata la responsabile, Simona Scapparone.

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3.2 I servizi pubblici e il privato sociale a supporto della domiciliarità Sul territorio del Comune di Novara il Servizio di assistenza

domiciliare pubblico (SAD) si articola attraverso servizi rivolti alla persona erogati da personale della cooperativa Nuova Assistenza, appaltatrice del servizio e comprende supporto all’assunzione dei pasti, igiene personale, vestizione, mobilizzazione di anziani allettati, alzata e messa a letto, deambulazione, uso di presidi sanitari, verifica e controllo per una corretta assunzione dei farmaci. Vengono anche attuate attività inerenti il governo della casa, trasporto ed accompagnamento degli utenti. Il servizio copre circa 200 utenti, viene erogato sotto la responsabilità di una coordinatrice della cooperativa. Come già sopra indicato, durante il lavoro di mappatura dei servizi domiciliari si è voluto ascoltare anche la voce di una cooperativa che

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privatamente offre servizi analoghi a quelli del SAD. La cooperativa Prontassistenza è nata per fornire servizi di assistenza privata all’interno dell’ospedale cittadino: questa tipologia di attività è andata riducendosi nel tempo a favore dell’assistenza domiciliare, che oggi rappresenta circa il 60 per cento del fatturato. Quest’ultimo servizio si concentra sul lavoro di assistenza a persone non autosufficienti, in particolare anziani, presso il loro domicilio per l’effettuazione dell’igiene personale, la somministrazione dei pasti o come supporto al caregiver durante le ore di assenza, in alcuni casi si tratta di assistenza sulle 24 ore, mentre la parte più importante dell’attività viene svolta attraverso passaggi presso il domicilio della durata di qualche ora. Sostanzialmente si tratta di un servizio simile a quello fornito dal pubblico, con costi leggermente inferiori alla tariffa massima applicata dal Comune, ma con il vantaggio di un’ attivazione più agile.

In entrambi i servizi la composizione di genere degli operatori è totalmente sbilanciata: solo 3 uomini operano presso il SAD, mentre nessuno a Prontassistenza. La scarsa presenza maschile è indubbiamente legata allo stereotipo che ritiene le donne più indicate a svolgere questo tipo di lavoro. Allo stesso modo, sia da parte dei servizi sia tra le famiglie è forte la preferenza per persone di età matura, ritenute maggiormente disponibili ed emotivamente più stabili. Infatti per quanto riguarda Nuova Assistenza l’età media del personale raggiunge i 47 anni, mentre supera di poco i 40 tra le operatrici del servizio privato. I servizi esaminati evidenziano una significativa presenza di personale di origine straniera che si avvicina al cinquanta per cento, in particolare provenienti dalla regione andina, per quanto riguarda il SAD, mentre si tratta di ucraine o rumene nel caso di Prontassistenza.

Nel rapporto con l’utenza si evidenziano spesso difficoltà in riferimento a problematiche di origine etnica. Per quanto riguarda il servizio di assistenza domiciliare privato non ci sono operatrici di colore in servizio e da parte di alcuni anziani o loro famigliari c’è

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ancora difficoltà ad accettare un’assistente straniera. Nuova Assistenza in passato aveva tentato di inserire personale di colore, che tuttavia veniva accettato solo se affiancato da un’altra operatrice. Al momento della presa in carico individuale al domicilio dell’utente è scattava un’aperta ostilità. E’ evidente che alla base di questa ostilità vi sia un problema legato all’applicazione di stereotipi di matrice etnica e culturale da parte di persone che hanno vissuto nel passato un clima di scarsa apertura alle differenze.

In riferimento alle competenze necessarie per il lavoro a domicilio le interviste hanno messo in luce che quelle puramente tecniche siano meno fondamentali, molto più importante risulta la capacità di problematizzazione, di capire quali condizioni devono essere create affinché l’anziano, possa sentirsi sicuro e “stare bene”. L’operatrice a domicilio deve possedere un alto grado di autonomia e saper osservare e cogliere tutti gli elementi che possono aiutarla a offrire una prestazione ottimale.

Per quanto riguarda il rapporto con i parenti dell’anziano si fa notare che, soprattutto nel servizio privato, aumentano le richieste di cura e la delega da parte della famiglia, ben oltre il mandato definito al momento della presa in carico con richieste che spesso esulano i compiti dell’operatore.

Da parte della responsabile del Sad sono state evidenziate alcune criticità rispetto all’attuale organizzazione, prima fra tutte la netta separazione tra la fase progettuale e la conseguente definizione del Piano di Assistenza Individualizzato, gestita dall’assistente sociale dell’Ente pubblico e la fase di erogazione, gestita dagli operatori della cooperativa, che crea frammentazione nei rapporti tra servizio, anziano, famiglia e dispersione di informazioni preziose. Non esistono contatti, se non mediati dalla coordinatrice della cooperativa, tra assistente sociale e operatori OSS. Nonostante questo il servizio si è evoluto negli ultimi anni in maniera positiva sotto il profilo quantitativo e qualitativo. La limitazione ad un ulteriore sviluppo e all’implementazione del

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servizio è però rappresentata dalla contrazione delle risorse. Stante la situazione attuale, quello fornita dal SAD continuerà ad essere un servizio di nicchia, rivolto ad una particolare e limitata tipologia di utenza. Tutto ciò è evidente se si pensa che, a fronte di un numero stimato di ultra sessantacinquenni, con almeno un deficit in una delle funzioni della vita di circa 3000 persone, quelli assistiti dal SAD non raggiungono i 250. Considerando poi che il servizio SAD non può prevedere più di 3 ore di assistenza quotidiana, diventa evidente l’impossibilità per il servizio pubblico di far fronte ai reali bisogni degli anziani non autosufficienti e delle loro famiglie. Il SAD comunque è un tassello essenziale che dovrà nel futuro riposizionarsi all’interno di un sistema integrato di servizi.

Ai servizi sopra descritti che si occupano del soddisfacimento dei bisogni primari dell’anziano non autosufficiente a domicilio possono essere affiancate anche due ulteriori risorse pubbliche che lavorano a favore della domiciliarità. Si tratta del servizio di Assistenza Domiciliare Integrata (ADI), a carico dell’ASL, e del Centro Diurno Integrato (CDI) presso l’Istituto Gaudenzio De Pagave.

L’ADI è un servizio di carattere universalistico, diretto a tutte le fasce di età della popolazione, che permette alle persone anziane che presentano problematiche di tipo sanitario (la maggioranza degli utenti) di essere curate il più a lungo possibile nel proprio ambiente domestico. Le cure domiciliari consistono in trattamenti medici, infermieristici, riabilitativi finalizzati a stabilizzare il quadro clinico e limitare il declino funzionale. L'attivazione delle cure domiciliari è compito esclusivo del Medico di medicina generale su segnalazioni che possono arrivare dai familiari, dai servizi sociali oppure dai reparti ospedalieri all'atto della dimissione. L’attivazione del servizio richiede condizioni igieniche (del paziente e della casa) di livello accettabile: questa condizione determina la collaborazione, in particolari casi, con il servizio SAD che si occupa di assicurare le condizioni di base per l’intervento. In ogni caso l’assistenza a domicilio può avvenire solo in

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presenza del caregiver, sia esso un famigliare o la persona che si prende cura dell’anziano non autosufficiente, ad esempio l’assistente famigliare.

Un'altra criticità è quella della contemporanea presenza di pazienti e caregiver anziani che crea difficoltà soprattutto nella fase dell’addestramento di questi ultimi. Infatti rientra tra i compiti dell’infermiere dell’ADI l’addestramento del caregiver a svolgere determinati compiti e manovre seguendo procedure che prevedono mansioni di tipo sanitario di semplice attuazione. E’ questo un compito molto delicato e l’atteggiamento dei parenti di fronte a questa richiesta varia dall’estremo del rifiuto a quello di una entusiastica, ma superficiale assunzione del compito affidato. Le destinatarie dell’addestramento sono sempre più spesso le assistenti famigliari con cui viene instaurato un rapporto perlopiù positivo. Le difficoltà maggiori nel rapporto con le assistenti sono legate a problematiche di tipo relazionale, in particolare quando esiste una modalità poco chiara nel rapporto tra assistente e parenti dell’anziano. Questo fa si che l’infermiere non abbia un soggetto chiaro a cui riferirsi e che i messaggi debbano essere ripetuti o non arrivino correttamente. Sono venute anche a crearsi alcune complicazioni legate alla presenza di infermiere straniere accettate con difficoltà da parte di alcuni pazienti, mentre per quanto riguarda i pregiudizi di genere essi sono diametralmente opposti a quelli che si vengono a creare all’interno dei servizi di assistenza domiciliari alla persona: in questo caso si ammette l'esistenza di uno stereotipo che attribuisce maggiore credito all'infermiere maschio che è ritenuto più autorevole e in genere più preparato.

Altro servizio che permette alle famiglie di mantenere, almeno parzialmente, l’anziano non autosufficiente presso la propria abitazione è rappresentato dal Centro Diurno Integrato attivo presso la sede dell’Istituto DePagave, che ha una disponibilità per 20 utenti. Gli anziani che frequentano il centro diurno vivono con figli o altri parenti

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che lavorano e quindi durante il giorno hanno bisogno di una struttura di appoggio e asilo. Al rientro a casa l’anziano cena e passa la notte presso il proprio domicilio, lo stesso avviene nei fine settimana. Il trasporto degli utenti che non possono essere accompagnati dai famigliari, fino a qualche tempo fa attuata dalle OSS dell’Istituto stesso, avviene ora in convenzione con l’associazione di volontariato AUSER. Questa pur lodevole iniziativa ha creato però una criticità in quanto il confronto e il contatto con la famiglia, da quando non esiste più la gestione diretta del trasporto, si è ridotto.

La principale criticità del servizio, secondo l’opinione della responsabile, è legata a una serie di fattori che hanno origine dalla promiscuità delle patologie (demenze, continuità assistenziale, RSA handicap, alcuni ospiti psichiatrici) che tutte insieme e in presenza di esigenze diversissime, creano disagio reciproco. In realtà solo formalmente si tratta di un Centro diurno Integrato. Oggi le domande che arrivano dall’ASL sono solo per persone cognitivamente non autosufficienti (Alzheimer e/o demenze). Tuttavia le caratteristiche organizzative e strutturali del centro, nonché l'eccessiva flessibilità nell'accesso, lo rendono poco adatto a questa tipologia di utenza, caratterizzata da bisogno di stabilità nell'organizzazione della giornata e di riconoscibilità del contesto di inserimento. E’ evidente che il servizio deve essere ripensato, la struttura ammodernata e il personale adeguatamente formato ad accogliere queste particolari tipologie di utenza.

3.3 I servizi a sostegno delle famiglie che scelgono il lavoro privato di cura

Il Centro di Ascolto della Caritas diocesana rappresenta uno dei

punti di riferimento dove le famiglie che scelgono di mantenere il proprio congiunto non più autosufficiente presso il proprio domicilio possono trovare aiuto e consiglio nella scelta di un’assistente

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famigliare. Il compito di Caritas si esaurisce con la realizzazione dell’incontro tra assistente famigliare e famigliari dell’anziano, comunque consigliando a questi ultimi la regolarizzazione del rapporto di lavoro attraverso la consulenza di uno degli uffici di patronato del territorio. Lo Sportello Famiglia Cisl è appunto uno degli enti che si occupa di gestire, per conto delle famiglie degli anziani, gli adempimenti collegati alla gestione burocratica e amministrativa del rapporto di lavoro. In particolare fornisce consulenza sulla applicazione del contratto CCNL del settore, occupandosi successivamente dell’ elaborazione mensile della busta paga e del calcolo dei contributi previdenziali e assicurativi che la famiglia, in qualità di datore di lavoro, deve versare. I due servizi, l’uno il naturale proseguimento dell’altro, sono dunque punto di riferimento a livello cittadino per tutti coloro che desiderano assistenza e consulenza sia nella scelta dell’assistente famigliare che nella gestione di un contratto di lavoro regolare.

Il Centro di Ascolto è aperto due volte alla settimana: il mercoledì è dedicato ad un primo incontro con le persone che si offrono per il lavoro di assistenza mentre il venerdì pomeriggio si svolgono colloqui più approfonditi su appuntamento e con le famiglie. A seguito dell’afflusso sempre più grande di richieste di assistenza da parte delle famiglie e di offerta di lavoro da parte delle donne è stato necessario organizzare il servizio lavorando con un programma elaborato da un volontario esperto di informatica. Durante il colloquio con la potenziale assistente vengono raccolti, oltre ai dati anagrafici, riferimenti personali e documentali, anche una serie di notizie che possono essere utili nell’incrociare le esigenze della domanda e dell’offerta che avviene poi attraverso il sistema stesso. Alla famiglia che ne ha fatto richiesta si consegnano riferimenti e numero di telefono di una o più persone disponibili, lo stesso procedimento si svolge nei confronti delle donne selezionate e a questo punto che l’intervento di Caritas si conclude.

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I nominativi presenti nella banca dati ammontano a oltre 1500, per la maggior parte provenienti dall’Europa Orientale e dal Sud America. Ed è in riferimento a queste nazionalità che si assiste alla maggior possibilità di realizzare con successo l’opera di intermediazione. Infatti si tratta di donne di età media elevata, libere da vincoli famigliari, disposte alla co-residenzialità e all’assistenza continuativa. Per quanto riguarda invece le provenienze dall’Africa sub sahariana o dal Magreb la presenza di situazioni famigliari complesse restringe la possibilità di un occupazione che è a sua volta limitata da uno stereotipo, purtroppo presente a diversi livelli della nostra società, che vede le donne di questa origine penalizzate se messe a confronto con altre etnie ritenute più “adatte” al lavoro di cura. Un fenomeno che è andato aumentando negli ultimi anni è quello relativo alle donne italiane disponibili ad un lavoro di assistenza, in genere co-residenziale e sulle 24 ore.

Un altro dato significativo emerso dalla lettura dei dati forniti da Caritas è quello relativo all’ elevata età media delle donne che offrono disponibilità a questo lavoro e che conferma quanto sopra riportato in riferimento ai servizi di assistenza domiciliare. L’elemento della giovane età è il limite principale all’accesso a questo tipo di lavoro in quanto generalmente associato a una tipologia di donne poco disponibili a lavorare con tempi che non si conciliano con quelli della gestione famigliare. A fronte di un aumento costante di offerta di lavoro da parte delle donne non è presente un trend altrettanto positivo dal lato della domanda: le famiglie a fronte di situazioni di non autosufficienza del parente anziano tendenzialmente mettono in atto strategie che prevedono l’impegno di uno dei membri, quasi sempre di genere femminile, oppure un mix di interventi che prevede anche l’utilizzo di un aiuto esterno per alcuni momenti della giornata, il più delle volte retribuito irregolarmente. Gli operatori del servizio Caritas notano un aumento di problemi determinati dalla situazione di isolamento e dalla conseguente rottura dell’equilibrio psicofisico in cui vengono a trovarsi le assistenti famigliari durante il loro lavoro. Questa

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condizione spesso favorisce l’insorgere di contesti in cui aumenta la conflittualità e che portano a rivendicazioni eccessive da entrambe le parti e in casi estremi anche a denunce reciproche, in particolare in presenza di attività che prevedono un coinvolgimento emotivo e fisico molto alto come nel caso dei malati di Alzheimer.

Lo Sportello Famiglia CISL segue circa 750 rapporti di lavoro; in riferimento all’idea iniziale del sindacato, semplicemente quella di fornire alle famiglie un aiuto per la gestione del contratto di lavoro, il servizio ha assunto nel tempo una diversa connotazione effettuando una presa in carico “globale” dei due soggetti: famiglia e assistente famigliare. La funzione di soggetto terzo favorisce una visione di insieme del fenomeno e rappresenta un osservatorio da cui si possono cogliere alcuni aspetti riferiti all’evoluzione del lavoro privato di cura altrimenti difficilmente identificabili. Con la regolarizzazione dei rapporti di lavoro viene a crearsi da entrambe le parti una maggiore consapevolezza riferita a diritti e doveri reciproci, con la particolarità che rispetto ad un normale contratto di lavoro in cui spesso il lavoratore rappresenta la parte più debole la prospettiva è in parte modificata perché anche la famiglia che si trova a dover affrontare un’esigenza di cura, spesso improvvisa, si trova in una posizione analoga. Le ambiguità del lavoro residenziale di cura si evidenziano nel fatto che le assistenti hanno come controparte un datore di lavoro atipico e che dunque una rivendicazione troppo spinta delle previsioni contrattuali può essere controproducente per entrambe le parti. Ci si trova di fronte a situazioni ognuna a sé stante, con molte sfaccettature e altrettante soggettività in gioco. Famiglie e assistenti sono consigliate relativamente alle aspettative reciproche che nel caso dei datori di lavoro possono rischiare di creare rapporti viziati dall’idea che non ci si trovi di fronte ad un rapporto di lavoro, ma che la famiglia svolga un ruolo quasi “filantropico” nei confronti dell’assistente che si prende in casa. In cambio, oltre alle prestazioni di tipo operativo, deve essere fornito l’affetto che il famigliare non può o non è in grado di dare. Una

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evidente problematica collegata al lavoro residenziale emersa dai colloqui con le assistenti famigliari da parte degli operatori dello sportello è quella legata ad una spinta quasi compulsiva a lavorare, a volte anche nelle ore di riposo, senza riguardo per gli effetti sul fisico e sulla psiche. Si sono registrati nel tempo una decina di episodi di donne che sono state rimpatriate a seguito di ricoveri nel reparto di psichiatria presso l’Ospedale di Novara. Ma anche dal punto di vista del benessere fisico la situazione è allarmante, in quanto si sono verificati casi di donne malate che hanno continuato a lavorare fino allo sfinimento, per paura che il ricovero ospedaliero determinasse la fine del rapporto di lavoro e conseguentemente la perdita di un posto dove vivere. Le problematiche a cui porta la convivenza con anziani affetti da demenza o malattia di Alzheimer e rinforzate dalla doppia segregazione vissuta sia rispetto al paese di origine che alla società del paese ospitante, potrebbero essere in parte superate con una diversa gestione dei tempi di lavoro. Da alcune parti per ovviare a queste criticità si propone una sorta di job sharing. Queste proposte potrebbero anche essere percorribili dal punto di vista contrattuale, ma resterebbe da capire come una soluzione di questo tipo, che ovviamente prevede stipendi decurtati, potrebbe essere accettata da quelle donne che hanno deciso di massimizzare il proprio impegno lavorativo finalizzandolo ad obiettivi strategici per la loro famiglia. Altro fattore di non secondaria importanza risulta essere quello legato alla necessità di un abitazione indipendente da quella dell'assistito, con i relativi costi, nel caso di un’alternanza più stretta o a quella di frequenti viaggi di andata e ritorno al paese di origine, nel caso di alternanze di qualche mese.

La formazione di coloro che svolgono questo tipo di lavoro è un altro punto debole del sistema. Coloro che arrivano in Italia per lavorare come assistente famigliare spesso svolgevano un’attività diversa nel paese di origine, ritenendo che la cura non richiedesse particolari competenze, se non quelle che ogni “madre di famiglia” o figlia può avere, associate a buona volontà e grande pazienza. Questo

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atteggiamento è generalmente condiviso dai parenti degli anziani e dagli anziani stessi che vengono affidati alle cure delle assistenti. Oggi di fronte all’aumento dell’età degli assistiti, la presenza di patologie invalidanti e la diffusione delle demenze e della malattia di Alzheimer sarebbe necessaria una maggiore formazione. Comunque rispetto a questo tema ci sono forti differenze di approccio rispetto alla nazionalità. Per le donne ucraine (età avanzata, progetti migratori di breve periodo, mancanza di una residenza propria, necessità di guadagnare più denaro possibile da inviare in patria) la formazione è vissuta come una perdita di tempo. Altro discorso si deve fare per le donne più giovani, di origine diversa, per le quali rappresenta un investimento per il proprio futuro e per uscire da una condizione vissuta come temporanea18. A partire dai primi anni duemila, a fronte della diffusione del lavoro privato di cura si è fatta strada da parte della Pubblica Amministrazione la volontà di regolare un fenomeno che con il passare degli anni ha assunto una dimensione considerevole. Mentre a livello centrale il tentativo di regolazione è stato indirizzato all’emersione del lavoro irregolare attraverso le successive sanatorie rivolte a colf e badanti, a livello locale, soprattutto da parte di Regioni ed Enti locali, si è cercato di disciplinare le modalità di incontro domanda offerta attraverso l’apertura di sportelli dedicati e la costruzioni di elenchi e albi a cui le famiglie potessero attingere e che garantissero livelli qualitativamente accettabili del servizio.

Alcuni dati riferiti alla parte “emersa” del fenomeno, forniti dagli interlocutori incontrati durante le interviste, dimostrano che anche a livello numerico nella nostra città il fenomeno ha assunto proporzioni

18. Uno dei prodotti finali del progetto Casa Comune è costituito dalla proposta di un dispositivo di formazione che sia in grado di supportare lo sviluppo professionale delle Assistenti familiari, con particolare attenzione alla valorizzazione del loro background esperienziale. Il capitolo nove del presente volume descrive i principali risultati del lavoro svolto e propone una serie di riflessioni sulla costruzione di un modello formativo basato sui presupposti del workplace learning.

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considerevoli, in particolare se riferiti alla popolazione ultrasettantenne residente.

Anche a livello della nostra città sono stati sperimentati interventi volti a gestire e regolare l’incontro domanda offerta del lavoro di cura, il più recente dei quali, il progetto Reti di Cura, gestito su finanziamento regionale dalla Provincia di Novara in associazione temporanea con una serie di soggetti privati, si è concluso nell’autunno del 2013. Pur partendo da presupposti in cui era presente l’idea che sia la famiglia che l’assistente famigliare avessero bisogni complessi che andavano al di là dell’incrocio domanda/offerta, il progetto si è rivelato parzialmente fallimentare, se si pensa che durante i suoi 18 mesi di vita sono stati stipulati solo poche decine di contratti di lavoro. A causa della burocratizzazione del servizio le risposte risultavano lente e non rispondenti ai bisogni espressi dalle famiglie che, di fronte all’insorgere improvviso di problemi di assistenza, necessitano al contrario di un servizio snello ed efficiente. Inoltre l'implementazione di un progetto che si proponeva di realizzare l’incontro domanda offerta si è scontrata con una realtà ormai consolidata rappresentata dai canali informali rappresentati dalla rete dei centri di ascolto Caritas oppure da intermediari appartenenti alle comunità di origine. Il progetto ha comunque attivato alcune buone prassi, divenute patrimonio collettivo dei vari soggetti, in primo luogo la messa in rete delle forze dei partecipanti e delle rispettive competenze. Altro punto di forza del progetto è rappresentato dalla tipologia delle attività formative per le assistenti: la possibilità di inserirsi in moduli snelli, di rinforzo delle competenze. I moduli di rinforzo, d’altra parte, hanno avuto un valore intrinseco di socializzazione (sono un modo per uscire dalla segregazione in casa con l’anziano) e di acquisizione di competenze spendibili anche una volta tornate al paese di origine.

Secondo gli intervistati, in una realtà come quella novarese, uno sportello pubblico potrebbe occuparsi di offrire una serie di servizi paralleli esclusivi, di natura orientativa, informativa e formativa, più

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congeniali alle sue caratteristiche organizzative e gestionali, lavorando in rete con le organizzazioni che ai vari livelli si occupano del fenomeno e che abbiano un’esperienza consolidata, verso le quali indirizzare le famiglie e le assistenti per la realizzazione della fase di incontro.

Dalle ceneri di questa iniziativa ha preso l’avvio nel giugno 2014, su finanziamento privato, la proposta presentata dalla cooperativa Vedogiovane e da altri soggetti già coinvolti nell'esperienza “Reti di Cura”, finalizzata a proseguire e migliorare le attività portate avanti nei due anni precedenti. L’idea progettuale nasce dall’esperienza del progetto precedente e in particolare da una semplice constatazione: svolgendo l’incrocio domanda offerta tra la famiglia di un anziano e un’assistente famigliare si promuove l’incontro tra due soggetti deboli. Da una parte l’assistente con il suo vissuto di donna e di migrante che ha lasciato in patria affetti, ma spesso situazioni famigliari, genitori anziani o figli, che necessiterebbero della sua presenza; dall’altra parte gli anziani e le loro famiglie, che il più delle volte si trovano a dover gestire situazioni di emergenza assistenziale in piena solitudine, senza riferimenti a cui rivolgersi e che spesso finiscono in balia di intermediari senza scrupoli conosciuti attraverso il passaparola, i quali propongono soluzioni che poi si rivelano fallimentari.

L’obiettivo prioritario del progetto “Care family care” (che nel frattempo per semplicità di riferimenti è stato ribattezzato BenEssere Anziani) è quello di creare uno spazio di ascolto in cui ri-costruire la domanda delle famiglie, fornendo risposte che non necessariamente si limitino alla proposta di un contratto di lavoro con un Assistente famigliare, ma che, attraverso la rete dei partner, spazino su una più ampia gamma di risposte disponibili.

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3.4 La rete del volontariato a sostegno della domiciliarità All’interno della rete di soggetti che ai vari livelli si occupano di

promuovere la domiciliarità sono presenti le associazioni di volontariato che rappresentano, insieme ai servizi pubblici, a quelli del privato e del privato sociale, uno dei pilastri su cui si basa l’assistenza domiciliare degli anziani. Per chiarire il ruolo delle associazioni che sul territorio della citta di Novara svolgono questo compito sono stati sentiti in tempi diversi sia i responsabili del Centro Servizi per il Volontariato della Provincia di Novara (d’ora in poi CSV), partner del progetto Casa Comune, organismo che opera per promuovere e sostenere l’attività del volontariato, che i rappresentanti delle Organizzazioni di Volontariato stesse. Questa frequentazione è durata per tutto il corso del progetto e ha permesso un confronto continuo e stimolante che ha portato un notevole contributo alla definizione di un modello organizzativo innovativo a favore della domiciliarità.

Il confronto con i responsabili del CSV si è aperto con una panoramica delle associazioni che si occupano di anziani e di promozione della domiciliarità, in tutto circa una ventina nella Citta di Novara, le cui attività coprono i bisogni più diversificati: trasporto, teleassistenza, consegna della spesa e disbrigo di pratiche burocratiche, visite di compagnia. Sono inoltre presenti alcune associazioni, come quelle rivolte al sostegno di persone affette da malattie specifiche e alle loro famiglie (Parkinson, Alzheimer, etc) che pur non avendo come target specifico gli anziani sono particolarmente attive nel lavoro su questa fascia di popolazione. Un ruolo importante nel favorire la domiciliarità è anche svolto dalla rete del volontariato parrochiale, dai centri di incontro per gli anziani e dall’unico Centro diurno per autosufficienti presente in città.

Con l’avvento della congiuntura economica negativa che ha colpito anche il nostro territorio, le Organizzazioni di Volontariato hanno giocato un ruolo molto importante nel fronteggiare l’aumento delle

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situazioni di impoverimento che oltre alle famiglie, in particolare quelle immigrate, ha colpito gli anziani soli e con pensioni minime. Sono aumentati in maniera esponenziale i bisogni a cui il volontariato ha dovuto fare fronte e i suoi interventi hanno spesso evitato che situazioni a rischio si trasformassero in effettive emergenze. Il vantaggio delle associazioni è legato alla loro elasticità e alla possibilità di agire immediatamente a fronte dell’emersione dei problemi contrariamente ad altri soggetti, sia pubblici che privati che hanno processi decisionali e di operatività molto più lenti. Questo vantaggio che porta le associazioni a rilevare il bisogno e predisporre interventi immediati è però condizionato negativamente dallo scarso dialogo tra le associazioni stesse che porta ad interventi parcellizzati e non raccordati tra di loro.

Tra le criticità viene evidenziato che il rapporto con gli Enti pubblici e in particolare, per quanto riguarda l’assistenza agli anziani, quello con i Servizi Sociali del Comune di Novara non è completamente positivo. Il volontariato non si sente riconosciuto e tanto meno valorizzato, pur essendo sempre e pienamente disponibile a dare il proprio contributo per fronteggiare le emergenze che via via si manifestano. La collaborazione che i Servizi Sociali propongono alle associazioni non si attua su un piano di parità, poiché queste ultime devono intervenire svolgendo una funzione di supplenza. Quello che chiedono le associazioni è di lavorare con i Servizi in modo coordinato e su obiettivi comuni, ciascuno secondo le proprie competenze.

Un'ulteriore difficoltà che colpisce le associazioni che si occupano di assistenza è quella legata alla carenza di persone disponibili a prestare la loro opera come volontari. Si tratta di un problema che coinvolge tutte le associazioni, ma in particolare quelle del settore socio-assistenziale. I pochi giovani che si dedicano ad attività di volontariato si impegnano soprattutto nella cultura, nelle attività verso i minori o la disabilità e nell’impegno civile. Il volontario che si interessa di anziani non autosufficienti è in genere una donna

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ultrasessantacinquenne, se si escludono i volontari maschi che in genere operano nelle attività di trasporto.

Secondo l’opinione dei responsabili delle ODV, molti dei quali hanno vissuto in prima persona la problematiche connesse alla non autosufficienza di un congiunto, la criticità che più destabilizza la famiglia dell’anziano è rappresentata soprattutto dalla mancanza di informazioni e di orientamento su come affrontare la situazione che si è venuta a creare. La famiglia si trova smarrita, senza punti di riferimento e questa situazione colpisce invariabilmente persone di tutti i ceti sociali e con diversi livelli culturali. Anche quando la non autosufficienza si presenta come l’esito di un lento declino il momento della decisione su come affrontare il problema crea una situazione di crisi e la famiglia si trova senza supporto. I volontari presenti ritengono che la creazione di un punto di informazione e orientamento per le famiglie sia strategico per favorire lo sviluppo di una cultura della domiciliarità nella nostra città e che questo possa nascere solo a seguito di un coordinamento tra tutte le organizzazioni che se ne occupano.

E’ opinione di tutti che pubblico e privato debbano uscire dai loro confini e integrarsi e che, sul fronte del volontariato, manchi informazione reciproca rispetto alle cose che le singole organizzazioni portano avanti. Questo porta spesso a lavorare duplicando gli interventi e può generare gelosie e incomprensioni. L’obiettivo è dunque quello di superare le difficoltà integrando gli interventi senza sovrapporli, ma per fare questo passo è necessario che le varie organizzazioni siano accompagnate in un percorso di trasformazione che le coinvolga profondamente. La proposta di un modello partecipato che assicuri il coordinamento cittadino di tutte le risorse è un valore condiviso ed un auspicio da parte delle organizzazioni, nella prospettiva di promuovere una cultura della domiciliarità basata sul coinvolgimento della Comunità nel suo complesso.

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3.5 Alcune considerazioni di sintesi Dall’analisi e dalla mappatura dei servizi nel territorio novarese si

possono cogliere diversi elementi di interesse, che in parte caratterizzano la specificità di questa esperienza e in parte la assimilano ad altri territori della provincia italiana. Una prima considerazione che incornicia tutte le altre richiama un aspetto tipico del settore socio-assistenziale, dove spesso il grande fermento delle iniziative e la capacità proattiva degli attori sociali non è accompagnata da un’equivalente capacità di coordinarsi e di essere coordinati. Il territorio della città di Novara è ricco di esperienze positive (pubbliche e private) nel settore della promozione alla domiciliarità. Tuttavia l’insieme dei soggetti intervistati opera in modo indipendente e poco coordinato.

Questo risultato può essere analizzato in una duplice chiave di lettura. La prima chiave di lettura evoca un ripensamento complessivo del ruolo e delle funzioni dell’ente pubblico. Ad oggi è evidente la difficoltà del servizio pubblico a far fronte ai bisogni degli anziani non autosufficienti e delle loro famiglie. Infatti, a fronte di un numero stimato di circa 3000 ultra sessantacinquenni19 con almeno un deficit in una delle funzioni della vita quotidiana, quelli assistiti dal SAD (solo per poche ore al giorno) non raggiungono i 250. Il servizio pubblico di assistenza domiciliare deve ripensare il suo ruolo, ferma restando la sua centralità rispetto ad un sistema integrato di servizi: è auspicabile infatti che pubblico, privato sociale, volontariato e famiglie degli anziani cooperino sulla base di un progetto comune nel quale gli operatori del SAD dovranno svolgere un ruolo «nuovo» come facilitatori di reti di prossimità, antenne che possano captare i nuovi bisogni, trainer e tutor relativamente al ruolo dell’assistente famigliare.

19. Nostra elaborazione sul dato stimato del 18,5% riferito alle persone>65 – Indagine ISTAT Multiscopo 2013 “Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari”.

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La seconda chiave di lettura evoca una riprogettazione dell’azione sociale in cui le pratiche formali e informali concorrano a ridefinire le strategie e le politiche di welfare20. La Famiglia si conferma, infatti, come elemento centrale attorno a cui ruota tutto il sistema della cura a domicilio degli anziani non autosufficienti. Essa è tuttavia lasciata sola di fronte all'emergenza: non esistono attualmente forme istituzionalizzate di monitoraggio della condizione della popolazione anziana, né strutture alle quali rivolgersi per avere informazioni, orientamento e supporto nelle scelte che vanno affrontate quando le condizioni del proprio congiunto degradano definitivamente.

A colmare parzialmente questo vuoto interviene il lavoro privato di cura, che tutte le interviste segnalano come una funzione indispensabile nell’attuale sistema delle cure a domicilio. I dati numerici, provenienti da fonti diverse21 confermano la percezione diffusa secondo cui la cura a domicilio è garantita essenzialmente dalle assistenti famigliari, delle quali viene confermato anche il profilo socio demografico: donne, straniere, in prevalenza ucraine (seguono rumene, peruviane, marocchine e un 5% di italiane), età media 53 anni, che decidono di emigrare quando i carichi familiari si sono attenuati intraprendendo un percorso di migrazione che le vede protagoniste di un progetto di breve periodo a sostegno della famiglia.

20. Per un maggior approfondimento di questo specifico aspetto si rimanda alle riflessioni di F. Maino nel capitolo 6 di questa pubblicazione. 21. Nostra elaborazione su dati relativi alla popolazione nel Comune di Novara per quanto riguarda le professioni denunciate dai residenti; dati forniti dal Centro di Ascolto Caritas che si occupa di far incontrare domanda e offerta di lavoro; dati dello Sportello Famiglia Cisl che si occupa della stipula dei contratti di lavoro.

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3.6 Dai problemi ai bisogni in una visione di insieme. Suggestioni per un modello organizzativo a sostegno della domiciliarità

In conclusione, sulla base delle suggestioni fornite dal materiale

raccolto, sia attraverso i focus che attraverso le interviste ai testimoni privilegiati, è possibile tentare una sintesi delle esigenze evidenziate da tutti gli attori interrogati. Si vuole cioè rispondere ad una semplice domanda: cosa vorrebbero le famiglie, gli anziani, le assistenti famigliari, i volontari, gli operatori pubblici, privati, del privato sociale?

Nonostante la grande eterogeneità dei materiali e delle informazioni raccolte, emerge un quadro ben definito, nel quale ogni richiesta risulta correlata alle altre. In primo luogo, tutti gli attori vorrebbero avere informazioni precise, certe, accessibili e chiare rispetto alle opportunità offerte dalla rete territoriale dei servizi pubblici, privati, del privato sociale alle quali è possibile fare ricorso qualora si decida di mantenere al proprio domicilio il proprio congiunto. In secondo luogo, si auspicherebbe coordinamento, lavoro di rete, co-progettazione tra tutti gli attori. Ciascun attore deve potersi dedicare a ciò che sa fare meglio, in sintonia con tutti gli altri membri della rete, per evitare frammentazione, dispersione delle energie, sovrapposizioni. Il solo coordinamento tuttavia non sembra bastare, se inteso come semplice azione regolativa di tipo “top-down”: è richiesto un coinvolgimento più profondo e mirato ad una attività di co-progettazione, al fine di pensare e progettare insieme rispetto ad una questione chiaramente percepita come complessa, dinamica e in trasformazione, ognuno secondo le proprie competenze e disponibilità. Sono soprattutto le associazioni di volontariato a chiedere a gran voce un ruolo diverso da quello di semplici supplenti, eterodiretti, di un servizio pubblico sempre più in difficoltà a causa della stretta sulle risorse, in favore di un ruolo più paritetico sul tavolo della co-progettazione, al quale poter portare il proprio contributo in termini di expertise, conoscenza diretta del

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problema, risorse umane. Occorre infatti fare molta attenzione a ragionare sempre solo in termini di progettazione di tipo “professionale”, da far calare dall'alto sugli attori, misconoscendo il contributo che può essere dato da quella più “spontanea” e proveniente dal basso. Dal confronto con le esperienze realizzate anche in altre regioni d'Italia emerge chiaramente come una progettazione realizzata solo dai tecnici e dagli esperti di settore, che non coinvolge le persone e i destinatari finali, è destinata ad essere fallimentare perchè non riuscirà ad essere in alcun modo attrattiva, ma sarà sempre vissuta come un'imposizione. La terza evidenza emersa, concerne la richiesta di risposte rapide ai problemi posti dalla perdita di autosufficienza. E' ormai chiaro che il declino nelle funzionalità quotidiane rappresenta comunque sempre un' emergenza, anche quando sia il risultato di un processo prolungato nel tempo . Spesso, pur all'interno di un quadro già parzialmente compromesso, una caduta o un altro tipo di evento traumatico fanno precipitare la situazione nel giro di pochissime ore. Ancora, a causa dell'ormai cronica carenza di risorse a disposizione degli ospedali, la durata dei ricoveri è ridotta al minimo e, specie nei casi in cui non vi sia una ragionevole prospettiva di recupero (come nel caso appunto di pazienti anziani), le dimissioni avvengono nonostante un quadro generale tale da rendere pressoché impossibile per la famiglia da sola la gestione del proprio congiunto. Risulta chiaro dunque che la risposta della rete non può avere tempi lunghi e laddove sia possibile dovrebbe poter essere pianificata con un certo anticipo. E' però importante anche, e con questo veniamo al quarto punto, che le risposte siano flessibili, oltre che rapide. Alla pluralità di situazioni deve rispondere una pluralità di soluzioni flessibili (mix di servizi, interventi di sollievo su base giornaliera, settimanale, mensile, ipotesi di condivisione di assistenti famigliari, ipotesi di soluzioni residenziali intermedie tra domicilio e struttura etc). Si è visto come ogni famiglia organizzi il proprio personale sistema della cura sulla base di una valutazione ad ampio raggio, condotta cioè non soltanto rispetto alle

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condizioni del proprio caro, ma soprattutto sull'entità e la composizione della rete di supporto a disposizione, sia dentro che fuori il nucleo famigliare. Pure dal lato delle lavoratrici, anche qualora si ravvisi l'importanza per il proprio progetto migratorio e personale di investire in un percorso di formazione, diventa difficile conciliare il lavoro in co-residenza (che allo stato rappresenta la soluzione obbligata per la maggioranza degli anziani non autosufficienti), con la frequenza di un corso. Ancora, per le famiglie la gestione dei dovuti periodi di riposo e di ferie delle assistenti famigliari rappresenta un'ulteriore difficoltà, che spesso conduce a situazioni di palese violazione dei diritti delle lavoratrici, con tutti i rischi di logoramento, burnout, stress psicofisico ad esse collegate. Ancora, dal punto di vista degli anziani, si evidenzia come non tutte le soluzioni siano parimenti adatte a tutte le tipologie di deficit nelle funzioni della vita quotidiana e, d'altra parte appare doveroso pianificare per ciascun caso il mix di interventi più adatto a garantire la migliore qualità di vita, in un'ottica nella quale l'età anziana non si riduca semplicemente ad “attesa della morte” e il benessere non sia considerato solo assenza di malattia. Al contrario, dalla ricerca emerge chiaramente come, allo stato, le alternative tra cui è possibile muoversi siano poche, caratterizzate da forti rigidità, in grado di rispondere solo parzialmente ai bisogni degli attori. Quinto punto: monitoraggio costante delle aree di vulnerabilità. Non sempre il declino e la perdita di autosufficienza avvengono in maniera repentina, però esistono aree della popolazione anziana (soprattutto soggetti senza figli, privi della rete protettiva costituita dalla famiglia) del tutto sconosciute ai servizi e agli operatori, nelle quali le situazioni precarie solitamente deflagrano all'improvviso in maniera drammatica. Rispetto a questa “area grigia” il servizio pubblico deve riuscire a trovare strumenti efficaci di monitoraggio e prevenzione, soprattutto attraverso il coinvolgimento dei volontari, i più adatti degli operatori professionali ad “agganciare” gli anziani quando questi sono ancora attivi ed autosufficienti, coinvolgendoli in attività e progetti che, mentre

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stimolano un' ottica di active ageeing, consentono al sistema di avere vere e proprie “antenne” sul campo, pronte a cogliere precocemente i segnali di declino. In altre parole, proprio quei bisogni di natura psico sociale la cui importanza , lo si è visto nelle parole dei rappresentanti della Consulta della Terza Età, è misconosciuta dagli anziani stessi rappresentano il terreno migliore per coinvolgerli. Sesta richiesta: investimenti nella formazione specifica (modulata cioè sulla base delle caratteristiche peculiari della domiciliarità) delle assistenti famigliari e degli operatori. Dal lato delle famiglie è auspicabile avere garanzie circa le competenze tecniche in possesso delle operatrici (soprattutto in presenza di patologie multiple e complesse). Dal lato delle assistenti straniere, il riconoscimento formale dell'esperienza acquisita sul campo attraverso titoli spendibili sul mercato del lavoro costituisce un elemento importante all'interno del proprio percorso migratorio, mentre la formazione rappresenta un'occasione importante per migliorare la qualità della propria vita nonché del proprio lavoro, anche grazie al riconoscimento sociale del ruolo fondamentale rivestito all'interno del sistema dell'assistenza. Entrambi gli attori, tuttavia, devono essere sostenuti ed aiutati in questo senso: le famiglie non possono permettersi di avere buchi nell'assistenza ai propri congiunti; i percorsi formativi devono essere brevi, flessibili, modulari, in grado di riconoscere e valorizzare l'esperienza acquisita sul campo. Sempre in riferimento alle problematiche legate alla scelta di avvalersi del lavoro privato di cura, appare importante poter essere supportati non solo nel matching, ma poter contare su accompagnamento e monitoraggio in itinere del rapporto di lavoro. Il lavoro di cura implica essenzialmente un incontro tra due fragilità (tre, se si considera anche la famiglia di fronte alla malattia del proprio congiunto) che rendono il rapporto di lavoro sotteso vulnerabile rispetto a svariate criticità (asimmetrie di potere, sovrapposizione tra logica prestativa e affettiva, esautorazione dai ruoli rivestiti all'interno della famiglia, segregazione dell'operatrice etc). Per questo è fondamentale la presenza costante di un soggetto terzo capace

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di monitorare l'evoluzione del rapporto e, all'occorrenza, di intervenire per supportare gli attori nei momenti di crisi e difficoltà. Infine, in un'ottica più sistemica, si rintraccia la necessità di benessere, inclusione e coesione sociale. Le sfide derivanti dall’attuale scenario della cura a domicilio dovrebbero spingere a cercare soluzioni innovative che abbiano come orizzonte il benessere di tutti coloro che interagiscono nel sistema curante. Bisogna avere il coraggio di pensare e sperimentare modalità di inclusione per dare dignità alla vita dei nuovi cittadini che oggi contribuiscono con il loro lavoro a risolvere e a contenere un grave deficit del sistema. Bisogna assumere responsabilmente la loro condizione di donne/madri/figlie/professionisti migranti e le implicanze della loro presenza nelle nostre case in una visione di cittadinanza planetaria. Azioni e pratiche generative che creino cultura e che permettano agire per la coesione sociale di un territorio che vuole muoversi in termini evolutivi e di cittadinanza.

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4.

Spitex: il sistema delle cure a domicilio nell’esperienza svizzera e nel Canton Ticino 22

di Paola Quadri 4.1 Spitex: la politica della cura a domicilio in Svizzera In Svizzera oltre alle cure impartite negli ospedali pubblici e privati

esiste una rete organizzata di assistenza e cura a domicilio di utilità pubblica e, quindi, senza scopo di lucro e una privata. Assieme queste due realtà rappresentano i servizi che vengono comunemente chiamati SPITEX (fuori dall'Ospedale): impartiscono cure e aiutano persone convalescenti, anziane, malate, disabili, le neo-mamme e i genitori di bambini malati. Oltre alle cure vengono prese in considerazione la prevenzione, il sostegno, l'accompagnamento sociale, la gestione del quotidiano e l'economia domestica, affinché gli utenti possano ritrovare una loro autonomia e vivere dignitosamente al proprio domicilio.

Le cure medico-terapeutiche e le cure di base sono richieste dal medico di famiglia e vengono finanziate dall'assicurazione malattia, obbligatoria per tutte le persone residenti in Svizzera, secondo la Legge federale sull'assicurazione malattia (LAMal), in vigore dall'1 gennaio

22. Nel presente testo viene utilizzata la formula femminile sottintendendo che la stessa è valida anche per le persone di sesso maschile.

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1996 e secondo le tariffe indicate dalla convenzione tra SantéSuisse e i servizi riconosciuti ai sensi della Legge sulle cure a Domicilio (LACD) del 30 novembre 2010; le altre prestazioni sono fatturate direttamente all'utente, secondo il suo reddito, tenendo conto delle tariffe in vigore nei servizi riconosciuti dalla suddetta LACD. Gli utenti possono anche ricevere sussidi cantonali per il mantenimento a domicilio se hanno una rendita d'Assicurazione Vecchiaia e Superstiti (AVS) e/o l’assegno d’invalidità (AI), inoltre per chi fosse in condizioni economiche disagiate sussiste la possibilità di usufruire di prestazioni complementari. Le cure a domicilio sono possibili sette giorni su sette e 24 ore su 24, come stabilito dall'Ordinanza sulle prestazioni dell'assicurazione delle cure (OPre). Inoltre dall'1 gennaio 2011 è in vigore un nuovo sistema di finanziamento delle cure infermieristiche che varia da cantone a cantone.

L'Associazione svizzera dei servizi d'aiuto e cure a domicilio (ASSASD), che si è costituita nel 1995, raggruppa le ventisei associazioni cantonali e assicura loro l'attività di coordinamento su mandato della confederazione; è l'interlocutore e il referente per le autorità, per i professionisti della salute e per i media. Coordina, sempre su mandato della confederazione, le direttive, le attività di promozione delle cure a domicilio, i corsi di formazione, le pubblicazioni specializzate, il materiale d'informazione, oltre a prendere posizione su questioni fondamentali inerenti la politica socio-sanitaria sulle cure a domicilio.

In Svizzera esistono 579 organizzazioni di cure a domicilio senza scopo di lucro; da una statistica del 2013 si evince che l'80% delle ore totali che sono erogate in un anno vengono impartite da tali servizi pubblici i quali impiegano 33'500 collaboratrici/collaboratori, di cui 15'289 a tempo pieno. Gli utenti sono stati 219'555 su 261'000 in totale, di questi 179'917 hanno beneficiato solo di cure, e all’incirca la metà avevano oltre 80 anni.

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I collaboratori che lavorano in questo ambito rappresentano diverse figure professionali: infermiere/i diplomate/i o specializzate/i nelle scuole Universitarie Professionali e/o Scuole Superiori, assistenti di cura, assistenti socio-educative/i, specialiste/i in cure di lunga durata, aiuto domiciliari e collaboratrici sanitarie, che dispongono di una formazione di base (120 ore) impartita dalla Croce Rossa Svizzera (CRS).

Negli statuti, approvati dall'assemblea straordinaria dei delegati il 21 novembre 2014, si auspica che questi servizi siano erogati con professionalità, competenza, capacità d'innovazione, attrattività e impegno.

Da una ricerca del 2011 dell'Osservatorio svizzero della salute si constata che la rete che si crea intorno all'anziano, è formata principalmente dai SACD e dai servizi d'appoggio, ma anche da volontari, vicini di casa e, quando ci sono, dai parenti. Il 49% delle persone intervistate sostiene di avere aiuti di tipo informale esterni al proprio menage; solo il 22% dice di non poter contare su un aiuto informale esterno. Gli utenti uomini sono aiutati meno da parenti e amici, ma possono ricorrere più sovente a potenziali aiuti informali rispetto alle donne: ciò avviene perché gli uomini sono aiutati dalle mogli con cui convivono; le donne vengono più aiutate per ciò che riguarda l'amministrazione del ménage e l'economia domestica, mentre gli uomini per la preparazione dei pasti e per le cure. Comunque in totale le donne ricevono più prestazioni degli uomini: questa differenza tra i sessi deriva dal fatto che le donne vivono più a lungo e spesso possiedono un livello di formazione più basso. L'aiuto principale viene dalle figlie femmine (46%), solo il 29% riceve aiuto da un figlio maschio; il 22% dice di ricevere aiuti da altri parenti o famigliari: questi aiuti consistono principalmente in acquisti, trasporti e questioni amministrative, erogati per lo più da vicini di casa o da conoscenti e sono più frequenti in Svizzera romanda (28%) meno in Svizzera tedesca (14%).

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Come detto precedentemente questa rete d'aiuto non sostituisce i SACD, ma collabora con essi sbrigando piccole faccende quotidiane; in effetti, quando la persona supera gli 80 anni e comincia a lamentare patologie invalidanti, le cure di base, ma soprattutto quelle infermieristiche, sono richieste e indispensabili. È chiaro che chi convive con parenti (mogli e/o figli) richiede molto più raramente aiuti esterni. Inoltre non si verifica quasi mai che, con l'aumento delle cure professionali, diminuisca l'aiuto informale di parenti e amici.

Studi recenti evidenziano come i problemi più grossi che possono insorgere tra i curanti famigliari e i curanti professionali derivano principalmente dal frequente cambiamento del personale di cura, dalle mancate comunicazioni e dal tempo ristretto dedicato all'anziano.

Nella rete d'aiuto per il buon mantenimento a domicilio un ruolo fondamentale lo rivestono i servizi d'appoggio23 che offrono prestazioni di supporto alla persona bisognosa e/o alla famiglia: i centri terapeutici diurni accolgono i malati d'Alzheimer e di altri tipi di demenze sollevando per alcune ore della giornata i parenti. La distribuzione dei pasti a domicilio evita spesso di dover fare ricorso, solo per questa incombenza, a un aiuto domiciliare ed evita anche il grosso problema della denutrizione dell'anziano. Il telesoccorso collega l'utente alla centrale d'allarme. Infine i servizi di trasporto, basati su un quasi volontariato e il servizio di pedicure, particolarmente utile per i malati di diabete, chiudono la rete che tutela l'autonomia della persona al proprio domicilio. Le prestazioni di questi servizi vengono fatturate all'utente.

Le OACD (Organizzazioni d'Assistenza e cura a Domicilio privati) e gli infermieri indipendenti, autorizzati dai vari cantoni, sono anche

23. I servizi d'appoggio rispondono a un bisogno esistente sul territorio, garantendo prestazioni di qualità, stabiliti dall'autorità competente, non perseguendo scopo di lucro e sono riconosciuto dal Consiglio di Stato, ai sensi della LACD, che può revocarli in ogni momento se non rispettano parametri previsti da tale legge.

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tenuti a intervenire nella rete di cura, applicando pure loro il concetto di sussidiarietà, attivando le risorse disponibili sul territorio per il miglior mantenimento a domicilio. Le tariffe sono fisse e vengono solo parzialmente finanziate dall’ente pubblico, ma non in tutti i cantoni. Le cure ambulatoriali acute e transitorie, quelle cioè erogate entro due settimane dalla dimissione da un soggiorno ospedaliero e dietro prescrizione di un medico ospedaliero, non richiedono alcuna partecipazione finanziaria del paziente, come avviene per i SACD pubblici.

Le OACD sono rappresentate dalla loro associazione mantello ASPS.

4.2 La rete d’aiuto domiciliare in Ticino Dal 30 novembre 2010 anche nel Canton Ticino è in vigore la Legge

sull’assistenza e cura a domicilio (LACD) che regolamenta le cure e l’assistenza che possono essere erogate al domicilio di persone che necessitano dell’assistenza e della cura per malattia, infortunio, disabilità, maternità, vecchiaia o difficoltà socio-familiari (art.2 LACD). I suoi scopi sono elencati nell’articolo 1: a) permettere ad ogni persona domiciliata o dimorante nel Cantone di ricevere cure e assistenza a domicilio; b) coordinare le risorse disponibili sul territorio. L’offerta di cure e assistenza a domicilio è sussidiaria rispetto alle risorse personali e familiari degli utenti.

L’articolo 2 definisce gli utenti che possono fare ricorso alle cure a domicilio:

“Ogni persona che a causa di malattia, infortunio, disabilità,

maternità, vecchiaia o difficoltà socio-famigliari necessita di aiuto può beneficiare delle prestazioni di assistenza e cura a domicilio ai sensi della presente legge, compatibilmente con le risorse esistenti sul territorio. Le prestazioni sono erogate nel rispetto dei diritti individuali

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sanciti dall’art. 5 e seguenti della Legge sanitaria del 18 aprile 1989.” Nell’articolo 3 vengono definite tutte le prestazioni che possono

essere svolte al domicilio della persona che ne fa richiesta:

“L’assistenza e la cura a domicilio includono prestazioni temporanee o durature, preventive o riabilitative, eseguite presso l’abitazione dell’utente e finalizzate a mantenervelo. In particolare, sono considerate prestazioni di assistenza e cura a domicilio: a) cure medico-terapeutiche e cure di base - prestazioni definite all’art. 7 cpv. 2 dell’Ordinanza sulle prestazioni (OPre); b) gli aiuti di economia domestica; c)la consulenza igienica, sanitaria e sociale; d) l’informazione e l’attivazione delle risorse disponibili sul territorio;

e) l’educazione e la prevenzione sanitaria24”

In questo articolo e nell’ordinanza sulle prestazioni vengono anche descritte dettagliatamente tutti i tipi di cura che possono essere erogati al domicilio dell’utente dagli infermieri. Nell’OPre sono illustrati tutti gli atti che possono essere forniti da un infermiere (art. 49 OAMal) che possa attestare un'attività pratica di due anni in collaborazione interdisciplinare e reti di gestione dei pazienti.25

Intorno all’utente che ne fa richiesta o che viene segnalato si dovrebbe così creare una rete composta da diverse figure socio-sanitarie con mansioni diverse che, coordinandosi, dovrebbero collaborare per mantenerlo dignitosamente e il più a lungo possibile al proprio domicilio, essendo di supporto ai suoi famigliari e non sostituendosi ad essi. Quindi l’obiettivo del Cantone è che questi interventi creino un progetto comune d’intervento che favorisca la sua miglior autonomia.

24. Legge sull’assistenza e cura a domicilio (LACD) 30.11.2010. 25. Ordinanza del DFI sulle prestazioni dell'assicurazione obbligatoria delle cure medico-sanitarie. (Ordinanza sulle prestazioni, OPre) del 29 settembre 1995 (Stato 1° gennaio 2014).

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4.3 Le segnalazioni e l’intervento dei servizi di assistenza e cura a domicilio In Canton Ticino sono presenti sei servizi di assistenza e cura a

domicilio cantonali (SACD) d’interesse pubblico, di diritto privato e non profit che operano su mandato del Dipartimento della sanità e della socialità (DSS) e che sono ripartiti sul territorio in base a una pianificazione territoriale cantonale: a ogni servizio è attribuito un comprensorio. Essi sono: Assistenza e cura a domicilio regione tre valli (media e alta Leventina, bassa Leventina e Riviera); ALVAD (Associazione Locarnese e Valmaggese di Assistenza a domicilio); ABAD (Associazione bellinzonese per l’assistenza a domicilio); MAGGIO (Malcantone e Vedeggio); SCuDo (servizio cura a domicilio del Luganese); ACD (Assistenza e cura a Domicilio del Mendrisiotto e Basso Ceresio).

I SACD svolgono un’attività d’interesse pubblico. Ciò significa che: l’attività del SACD è vicina al suo bacino d’utenza (principio di prossimità); l’attività del SACD è sempre facilmente accessibile a tutti i cittadini (principio di accessibilità); il SACD ha l’obbligo di ricevere e trattare ogni domanda in modo equo (principio d’equità), senza possibilità di scelta della sua clientela (come può avvenire nel settore privato)26.

I SACD beneficiano di sussidi comunali e cantonali e sono riconosciuti dalle assicurazioni malattia, secondo le tariffe della convenzione con Santésuisse: le cure di base e mediche vengono così coperte dall’assicurazione malattia di base, mentre le altre prestazione (l’economia domestica) vengono fatturate direttamente all’utente, secondo il reddito e il tariffario dei SACD; alcune assicurazioni

26 C. Chiesa, F. Maestrini, N. Mariolini, N. Orlando, C. Sanvido, L. Zucchetti, Concezione comune di presa a carico - Principi, contenuti, modalità d'applicazione - Linee guida per i SACD. Pag. 3 Bellinzona, 2001: DOS/S/DAS/SSEAS.

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malattia complementari rimborsano in parte queste spese secondo il tipo di contratto stipulato. Le prestazioni fornite dai SACD si basano sulla complementarietà, cioè partecipano alle cure prestate anche da altri (badanti, parenti, centri diurni, volontari, ecc). Dal 2001 al 2011 vi è stato un incremento delle cure a domicilio del 45%.

Esistono inoltre sul territorio 21 servizi di cura a domicilio (OACD) d’interesse privato e a scopo di lucro e 160 infermieri indipendenti che dal 1° gennaio 2011 possono beneficiare di un contributo da parte dell’ente pubblico, limitatamente alle prestazioni di cura di base ai sensi della Lamal27.

La segnalazione del bisogno dell’utente ai SACD può partire dall’utente stesso o dai suoi parenti, dal medico curante o dell’ospedale, dagli assistenti sociali degli ospedali o case di cura degli enti socio-assistenziali (es. Pro Infirmis, Pro Senectute etc) e infine dai tutori o curatori dell’utente. I SACD, ricevuta la richiesta, valutano il caso e coordinano i vari attori:

“tenuto conto dei bisogni e delle richieste dell’utenza e delle priorità

di intervento, decide sulla presa a carico degli utenti. Egli/Ella sovrintende affinché sia concluso un accordo con l’utente, che preveda una sua presa a carico globale e affinché questa venga costantemente aggiornata. L’unità operativa deve garantire le prestazioni essenziali e le possibilità di intervento in caso di complicazioni o di emergenza. L’unità operativa deve garantire un approccio interdisciplinare. L’unità operativa è riunita regolarmente dal/la capo-équipe per il necessario scambio di informazioni sui casi trattati”.28

In particolare nella presa a carico dell’utente gli operatori dei

27 Pianificazione dell’assistenza e cura a domicilio 2011-2014, DSS, Div. dell'azione sociale e delle famiglie, Ufficio degli anziani e delle cure a domicilio, Bellinzona, settembre 2011. 28 Legge sull’assistenza e cura a domicilio (LACD).

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SACD29 devono espletare una serie di prestazioni, in assenza o in presenza dell’utente. Nel primo caso le attività riguardano: la registrazione, il primo esame e la valutazione dei bisogni al momento della richiesta (compresa la compilazione della cartella dell’utente); l’elaborazione interdisciplinare del progetto di presa a carico; la rivalutazione del caso e aggiornamento della cartella dell’utente; l’aggiornamento della cartella dell’utente (anamnesi e decorso); il coordinamento dell’intervento in seno all’équipe, in seno alla rete delle risorse primarie, in seno alla rete delle risorse secondarie; l’orientamento del caso verso l’esterno: le valutazioni e prese a carico congiunte; l’organizzazione di prese a carico da realizzare unicamente da attori esterni; l’organizzazione di ricoveri temporanei o duraturi; l’attivazione di servizi d’appoggio o di servizi semi-stazionari (p.es.: soggiorni temporanei, appartamenti protetti, etc.).

Nel secondo caso (ossia in presenza dell’utente) le prestazioni devono riguardare: il primo esame e la valutazione dei bisogni al momento della richiesta (compresa la compilazione della cartella dell’utente); l’elaborazione interdisciplinare del progetto di presa a carico; la stipulazione di un contratto SACD-utente; le cure infermieristiche; le cure di base (attività di base della vita quotidiana); l’attività domestica (attività strumentali della vita quotidiana); il sostegno, accompagnamento, insegnamento (mantenimento dell’autonomia, in caso di cambiamento della situazione, in fase di lutto nell’ambito delle cure palliative); la consulenza e l’informazione; la prevenzione presso la popolazione e presso categorie specifiche di utenti seguiti o potenziali.

A tali prestazioni vanno aggiunte gli atti amministrativi per una gestione efficiente del servizio (gestione del personale, pianificazione

29 Per Informazioni complete sulle leggi e il funzionamento dei SACD clicca qui.

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delle risorse, contabilità e fatturazioni; ecc.), come pure il tempo dedicato alle trasferte30.

Quindi, dopo questa attenta valutazione, partono le prestazioni che possono essere di tipo medico e quindi verranno espletate da un infermiere che possa attestare un'attività pratica di due anni in collaborazione interdisciplinare e reti di gestione dei pazienti31 o cure di base per il mantenimento a domicilio32 che possono essere fornite da operatori e/o operatrici socio-sanitari/e (OSS).

La prescrizione o il mandato di cura sono definiti in base alla valutazione dei bisogni dell’utente che comprende l'analisi dello stato generale del paziente, dell'ambiente in cui vive, delle cure e dell'assistenza necessarie, basate su criteri uniformi, utilizzati in tutti i SACD, tramite il sistema RAI33 che viene riconosciuto dall’assicurazione malattia: strumento multidimensionale di valutazione dei bisogni dell’utente e di coordinamento degli interventi.

Le aiuto domiciliari che curano l’economia domestica o le assistenti famigliari (badanti) possono svolgere solo atti che non prevedano cure sulla persona.

I servizi non intervengono nel collocamento delle assistenti famigliari, ma piuttosto cercano di garantire la supervisione delle loro prestazioni che di solito sono verificate dagli utenti stessi o dai loro parenti; se ci sono dei problemi ricorrono alla mediazione delle agenzie di collocamento che hanno fornito l’assistente famigliare.

Il lavoro in rete è fondamentale poiché l’osservazione dell’utente al proprio domicilio avviene in particolare da parte delle operatrici che sono più spesso a contatto con quest’ultimo e cioè l’aiuto domiciliare

30 C. Chiesa, F. Maestrini, N. Mariolini, N. Orlando, C. Sanvido, L. Zucchetti, pag. 5. 31 OPre art. 7 cpv 2bis. 32 Opre art 7 cpv c. 33 DOS/DAS/SSEAS,CH-Bellinzona,TI-DOCC,vers.1.0/30.01.01, TI-DOC & Modulo RAI-HC.

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che si reca in casa della persona più volte la settimana o l’aiuto famigliare sia a ore, sia coresidente. Solo loro possono seguire da vicino i cambiamenti e le abitudini dell’utente e comunicarli tempestivamente agli infermieri dei SACD o al medico curante; queste operatrici hanno quindi un ruolo fondamentale: tutte le figure socio-sanitarie collaborano coerentemente alle proprie possibilità e capacità per il buon esito di un efficace mantenimento a domicilio dell’utente.

Le linee guida per tutti gli attori che ruotano intorno all’utente per una concezione comune di presa a carico e per le modalità d’applicazione nel lavoro in rete sono: coerenza nell’azione; qualità delle prestazioni; coesione tra gli operatori.

L’Ufficio degli anziani e delle cure a domicilio (UACD) del Dipartimento socialità e sanità sovraintende a tutte queste attività: esso si occupa della pianificazione, del finanziamento, della regolamentazione e del controllo e promozione della qualità delle strutture per anziani, dei servizi e delle prestazioni di assistenza e cure a domicilio e dei servizi d'appoggio presenti sul territorio cantonale.

Oltre a queste prestazioni fornite dal Cantone rendono più performante la rete per il mantenimento a domicilio alcuni servizi di volontariato, l’organizzazione dei pasti a domicilio e i centri diurni Alzheimer, gestiti questi ultimi due da Pro Senectute, che sgravano per alcune ore alla settimana i parenti dell’anziano malato: di questi non ci occuperemo in particolare perché esulano dal nostro interesse specifico.

4.4 Bisogni emergenti e nuove proposte Da una statistica rilevata nel 2009 e pubblicata dall'Ufficio di

statistica del Canton Ticino si constata che la regione è quella con la maggior presenza di anziani in Svizzera: nel 2009 i 65-79enni erano quintuplicati rispetto al 1900 e gli ultra 80enni, definiti ormai di quarta età, erano diventati 17,8 volte più numerosi.

Per questo motivo le politiche di salute pubblica si sono sempre più 105

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confrontate con il fenomeno d'invecchiamento della popolazione, che richiede risposte adeguate mediante la sua presa a carico sia nelle istituzioni sia a domicilio34.

Nel documento di Pianificazione dell'assistenza e cura a domicilio 2011 – 2014 del DSS35 si afferma che con l'aumento dell'età aumentano anche i casi dove l'utenza diventa più complessa e richiede una maggior specializzazione dell'offerta dei servizi a domicilio, specialmente di tipo sanitario.

Già nel 2006 i SACD del Sottoceneri avevano avviato una collaborazione con l'associazione Opera Prima (OP) nell'ambito dell'economia domestica a domicilio, interessante in quanto le prestazioni delle sue collaboratrici sono a tariffa fissa diversamente da quelle dei SACD che variano secondo il reddito dell'utente.

Poi, nel dicembre 2008 il DSS aveva istituito un gruppo di lavoro che studiasse il fenomeno delle collaboratrici famigliari "badanti", cercando di verificarne l'ampiezza: come i SACD potessero interagire con tale nuova presenza, cercando proposte, modalità e criteri per regolamentare questa offerta inserendola nella pianificazione del settore.

Dall'indagine si evince che gli/le utenti dei SACD che si avvalevano di una collaboratrice erano in prevalenza ultra ottantenni, di sesso femminile e con figli: il 70-80% era straniero e, per oltre il 95%, residente presso l'utente. Erano le famiglie con redditi più bassi (meno di CHF 25'000 all'anno), beneficiarie di sussidi e quelle con redditi superiori ai CHF 40'000 all'anno ad assumerle maggiormente, per mantenere il più a lungo possibile il parente anziano al proprio domicilio. Il loro operato riduceva le prestazioni di economia domestica, ma non le cure di base degli operatori dei SACD. In

34 "Non è un paese per vecchi?", Lisa Bottinelli , Ufficio di statistica del Canton Ticino, Bellinzona, gennaio 2011. 35 Ibidem.

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quell'anno si stimava che vi fossero all'incirca 150 badanti sul territorio del Cantone, parte delle quali in nero. Si auspicava che i SACD arrivassero a gestire questa nuova presenza non in alternativa ai loro servizi o alla casa per anziani, ma come loro integrazione, in modo da permettere di ritardare il più possibile l'entrata in casa di riposo.

Nel 2010 l'ACD del Mendrisiotto e l'ALVAD hanno portato avanti un progetto sperimentale di collocamento delle badanti che in seguito è stato gestito da OP, fungente da mediatore tra l'utente, la sua famiglia e la collaboratrice famigliare.

Nel rapporto del Consiglio federale del 16 marzo 2012 sulle "Condizioni quadro per le migranti pendolari impiegate nella cura degli anziani"36 si illustrano dettagliatamente i profili delle assistenti famigliari (migranti pendolari), diverse soluzioni possibili per regolamentare e migliorare le condizioni lavorative delle conviventi con l'utente, inoltre si ipotizzano nuovi tipi d'assistenza a domicilio, non solo per gli anziani, ma anche per bambini e disabili. Queste persone, provenienti per la maggior parte dall'Europa dell'Est, spesso hanno un livello d'istruzione più alto del necessario per questo lavoro, ma preferiscono tale occupazione in Svizzera perché ben retribuita, rispetto ai salari dei paesi d'origine.

In Svizzera dal 2009 vi è stato un costante aumento di persone immigrate impiegate nel settore dell'economia domestica: per esempio, nel 2012 rispetto al 2010, sono arrivate 493 persone in più.

L'attività d'economia domestica al domicilio non rientra nel campo di applicazione della legge sul lavoro: non vengono prese in considerazione la durata massima di ore di lavoro, la protezione della salute sia per le madri, sia per le donne incinta e le disposizioni

36 Condizioni quadro per le migranti pendolari impiegate nella cura degli anziani", Rapporto del Consiglio federale del 16.3.2012, Berna, SECO.

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protettive del codice delle obbligazioni, in particolare per contratti inferiori ai tre mesi.

Per tutti questi motivi il Consiglio federale auspica che siano emanate apposite condizioni-quadro per queste lavoratrici, in modo da toglierle dal precariato, prendendo anche eventualmente in considerazione un contratto collettivo di lavoro. In questo rapporto sono anche illustrate le normative vigenti in Germania e in Austria.

Anche la SUPSI nel dicembre 2013 ha pubblicato una ricerca su "Migranti transnazionali e lavoro di cura. Badanti dell'est coresidenti in Ticino"37, in cui si studia il fenomeno delle donne migranti provenienti per la maggior parte da Polonia, Romania e Bulgaria che vivono e lavorano nelle economie domestiche private e che prendono il nome di "badanti fisse" o "badanti 24 ore", utilizzando la terminologia del contesto italiano.

Vengono analizzate, tramite interviste qualitative alle collaboratrici famigliari, le politiche sociali, le prestazioni dei servizi di cura a domicilio, le condizioni di lavoro e i percorsi migratori e la nuova vita in Ticino, tenendo conto dei legami affettivi lasciati in patria. Le collaboratrici coresidenti lamentano la contraddizione di non riuscire a distinguere i momenti di tempo libero da quelli di lavoro: possedere un proprio spazio al di fuori dell'ambito lavorativo è visto di buon occhio da molte di loro; la necessità di un maggior riconoscimento da parte dei famigliari dell'utente che spesso le sfruttano, non tenendo conto della difficoltà di convivere a stretto contatto con persone spesso totalmente dipendenti e malate di demenza senile. Si auspicano maggior sensibilità degli utenti, sistemi di rotazione in nuove forme abitative e l'introduzione di momenti di supervisione e di parola, in modo che queste persone possano essere sostenute e condividere tra loro le

37 "Migranti transnazionali e lavoro di cura. Badanti dell'Est coresidenti in Ticino", Paola Solcà, Anita Testa Mader, Angelica Lepori Sergi, Antonietta Colubrale Carone, Pasqualina Cavadini, SUPSI-DSAS, Manno, dicembre 2013.

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proprie esperienze lavorative e i propri momenti di difficoltà. Nello studio del 2015 dell'Ufficio di statistica del Canton Ticino

"Fragilità e risorse della popolazione anziana in Ticino"38 sono presentati dati statistici che riguardano le caratteristiche dello stato e dell’evolversi della struttura della popolazione anziana: i bisogni, le risorse, le fragilità, le condizioni di salute e lo scenario demografico più probabile con il quale saremo confrontati tra una decina d'anni. Viene preso anche in considerazione il nuovo significato dei termini "anziano" e "vecchio", alla luce dell'aumento della speranza di vita: in Svizzera l'inizio della vecchiaia si situerebbe verso i 77 anni per gli uomini e gli 80 per le donne; è lecito usare il condizionale perché va tenuta in conto l'eterogeneità di questa popolazione in costante cambiamento.

4.5 La risorsa nascosta Nell’ambito del progetto Casa Comune è stata condotta una ricerca

sui bisogni della popolazione anziana, malata, invalida e/o con poca autonomia tramite interviste qualitative ai diversi attori che fanno parte della rete d’aiuto domiciliare pubblica e privata: sono stati intervistati i famigliari degli utenti (datori di lavoro), passando dai responsabili dei SACD per arrivare alle collaboratrici famigliari (si è scelto questo termine piuttosto che lo svilente termine badanti) e alle collocatrici dell’economia domestica e delle assistenti famigliari dell’associazione Opera Prima.

Facendo riferimento soprattutto alle assistenti famigliari ci si è concentrati sulle peculiarità dell’aiuto a domicilio, cercando di valutare i punti deboli e quelli forti e le eventuali modifiche che andrebbero

38 "Fragilità e risorse della popolazione anziana in Ticino", Francesco Giudici, Stefano Cavalli, Michele Egloff e Barbara Masotti (eds), Ufficio di statistica Bellinzona, 2015.

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apportate per renderlo sempre più performante come servizio di prossimità. Si è analizzato in modo particolare il ruolo che hanno le assistenti famigliari, tenendo conto che il loro collocamento diffuso è cominciato in Opera Prima (d’ora in poi OP), dopo una fase di sperimentazione, solo nel settembre 2010 e che quindi la collaborazione tra i vari attori della rete è ancora non del tutto strutturata e ci sono ancora molti lati da perfezionare. In futuro si farà sempre più riferimento a queste persone a causa del continuo invecchiamento della popolazione.

L’età media degli utenti di cui ci siamo occupati è di 93 anni con un’utente di 104. Le interviste sono state rivolte ai parenti, di solito le figlie (sappiamo che quasi sempre il lavoro di cura è demandato alle donne presenti in famiglia) che sono coloro che seguono maggiormente l’andamento del menage e sono un po’ il pilastro su cui tutto poggia; uno solo degli utenti si è lasciato intervistare (un uomo di 84 anni, con una salute relativamente buona che vive in casa con il figlio trentenne che però è al lavoro tutto il giorno e quindi è poco presente). La maggior parte di essi ha problemi di deambulazione e alcuni soffrono d’Alzheimer o di problemi di demenza senile.

L’età media delle assistenti famigliari intervistate è di 42 anni, metà sono coresidenti e metà a ore; non ci sono persone svizzere, ma anche persone straniere che provengono prevalentemente da Italia, Polonia, Romania e Brasile, che hanno trovato il lavoro tramite passaparola con conoscenti della loro stessa nazionalità, tramite agenzie di collocamento o anche su internet. Una parte ha già lavorato in Italia e le altre, anche se non hanno una formazione ad hoc, avendo già una buona esperienza lavorativa, hanno le referenze adatte per questo lavoro. Possiedono tutte una formazione di base, se non un diploma conseguito nel loro paese d’origine, una signora polacca ha un diploma e una laurea e una signora italiana è operatrice socio-sanitaria con diploma portato a termine in Italia con i corsi della regione Lombardia. Chi ha una formazione con competenze di tipo sanitario vorrebbe gestire anche

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la parte legata alle cure, mentre, per legge, dovrebbe solo espletare i compiti di economia domestica. È chiaro che chi vive costantemente con l’anziano arriva a compiere anche atti che non sono solo di questo tipo (come accompagnare in bagno l’anziano, alzarlo dal letto, vestirlo ecc.): in effetti, quando i SACD non partecipano alla cura dell’utente, è inevitabile che le assistenti operino cure sulla persona; questo è un fatto su cui si deve assolutamente riflettere.

Per quanto riguarda il collocamento sul posto di lavoro, per le collocatrici di OP la prima visita all’utente è molto importante per verificare le esigenze sia dell’utente sia dei famigliari. Valutando dettagliatamente i bisogni cercano di arrivare alla selezione della persona più adatta. La seconda visita, dopo la scelta dell’assistente famigliare, è fondamentale poiché vengono sviscerate tutte le problematiche e le esigenze del caso e si stila il contratto di mediazione tra OP e l’utente: infatti OP non è datore di lavoro, ma si adopera per tutte gli aspetti amministrativi, prima durante e dopo il collocamento; ha quindi un ruolo di intermediazione. Se non ci sono operatori dei SACD o degli OACD che seguono l’utente e che quindi impartiscono le istruzioni del caso alle assistenti famigliari, sono le figlie che lo fanno, ma si è constatato che, spesso, i parenti lasciano loro carta bianca, soprattutto se hanno già un’esperienza consolidata in altre famiglie: sembrano essere i ménage che funzionano meglio.

D’altra parte le coordinatrici di OP sostengono che, spesso, non si riesce bene a capire dalle referenze e dai feed-back degli utenti precedenti quali siano le reali competenze delle assistenti famigliari da assumere: queste ultime sostengono di “saper fare tutto”, poi sul campo ci si rende conto che non è proprio così. Inoltre le famiglie hanno molte aspettative e così si arriva a dover cambiare la persona, dopo averla inserita, e questo non è un buon inizio: secondo le coordinatrici bisognerebbe riuscire a ideare un sistema di selezione più razionale per verificare al meglio le attitudini delle persone che si candidano.

A volte i parenti cercano l’aiuto dell’assistente famigliare senza 111

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chiedere il parere dell’anziano e, in questo caso, scattano inevitabilmente i problemi d’inserimento perché, questi ultimi, non volendola, fanno di tutto per farla rinunciare. Paradossalmente vanno meglio i ménage in cui l’utente non è più in grado d’intendere poiché accetta la persona e le cure senza creare problemi.

Come detto sopra da parte delle assistenti famigliari si è lamentato il fatto che ci siano dei parenti molto ingombranti che hanno moltissime pretese, soprattutto quelli che visitano poco l’utente o vivono lontano che, colpevolizzandosi di non essere più presenti, scaricano sulle persone di servizio le loro frustrazioni. Molti credono che l’assistente famigliare coresidente debba lavorare 24 ore su 24, in quanto ci sarebbero durante la giornata parecchi tempi morti (quando l’utente riposa, quando è tranquillo in poltrona, quando guarda la televisione, ecc.), senza tenere conto che, da contratto, l’assistente non può essere anche solo presente senza far nulla, ma ha diritto a due ore di libertà al giorno.

Inoltre in un caso l’assistente famigliare si è lamentata perché, quando aveva trovato da sola un posto di lavoro in coresidenza, veniva sfruttata e non poteva fermarsi mai durante tutta la giornata, doveva sempre essere a disposizione: “trattata quasi come una schiava”. Per questo motivo non ha più voluto convivere con l’utente, ma ha cercato solo lavori a ore perché, secondo lei, “dovrebbe essere proibito per legge dormire nel posto dove si lavora perché è troppo stressante”. Anche un’altra assistente ha ribadito che, in un lavoro futuro, non vorrebbe più restare la notte presso l’utente: dormire in casa è molto pesante poiché, se l’anziano non dorme, anche loro non riescono a riposare.

La continua convivenza in casa con l’utente rappresenta un problema comune nelle narrazioni delle donne: è psicologicamente molto stancante, rende difficile la fruizione dei tempi di riposo e delle stesse disposizioni contrattuali. Già essere sempre nell’intimità della casa crea problemi, il fatto poi di non poter identificare gli spazi del

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lavoro e quelli del tempo libero rende la situazione ancora più complicata.

A volte è la stessa assistente che si sente di trattare l’utente come “una nonna” - non è un caso che, soprattutto le signore dell’Est, indichino l’utente con tale termine affettuoso -. Invece un’intervistata ha sottolineato che il rapporto con l’utente deve sempre essere di tipo professionale (osservare come sta, imparare a capire il linguaggio non verbale, “trattare la persona come un soggetto e non un oggetto, anche se dementificata”). Infine un’assistente ha affermato di essere lei a spiegare ai parenti come sta l’utente e a “consolarli quando si demoralizzano”.

Viene visto da tutti i parenti intervistati come un problema il fatto di dover trovare una sostituta dell’assistente famigliare per i momenti in cui deve essere a riposo (due ore libere al giorno, un giorno e mezzo di riposo settimanale): se non ci sono loro a disposizione, affermano che non è facile trovare la persona che fa le veci e che ciò sia un ulteriore costo che grava sul budget famigliare. Spesso le assistenti accettano di fare le ore libere secondo la disponibilità dei parenti dell’utente: in questo modo non hanno mai dei momenti fissi in cui programmare la propria vita al di fuori della sfera lavorativa. Alcune preferiscono non avere le due ore libere giornaliere, per accumulare ore e utilizzarle nella fine settimana o nelle vacanze, oppure farsele pagare in più, rispetto al salario.

Vi è anche il problema dell’unica assistente famigliare che deve accudire una coppia di anziani: in questo caso il salario dovrebbe essere più alto o ci vorrebbero due badanti perché il lavoro è doppio, ma questo fatto viene preso poco in considerazione dai parenti.

A volte, dalle famiglie e dagli utenti il lavoro di queste persone viene poco valorizzato, risulta quasi invisibile: l’utente molto anziano può instaurare un rapporto paternalistico di subordinazione e non professionale che può anche sfociare in mobbing. Per questo motivo alcune assistenti si sono iscritte al sindacato, sperando in un

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miglioramento delle condizioni di lavoro. L’opzione di avere un’assistente famigliare e di mantenere al

domicilio l’anziano deriva principalmente dal fatto che sia i parenti, sia gli utenti non vogliono scegliere una casa di riposo: si desidera rimanere nella propria casa, dove ci sono tutti i ricordi, si è più indipendenti e non si devono cambiare le proprie abitudini. Avere una persona a disposizione è visto come un lusso, ma ha molti lati positivi: l’utente intervistato ha detto che “dopo una vita di lavoro è giusto avere una persona a propria disposizione se non ci sono problemi economici e godere del proprio appartamento con la vista sul lago”.

Da parte dei parenti viene lamentato lo stress psico-fisico che procura occuparsi di una persona malata d’Alzheimer o demenza. Una figlia ha provato “una vera e propria liberazione” dopo l’inserimento dell’assistente famigliare, in quanto era arrivata alla depressione poiché non riusciva più a gestire la situazione della mamma: “ora si sente molto più tranquilla con una persona in casa che si occupa solo di lei”.

Ci sono anche delle situazioni in cui, essendo la lista per l’entrata in casa per anziani molto lunga, i parenti prendono l’assistente famigliare come ripiego e poi, rendendosi conto che l’inserimento funziona bene, non ci pensano più o tengono il ricovero come “ultima spiaggia” se l’anziano dovesse peggiorare, tanto da avere bisogno di cure sanitarie continue.

Alcuni parenti chiedono alle assistenti famigliari di “avere polso” con gli utenti dal carattere forte poiché sostengono che, altrimenti, le assistenti famigliari vengono fagocitate: per loro non è sempre facile comportarsi in questo modo perché non vogliono “fare il cane da guardia”.

Per le collocatrici di OP gestire le dinamiche relazionali e interculturali non è sempre facile: non possono seguire più di tanto l’inserimento per mancanza di tempo e di risorse finanziarie - chiedono comunque ai parenti di farsi sentire dopo un mese dal collocamento per verificare l’andamento - e quindi, se il ménage funziona, non hanno più

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molti contatti con la famiglia e le assistenti famigliari. Ma chi controlla ciò che avviene nella quotidianità tra l’assistente famigliare e l’utente? È tutto basato sulla fiducia, perché nessuno ha il tempo di andare a verificare di persona, se non ci sono interventi dei servizi di aiuto domiciliare. Mentre, se ci sono problemi, la mediazione che si trovano a svolgere è molto difficile poiché non si sentono tutelate dall’associazione: qual è il loro compito e fino a che punto possono spingersi nella difesa dell’assistente famigliare? Se un’assistente famigliare o un utente vengono maltrattati a chi possono rivolgersi? Si sentono “troppo responsabilizzate”, senza poter fornire delle risposte personalizzate secondo i casi. In questo senso l’antenna di controllo in ogni SACD può dare una mano a risolvere alcuni problemi.

Inoltre da parte delle collocatrici di OP vi è l’esigenza di una supervisione e di un maggior contatto con il comitato dell’associazione per analizzare insieme l’andamento dei collocamenti e controllare la qualità dei servizi.

Un altro grosso problema è quello che si presenta quando l’utente muore: l’assistente famigliare si ritrova spesso in mezzo a una strada perché non sa dove andare a vivere, se non le viene subito trovato un nuovo posto di lavoro; si sa di donne che hanno dormito in macchina (chi la possiede e sono una minoranza…). In un caso, morta l’utente, i parenti hanno lasciato l’assistente nella casa dell’anziana, fino a quando ha trovato un altro lavoro, ma succede raramente. Per supplire a questa evenienza dal luglio 2104 vi è un appartamento, dove poter vivere in caso d'emergenza tra un collocamento e l’altro e di cui parleremo più avanti.

Dalle assistenti famigliari OP viene vista anche come un aiuto per togliersi dal lavoro clandestino: due intervistate hanno detto che per loro è stato importante conoscere l’associazione, perché in questo modo “si sono tolte dal nero” e hanno cercato di far valere i loro diritti, soprattutto per quanto riguarda l’osservanza dell’orario di lavoro; ancora troppe persone tendono a non riconoscere quanto sia importante

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questo tipo di lavoro nascosto, premiandolo anche tramite un salario equo.

In un caso si è venuti a conoscenza di veri e propri soprusi nei confronti dell’assistente famigliare alla quale era lesinato anche il pane e che doveva comportarsi solo ed esclusivamente come richiesto dai datori di lavoro, quasi degli aguzzini; in questo caso OP è stata un’ancora di salvezza: la signora ha lasciato il posto di lavoro ed è stata aiutata a trovarne un altro.

Per i famigliari e per gli utenti OP viene vista anche come l’associazione che si prende carico, oltre alla ricerca della persona da collocare, delle pratiche amministrative per il collocamento (permessi di lavoro, gestione dei salari, oneri sociali, assicurazioni, ecc.) che diventano sempre più complicate. Alcuni utenti desidererebbero che l’associazione fosse più presente nel controllare l’operato dell’assistente famigliare.

Anche la preparazione dei cibi può diventare un problema: spesso le assistenti famigliari non sono in grado di cucinare i cibi tradizionali ticinesi a cui sono abituati gli utenti perché non sono parte delle loro tradizioni; d’altro canto i parenti lamentano spesso la preparazione di cibi troppi sostanziosi o molto conditi per persone che si muovono poco e consumano poche calorie. C’è la richiesta d’ambo le parti di organizzare un corso di cucina dietetica.

Qualche volta il rapporto tra assistenti famigliari e operatori dei SACD o degli OACD che dovrebbe essere complementare non funziona bene: in un caso dove l’assistente famigliare era più formata degli operatori, è successo che il suo parere non venisse preso minimamente in considerazione da questi ultimi, ma, essendo insorti problemi di salute dell’utente, la responsabilità é stata buttata tutta sulle sue spalle, colpevolizzandola. Il suo ruolo è fondamentale poiché, essendo costantemente con l’utente, lo osserva e conosce tutte le sue abitudini e nota i cambiamenti; spesso è l'assistente famigliare che coordina la rete delle cure per l’anziano a domicilio: si auspica quindi

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una miglior collaborazione tra i vari attori. Si precisino dettagliatamente quali sono i diversi ruoli dei vari caregivers, redigendo un mansionario e un protocollo di buone pratiche che metta in chiaro i rapporti tra le assistenti famigliari e gli operatori dei SACD o degli OACD. In questo modo si riuscirà a far uscire dal “grigio”, come dice il professor Maurizio Ambrosini, tutto il lavoro che queste persone ogni giorno compiono.

Inoltre quando una persona ha una buona formazione vive con frustrazione il fatto di dover fare un lavoro, l’economia domestica, non consono alle proprie capacità e competenze: le assistenti dovrebbero poter essere maggiormente ascoltate dagli altri operatori dei servizi, in questo modo si sentirebbero più gratificate e avrebbero più soddisfazione dal lavoro che svolgono, ottenendo maggior riconoscimento sociale. Anche le coordinatrici di OP sostengono che queste persone vorrebbero poter fare anche cure sulla persona poiché alcune posseggono dei diplomi che glielo permetterebbero. Per ovviare a questo problema sarebbe importante far sentire le assistenti famigliari parte di un’associazione, in questo caso OP, dando loro anche un sostegno psicologico con degli incontri a scadenza fissa, come “gruppi di parola”, in cui possano ritrovarsi insieme a parlare delle problematiche che si trovano ad affrontare quotidianamente con un eventuale supervisore.

Oltre a queste difficoltà soffrono molto la solitudine, soprattutto dove le famiglie degli utenti non sono quasi mai presenti: le coresidenti lavorano dalle 45 alle 50 ore settimanali sempre e solo a contatto con l’anziano e, a volte come dicevamo sopra, non sono ben accettate; trattate in modo paternalistico, subiscono anche episodi di razzismo da chi non vede di buon occhio delle “estranee in casa propria e per giunta non svizzere”.

L’essere venute a lavorare in un paese straniero “per guadagnare di più e mantenere la famiglia in patria e far studiare i figli” crea quella nostalgia che sempre permea i racconti di queste donne a cui affidiamo

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i nostri vecchi e che più di tutti entrano nella loro intimità, spesso in punta di piedi e con grande sensibilità. Il poter stare tra compaesane nel tempo libero e utilizzare le nuove tecnologie (es. skipe) per “parlare e soprattutto vedere i propri figli” sono un aiuto per combattere la solitudine, ma che non le ripaga mai abbastanza dei sacrifici che compiono ogni giorno.

Infine c’è da parte di tutte le persone intervistate, sia le assistenti famigliari, sia le collocatrici l’interesse e anche l’esigenza di poter partecipare a formazioni che migliorino le loro competenze professionali e sociali.

L’incontro interculturale che avviene tra queste persone migranti, l’anziano e i suoi parenti viene dato per scontato, ma non è sempre facile gestire le differenze: imparare insieme a coordinare sensibilità e vissuti diversi è la sfida che attende tutti coloro che gravitano intorno all’anziano a domicilio.

Dalle interviste si evince che, imparando a conoscerle senza preconcetti, si arriva a diradare quella diffidenza iniziale che può aiutare a migliorare i rapporti tra stranieri e autoctoni con cui in futuro sempre più ci troveremo a vivere nella quotidianità.

4.6 Le prospettive Alla luce degli studi presentati sopra sembra finalmente essere stata

presa in considerazione in questi ultimi anni la situazione degli anziani e dei loro aiuti. Si saluta con soddisfazione la creazione del Diploma cantonale di collaboratrice famigliare appena istituito e nato dalla collaborazione tra diversi enti, in particolare la fondazione ECAP R&D, la Croce Rossa Ticino - settore corsi - e la Scuola Superiore Medico Tecnica: primo titolo professionale riconosciuto in Svizzera in questo ambito che si ottiene superando un esame regolamentato dal Cantone. Ciò potrà finalmente portare in primo piano e riconoscere, come si diceva, il ruolo fondamentale di queste donne lavoratrici.

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Queste persone sono rimaste per troppo tempo invisibili alle istituzioni e ai servizi, facendo un lavoro sotterraneo, spesso in nero e mal pagato: con questa formazione si vuole eliminare anche questa piaga che, anche per merito dell'associazione Opera Prima, si sta contrastando.

La domanda di una formazione ad hoc, con una certificazione riconosciuta è partita anche da loro stesse: sono per la maggior parte persone straniere con altre formazioni, anche superiori magari non nell'ambito della cura, ma con competenze esperienziali acquisite con il loro lavoro e che verranno validate prima dell'inizio del corso tramite un bilancio, in modo da definire il proprio progetto formativo. Tale formazione avverrà "en emploi".

La sfida sarà sempre più quella d'integrarle nella rete di figure professionali già esistenti che ruotano attorno all'anziano, senza creare concorrenza: ognuno ottempera al proprio ruolo professionale con cognizione di causa e collaborando per il miglior mantenimento a domicilio dell'utente.

D'altra parte è indispensabile adottare strumenti di controllo qualitativo e sperimentare nuovi approcci nelle loro prestazioni, provando anche nuove forme di presenza, a tempo parziale o con presa a carico di più utenti in una logica di prossimità, garantendo, appunto, la qualifica non solo tecnica, ma anche umana e affettiva di queste figure professionali.

Già nell'indagine conoscitiva, commissionata dal DSS e pubblicata nel 2010, su "Modalità e forme d'impiego del sussidio per il mantenimento a domicilio"39 si leggeva come il ruolo dell'assistente famigliare avesse acquistato sempre più importanza nella gestione dell'anziano e che il 55% della popolazione in AI o AVS mostrava la

39 "Modalità e forme d'impiego del sussidio per il mantenimento a domicilio: indagine conoscitiva", DSS/DASF/Ufficio degli anziani e delle cure a domicilio, Bellinzona, aprile 2010.

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necessità d'assistenza notturna per sonno perturbato, per la necessità di essere accompagnati ai servizi e per l’igiene personale, aiuti che esplicano in modo particolare le collaboratrici famigliari.

Anche l'istituzione dell'antenna badanti presso i SACD d'interesse pubblico è stata progettata per contribuire a un mantenimento a domicilio di qualità: i SACD, tramite un aiuto famigliare o un'operatrice sociosanitaria certificata, offrono consulenza, mediazione e supervisione alle famiglie che ne facciano richiesta e presso le quali è collocata una collaboratrice famigliare; tale prestazione è offerta anche a famiglie che non usufruiscono delle prestazioni dei servizi d'interesse pubblico.

Dal 1° luglio 2014 vi è anche la possibilità per le collaboratrici famigliari che si vengano a trovare senza attività lucrativa, a seguito di una situazione imprevista e prive di un luogo in cui soggiornare, di occupare un appartamento a Claro (per un massimo di quattro persone), messo a disposizione da Pro Senectute Ticino e Moesano (PS). L'appartamento è gestito da PS, su mandato della Divisione dell'azione sociale e delle famiglie e del DSS; le richieste per l'occupazione possono essere indirizzate a quest'ultima, alla direzione di OP o alle Antenne badanti. Anche in questo caso, c'è da parte dell'autorità cantonale, la volontà di non lasciare in una situazione che sarebbe di ulteriore disagio e non dipendente dalla propria volontà, queste persone che già svolgono un lavoro precario.

Infine il progetto INTERREG "Casa Comune" - scambio transfrontaliero di buone prassi portato avanti con i tavoli di confronto - in questi due anni ha studiato approfonditamente tutto ciò di cui finora abbiamo parlato, individuando i nuovi bisogni e le risorse disponili nella rete dei servizi domiciliari, elaborando dei criteri comuni di modellizzazione, di governance e metodologia di lavoro atte a rendere il più possibile performanti le competenze dei professionisti del settore.

Le diversità culturali, professionali, organizzative non devono essere un ostacolo, ma un'occasione per valorizzare la collaborazione in rete.

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La presenza migratoria può essere uno stimolo per conoscere nuovi modelli valoriali che, forse noi abbiamo con il tempo perduto, recuperando competenze "affettive" fondamentali nel lavoro d'assistenza.

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Parte seconda Ri-progettare l’azione sociale

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5.

Alla base dei Modelli: lo scambio e il benchmarking transfrontalieri.

di Ilaria Ferrero 5.1 Introduzione Tra la primavera e l'inverno 2013, nel corso dell'attività di Analisi e

Ricerca, parallelamente all'attività di definizione e somministrazione degli strumenti di analisi qualitativi e quantitativi, è stata effettuata una disamina della letteratura esistente in materia di evoluzione della condizione anziana, assistenza agli anziani non autosufficienti, evoluzione dei sistemi di welfare, "welfare fai da te" e ricorso alle assistenti famigliari, integrazione sociale e lavorativa delle assistenti famigliari di origine straniera. Ancora, attraverso la partecipazione a convegni e seminari si è seguita la riflessione in atto tra gli addetti ai lavori circa la progettazione partecipata delle politiche sociali e l'evoluzione dei sistemi di welfare in un contesto di crisi, caratterizzato dall'aumento della domanda di servizi e dalla contemporanea riduzione delle risorse a disposizione. Come previsto dal progetto, questa intensa fase di ricerca e analisi è stata propedeutica alla realizzazione del secondo obiettivo dell’azione 2, ovvero lo scambio di buone prassi e il confronto transfrontaliero, al fine di mettere in rete e trasferire le esperienze e i modelli di eccellenza emergenti in entrambe le realtà nazionali. Attori protagonisti di questa fase sono dunque stati tre tavoli, progettati organizzati e coordinati dal Team di Progetto e animati da

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esperti di settore, gestori dei servizi e stakeholder e che hanno permesso di realizzare un proficuo confronto su alcuni aspetti fondamentali quali i modelli di governance e di partnership pubblico-privato, di gestione e costruzione delle competenze del personale di cura, di valorizzazione dell’integrazione interculturale (l’integrazione come strumento per migliorare la qualità dei servizi e valorizzare il lavoro di cura).

Di fatto, questa fase ha rappresentato la base a partire dalla quale si è dipanata tutta l’attività progettuale successiva. In altre parole, i Modelli elaborati sui due lati della frontiera sono stati alimentati dai contributi presentati nelle tre giornate nonché dalle riflessioni che i partecipanti ai tavoli stessi hanno prodotto. Nel presente capitolo, si illustreranno gli esiti delle tre giornate, svoltesi tra il dicembre 2013 e il settembre 2014 in Italia e in Svizzera.

5.2 Tavolo per la Governance e le reti per l’assistenza e la cura degli anziani fragili (Novara, 9 dicembre 2013) Il primo dei tre incontri transfrontalieri ha avuto come focus gli

assetti normativi e finanziari dei sistemi di cura a domicilio nonchè i modelli di governance e di partnership pubblico-privato. Due le tipologie di intervento realizzate nella giornata di lavoro: prima una panoramica sugli obiettivi del progetto e sulle modalità di risposta offerte nella pratica alle sfide poste dall'evoluzione sociale e demografica che interessa non solo l'Italia e la Svizzera ma tutto il contesto europeo; nel pomeriggio poi lo sguardo si è spostato più decisamente verso il futuro, sulle prospettive di evoluzione ipotizzabili e percorribili. Per quanto riguarda i dati di contesto, l'intervento di Maurizio Ambrosini, dell’Università degli studi di Milano e responsabile scientifico del progetto, ha offerto uno spaccato significativo sul fenomeno in atto nella cura degli anziani a domicilio, con la presenza di un vero e proprio “welfare invisibile” le cui

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protagoniste sono le lavoratrici immigrate impegnate nel lavoro di cura. Ha analizzato quindi alcune possibili prospettive per il futuro, in grado di rafforzare i rapporti tra il welfare formale e i relativi servizi e le lavoratrici del “welfare invisibile”; ancora, ha indicato possibili miglioramenti attraverso forme di sperimentazione di interventi integrati (per esempio nei quartieri e nei caseggiati) di assistenza per gli anziani. Gabriele Fattorini, di Pro Senectute Ticino Moesano, ha dato conto dell’evoluzione in corso in Svizzera, ed in specifico nel Canton Ticino, delle politiche di welfare per la terza età ed in particolare delle nuove sfide costituite dalle cure a domicilio. Un altro significativo contributo è stato offerto da Raffaella Vitale, Direttore delle Politiche Sociali e per la famiglia della Regione Piemonte, che ha affrontato il tema del sistema di cura domiciliare tra passato, presente e futuro. Nello specifico ha tratteggiato gli interventi più importanti messi in campo dalla Regione, tra cui forme di sperimentazione come quella del Comune di Torino (con l’albo fornitori dei servizi socio-assistenziali-domiciliari e con un ruolo, a fianco dell’ente pubblico, di cooperative sociali e associazioni di volontariato, sotto forma di rete locale di servizi). Ha inoltre auspicato che le ricadute del progetto “Casa Comune” si collochino in termini di creazione di un network pubblico-privato e costituiscano un’azione utile per la programmazione 2014-2020 dei fondi comunitari (che vede significativi investimenti per azioni di inclusione sociale), anche sul versante degli interventi di formazione e qualificazione per le assistenti familiari operanti nella cura degli anziani. Nel pomeriggio, la professoressa Franca Maino, dell'Università degli Studi di Milano nella sua relazione, ha declinato il tema della Governance e delle reti territoriali, con particolare riferimento ai servizi per gli anziani ed ha approfondito un modello di rinnovamento e riposizionamento per il welfare che prevede l’affiancamento al cosiddetto "primo welfare" di un "secondo welfare" caratterizzato da un mix di interventi innovativi, finanziati anche con risorse non pubbliche e con un ruolo significativo per nuovi soggetti

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privati (esempio fondazioni bancarie e di comunità, imprese, cooperative sociali, enti caritativi e volontariato). A seguire il professor Gian Luigi Bulsei dell’Università del Piemonte Orientale, nel suo intervento ha approfondito gli elementi legati alla costruzione partecipata delle politiche sociali a livello locale ed in specifico ha tratteggiato gli aspetti della pianificazione pubblica degli interventi, della negoziazione e concertazione degli interessi organizzati e della strategia di rete locale. Ha in tal senso indicato gli elementi che connotano un modello pluralista di welfare di comunità in grado di “estrarre” dal territorio le risorse e le opportunità presenti. Infine, Gabriele Balestra dell’ALVAD Locarno e presidente dell’associazione Opera Prima, ha evidenziato i processi in corso nel Canton Ticino in materia di governance dei servizi di cura a domicilio. Ha inoltre illustrato il caso di partenariato pubblico-privato costituito da Opera Prima, modello di rete di associazioni e di enti operanti nel settore socio-sanitario in grado di co-progettare interventi e di gestire modelli di integrazione per i servizi alla persona. Dunque, le relazioni presentate il 9 dicembre 2013 hanno fornito una conferma al convincimento che fin dall’inizio stava alla base del progetto: a fronte di una situazione di difficoltà evidente da parte dell’ente pubblico a garantire l’erogazione di servizi di sostegno alla domiciliarità, è necessario un cambiamento di paradigma, riassumibile nei termini “dalla protezione sociale alla promozione sociale”, che veda l’ente pubblico impegnato in un ruolo di regia e di coordinamento delle forze che a livello territoriale sono espresse da una pluralità di soggetti (no-profit e volontariato). L’assunzione di un tale ruolo presuppone tuttavia un cambio di prospettiva culturale da parte dell’ente pubblico stesso: esso, da mero erogatore di servizi, deve diventare un soggetto in grado di realizzare una progettazione che garantisca al contempo sia l’integrazione tra le politiche che quella tra gli attori sociali. In particolare quest’ultimi non devono assolvere alla funzione di supplenza rispetto alle difficoltà economiche del pubblico, ma essere

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protagonisti di pari dignità all’interno sia dell’attività di progettazione che di quella di erogazione. Si può dunque affermare che il Tavolo sulla Governance abbia costituito un momento centrale per tutte le fasi successive del progetto, nel quale sono stati definiti l'approccio ("secondo Welfare") e la metodologia (co-progettazione partecipata) che hanno ispirato tutte le azioni successive, a cominciare dai due altri tavoli, realizzati a Novara nell' aprile del 2014 e a Mendrisio nel settembre dello stesso anno. In entrambe queste occasioni, e a differenza di quanto era avvenuto per il primo tavolo, la cui strutturazione è stata per così dire tradizionale (basata cioè su una logica "frontale", con relazioni tenute da esperti e addetti ai lavori), si è utilizzata una struttura "dialogica" e operativa: dopo alcune brevi reazioni teoriche introduttive, tutti i partecipanti si sono suddivisi in gruppi di lavoro, per confrontarsi, discutere operativamente su alcune tematiche rilevanti e produrre brevi documenti di restituzione che sono stati presentati e discussi in plenaria.

5.3 Quale competenze e quale formazione per il lavoro di cura? Modelli di gestione e costruzione delle competenze del personale di cura (Novara, 1 aprile 2014) In questa seconda giornata sono stati messi a confronto i modelli

formativi utilizzati sui due lati della frontiera sopratutto rispetto all'adeguatezza della formazione delle figure professionali che animano la scena della cura a domicilio (OSS e Assitenti famigliari) rispetto alle sfide poste dall'evoluzione dei bisogni dell'utenza e delle famiglie. Nello specifico, si sono posti alcuni obiettivi: ragionare sullo stato dell'arte dell’attuale sistema formativo, evidenziandone le criticità’; formulare ipotesi per un superamento del modello esistente, attraverso una proposta che riesca a cogliere e a rispettare i bisogni emergenti sia degli utenti che degli operatori; cogliere spunti utili a definire i processi necessari a creare apprendimento operativo, in vista di una

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implementazione del modello alternativo stesso. In altre parole, gli esperti di formazione, rappresentanti di tutti i livelli (politico, organizzativo, erogativo) si sono confrontati con operatori del settore (operatori socio sanitari, direttori di struttura, volontari, etc) chiedendosi quale contributo possa venire dalla formazione in vista di un modello di lavoro basato sulla rete. E ancora, a ciascun livello, come sia possibile apprendere a lavorare in maniera cooperativa. La giornata è stata in questo caso divisa in due momenti: in mattinata tre interventi tematici aventi l'obiettivo di fornire un quadro complessivo dal quale partire per il successivo lavoro di analisi, condotto attraverso una serie di workshop tematici. Il Professor Maurizio Ambrosini ha così illustrato i primi esiti dell’analisi quantitativa condotta sulla popolazione anziana novarese, per evidenziarne i bisogni presenti e in evoluzione. Paolo Moroni, ha fornito un primo quadro dell’ offerta di servizi sul territorio novarese così come emersa dall’analisi qualitativa. Carmen Rutigliano, della Direzione Formazione Professionale e Loredana Mantuano della Direzione Politiche Sociali hanno illustrato poi lo stato attuale e le possibili evoluzioni del sistema formativo piemontese in riferimento alle figure individuate. Ha concluso Furio Bednarz, con un’analoga disamina del sistema formativo svizzero. Per la fase successiva, organizzata in workshop, sono poi stati individuati quattro tavoli, in riferimento alle principali figure coinvolte nel sistema di cura: OSS, Assistenti Famigliari, Coordinatori di Servizi e Volontari. La composizione dei singoli tavoli ha risposto a criteri quali l’esperienza professionale degli invitati, la multidisciplinarietà dei contributi alla riflessione, al fine di individuare processi utili a creare apprendimento operativo. Ciascun tavolo è stato gestito da un facilitatore, e si è aperto con una testimonianza seguita da due brevi interventi da parte di due discussant, identificati a priori. Tutti i componenti del tavolo sono stati invitati successivamente a dialogare sulla base degli stimoli ricevuti. I facilitatori hanno poi elaborato gli elementi emersi e li hanno presentati con una breve relazione alla

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plenaria. Nello specifico, i sottogruppi che hanno ragionato sulla figura dell' Operatore socio sanitario e su quella dell'Assistente famigliare si sono interrogati sull' adeguatezza della formazione rispetto alle esigenze poste dal concreto svolgersi del lavoro e hanno provato a immaginare quali possano essere le prospettive in questo senso; il gruppo dei coordinatori di servizi ha discusso dell'adeguatezza della formazione rispetto al rapporto formale/informale, chiedendosi quali elementi informali sia possibile e auspicabile introdurre nella gestione del lavoro. In questo gruppo in particolare è stato proficuo il confronto tra il sistema svizzero, caratterizzato da un' estrema formalità, che rischia a volte di degenerare in sclerotizzazione del sistema, e il sistema italiano, al contrario largamente caratterizzato da informalità, e quindi spesso vittima di "lavoro cattivo". Il gruppo dei volontari ha lavorato per cercare di definire quali siano le competenze necessarie per fare fronte alla complessità del reale e per lavorare in rete. Ciascun gruppo di lavoro ha così prodotto una serie di spunti importanti a cui rimandiamo per ulteriori approfondimenti (Restituzioni: Tavolo OSS; Tavolo AF; Tavolo Coordinatori di servizi; Tavolo Volontari).

5.4 Riconoscere e mettere in valore le diversità (Mendrisio, 17 settembre 2014) Dopo aver lavorato per rafforzare e mettere in comune il patrimonio

di conoscenze sui bisogni emergenti della popolazione anziana, sui modelli di governance e sui servizi pubblici di sostegno alla domiciliarità presenti sul territorio, partendo dalle buone pratiche e realizzando un’intensa attività di scambio e condivisione dei modelli operanti in Italia e in Svizzera, il progetto Casa Comune è entrato nella sua fase cruciale, in cui ci si propone di progettare e sperimentare su entrambi i lati della frontiera un modello idoneo a fornire interventi personalizzati in risposta ai bisogni di assistenza agli anziani, attraverso l’utilizzo in rete dei vari soggetti coinvolti (figure professionali,

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assistenti famigliari, rete parentale, volontariato). Un simile obiettivo ha reso indispensabile affrontare il tema di come le diversità – di genere, culturali, organizzative, di ruolo professionale – possano essere trasformate da ostacolo a ricchezza da valorizzare nel lavoro di rete. In un settore dove la presenza migratoria è un elemento consolidato e determinante per rispondere ai bisogni, le dinamiche interculturali devono essere reinterpretate come un valore aggiunto fondamentale, e non unicamente un vincolo con cui misurarsi. Ma altrettanta attenzione va posta sulla capacità di far interagire costruttivamente, a partire dal reciproco riconoscimento, le differenti figure professionali che rendono possibile e efficace la cura a domicilio: chi coordina i servizi e pianifica le risorse, chi svolge funzioni specialistiche, le figure cardine – come le assistenti famigliari - che presidiano la relazione quotidiana tra utenti, famigliari, servizi, la cui funzione è ancora troppo spesso negletta o negata. Il contesto entro il quale si è collocato il terzo Tavolo Transnazionale di confronto è caratterizzato da alcune emergenze, che configurano una situazione in rapida evoluzione, con significativi punti di contatto sui due lati del confine: costante ridimensionamento delle risorse pubbliche destinate ai servizi sociali, in uno scenario di differenziazione e crescita della domanda, cui i modelli tradizionali stentano a dare risposte; l' emersione di forme private di risposta ai bisogni, in particolare delle pratiche di cura a domicilio che fanno perno sulla figura della “badante coresidente”, come risposta (ricca di implicazioni critiche) all’insufficienza quantitativa e qualitativa delle forme istituzionali di prestazione; l'emersione, in questo contesto, di problematiche specifiche legate alla garanzia di qualità dei servizi di cura a domicilio, alla dignità di prestatori e prestatrici dei servizi (sul piano contrattuale e professionale), alle modalità di collocamento sino alle caratteristiche della relazione tra i diversi attori che intervengono nella cura a domicilio; l'emersione, a livello di disegno e organizzazione delle formazioni che mirano a costruire le competenze delle diverse figure professionali, di un’attenzione crescente nei

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confronti del luogo della prestazione (cura a domicilio) come luogo fisico e simbolico assolutamente originale che determina i setting organizzativi e le competenze correlate alla prestazione, mentre tradizionalmente la formazione al ruolo viene costruita sulla base del setting definito dai contesti istituzionali della prestazione (case per anziani).

Il terzo tavolo dunque – che ha completato il percorso avviato a Novara, discutendo di governance e di formazione professionale nel settore del lavoro di cura – si è proposto di compiere un deciso passo in avanti, aprendo di fatto la fase di progettazione del modello di intervento, affrontando innazitutto alcune priorità, emerse con forza nella fase iniziale del progetto: la comune priorità di rafforzare la capacità di lavorare in rete, adottando un approccio sistemico al lavoro di cura a domicilio (tale da coinvolgere non solo operatori e operatrici, ma l’insieme delle istituzioni, del clienti e dei caregiver e caremanager famigliari); la necessità di mettere meglio a fuoco le competenze strategiche necessarie a svolgere le funzioni di cura (con al centro le competenze relazionali, cooperative e progettuali); lo sviluppo di una pratica di progettazione partecipata del modello, soprattutto in relazione al contesto di crisi e riduzione di risorse da dedicare al welfare che caratterizza l’attuale momento storico, rendendo indispensabile la negoziazione di obiettivi, priorità e forme dell’intervento sociale. Il Tavolo si è dunque proposto come momento di apprendimento di sistema, propedeutico allo sviluppo delle azioni formative che nella fase successiva accompagneranno la modellizzazione. Gli obiettivi del confronto sono quindi sintetizzabili come segue: - l’attivazione di un percorso di (ri)modellizzazione partecipata dei servizi di cura a domicilio, da declinare sia in modo congiunto, che tenendo conto delle condizioni socio-istituzionali e dei bisogni emergenti sui due lati del confine; - lo sviluppo di una forte sensibilità nei confronti del lavoro interdisciplinare, e interprofessionale, necessaria a favorire il consolidamento delle

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competenze indispensabili per implementare il modello innovativo di cura a domicilio; - la sperimentazione di interventi che, nel rispetto dei ruoli professionali, rafforzino la capacità di “fare sistema” di tutti gli attori. Come già avvenuto qualche mese prima, i lavori sono stati strutturati in modo da favorire la partecipazione attiva e lo scambio, a partire dalla presentazione delle dimensioni della diversità che caratterizza il settore (focalizzando in particolare la funzione delle figure emergenti nel settore, chiamate a un grosso sforzo di gestione della diversità culturale e socio-linguistica).per poi lavorare a partire da esperienze e testimonianze biografiche di criticità collegate alle differenze ma anche di positiva messa in valore delle medesime La conclusione è stata affidata ad un panel chiamato a identificare gli auspicabili obiettivi del lavoro di modellizzazione che ci attende nei prossimi mesi. La riflessione ha dunque preso le mosse dalla relazione del Professor Maurizio Ambrosini "Immigrazione irregolare e welfare invisibile"; da alcune "Riflessioni sulla situazione in Svizzera", tra strutturazione dei servizi e emergenza di nuovi fenomeni presentate da Paola Solcà – SUPSI; nonché dall'illustrazione di un esempio di attivazione delle risorse presenti nella comunità a sostegno degli anziani, nel progetto "Viva gli anziani" realizzato dalla Comunità di Sant'Egidio in un quartiere della città di Novara. Questa volta, a differenza di quanto avvenuto a Novara, quando i gruppi erano stati definiti per tipologia di figure coinvolte, la suddivisione in gruppi di lavoro è stata effettuata sulla base di temi, spunti tratti da situazioni di vita reale, che costituiscono spesso nodi critici rispetto ai quali le differenze interculturali emergono prepotentemente, con esiti niente affatto scontati sulla relazione di cura: "Non la voglio nera! Gestire la diversità estrema": storie di comprensione e incomprensione, come costruire accoglienza e reciprocità; "Si lo tiene pulito e ben vestito…ma lui si lamenta che mangia poco!": Gestire la relazione tra utente, operatore/trice e famigliari nel contesto del lavoro di cura; "Ma chi le ha detto di darle quel calmante?!": quale integrazione possibile tra

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servizi, assistenti famigliari, utenti? Difficoltà, esperienze positive; "Ma li con lui, tutto il giorno, ci sono io!": la voce delle assistenti famigliari, tra ruolo invisibile e pratica quotidiana di prossimità.

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6.

La riprogettazione dell'azione sociale nel sistema delle cure a domicilio: i casi del Canton Ticino e di Novara

di Franca Maino 6.1 Introduzione Da più di un decennio le politiche e gli interventi per la non

autosufficienza sono al centro del dibattito sul rinnovamento dei sistemi di welfare. Questo non solo a livello europeo – Svizzera compresa - ma in particolare nel nostro paese che, se ancora negli anni Novanta presentava grosse lacune, ha progressivamente – seppure faticosamente – provato a colmare il divario con i principali paesi membri.

In Svizzera, grazie all’Assicurazione per la Vecchiaia e i Superstiti (AVS), al sistema delle prestazioni complementari e alla previdenza professionale la maggior parte degli anziani può contare su una solida base finanziaria e su un patrimonio adeguato; nel complesso, poi, i pensionati sono piuttosto agiati rispetto al resto della popolazione; in aggiunta, per gli anziani in condizioni di non autosufficienza è da tempo disponibile un sistema di cure – lo Spitex40 - che fornisce un insieme ampio e articolato di servizi grazie al coinvolgimento di enti e soggetti pubblici e privati che lavorano in modo sinergico. Nonostante questo anche nella Confederazione elvetica sembrano profilarsi i

40 Cfr. il contributo di Paola Quadri al capitolo 4 di questa pubblicazione.

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segnali di un cambio di contesto. Un’ipoteca molto elevata sulla situazione economica delle persone anziane delle prossime generazioni risiede nell’evoluzione del mercato del lavoro e delle nuove forme occupazionali, spesso meno durevoli e molto più precarie che nella fase espansiva dei decenni scorsi, durante i quali si è sviluppato e consolidato l’attuale sistema dei tre pilastri della previdenza sociale. Sistema dei tre pilastri che comincia a mostrare segnali di difficoltà lasciando intravedere un peggioramento delle condizioni di pensionamento per chi oggi è attivo e sta contribuendo al suo finanziamento (cfr. Egloff 2015).

Venendo all’Italia, Gori ha mostrato come in pochi anni l’assistenza continuativa abbia assunto una visibilità mai sperimentata prima, complice certamente anche la crescente consapevolezza delle conseguenze derivanti dall’invecchiamento della popolazione e dall’allungamento della speranza di vita (cfr. Gori 2011). Nel corso degli anni Duemila va registrato anche l’aumento, sebbene modesto in prospettiva comparata, di risorse dedicate a questo settore sia a livello nazionale (si pensi in particolare al Fondo per la non autosufficienza, istituito nel 2007) sia a livello locale.

In generale si è assistito a un ripensamento dell’insieme degli interventi rivolti alla non autosufficienza che può essere sintetizzato attraverso quattro direttrici (cfr. Gori et alii, 2014, 165-166): i) tentativi di ridefinizione del rapporto tra ospedale e territorio e tra residenzialità e domiciliarità attraverso la messa a punto di percorsi congiunti, tra Asl e Aziende ospedaliere, per la gestione delle dimissioni ospedaliere e attraverso il potenziamento del SAD e dell’ADI; ii) ridefinizione della presa in carico grazie al ricorso a dispositivi dedicati all’accoglienza della domanda, alla valutazione del bisogno dell’anziano, e alla gestione coordinata del percorso assistenziale (ne sono un esempio le Unità di valutazione multidisciplinare istituite in alcune regioni, la sperimentazione dei punti unici di accesso, l’avvio di percorsi di case management); iii) diffusione di forme di regolazione e qualificazione

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del mercato dell’assistenza privata di cura attraverso l’istituzione di albi professionali delle badanti; iv) avvio di iniziative e progetti dedicati al tema della prevenzione e della promozione di stili di vita sani nella terza e nella quarta età.

Tuttavia questo sviluppo, per quanto significativo, non è stato in grado di modificare in modo incisivo la fisionomia complessiva dell’assistenza agli anziani e sembra aver subito una battuta di arresto a causa della crisi economica e sociale in corso ormai dalla seconda metà degli anni Duemila, crisi che ha riportato in Europa una fase di austerità permanente e – a fronte dell’insuccesso della Strategia di Lisbona41 - ha riacceso il dibattito su come promuovere un modello europeo di sviluppo in grado di conciliare crescita economica, coesione sociale e innovazione.

E’ in questo contesto e di fronte a sfide di questa portata che assumono importanza esperienze e progettualità che partono dal basso, che si sviluppano nei territori grazie a nuove forme di partnership tra soggetti pubblici e non pubblici, che si imperniano sull’investimento e sull’innovazione sociale per spostare il baricentro verso interventi rivolti alla promozione sociale e destinati a superare una logica rivolta solo alla protezione dai bisogni. Il Canton Ticino e Novara costituiscono un esempio di queste nuove forme di progettualità. La partecipazione ad un Bando Interreg e la realizzazione, tra il 2013 e il 2015, del progetto “Casa Comune” ha permesso di individuare – in entrambi i contesti - i bisogni della popolazione anziana, di realizzare una mappatura dei servizi attualmente disponibili a favore della

41 La “Strategia di Lisbona” aveva lanciato nel 2000 un obiettivo particolarmente ambizioso per l’Unione Europea: “Trasformare entro il 2010 l'UE nell’economia della conoscenza più competitiva e dinamica”. Una strategia che mirava alla crescita economica e insieme a sostenere il cosiddetto “triangolo” dello sviluppo. Si intendeva rilanciare il “modello europeo”, puntando su tre pilastri: quello economico finalizzato a promuovere l’“economia della conoscenza”; quello sociale rivolto ad investire sul capitale umano e sulla lotta all’esclusione; quello ambientale diretto ad un utilizzo sostenibile delle risorse naturali.

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domiciliarità, e di avviare un percorso di co-progettazione partecipata che porterà a partire dai prossimi mesi a sperimentare un nuovo modello di intervento che ha nell’attivazione di una rete multi-attore (o nel ripensamento del suo ruolo nel caso del Canton Ticino) uno degli elementi portanti, come verrà illustrato e argomentato di seguito.

6.2 Il contesto e le sfide. Gli anziani tra nuovi bisogni e un sistema di cura da innovare Con riferimento al tema della non autosufficienza e della long-term

care lo scenario che la recente crisi economica ha aperto lascia intravedere per il futuro alcuni rischi a cui è sempre più urgente far fronte. In primo luogo vi è il rischio che si vada verso una progressiva riduzione delle prestazioni, dei servizi e del numero di beneficiari dal momento che di fronte ai tagli alle risorse per il welfare e all’introduzione di nuovi vincoli alla spesa pubblica regioni/cantoni, enti locali e strutture sanitarie sono portate a fare economie e ad introdurre misure di razionamento dei servizi in essere andando a colpire i trasferimenti economici, i servizi residenziali e quelli territoriali. Un secondo rischio è che il pubblico ridimensioni pesantemente il suo impegno nel percorso di assistenza, in particolare per quanto riguarda la presa in carico dell’anziano e della sua famiglia, l’accesso ai servizi e la regolazione del mercato privato dell’assistenza (ad esempio rimettendo in discussione – dove presente - il sistema di accreditamento delle badanti o gli sportelli di incontro domanda-offerta). Il terzo rischio è che aumentino i costi dei servizi, sia per le famiglie sia per gli erogatori come le cooperative, le associazioni, le fondazioni e gli enti for profit. Vi è, infine, il rischio che diminuisca la qualità dei servizi, a fini di contenimento dei costi. Una dinamica, quest’ultima, destinata ad avere pesanti ripercussioni anche sulla qualità del lavoro degli operatori che potrebbero di conseguenza veder ridefinite le condizioni occupazionali sia sotto il profilo contrattuale

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che remunerativo. Del resto, in tempi di crisi e di risorse scarse, non solo le istituzioni pubbliche e i fornitori possono decidere di rimettere in discussione i livelli di qualità ma anche le famiglie, pur di risparmiare, appaiono più disposte a rinunciare alla qualità delle cure.

L’impatto di tali rischi varia in base alle caratteristiche dei sistemi di protezione sociale e in particolare del sistema di cure e assistenza per gli anziani e sotto questo profilo le differenze, tanto a livello nazionale quanto a livello locale, tra Svizzera e Italia sono notevoli, come sarà brevemente illustrato di seguito. Tuttavia come è emerso dall’analisi dei bisogni e dalla mappatura dei servizi compiuta sul Comune di Novara42 (dentro un sistema di cura che subisce condizionamenti dettati dal quadro di riferimento normativo e di policy regionale) e sull’area del Mendrisiotto (a sua volta inserito nel territorio rappresentato dal Canton Ticino) c’è ampio margine in entrambi i contesti per provare a sperimentare nuove forme di partnership tra i tanti soggetti pubblici e non pubblici che a vario titolo si occupano di anziani e di domiciliarità. Una sperimentazione che risponda alle criticità, dettagliatamente ricostruite in questo volume, connesse ai due sistemi di cura a domicilio.

6.2.1 Il sistema delle cure a domicilio in Svizzera Di fronte a una vecchiaia sempre più lunga e diversificata, in

Svizzera, il ricorso ai servizi di assistenza e cura a domicilio costituisce una realtà diffusa (Höpflinger, Bayer-Oglesby e Zumbrunn, 2011; Ufficio federale di statistica, 2013). Se il trasferimento in case per anziani giunge per molti il più tardi possibile – e spesso negli ultimissimi anni di vita (Cavalli e Dus, 2015) –, la possibilità di servizi pensati per gli anziani può infatti contribuire a garantire la permanenza

42 Cfr. il contributo di Paolo Moroni nel capitolo 3 di questa pubblicazione.

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a casa propria quando non si è più in grado di svolgere, in modo indipendente, una o più attività della vita quotidiana. Oltre a rispondere alle preferenze della maggior parte degli anziani, il mantenimento a domicilio è in Svizzera una priorità nell’agenda di policy in materia di vecchiaia da ormai una quindicina d’anni: una politica in cui gli obiettivi principali sono quelli di favorire l’autonomia della persona all’interno del proprio contesto familiare e, nel contempo, di contenere i costi sanitari evitando trasferimenti inappropriati in strutture ospedaliere e residenziali (Hagmann e Fragnière, 1997).

In linea con questo orientamento, il Ticino, così come altri Cantoni, ha introdotto nell’ultimo decennio una serie di misure volte a regolamentare, organizzare, potenziare l’offerta di prestazioni in questo settore. Un insieme di interventi che va prima di tutto inquadrato nel sistema delle cure rivolte agli anziani operante a livello confederale. In Svizzera il sistema delle cure per gli anziani è garantito da una rete organizzata di assistenza e cura a domicilio di utilità pubblica e senza scopo di lucro e da una rete privata. Si tratta di un insieme articolato di servizi erogati al di fuori degli ospedali (sia pubblici che privati) conosciuto con il nome di Spitex che fornisce cure e aiuto anche agli anziani (oltre che a persone convalescenti, malate, disabili, e a genitori di bambini malati).

Le cure mediche e le cure di base (richieste dal medico di famiglia) sono finanziate dall'assicurazione di malattia, obbligatoria per tutte le persone residenti in Svizzera43, secondo le tariffe indicate dalla convenzione tra SantéSuisse e i servizi riconosciuti in base alla Legge sulle cure a domicilio (LACD) introdotta nel 2010. Le altre prestazioni sono direttamente a carico degli utenti, in base al loro reddito, tenendo conto delle tariffe in vigore nei servizi riconosciuti dalla LACD. Gli utenti possono beneficiare anche di sussidi cantonali per il

43 Come previsto, dal 1996, dalla Legge federale sull’Assicurazione di malattia (LAMaL).

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mantenimento a domicilio se titolari della prestazione pensionistica AVS e/o dell’Assegno d’invalidità. Per chi si trova in condizioni economiche disagiate c’è anche la possibilità di usufruire di prestazioni complementari. Nel gennaio 2011 è poi entrato in vigore un nuovo sistema di finanziamento delle cure infermieristiche che varia da Cantone a Cantone.

La rete che si crea intorno all'anziano è formata principalmente dai Servizi di assistenza e cura a domicilio cantonali (SACD) e dai servizi d'appoggio44, ma anche – sebbene in misura minore che in Italia e secondo una logica integrativa e non sostitutiva di un servizio inesistente o inadeguato - da volontari, vicini di casa e, quando ci sono, dai parenti, per lo più coinvolti nel disbrigo di piccole faccende quotidiane45.

I SACD sono enti di interesse pubblico, di natura privata e con finalità non profit, che operano su mandato del Dipartimento della Sanità e della Socialità (DSS) e sono ripartiti sul territorio in base a una programmazione cantonale. Essi svolgono un’attività d’interesse pubblico che si caratterizza per la prossimità ai destinatari; l’accessibilità a tutti i cittadini; l’obbligo di ricevere e trattare ogni domanda in modo equo; senza che vi sia possibilità di scelta dell’utenza (come avviene invece nel settore privato). Beneficiano di sussidi comunali e cantonali e sono riconosciuti dalle assicurazioni di malattia: le cure di base e mediche vengono così coperte dall’assicurazione di malattia di base, mentre le altre prestazione sono poste direttamente a carico dei beneficiari, secondo il reddito e il tariffario dei SACD. Alcune assicurazioni di malattia complementari, a seconda del tipo di contratto stipulato, rimborsano in parte queste spese.

44 I servizi d'appoggio danno risposta ai bisogni esistenti sul territorio, garantendo prestazioni di qualità. Sono stabiliti dall'autorità competente e sono riconosciuti dal Consiglio di Stato, che può revocarli in ogni momento se non rispettano i parametri previsti dalla Legge LACD. 45 Sul punto si rimanda al capitolo quarto di questo volume.

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Nella rete d'aiuto per il mantenimento a domicilio un ruolo fondamentale è svolto dai servizi d'appoggio (dai centri terapeutici diurni per i malati d'Alzheimer e affetti da altri tipi di demenze; la distribuzione dei pasti a domicilio; il telesoccorso; i servizi di trasporto) che offrono prestazioni di supporto alla persona bisognosa e/o alla famiglia tutelando l'autonomia della persona al proprio domicilio. Tutte prestazioni i cui costi sono posti a carico dell'utente. Accanto a tali servizi troviamo infine le Organizzazioni d’assistenza e cura a domicilio privati (OACD) e gli infermieri indipendenti. Sono entrambi autorizzati dai vari Cantoni e tenuti a intervenire nella rete di cura attivando le risorse disponibili sul territorio. Le tariffe sono fisse e vengono solo parzialmente finanziate dall’ente pubblico, ma non in tutti i Cantoni46.

Uno studio recente condotto dall’Ufficio di Statistica del Canton Ticino (cfr. Giudici et alii, 2015) ha evidenziato che le persone in Ticino vivono a lungo, più che altrove in Svizzera, e che chi raggiunge l’età della pensione si può aspettare di vivere in buona salute fino a quasi 80 anni. La maggior parte dei giovani anziani (65-79 anni) residenti nel Cantone è indipendente; solo il 2% di essi dipende dall’aiuto di terzi per compiere i gesti essenziali della vita quotidiana, e uno su quattro è fragile. La salute tende a deteriorarsi con l’avanzare dell’età ma la quarta età non è sinonimo di dipendenza e malattie: se è vero che il 22% degli ultraottantenni è dipendente, ben il 37% è indipendente. Un altro dato interessante riguarda il numero di persone residenti in strutture medicalizzate: dal rapporto risulta che in Ticino meno di un ultraottantenne su sei risiede in casa per anziani. Questo perché un numero non indifferente di grandi anziani conserva un

46 Le cure ambulatoriali acute e transitorie, quelle cioè erogate entro due settimane dalla dimissione dall’ospedale e dietro prescrizione di un medico ospedaliero, non richiedono alcuna partecipazione finanziaria del paziente, come avviene per i SACD pubblici.

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elevato grado di autonomia e, in caso di difficoltà, può usufruire della presenza sul territorio di un’importante rete di servizi di cure e assistenza a domicilio oltre che dell’aiuto di familiari o conoscenti. I dati rilevano a questo proposito come in Ticino più della metà degli ultraottantenni faccia ricorso ad almeno uno dei servizi presenti sul territorio e come il numero e la frequenza degli interventi aumenti con il deteriorarsi della salute.

In Canton Ticino sono operativi 6 SACD, accanto ai quali esistono 21 servizi di cura a domicilio (OACD) d’interesse privato e a scopo di lucro e 160 infermieri indipendenti che da gennaio 2011 possono beneficiare di un contributo da parte dell’ente pubblico, limitatamente alle prestazioni di cura di base. Dal 2001 al 2011 vi è stato un incremento delle cure a domicilio pari al 45% e un lento ma crescente ricorso da parte delle famiglie ad assistenti familiari, un fenomeno in parte nuovo per la Svizzera (e certamente non diffuso come in Italia) che richiede però un ripensamento del modello di cura per meglio collocare al suo interno (e valorizzare) questa figura.

6.2.2 Il sistema delle cure a domicilio in Italia In Italia le politiche di long-term care sono caratterizzate dalla

centralità di una misura nazionale di trasferimento monetario alle famiglie, l’indennità di accompagnamento. Originariamente rivolta ai disabili adulti è diventata dagli anni Novanta in poi il programma di protezione contro la non autosufficienza più diffuso tra gli anziani (oggi copre circa il 10% della popolazione ultrasessantacinquenne). L’utilizzo dell’indennità di accompagnamento da parte dei beneficiari è totalmente libero e questo ne ha favorito un uso largamente improprio.

I servizi pubblici di assistenza residenziale e domiciliare sono invece forniti dalle regioni e dai comuni sulla base di finanziamenti propri e senza alcun diritto esigibile da parte dei potenziali beneficiari. Normalmente i costi dei servizi residenziali di tipo alberghiero

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(ospitalità nelle strutture di cura, pasti, ecc.) non sono coperti dai Comuni e restano a carico degli utenti e dei loro familiari (mediamente il costo di una retta è pari a circa 2.000 euro mensili). A fronte di una modesta offerta di servizi pubblici la soluzione a cui maggiormente ricorrono le famiglie è l’impiego di una assistente familiare individuale, che molto spesso non ha un contratto formale di lavoro (oltre ad essere priva di un regolare permesso di soggiorno) e di conseguenza è priva di tutte quelle tutele e garanzie che spettano ai lavoratori regolari. Si è così venuto a creare un ampio mercato privato della cura agli anziani in parte finanziato proprio grazie all’indennità di accompagnamento. Come ha sottolineato Ranci (2015), il carattere essenzialmente monetario delle misure di long-term care ha finito per favorire in Italia una ampia privatizzazione della cura, un sistema che però sta attraversando una profonda crisi che vede famiglie da un lato e amministrazioni locali dall’altro sempre più incapaci di rispondere adeguatamente alle richieste di assistenza di anziani in condizione di non autosufficienza.

Per quanto riguarda Novara e con riferimento alla parte “emersa” del fenomeno sappiamo che la popolazione ultrasettantenne residente è pari a circa 17.000 persone, di cui almeno il 18,5% presenta qualche deficit in riferimento alle principali funzioni della vita quotidiana. A fronte di questi numeri, il Comune di Novara ha investito nell’ultimo triennio circa 1.400.000 euro annui nell’assistenza a domicilio di circa 310 utenti per la maggior parte anziani. La quota di compartecipazione è stata elevata, nell’ottobre del 2013, a 13 euro all’ora per i livelli più alti di reddito, per il resto è modulata sulla base dell’ISEE del nucleo familiare.

Da quanto emerso dalla ricostruzione condotta all’interno del progetto “Casa Comune” (cfr. cap. 3 in questo volume) non esiste a Novara una vera “cultura della domiciliarità” e una azione di policy mirata a creare le condizioni per un suo sviluppo. Negli ultimi anni si è piuttosto assistito all’implementazione di una serie di attività, avviate in

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un contesto in cui le risorse economiche a disposizione erano più ampie di quelle attuali, che nel corso del tempo hanno dimostrato di funzionare abbastanza bene. Risorse sempre più scarse e l’emergere di nuovi bisogni stanno oggi mettendo in crisi questo sistema che ha dato prova di un buon funzionamento ma anche di svilupparsi per forza inerziale e all’insegna della continuità. Nello specifico, il Comune di Novara offre la possibilità, ai cittadini anziani e disabili non-autosufficienti, di usufruire dei seguenti servizi di sostegno alla domiciliarità: Servizio di Assistenza Domiciliare (SAD); Servizio di mensa domiciliare; Servizio di accoglienza presso la Casa di giorno per anziani “Don Aldo Mercoli”47; Servizio di Telesoccorso e di Pronto spesa; Contributo economico a sostegno della domiciliarità.

Con riferimento al SAD, la criticità principale è oggi rappresentata dalla contrazione delle risorse. Quello fornito dal SAD è e continuerà ad essere un servizio di nicchia, rivolto ad una particolare e limitata tipologia di utenza. A fronte di un numero stimato di ultra sessantacinquenni, con almeno un deficit in una delle funzioni della vita, pari a circa 3.000 persone, quelli assistiti dal SAD non raggiungono i 250. Considerando poi che il servizio SAD non può prevedere più di 3 ore di assistenza quotidiana, è evidente l’incapacità del servizio pubblico di far fronte ai reali bisogni degli anziani non autosufficienti e delle loro famiglie. Da segnalare inoltre che, sulla base dei dati relativi al primo accesso e al numero di domande valutate, risulta in questi anni una costante diminuzione delle richieste di accesso al SAD. La crisi economica sta spingendo molte famiglie a farsi

47 Con riferimento a questa struttura si è passati da un convenzionamento per 10 posti a uno per 7 e, nell’anno 2014, a 6 posti. Si tratta di una struttura che accoglie anziani parzialmente autosufficienti con capacità residue che consentono di svolgere diverse attività. Non si tratta dunque di un centro diurno per anziani affetti da importanti declini cognitivi. Le persone manifestano una certa ritrosia alla frequenza della casa (nonostante sia ampiamente proposta dagli operatori sociali e sebbene la struttura offra anche il servizio di trasporto da e per il domicilio e il monitoraggio infermieristico e farmacologico).

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nuovamente carico delle funzioni di cura di bambini (come dimostra anche la diminuzione delle domande per gli asili nido) e anziani. Redditi più bassi e un incremento del tempo disponibile, spesso in seguito alla perdita dell’occupazione o alla riduzione delle ore di lavoro, favoriscono il recupero delle funzioni di assistenza in capo alla famiglia.

Un discorso a parte va fatto per l’erogazione del contributo regionale a sostegno della domiciliarità, molto apprezzato dagli anziani e dalle loro famiglie, pur con le numerose criticità ad esso associate48. Il contributo, erogato dalla Regione Piemonte sino all’anno 2013, ha consentito a circa 90 anziani e 30 disabili gravi di rimanere al domicilio sostenendo le spese necessarie alla cura ricorrendo, nella maggior parte dei casi, ad assistenti familiari regolarizzate.

Ad integrazione di questo sistema di servizi e interventi si aggiunge l’Assistenza Domiciliare Integrata (ADI). Un servizio di carattere pubblico erogato dall’Asl che permette (non in maniera esclusiva in quanto rivolto a tutte le fasce di età) alle persone anziane che presentano problematiche di tipo sanitario di essere curate il più a lungo possibile nel proprio ambiente. In questo caso le cure domiciliari riguardano dunque l’assistenza sanitaria erogata al paziente direttamente al proprio domicilio da parte del personale della Asl.

Un insieme di servizi che – come abbiamo sottolineato – non solo riguarda una utenza numericamente limitata ma che si caratterizza per una modesta relazione e sinergia con l’offerta di servizi messa in campo dal privato sociale e da erogatori privati. Una rete di servizi scarsamente coordinata e per questo non adeguata a rispondere ai bisogni della popolazione anziani e della rete familiare che la circonda.

48 Le criticità riguardano i ritardi nell’erogazione dei finanziamenti; lo scarto temporale tra l’erogazione del contributo a destinatari (ogni tre/quattro mesi fino al raggiungimento della quota annua prevista) e il pagamento mensile da garantire all’assistente familiare; l’incertezza sul proseguimento negli anni di tali erogazioni.

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6.3 La risposta. Il secondo welfare per passare dalla protezione alla promozione sociale Più flessibile e più ritagliato sui profili di specifiche persone,

categorie, e soprattutto comunità, il secondo welfare sembra svilupparsi su una base regolativa definita a livello locale, ma al tempo stesso ancorata sia al quadro normativo nazionale sia a quello comunitario. Gli enti locali, benché sempre più vincolati nelle decisioni di spesa, sono chiamati ad assumere un ruolo centrale nella promozione di partnership pubblico-privato (Bassoli 2010; 2011; Lodi Rizzini 2013; Maino 2013) e nel reperimento di risorse aggiuntive. Perché ciò avvenga in modo virtuoso deve però cambiare il paradigma di riferimento (come sintetizzato nella fig. 6.1). È necessario infatti che le nuove forme di collaborazione tra pubblico, privato e privato sociale favoriscano sviluppo e innovazione, anziché essere volte esclusivamente al risparmio economico (Osborne et al. 2008, Goldsmith 2010). Le istituzioni locali sono chiamate anche a contribuire al ribaltamento della logica di programmazione: bisogni e possibili soluzioni devono diventare il punto di partenza, per poi coinvolgere soggetti finanziatori non esclusivamente pubblici. L’obiettivo è la definizione di un nuovo modello di governance che permetta di superare la crisi, senza arrivare al paventato smantellamento del welfare pubblico. E questo grazie al ricorso a soluzioni e strumenti innovativi all’interno di un nuovo contenitore istituzionale che è la rete, creando insieme innovazione di processo e di prodotto. Il coinvolgimento delle istituzioni pubbliche è decisivo per non rendere “episodico” e residuale l’intervento e per aumentarne l’impatto sociale (cfr. AA.VV. 2011).

Il secondo welfare non ha le risorse e le forze per sostituire il welfare pubblico, opera secondo una logica integrativa rispetto ai programmi esistenti, per completare ciò che è in parte garantito dal primo welfare. Nel contempo, sembra chiamato a una funzione di

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stimolo che sostenga il rinnovamento del modello di welfare e contribuisca a promuovere un cambio di paradigma, tale da portare non allo smantellamento del welfare ma a un suo rinnovamento. L’arena del welfare ha aperto le porte a una maggiore varietà di soggetti: il loro numero cresce e si diversificano, includendo anche soggetti privati quali imprese e assicurazioni, sindacati, associazioni di categorie, enti bilaterali. Si tratta di soggetti disposti a fare rete e a lavorare in modo sinergico fra loro e con le istituzioni pubbliche del territorio. E a mettere a disposizione e condividere risorse. In particolare le amministrazioni locali sono chiamate a svolgere un ruolo importante in termini di regolazione e coordinamento, mentre si ridimensiona il loro ruolo di erogatori di prestazioni e servizi (processo questo certamente avviato ben prima della recente crisi). Quanto al Terzo settore, vanno ripensate le sue funzioni di erogazione, sia per valorizzarne il ruolo sia per fare spazio anche a soggetti privati for profit. La crisi e le esigenze ad essa connesse sembrano creare un terreno fertile per la sperimentazione di soluzioni innovative che guardano al welfare non solo come risposta ai bisogni ma anche come investimento e fattore di crescita e sviluppo.

Tre sono gli elementi distintivi di misure e interventi che possiamo ricondurre al secondo welfare: una governance multi-attore e multi-livello, l’innovazione sociale e la progettazione partecipata, come riassunto anche dalla figura 6.1.

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Fig. 6.1. Gli elementi distintivi del secondo welfare

Fonte: elaborazione dell’autrice. Per quanto riguarda la governance, la letteratura e le ricerche che si

occupano di questo tema hanno indagato le caratteristiche dei nuovi modelli evidenziando come, in risposta alla nuova configurazione assunta dai rischi e dai bisogni sociali, il welfare state apra spazi di protagonismo ad altri attori (Bassoli e Polizzi 2011). In questo contesto gli enti locali sono chiamati al ruolo di coordinamento degli attori in campo, configurando modalità innovative di rapporto fra i soggetti deputati a programmare, finanziare e produrre servizi e interventi sociali (CNEL 2010). Questo significa ridisegnare i processi di policy-making aprendo alla rappresentanza degli interessi di cui sono portatori i diversi stakeholder; superare la centralizzazione dei poteri in mano allo Stato a favore di una ripartizione degli stessi fra diversi livelli istituzionali sulla base di competenze specifiche; sostenere una logica di rete piuttosto che una logica gerarchica e processi di negoziazione e co-partecipazione piuttosto che di imposizione burocratica; incentivare l’inclusione della società civile nei processi decisionali e nelle fasi di programmazione.

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Come spiegano Vesan e Sparano (2009), vi sono molteplici ragioni per la diffusione di partnership locali. I partenariati possono originare dal tentativo di rispondere a una domanda di partecipazione non adeguatamente coperta dall’offerta standard di politiche o possono essere finalizzati all’individuazione di nuovi modelli di regolazione e produzione di bene pubblici in grado di meglio far fronte ai problemi legati all’implementazione delle politiche. In una prospettiva manageriale il partenariato è visto come strumento che consente, grazie alla costituzione di sinergie fra attori che appartengono a sfere diverse, di accrescere la capacità di intervento della pubblica amministrazione. Una seconda prospettiva (che Vesan e Sparano chiamano “consociativa”) pone l’accento sulla volontà di conciliare interessi e visioni diversi per trovare soluzioni implementabili e offrire così una risposta ai bisogni. Infine, vi è una terza prospettiva che enfatizza il valore dell’inclusione e della partecipazione e vede nelle partnership tra una pluralità di attori coinvolti anche nella fase progettuale una strategia mirata a prevenire potenziali conflitti e veti e a raggiungere il più ampio consenso possibile.

Ma cosa significa effettivamente “fare rete” e creare delle partnership? Il concetto di rete formale richiama un’entità composta da organizzazioni e stakeholder diversi ed eterogenei che decidono intenzionalmente di collaborare per il raggiungimento di obiettivi condivisi mettendo a disposizione risorse umane ed economiche. In alcuni casi le reti assumono la forma giuridica di una associazione mentre in altri il vincolo formale nasce dentro accordi progettuali. La fenomenologia delle reti è quindi molto varia e si colloca lungo un continuum che va dalla formalizzazione minima (adesione formale attraverso un protocollo di intesa siglato da ogni singola organizzazione aderente) alla formalizzazione massima (costituzione in associazione). La nascita delle reti è strettamente connessa al riconoscimento dell’importanza del lavoro di rete che è andato consolidandosi in molti settori, da quello economico all’intervento in ambito sociale. Sempre

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più imprese danno vita a delle reti per fronteggiare i cambiamenti e le sfide del mercato, per essere più competitive e per ridurre i costi di produzione, per condividere servizi e prestazioni di welfare (cfr. Maino 2014b). Nel sociale si sperimentano forme di integrazione degli interventi che prevedono la collaborazione di una molteplicità di figure professionali e di enti al fine di offrire prestazioni più efficaci rispetto alla complessità crescente dei bisogni sociali, familiari e personali.

Venendo al secondo elemento, l’innovazione sociale, va richiamato innanzitutto il ruolo propulsivo e di sostegno svolto dal livello comunitario49. L’innovazione è ormai diventata un tema cruciale per le politiche europee, soprattutto sotto la spinta offerta dalla Strategia Europa 2020 per una crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva, contribuendo a promuovere il partenariato pubblico-privato nell’ottica di una multi-stakeholders governance e di una maggiore sinergia tra soggetti pubblici e privati.

L’Unione europea è approdata alla definizione di una strategia di ammodernamento del modello sociale incentrata sull’innovazione sociale, investendo in modo crescente sui processi di innovazione, percepiti come il principale strumento per la “modernizzazione” del modello sociale europeo, oggi così fortemente sotto pressione. Come definito dall’Ufficio dei consiglieri di politica europea della Commissione “L’innovazione sociale consiste in nuove idee (prodotti, servizi e modelli) che rispondono ai bisogni sociali in modo più efficace delle alternative esistenti e che, allo stesso tempo, creano nuove relazioni sociali e collaborazioni” (cfr. BEPA 2011). Innovare, in questo contesto di crisi, è una necessità avvertita come improrogabile ma è anche una sfida difficile da vincere, poiché richiede ai suoi protagonisti – attori pubblici, privati e del privato sociale – dinamismo, visione del futuro e capacità di fare rete: qualità che nel contesto del

49 Si rimanda per un excursus sulla rilevanza che il concetto di innovazione sociale riveste a livello comunitario al terzo 2WEL Working paper dal titolo Unione Europea, innovazione sociale e secondo welfare (Canale 2013) e a Maino (2014a).

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welfare più tradizionale non avevano particolare salienza e che tuttavia ora, in un contesto di risorse limitate, divengono decisive. È inoltre chiaro a tutti gli addetti ai lavori che l’innovazione sociale, se non supportata da azioni mirate ed efficaci, rischia di rimanere uno slogan, dietro il quale si nasconde l’incapacità di costruire nuove forme di protezione sociale in grado di sostituire quelle “vecchie”, quando queste ultime si rivelino non più efficaci o sostenibili.

Il secondo welfare rappresenta, in questa prospettiva, un vero e proprio “laboratorio di innovazione sociale”. Esso si compone delle iniziative di un variegato insieme di soggetti, tese a definire nuovi processi, modelli e servizi in grado di rispondere ai bisogni della società. All’interno di questa cornice, si segnalano diverse sperimentazioni che testimoniano i processi di innovazione in atto, finalizzati alla definizione di nuove forme di governance pubblica e ad un sempre più marcato coinvolgimento di soggetti del privato for profit e del Terzo settore nel finanziamento e nell’erogazione di servizi e prestazioni. Attori che, se coinvolti e valorizzati ciascuno nel proprio ruolo, sono in grado di elaborare risposte appropriate ed economicamente sostenibili ai differenti bisogni, mobilitando a questo scopo risorse e competenze private e producendo valore per la società nel suo complesso e non per singoli individui. Per i diversi stakeholders, che tradizionalmente hanno operato quasi in isolamento, la sfida è comprendere e sfruttare la rete come valore aggiunto.

Non è tuttavia scontato che tali iniziative, proprio perché di natura sperimentale, si risolvano in vere e proprie innovazioni sociali. Il fallimento è un’opzione possibile: per mancanza di risorse finanziarie nel breve-medio periodo, per le debolezze organizzative, per l’incapacità di creare le necessarie sinergie territoriali con altri soggetti del secondo welfare o perché il processo/servizio/modello si rivela inadeguato a rispondere al bisogno per cui era stato progettato. L’innovazione, infatti, è tale solo se fa emergere soluzioni efficaci e sostenibili, oltre che stabili nel tempo (Murray, Caulier-Grice e Mulgan,

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2010), e questo non è scontato che accada. Per questo è di fondamentale importanza lavorare da subito coinvolgendo i tanti soggetti interessati ad uno specifico tema, creare una rete e avviare azioni di co-progettazione.

Il terzo elemento distintivo è costituito proprio dalla progettazione partecipata50. I servizi che operano nel settore della fragilità e del disagio devono possedere una struttura solida in grado di fornire agli utenti risposte adeguate e coerenti rispetto al bisogno di cui sono portatori. E’ fondamentale stabilire linee di indirizzo e modalità operative strutturate che possano favorire la definizione di percorsi stabili, coerenti e in grado di prendersi cura della persona nella sua globalità. La progettazione è fondamentale in quanto attività attraverso cui si costruisce la struttura portante di un servizio. Progettare significa definire principi e modelli teorici, bisogni, destinatari diretti e indiretti, obiettivi, interventi, modalità di monitoraggio e valutazione. Essa guida l’agire interno di un servizio, favorisce la presa in carico dell’utente e l’elaborazione di risposte coerenti e condivise, permette la valutazione degli interventi e l’eventuale riprogettazione.

La progettazione risponde all’esigenza di fare innovazione attraverso sperimentazioni e verifiche; di introdurre soluzioni improntate ad una maggiore flessibilità; di evitare inadeguatezze, disfunzionalità e sprechi nella gestione/erogazione delle prestazioni; di sviluppare collaborazioni e partnership con altre organizzazioni sulla base di accordi e obiettivi comuni; di sviluppare “lavoro di rete” tra servizi e assessorati; di accedere a nuove risorse finanziarie (tra cui finanziamenti regionali, nazionali, ed europei erogati sulla base di progetti definiti51).

Fare progettazione permette di esplicitare i propri valori di riferimento e di pensare concretamente un servizio, inventarlo, strutturarlo e in seguito renderne possibile la sua realizzazione; implica

50 Sulla progettazione sociale si rimanda, tra gli altri, a Costa (2006) e Torre (2014). 51 Ne è un esempio proprio il progetto “Casa Comune” descritto in questo volume.

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l’analisi dei bisogni e del contesto, la definizione degli obiettivi, la programmazione vera e propria degli interventi. La progettazione si configura come un processo “creativo” che favorisce la trasformazione di un contesto attraverso interventi e strumenti precedentemente pensati, definiti e organizzati. Processo creativo che si attiva a partire dalla rilevazione di una situazione di necessità che dovrebbe portare la rete a “vedere oltre” e a immaginare quanto ancora non esiste o come deve essere modificato ciò che c’è, valutando nuove modalità operative e nuove strategie. Significa creare un nuovo ambiente in grado di accogliere i bisogni di un particolare tipo di utenza e strutturare risposte adeguate attraverso un uso funzionale delle risorse a disposizione52.

La progettazione porta alla trasformazione di un contesto nella misura in cui si effettua una analisi attenta della situazione di partenza e nella misura in cui si coinvolgono gli attori che lavorano sul campo (enti pubblici, operatori, associazioni di volontariato, utenti) per condividere il progetto; si elaborano obiettivi chiari, coerenti e raggiungibili in linea con le reali necessità della comunità e con le risorse a disposizione e si definiscono nel dettaglio le modalità attuative e il ruolo che i partecipanti sono chiamati ad assumere.

Vanno anche definiti momenti e modalità di verifica dell’andamento delle attività e pensati spazi e momenti (periodici) per favorire la

52 Con riferimento alla non autosufficienza, nella progettazione dei servizi ci si confronta sia con bisogni inespressi sia con bisogni espressi da altre figure che si fanno interpreti dell’utente o che sono esse stesse portatrici di bisogni e visioni specifiche (la famiglia in primis, ma anche i servizi e i diversi operatori). La dimensione relazionale gioca una funzione ambivalente e complessa: le dinamiche di relazione tra figli e genitori, ma anche tra famiglia e sistema dei servizi, influenzano fortemente la lettura dei bisogni, ma al tempo stesso non vengono di fatto considerate nella progettazione delle risposte (in termini di servizi). La dimensione della domiciliarità fa emergere l’esigenza di prendere in considerazione tutte le dimensioni della vita dell’anziano, che integrino quindi la presa in carico dei bisogni specifici e specialistici con l’attenzione nei confronti della cura della quotidianità.

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riprogettazione, che non deve essere intesa come un percorso lineare ma come un processo in continua ridefinizione anche sulla base dei cambiamenti osservati nello svolgimento delle attività attraverso interventi e strumenti precedentemente definiti e organizzati, frutto di un lavoro strutturato che procedendo per fasi porta alla definizione di obiettivi e attività necessarie per il loro raggiungimento. Da ultimo sottolineiamo come sia fondamentale coinvolgere coloro che realizzeranno il progetto per ottenere un rimando immediato circa la fattibilità degli interventi pensati e le risorse necessarie per attivarli.

6.4 Il progetto “Casa Comune” come contesto di modellizzazione e sperimentazione di nuove forme di collaborazione pubblico-privato Dopo aver lavorato nel corso del primo anno per raccogliere e

mettere in comune il patrimonio di conoscenze sui bisogni emergenti della popolazione anziana, sui servizi pubblici di sostegno alla domiciliarità presenti sul territorio e sui modelli di governance, partendo dalle buone pratiche e da un’intensa attività di scambio, benchmarking e condivisione dell’esperienza svizzera e italiana, ha preso avvio l’Azione 3 volta a progettare e sperimentare un modello idoneo a fornire interventi personalizzati in risposta ai bisogni di assistenza degli anziani a domicilio, attraverso il coinvolgimento e l’attivazione in rete dei vari soggetti coinvolti. La sezione seguente rilegge quanto realizzato nei due contesti alla luce degli elementi caratterizzanti il paradigma del secondo welfare e mette a confronto due percorsi differenti, accomunati però dall’obiettivo di fondo, la volontà di costruire (o ripensare) la rete multi-attore e fare ricorso allo strumento della progettazione partecipata per ripensare il modello di intervento.

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6.4.1 Il percorso di modellizzazione a Mendrisio

Con riferimento al tavolo sulla modellizzazione degli interventi nel Canton Ticino, il percorso si è articolato in quattro incontri, che si sono svolti tra ottobre 2014 e gennaio 2015 e hanno visto la partecipazione di enti e soggetti che nel territorio si occupano di assistenza agli anziani: oltre ad Opera Prima (che ho promosso e coordinato il tavolo), erano presenti il Dipartimento della Sanità e della Socialità (DSS) del Canton Ticino, il SACD, l’ACD di Mendrisio, l’ABAD di Bellizona, SCUDO, Pro Infirmis, SUPSI, Croce Rossa Ticino, una assistente familiare e una collocatrice di badanti.

L’obiettivo generale del percorso era riflettere sul perché in un sistema articolato come quello ticinese (descritto nella sezione precedente e più diffusamente nel quarto capitolo)53 si sia iniziato a fare ricorso alle prestazioni delle badanti. I partecipanti al tavolo hanno provato a ripensare il modello esistente, a partire da una serie di criticità, riferite in particolare a due dimensioni: come ri-definire la

53 Come abbiamo visto, in Canton Ticino (e in Svizzera in generale) l’intero sistema dei servizi di cura a domicilio si regge già su una complessa partnership pubblico-privato, che da un lato mette in concorrenza i due settori e dall’altro usa il privato sociale per garantire ed erogare servizi a carattere pubblico. Sono del resto delle reti partenariali sia i SACD territoriali sia Opera Prima (uno dei partner del progetto “Casa Comune”), ente privato incaricato della gestione dei servizi ma al tempo stesso associazione che opera in outsourcing ed è partecipata dai SACD (suoi committenti) e dagli enti di supporto (come Pro Senectute o Pro Infirmis) che ricoprono un ruolo fondamentale nella rete. Si tratta di un sistema “integrato” ma non per questo meno funzionale ed efficiente di un modello competitivo, fondato sulla concorrenza tra erogatori e su un sistema di assegnazione degli incarichi attraverso bandi pubblici come avviene in Italia. L’intero sistema si regge su regole, funzioni e ruoli definiti per legge e su una governance che attribuisce al livello cantonale un ruolo strategico di regolazione e coordinamento, ma al contempo fa ricorso a complessi meccanismi negoziali, scritti e non scritti. Un sistema certamente efficiente ed efficace nel suo funzionamento.

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governance di un sistema di servizi di cura a domicilio già ampiamente fondato sulla sussidiarietà; come realizzare una progettazione partecipata e l’implementazione degli interventi a livello locale e in un contesto di prossimità.

La scelta è stata quella di sperimentare in un contesto nuovo il “Problem Based Learning” (PBL), un approccio che mira alla messa a fuoco di un problema e delle sue diverse dimensioni ed interconnessioni e all’identificazione degli aspetti da approfondire e delle conoscenze supplementari da acquisire (cfr. Boud e Feletti 1997). Lo scopo era quello di individuare le condizioni e le opportunità di impiego dell’approccio PBL nella pratica professionale dei partecipanti e al contempo – coinvolgendo tutti i soggetti interessati - sperimentare un approccio multi-stakeholder che favorisse l’attivazione dei diversi attori nell’analisi dei bisogni e delle possibili risposte per arrivare alla messa a punto, attraverso il confronto, di risposte collettive, negoziate e condivise.

In generale dalla discussione è emerso che prevale ancora, nella costruzione delle relazioni tra servizi e utenti, una rappresentazione della famiglia di tipo tradizionale, che non corrisponde più alla realtà; che nell’immaginare i bisogni degli utenti si parte dalle esperienze ed esigenze personali e si finisce per proiettare i bisogni personali più che individuare quelli del sistema-utente; che la transizione dalla presa in carico familiare dei bisogni nelle diverse fasi di vita a una presa in carico collettiva richiede risposte condivise e quindi il ricorso da un metodo partecipato di progettazione sociale. Un approccio che permetta di andare oltre la costruzione “dall’alto” del modello di intervento e favorisca l’avvio di un processo di rinegoziazione dei ruoli e di effettiva costruzione di una rete innovativa di presa in carico.

Oltre a definire e condividere gli snodi critici, il percorso partecipato ha consentito di condividere i passaggi attraverso i quali giungere alla formulazione di un impostazione dei servizi che, pur valorizzando gli aspetti positivi ed efficaci del modello attuale, consenta di ripensare i

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servizi in essere e introdurre soluzioni innovative che rispondano alle sfide emergenti, passando da una logica della prestazione (che aggiunge sempre nuovi interventi in risposta a nuove domande) ad una della promozione, che immagina soluzioni creative, basate sul rafforzamento dell’autonomia dei soggetti e sull’attivazione integrata di tutte le risorse disponibili, dal livello istituzionale e territoriale macro a quello micro.

Nella progettazione partecipata di un modello innovativo di cura dell’anziano (in cui la famiglia attiva risorse esterne) le collaboratrici familiari rispondono a bisogni non coperti, di tipo relazionale-affettivo, dando un nuovo significato al contesto di vita dell’anziano, prevenendo così la sua fragilizzazione. Per questo è necessario ripensare le modalità di intervento, superando la logica degli interventi frammentati e specialistici passando dall’aiuto domestico al sostegno alla quotidianità. A questo fine va ripensata la figura professionale delle collaboratrici familiari, a partire dalla loro formazione, dal riconoscimento del ruolo, dalla diversificazione delle modalità di prestazione (superamento della sola modalità di assistenza domestica 24 ore su 24, co-residente) e dalla definizione/costruzione di agenzie d’appoggio. E’ anche necessario ridefinire la logica di intervento, tenendo conto di tre diversi livelli di progettazione: macro (dove si definiscono le politiche e le strategie di lungo periodo), meso (dove si realizza l’implementazione grazie al coinvolgimento di tutti gli stakeholder), micro (dove vanno sviluppati i progetti personalizzati di mantenimento dell’anziano a domicilio).

Il tavolo ha anche individuato e condiviso gli approcci a cui si deve ispirare, in futuro, la progettazione sociale: i) un approccio multi-dimensionale per reinterpretare l’invecchiamento come una fase del ciclo di vita in cui assumono rilevanza sia gli aspetti sanitari che quelli relazionali e sociali e per ripensare l’universalità dell’intervento passando dall’applicazione di interventi standard alla costruzione di progetti personalizzati; ii) un approccio multi-attore che riconosce che nella cura a domicilio intervengono una pluralità di soggetti che hanno

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bisogno di luoghi di incontro, tavoli di progettazione e di negoziazione per rendere il loro intervento complementare; iii) un approccio capacitante che dia a tutti i soggetti coinvolti (operatori dei servizi, collaboratrici familiari, famiglie, vicini, volontari) gli strumenti per affrontare le più diverse situazioni connesse alla cura di persone non autosufficenti piuttosto che offrire soluzioni pre-definite e standardizzate.

Con riferimento al nuovo modello di intervento e alla sinergia tra i livelli istituzionali e gli attori che li abitano il percorso partecipato ha permesso di identificare le funzioni chiave di ciascun livello e di ciascun attore. A livello macro si stabiliscono le linee guida che fissano i paletti dell’intervento, dettate dalle scelte politiche strategiche del Cantone in materia di spesa pubblica e di fondi stanziabili, oltre che da una macro-diagnosi dei bisogni e delle risorse disponibili. Strategica è la mappatura dei bisogni basata sulla rilevazione dei fattori di fragilità, e rivolta all’intera popolazione anziana e alle famiglie, in modo da cogliere non solo la realtà dell’utenza che si rivolge ai servizi ma anche gli anziani seguiti dai familiari o dai servizi privati. Parallelamente si tratta di mappare le risorse presenti e attive sul territorio. Il concetto di sussidiarietà va riletto tenendo conto dei cambiamenti che stanno interessando le famiglie, maggiormente propense a delegare la cura dell’anziano, e dell’espansione di un’offerta privata di servizi.

A livello meso ci si deve preoccupare dell’implementazione degli interventi, ma questo implica un lavoro di regia e di progettazione sociale fine, di prossimità, che deve mirare alla mobilitazione coordinata delle risorse (la rete) in una logica di negoziazione tra bisogni e possibilità. A questo livello si realizza una conoscenza precisa e aggiornata del territorio, dei rischi di fragilità e delle risorse per affrontarli, garantita dalla vicinanza e dalla possibilità di aprire tavoli di progettazione multi-attori che includano anche le collaboratrici domestiche; la partecipazione porta all’attivazione dei soggetti e quindi sollecita il lavoro in rete e la capacitazione.

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A livello micro deve avvenire la definizione del progetto di intervento personalizzato, che implica il coinvolgimento presso il contesto di vita dell’anziano dell’insieme degli attori chiamati a intervenire: dalla famiglia agli operatori socio-sanitari, dalle collaboratrici familiari ai volontari. Si tratta di dar vita ad una ulteriore rete coordinata da una figura che abbia anche competenze di mediazione per poter coinvolgere tutti i soggetti e mettere in campo risposte flessibile e al tempo stesso adeguate ai bisogni. Attivare un processo partecipativo di progettazione sociale rende possibile ripensare l’intervento sociale assieme ai cittadini incentivando sempre di più il ricorso a tavoli multi-attore come quello sperimentato dentro il progetto “Casa Comune”.

In Canton Ticino l’obiettivo era quindi diverso da quanto previsto nel caso di Novara. Si trattava di rimettere in gioco la partnership esistente, “aprirla” al confronto, decodificarla nei suoi meccanismi, renderla trasparente, renderla più flessibile, più capace di rispondere a bisogni nuovi, non coperti dalle prestazioni esistenti, seguendo la logica della promozione sociale. Il tavolo di modellizzazione, ricorrendo all’approccio del “Problem Based Learning”, ha esattamente permesso di raggiungere questo traguardo e per questo va considerato positivamente. Ha portato a rileggere le posizioni, ha permesso di rendere visibili gli attori invisibili (in primo luogo le badanti), ha permesso di definire un modello potenzialmente nuovo di programmazione, ha prodotto un risultato – a detta di chi vi ha preso parte - concreto: includere al tavolo della progettazione sono solo enti pubblici ma anche altri stakeholder riconoscendo il valore aggiunto offerta dalla partecipazione di nuovi attori54.

54 Accanto a questo non va poi dimenticato che si è potuti giungere anche all’approvazione di un regolamento per la qualifica delle collaboratrici familiari, che ha permesso di avviare un percorso di formazione con un primo gruppo di collaboratrici familiari nel mese di luglio e un secondo gruppo da settembre 2015.

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6.4.2 Il tavolo di progettazione partecipata per una nuova governance multi-attore a Novara

Il secondo anno del progetto “Casa Comune” è stato ampiamente

dedicato, in primo luogo e nel breve periodo, alla co-progettazione partecipata di alcuni “interventi” in grado di far incontrare e collaborare soggetti pubblici e non pubblici a vario titolo impegnati nelle cure a domicilio per favorire – in secondo luogo e come obiettivo di lungo periodo - la costruzione di una governance integrata delle cure a domicilio a livello cittadino. Si è trattato delle fondamenta di un “ponte” in grado di aprire una via innovativa di ridefinizione dell’azione sociale improntata appunto al paradigma del secondo welfare.

L’Azione 3 doveva rappresentare la sede per costruire, in modo partecipato, un modello di governance e di gestione dell’assistenza domiciliare sul territorio e un luogo di riflessione su possibili misure innovative rivolte agli attori chiamati ad operare all’interno del nuovo modello: responsabili e operatori dei Servizi pubblici, assistenti familiari, care-giver e care-manager familiari, associazioni del volontariato e la comunità nel suo complesso. Sono stati dunque immaginati due percorsi, uno incentrato sui temi della governance e l’altro su quello delle competenze delle due figure professionali coinvolte, le OSS e le assistenti familiari55.

Con riferimento al primo dei due percorsi, dall’autunno del 2014 i protagonisti a vario titolo coinvolti nell’assistenza agli anziani e già attivi nel territorio sono stati impegnati nella definizione di un modello di governance per la gestione degli interventi. A novembre è stato costituito il tavolo multi-attore dal quale sono poi originati, da gennaio 2015, tre sotto-tavoli di lavoro. Per la realizzazione dell’Azione 3 si è scelto di individuare un facilitatore “esterno” in grado di coordinare il

55 Sul secondo percorso si rimanda al contributo di Giuseppe Porzio nel capitolo 9 di questo volume.

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gruppo e favorire la sperimentazione di un percorso di progettazione partecipata. L’obiettivo principale era quello di definire una nuova modalità di lavoro in grado di mettere in rete i diversi soggetti che intervengono nell’assistenza domiciliare all’anziano. I soggetti che hanno preso parte agli incontri previsti sono stati – oltre al Comune di Novara – Filos, la Cooperativa Nuova Assistenza, le assistenti sociali del SAD, rappresentanti della Asl, il Centro di ascolto Caritas, la Cooperativa Vedogiovane, la Comunità di Sant’Egidio, il Centro Servizi per il Volontariato (CSV).

A fronte di un contesto ricco di esperienze positive nel settore dei servizi alla domiciliarità sia sul versante pubblico sia su quello privato, è stato evidenziato come l’insieme dei soggetti operi in modo indipendente e scarsamente coordinato. In secondo luogo è emerso come la famiglia continui ad essere l’elemento centrale su cui si basa il sistema di cura degli anziani a domicilio, famiglia che tuttavia si ritrova sola quando si tratta di affrontare l’emergenza determinata dall’insorgere di uno stato di non autosufficienza. E proprio le famiglie novaresi hanno apertamente chiesto informazioni certe, chiare e accessibili rispetto alle opportunità offerte dalla rete territoriale dei servizi pubblici, privati, del privato sociale a sostegno della decisione di mantenere al domicilio l’anziano non autosufficiente; rapidità di risposta, a maggior ragione nei casi di emergenza; servizi flessibili e dove necessario anche “personalizzati”, oltre che facilmente accessibili.

Per provare a rispondere a queste richieste dalla riflessione condivisa tra i diversi soggetti seduti al tavolo sono scaturite inizialmente due proposte concrete: da un lato la costruzione di un portale informativo per il reperimento rapido ed efficace delle informazioni sui servizi a disposizione del territorio, dall’altro la creazione di un punto informativo e orientativo sulla domiciliarità che venisse a colmare il vuoto costituito dall’assenza di uno sportello sociale unico Comune-Asl (presente invece in altre province piemontesi). Proprio per perseguire entrambi gli obiettivi si è deciso di articolare il percorso in due sotto-

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tavoli che hanno operato, da gennaio a giugno 2015, separatamente ma anche in modo sinergico e coordinato56. Anche perché da subito si è immaginato che il Portale dovesse servire prima di tutto agli operatori e quindi essere funzionale al lavoro svolto all’interno del punto informativo57. Il sotto-tavolo che si è dedicato al Portale ha visto in particolare il coinvolgimento delle associazioni di volontariato che si occupano di anziani, favorendo così un allargamento della rete rispetto a quanto immaginato inizialmente.

Il sotto-tavolo che si è dedicato alla costituzione del punto informativo ha viceversa operato in modo più ristretto e mirato coinvolgendo in particolare il Comune e la Asl (e da un certo punto in poi includendo anche un rappresentante dell’Azienda ospedaliera) per poter individuare le condizioni per l’apertura del punto di incontro tra bisogni-utenti e servizi e poter lavorare alla stesura di un protocollo d’intesa che definisse funzioni, ruoli, modalità operative e organizzative di funzionamento di quello che ad un certo punto è stato chiamato “Spazio Anziani”. L’ampio coinvolgimento delle associazioni di volontariato nella costruzione del Portale (ma anche – come verrà ripreso fra poco – in un percorso di formazione ad esse dedicato) ha fatto sì che una volta definiti i contenuti del Protocollo d’intesa questo venisse sottoposto all’attenzione delle stesse associazioni di volontariato affinché potessero a loro volta sottoscriverlo. I continui momenti di contatto e collaborazione hanno così favorito l’emergere di

56 Gli incontri si sono svolti sempre nello stesso giorno e al termine dei lavori è stato sempre previsto un momento finale di condivisione dei risultati e individuazione delle possibili azioni sinergiche da mettere in campo. 57 Come illustrato più nel dettaglio nel capitolo 8 di questo volume, attraverso la consultazione del Portale, ciascun operatore è messo in grado di fornire alle famiglie un quadro chiaro dei servizi attualmente disponibili sul territorio del Comune di Novara. Sul portale sono presenti le schede informative di tutti i soggetti del privato sociale e del volontariato che hanno partecipato alla creazione del Portale. Nelle intenzioni, questa sezione dovrà essere arricchita con le schede relative ai nuovi soggetti che nei prossimi mesi vorranno essere coinvolti nonché con quelle relative ai progetti che prenderanno vita grazie all'attività del “Tavolo Anziani”.

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soluzioni che inizialmente non erano state previste e che sono andate ben oltre il contributo alla creazione del Portale: da un lato che le associazioni di volontariato sotto-scrivessero il Protocollo e dall’altro che si dichiarassero disposte a co-gestire il punto informativo.

Nella fase di sperimentazione, che prenderà il via dall’autunno 2015, lo Spazio Anziani sarà presidiato dalle due figure professionali incaricate del servizio da parte del Comune di Novara e dalla Asl affiancate da un volontario appartenente a una delle organizzazioni firmatarie del Protocollo d’intesa; la presa in carico della domanda avverrà in maniera coordinata tra operatrici/ori professionali e volontari/e. In sede di primo colloquio, condotto dalle operatrici professionali, il volontario avrà il ruolo di osservatore, mentre sarà suo compito l'organizzazione dei dati della storia dell'utente secondo una scheda che, in forma narrativa, costituisce lo strumento finalizzato a realizzare l'attività di osservatorio dei soggetti che si rivolgeranno allo Spazio Anziani. E’ stata ipotizza una rotazione quindicinale/mensile dei volontari per garantire un lasso di tempo adeguato al consolidamento delle competenze necessarie (soprattutto per coloro che non hanno esperienza nell'ambito specifico delle attività dello Spazio Anziani) e verrà anche predisposta una formazione sul campo per il rafforzamento delle competenze che potrà ulteriormente favorire un’occasione di conoscenza reciproca tra le due figure professionali e i volontari.

Dal percorso di progettazione partecipata è però emerso anche un terzo risultato: la costituzioni di un “Tavolo anziani” destinato a favorire la collaborazione continuativa tra gli operatori volontari e le figure professionali che si occupano di anziani. Hanno contribuito alla costituzione di questo tavolo i due percorsi formativi realizzati tra marzo e giugno 2015, che hanno appunto visto coinvolti sia gli operatori volontari sia quelli professionali. Le sfide poste da questi due percorsi erano decisamente impegnative. Si trattava, infatti, di dare forma ad un “mandato” molto astratto con ampi margini di ambiguità: da un lato comprendere e tradurre nella pratica i principi posti alla base

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del nuovo modello di governance per il sostegno alla domiciliarità; dall’altro gettare le basi per una conoscenza reciproca, per costruire una vera rete multi-attore in grado di operare in modo sinergico.

I due gruppi coinvolti erano composti rispettivamente da figure professionali (assistenti sociali) appartenenti a Comune di Novara, Asl, Azienda Ospedaliera, e da rappresentanti delle organizzazioni di volontariato e del terzo settore. L'equipe multi-professionale si è incontrata sei volte, i volontari sette: in due occasioni (a metà circa del percorso e per l'incontro di chiusura) gli incontri si sono svolti in plenaria. I gruppi hanno funzionato come momenti di conoscenza e riconoscimento reciproco, legittimazione, ascolto ma allo stesso tempo anche come spazi di elaborazione di contenuti e sperimentazione di approcci innovativi. Le diversità (di esperienze e di competenze) si sono confrontate all'interno di una reale attività di co-progettazione di strumenti utili a risolvere i nodi problematici posti dal mutamento di prospettiva (come descritto nell’ottavo capitolo). E' apparsa dunque con chiarezza ai protagonisti la necessità di costruire ponti, collegamenti, connessioni non solo tra i due gruppi, ma con tutti gli attori coinvolti nel progetto “Casa Comune”, sopratutto per riuscire a dare continuità ai risultati del progetto anche oltre la sua conclusione. Si è lavorato molto per la costruzione di legami stabili all'interno e tra i gruppi. Grazie ad un atteggiamento di ascolto reciproco, il percorso di formazione ha rappresentato un punto di partenza e non di arrivo. E’ stato infatti possibile costituire un “Tavolo anziani” e - a fronte della disponibilità a proseguire con il percorso - si è deciso di mantenere un appuntamento mensile di incontro con lo scopo di immaginare e costruire percorsi innovativi che vedano al centro dell’azione sociale gli anziani e i loro nuovi bisogni.

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6.5 Riflessioni conclusive Di fronte alle trasformazioni demografiche, al progressivo

invecchiamento della popolazione e alla crescita del rischio di non autosufficienza con l’avanzare della quarta età, gli enti locali sono chiamati a elaborare nel tempo risposte innovative ed efficaci in grado di contare sul sostegno diffuso della comunità locale. Gli attori che oggi operano in questo settore non sono necessariamente soggetti “nuovi”, ma è certamente nuovo il modello di governance che dovrà sempre più rapidamente essere adottato: sostanzialmente aperto al contributo di tutti i diversi stakeholder, pur all’interno di una forte strutturazione istituzionale, e con una vocazione all’ancoraggio territoriale. Indirizzato alla messa in campo di soluzioni innovative sotto il profilo sociale, a partire dalla scelta strategica di una progettazione partecipata degli interventi da sperimentare (e auspicabilmente adottare nel medio-lungo periodo).

Il percorso di modellizzazione intrapreso in Canton Ticino e la costituzione di un tavolo di progettazione partecipata (e gli esiti che ne sono scaturiti) possono essere interpretati e apprezzati attraverso il nuovo paradigma del secondo welfare. In entrambi i casi si è arrivati alla definizione di modelli di governance innovativi e più funzionali e, al tempo stesso, alla progettazione congiunta (pubblico/privata) di interventi che mirano a coniugare le mutevoli esigenze di cura dell’anziano a domicilio.

La capacità di promuovere partnership complesse si rivela essere decisiva per il rafforzamento delle reti multi-attore a livello territoriale. La governance diventa così uno strumento importante per la coesione sociale dentro la comunità perché permette una maggiore integrazione tra i diversi interessi attraverso accordi e collaborazioni tra soggetti istituzionali e i diversi stakeholder. Il partenariato va considerato l’aspetto operativo e organizzativo della governance e si realizza attraverso il coinvolgimento di attori individuali appartenenti a diversi

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contesti. La collaborazione tra soggetti istituzionali e privati è alla base delle politiche di governance che si avvalgono del partenariato, strumento che consiste nella libera collaborazione tra partner, che non sono gerarchicamente ordinati, per il raggiungimento di obiettivi comuni. E’ poi confermata l’importanza, in questi nuovi modelli di governance, della capacità dei decisori pubblici di leggere gli interessi in campo, non necessariamente convergenti ma che possono diventare sinergici. In questo senso la capacità di dialogare con gli stakeholder e di progettare interventi integrati senza mai perdere di vista l’interesse comune, è la vera grande sfida che attende tutti i potenziali soggetti intenzionati a mettersi in gioco.

Attraverso il progetto “Casa Comune”, così come si è articolato nel corso del biennio e in particolare con riferimento all’Azione 3 di riprogettazione degli interventi di cura per la domiciliarità, si è anche contribuito a raggiungere su entrambi i territori coinvolti (e nonostante le differenze di contesto) un fondamentale risultato sotto il profilo culturale. Si è sperimentato e dimostrato che si può lavorare e collaborare in modo diverso tra partner portatori di interessi differenti e potenzialmente confliggenti, sedendo tutti attorno a un tavolo, per rispondere in modo innovativo a bisogni, in parte nuovi, in parte esistenti ma difficili da affrontare con gli strumenti e gli approcci tradizionali. Puntare ad una nuova governance attraverso un percorso di co-progettazione partecipata non solo sembra possibile ma ha permesso di gettare le fondamenta di un “ponte” che auspicabilmente potrà aprire la strada verso un modello di welfare rinnovato e incentrato sulla promozione sociale. Un modello che contribuisca anche al ripensamento delle dinamiche relazionali di prossimità dentro le comunità, mettendo al centro le persone e i loro bisogni, evitando il rischio che prevalga un’offerta di servizi non attenta alla qualità.

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7.

Partecipare per progettare: un laboratorio di pratica riflessiva in Ticino

di Sara Riggio e Chiara Vanetti 7.1 Introduzione A Smeraldina, la città acquatica, un reticolo di canali e un reticolo di strade si sovrappongono e si intersecano. Per andare da un posto ad un altro hai sempre la scelta tra il percorso terrestre e quello in barca. E poiché la linea più breve tra due punti, a Smeraldina, non è una retta ma uno zig-zag che si ramifica in tortuose varianti, le vie che si aprono ad ogni passante non sono soltanto due ma molte, e ancora aumentano per chi alterna traghetti in barca e trasbordi all’asciutto…. Italo Calvino, Le città invisibili In conseguenza alle mutate condizioni socioeconomiche dei territori

ed al cambiamento epocale dei cicli di vita, ci dobbiamo interrogare sulla adeguatezza dei nostri servizi di cura ad offrire risposte ai diritti, ai bisogni ed ai desideri dei più fragili tra noi. Passando dalla patologia al disagio, dalla malattia alla difficoltà di crescere, allevare, invecchiare, dalla acuzia alla crisi, l’utenza si è profondamente trasformata, variegata, segmentata. Cambiano i luoghi, i tempi, le pratiche: dall’Asylums, che garantiva gli operatori e i loro saperi, ci dobbiamo spostare nelle prossimità delle case, bussando ad un privato di infinite differenti culture, storie, abitudini. E da quell’unica cura specialistica dei protocolli e degli standard, dobbiamo ora derivare

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nuove sapienze per prenderci cura di ognuno ed ognuna di loro, persone bambine, anziane, o solo povere e smarrite. Cominciando col rivedere i castelli di certezze costruiti in questi anni insieme a quelle donne e quegli uomini che questo lavoro lo stanno già facendo, da tempo, nei nostri territori.

7.2 Di cosa si parla: l’esperienza dei tavoli di modellizzazione a Lugano, ottobre 2014/ gennaio 2015

7.2.1 Da dove siamo partiti

Il progetto transfrontaliero, promosso nel contesto del programma Interreg Italia – Svizzera, offriva l’opportunità a contesti di servizi alla persona territorialmente vicini ma culturalmente distanti, di confrontarsi, rivedersi, e possibilmente ripensarsi, in relazione allo scambio di sguardi, esperienze, riflessioni e pratiche. Dalle differenti culture dei territori, oltre che dalle loro condizioni economico-sociali, erano nati approcci e politiche di servizi alla persona molto diversi e proprio a partire dal confronto di questi sistemi di cura, nel reciproco di-spiegarsi all’altro, era possibile per ciascuno rintracciare i propri presupposti concettuali, metodologici, operativi di ideazione del disegno e di costruzione degli interventi. E guardando a quel disegno, fatta salva una trama di sistema certamente molto differente tra Italia e Svizzera (vedi i contributi dedicati ai due sistemi in questo stesso volume), il progetto Casa Comune consentiva di evidenziare l’ordito di quella trama, come, perché e per chi era stato costruito quel disegno. Potevamo così leggere ‘l’altro‘ a partire da noi, e quindi rivedere i nostri servizi con uno sguardo ‘fuori di noi’.

Questo confronto era favorito certo dalla relativa vicinanza dei territori, ma era soprattutto garantito dalla loro distanza economico-culturale, in un clima quindi di reciproco confronto al riparo da ogni possibile atteggiamento difensivo. Il progetto Interreg costituiva così un

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contesto neutro, una tempo di revisione di quanto dato per scontato, un luogo di espressione per tutti a pari dignità, la Casa comune, in cui riconsiderare le proprie ed altrui pratiche e rivederne con più chiarezza i presupposti.

È proprio all’interno di questo contesto allargato di scambio di sguardi tra regioni e sistemi e grazie a questa epochè del giudizio e della ricerca assolutoria del giusto modello, che è nato il nostro tavolo di progettazione partecipata, un laboratorio di riflessione e confronto tra tutti gli attori che lavorano a diversi livelli nello stesso territorio, il Ticino, e con lo stesso obiettivo, il mantenimento a domicilio dell’anziano. Un tavolo che ha visto insieme a pensare e raccontarsi, persone e servizi che quotidianamente si incontrano dentro e fuori gli uffici, le case, le relazioni. Persone, prima che competenze, saperi e responsabilità, che indagassero quello che quotidianamente fanno, nell’agiata situazione di un territorio che molto può fare, smontando il proprio pezzo di un ingranaggio, quello svizzero, ben costruito ed oliato, per rivederlo nella sua singolarità, ma anche nella sua complementarietà al sistema.

Siamo partiti dalle certezze da cui è nata la pianificazione dei servizi a domicilio, oggi consolidata ed efficiente, per permetterci un dubbio, considerare un imbarazzo crescente in questi ultimi anni: la presenza nel sistema di una figura non prevista nei programmi e non codificata nella rete. La badante, le badanti, sempre più numerose nelle case dell’anziano ma assenti nelle mappe, costituiscono un elemento imprevisto, che ci dis-turba, ci interroga rispetto alla nostra efficacia a rispondere veramente ai bisogni dell’utenza, ci pone un dubbio di ricerca. Esse, infatti, costituiscono anche, per la nostra rete, una presenza di fatto misconosciuta, una voce inascoltata, un lavoro nell’ombra, un prezioso sapere esperienziale, quindi, che va quotidianamente perduto.

Siamo partiti da qui, da un ‘non detto’ del nostro sistema, per provare a ’dire’, a conoscere e riconoscere il fenomeno della presenza

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crescente di badanti in Ticino58, per capire quali, quanti e di che natura siano i bisogni cui questo esercito di donne migranti risponde, in che situazioni di garanzia per loro e per i nostri anziani, con che possibili vantaggi per la rete. Cominciando ad includerle al tavolo.

7.2.2 Dove siamo arrivati

Il lavoro del tavolo di modellizzazione ha permesso di uscire da questo imbarazzo del misconoscimento con un doppio guadagno in conoscenza: riconoscere le badanti come lavoratrici di cura nelle case degli anziani ticinesi in grado di rispondere a bisogni nuovi, ha significato riconoscere anche questi bisogni, fino ad allora imprevisti nella logica della prestazione e protezione del sistema di cura domiciliare.

Il risultato quindi è stato il passaggio dalla concezione dell’intervento parcellizzato (assistenziale o di aiuto domestico) alla presa in carico olistica dell'anziano e di tutti i suoi bisogni, la maggior parte dei quali non rubricabili in queste due categorie, né forse in alcuna categorizzazione.

Questa ricollocazione simbolica ha reso evidente che le prestazioni separate e specializzate, per quanto numerose e efficaci, non erano sufficienti ed efficienti per mantenere il benessere ed il ben-stare dell’anziano a casa sua; quindi si rendeva necessario aprire il sistema a nuovi attori ed a nuove geometrie, possibilmente più variabili, come variabile è la condizione dell’anziano mano a mano il tempo passa. Ciò ha messo in discussione anche la logica e quindi l'impalcatura progettuale del servizio a domicilio,basato in prevalenza sui principi di prevedibilità (della prestazione), regolarità (della richiesta), stabilità

58 Il contributo di Paola Quadri al capitolo 4 permette di accedere ai dati delle recenti ricerche condotte localmente sul fenomeno della migrazione transnazionale nel lavoro di cura.

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(del bisogno), presupposti di natura meccanicistica che configurano una crescita solo per addizione: più prestazioni a fronte di maggiori richieste per nuovi bisogni .Ma questo approccio già si rivelava disfunzionale, soprattutto dal punto di vista economico, oltre che per gli aspetti organizzativi-gestionali se si pensa alla copertura delle ventiquattrore o agli interventi da effettuare in luoghi molto lontani sul territorio.

Così, partendo dalla badante e dalla sua contraddittoria presenza-assenza nella rete dei servizi, e lavorando con approccio sistemico, siamo arrivati a rivedere le contraddizioni della rete stessa, i suoi buchi ma anche i suoi nodi ben saldi, cosa tenere, cosa buttare e cosa trasformare per immaginare un modello differente di progettazione degli interventi in chiave di promozione.

7.3 Come se ne parla: l’approccio narrativo riflessivo

Questo risultato si è raggiunto passando da traguardi intermedi di

conoscenza, consapevolezza ed anche di piccoli cambiamenti operativi, che cerchiamo di raccontare in questo contributo suddividendo il processo nei quattro incontri in presenza del tavolo, pur sapendo che in questi percorsi non c’è discontinuità tra il lavoro personale, riflessivo e quello relazionale di confronto e scambio e che la riprogettazione di sé nel proprio lavoro parte sempre da istanze individuali ed immaginative per tradursi in disegni e piani collettivi e progettuali.

Abbiamo scelto una restituzione narrativo-riflessiva per rendere partecipe a quel nostro tavolo chi ora legge, mettendogli a disposizione le carte su cui abbiamo lavorato (nei link di approfondimento) ma anche le nostre riflessioni, gli strumenti, i metodi, ripercorrendo ancora una volta quanto detto e fatto con la scrittura che lo renda testo. Narrare per iscritto è un buon modo, infatti, per uscire dal proprio contesto, per riflettere e far riflettere sulle proprie esperienze nel sottoporle ad altri sguardi, ad altre letture.

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7.4 Come si legge: i tre livelli della proposta ai tavoli e di lettura

− Il tavolo come spazio tempo reale (cosa si è fatto) − Il tavolo come luogo simbolico (perché si è fatto) − Il tavolo come contesto di relazioni e apprendimenti (come si è

fatto)

La progettazione partecipata è sia un contesto reale, conviviale, di incontro e scambio, sia un luogo simbolico di riflessione ed ideazione, sia infine un vero e proprio ‘tavolo di lavoro’ per la costruzione di significati e servizi.

Il percorso di modellizzazione a Lugano ha invitato differenti figure professionali che si occupano di servizi domiciliari nella terza età a queste sfide, sedendosi con pari dignità ad uno stesso tavolo per riflettere sul proprio lavoro ed eventualmente ripensarlo allo luce degli scambi di sguardi intercorsi nel progetto Interreg con la provincia di Novara. La presenza, la volontà di esserci, al/ai tavolo/i, era quindi subordinata a queste condizioni: la disponibilità a mettersi in gioco, il desiderio di scambiare in un’ottica di apprendimento reciproco, l’attitudine ad ascoltare in una relazione non gerarchica con l’altro, la capacità di immaginare, la tolleranza alla perdita, il piacere di lasciarsi stupire, la voglia di costruire.

Il contesto svizzero era culturalmente assai favorevole ad una dinamica progettuale in cui si confrontano le rappresentanze degli interessi. Simili procedure caratterizzano il modo in cui nel paese della democrazia diretta si disegnano leggi e regolamenti, quindi non è stato difficile lavorare fattivamente con modalità interattive fin dal primo incontro. Ma la natura della partecipazione stavolta era diversa, tanto che alcuni invitati hanno dimostrato da subito una certa resistenza all’ascolto non gerarchico ed al sovvertimento immaginativo, e quindi creativo, dell’ordine del discorso e delle cose; da subito, quindi, il

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gruppo si è autodefinito per chi voleva stare in questo percorso; e vi ha partecipato fino alla fine.

Tutto ciò che veniva proposto alla discussione, come già accennato, trovava la sua giustificazione nell’idea di un tavolo progettuale anche di natura simbolica dove si potesse partire da qualsivoglia piccola, quotidiana, routinaria pratica del proprio lavoro nei servizi per rintracciarne il senso, la logica, i presupposti, gli atteggiamenti nel disegno più generale dell’idea di cura, e viceversa.

Non era quindi importante di cosa si parlasse (il testo ed il suo lessico), ma il contesto di senso nel quale ogni gesto di cura diventa significativo per quella persona, in quella cultura ed in quella relazione. Il testo diventava quindi pretesto (e viceversa) per comprendere la grammatica (impalcatura gerarchica) e la sintassi (sistema organizzativo) che informava quel gesto, quella prestazione, quel servizio, quella politica. Ed il testo/racconto reale di qualunque attore presente al tavolo, riproduceva così nel piccolo il disegno simbolico dei significati sottointesi, il suo contesto, che era poi quello di tutti i presenti.

Per far questo abbiamo utilizzato l’approccio d’indagine fenomenologica delle scienze sociali (cosa succede qui?) che interroga prima la realtà quotidiana dei nostri servizi, anziché gli eventi festivi e le intenzionalità, per poi metterla in relazione ai pensieri e ai vissuti emotivi che l’hanno costruita e l’agiscono per come è nel qui ed ora dell’intervento.

Infine, per mantenere aperto e sereno lo scambio al tavolo, è stata necessaria una particolare cura del contesto relazionale e del clima, mantenendo il filo tra i partecipanti anche negli intervalli tra gli incontri in presenza e modulando la conduzione per garantire quel luogo neutro e non giudicante dove ognuno si sentisse accolto e riconosciuto per quello che era e che faceva59.

59Cfr. Daniela Scrittore, Pratiche sociali oltre la soglia dei servizi. Il metodo di lavoro 173

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Creare contesti allargati di narrazione, riflessione e scambio sulle

proprie esperienze,(…), ha consentito e consente di significare autonomamente successi e scacchi del proprio lavoro, di trovare l’autorizzazione a fidarsi del proprio sentire, e a partire da qui, accrescere i propri livelli di consapevolezza e di conoscenza, riposizionandosi se necessario: in definitiva guadagnare sapere dalle pratiche, un sapere contestuale, anche teorico ma non astratto,da mettere nel mondo. Rendere anche possibile il passaggio dal sapere dell’esperienza all’esperienza di sapere, accrescendo la competenza simbolica.60

Anna Maria Piussi, Oltre l’uguaglianza farsi passaggio, in Duccio Demetrio, Con voce diversa, p.216

7.5 1° Incontro: definire il frame

La civiltà si cristallizza nella monocultura e si prepara a produrre la civiltà di massa, come le barbabietole; C.Lévi Strauss

con i tavoli di quartiere a Reggio Emilia, in Animazione Sociale, inserto,Ottobre 2013. L’articolo è disponibile cliccando sulla nota.

Pretesto:definizioni dei bisogni e delle risorse che concorrono alla proposta dell’ intervento domiciliare. Domanda esplicita: quali sono i bisogni cui risponde la nostra rete di servizi? Obiettivo dichiarato: inventario dei bisogni/risorse di ogni partecipante al tavolo (del suo ente/servizio/associazione/altro) nella definizione dell’intervento domiciliare all’anziano

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Al primo incontro del tavolo erano presenti tredici persone,

proveniente ciascuna da diversi contesti professionali ed in rappresentanza quindi del proprio livello di responsabilità, dei propri saperi, del proprio ruolo e pratiche. Tutti costituivano un nodo significativo nella rete dei servizi di cura domiciliare all’anziano e si erano dati appuntamento per interrogarsi congiuntamente sui bisogni e le risorse del sistema di assistenza e cura del loro territorio.

L’obiettivo manifesto è stato subito esplicitato in apertura di lavori, come sono stati chiariti i termini generali del percorso (come sopra esposti), senza però soffermarsi particolarmente poiché, nei fatti, la costruzione di un tavolo di progettazione non si concorda a parole e nell’‘a priori’ ma si costruisce via via tra chi accetta di compartecipare, sceglie di restare, si mette in discussione, dà il suo pezzo di ideazione.

La domanda stimolo per suscitare la riflessione dei presenti interrogava il loro quotidiano professionale, rispetto ai bisogni cui intendevano rispondere, ed alla eventuale classificazione di questi bisogni in base ad una scala di priorità (o di legittimità) nel caso le risorse a disposizione non fossero sufficienti.

Fin dal primo intervento, l’anziano sparì dalla scena per lasciar subito posto al familiare, il bisogno del familiare, le sue richieste legittime e non, la sua richiesta d’intervento e di auto, le sue ambivalenze nel chiedere e dare, le risorse (tempo e denari) che ci metteva la famiglia e, in conseguenza al principio di sussidiarietà, quello, il territorio di bisogno scoperto, su cui interveniva il servizio.

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Ma quel familiare risultava una figura carica di proiezioni, apparteneva ad una famiglia ideale, non più così presente sul territorio, una immagine investita di aspettative, giudizi, contraddizioni.

Come ipotizzato, entrando nelle narrazioni del quotidiano lavoro di cura dei protagonisti dei servizi, questo diventava molto meno standardizzato e conosciuto di quanto si potesse presumere, cambiavano gli scenari, si ridefinivano attori e comparse e subito affioravano logiche ed illogici non così codificati, né forse codificabili, sui quali valeva la pena soffermarsi.

Eravamo già in quello iato, cresciuto in questi ultimi anni, tra l’immagine dell’anziano e dei suoi bisogni, della famiglia e delle sue risorse di cura sulla quale abbiamo impostato la nostra strategia di servizi, abbiamo preventivato i nostri budget, abbiamo formato il personale per le prestazioni sussidiarie e la realtà delle famiglie del nostro territorio con anziani in casa sempre più vecchi e sempre più bisognosi di cura. Vuoto nella nostra rete che altre persone, altre risposte ed altre risorse, spesso personali, informali e misconosciute, avevano colmato. Le narrazioni dei partecipanti al tavolo parlavano di altre famiglie, di altri anziani, di altri bisogni che i nostri servizi non conoscevano. Per i quali poco o niente era stato pensato ed organizzato.

C’era forse un altro ordine del discorso? Dal punto di vista narrativo, il testo che si delineava in questo primo

incontro, raccontava molto delle proiezioni di ciascuno sulla condizione

Testo: su quali bisogni e da chi è costruita la nostra rete di servizi; domanda implicita: quali sono le rappresentazioni mentali della situazione e dei bisogni degli anziani sulle quali abbiamo costruito il frame degli interventi? aspetti culturali, economico-gestionali, emotivi, vincoli e risorse della situazione svizzera; obiettivo implicito: vedere il proprio frame cogliendone gli aspetti impliciti, contraddittori, disfunzionali; intravedere analogie e differenze, intravedere tra crepe del palazzo.

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di vita dell’anziano a domicilio, dei suoi bisogni e desideri e della famiglia che aveva intorno, a partire dalla storia della propria famiglia, dalle proprie aspettative ed esperienze di vita e dalle proprie convinzioni etiche e professionali. Raccontava di famiglie che non c’erano ormai più nel contesto sociale del Ticino di oggi, introducendo elementi di giudizio e di legittimità rispetto al loro ruolo di gestione dell’anziano, ed ai bisogni di quest’ultimo nella loro traduzione in quella sorveglianza e sicurezza che mette al riparo dall’assunzione di responsabilità che la relazione di cura comporta.

Ne nasceva un testo molto più disorganizzato del sistema che intendeva descrivere, dove ognuno poteva leggere, nel racconto dell’altro, lo stesso frame dei servizi di cura cui lui stesso apparteneva, cogliendone aspetti impliciti da esplorare, parole d’ordine da aprire e piccole crepe che davano possibili aperture su differenti scenari.

La partecipazione ad un tavolo di scambio e condivisione è favorita

se si dà l’agio a ciascuno, nel primo incontro, di presentarsi per quello che vuole essere, di sedere al SUO posto, quindi, nella definizione della sua prossemica abituale, scegliendo e definendo la posizione in base al proprio ruolo ed alle convinzioni che da questo ruolo derivavano. Inoltre, per curare ulteriormente il clima di accoglienza, la tavola era stata preparata in un luogo non istituzionale, la sala riunioni di Opera Prima, e la conduzione era affidata ad una persona totalmente estranea

Contesto (cura del): accogliere aspetti rituali: preparare la tavola, presentarsi aspetti metodologici: la conduzione ‘leggera’ per lasciar dire e favorire la partecipazione aspetti personali e relazionali: lasciare che ognuno prenda posto, definisca un posto (il suo), si collochi e si metta comodo. E dica di sé attraverso il suo sguardo.

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alle relazioni tra partecipanti, con uno sguardo quindi esterno non solo al territorio preso in esame ma soprattutto alle trame di relazioni che lo governavano. Nei processi ad approccio fenomenologico è sempre importante questo sguardo antropologico, dello straniero che si interroga a prescindere dalla cultura su quello che vede e che vive.

In tale contesto, i presenti si presentavano e dicevano di sé a partire dal posto che occupavano nella rete ed ogni posto al tavolo di modellizzazione poteva essere definito e recintato in relazione a chi lo occupava. Ognuno così si rappresentava all’altro a partire dal suo ruolo, definiva il suo spazio, affermava legittimità e fondamenti del suo servizio/osservatorio/ politica, diceva con chi intendeva rapportarsi e secondo quali modalità. La conduzione “leggera” favoriva proprio questa iniziale definizione difensiva del sé come condizione necessaria perché ognuno accetti di raccontarsi e di ascoltare l’altro a partire da una base sicura, la propria. La cura del processo partecipativo di scambio, infatti, deve sempre partire da pratiche di accoglienza e riconoscimento di tutte le istanze presenti, dalla messa in sicurezza emotiva delle persone che accettano o accetteranno poi di sbilanciarsi mettendosi in discussione, dalla facilitazione dell’espressione di sé e del fluire delle relazioni già presenti, sia formali sia informali, secondo le logiche conosciute e consolidate da ognuno.

L’intervento leggero di conduzione permette infine al gruppo di cominciare ad assestarsi autonomamente su un piano, il proprio, che rappresenta molto bene quello del sistema cui i membri appartengono. Al tavolo si riproducono quindi le dinamiche, le relazioni, le logiche del lavoro di rete come quotidianamente agiscono nel territorio, non guidate da chi conduce, ma dai presupposti, espliciti e non, consolidati nel tempo e messi a sistema. Proprio quelli sui quali il tavolo sarà chiamato a lavorare nel successivo incontro.

Perciò fu chiesto ai partecipanti di raccogliere nella settimana a seguire, una situazione problematica del loro lavoro per poterla poi esaminare nel successivo incontro con tutti gli sguardi dei presenti al

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tavolo. Si intendeva così passare dalla logica del sistema di intervento per come detta e descritta, alla stessa logica messa in campo, in azione, declinata nei fatti sul territorio, incarnata nei bisogni dell’utente, codificata nei contratti di lavoro e nei protocolli d’intervento, nei gesti assistenziali e di cura. Dalla linearità del discorso alla complessità dell’agito sul terreno comune di pratica.

7.6 2° Incontro: Leggere le regole di sistema

…ciò che per il golfista è un gioco, per il raccoglitore di palle è un lavoro; proverbio

Al secondo incontro del tavolo furono portate dai partecipanti alcune

situazioni problema da sottoporre agli sguardi ed alle letture di tutti i presenti e da analizzare mediante il metodo PBL, una modalità guidata e standardizzata per affrontare situazioni complesse, ricercarne aspetti marginali o nascosti, porsi domande ed aprirsi alla ricerca di ulteriori conoscenze in proposito, ma soprattutto riformulare poi la questione o rivederla nelle sue varie sfaccettature per ipotizzare una soluzione. Si intendeva così far fare esperienza diretta ai partecipanti di come e quanto lo stesso problema possa essere narrato, vissuto, interpretato e

Pretesto: analisi di una situazione problema mediante approccio multistakeholder e sperimentazione di PBL; domanda esplicita: in quale situazione la rete di servizi ha avuto una difficoltà/impossibilità nell’intervento? Obiettivo dichiarato: affrontare un singolo problema con la collaborazione di tutti gli attori implicati, rappresentati dai partecipanti al tavolo (badante, famiglia, operatore, agenzia, politico, tecnico dei servizi, volontario) per ipotizzare una soluzione possibile con l’utilizzo del PBL;

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risolto con modalità differenti allargandolo alla rete ed aprendolo a nuove domande, tali da favorire il passaggio dalla visione unilaterale ed alla conseguente soluzione eventualmente univoca e diretta a più sguardi, ulteriori approcci e risposte eventualmente partecipate.

La situazione portata al tavolo, qualunque essa fosse, rappresentava

un passaggio, una strip per l’osservazione fenomenologica, del complesso sistema reticolare dei servizi di cura. Lavorando con visione sistemica, era indifferente quale essa fosse, dentro a quale nodo, di quanta estensione, poiché comunque riproduceva il paradigma del medesimo ordito, differentemente declinato nei vari livelli. Era questo l’obiettivo di apprendimento esperienziale di questo secondo incontro; e per renderlo più evidente, ed anche per facilitare il lavoro introspettivo, il tavolo è stato diviso in due sottogruppi, l’uno impegnato su una questione micro, di pratica di cura, l’altro su una questione macro, di politica dei servizi. Quando l’approccio da lineare diventa complesso, lo sguardo da diretto a circolare ed incrociato, risulta evidente che i nuovi problemi posti da un’utenza anziana a domicilio possono essere affrontati solo dando nuove significazioni alle

Testo: Partendo da una situazione quotidiana, vedere i limiti di alcuni presupposti del frame, le stereotipie dei pensieri impliciti, le contraddizioni di alcuni approcci ed i significati delle parole d’ordine della nostra rete di servizi; domanda implicita: pensare i pensieri e vedere le prassi nel piccolo/altrui/quotidiano intervento nel servizio a domicilio degli anziani; obiettivo implicito: leggere il macro nel micro, il proprio nell’altrui, l’universale nell’incarnato, il non-detto nel fatto a partire da una situazione problema ancora ‘fuori dal sé’; vedere il proprio frame con sguardi altrui ed il frame generale della rete dei servizi con sguardi incrociati

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nostre categorie (universalità, cura, assistenza, quotidianità, aiuto domestico, sussidiarietà) ed accogliendo nella rete nuove figure portatrici di saperi e sapienze che di queste dimensioni interpretano, agendo, i significati. Si tratta quindi, nel micro come nel macro di rivedere le nostre mappe per rendere più vicine ai bisogni dei territori. Ed è stato questo il risultato del secondo incontro: i partecipanti avevano guardato oltre le certezze, gli impliciti dati per scontati, le stereotipie del pensiero, le parole d’ordine, l’abitudine del quotidiano, i recinti dei saperi professionali. E si erano aperti allo s-cambio di partitura ed alla possibilità del dubbio.

Anche per la cura del contesto del tavolo, è stato necessario in

questo secondo incontro proporre una conduzione che alternasse strumenti di sostegno e guida alla ricerca (il PBL) ad interventi che rilanciassero costantemente gli interrogativi, mantenessero aperti i dubbi ed inducessero ad una costante rimessa in discussione. Nei processi di riprogettazione è infatti necessario passare da questo momento di de-costruzione per far largo al nuovo. E’ una fase estremamente destabilizzante e frustrante, bisogna accettare di perdersi per poi riorientarsi e quindi obbliga ad accettare una disconferma, un lutto. Nella nostra esperienza, è proprio questo il passaggio più delicato (lasciar andare, lasciarsi andare…) che richiede un’attenta regia ed un sapiente utilizzo degli strumenti di indagine riflessiva. Nel nostro caso

Contesto (cura del): scambiare aspetti rituali: la cura delle relazioni al tavolo, io che ti guardo, tu che mi racconti aspetti metodologici: il Problem Based Learning aspetti personali e relazionali : l’accoglienza diventa facilitazione per sostenere lo scambio di sguardi ed il rilancio delle questioni, e sostegno per il passaggio di smarrimento

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abbiamo voluto utilizzare il PBL, seppure con modalità più interattive, perché contenesse l’indagine entro un percorso standardizzato e quindi strutturante, associato ad una conduzione che puntualmente riaprisse e rimettesse in discussione i vari interventi, con l’intento di portare la riflessione dalla pratica alla teorie implicite sullo sfondo: ‘pensare i pensieri’come percorso necessario per interrogare le pratiche. In questo incontro si trattava, per la maggior parte dei presenti, di interrogare le pratiche, e quindi i pensieri, dell’altro poiché i due gruppi trattavano problematiche portate dai colleghi. Quindi, l’esercizio riflessivo poteva rafforzarsi nell’agio del ‘fuori da sé’ e nella dialettica dello scambio. Ma per l’incontro successivo avremmo chiesto ai partecipanti di utilizzare gli stessi strumenti, PBL per la ricerca del frame, all’interno di una propria situazione lavorativa, ognuno nel suo posto di lavoro, nel suo nodo della rete, nel suo ruolo e responsabilità, non per trovare soluzioni e fare più e meglio,ma per capire come si era finora fatto. Per poi ripartire da lì.

7.7 De-costruire le regole (3° incontro)

Favorire la messa in parola dei processi di decisione attuati nel fare quotidiano, significa dichiarare le epistemologie della pratica; L.Mortari

Pretesto: analisi della MIA situazione-problema lavorativa mediante l’approccio sperimentato al tavolo; domanda esplicita: in quale situazione (…il mio servizio) mi sono sentito in difficoltà? Ho trovato possibili ri-definizioni, immaginato alternative, utilizzando il PBL? Questo metodo può servire nella mia pratica lavorativa? Obiettivo dichiarato: affrontare un singolo problema nel proprio servizio per ipotizzare una soluzione possibile con l’utilizzo del PBL e l’intervento di una pluralità di attori;

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Durante la settimana precedente l’incontro, i partecipanti al tavolo avevano sperimentato l’utilizzo delle pratiche d’indagine riflessiva proposta al tavolo nella loro pratica professionale, inviandone alcuni esempi per poi poterli ridiscutere in un contesto partecipato. E’ stato interessante notare che, per ipotizzare soluzioni, avevano già introdotto nel loro linguaggio approcci innovativi al servizio domiciliare (multiattoriale, multidimensionali, di capacitazione) emersi durante i precedenti incontri, quali l’inclusione di più attori (tra i quali la badante) nella rete, il passaggio dall’ottica assistenziale a quella di sostegno alla quotidianità, la considerazione olistica della persona piuttosto della risposta-prestazione, la capacitazione di altre figure non professionali,familiari e/o di vicinato, tutti elementi che rimettevano in discussione alcuni aspetti del frame, proprio nel momento in cui si era deciso di poterlo ridiscutere. Quindi, a questo terzo tavolo, i partecipanti arrivarono già con ipotesi di soluzioni delle loro questioni problematiche in ambito professionale improntate a nuove istanze: il lessico si arricchiva di altre parole con differenti significati. Questo ci supporta nel sostenere che, ancora una volta nella nostra esperienza, gli apprendimenti di nuovi approcci e differenti pratiche, richiedono prima un passaggio dai contesti di significato nei quali essi trovano un senso. Il cambiamento delle pratiche (Practice), quindi, pre-suppone un apertura al nuovo (Attitude) e la rimozione di alcune macerie di vecchie concezioni, per far posto appunto a nuove conoscenze (Knowledge). Anche dal punto di vista pedagogico, quindi, ci sembra importante che l’operatore sociale, o chi lavora nei servizi alla persona, abbia strumenti riflessivi che lo mettano in condizione ogni volta di rispondere in maniera nuova alle nuove situazioni poiché nei lavori di relazione egli si trova sempre davanti a situazioni uniche che non tollerano l’applicazione di protocolli universali, ma richiedono sempre un’interrogazione a quei protocolli ed una ricerca-azione.

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Le situazioni problema portate al terzo tavolo avevano già un

differente approccio alle questioni, ipotizzavano nuove soluzioni, si interrogavano su questioni che all’inizio non erano date o erano date per scontate; questi approcci, che ognuno stava già tentando nel suo posto di lavoro, potevano essere sistematizzati come ‘nuovi mattoni’ per la riprogettazione del frame, passando, ora sì, ad una loro sistematizzazione a conoscenza: cosa abbiamo imparato? Come l’abbiamo imparato? Come possiamo mettere questi strumenti nella pratica?

Dopo il passaggio dallo smarrimento e dalla decostruzione, si entra finalmente nella ben più confortante fase della ricostruzione, la progettazione: sempre a partire da sé e sempre a partire da tutto quello che abbiamo costruito nella nostra esperienza, anche di tavolo, in termini di competenze e conoscenze. Inoltre, in territorio Ticinese,

Testo: partendo da una propria situazione quotidiana, rivedere gli snodi critici del frame proprio e del proprio servizio; immaginare cos’ALTRO poter fare (chi Altro potrebbe fare, ecc.) domanda implicita: ricollocazione simbolica e revisione delle prassi consolidate nel qui e ora (piccolo/proprio/quotidiano intervento) del servizio a domicilio degli anziani; obiettivo implicito: andare dentro di sé per porsi dubbi, domande, assumere rischi, stare nell’imbarazzo, ma anche lasciarsi sorprendere e contaminare per tentare lo shift; leggere il meso (il sistema del proprio servizio) nel micro personale ed interiore, ‘dentro di sé’ (il proprio atteggiamento e sottosistema di riferimento); fare spazio, buttare, tenere, problematizzare, immaginare, osare, rischiare sul proprio, interrogarsi x risignificare; favorire la ri-locazione di sé nel proprio ambito lavorativo per poi dis-locarsi ulteriormente nell’ipotesi di una riprogettazione.

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partivamo anche da un ottimo sistema di servizi di cura che forniva la base sicura entro la quale muoverci. Accettando di rivedere ognuno la sua pratica professionale, e quindi tutti insieme il frame, si poteva ora con nuova consapevolezza e nuove risorse (di pensieri, parole ed opere…) tentare di mettere a sistema l’esperienza riflessiva. Il testo di questo incontro, quindi, ha voluto dare nomi e contenuto al discorso che cominciava a delinearsi, risignificando l’intervento a domicilio come presa in carico, l’assistenza come promozione, la badante come operatrice di quella cura e collaboratrice in quella famiglia (CF), il suo lavoro come professione, la rete come strumento vero e non solo sulla carta (e quindi da regolarne di tanto in tanto la tenuta dei nodi). Ed infine, che il servizio di cura a domicilio era un sistema fatto da un micro, un meso ed un macro che poteva dialogare e relazionarsi per vie formali ed informali, perché profondamente interconnessi.

Questo è stato un tavolo molto partecipato e dai vissuti molto

intensi. Lavoravamo sul nostro (contesto di lavoro, impianto concettuale e valoriale, assetto organizzativo), ed ognuno offriva il suo all’interrogazione degli altri, sia nella realtà del confronto sia sul piano simbolico. E’ stato il tavolo in cui davvero tutti e tutte si davano l’autorizzazione a prendere la parola, in cui il confronto è stato più

Contesto (cura del): smarrirsi x ricollocarsi aspetti rituali: la cura delle emozioni del tavolo aspetti metodologici: una conduzione che contiene e tesse; la proposta della mediazione come strumento per tenere insieme sguardi e bisogni; il bumpy moment aspetti personali e relazionali: smarrirsi per favorire il dubbio e la decostruzione, l’abbandono e la perdita, il vuoto che induce la necessità di ricostruire

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personale e meno ‘sui casi’. Dove chi quotidianamente si inventava una sapienza della cura, interrogava chi quotidianamente decideva quali potessero o dovessero essere i gesti di quella sapienza. Dove quindi, per la gestione di queste dinamiche del gruppo, è stata proposta e sperimentata la mediazione come utile strumento di lavoro per chi ogni giorno si barcamena tra bisogni e risorse.

Inoltre, in questo incontro di tavolo, è stata necessaria una costante attenzione a riportare a sintesi i diversi spunti riflessivi in modo da contenere e talvolta riorganizzare il pensiero e le proposte già per livelli di sistema in vista della futura progettazione. In tal modo il gruppo sperimentava come ogni singolo cambiamento di pratica nei diversi snodi della rete, ogni ricollocazione simbolica del problema, ogni riconoscimento e recupero in positivo delle emozioni, portava un cambiamento nel frame ed una ridefinizione complessiva dei meccanismi e delle pratiche degli interventi di cura dell’anziano a domicilio. E su questo disegno progettuale conclusivo, al gruppo è stato chiesto di impegnarsi per la volta successiva portando un progetto di sistema a partire dal proprio snodo di rete.

7.8 Riprogettare x ricostruire (4° incontro)

La progettazione è un processo ricorsivo, non lineare, un’interazione tra il

fare e il comprendere; D.A.Shon

Pretesto: proporre un modello possibile per la rete dei servizi domiciliari agli anziani da integrare a quello degli altri partecipanti; domanda esplicita:nel tuo ruolo professionale e nel tuo servizio quale sistema potresti immaginare? e quale pratica puoi da subito modificare? Obiettivo dichiarato: riprogettare un aspetto della propria pratica lavorativa all’interno di un nuovo frame;

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Ed ecco cos’è stato progettato in modo partecipato nel contesto

ticinese: un proprio piccolo personale cambiamento a livello di pratica ed un altro sistema a livello di regia, un sistema che includesse la collaboratrice familiare a pari dignità con le altre figure, che immaginasse che per dare dignità si da un nome, un ruolo, una formazione riconosciuta, una visibilità pubblica, insomma diritti e doveri! Eravamo partiti dalla massiccia presenza di badanti che costituiva un elemento inatteso e d’imbarazzo per l’efficiente sistema di servizi di cura a domicilio in Ticino e da una posizione di chiusura e di negazione di questa realtà. Abbiamo concluso assumendo quell’imbarazzo, facendoci attraversare dal/dai dubbi, aprendoci infine alla visione ed all’inclusione di quella figura e quindi al riconoscimento dei bisogni cui rispondeva: i bisogni dell’anziano di essere accompagnato in una fase di vita a rimanere nella sua casa nella migliore condizione possibile. Si ritornava quindi alla questione iniziale, i bisogni degli anziani, rispondendo con differenti modelli di servizi.

Ma crediamo che il vero guadagno del tavolo sia stato quello di poter sperimentare come il pretesto, il testo ed il contesto nel lavoro di cura non possono mai essere scissi perché ogni scelta come ogni gesto porta in sé gli atteggiamenti, le conoscenze e la cura che lo significano. Senza di essi il gesto diventa routine, prestazione, intervento, quel ‘fare per fare’ frustrante per l’operatore e mortificante per l’assistito.

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Ogni partecipante al tavolo si è impegnato in una progettazione che

è stata poi raccolta in tre modelli condivisi che insistevano ognuno maggiormente su un livello di sistema. Chi lavora soprattutto nel micro ha voluto dare grande enfasi e responsabilità a questa prossimità, tempo e luogo dell’incontro vero con l’anziano, della raccolta dei suoi desideri/bisogni e della traduzione delle proposte socio-assistenziali in momenti di cura per il suo benessere. I partecipanti impegnati ogni giorno nella regia, hanno proposto un modello che ipotizzava un centralizzazione dei piani di intervento, dove quindi tempi e denari da investire su ogni utente fossero stabiliti a monte in base a presupposti quantificabili e misurabili. Chi ha modellizzato a partire dal suo osservatorio lavorativo nel mesosistema, ha invece proposto un incontro tra domanda ed offerta da formulare a questo livello, e quindi con strumenti di mediazione tra SACD e famiglia, allargando però agli

Testo: partendo da sé e tenendo conto di tutti gli attori coinvolti, ripensare le teorie, rivedere gli atteggiamenti e ridefinire le pratiche (KAP); domanda implicita: riprogettare il micro/meso/macro del servizio a domicilio degli anziani in Ticino che tenga conto delle tre dimensioni emerse nel processo di modellizzazione (multiattorialità, multidimensionalità, capacitazione); obiettivo implicito: riuscire a vedere il piccolo nel grande e viceversa, il proprio servizio nella rete dei servizi, impegnandosi nella sperimentazione di un cambiamento concreto che modifichi a cascata il sistema. Saper proporre un progetto realistico ed implementabile, tenendo conto dell’esistente (quello che si è e quello che si ha) , per rivederlo con nuovi sguardi alla luce di quanto sperimentato ed appreso nel percorso dei tavoli (ascolto, sensibilità interculturale, atteggiamento collaborativo, approccio multistakeholder, ecc.).

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Enti d’appoggio da un lato ed alla Collaboratrice Familiare in rappresentanza dell’utente dall’altro.

La progettazione è un atto immaginativo e la partecipazione un gesto di democrazia: entrambi esercizi utili, di questi tempi di omologazione ed autoreferenzialità per tenersi in buon allenamento. Poi la tecnica si affina facendo…

Come già motivato, in questo ultimo incontro di tavolo, la

conduzione è stata tutt’uno con il (pre)testo del discorso. Abbiamo descritto i modelli, li abbiamo ri-esaminati alla luce di quanto avevamo appreso in quel percorso, abbiamo disvelato le intenzionalità e le caratterizzazioni che li differenziavano, e li abbiamo soprattutto attraversati con gli sguardi di tutti e tutte. Il gruppo di lavoro si è ritrovato a riflettere come comunità di praticadi professionisti del lavoro sociale, passando al vaglio i propri progetti secondo le nuove significazioni che si intendevano dare al lavoro di rete: interezza dell’intervento, valorizzazione di tutti i saperi, riconoscimento delle figure, ascolto interculturale, rispetto dei diritti, eccetera. In questo caso la conduzione deve dimostrarsi ‘esperta’ della materia e non solo dell’accompagnamento alla processo di progettazione partecipata, per restituire a tutti quel ‘sapere di sapere’ che li sosterrà nei prossimi passaggi di implementazione del modello. Anche in questo senso il contesto di cura del tavolo si trasforma in discorso e testo di studio

Contesto (cura del): il ‘qui si può’ aspetti rituali: restituire il lavoro fatto, i successi e le fatiche, metter via le carte, aprire i cantieri aspetti metodologici: la progettazione partecipata e la conduzione ‘esperta’ aspetti personali e relazionali: la co-costruzione dei saperi nella comunità dei pratici

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ulteriore. Come progettare un intervento a domicilio in maniera partecipata? Come condividere le responsabilità? come gestire e mediare le richieste dell’anziano, della famiglia, dei servizi? Come tradurre lingue e linguaggi, quotidiani ed esperti, per ascoltarsi e capirsi davvero? Come e con chi gestire l’atteso imprevisto della crisi dell’anziano? Come pensare ad un diploma che riconosca competenze già in atto? Come lavorare ed abitare una casa altrui in una giusta distanza relazionale? Come lavorare sull’empowerment delle donne ma anche degli utenti? Ecco alcuni dei processi aperti, di nuovo reali e simbolici per i quali sarà fondamentale il contesto culturale e politico in cui si svolgeranno le ulteriori elaborazioni. Non sappiamo ora quali saranno gli sviluppi futuri di questi progetti: il nostro obiettivo è stato solo quello di creare e curare, insieme ad un gruppo di uomini e donne impegnati nel sociale, il contesto che permettesse loro di fare alcune prove di futuro.

Cosa fa di una situazione, e delle circostanze che ad essa si

intrecciano, un con-testo? E cosa ci permette di abitarlo? E’ la cura delle relazioni, la cura delle condizioni nelle quali quelle singole persone si trovano e si incontrano, quello che si offre loro, il come lo si offre, il tono dell’ambiente e della comunicazione, la qualità dello stare, che ne delineano il carattere.

Creare con-testo è dunque il sapere della cura delle condizioni in cui i rapporti di estraneità possono diventare relazioni significative in qualcosa, e in cui ci possa essere una restituzione di competenza di sguardo, di misura e di orizzonte entro il quale immaginare ed orientare l’azione e il proprio esserci. Questo è creare un con-testo.

E i suoi effetti sono imprevedibili. A. De Vita, Imprese d’amore e di denaro, p.89

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8.

Disegno e sperimentazione di interventi – tra teoria e realtà: il modello "Officina sociale"

di Ilaria Ferrero e Paolo Moroni 8.1 Una metodologia basata sulla coprogettazione L’obiettivo di questo contributo è quello di illustrare le modalità di

progettazione e sperimentazione di un modello di intervento nell’ambito dell’assistenza domiciliare che, attraverso la messa in rete dei vari soggetti e la costruzione e l’implementazione di una banca dati sulle iniziative presenti nel territorio, sia in grado di fornire un servizio individualizzato, modulabile e modificabile nel tempo e nel quale la componente interculturale dell’apporto fornito dalla manodopera straniera sia considerato un valore aggiunto essenziale.

Questo modello di intervento si propone di declinare sul piano metodologico e operativo i principali risultati emersi dalle diverse azioni del progetto “Casa Comune” (le ricerche, la mappatura dei servizi, lo scambio e il benchmarking dei tavoli transfrontalieri), sebbene rispetto al disegno originario si sia registrata un’evoluzione soprattutto per ciò che concerne la titolarità dell'azione di modellizzazione stessa. Nella versione originaria del progetto, infatti, si era immaginato che fosse il team di Progetto a proporre un modello trasformativo per la rete di cura a domicilio, nonché i percorsi che avrebbero avuto il compito di formare gli operatori coinvolti ai principi

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di base del modello stesso. Nella realtà, alcuni dei principali sviluppi del progetto hanno fornito elementi decisivi in favore dell’allargamento della partnership e dell'acquisizione di una metodologia basata sulla co-progettazione: questi due fattori sono risultati decisivi per il coinvolgimento della rete allargata di partner (comprendente quindi le forze del Terzo settore, del Privato Sociale nonché soggetti pubblici fondamentali quali ASL e Azienda Universitaria Ospedaliera) in un processo di costruzione partecipata di un modello di governance e gestione dell’assistenza domiciliare, integrato ad un percorso multiprofessionale rivolto agli attori che operano nell’ambito dell’assistenza domiciliare e che all’interno del modello dovranno operare. In questo paragrafo si procederà innanzitutto presentando le caratteristiche fondamentali della bozza di modello “Officina Sociale”61, bozza che ha costituito il materiale grezzo sul quale i protagonisti del processo di co-progettazione sono stati chiamati a lavorare. Si illustrerà poi più diffusamente il percorso che ha portato alla decisione di utilizzare una metodologia basata sulla progettazione partecipata. Nei paragrafi successivi verranno illustrati nel dettaglio: i protagonisti (la partnership allargata), le scelte metodologiche (suddivisione in Tavolo Obiettivo 1 – Governance; Tavolo Obiettivo 2 – Formazione; Equipe Multidisciplinare), le azioni formative a supporto (Giornate Seminariali di inquadramento) nonchè gli output finali dell'azione 3 del progetto Casa Comune.

61 La scelta di questa denominazione risponde all’esigenza di immaginare un “luogo” in cui sia superata la dimensione fisica e si realizzi uno spazio di aggregazione degli attori impegnati sulla scena della cura a domicilio, di riflessione e di elaborazione di progettualità innovativa.

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8.2 Un'ipotesi di modello trasformativo per la rete di cura: la teoria dell' “Officina Sociale”

È possibile affermare che l'ipotesi “Officina sociale” costituisca il

portato di quanto realizzato nella fase 2 del progetto “Casa Comune”: i “contenuti” sono stati ispirati da quanto emerso dall'analisi e ricerca, mentre i principi metodologici (quadro teorico di riferimento e co-progettazione) sono stati ispirati dall’azione di scambio e benchmarking.

Come si è visto, dalla fase di analisi dei bisogni e delle richieste emergenti tra la popolazione anziana, le loro famiglie, le persone impegnate professionalmente o a titolo volontario nella cura a domicilio, nonchè tra i diversi soggetti pubblici, privati e del privato sociale che operano attualmente sul territorio di Novara, sono emerse alcune richieste essenziali: informazioni, risposte rapide e flessibili, coordinamento, lavoro di rete, co-progettazione, monitoraggio, accompagnamento, formazione62. In particolare, dal punto di vista dell'approccio metodologico di fondo è evidente che, di fronte alle sfide poste dall'evoluzione del contesto socio-demografico (progressivo invecchiamento della popolazione, trasformazione della struttura del ciclo di vita, crescente bisogno di inclusione sociale da parte della popolazione anziana) e nella specificità di una realtà come quella italiana, caratterizzata da una forte centralità della famiglia nella fornitura di interventi e da un intervento pubblico residuale e frammentario, in prevalenza costituito da trasferimenti monetari, sia emersa fin da subito la necessità di cambiare radicalmente paradigma, passando da una logica di “protezione sociale” a una di “promozione sociale”. Si tratta di un cambiamento che dovrebbe investire molteplici livelli: in primis, il passaggio da una governance di

62 Per una analisi più approfondita delle evidenze emerse dalla ricerca si rimanda alla conclusione del cap. 3 del presente report.

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tipo “mono-livello” (potere decisionale centralizzato, ente pubblico in posizione gerarchicamente superiore rispetto agli altri soggetti) ad una “multi- stakeholder”, nella quale i processi di policy making siano sempre più aperti rispetto agli interessi di cui i diversi soggetti sono portatori e la logica prevalente non sia di tipo burocratico/impositiva ma bensì sia ispirata dai principi della co-partecipazione e della negoziazione; in secondo luogo, il ripensamento del ruolo dell’ente pubblico, da “erogatore” di servizi/prestazioni finanziati da risorse pubbliche a regista e coordinatore degli attori sociali, capace di garantire interventi innovativi finanziati anche con risorse non pubbliche; in terzo luogo, il cambiamento della pianificazione locale, da una logica fondata sull'offerta disponibile a livello territoriale ad una che prenda le mosse da un'analisi e da una rilettura del bisogno, delle risorse e delle soluzioni offerte da tutti gli attori del territorio; in quarto luogo, la ridefinizione dei target raggiungibili: tutte le analisi concordano nel ritenere che, allo stato attuale, i servizi pubblici raggiungano effettivamente percentuali di target residuali rispetto alle reali esigenze (per approfondire questi aspetti si vedano gli annuali rapporti sulla non autosufficienza in Italia 2010; 2011; 2012; 2013 mentre un modello basato su una logica alternativa, proprio perchè maggiormente flessibile e diversificato, sarebbe in grado di raggiungere ampie fasce di vulnerabilità, comprese quelle di nuova definizione; infine, la riprogettazione del ruolo e delle funzioni degli altri attori sociali. Nel modello attualmente in uso, spesso gli attori sociali rivestono un ruolo di supplenza rispetto al soggetto pubblico, sono chiamati a intervenire di fronte alle carenze di quest'ultimo, senza però che a ciò corrisponda il riconoscimento di pari dignità e peso. Con un'espressione informale, essi vengono trattati da “tappabuchi”. Diversamente da ciò, si ritiene che questi soggetti debbano essere considerati integrativi rispetto al pubblico, ma sopratutto si ritiene necessario riconoscere loro un peso paritario sul tavolo della co-progettazione degli interventi.

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Obiettivo dell’applicazione di un simile paradigma viene individuato nella costruzione di una vera e propria rete a forte ancoraggio territoriale, coordinata dall' Ente Pubblico in grado di produrre innovazione sociale (vale a dire prodotti, servizi e modelli più rispondenti ai bisogni sociali per come essi si stanno modificando per effetto della crisi e delle dinamiche socio-demografiche) e all'interno della quale si realizzino nuove forme di partnership tra pubblico, privato e privato sociale grazie alle quali tutti i soggetti coinvolti possano ricavare vantaggi reciproci. Naturalmente, dall’analisi del materiale di ricerca prodotto attraverso il progetto Casa Comune, è risultato immediatamente evidente che il passaggio dalla teoria alla pratica incontra notevoli resistenze, da entrambi i lati: da parte dell’ente pubblico vi è sicuramente una carenza di figure professionali formate per operare secondo i principi alla base del modello proposto (“Secondo Welfare”), ovvero capaci di passare dal “supply planning” (pianificazione basata sull’offerta disponibile sul territorio) al “community planning” (pianificazione costruita a livello di comunità locale e basata sulla rilettura e ricodifica dei bisogni, delle risorse e delle soluzioni messe a disposizione da tutti i soggetti); da parte dei soggetti presenti sul territorio, sulla base anche dell’esperienza dei Piani di zona (che in Regione Piemonte, dopo una prima programmazione, non hanno avuto più seguito) si evidenzia una difficoltà di tipo culturale ad assumersi un ruolo che vada al di là di quello “statutario” e che preveda anche un impegno di tipo progettuale (difficoltà questa da imputare anche alla carenza di risorse umane ed economiche a disposizione di associazioni nate con finalità ben specifiche, che trovano difficile ripensarsi in qualità di soggetti operanti all’interno di una rete coordinata).

Restano ancora da descrivere tre significative fonti di contributi e riflessioni a cui il team di progetto si è ispirato nella fase di elaborazione di questa proposta di modello. La prima fonte è rintracciabile in un’esperienza analoga di riorganizzazione dei servizi

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sociali (e di quelli dedicati agli anziani fragili in particolare) realizzata nel Comune di Reggio Emilia63. Anche là infatti, ma con dieci anni di anticipo, e quindi in un'epoca in cui ancora le risorse a disposizione erano abbondanti, si è partiti da una semplice constatazione: i servizi così come erano strutturati, non erano più in grado di rispondere in maniera efficace alle mutate richieste provenienti dall'utenza. A questo dato di fatto si è deciso di rispondere non semplicemente ristrutturando dall'interno i servizi, ma scegliendo di ribaltare completamente la prospettiva, uscendo dal classico circuito "bisogno-ricetta" e aprendo una fase di progettazione territoriale, attraverso l'istituzione di una figura di "operatore dedicato alla progettazione territoriale" nonché attraverso l'attivazione di una serie di Tavoli di Quartiere in cui operatori sociali e cittadini si confrontano sui problemi per definirne rappresentazioni condivise e cercare soluzioni innovative.

Una seconda fonte deriva dalla realizzazione di un focus tecnico64 con alcuni esperti di organizzazione dei servizi socio sanitari, che ha consentito di delineare alcune caratteristiche fondamentali che un modello alternativo di gestione dei servizi per gli anziani dovrebbe avere. L'elemento che è parso da subito più rilevante, perchè di nuovo in assonanza con tutta la riflessione fatta in precedenza, è rappresentato dalla necessità, per l'Ente pubblico, di uscire dalla logica prestazionale. Allo stato attuale, infatti, l'Ente pubblico si limita ad occuparsi solamente dei soggetti (sempre meno numerosi) ai quali riesce a fornire una prestazione. Nel cambio di paradigma, l'Ente pubblico deve essere in grado di riuscire ad intercettare tutti i soggetti che hanno un bisogno, fornendo loro una risposta, non una ricetta (prestazione).

63 Il 26 novembre 2013 sono state intervistate (per approfondimenti si veda la trascrizione integrale dell'incontro) la dottoressa Aurella Garziera e la dottoressa Alessandra Donelli, operatrici presso i Servizi Sociali Comune Reggio Emilia. Per una disamina particolareggiata dell'esperienza si rimanda al numero di ottobre 2013 della rivista Animazione Sociale, che le dedica un inserto speciale. 64 Il focus è stato realizzato il 17 febbraio 2014 (si veda il verbale dell'incontro).

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Infine, una terza fonte deriva da una libera interpretazione delle teorizzazioni di Manoukian Olivetti et al65 secondo cui ogni modello organizzativo implica una serie di presupposti e implicazioni che possono essere così rappresentate:

Figura 8.1 – Il funzionamento organizzativo per la produzione dei servizi

Sulla base di queste riflessioni viene dunque abbozzato un modello a

cerchi concentrici, articolato su tre diversi livelli di coordinamento e che al proprio centro ponga la “Casa Comune”, ovvero il domicilio dell’anziano.

65F. D’Angella, F. Olivetti Manoukian, G. Mazzoli, Cose (mai) viste. Ri-conoscere il lavoro psicosociale dei Sert, Carocci, Roma 2003.

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I tre livelli di coordinamento possono essere definiti così: − Livello macro, strategico: vale a dire la governance del sistema − Livello meso, gestionale organizzativo − Livello micro, operativo −

Figura 8.2 – Una proposta di modello basato su tre livelli di coordinamento

La scelta di una strutturazione a cerchi concentrici risponde

all’esigenza di sottolineare come tra i tre livelli non si possa parlare di rapporti gerarchici, ma piuttosto di interconnessioni complesse e bidirezionali a partire dal centro dello schema, rappresentato dalla Casa. A livello micro, gli operatori sociali e sanitari, la rete formale e informale di assistenza all’anziano e di supporto alla famiglia, nonché il personale che fornisce servizi privati di cura, operano sulla base di prassi integrate e coordinate. Tale integrazione e coordinamento, a livello meso, sono garantite da un organismo operante anch’esso sulla base di modelli gestionali definiti (quello che si immagina debba essere

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una vera e propria “Officina Sociale” e che costituisca il superamento della semplice integrazione di servizi pubblici socio sanitari, mediante l’integrazione di tutte le risorse che è possibile attivare a livello territoriale – servizi privati di cura, privato sociale e volontariato). Infine, questo organismo deve esser inserito, a livello macro, all’interno di un modello di “Secondo Welfare”, nel quale, come già illustrato, l’ente pubblico svolga un ruolo di regia e, ancora una volta, di coordinamento delle forze in campo.

L'Officina Sociale rappresenta dunque il cuore del modello ed è posta al centro anche dello schema fornito da Manoukian. Dal punto di vista della sua logica di fondo, questo organismo dovrebbe qualificarsi rispetto ad alcuni bisogni fondamentali, che nell’attuale sistema delle cure a domicilio risultano parzialmente insoddisfatti. Anzitutto, l'Officina deve rappresentare un luogo fisico di riferimento nella relazione cittadino/istituzione/comunità. Si è più volte sottolineato il senso di disorientamento e di solitudine che caratterizza le famiglie di fronte alla perdita di autosufficienza dell'anziano. In questo contesto, l'Istituzione non sempre riesce a essere percepita come un punto di riferimento per ottenere informazioni, e soprattutto risposte efficaci. L'Officina vorrebbe essere il tramite attraverso cui il singolo possa riconoscersi nella Comunità, proprio perchè è la comunità nel suo complesso a fornire, proprio per mezzo dell'Officina, una risposta alla sua domanda.

Un’altra caratteristica fondamentale dell’Officina Sociale è il superamento della logica tipica dello sportello sociale, vale a dire del circuito "bisogno-ricetta". Questa caratteristica va analizzata a due livelli: rispetto all'utenza, l'Officina deve essere in grado di fornire un supporto nella definizione del bisogno e di coinvolgerla nel processo di elaborazione di un progetto di intervento. Ad un livello che può essere definito di back office, invece, occorre saper mettere in relazione la dimensione del bisogno con quella delle risorse messe a disposizione dal territorio.

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Come conseguenza di questo superamento, l’Officina Sociale dovrebbe qualificarsi come strumento di progettazione allargata, nei confronti di una pluralità di potenziali destinatari. Ciò significa uscire anche da un altro tipo di logica che caratterizza l’attuale sistema di assistenza domiciliare, ossia la logica "domanda-prestazione". Il nuovo organismo dovrebbe essere in grado di intercettare tutti i soggetti che manifestano un bisogno, a prescindere dal fatto che a seguito di ciò vengano erogate loro delle prestazioni. Oggi assistiamo esattamente ad una logica opposta: gli enti si occupano esclusivamente dei soggetti cui sono in grado di fornire delle prestazioni. L’obiettivo di svincolare la risposta dall'erogazione diretta di una prestazione dovrebbe consentire di allargare notevolmente il range di utenti raggiungibili.

Infine, all'interno di un sistema così integrato e allargato, è possibile immaginare un ruolo nuovo per gli Operatori Socio Sanitari. Se debitamente formati, gli Oss quindi possono divenire il vero perno del sistema delle cure domiciliari, grazie a funzioni di facilitazione rispetto alle reti di prossimità, di "antenna" rispetto ai bisogni degli assistiti e delle famiglie, di training e tutoraggio rispetto alle assistenti famigliari impegnate nel lavoro di co-residenza.

Tutti questi punti richiamano quelle che potrebbero essere immaginate come funzioni essenziali di questo nuovo modello di intervento: − una funzione di osservatorio, sia rispetto ai servizi forniti dal

territorio (mappatura e conoscenza dei servizi privati e pubblici, professionali e di volontariato) sia rispetto ai bisogni. I soggetti che dovrebbero animare la nuova struttura hanno un ruolo di “antenne”, sono cioè in grado di compiere una azione di decodifica rispetto ai bisogni dell'utenza;

− una funzione di laboratorio nel quale si realizzi una co-progettualità sistemica, (progettazione territoriale) ma anche una co-progettualità operativa, che riguarda cioè le proprie procedure operative, gli strumenti, i protocolli standardizzati;

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− una funzione di facilitazione per promuovere il coordinamento dell’azione degli attori sul territorio (livello sistemico) e per fornire criteri omogenei e coerenti alle organizzazioni che gestiscono l’intermediazione tra domanda e offerta di assistenti famigliari (livello operativo);

− una funzione di formazione al tutoraggio, con l’obiettivo di valorizzare il lavoro di cura, elaborando linee guida per formare un pool di OSS in grado di fornire a richiesta una azione di tutoraggio, training, accompagnamento alle assistenti famigliari, in un’ottica di “relazione di lavoro” fatta di doveri e diritti reciproci;

− una funzione di monitoraggio e valutazione dell’azione dell’Officina attraverso un sistema di informazione e reportistica per ciascuno dei punti sopra descritti. 8.3 Dalla teoria alla realtà: l'allargamento della partnership e la progettazione partecipata

L’azione 3 del progetto Casa Comune ha rappresentato uno dei

momenti chiave per raggiungere alcuni degli obiettivi specifici fondanti dello stesso. Dopo aver lavorato nella precedente fase per rafforzare e mettere in comune il patrimonio di conoscenze sui bisogni emergenti della popolazione anziana, sui servizi pubblici di sostegno alla domiciliarità presenti sul territorio e sui modelli di governance, partendo dalle buone pratiche e da un’intensa attività di scambio, benchmarking e condivisione dei modelli operanti in Italia e in Svizzera, l’azione si proponeva di contribuire al raggiungimento dell’obiettivo decisivo del progetto: progettare e sperimentare su entrambi i lati della frontiera un modello idoneo a fornire interventi personalizzati in risposta ai bisogni di assistenza degli anziani a domicilio, attraverso l’attivazione in rete dei vari soggetti coinvolti, rendendo le dinamiche interculturali un valore aggiunto fondamentale e non unicamente un vincolo con cui misurarsi.

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Il contesto entro il quale l’azione doveva essere implementata era caratterizzato da alcune emergenze, focalizzate nella fase di preparazione che configuravano una situazione in rapida evoluzione: costante ridimensionamento delle risorse pubbliche destinate ai servizi sociali, in uno scenario di differenziazione e crescita della domanda, cui i modelli tradizionali stentavano a dare risposte; emergere di forme private di risposta ai bisogni, in particolare delle pratiche di cura a domicilio che fanno perno sulla figura della assistente famigliare; emergere, in questo contesto, di problematiche specifiche legate alla garanzia di qualità dei servizi di cura a domicilio, alla dignità di prestatori e prestatrici dei servizi (sul piano contrattuale e professionale), alle modalità di collocamento sino alle caratteristiche della relazione tra i diversi attori che intervengono nella cura a domicilio (triangolo famigliari, anziano, assistente); emergere di un’attenzione crescente nei confronti del luogo della prestazione (domicilio dell’anziano) che determina le competenze correlate alla prestazione, mentre tradizionalmente la formazione al ruolo veniva costruita sulla base del riferimento definito dai contesti istituzionali.

Nel progetto originale, partendo dagli obiettivi appena ricordati, l’Azione 3 prevedeva che fosse il Team di progetto a procedere all’elaborazione del modello, delegando poi a un passaggio successivo la formazione degli operatori. I risultati raggiunti e le riflessioni elaborate rendevano, tuttavia, preferibile una diversa implementazione del modello, tale da risultare coerente con i bisogni emergenti sui due versanti della frontiera. In particolare si è evidenziata l’utilità di un approccio ispirato alle pratiche della co-costruzione e della progettazione partecipata, soprattutto in relazione al contesto di crisi e riduzione di risorse da dedicare al welfare che caratterizza l’attuale momento storico, rendendo indispensabile la negoziazione di obiettivi, priorità e forme dell’intervento sociale. È inoltre emersa la comune priorità di rafforzare la capacità di lavorare in rete, adottando un approccio sistemico al lavoro di cura a domicilio, tale da coinvolgere

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non solo gli operatori professionali, ma l’insieme delle istituzioni, della rete del volontariato e della “comunità” nel suo complesso. Infine, si è evidenziata l necessità di ripensare in chiave di sistema ruoli e figure professionali, mettendo meglio a fuoco le competenze strategiche necessarie a svolgere nel modo migliore il lavoro di cura al domicilio. Questo aspetto aveva tra le sue finalità anche quella di far emergere il contributo fondamentale delle assistenti famigliari che su entrambi i lati della frontiera svolgono un lavoro disconosciuto eppure capace di imporsi poiché rispondente ad una domanda reale delle famiglie.

In sintesi l’Azione 3 doveva rappresentare la sede per costruire, in modo partecipato, un modello di governance e gestione dell’assistenza domiciliare sul territorio del Comune di Novara e una riflessione su possibili percorsi innovativi rivolti agli attori che all’interno del modello dovranno operare: responsabili e operatori dei Servizi Pubblici, assistenti famigliari, caregiver e caremanager famigliari, rete del volontariato e la “comunità” nel suo complesso)

Per quanto riguarda il versante italiano il contributo che veniva richiesto al progetto in riferimento alle due figure professionali coinvolte (OSS e Assistente famigliare) appariva differenziato in relazione allo stato di formalizzazione di questi profili all’interno dei repertori della Regione Piemonte66.

Sono stati dunque immaginati due percorsi, uno sui temi della governance e l’altro su quello delle competenze, che permettessero al tempo stesso di realizzare alcuni prodotti chiave del progetto, ma anche di rafforzare la capacità dei partecipanti nell’effettuare una diagnosi delle risorse e dei bisogni che si manifestano in un contesto di cura a

66 Mentre l’Operatore Socio Sanitario è un profilo di riferimento standardizzato, per l’Assistente familiare si è articolato un processo di ridefinizione del profilo concluso nei primi mesi del 2015. Alla luce di questa considerazione una parte del lavoro è stato indirizzato a mettere in fase le attività previste dal progetto con il percorso di formalizzazione della figura portato avanti dalla Regione Piemonte attraverso il confronto con il lavoro svolto da parte della Commissione regionale di comparto.

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domicilio in un’ottica sistemica. L’obiettivo dei percorsi era sia di progettare un intervento coerente e capace di valorizzare l’insieme delle risorse presenti, ma anche di comprendere e applicare modalità di relazione utili a sviluppare la cooperazione in team interprofessionali e l’attivazione di reti multiattore, sperimentandole nell’azione di diagnosi, progettazione e implementazione dei servizi.

Partendo dall’elaborazione portata avanti nei mesi precedenti, da cui è scaturita l’ipotesi dell’ “Officina Sociale” i percorsi, che hanno visto il coinvolgimento del Team di Progetto e della rete degli stakeholder, si sono svolti tra l’autunno del 2014 e la primavera del 2015, con il supporto e l’accompagnamento di un “facilitatore”. L’obiettivo di questi percorsi era di analizzare le situazioni problematiche emerse, per progettare poi in gruppo le possibili soluzioni, sperimentarne l’implementazione e valutare i risultati conseguiti.

In risposta al problema più evidente emerso dalla riflessione comune, ovvero la richiesta di famiglie e operatori di un punto informativo e orientativo sulla domiciliarità, l’esito concreto del percorso sulla governance è stata la proposta dell’istituzione di un Punto informativo che soddisfacesse questo bisogno e la successiva elaborazione di una bozza di Convenzione tra i soggetti che all’interno dello stesso potessero operare (ASL, Servizi Sociali, rete del Volontariato). Parallelamente, mentre i soggetti istituzionali dialogano per dare vita ad uno spazio fisico di riferimento per la cittadinanza, la rete del volontariato, quella degli operatori privati e del privato sociale vengono coinvolti nella progettazione e costruzione di un Portale informativo, che nelle intenzioni dovrebbe rappresentare uno strumento per un reperimento rapido ed efficace delle informazioni sui servizi a disposizione sul territorio.

Rispetto a questo specifico punto vale la pena soffermarsi brevemente sul processo che ha portato alla definizione delle schede informative di ciascun soggetto inserite sullo strumento informatico. Infatti, i rappresentanti di tutte le realtà che hanno accettato di

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comparire all'interno del Portale sono stati incontrati personalmente per definire natura e contenuti delle informazioni organizzate nelle schede, e sulla base di una premessa fin da subito esplicitata: la partecipazione al Portale non deve essere considerata fine a se stessa, ma semplicemente la struttura per così dire "fisica" di un progetto molto più ampio che è la partecipazione ad una rete coordinata al servizio della domiciliarità. In altre parole, chi ha accettato di fornire informazioni sulla propria attività lo ha fatto allo scopo di farsi conoscere e per conoscere tutti gli altri soggetti che contemporaneamente lavorano, con competenze simili o complementari nell’ambito dell’assistenza domiciliare. L'impegno assunto da tutti quanti hanno collaborato alla realizzazione del portale è stato quindi fin da subito che esso non sia una struttura statica, definita ora e per sempre, ma che sia aperta a tutti quanti vogliano comparirvi, siano essi nuovi soggetti oppure reti di attori che collaborano alla realizzazione di progetti innovativi e che hanno trovato proprio in questa iniziativa lo spunto per conoscersi e collaborare in maniera innovativa. Per una descrizione più dettagliata del Punto informativo e del Portale si rimanda al paragrafo conclusivo del presente capitolo.

Il lavoro del gruppo di co-progettazione sulle figure professionali ha portato, per quanto riguarda l’Assistente famigliare alla definizione della figura, del ruolo agito e alla costruzione di un profilo di riferimento67, mentre per l’Operatore Socio-Sanitario si è trattato di portare avanti una riflessione sul ruolo di questa figura professionale nell’assistenza a domicilio a partire dall’esperienza e dalle pratiche operative dei partecipanti al gruppo. La modalità di lavoro individuata ha favorito la creazione, all’interno dei gruppi di co-progettazione di una pratica fatta di ascolto, conoscenza e scambio reciproco che potrà rappresentare un utile strumento di gestione dei rapporti tra i soggetti partecipanti anche dopo la conclusione del progetto.

67 Cfr il contributo di G. Porzio al capitolo 9 di questa pubblicazione.

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Sono stati inoltre stabiliti momenti di confronto tra i “facilitatori” e il Team di progetto al fine di verificare costantemente l’omogeneità degli obiettivi dei due percorsi. In occasione di questi incontri si sono svolte le riflessioni che hanno portato ad una parziale revisione degli obiettivi immaginati in sede progettuale, ma anche alla ridefinizione di un’ulteriore attività formativa prevista in questa fase, ovvero l’organizzazione di workshop rivolti a gruppi omogenei di operatori. Anche in questo caso quanto prodotto dai gruppi di co-progettazione avrebbe dovuto portare all’organizzazione di percorsi formativi, attuati con modalità tradizionali e rivolti a specifici target professionali. Il successo della modalità con cui sono state realizzate le attività dei due gruppi di co-progettazione ha spinto invece a replicarne la formula, anche in questo caso favorendo un intervento coerente e capace di valorizzare l’insieme delle risorse presenti a livello di sistema e ad applicare modalità di relazione utili a sviluppare la cooperazione in team interprofessionali e l’attivazione di reti multiattore.

Partendo dal dato relativo al fatto che i servizi, nelle loro molteplici accezioni, sono caratterizzati a livello organizzativo da multiprofessionalità e interprofessionalità, mentre a livello operativo sono in gioco questioni quali coordinamento, informazione, comunicazione, risulta evidente per gli operatori, professionali e non, la difficoltà di comprendere, collocarsi e ad agire all’interno di sistemi complessi come quelli rappresentati dalla rete territoriale.

Si è voluto dunque attivare spazi dialogici dove gli operatori professionali e la rete del volontariato potessero conoscersi dal vivo e confrontarsi valutando le ipotesi del modello e condividendone le sfide, per ascoltare e identificare snodi operativi e strumenti per l’integrazione tra i servizi.

I due percorsi, rivolti da una parte alle Organizzazioni di Volontariato che operano a favore della domiciliarità e dall’altra a operatori professionali (Assistenti sociali di Comune, ASL e Azienda Ospedaliera) hanno avuto un andamento parallelo con frequenti

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momenti di confronto in plenaria. Anche in questo caso si è utilizzata una modalità in cui i partecipanti hanno avuto un ruolo attivo nel processo sostenuti da un “Facilitatore” che ha avuto il ruolo di proporre situazioni problematiche e presidiare il percorso.

Il lavoro dei gruppi, dopo un momento iniziale di ri-conoscimento reciproco, condivisione degli obiettivi e informazione sul risultato del lavoro del gruppo di co-progettazione, ha avuto una forte valenza pratica. Assistenti sociali e volontari si sono confrontati e hanno messo a punto una serie di proposte operative in relazione all’attivazione del Punto Informativo denominato “Spazio Anziani” la cui definizione era stata delineata dal punto di vista burocratico (elaborazione di uno schema di convenzione tra i soggetti promotori) dal gruppo di co-progettazione sui temi della governance. In esito al lavoro dei due gruppi, che ha avuto termine nel mese di giugno 2015 con la presentazione a partner e stakeholder dei risultati del percorso, è stato decisa la continuazione del confronto tra rete del volontariato e operatori professionali, in quello che è stato definito, anche sulla scia dell'esperienza realizzata a Reggio Emilia, “Tavolo Anziani” (anche in questo caso, per approfondimenti, si veda la parte conclusiva di questo capitolo). Gli incontri programmati a cadenza mensile avranno l’obiettivo di favorire il proseguimento del confronto, ma anche di aprire momenti di riflessione all’interno dell’équipe multiprofessionale che lavorerà all’interno dello “Spazio Anziani”.

Con l’obiettivo di sostenere il lavoro delle attività di co-progettazione e parallelamente ad esse, sono state organizzate tre giornate seminariali transfrontaliere durante le quali si è proceduto a proporre argomenti che potessero fornire elementi di riflessione e strumenti di lavoro ai partecipanti. Il lavoro dei seminari ha avuto il duplice obiettivo di rinforzare le basi teoriche per l’elaborazione del modello e di stimolare tra i partecipanti modalità di lavoro improntate ad una visione sistemica del lavoro di rete.

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Il primo di questi seminari dal titolo “L’assistenza domiciliare agli anziani tra pubblico e privato: la prospettiva del secondo welfare” ha avuto luogo nell’autunno del 2014 ed è stato curato da Franca Maino. Dopo un inquadramento di carattere teorico sui temi delle prospettive del secondo Welfare alla luce della crisi attuale e alle sfide e ai bisogni che caratterizzano le attuali politiche sull’assistenza agli anziani a domicilio, sono state presentate alcune esperienze concrete di collaborazione tra pubblico, privato, privato sociale e volontariato68. Il tema portante della giornata era centrato sulla richiesta da parte del sistema curante di una collaborazione sinergica tra l'ambito pubblico e quello del privato e del privato sociale, al fine di dare risposte differenziate, ma allo stesso tempo complementari rispetto agli specifici bisogni sociali che vanno emergendo..

Il secondo momento di studio, a cura di Franca Olivetti Manoukian si è articolato su due giornate organizzate a distanza di un mese una dall’altra. In entrambe le occasioni ha partecipato la dottoressa Daniela Scrittore, funzionaria dei Servizi Sociali del Comune di Reggio Emilia.

Il Seminario ha avuto uno svolgimento articolato su due fasi perché in una prima fase si era previsto di proporre ai partecipanti riflessioni e indicazioni riguardanti il loro lavoro. Nelle settimane successive, con diretto riferimento alle situazioni operative abituali, era richiesto a ciascuno di verificare opportunità, facilità e difficoltà di acquisizione di nuove impostazioni lavorative. Nella seconda fase si proponeva ai partecipanti di esporre criticità e intuizioni, perplessità e impossibilità, fattori soggettivi e organizzativi che potessero facilitare e ostacolare evoluzioni nel lavoro di ciascuno.

68 Barbara Graglia, Comune di Torino“Welfare locale e domiciliarietà: l'esperienza di Torino. Quali le possibili linee di sviluppo? Cristina Dragonetti, Presidente Cooperativa Sociale Minerva di Empoli“I Circoli a sostegno della domiciliarietà: l’esperienza della Casa della Memoria”

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Il primo incontro, dal titolo “Interagire con gli anziani e le loro famiglie: perché, come, con quali attenzioni” ha avuto come obiettivo quello di facilitare e promuovere conoscenze e condivisioni rispetto ai cambiamenti del contesto economico e socio-culturale entro cui si collocano i servizi rivolti ad anziani e famiglie, in vista di nuove impostazioni dell’operatività e della collaborazione tra pubblico e privato, tra operatori più o meno professionalmente qualificati, tra operatori e caregiver.

Durante il secondo incontro che aveva per argomento “Costruzione, mantenimento, promozione di reti territoriali finalizzate alla promozione della domiciliarità nella cura degli anziani non autosufficienti” a seguito della richiesta ai partecipanti di impegnarsi a ripensare le varie idee proposte e soprattutto di assumere uno sguardo attento al proprio contesto di lavoro abituale per verificare se e come certe ipotesi possano trovare applicazione, si è dato spazio all’esposizione da parte dei presenti delle proprie riflessioni attorno alle pratiche formali e/o informali che modellano le relazioni tra la propria organizzazione e gli altri attori significativi presenti sulla scena del lavoro di cura a domicilio. In esito al percorso si è rafforzata la convinzione che i cambiamenti in atto rappresentino un’opportunità per introdurre modalità di lavoro differenti che permettano una visione nuova e favoriscano l’idea di ripensare e ricreare il concetto stesso di rete.

8.4 Gli output dell’azione 3: Spazio Anziani, Portale Informativo e Tavolo Anziani

In questo paragrafo si fornisce una sintetica descrizione di tre

prodotti finali dell’azione 3 del progetto “Casa Comune”: lo Spazio Anziani (che rappresenta la struttura fisica della Convenzione), il Portale Informativo, il Tavolo Anziani.

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8.4.1 Lo Spazio Anziani

Si è visto più sopra che la costituzione di un “Punto Informativo e di orientamento Comune-ASL-Organizzazioni del volontariato e del Terzo settore per anziani non autosufficienti”, denominato “Spazio Anziani” è stata resa possibile da un accordo che verra sottoscritto dai soggetti indicati. Allo scopo di progettare l’organizzazione della produzione del servizio offerto, cioè pensare a tutto quello che occorre per mettere in funzionamento lo Spazio, è stato creato un Gruppo operativo a partecipazione mista che, con l’ausilio di un facilitatore e utilizzando lo strumento metodologico fornito dalla teorizzazione di Manoukian69 ha lavorato al fine di: definire ruoli e compiti degli operatori dello Spazio Anziani; definire l’iter processuale del servizio; ipotizzare i contenuti di una serie di schede tecniche di rilevazione dati e monitoraggio del servizio.

Nella fase di sperimentazione lo Spazio Anziani sarà presidiato dalle due figure professionali incaricate del servizio da parte di Comune di Novara e ASL affiancate da un volontario /a appartenente ad una delle organizzazioni firmatarie del Protocollo di Intesa;

La presa in carico della domanda avverrà in maniera sinergica tra operatrici/ori professionali e volontari/e: dunque in sede di primo colloquio, condotto dalle operatrici professionali, il/la volontario/a avrà il ruolo di osservatore, mentre sarà suo compito l’organizzazione dei dati della storia dell’utente secondo una scheda che, in forma narrativa, costituisce lo strumento organizzativo finalizzato a realizzare l’attività di osservatorio dell’Officina Sociale. Si ritiene necessaria una fase di formazione sul campo e di trasferimento di competenze da parte delle figure professionali rispetto ai volontari, soprattutto per coloro

69 F. D’Angella, F. Olivetti Manoukian, G. Mazzoli, Cose (mai) viste. Ri-conoscere il lavoro psicosociale dei Sert, Carocci, Roma 2003.

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che non hanno esperienza nell’ambito specifico dello Spazio Anziani. Si ipotizza, inoltre, una rotazione quindicinale/mensile dei volontari al fine di garantire un lasso di tempo significativo dedicato al consolidamento delle competenze specifiche della “Relazione d’aiuto”.

Di seguito si illustra uno schema riassuntivo delle attività, degli operatori e degli strumenti ipotizzati:

Tab. 8.1 Riepilogo delle attività dello Spazio Anziani

ATTIVITA’ TITOLARE STRUMENTI

Accoglienza Operatori dello spazio

anziani Scheda tecnica di raccolta

dati

Ascolto, presa in carico Figura professionale

affiancata dal volontario di turno

Scheda tecnica di raccolta dati

Decodifica dei bisogni e problematiche che

comportano diversi piani di azione

Figura professionale affiancata dal volontario di

turno

Scheda tecnica di raccolta dati

Azioni di informazione Figura professionale

affiancata dal volontario di turno

Scheda tecnica di raccolta dati

Azioni di orientamento Figura professionale

affiancata dal volontario di turno

Scheda tecnica di raccolta dati

Azioni di counselling Figura professionale

affiancata dal volontario di turno

Scheda tecnica di raccolta dati

Azioni di monitoraggio Figura professionale

affiancata dal volontario di turno

Scheda narrativa della situazione critica

Raccolta dati per l’osservatorio

Volontario in turno Tavolo anziani

Elaborazione della esperienza , condivisione dei

dati dell’osservatorio

Volontario + figure professionali

Scheda tecnica di raccolta dati

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8.4.2 Il Portale Informativo

L’idea di un portale informativo nasce per rispondere all’obiettivo

di creare uno strumento unico in grado di fornire informazioni su tutti gli interventi e i servizi erogati nel territorio comunale, da soggetti pubblici, privati, del privato sociale in materia di assistenza agli anziani. Questo strumento si rivolge principalmente agli operatori. Attraverso la consultazione, ciascun operatore (indipendentemente dal suo specifico settore di intervento) è messo in grado di fornire alle famiglie un quadro chiaro dei servizi disponibili attualmente sul territorio del Comune di Novara.

Per ciascun operatore o servizio pubblico vengono fornite le seguenti informazioni: denominazione completa, acronimo, breve descrizione del servizio, modalità di accesso ai servizio, indirizzo sede operativa, tel/fax/mail, sito web, orari della sede operativa/eventuali chiusure annuali , persona di contatto: nome e cognome, telefono, mail, orari di reperibilità, eventuali costi per l’utente.

Le modalità di consultazione sono essenzialmente tre: − la tipologia di intervento richiesto, dove le le informazioni sono

suddivise per macroaree: ascolto/interventi di sostegno economico, assistenza ospedaliera/in struttura, attività ambulatoriali, centro diurno, dimissioni protette/continuità assistenziale, disbrigo pratiche socio sanitarie, interventi a domicilio, servizi ricreativi, supporto alle lavoratrici (OSS/AF), supporto malattie specifiche , supporto ricerca OSS/AF, trasporto. Queste macroaree sono a loro volta suddivise in sotto-aree. Per ogni sotto area sono indicati tutti i soggetti che offrono quel tipo di servizio, suddivisi per natura (soggetti privati, pubblici, del privato sociale).;

− la tipologia di servizio pubblico, dove compaiono in ordine alfabetico tutti i servizi pubblici offerti da Comune di Novara, ASL 13, Azienda Universitaria Opsedaliera “Maggiore della Carità”;

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− l’Anagrafica Operatori Privati e Volontari, dove sono presentate le schede informastive di tutti i soggetti che hanno partecipato alla costruzione del Portale. Nelle intenzioni, questa sezione dovrà essere implementata con le schede relative ai nuovi soggetti che vorranno essere coinvolti nonchè con quelle relative ai progetti speciali che prenderanno vita grazie all’attività del Tavolo Anziani.

8.4.3 Il Tavolo Anziani

Il Tavolo Anziani costituisce l'esito, a priori non assicurato ma proprio per questo di straordinaria rilevanza, dei due percorsi formativi realizzati tra marzo e giugno 2015, con gli operatori volontari e quelli professionali. Le sfide poste da questi due percorsi erano decisamente impegnative. Si trattava infatti di dare forma ad un "mandato" (quello che si poneva alla base del modello Officina Sociale) molto astratto con ampi margini di ambiguità; di dover trasferire nella pratica i principi metodologici posti alla base del modello stesso; di dare un senso al percorso che avrebbe dovuto condurre alla realizzazione di quel modello, tracciando una mappa che fosse al contempo mentale e operativa; infine, la sfida forse più stimolante: gettare le basi, innanzitutto di conoscenza reciproca, per tessere una vera rete di lavoro tra attori sociali.

Sfide impegnative dunque, che originavano una serie di obiettivi ambiziosi quali: promuovere la conoscenza reciproca e l'integrazione effettiva tra gli attori della rete; condividere i principi metodologici alla base del modello "Officina Sociale" per il sostegno alla domiciliarità; stimolare un confronto dialogico allo scopo di evidenziare opportunità e vincoli offerti dall'attuale configurazione dell'offerta di servizi; identificare e analizzare a fondo gli snodi culturali e operativi posti da un mutamento radicale quale è quello del paradigma di riferimento; co-progettare azioni e strumenti operativi a supporto delle interazioni tra

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gli attori coinvolti nel modello; gettare le basi per l'avvio di un tavolo tematico sugli anziani.

I due gruppi coinvolti erano composti da un lato da figure professionali (assistenti sociali) appartenenti a Comune di Novara, ASL, Azienda Ospedaliera Universitaria, dall'altro da rappresentanti di Organizzazioni di Volontariato e del terzo settore. L'equipe multiprofessionale si è incontrata sei volte, i volontari sette: in due occasioni (a metà circa del percorso e per l'incontro di chiusura) gli incontri si sono svolti in plenaria.

I gruppi hanno essenzialmente funzionato come momenti di conoscenza e riconoscimento reciproco, legittimazione, ascolto ma allo stesso tempo anche come spazi di elaborazione di contenuti e sperimentazione di metodologie innovative. Quello che si è attivato è ua sorta di "circolo ermeneutico" tra modello di riferimento e le conoscenze, le competenze, le storie personali dei protagonisti: le diversità (di storie di esperienze e di competenze appunto) si sono incontrate e confrontate tra loro all'interno di una reale attività di co-progettazione di strumenti utili a risolvere i nodi problematici posti dal mutamento di prospettiva. E' apparsa dunque con chiarezza ai protagonisti la necessità di costruire ponti, collegamenti, connessioni non solo tra i due gruppi, ma con tutti gli attori coinvolti nel progetto casa Comune, sopratutto per riuscire a mantenere in un contesto coerente ed efficace tutti gli esiti del progetto stesso. Ancora, si è lavorato molto per la costruzione di legami all'interno e tra i gruppi che, lo ricordiamo, erano composti da soggetti estremamente eterogenei. Grazie all'insistenza su un atteggiamento di ascolto reciproco, l'esperienza è diventata "generativa": a chiusura del percorso tutti i partecipanti hanno espresso il desiderio che ci sia un seguito a questa esperienza. Di qui l’idea di mantenere un appuntamento mensile di incontro con lo scopo di ragionare, discutere e magari immaginare e costruire percorsi innovativi sul tema della condizione anziana.

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Parte terza Competenze emergenti e processi di qualificazione

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9.

Supportare lo sviluppo professionale delle Assistenti familiari. Un modello formativo centrato sul Workplace Learning

di Giuseppe Porzio 9.1 Accompagnare i percorsi di inserimento lavorativo e sviluppo professionale delle Assistenti familiari La figura dell’Assistente Familiare (spesso denominata “badante”

nel linguaggio comunemente usato dalle famiglie che ricorrono ai suoi servizi) assume un ruolo centrale nelle odierne modalità di risposta ai crescenti fabbisogni della popolazione anziana70.

La costruzione e lo sviluppo di nuove strategie di welfare, più coerenti con il quadro dei bisogni e delle risorse destinato a caratterizzare il contesto socioeconomico in cui viviamo71,non può quindi prescindere da un adeguato investimento sulla qualificazione di questa figura professionale.

70 Cfr. il contributo di Maurizio Ambrosini l capitolo 1 di questa pubblicazione. 71 Cfr., sempre all’interno di questa pubblicazione, il contributo di Franca Maino al capitolo 6. Per un’analisi più organica sulle nuove strategie di welfare in Italia cfr. Ferrera, M., Maino, F., (a cura di), Primo rapporto sul secondo welfare in Italia, Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi, 2013.

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9.1.1 I percorsi di inserimento lavorativo delle Assistenti Familiari La questione appare tuttavia assai complessa, in quanto deve fare i

conti con il peculiare funzionamento del mercato del lavoro che oggi caratterizza le Assistenti Familiari.

Siamo infatti in presenza quasi esclusivamente di donne, per lo più straniere, che accedono al ruolo lavorativo attraverso canali informali di tipo privatistico. In molti casi il rapporto di lavoro non viene formalizzato. La sua regolazione passa per una transazione diretta e informale tra la famiglia dell’anziano e la persona che si assume il lavoro di cura e assistenza, assicurando un monte ore di presenza giornaliero e settimanale molto elevato72.

La scelta di fare l’assistente familiare in molti casi non è frutto di un preciso investimento professionale, ma è piuttosto dettata dall’opportunità di acquisire un reddito attraverso una grande disponibilità a modellare i propri tempi di vita sui bisogni di assistenza degli anziani. In molti casi l’ipotesi è quella di un investimento di breve periodo in questo lavoro, nella speranza di realizzare un guadagno sufficiente a realizzare specifici progetti familiari nel proprio paese di origine o di trovare altre opportunità occupazionali sul mercato del lavoro italiano.

I contorni del ruolo professionale appaiono poco definiti, così come i prerequisiti richiesti per accedervi. Si assume che l’abitudine a svolgere comunque funzioni di cura, proprie della condizione femminile all’interno delle famiglie di origine, costituisca una caratteristica di partenza generalmente sufficiente, soprattutto se associata ad una disponibilità e flessibilità tali da venire incontro alle

72 Per una accurata analisi della condizione delle assistenti familiari cfr. Ambrosini, M., Immigrazione irregolare e welfare invisibile. Il lavoro di cura attraverso le frontiere, Il Mulino, Bologna, 2013.

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esigente temporali di presenza richieste dall’anziano e dal suo nucleo famigliare.

A partire da questa condizione la professionalità si acquisisce “sul campo”, cercando di affrontare nel migliore dei modi possibile i compiti e le problematiche con cui ci si trova a fare i conti nelle concrete situazioni di lavoro.

Si tratta di modalità di inserimento ed esercizio del ruolo professionale che presentano significativi inconvenienti sia riguardo al servizio erogato agli anziani ed alle famiglie che in termini di qualità della vita di lavoro di coloro che ricoprono questo ruolo professionale. Come è del resto ben evidenziato da una ricca serie di testimonianze sia sul fronte delle famiglie che delle lavoratrici73.

Tuttavia esse al momento appaiono in molti casi l’unica soluzione concretamente “praticabile”, in quanto immediatamente disponibile e in grado di fornire il più soddisfacente punto di incontro tra i bisogni degli anziani e delle loro famiglie e le caratteristiche ed esigenze delle persone che offrono la disponibilità per questo tipo di lavoro.

9.1.2 La qualificazione del lavoro di assistenza domiciliare ed il ruolo della formazione

Una strategia di qualificazione del lavoro di assistenza domiciliare è

quindi chiamata a riconoscere e assumere questa situazione, partendo dalle concrete modalità di funzionamento del mercato per cercare di attivare azioni rivolte a migliorare le modalità di accesso, regolazione ed esercizio relative a questo genere di attività74.

73 Colombo, E., “L’estranea di casa: la relazione quotidiana tra datori di lavoro e badanti”, in Colombo, E., Semi, G., (a cura di) Multiculturalismo quotidiano. Le pratiche della differenza, Franco Angeli, Milano, 2007; Degiuli, F., “Home EldercareWork in Italy”, in European Journal of Women’sStudies, 14, n.3, 2007. 74 Cfr. sempre Ambrosini, M., Immigrazione irregolare e welfare invisibile. Il lavoro di cura attraverso le frontiere, cit.

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Vanno in questa direzione un insieme molto variegato di iniziative e progetti rivolti ad intercettare, far emergere e regolamentare i percorsi di inserimento e le condizioni lavorative delle Assistenti Familiari, cercando di mettere a disposizione servizi che aiutino queste persone e le famiglie degli anziani a definire e gestire al meglio le condizioni ed i rapporti di lavoro connessi alle attività di cura e assistenza a domicilio.

Da una parte sono presenti iniziative rivolte a far incontrare domanda ed offerta di lavoro in un quadro di maggiore trasparenza e regolamentazione delle prestazioni attese, a tutela sia dei lavoratori che delle famiglie degli anziani. Dall’altra si cerca di definire standard di riferimento per l’esercizio della professione e azioni di accompagnamento allo sviluppo delle competenze necessarie a svolgere un servizio di assistenza domiciliare qualificato75.

La formazione per le Assistenti Familiari viene considerata un tassello importante all’interno di questo tipo di interventi. Una risorsa per favorire lo sviluppo professionale delle persone e qualificare il tipo di servizio che esse sono in grado di erogare.

In questo contributo viene presentata una proposta di dispositivo formativo a sostegno dei percorsi di sviluppo della professionalità di chi oggi si trova a svolgere un lavoro di assistenza a domicilio76.

Essa parte dal presupposto che la formazione debba essere progettata ed erogata a partire dalle concrete modalità con cui le persone si

75 In riferimento al contesto piemontese un importante punto di riferimento è senz’altro rappresentato dalle diverse iniziative promosse e realizzate in questi anni dal Comune di Torino, oltre che dal progetto Lavoro, Politiche sociali e formazione professionale: un modello integrato per l’assistenza familiare in Piemonte, promosso dalla Regione Piemonte in collaborazione con le Province piemontesi. 76 Essa è frutto di un tavolo di lavoro attivato nell’ambito del Progetto Casa Comune, condotto da Giuseppe Porzio e Miriam Martelli (Filos), a cui hanno partecipato AntoniottiVeruska (C.I.S.A. Ovest Ticino), Eresti Viviana (Cooperativa Nuova Assistenza), Lovati Federico (Comune di Novara), Ugazio Elena (Cisl Novara). Il tavolo si è avvalso anche di un contributo di Menis Daniela (Caritas Diocesana di Novara) e Freschini Paola (Comunità di Sant’Egidio Novara).

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inseriscono nel ruolo lavorativo e “costruiscono” le proprie competenze.

L’ipotesi di fondo che ha guidato l’elaborazione del dispositivo formativo è centrata sulla valorizzazione dell’esperienza lavorativa come opportunità di apprendimento e sviluppo professionale per i soggetti coinvolti.

Abbiamo già ricordato come queste persone si trovino di fatto ad “imparare il mestiere” direttamente attraverso le proprie pratiche lavorative, mobilitando le risorse personali che derivano dalle precedenti (più o meno significative) esperienze nel lavoro di cura. Il dispositivo formativo intende aiutare le persone coinvolte affinché rafforzino la loro capacità di apprendere dalle proprie pratiche lavorative, acquisendo e consolidando per questa via le competenze richieste per l’erogazione di servizi di assistenza domiciliare di qualità.

La ricostruzione del “ruolo concretamente agito” nei contesti di lavoro costituisce il primo passo per definire un quadro di riferimento operativo da cui partire per accompagnare le Assistenti Familiari in un percorso di sviluppo della propria professionalità.

9.2 La figura dell’Assistente Familiare: ruolo agito e framework professionale di riferimento L’elaborazione di una proposta formativa in grado di accompagnare

e sostenere la crescita professionale delle Assistenti Familiari rimanda ad una precisazione delle competenze che sono richieste per un adeguato esercizio di questo ruolo.

La definizione della figura di Assistente Familiare e la relativa attribuzione di un articolato repertorio di attività e competenze, al di là dei processi di formalizzazione in atto77, non è ancora caratterizzata da

77 Al momento della definizione di questo contributo all’interno della Regione Piemonte era attivo un apposito gruppo di lavoro incaricato di definire gli elementi di professionalità e gli standard di riferimento della figura dell’Assistente Familiare.

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una rappresentazione sociale diffusa e condivisa circa gli elementi di professionalità e gli standard di qualità che dovrebbero connotarla. In particolare tra coloro che si trovano ad usufruire dei suoi servizi.

9.2.1 L’analisi del lavoro dell’Assistente familiare La definizione di una figura professionale implica sempre una stretta

interconnessione tra la dimensione lavorativa e quella istituzionale78. La prima rimanda alle caratteristiche dei ruoli concretamente agiti

all’interno dei processi di lavoro che consentono di arrivare alla realizzazione di prodotti e/o alla erogazione di servizi.

La seconda è inerente alle modalità con cui i ruoli agiti vengono circoscritti, codificati e istituzionalizzati (più o meno formalmente) all’interno di un modello professionale socialmente riconosciuto, che diventa il riferimento per definire, formare, certificare e valorizzare una determinata figura.

Si tratta di due dimensioni fortemente interrelate ma non completamente sovrapponibili.

La prima è orientata a rilevare cosa fanno le persone che occupano specifici ruoli impegnati a concorrere alla realizzazione di determinati prodotti o servizi.

La seconda si preoccupa di definire le caratteristiche fondamentali che devono possedere le persone e le modalità con cui debbono agire ai fini di garantire adeguati standard (spesso definiti come “minimi”, cioè irrinunciabili) di qualità nell’esercizio di quel ruolo, a tutela sia dei fruitori dei prodotti/servizi che degli stessi titolari del ruolo.

78 Butera, F., “La professionalità come forza produttiva e come istituzione”, in Mollica, S., Montobbio, P., (a cura di) Nuova professionalità, formazione, organizzazione del lavoro, Franco Angeli, Milano, 1982.

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Le finalità ed il contesto di riferimento del nostro contributo ci hanno portato ad approcciare le problematiche dell’Assistente Familiare concentrando l’attenzione sulla prima dimensione.

Lavorando con un gruppo di soggetti che, a diverso titolo, segue da vicino le problematiche dell’assistenza domiciliare agli anziani nel territorio novarese79 si è proceduto a ricostruire i processi di lavoro, le attività e le competenze concretamente agite dalle persone che oggi ricoprono un ruolo riconducibile a quello di “assistente familiare”.

L’analisi si è orientata alla messa a fuoco di attività e problematiche che le persone inserite in un lavoro di assistenza a domicilio, spesso in contesti poco o per nulla regolamentati, si trovano ad affrontare per arrivare ad erogare i servizi a cui sono chiamati comunque a contribuire. Cercando al tempo stesso di evidenziare le risorse che sarebbe auspicabile esse possedessero e sapessero attivare per qualificare il loro contributo e, per questa via, il livello dei servizi offerti all’anziano e alla sua famiglia.

9.2.2 Una rappresentazione del “ruolo agito” dall’Assistente familiare L’analisi del Servizio di assistenza e cura a domicilio80 ha portato in

primo luogo a definire una rappresentazione dei “servizi erogati” a cui è comunque chiamato a contribuire chi oggi si trova ad agire il ruolo di Assistente Familiare nei concreti contesti di lavoro.

79 Cfr. la nota 8. 80 Il modello di analisi adottato si richiama al concetto di servizio come articolazione di un pacchetto di “servizi elementari” integrati tra di loro che caratterizza una consolidata tradizione di studi sulle problematiche dei servizi. Cfr. ad esempio il classico Norman, R., La gestione strategica dei servizi, Etas, Milano, 1985.

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Figura 9.1 - La mappa dei servizi che l’Assistente familiare contribuisce ad erogare

La mappa sottende una “opzione di valore” legata ad un “profilo di

qualità” del servizio di cura ed assistenza a domicilio, indicando come elemento centrale81 e caratteristica distintiva il supporto all’anziano affinché egli possa mantenere il più alto grado di autonomia possibile nel presidio del suo contesto di vita quotidiana e della rete di relazioni sociali che la caratterizzano e qualificano.

81 Il “core service”, si direbbe con il linguaggio proprio della letteratura che si occupa di management dei servizi.

Igiene e cura

personale

Cura ambiente

domestico

Socialità e

rete di relazioni

Assistenza

bisogni alimentari

Supporto pratiche

terapeutiche

Disbrigo pratiche

amminist.

Rilevazione

disagi e cambiamenti

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È in questa logica che assumono uno specifico significato anche i quattro servizi operativi che riguardano rispettivamente il supporto alla cura della persona (Igiene e cura personale, Rilevazione di disagi e cambiamenti) e la gestione delle faccende domestiche (Assistenza ai bisogni alimentari, Cura ambiente domestico).

Completano il quadro dei servizi che l’Assistente familiare si trova spesso di fatto a presidiare anche l’Aiuto alle pratiche terapeutiche e il Disbrigo delle Pratiche Amministrative).

La mappa qui rappresentata non ha una finalità “normativa”, ma intende piuttosto richiamare e collocare in una lettura organica del servizio di assistenza domiciliare le attività e le problematiche che oggi l’Assistente Familiare si trova spesso di fatto a presidiare.

Nelle specifiche situazioni non è detto che le persone che ricoprono il ruolo si trovino necessariamente a dover garantire tutti questi servizi. Una rappresentazione di insieme delle caratteristiche da assumere come riferimento nella descrizione della “figura professionale agita” deve tuttavia tener conto dei diversi contesti lavorativi in cui essa si può trovare ad operare.

Sottolineare il fatto che l’Assistente Familiare si trovi a fare i conti con queste aree di attività non significa affermare che oggi coloro che ricoprono il ruolo riescano sempre a presidiare i servizi garantendo adeguati standard di qualità.

L’obiettivo è piuttosto quello di evidenziare come, trovandosi comunque nella concreta condizione di affrontare queste problematiche all’interno dei propri contesti di lavoro, sarebbe opportuno mettere meglio a fuoco le prestazioni e le competenzeche dovrebbero connotare le attività di queste persone ai fini di erogare dei servizi di qualità.

Coerentemente con questo orientamento si è proceduto ad individuare, in riferimento a ciascuna delle aree specificate all’interno della mappa, le risorse professionali che sarebbe necessario possedere per garantire delle prestazioni adeguate sul piano della qualità dei servizi erogati.

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Qui di seguito viene presentata una descrizione sintetica delle competenze associate a ciascuna area di attività82.

Tab. 9.1 - La descrizione sintetica del profilo di competenze associabili al “ruolo agito” dall’Assistente familiare

Area di attività Competenze

Socialità e rete di relazioni

Inserirsi costruttivamente nel

contesto familiare e sociale dell’assistito, sviluppando un rapporto positivo con lui e aiutandolo a mantenersi attivo nei confronti dei propri interessi e reti di relazioni, coerentemente con le opportunità consentite dalle risorse psicofisiche del soggetto

Igiene e cura personale

Assistere l’anziano nelle attività

di igiene e cura personale, favorendo la massima autonomia in rapporto alle specifiche condizioni della persona e interpretandole come spazio di intimità ed espressione della sua soggettività

82 Una descrizione di dettaglio del profilo di competenze associabile al ruolo dell’Assistente familiare, con la relativa specificazione delle conoscenze e abilità che occorre acquisire e saper mobilitare per il loro esercizio, è disponibile all’interno dei materiali relativi al progetto Casa Comune. L’individuazione e descrizione delle competenze è stata effettuata utilizzando l’impianto metodologico originariamente proposto dall’Isfol (cfr. Isfol, Unità capitalizzabili e crediti formativi. Metodologie e strumenti di lavoro, Franco Angeli, Milano, 1997) ed oggi adottato dai repertori professionali istituiti da molte Regioni.

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Tab. 9.1 - La descrizione sintetica del profilo di competenze associabili al “ruolo agito” dall’Assistente familiare (continua)

Area di attività Competenze

Assistenza ai bisogni alimentari

Presidiare la preparazione e

l’assunzione dei cibi tenendo conto sia delle specifiche esigenze dietetico / sanitarie che della cultura e delle preferenze dell’anziano

Cura ambiente domestico

Mantenere le adeguate condizioni

di igiene, pulizia, sicurezza e decoro dell’ambiente domestico, in modo che per l’anziano possa continuare a rappresentare una realtà confortevole e affettivamente significativa

Rilevazione di disagi e

cambiamenti

Osservare criticamente

l’emergere di particolari segnali di disagio o cambiamento psicofisico nella persona assistita, segnalando tempestivamente questi elementi alla famiglia e/o alle altre figure professionali di riferimento

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Tab. 9.1 - La descrizione sintetica del profilo di competenze associabili al “ruolo agito” dall’Assistente familiare (continua)

Area di attività Competenze

Supporto alle pratiche

terapeutiche

Assistere l’anziano nel corretto

svolgimento delle attività previste dal suo specifico piano terapeutico e/o riabilitativo, rapportandosi efficacemente con le figure professionali specialistiche sia per la somministrazione delle cure previste che per la restituzione di informazioni utili a monitorare progressivamente l’evoluzione dello stato di salute del soggetto

Disbrigo pratiche amministrative

Assistere l’anziano nel disbrigo di

pratiche burocratiche e amministrative collegate ai suoi diritti e doveri di cittadino, seguendo le indicazioni ricevute dall’assistito o dai suoi familiari

9.2.3 Un framework professionale di riferimento per sostenere lo sviluppo delle competenze dell’Assistente Familiare

Ci si potrebbe chiedere quanto ed in che misura gli elementi

sinteticamente presentati nel paragrafo precedente possano essere assunti all’interno di un percorso di definizione e regolamentazione istituzionale della figura. Si tratta di una problematica che ovviamente rimanda ad altre, più ampie e rappresentative, sedi di dibattito e confronto

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Se infatti l’analisi delle caratteristiche del servizio di assistenza domiciliare e dei processi di lavoro che lo alimentano fanno emergere la rappresentazione del ruolo agito che viene qui descritta, rimane decisamente aperta la questione di come essa debba essere interpretata ed eventualmente rielaborata all’interno di una progettualità orientata a codificare e qualificare una specifica figura in un più ampio sistema di riferimento professionale e/o legale/contrattuale.

Problematiche concrete che attengono a questa pista di lavoro sono ad esempio la “legittimità” e “l’appropriatezza” circa il presidio di alcune attività che l’analisi riscontra nel ruolo agito (ad esempio in riferimento al supporto a piani terapeutici). Oppure i “confini di ruolo” che devono distinguere l’apporto professionale dell’Assistente Familiare dall’Operatore Socio Sanitario.

Si tratta naturalmente di questioni di grande rilevanza all’interno di una progettualità rivolta alla definizione di un sistema professionale organico e articolato, a supporto della qualificazione dei servizi di assistenza domiciliare alla popolazione anziana. Che tuttavia, pur essendo emerse nel corso del nostro lavoro di analisi, rimandano a livelli di elaborazione e decisione che non possono essere propri di questa sede.

Lo specifico contributo che si è inteso mettere a disposizione attraverso la rappresentazione proposta riguarda la possibilità di leggere il ruolo agito da chi oggi si trova inserito in questi processi come punto di partenza e risorsa per un percorso di professionalizzazione.

Oggi le persone si trovano, all’interno di contesti poco regolamentati e riconosciuti, di fronte ad attività e richieste che presidiano in modo più o meno soddisfacente, scontando carenze che si ripercuotono sia sulla qualità del lavoro di assistenza che sulle loro condizioni di lavoro.

E’ possibile partire da questa condizione per accompagnarle in un percorso di crescita professionale che favorisca un aumento della qualità del loro lavoro e del servizio che erogano?

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La rappresentazione delle diverse attività da presidiare e delle risorse che richiedono intende costituire un quadro di riferimento per andare in questa direzione.

La sfida è quella di costruire un dispositivo di formazione e sviluppo delle competenze per sostenere il “ruolo agito” nei contesti di lavoro e farne la risorsa centrale di un percorso di crescita professionale, tenendo conto delle caratteristiche delle persone che oggi si trovano a ricoprirlo.

È chiaro che un disegno di questo tipo non può dispiegarsi solo attraverso la formazione. La sua piena attuazione ha bisogno che si creino alcune condizioni di contesto che presuppongono l’attivazione di forme di regolazione, o quantomeno di presidio socialmente condiviso, delle modalità con cui oggi viene di fatto attuata la grande maggioranza del lavoro di assistenza a domicilio.

Appare tuttavia utile tentare di mettere a disposizione alcuni possibili modelli per sperimentare questo processo di professionalizzazione in una prospettiva di qualificazione complessiva dell’intero sistema di assistenza a domicilio, in grado di tenere conto delle forme che va assumendo e del nuovo contesto socioeconomico in cui esso va ad inserirsi83.

Sapendo che la loro concreta fattibilità dipenderà anche dal modello di governance dei servizi di cura e assistenza a domicilio che prenderà forma nel territorio.

La definizione del contesto di regolazione istituzionale della figura, che si sta nel frattempo concretizzando, fornirà poi le indicazioni verso cui orientare il processo di professionalizzazione appena richiamato, anche in termini di possibile riconoscimento formale delle competenze acquisite.

83 Cfr. Ferrera, M., Maino, F.,(a cura di), Primo rapporto sul secondo welfare in Italia, cit.

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9.3 Un dispositivo formativo centrato sull’esperienza lavorativa delle Assistenti familiari Abbiamo più volte sottolineato come nella grande maggioranza dei

casi l’accesso al ruolo di Assistente Familiare passi di fatto attraverso percorsi non regolamentati e poco governati. La maturazione della professionalità di questi operatori avviene in modo più o meno efficace ed esaustivo attraverso la pratica “sul campo”, a partire da un bagaglio personale di abilità e conoscenze disomogeneo e frutto delle proprie traiettorie personali in altri contesti non formali e/o informali.

Il dispositivo formativo presentato in questo capitolo intende riconoscere e valorizzare i percorsi che oggi caratterizzano l’ingresso nel ruolo, accompagnando e qualificando i processi di apprendimento che hanno comunque potenzialmente luogo all’interno delle pratiche lavorative.

Esso mira a mettere a disposizione un mix agile e sostenibile di occasioni, contesti e strumenti che aiutino coloro che già svolgono questo ruolo sul campo a imparare dalla propria esperienza ai fini di consolidare ed accrescere il bagaglio individuale di competenze di cui dispongono.

L’obiettivo è quello di coinvolgere questi soggetti in percorsi di professionalizzazione fondati sulle loro pratiche lavorative, utilizzando il framework professionale per l’Assistente Famigliare come quadro di riferimento per progettare e perseguire specifici traguardi di apprendimento all’interno di una prospettiva complessiva di crescita professionale degli operatori e di qualificazione del servizio di Assistenza Domiciliare.

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9.3.1 La pratica lavorativa come risorsa per l’apprendimento e lo sviluppo professionale

Ogni pratica lavorativa richiede un processo di apprendimento da

parte della persona che la mette in atto. Il soggetto coinvolto è chiamato a “mettere in azione” le abilità e conoscenze di cui è in possesso per fornire le prestazioni che gli sono richieste e ricoprire il proprio ruolo professionale84.

Per fare questo occorre imparare procedure tecnico operative (a volte anche di notevole complessità) e saper interagire costruttivamente con i diversi attori presenti nel contesto lavorativo.

L’apprendimento attraverso la pratica lavorativa è tuttavia un processo che non richiede la semplice memorizzazione/riproposizione di conoscenze e/o procedure operative. Esso implica la loro messa in opera all’interno di situazioni concrete, che sollecitano la persona a ricercare e affinare “comportamenti efficaci” attraverso: − la valutazione degli esiti delle proprie azioni (interrogarsi sui

risultati prodotti, individuare eventuali criticità e analizzare le cause che possono averle prodotte, ecc.);

− la definizione e sperimentazione di più adeguate modalità di intervento, tenendo conto di cosa è possibile fare in ogni specifica situazione;

− la sedimentazione critica delle strategie che si sono rivelate più efficaci, in modo da poterle riproporre flessibilmente quando verranno richieste prestazioni e/o si riproporranno problematiche vicine a quelle che si sono affrontate in precedenza.

84Cfr Porzio, G., “Workplace learning. Concezioni, condizioni, implicazioni”, Professionalità, n. 92, aprile-giugno 2006.

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Dal punto di vista del soggetto la dimensione lavorativa e quella dell’apprendimento sono ampiamente sovrapposte, ed hanno a che fare con: − la natura delle prestazioni richieste; − il “sapere” (conoscenze, procedure, modelli di azione, strategie di

interazione, ecc.) sedimentato nelle pratiche lavorative consolidate, a cui può potenzialmente attingere per mettersi nella condizione di un’efficace erogazione delle prestazioni;

− le risorse (cognitive, affettive, psicosociali) personali di partenza che gli consentono di mettersi attivamente in relazione con il contesto, riconoscere e valorizzare le risorse eventualmente presenti al suo interno in funzione delle prestazioni da erogare, acquisire e/o rielaborare un’adeguata rappresentazioni dei problemi da affrontare e delle strategie di intervento da mettere in atto.

Figura 9.2.: L’esperienza lavorativa come processo di apprendimento continuo Il lavoro implica un “riallineamento” più o meno significativo e

continuo di questi tre elementi. La natura delle prestazioni richieste sollecita una mobilitazione delle risorse del soggetto, che può essere

Natura delle prestazioni richieste

Risorse (cognitive, affettive, psicosociali) personali di partenza

Il «sapere» sedimentato nella pratica lavorativa

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agevolata (od ostacolata) dai modelli di conoscenza e di intervento consolidati.

D’altra parte la mobilitazione delle risorse individuali e il loro sviluppo attraverso l’azione diretta all’interno del contesto costituiscono la leva fondamentale attraverso cui si produce un affinamento/ridefinizione delle pratiche lavorative (ed un “aggiornamento” del sapere sedimentato al loro interno) e un miglioramento delle prestazioni attese.

Gli oggetti e i processi sottesi a questi apprendimenti rimangono per lo più relativamente indefiniti, fortemente “incardinati” all’interno delle stesse pratiche lavorative delle persone e delle organizzazioni.

La loro flessibilità e “plasticità” rispetto all’esperienza lavorativa costituisce del resto la loro forza, in quanto non sembrano richiedere la mobilitazione di particolari risorse dedicate al loro presidio.

Tuttavia dal punto di vista del soggetto l’esito di questi processi non è scontato85. A fronte della richiesta di prestazioni e/o di situazioni problematiche impreviste o diverse rispetto al passato egli deve riconoscere che le strategie cognitive e operative che era abituato ad utilizzare si rivelano insufficienti, senza per altro poter immediatamente disporre di chiare alternative. La presenza di dinamiche organizzative e relazionali complesse e a volte conflittuali aumentano le difficoltà per arrivare ad elaborare efficaci strategie di azione.

E’ sempre presente il rischio che il soggetto metta in moto "meccanismi difensivi"86 che lo portano ad assumere rigidi comportamenti stereotipati, ad abbassare la propria motivazione e autostima, a sviluppare un atteggiamento conflittuale attribuendo ad altri l’intera responsabilità delle proprie difficoltà e a ritenere di non poter fare nulla per modificare la situazione.

85 Nicholson N., “A theory of work-role transition”, Administrative Science Quaterly, n. 29, 1984. 86Illeris, K., The Fundamental of Workplace Learning, Routledge, London, 2011.

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D’altra parte, è proprio riuscendo a fronteggiare queste difficoltà che la persona impara concretamente a "interagire costruttivamente" con la realtà in cui è inserito, a consolidare un insieme di abilità (diagnosticare la situazione, definire obiettivi realistici, assumersi responsabilità, prendere decisioni, impostare progetti di azione, cooperare e gestire costruttivamente i conflitti, affrontare i problemi utilizzando intelligentemente i margini di discrezionalità, ecc.) importanti per una consapevole assunzione del ruolo lavorativo, a progettare e costruire progressivamente una compiuta identità professionale riconosciuta nel contesto di riferimento.

La presenza di marcati squilibri tra le prestazioni richieste all’interno di uno specifico contesto e l’insieme delle risorse cognitive, affettive e motivazionali che una persona è in grado e/o disponibile ad attivare può rendere più difficile superare queste difficoltà attraverso l’autonoma e “naturale” attività riflessiva che favorisce i processi di apprendimento dall’esperienza e porta al consolidamento e sviluppo delle proprie competenze87.

Per altro le caratteristiche dello specifico contesto lavorativo, con la presenza di condizioni più o meno favorevoli al coinvolgimento attivo delle persone e al sostegno dei loro processi di apprendimento dall’esperienza88, possono influire significativamente sull’effettiva possibilità che la partecipazione ad un’attività lavorativa si traduca in opportunità di crescita professionale.

87 Porzio, G., “Workplacelearning. Concezioni, condizioni, implicazioni”, cit. 88 Billet, S., “Workplace participatory practices. Conceptualising workplaces as learning environments”, Journal of Workplace Learning, vol. 16, n. 6, 2004.

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9.3.2 Dispositivi e azioni a supporto dell’apprendimento nei contesti lavorativi

La progettazioni di azioni formative intenzionalmente orientate a

sostenere i processi di apprendimento connessi alle pratiche lavorative assume la consapevolezza della problematicità del passaggio dal fare esperienza all’acquisire esperienza. La prima è intesa come vissuto in rapporto ad un evento o a un problema all’interno di un orizzonte delimitato in termini spazio temporali. La seconda presuppone una capacità/possibilità di riflessione e interpretazione critica su questi vissuti, che consenta di qualificare l’esperienza stessa come apprendimenti (anche non formalizzabili) che costruiscono e sviluppano i propri sistemi di conoscenza e capacità di intervento in un range progressivamente più ampio e complesso di situazioni89.

Abbiamo sinteticamente ricordato come questo passaggio possa incontrare significativi ostacoli, legati sia alle più o meno favorevoli condizioni del contesto di lavoro che alle motivazioni e risorse iniziali del soggetto.

La loro sottovalutazione porta spesso ad una parziale o insufficiente capitalizzazione delle opportunità di apprendimento connesse all’esperienza lavorativa, con un conseguente abbassamento dei livelli di professionalità sedimentata dalle persone e di qualità delle prestazioni erogate.

Lo sviluppo di un’azione formativa intenzionalmente orientata a sostenere i processi di apprendimento centrati sulle pratiche lavorative cerca di costruire dispositivi e metodologie che consentano di riconoscere queste difficoltà e di favorirne il superamento in funzione di specifici traguardi di apprendimento e sviluppo di competenze.

89 Sarchielli, G., “Ricostruire l’esperienza per riconoscerne un valore: opportunità e cautele”, in AAVV, Il capitale esperienza. Ricostruirlo, valorizzarlo, I libri del Fondo Sociale Europeo, Isfol, Roma, 2008.

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Le indicazioni provenienti dalla letteratura specialistica sulla progettazione di azioni formative centrate sulla valorizzazione dell’esperienza lavorativa pongono particolare attenzione a due aspetti90: − la guida ed il sostegno ai processi di apprendimento nel contesto

lavorativo; − l’accompagnamento alla riflessione critica dei soggetti in

apprendimento circa le esperienze nei propri percorsi di lavoro e sviluppo professionale. Da una parte si tratta di qualificare le modalità di guida e

supervisione allo svolgimento delle attività lavorative, ai fini di favorire lo sviluppo delle competenze necessarie per il loro efficace presidio.

Dall’altra di definire appositi momenti e setting in cui si sostengono i processi di ricostruzione e riflessione critica dell’esperienza lavorativa, in modo che i soggetti abbiano l’opportunità di mettere a fuoco e integrare più consapevolmente all’interno del proprio bagaglio professionale quanto hanno avuto modo di acquisire attraverso di essa.

Il dispositivo formativo rivolto a sostenere i processi di professionalizzazione delle Assistenti Familiari ha cercato di elaborare una modalità di intervento orientata a presidiare entrambe le dimensioni, tenendo conto: − della natura dei processi e delle problematiche connesse

all’apprendimento centrato sull’esperienza lavorativa che sono stati appena richiamati;

− delle peculiarità che caratterizzano i percorsi di inserimento e le attività svolte dalle persone che oggi ricoprono questo ruolo.

90 Porzio, G., Work-based Learning. Apprendimento e formazione sul lavoro, rapporto di ricerca, Isfol, Roma, 2012.

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9.3.3 Un dispositivo formativo per le Assistenti Familiari: il modello di riferimento

Il dispositivo formativo per le Assistenti Familiari si propone,

assumendo come riferimento il framework professionale relativo al ruolo, di raccordare le pratiche lavorative esperite dalle singole persone con un percorso di confronto e riflessione critica con altri soggetti che vivono situazioni simili, ai fini di sedimentare e consolidare le competenze maturate attraverso di esse.

In questa logica si tratta di definire, combinare e presidiare una serie di risorse e azioni che favoriscono la qualità dei processi di apprendimento e sviluppo delle competenze maturate attraverso l’esperienza lavorativa

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Figura 9.3 - Risorse e azioni a supporto dell’apprendimento delle persone nei contesti di lavoro91

A. Framework professionale del ruolo agito dall’Assistente Familiare Mette a disposizione una cornice che può aiutare le persone a

ricostruire, razionalizzare e sistematizzare le attività che si trovano a presidiare agendo il ruolo di assistente familiare e le competenze che hanno maturato (o che devono potenziare/sviluppare). Costituisce un

91 Adattato da Porzio, G., Work-based Learning. Apprendimento e formazione sul lavoro, cit.

Pratiche lavorative

Framework

professionale

Progetto formativo

centrato su WPL

Negoziazione tra

attori e razionalità diverse

Autoosserv. e supervisione delle pratiche

Sostegno percorsi sviluppo

professionale

Strategie di azione relative a specifici domini di competenza

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riferimento comune a supporto del confronto tra le diverse esperienze e la riflessione critica su di esse.

Può inoltre rappresentare una sorta di “libro di testo” lungo cui scandire e approfondire l’analisi critica delle esperienze e la sedimentazione delle strategie di azione che aiutano a gestire efficacemente i diversi domini di ruolo, oltre che a focalizzare le risorse (abilità e conoscenze) necessarie a metterle in atto efficacemente.

La sua valenza tuttavia non va intesa in senso “normativo”. Non deve essere proposto come uno standard a cui adeguarsi (“il bravo Assistente familiare”) a prescindere dai vissuti e dalle pratiche che connotano il contesto lavorativo delle singole persone coinvolte. Esso è piuttosto da valorizzare come una risorsa per riflettere su di essi ai fini di “attribuire senso” al proprio ruolo, definendo meglio le strategie di azione che ciascuno può mettere in atto per erogare più efficacemente le prestazioni che gli vengono richieste e consolidare la propria professionalità.

B. Autoosservazione e supervisione delle pratiche lavorative messe in atto da ciascun partecipante all’interno del proprio contesto di lavoro È noto come l’adozione di efficaci strategie di guida e supervisione

da parte di un lavoratore esperto costituiscano una delle risorse fondamentali per favorire i processi di apprendimento e lo sviluppo di competenze attraverso la pratica lavorativa92.

La loro crucialità ai fini dell’apprendimento non è da ricercare esclusivamente nella illustrazione e dimostrazione delle modalità operative da adottare. La funzione di guida e supervisione è più

92 Billet, S., “Workplace participatory practices. Conceptualising workplaces as learning environments”, cit.

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efficace quando è in grado di favorire un accesso ai presupposti cognitivi e sociali che orientano il modo di “mettere in atto” le pratiche lavorative all’interno di uno specifico contesto. Presupposti che spesso rischiano di essere “agiti” senza un adeguato grado di consapevolezza da parte del soggetto.

Le modalità di accesso al ruolo e la condizione lavorativa di gran parte delle Assistenti familiari non consente tuttavia di ricorrere ai più tradizionali modelli di supervisione.

A fronte di questa difficoltà due sono le strategie che si ritiene possibile adottare.

In primo luogo si intende fornire strumenti per favorire un’autoosservazione mirata delle proprie pratiche lavorative, ai fini di sviluppare adeguate occasioni di riflessione sulle stesse anche attraverso il confronto con gli altri partecipanti.

Inoltre si ritiene utile e possibile, attraverso una adeguata negoziazione preventiva di questa condizione con i partecipanti e le famiglie presso cui lavorano, prevedere alcune ore di supervisione diretta da parte di un operatore esperto (Operatori Socio Sanitari che operano all’interno del sistema di erogazione di servizi di Assistenza Domiciliare regolato dalla Pubblica Amministrazione).

La supervisione sarà finalizzata ad alcune specifiche attività e sarà impostata rifuggendo da logiche e/o approcci di tipo valutativo. Il contributo dell’operatore esperto sarà orientato prioritariamente ad aiutare l’Assistente Familiare ad interrogarsi criticamente sulle proprie pratiche, mettendo a fuoco adeguatamente i presupposti che le guidano, le criticità che incontrano, le possibile strategie per fronteggiarle e migliorare la propria capacità di presidio dei servizi offerti all’anziano.

L’obiettivo è quello di costruire le condizioni affinché l’Operatore Socio Sanitario sia percepito come una risorsa per aumentare la propria professionalità e capacità di intervento.

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Coerentemente con quest’ottica il contributo dell’Operatore Socio Sanitario93 non si limiterà a dei momenti di supervisione nel contesto lavorativo. Coloro che saranno coinvolti in questa attività faranno parte integrante dello staff chiamato a gestire l’intero percorso formativo, partecipando attivamente anche ai momenti di gruppo dedicati alla rielaborazione e sistematizzazione delle esperienze.

C. Accompagnamento alla riflessione critica e alla sistematizzazione

della propria esperienza lavorativa La predisposizione di setting appositamente orientati ad attività di

ricostruzione e riflessione critica delle esperienze lavorative sono finalizzati a favorire una migliore consapevolezza delle “conoscenze in azione” che si è in grado di padroneggiare e delle possibili condizioni e strategie per svilupparle ulteriormente, innalzando i propri livelli di competenza.

L’obiettivo è quello di favorire nei partecipanti una riconsiderazione dei comportamenti agiti nel contesto lavorativo, dei presupposti cognitivi e le dinamiche relazionali che li hanno guidati e condizionati, dei risultati che hanno prodotto in funzione degli obiettivi attesi.

L’analisi critica di queste esperienze è intesa come punto di partenza per considerare e sperimentare strategie di azione ritenute più efficaci, a partire da una attenta considerazione del sistema di vincoli e risorse che caratterizza lo specifico contesto in cui si è chiamati ad operare.

93 Per la definizione del ruolo dell’Operatore Socio Sanitario come risorsa a supporto dei percorsi di qualificazione dei servizi di assistenza a domicilio e la professionalizzazione delle Assistenti familiari consulta i materiali prodotti, sempre all’interno del Progetto Casa Comune, dallo specifico tavolo di lavoro condotto da Giuseppe Porzio e Miriam Martelli (Filos) con la partecipazione di Gaetano Bello (Comune di Novara), Antonella Dessì (Cooperativa Nuova Assistenza), Eresti Viviana (Cooperativa Nuova Assistenza), Rita Galbiati (Cooperativa Nuova Assistenza), Dario Morabito (Cooperativa Nuova Assistenza).

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La non immediata “accessibilità” di questi elementi all’esperienza quotidiana del soggetto, anche per le dinamiche affettive interne che spesso non favoriscono la loro spontanea elaborazione, sono alla base dell’opportunità di predisporre setting e metodologie di accompagnamento finalizzate a sostenere simili processi.

Le attività di accompagnamento saranno orientate ad una duplice focalizzazione.

Da una parte saranno rivolte a ricostruire criticamente le strategie di azione relative a specifici domini di competenza, in vista di un più elevato livello di padronanza nel loro presidio.

Nello stesso tempo faranno riferimento ad un più generale sostegno al progetto di sviluppo e di costruzione dell’identità professionale dei singoli partecipanti, favorendo la loro capacità e motivazione nel definire e perseguire i propri obiettivi di apprendimento attraverso lo sviluppo di strategie proattive all’interno del loro contesto lavorativo.

Si tratta di due finalità che inevitabilmente si richiamano reciprocamente e si sovrappongono significativamente, soprattutto nella prospettiva dei vissuti del soggetto in apprendimento. Ma che tuttavia possono anche essere perseguite con momenti di supporto e scansioni temporali diverse, ponendo di volta in volta più attenzione all’una o all’altra di queste istanze.

D. Negoziazione delle condizioni di fattibilità e di efficacia dell’azione

formativa L’efficacia di dispositivi intenzionalmente orientati a sostenere i

processi di apprendimento sul lavoro è fortemente influenzata dalle condizioni di contesto in cui vanno ad inserirsi.

L’attenzione a queste problematiche presuppone comunque una mobilitazione di risorse (di tempo, di costi, ma anche di impegno personale) che non sempre è congruente con gli obiettivi di breve periodo degli attori che dovrebbero essere coinvolti.

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La “razionalità” legata alla massimizzazione di obiettivi “produttivi” di breve periodo non sempre coincide con quella tesa ad investire sul futuro sviluppo della qualità del sistema94.

Una proposta di accompagnamento allo sviluppo delle competenze delle Assistenti familiari e della qualità dei servizi di assistenza a domicilio come quella ipotizzata in questa sede è destinata a fare i conti con parecchie resistenze.

Molti dei potenziali destinatari potrebbero non essere particolarmente motivati ad investire in un percorso di questo genere. Alcuni perché caratterizzati da un progetto di vita in cui l’attuale occupazione è vista come un’opportunità temporanea, da massimizzare economicamente in termini di breve periodo. Altri perché percepiscono come gravoso conciliare un lavoro pesante ed assorbente con un impegno simile, a fronte di risultati che dal loro punto di vista potrebbero essere difficilmente valutabili.

Per le famiglie non è facile cogliere i potenziali vantaggi nel favorire la partecipazione del proprio Assistente Famigliare e nel consentire l’ingresso di un altro operatore all’interno del proprio contesto. Spesso la scelta di ricorrere ad un’assistenza domiciliare viene effettuata per fronteggiare situazioni di emergenza difficilmente gestibili altrimenti, nelle quali è molto difficile percepire e valutare la qualità effettiva del servizio, che viene per lo più misurato (fatte salve alcune “condizioni minime” di soglia) sul “tempo” in cui la persona è a disposizione.

Anche sul fronte istituzionale possono presentarsi alcune resistenze. Ad esempio la logica formativa potrebbe apparire troppo complessa ed eccessivamente onerosa se rapportata ad altre soluzioni con cui si formano le figure professionali in ingresso nel mercato del lavoro.

Partendo da questo presupposto occorre considerare, come parte integrante e rilevante dell’architettura formativa proposta, la necessità

94Illeris, K., The Fundamental of Workplace Learning, Routledge, London, 2011.

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di prevedere, negoziare e presidiare alcune possibili condizioni in grado di sostenerne la fattibilità e favorirne l’efficacia.

Se ne richiamano alcune a puro titolo esemplificativo, come possibili elementi da tenere presente al momento di progettare ed attivare iniziative formative di questo tipo all’interno di uno specifico territorio: − una forte integrazione tra la gestione dei servizi di incontro tra

domanda e offerta di Assistenti Familiari e la promozione della proposta formativa presso famiglie e lavoratrici;

− un ruolo di supervisione attiva e sistematica allo svolgimento di queste iniziative da parte della struttura di governance del sistema territoriale di cura e assistenza agli anziani, per assicurare una adeguata sinergia tra le azioni formative per le Assistenti Familiari ed i processi di evoluzione e qualificazione complessiva dell’offerta integrata di servizi pubblici e privati all’interno del territorio;

− l’attribuzione di vantaggi ed agevolazioni alle famiglie che accettano di favorire l’investimento formativo delle loro collaboratrici, sia in termini finanziari che di servizi (ad esempio amministrativi);

− il riconoscimento alle lavoratrici dell’esperienza formativa, a prescindere da “elementi strumentali” quali la certificazione delle competenze acquisite all’interno del sistema regionale e/o da eventuali automatismi in termini di inquadramento contrattuale95;

− la valorizzazione della partecipazione all’attività formativa in termini di opportunità per un ingresso in una più ampia comunità professionale territoriale che si occupa di percorsi di cura e assistenza. Occorrerebbe creare le condizioni per cui il rapporto con l’Operatore Socio Sanitario costituisca per l’Assistente Familiare l’avvio di un interscambio di più ampio respiro, funzionale ad

95 Elementi che sono senza dubbio rilevanti, ma che dovrebbero eventualmente essere considerati come possibile, e non scontata, conseguenza dell’investimento formativo, piuttosto che presupposto per giustificare un’adesione allo stesso.

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aprirgli la prospettiva di una partecipazione (soprattutto in termini di relazioni e di riferimenti) ad una comunità professionale in grado di generare senso di appartenenza e identità, oltre che la rappresentazione di possibili percorsi di “carriera” al suo interno (in questa prospettiva alla partecipazione al percorso formativo potrebbe ad esempio corrispondere l’inserimento di queste persone in un indirizzario per tenerle informate su eventuali occasioni e iniziative inerenti il lavoro di cura ed assistenza nel territorio).

9.3.4 Un dispositivo formativo per le Assistenti Familiari: la valorizzazione delle pratiche lavorative come risorsa per l’apprendimento

Al modello formativo appena descritto si accompagna

un’architettura formativa di riferimento per la progettazione di specifiche iniziative, da definire operativamente di volta in volta in relazione agli specifici contesti.

Non è questa la sede per illustrare in dettaglio l’architettura ed il percorso formativo che ne consegue96.

Essa comunque prevede un’articolazione in tre segmenti formativi: a) una parte iniziale dedicata ad una prima ricostruzione delle

situazioni di lavoro e dei vissuti dei partecipanti ai fini di una riflessione sul ruolo dell’Assistente familiare come risorsa per mantenere e favorire l’autonomia e la qualità della vita dell’anziano;

b) la ricostruzione delle pratiche lavorative con cui i partecipanti affrontano le specifiche attività dell’assistenza a domicilio e l’elaborazione delle possibili linee di azione per un loro efficace presidio (cfr. il framework professionale elaborato in precedenza);

96 Per un loro approfondimento si rimanda sempre ai materiali prodotti nell’ambito del Progetto Casa Comune.

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c) una riconsiderazione d’insieme della propria situazione lavorativa e del ruolo ricoperto, ai fini di mettere a fuoco le risorse a disposizione e/o da potenziare ulteriormente per qualificare il proprio intervento professionale e migliorare sia le condizioni di benessere nel contesto di lavoro che il servizio erogato all’anziano e alla sua famiglia. A titolo esemplificativo richiamiamo solo il modello di

accompagnamento all’analisi e rielaborazione critica delle esperienze lavorative dei partecipanti, che viene proposto in riferimento alle specifiche aree di attività individuate all’interno del framework professionale di riferimento definito in precedenza97.

97Cfr. il paragrafo 9.2

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Figura 9.4 - Modello di accompagnamento all’analisi e rielaborazione critica delle esperienze lavorative dei partecipanti

Autoosservazione pratiche lavorative L’assistenza alla cura e igiene personale dell’anziano: in cosa consiste e come l’affronto

Rielaborazione delle esperienze L’assistenza alla cura e igiene personale dell’anziano: in cosa consiste e come l’affronto

Confronto sulle pratiche lavorativeindividuali L’assistenza alla cura e igiene personale dell’anziano: in cosa consiste e come l’affronto

Materiali di sintesi in formato cartaceo

e/o elettronico e indicazioni di

possibili

Sistematizzazione delle esperienze L’assistenza alla cura e igiene personale dell’anziano: in cosa consiste e come l’affronto

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Il primo passo consiste nella proposta di autosservazione e autoriflessione da parte di ogni partecipante circa le modalità con cui egli affronta lo specifico dominio di attività: le cose che gli vengono richieste, le modalità con cui le svolge, le situazioni problematiche che incontra, le strategie attraverso cui cerca di fronteggiarle, ecc..

A supporto di questo compito verrà resa disponibile un’apposita semplice traccia di lavoro.

Il successivo momento di rielaborazione in aula dovrebbe essere orientato soprattutto a stabilire, a partire dagli elementi emersi dalle osservazioni individuali, un “campo di azione condiviso” tra i partecipanti. Si tratta di riconoscere gli elementi “ricorrenti” all’interno delle singole pratiche in termini di richieste che vengono formulate all’Assistente familiare, di situazioni problematiche che si incontrano, di difficoltà e strategie di fronteggiamento messe in atto. L’obiettivo è di cominciare a mettere a fuoco e condividere possibili ed efficaci strategie di analisi ed intervento che emergono dai partecipanti, riconoscendo al tempo stesso anche la presenza di eventuali criticità e limiti che sarebbe necessario approfondire, anche in termini di conoscenze e modalità di azione da affinare.

Il terzo passaggio prevede una presenza dell’Operatore Socio Sanitario presso il domicilio in cui ogni singolo partecipante lavora, per un approfondimento delle pratiche concretamente agite da ciascuno sul campo.

È importante che questo passaggio venga costruito in modo da non assumere il carattere di una valutazione di come l’Assistente familiare agisca in modo più o meno “corretto”. Il modello deve essere quello di uno “scambio di esperienza sulle proprie pratiche”, in cui il supervisore aiuta l’Assistente familiare a mettere a fuoco “come” interviene, ad esplicitare i presupposti cognitivi che guidano la propria azione (“perché” agisce proprio in quel modo), a considerare risultati e limiti delle scelte operate, a valutare possibili modalità alternative e le conseguenze che potrebbero produrre all’interno della situazione.

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Più che proporre un “modello” da “imitare” si tratta di confrontare due modalità di presidiare la stessa pratica, scoprendo insieme assonanze e differenze, da utilizzare come risorsa per aumentare la consapevolezza dei presupposti cognitivi che guidano le routine operative di entrambi.

Da questo confronto l’Assistente familiare dovrebbe trarre maggiore consapevolezza circa il proprio modo di presidiare quella specifica area di attività, affinare alcune modalità operative e strategie di fronteggiamento delle criticità che la caratterizzano, mettere a fuoco alcune specifiche conoscenze e abilità da consolidare.

Ma anche per l’operatore esperto l’interazione, se condotta adeguatamente, dovrebbe costituire un’efficace occasione di apprendimento. È noto come all’interno delle organizzazioni la necessità di supervisione del lavoro dei “novizi” costituisca per i lavoratori esperti un’importante stimolo a riflettere criticamente sui presupposti che guidano le proprie pratiche abituali, spesso sedimentate in routine operative che le danno per scontate, e ad innovare a loro volta le proprie strategie di azione98.

Il momento finale di sistematizzazione è rivolto a esplicitare il livello di consapevolezza raggiunto tra i partecipanti circa un’esaustiva messa a fuoco dei bisogni a cui cerca di rispondere quella specifica area di attività, delle attese e delle criticità che la caratterizzano, delle strategie attivate e che è possibile attivare per cercare di rispondere adeguatamente, delle abilità e conoscenze che bisogna possedere e rafforzare per aumentare l’efficacia e la qualità del proprio intervento.

Il risultato deve essere frutto principalmente del lavoro di elaborazione e sintesi dei partecipanti. Anche se su alcuni aspetti potrebbe in qualche caso essere utile un lavoro più puntuale di organica

98 Fuller, A., Unwin, L., “Young people as teachers and learners in the workplace: challenging the novice–expert dichotomy”, in International Journal of training and development , vol. 8, n. 1, 2004.

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sistematizzazione da parte dei conduttori del percorso. Esso tuttavia sarà tanto più efficace in quanto agganciato ad un bisogno messo a fuoco dagli stessi partecipanti (ad esempio su alcune specifiche tecniche e pratiche operative).

È importante in ogni caso sottolineare che non si tratta di fare una “lezione finale” per trasmettere le “corrette” linee di comportamento da assumere e riproporre acriticamente nei propri contesti di lavoro. L’obiettivo è la focalizzazione e condivisione delle strategie di azione che “emergono” come fattibili ed efficaci dal precedente percorso di analisi e confronto degli stessi partecipanti sulle proprie pratiche lavorative, evidenziando le conoscenze e abilità che sono necessarie per sostenerle adeguatamente.

Al termine di questi passaggi, a supporto dell’ulteriore percorso di qualificazione delle proprie pratiche nel contesto lavorativo di riferimento da parte di ogni partecipante, verranno messi a disposizione dei materiali. Non si tratta di fornire dei contenuti da studiare e assimilare. L’obiettivo è invece mettere a disposizione degli agili strumenti che razionalizzino e sintetizzino elementi di conoscenza auspicabilmente in linea con il lavoro di confronto e riflessione svolto in precedenza, a cui eventualmente ritornare in caso di bisogno per mettere meglio a fuoco le modalità più opportune per operare all’interno del proprio specifico contesto di lavoro.

I materiali saranno tanto più efficaci quanto più verranno vissuti come “esito” conseguente alle specifiche attività di autoosservazione e riflessione messe in atto dai partecipanti sia nel contesto lavorativo che in aula.

Un impianto di questo tipo può essere utilizzato per ripercorrere molte delle aree di attività presenti nel framework professionale di riferimento, quali: − Cura e igiene personale; − Assistenza ai bisogni alimentari; − Cura dell’ambiente domestico;

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− Rilevazione di eventuali disagi e/o cambiamenti; − Supporto alle pratiche terapeutiche.

L’impostazione proposta deve essere intesa come un’indicazione di

massima da verificare sul campo. Non è detto che tutti i percorsi formativi debbano prevedere di

ripercorrere tutte le aree appena richiamate. In qualche caso si potrebbe ritenere inutile approfondire solo qualcuna di esse. In altri potrebbero essere affrontate congiuntamente più aree di attività all’interno degli stessi passaggi. Alcune di esse potrebbero invece essere oggetto di un più minuzioso ed esteso lavoro di analisi e approfondimento.

La logica di fondo è quella di personalizzare il più possibile i percorsi adattando questo impianto alle specifiche esigenze dei partecipanti e del contesto (oltre che al quadro di vincoli e risorse concretamente disponibile).

Le problematiche connesse al supporto all’anziano nel mantenimento attivo della sua Socialità e rete di relazioni (coerentemente con la specifica condizione di autonomia delle singole persone), indicate come “centrali” nella rappresentazione del framework professionale dell’Assistente Familiare99 e introdotte nel primo segmento del percorso formativo, dovrebbero accompagnare trasversalmente l’approfondimento dei vari domini di attività richiamati in precedenza, per poi trovare un adeguato momento di sistematizzazione e sintesi finale nella parte conclusiva. In questa logica verrà prestata una costante attenzione allo sviluppo delle abilità relazionali (ascolto attivo, attivazione di processi empatici, capacità di osservazione e modalità comunicative) che sostengono la gestione efficace e consapevole della relazione di cura e di assistenza.

99 Cfr. sempre il paragrafo 9.2.

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9.4 La formazione delle Assistenti familiari come risorsa per qualificare i sistemi territoriali di Assistenza Domiciliare Il modello presentato nelle pagine precedenti non va visto

semplicemente come una modalità per formare delle persone: esso costituisce anche un’opportunità in grado di concorrere ad un concreto processo di ridefinizione del servizio di Assistenza a Domicilio nel territorio. Maggiormente in linea con l’insieme di bisogni e risorse che caratterizzano oggi la nostra società ed orientato verso un modello di Secondo Welfare con una diversa e migliore valorizzazione del rapporto tra risorse pubbliche e private100.

Oggi siamo in una situazione in cui l’offerta di servizi di Assistenza Domiciliare regolati dalla Pubblica Amministrazione assume un ruolo progressivamente ridotto rispetto ai crescenti fabbisogni della popolazione anziana101.

100 Maino, F., “Il secondo welfare tra risorse scarse, nuovi protagonisti e innovazione sociale”, Politiche sociali e servizi, n.1, Vita e Pensiero, Milano, 2013. 101Si rimanda nuovamente ai contributi di Maurizio Ambrosini già citati in precedenza.

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Figura 9.5 - Offerta pubblica di Servizi di assistenza domiciliari e fabbisogni della popolazione anziana

L’implementazione di esperienze formative come quella appena

richiamata presuppone un approccio diverso, rivolto a valorizzare l’expertise presente all’interno di questi servizi come risorsa in grado di interfacciarsi e dialogare con le forme private di assistenza domiciliare di cui sono sempre più costretti a farsi carico le famiglie.

Ad esempio il ruolo di supervisione assegnato ad Operatori Socio Sanitari che agiscono all’interno del sistema di erogazione di servizi di Assistenza Domiciliare regolato dalla Pubblica Amministrazione, oltre ad essere un risorsa importante per il raggiungimento dei risultati formativi, configura un potenziale terreno di prima sperimentazione verso modelli diversi di governance e qualificazione dell’offerta dei servizi territoriali complessivamente presenti nel territorio.

La sfida diventa quella di ridefinire politiche e fornire azioni di supporto che si pongano nella prospettiva di qualificare l’insieme dell’offerta (pubblica e privata) presente nel territorio, valorizzando le diverse risorse disponibili attraverso la diffusione di pratiche lavorative e standard di servizio condivisi e contrassegnati da adeguati livelli di qualità.

Servizio Assistenza Domiciliare

Bisogni popolazione anziana

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Figura 9.6: Verso nuovi modelli di governance dei servizi di assistenza domiciliare Abbiamo già ricordato in apertura di questo contributo come molte

esperienze si stiano muovendo in questa direzione. Il modello formativo centrato sul workplacelearning intende

collocarsi all’interno di questa prospettiva, nella logica di sperimentare nuove modalità di raccordo tra pubblico e privato e di alimentare delle comunità professionali locali all’interno di uno specifico territorio.

La sua finalità non è semplicemente quella di formare delle Assistenti familiari, ma di costituire un’occasione di apprendimento per l’intero sistema di Assistenza Domiciliare territoriale.

Bisogni popolazione anziana

Servizio Assistenza domiciliare

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Sarebbe interessante confrontarsi sulla possibilità e l’utilità di implementare nei territori esperienze formative di questo tipo102, fortemente intrecciate con le politiche di evoluzione dei servizi domiciliari locali. Accompagnandole con un organico processo di supervisione volto a capitalizzarle in termini di apprendimento e di produzione di «conoscenza» per l’intero sistema, in una logica di dialogo concreto con le prospettive di sviluppo di modelli di secondo welfare103.

102 Naturalmente anche a seguito di un’adeguata discussione e riflessione critica sul modello illustrato in queste pagine. 103 Per una ricognizione comparata delle iniziative orientate a modelli di secondo welfare in una prospettiva europea cfr. . Ferrera, M., Maino, F., Social Innovation Beyond the State.Italy’s Secondo Welfare in a EuropeanPerspective, Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi, WorkingPapers n. 2, 2014.

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10.

La scuola della vita. Biografie di apprendimento al lavoro di cura, a cavallo delle frontiere.

di Furio Bednarz 10.1 Introduzione

Queste sono storie di persone che ho incontrato… Sono voci, ma anche urla, a volte pianto o ancora silenzi brevemente interrotti. ... Sono storie vere e dunque marginali…. Queste storie non consentono consolazione, né pretendono di insegnare. Non ostentano di sé, parlano in privato, richiedono complicità.104 Con questo spirito, ben delineato nelle parole di Paolo Crepet, ho

approcciato le quattro storie di vita su cui si basa questo capitolo. Quattro biografie assolutamente originali ed eterogenee, che attraverso la narrazione danno il senso vivo e crudo di come le donne venute dall’Est giungono al lavoro di cura, si accomodino in una realtà di estrema durezza, costruiscano passo dopo passo le competenze necessarie a svolgere una professione non scelta, che imparano a sentire propria passo dopo passo. Nella grande diversità che le caratterizza, queste storie sono accomunate da alcuni passaggi ma soprattutto dalla dimensione transfrontaliera del percorso migratorio, che dal paese di

104 Paolo Crepet, Solitudini, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 1999, p. 11.

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origine ha portato le donne in Italia per approdare successivamente in Svizzera.

Non c`è retorica in queste storie, ma il tentativo di dar conto, attraverso la lente dell’analisi qualitativa, dei processi che altrove nel volume affrontiamo sul piano tecnico, alla luce dei concetti dell’ingegneria della formazione e del costrutto di competenza. C`è piuttosto il senso di un lavoro durato alcuni mesi, che ha permesso alle donne intervistate di sperimentare il valore formativo forte della narrazione, accanto alla sua funzione catartica, che favorisce il consolidamento di un’identità professionale troppo spesso negata, resa invisibile nonostante la sua evidente necessità e presenza.

C’è infine una tensione sperimentale, lo sforzo di dare il più possibile la parola alle protagoniste, di rendere fruibili le loro narrazioni sia attraverso la rilettura di chi scrive, sia concedendo al lettore di riascoltarle senza il filtro della trascrizione, della citazione testuale. Se la rappresentazione scritta o stampata delle parole può essere simile a un’etichetta, le parole vere, parlate, no.105 Ecco dunque la scelta di costruire un prodotto multimediale, fatto di testo e di immagini. Nel testo chi scrive interpreta in modo soggettivo, quello di chi ha ascoltato e messo in parola, il senso dei racconti e cerca di derivarne considerazioni sui modelli di apprendimento emergenti, sui loro punti forti e sulle loro contraddizioni. L’immagine restituisce al lettore la possibilità di farsi una propria idea, andando alla fonte. Brevi video, collegati ai concetti chiave di volta in volta tematizzati, ridanno la “parola detta” alle donne intervistate, permettono di cogliere sfumature e messaggi non verbali, affidano a chi fruisce dell’articolo il compito di scrivere nuove interpretazioni o arricchire il senso di quelle esposte dall’autore.

Il filo della narrazione segue il ciclo della vita , gli anni dell’infanzia e della prima formazione nel paese di origine, la partenza per l’Italia, la

105 Walter J. Ong, Oralità e scrittura, Bologna, Il Mulino, 1986.

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socializzazione in quel paese, la nuova partenza per la Svizzera, il vissuto odierno rispetto alla professione e alle prospettive nel paese di emigrazione. Questa sequenzialità, che è già una scelta di taglio e montaggio operata da chi scrive, rappresenta certamente una forzatura espositiva, perché nei racconti sovente l’emozione ha portato a spaziare in modo meno strutturato nei tempi e negli spazi di vita. Così i ritmi dell’apprendimento appaiono dettati dalle circostanze, dalle opportunità che il contesto offre, dalla possibilità di sedimentare esperienze e competenze via via acquisite e farne risorsa per sviluppare la propria professionalità e riprogettare il futuro.

10.2 Quattro donne. Eccezionali, come tutte.

Zofia, Silvia, Cristina, Marilena: tre rumene, di regioni diverse, una

polacca. Quattro storie originali e ricche di emozioni ed esperienze. Perché le storie autentiche hanno sempre il sapore della stra-ordinarietà. In questa eccezionalità si tratta di storie rappresentative, non nel senso statistico del termine, ma in quello più ampio della comprensione profonda di come avviene questo strano incontro tra la domanda di lavoro di cura prodotta dall’evoluzione demografica e sociale delle società occidentali e le esigenze indotte dalla transizione postcomunista dei paesi dell’Europa orientale, che spingono le nostre donne a reinventare la loro condizione femminile, spesso dovendo assumere di fatto o di diritto il ruolo di capofamiglia.

Quattro donne i cui racconti iniziano dal ricordo nostalgico, e

addolcito dalla lontananza, del paese di origine: sono rumena, sono polacca, vengo dal più bel paese del mondo. Persone sole, che si narrano sole, nonostante la famiglia di origine o quella costituita prima di partire sia presente sempre alle spalle, e sia stata sovente all’origine della decisione dolorosa di prendere la via dell’Italia, in seguito a evenienze affatto diverse: una crisi coniugale, la perdita del lavoro ma

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anche all’opposto un matrimonio che apre la via dell’emigrazione. A casa queste donne hanno talvolta genitori anziani, mariti che hanno perduto il lavoro e si sono accomodati in una condizione di disoccupazione e marginalità. Ma soprattutto hanno figlie e figli cui cercare di dare un futuro. Nel ricordo questo affiora solo col tempo, quando si è stabilita una confidenza maggiore con l’interlocutore, quasi a voler tenere gli affetti più profondi al riparo dalla durezza del racconto esperienziale.

Donne migranti, che in Svizzera si narrano felici, ma forse fanno fatica a collocarsi nel nuovo contesto della loro migrazione. Donne che sorridono nel nominare la loro regione d’origine, che magari ironizzano su abitudini e costumi della vita rurale che hanno lasciato, ma esprimono l’orgoglio vivo di appartenere alla loro terra. Non viene loro spontaneo dichiararsi residenti nel paese dove lavorano, spesso una piccola frazione discosta, quasi volessero esorcizzare il disagio della mobilità costante cui sono costrette, l’essere il più delle volte ospiti di case straniere pronte a fare le valige per altre case. Donne che però hanno sviluppato una loro strategia per gestire la diaspora, che non sono arrivate in Italia per caso, che non hanno scelto il Ticino senza un progetto.

10.3 La vita di prima

L’eterogeneità delle narrazioni, specchio dell’originalità delle

biografie, si riflette in storie di vita e di educazione molto diverse l’una dall’altra. La formazione di base delle nostre protagoniste spazia da un’istruzione professionale, costruita ancora secondo la pianificazione del periodo socialista (che di lì a pochi anni si sarebbe rivelata inservibile nel nuovo contesto di mercato), a percorsi accademici. Sono donne che mostrano di essersi sapute adattare, che narrano come hanno reinventato la loro condizione alla caduta del comunismo.

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Se nella storia di Cristina, laureatasi in filologia, la migrazione precoce al seguito del marito lucano, conosciuto in vacanza sul Mar Nero, fa dell’Italia il vero luogo di socializzazione professionale (e di transizione tra una formazione iniziale poco spendibile e i tanti lavori svolti poi nella vita), nelle altre tre narrazioni compaiono sempre i segni della discontinuità tra formazione iniziale e esperienze di vita che producono fondamentali apprendimenti informali.

Silvia si forma come assistente sociale, ma scopre poi la pedagogia Frenet, che le permette di sviluppare una sua forte e apprezzata professionalità come insegnante di scuola primaria. È la ricerca della novità, la scoperta di spazi di libertà, la nascita di associazioni che si propongono di diffondere idee nuove mutuate dall’occidente, che caratterizza il dopo comunismo, a permetterle di scoprire un approccio alla relazione che continuerà a segnarla nel tempo. Silvia studia, approfondisce, agisce da auto-didatta, ma al tempo stesso mostra una grande propensione a cogliere tutte le opportunità formali di formazione che le si offrono, un atteggiamento che manterrà negli anni a seguire.

Marilena, una formazione nella lavorazione della ceramica resa obsoleta dalla ristrutturazione industriale, decide di trasferirsi in una regione dove le opportunità sono maggiori. Marilena si forma alla scuola della vita, il suo è l’apprendimento che si realizza scommettendo sulle proprie esperienze e lavorando duro. È l’industria delle confezioni, alimentata dalla delocalizzazione promossa soprattutto da piccoli e scaltri imprenditori italiani, il settore che tira nella Romania post-regime. Marilena ha la fortuna di essersi formata in quelle fabbriche, dove ha cresciuto la figlia, da madre sola, tenendosela accanto in una scatola di cartone. Come avviene nelle fabbriche dei paesi del lontano oriente. Marilena è pronta all’arrivo degli italiani, che vedranno in lei l’intermediaria ideale per avviare il loro business: si è formata alla scuola di strada rumena, conosce i meccanismi della produzione tessile, conosce le donne che lavorano nelle fabbriche della

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Transilvania, e persino nella vicina Moldavia, sa come oliare gli ingranaggi di un apparato che funziona sulla base della corruzione. Marilena in pochi anni si lancia in una carriera imprenditoriale fulminante, che la porta all’inizio degli anni 2000 a gestire migliaia di donne in unità produttive che lavorano per i grandi marchi della moda. Sarà la crisi del 2008, lo spostamento repentino del centro di interessi dei delocalizzatori verso il Far East e la Cina a far emergere il carattere effimero di questo impero, e in parte a mostrare i limiti del percorso di apprendimento esperienziale di Marilena. Le fabbriche chiudono, ma lei non si perde d’animo, e questa volta chiede aiuto alle operaie che era abituata a organizzare per trovare il bandolo della matassa, e crearsi i primi contatti necessari alla migrazione.

Zofia racconta, quasi con distaccato divertimento, una storia più intima, di migrazione interna, lungo un percorso atipico, che la porta dalla città dove viveva, alla campagna. Una vita progettata in famiglia, accettando di apprendere i ritmi e gli usi della vita rurale, imparando a conoscere gli animali e il modo di trattarli. Una vita da presto segnata dalla necessità di lavorare in una società che sta cambiando, dove i livelli di protezione calano e le esigenze aumentano. Non ha una professionalità definita. Eccola in fabbrica per sopperire ai problemi finanziari e ad una incipiente crisi coniugale. Zofia si forma sul campo, osserva e cerca di imparare: così approfitta di un locale inutilizzato della sua abitazione, una sorta di garage, per improvvisare un piccolo bar, inventarsi gerente come secondo lavoro, senza una formazione e competenze specifiche. Zofia è cosciente di aver appreso tutto sul campo, ed è anche cosciente dei limiti di questa modalità di apprendimento. La vita, sotto forma di debiti accumulati nel tempo, si incarica di riportarla più volte ai piedi della scala, ma non spegne la sua curiosità, la sua capacità di far fronte a nuove sfide.

Nella loro originalità le traiettorie di vita di queste donne fanno emergere tendenze comuni. Non è un caso – ci sembra – che i loro ricordi partano dalla narrazione dei primi passi nella vita attiva. Si deve

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imparare, e si impara, anche perché le opportunità di formazione spesso sono sfasate rispetto alle esigenze o non esistono del tutto. Si sono formate alla scuola della vita, queste donne, e narrano questa storia; se non sollecitate non parlano della formazione né della vita famigliare, se non dei figli, spesso presenti e determinanti per le scelte, mentre sullo sfondo rimangono i genitori, i mariti, i padri che abbandonano il nucleo famigliare, che non si fanno carico, che non comprendono.

Le narrazioni rimandano vite già segnate, ben prima della partenza, dal cambiamento e dall’accettazione di sfide (“un nuovo inizio”, “cercavo qualcosa di nuovo”): i cambiamenti socio-economici portano le sfide e le grandi opportunità sfruttate da Marilena, ma portano anche il turismo occidentale che permette le nozze e la partenza per l’Italia di Cristina o il trasferimento in campagna di Zofia e l’innovazione pedagogica che spinge Silvia alla sua carriera di maestra. Le nostre donne queste sfide cercano di giocarle nella loro terra d’origine, che mostrano di amare profondamente.

Nel ricordo affiorano soprattutto apprendimenti esperienziali: la “scuola di strada rumena”, l’“imparare a sopravvivere” come meta apprendimento essenziale, condizioni finanziarie che vanno precarizzandosi come motore per rimettersi in gioco. L’utilizzo delle formazioni iniziali, almeno quello diretto e conseguente, è per contro modesto. In alcuni casi l’utilità degli apprendimenti formali realizzati in gioventù riaffiora, in una messa a frutto tardiva, a posteriori: Silvia che si è formata come assistente sociale riutilizza le sue conoscenze, e mette a frutto anche quelle pedagogico didattiche acquisite come maestra, Cristina riscopre di essersi formata come crocerossina da giovanissima. In generale emerge un grande orgoglio delle cose fatte, e delle sfide accettate; tutte ricordano la capacità di assumersi forti responsabilità individuali (si rappresentano come imprenditrici di sé), tratto che poi riemerge nella definizione delle competenze messe in gioco oggi come badanti.

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Le conseguenze delle grandi trasformazioni macro economiche e sociali (la caduta del comunismo e la crisi della transizione, in due casi anche la crisi del 2008, che porta alla chiusura dell’azienda di Marilena e spinge Cristina a chiudere la sua impresa in Italia) sono nelle narrazioni solidamente intrecciate con gli accadimenti micro sociali. Lo scenario macro gioca un ruolo fondamentale, come motore del cambiamento e fattore che a medio termine genera condizioni favorevoli ad accettare costanti ripartenze. Tuttavia, sullo sfondo, come abbiamo detto, emerge nelle storie la rilevanza degli eventi micro, che si manifestano in un substrato di disgregazione della coesione famigliare. La drastica riduzione dell’occupazione femminile, e le rotture famigliari, generano nel contesto della transizione post-comunista all’economia di mercato processi diffusi di indebitamento. Nelle narrazioni ascoltiamo storie di separazioni reali o di separazioni di fatto, e al tempo stesso registriamo la profondità dei legami delle donne con il proprio contesto relazionale di origine. La persistenza dei legami fa delle badanti la risorsa fondamentale per la sopravvivenza di interi nuclei famigliari allargati. Non sembra essere qui, tuttavia, che nasce la sensibilità di queste donne al lavoro di cura che il luogo comune vorrebbe attribuire al loro essere (state) figlie e madri. Nei ricordi non emergono apprendimenti esperienziali riconducibili alla cura dei genitori, del marito o dei figli, che appaiono piuttosto essere state, e parzialmente essere tuttora, necessità in grado di temprare alla sopravvivenza nei periodi difficili.

10.4 Partenze

La prima partenza dal paese di origine è sempre un passaggio che

produce emozione particolare nelle narrazioni. È connessa a eventi destabilizzanti, sul piano personale (spinte espulsive, costrizione non scelte di miglioramento, con poche aspettative e spesso molta paura). Se in un caso all’origine c`è un evento improvviso e produttore di

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grandi speranza, il matrimonio, che si rivela tuttavia assai poco duraturo, e sarà driver di una vera partenza nella forma di migrazione interna all’Italia, negli altri tre casi sono fattori traumatici e dolorosi a produrre l’opzione migratoria. Si tratta di migrazioni economiche, legate a processi di indebitamento di modesta entità, ma capaci di segnare in modo irreversibile la vita in un contesto dove è impensabile generare risparmio per ripagare il debito stesso. Indebitamento generato dal divorzio, dal degrado e dalla corruzione dei servizi sanitari, che trasforma una malattia seria in un calvario di favori da chiedere e comprare, dalla volatilità del mercato generata dalle delocalizzazioni, che porta al fallimento dell’azienda di cui la donna rumena era socia e garante nei confronti della società locale.

Il ricordo della partenza è vivido e al tempo stesso commovente.

Per Cristina vale ovviamente la seconda partenza, seguita al repentino divorzio dal marito italiano, ma anche l’arrivo in Basilicata è ricordato come critico, segnato dall’impatto con una società e una lingua sconosciuti.

Le narrazioni restituiscono le partenze, le motivazioni, le ansie della notte prima, il film di una vita che viene ripercorso sul pullman che attraversa l’Europa, in attesa di una telefonata che confermi il primo appuntamento in Italia. Il viaggio lascia ricordi indelebili.

La partenza è sempre mediata da collegamenti informali, accompagnata dall’aiuto di una donna, amica o collega già sul posto. Il viaggio viene supportato anche dalle reti esistenti di trasporto e connessione tra i due paesi, che si sono rapidamente consolidate dopo la caduta del comunismo; per le polacche sono le reti ecclesiastiche a favorire la connessione e spesso anche l’accesso al lavoro, come emerge anche da altre ricerche condotte in questi anni, le rumene trovano riferimenti nel tessuto connettivo legato alle relazioni import-export, in cui nel nostro caso Cristina trova occasione di sviluppare poi un suo business imprenditoriale arrivando a Roma dalla Basilicata.

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La decisione di partire matura in solitudine. Silvia lascia un lavoro che amava, per il quale era riconosciuta, perché ha contratto debiti insanabili per curare il marito, e non si riconosce in una società corrotta, senza poter nemmeno contare sul sostegno psicologico del marito; matura la sua decisione, la comunica in famiglia, sale sul pullman con un riferimento che si rivela inaffidabile, continua la sua corsa sino ad approdare in piena notte in un parcheggio di centro commerciale, dove incontra una collega che le dà il benvenuto in Italia. Inizia la sua nuova vita. Marilena viene aiutata dalle sue ex-operaie, da imprenditrice si trasforma in governante. Questa traiettoria, che porta sovente nei grandi centri urbani dell’Italia meridionale, caratterizza anche l’esperienza di Zofia, prima della cura entrambe conoscono in qualche modo la servitù, tra le mura domestiche.

10.5 L’Italia L’arrivo in Italia dischiude possibilità immediate, ma nelle nostre

storie non prevede sempre un inserimento nelle funzioni di badante. Ci si inserisce piuttosto nei lavori domestici, come governante, spesso al Sud. Alle donne si offre l’opportunità di lavorare ove le barriere sono più basse, i requisiti meno esigenti, ad esempio non servono conoscenze linguistiche particolari. Il lavoro - come aiuto domestico e governante - è molto duro, prestato senza protezioni contrattuali, sotto pagato (ma nei ricordi affiora una assoluta mancanza di elementi di giudizio che permettano di affrontare questa condizione con consapevolezza). L’informalità dei rapporti di lavoro si rivela del resto una soluzione parzialmente vantaggiosa, almeno per permettere un primo inserimento; sono le colleghe già occupate a fare da garanti nei confronti dei datori di lavoro locali. Certo questo inserimento lo si paga a duro prezzo, ma se la capacità di resistenza è buona si riescono a maturare le esperienze che permettono poi di apprendere, rafforzare le proprie competenze linguistiche, divenire più consapevoli e capaci di

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muoversi nel nuovo contesto. In altri casi i contatti maturati nel momento di partire, e qualche competenza maggiore almeno sul piano linguistico, permettono un inserimento in funzioni meno dure.

Marilena ricorda il vuoto di diritti, il doversi arrangiare nella nuova

vita, la mancanza di punti di riferimento o anche di formazioni che offrissero possibilità di orientamento e sviluppo professionale, così riattiva la sua capacità di imparare dalle esperienze di vita e costruisce passo dopo passo un futuro che per lei ancora oggi è tutto da reinventare. Zofia ricorda i 5 anni peggiori della sua vita, parlando della sua esperienza di governante a Napoli. Più fortunate le esperienze di Silvia, che si inserisce come badante e riesce a sviluppare da subito un percorso di consolidamento professionale con uno stesso utente che la accoglie molto positivamente, e di Cristina, che parte divorziata e senza soldi per Roma, trova lavoro come badante, “tanto per ricominciare”, ma ben presto avvia una sua attività come imprenditrice in Italia. Il suo racconto porta alla luce l’esistenza di un mondo di faccendieri, che sulle relazioni tra Italia e Romania fa i suoi affari, offrendo agli stessi immigrati rumeni opportunità di business e sviluppo professionale.

L’apprendimento, nelle narrazioni delle donne, è frutto di una grande determinazione e motivazione, che mette a frutto le opportunità relazionali date dal lavoro. Dimensioni volitive – affettive, sociali e cognitive appaiono dunque strettamente intrecciate, e generano una grande capacità di far di necessità virtù, apprendendo in via informale, attraverso l’esperienza, la messa in campo di strategie individuali, la riflessione sugli eventi che spesso riportano queste donne a dover ricominciare da capo.

Nelle narrazioni, l’apprendimento informale non appare scelta consapevole, ma piuttosto il derivato della mancanza di alternative. Non ci sono corsi, non offerte formative disponibili, manca l’informazione. La ricerca di opportunità di professionalizzazione che consentano di emanciparsi dal lavoro domestico, e dal lavoro di cura,

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viene frustrata dalle barriere che si frappongono all’accesso a formazioni formali. Nemmeno la lingua – nonostante in questo campo esistano offerte – viene appresa nel contesto di corsi organizzati. L’apprendimento dell’Italiano avviene per esposizione: grazie alle relazioni intrattenute sul lavoro, al giornale, alla televisione. Se si arriva alla formazione formale è più per la necessità di certificare qualche competenza, sostenere un esame indispensabile per regolarizzare il permesso di soggiorno o accedere a una formazione superiore.

Vengono dunque alla luce le strategie di apprendimento individuali, che permettono di fronteggiare i limiti dell’apprendimento per esposizione. Ascoltare radio e televisione, magari seguire i programmi per bambini (che utilizzano un linguaggio semplice e diretto), permette ad esempio di superare i problemi connessi ad un ampio uso del dialetto nella comunicazione quotidiana sul posto di lavoro o nel contesto di vita. In alcuni ricordi emerge l’importanza di figure informali di mentori: la nonna, sovente ospite nella casa di Napoli dove Zofia fa la governante, che le insegna a confezionare cibi propri della tradizione culinaria regionale, o la madre con cui parla Marilena, che le fa scoprire un italiano diverso da quello parlato a suo tempo con gli imprenditori di cui era socia in Romania.

Apprendimento informale è anche quello all’uso dell’informatica e in particolare di Internet, che nel frattempo si sta affermando come mezzo di comunicazione chiave: provando e riprovando, chiedendo alle amiche più esperte, le donne imparano a ritrovare informazioni nel web, familiarizzano con i traduttori automatici, i glossari e i correttori, e in questo modo cercano di compensare le lacune linguistiche, si apprende a usare la posta elettronica, si utilizzano i tool di telefonia gratuita che permettono di rinsaldare i rapporti con la terra di origine e soprattutto di seguire i figli lasciati a casa.

Serve spirito di intraprendenza e grande motivazione (“si deve imparare e si impara”), serve curiosità e accettazione della novità, serve capacità e orgoglio di rimettersi in gioco (la “scuola

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dell’umiliazione”, di cui riferisce Marilena). Al tempo stesso ognuna delle quattro storie su cui ci basiamo evidenzia che serve anche un patrimonio cognitivo per attivare una buona riflessione sulle proprie esperienze, e la capacità di mettere a frutto le conoscenze accumulate nella prima formazione e nella vita precedente alla migrazione per imparare a muoversi nel nuovo contesto di vita.

In generale l’apprendimento viene coltivato nella speranza di emanciparsi dalla condizione attuale, paradossalmente utilizzando le opportunità presenti nei contesti domestici, di vita e lavoro: si impara facendo, coltivando i rapporti, in alcuni casi riattivando conoscenze e saperi acquisiti nella prima formazione (vedi il corso di Crocerossina di Cristina, la formazione di Silvia come assistente sociale), raramente ci si forma per il lavoro di cura. Pur divenuta fondamentale al fine di rispondere ai bisogni nuovi dettati dall’evoluzione demografica, come emerge bene dalle ricerche condotte in questi anni, la funzione delle badanti nel sistema della cura a domicilio in Italia non trova codificazione e riconoscimento. Questo corrisponde ad un sostanziale vuoto di offerte formative rivolte a questo pubblico che opera nella solitudine delle case (a differenza di quanto avviene per le operatrici socio-sanitarie e socio-assistenziali attive nelle istituzioni). Nelle narrazioni che abbiamo raccolto emergono situazioni scabrose, davvero critiche: Zofia si trova un paziente malato di Alzheimer, condizione di cui non conosce nulla, e impara un minimo a trattarlo da un opuscolo di un’associazione trovato casualmente nella cassetta della posta di casa; Silvia impara, guardando il medico, come medicare ferite e piaghe da decubito, e apprende per prove ed errori, che ricadono sulla stessa pelle dell’utente! Le esperienze di apprendimento maggiormente ricollegabili al lavoro di cura ancora una volta si confermano informali, legate alla pratica, che è pratica subita come necessaria per andare avanti nella vita.

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10.6 Dall’Italia alla Svizzera

La Svizzera emerge nelle narrazioni come terra promessa e inseguita, destinazione voluta per sfuggire alla condizione del lavoro nero, dello sfruttamento e del precariato. Ho ballato così per 4 anni - ricorda Marilena - poi non ho resistito più, e ho deciso di trovare un posto dove i contratti esistono; così sono andata su Internet, semplice, e ho trovato lo sbocco in Svizzera. Durezza della situazione in Italia, e rappresentazione idealizzata delle condizioni di vita e lavoro in Svizzera, caratterizzano il ricordo della seconda emigrazione. In due casi vi è una conoscenza diretta pregressa a favorire la rappresentazione idilliaca, grazie a visite in Ticino al seguito del precedente datore di lavoro legate a vacanze o viaggi d’affari, che generano un’attrazione fatale; negli altri casi sono i racconti delle colleghe che hanno già fatto “il salto” a disegnare la rappresentazione. La Svizzera è vissuta come un luogo mitico di approdo: ordinato, pulito, sicuro, il posto delle regole. Non è il coronamento di una favola, ma un obiettivo perseguito con tenacia, mettendo in campo strategie, e attivando canali di accesso affatto diversi da quelli esperiti per arrivare in Italia.

In Svizzera si arriva tramite canali formali, dopo una prima

presa di contatto in via informale; Silvia ad esempio ha un figlio che studia per un master in Svizzera e le propone di approfondire la possibilità di ricollocamento, sapendo che il suo utente in Italia è deceduto, e comunque tutte le intervistate raccontano di aver usato Internet per assumere informazioni preliminari. Poi in genere ci si rivolge a un’Agenzia; le agenzie private di collocamento fanno una politica attiva di reclutamento in Italia. Nelle narrazioni riemerge anche il ruolo che le parrocchie svolgono in Italia nella mediazione e nel reclutamento delle badanti, funzione che viene sfruttata dalle stesse agenzie attive in Svizzera per operare una pre-selezione delle candidate.

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L’impatto con la Svizzera è in genere positivo, grazie ad un canale ufficiale facilitante e alla conoscenza pregressa della lingua. Anche in questo caso, tuttavia, la socializzazione nel nuovo contesto avviene innanzi tutto grazie al rapporto col proprio utente, e con la famiglia. Così le donne imparano a muoversi, attivano le loro reti, si emancipano da una dipendenza troppo forte dalle agenzie specializzate di collocamento. Emerge comunque una realtà non sempre facile, testimoniata, del resto, dalle indagini di recente condotte sul fenomeno della migrazione transnazionale nel lavoro di cura: condizioni di lavoro gravose, ricatto dei permessi di lavoro, collocamento in alcuni casi presso pazienti che si rivelano più ostici del previsto (senza un adeguato accompagnamento), isolamento presso l’abitazione dell’utente, sovente in località discoste non facili da raggiungere con i mezzi pubblici.

Inoltre in Svizzera appare più difficile perseguire un disegno di mobilità sociale e professionale. La sottoscrizione di un contratto, che permette di lavorare alla luce del sole, comporta obblighi non indifferenti, e l’esistenza di regole che collegano il permesso di soggiorno all’impiego – ancora particolarmente restrittive per le rumene – non facilitano il cambio di lavoro, che viene d’altro canto reso complesso anche dal mancato riconoscimento dei titoli di studio o delle esperienze pregresse maturate all’estero. Riemerge allora l’importanza della determinazione e della capacità di adattamento e auto-apprendimento nel processo di integrazione sociale e professionale nel nuovo contesto. Emerge anche l’importanza che avrebbero occasioni di scambio, tra colleghe e tra queste e altre operatrici dei servizi di cura a domicilio, e per contro si manifesta più forte rispetto all’Italia l’isolamento.

Una volta in più ci si deve arrangiare, si deve apprendere essenzialmente attraverso l’esperienza. Pur maggiormente strutturate rispetto all’Italia, le opportunità di formazione collegate al lavoro di cura rimangono difficilmente accessibili, soprattutto in considerazione

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ai tempi di vita e di lavoro delle badanti. Silvia ricorda di aver potuto certo far tesoro delle conoscenze acquisite in Italia, ma di aver dovuto anche apprendere molto dal proprio utente; ha perseguito con tenacia ogni possibilità di apprendere anche attraverso formazioni formali (in questo sostenuta anche dal suo utente), spesso trovando peraltro ostacoli nelle istituzioni formative cui si è rivolta. Come le sue colleghe alla fine è la capacità di trasferire sensibilità e competenze pregresse, anche acquisite lontano nel tempo, a fare la differenza: Silvia ricorda l’infanzia felice con i nonni, che l’ha resa naturalmente sensibile nei confronti dell’anziano, e l’esperienza col metodo Frenet a scuola, Cristina riconosce l’utilità che ha avuto nel suo nuovo mestiere la formazione interrotta in psicologia intrapresa molti anni prima, al suo arrivo a Roma.

10.7 Badante oggi, in Ticino

Cosa significa oggi lavorare nella cura a domicilio in Ticino, per le

donne venute dall’Est? Quale rappresentazione esse hanno del ruolo professionale chiave che stanno ricoprendo nel contesto dei servizi, di cui oggi le stesse istituzioni elvetiche si stanno rendendo conto?

Le narrazioni parlano di donne consapevoli di doversi assumere grandi responsabilità in solitudine, che di questa sensazione fanno elemento fondante del ruolo professionale, tendendo a costruire rapporti esclusivi con i loro utenti. Al tempo stesso emerge la consapevolezza di doversi anche rapportare con una rete di servizi che esiste e può intervenire, costituita da operatori dello Spitex, assistenti di cura, infermieri, medici. Bisogna dunque sapersi relazionare con gli specialisti, osservare l’anziano, informare sui cambiamenti che quotidianamente avvengono. La badante si vive come la vera antenna in grado di monitorare la situazione, e appare consapevole di questa funzione. Nelle parole delle donne la rivendicazione di dignità e visibilità, per un ruolo misconosciuto, si intreccia con la necessità e la

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voglia di fare rete, di avere uno scambio sociale, in un lavoro che porta troppo spesso a isolarsi nello scambio a due con l’utente, che spesso avviene nell’indifferenza o diffidenza della famiglia.

Arrivate in genere al lavoro di cura per mancanza di alternative, le

donne riconoscono oggi il forte coinvolgimento emotivo che questa attività comporta. Lo esplicitano narrando gesti elementari: toccare, prendere la mano, accarezzare. Esse attribuiscono a questa gestualità semplice e allo stare accanto all’anziano il valore di competenza chiave per il lavoro di cura. Più che in termini empatici, la relazione con l’anziano viene letta in chiave di esclusività, che sconfina nella dipendenza reciproca. Il rischio di una familiarizzazione del rapporto di lavoro – che emerge dalle numerose ricerche condotte in questi anni sul lavoro di cura a domicilio – risulta confermato dalle narrazioni che abbiamo raccolto.

Raramente le badanti hanno gli strumenti per gestire con assoluta consapevolezza ed equilibrio prossimità e distanza nella relazione con l’utente. Esse hanno appreso in via informale a svolgere la loro funzione. Apprendimenti esperienziali, la capacità di trasferire saperi acquisiti in altri contesti di vita, formazione e lavoro, caratterizzano anche il loro inserimento in Svizzera. La difficoltà a formarsi, d’altro canto, viene vissuta come un limite. Non vi è orgoglio nelle parole di chi dichiara di aver dovuto apprendere sul campo, ma la convinzione che senza una forte determinazione, senza la capacità di imparare e di relazionarsi anche in contesti difficili, non si sarebbe potuta raggiungere la meta. Non sono tecniche e conoscenze specifiche che permettono a queste donne di reggere lo stress e affrontare le emergenze in solitudine, come emerge dalle loro biografie: è stata la scuola della vita a temprarle. Per continuare serve grande energia, voglia di andare avanti. La Svizzera, questo si, aiuta. Appare nelle narrazioni un contesto mitizzato sul piano della bellezza e dell’accoglienza, che le donne contrappongono alla durezza delle

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condizioni di vita e di lavoro conosciute nei loro paesi di origine prima e in Italia poi.

Per taluni aspetti, emerge la capacità di vivere la “seconda casa” del

proprio lavoro come un luogo famigliare, quasi sostitutivo della famiglia disgregatasi nella loro vita. Si tratta certamente di un’ipotesi da avanzare con cautela, ma che trova conferme nelle storie e nelle percezioni. A questa sensibilità si attribuisce il valore di empatia, attenzione, coinvolgimento: il “bagaglio invisibile” di competenze nella cura che nella nostra rappresentazione ogni donna si porta appresso, dalla sua esperienza famigliare, sembra nelle storie di queste donne non apparire, non costituire patrimonio, mentre l’apprendimento alla cura avviene piuttosto sul campo, nella nuova famiglia di accoglienza, nella nuova cultura di inserimento.

Più pragmaticamente, la Svizzera è comunque un luogo dove si guadagna bene, e si possono mantenere – se ci sono – i figli rimasti a casa, o aiutarli a partire a loro volta, magari ad arrivare in Svizzera loro stessi; essere badante significa aver investito nell’avvenire dei figli; vi è una ricerca anche di sviluppo personale, ma più realistica e disillusa, magari cercando equivalenze dei titoli o formazioni certificanti (ma spesso senza orientamento e conoscenze specifiche).

10.8 E domani?

Molte cose stanno cambiando, in questi anni. Anche in Svizzera il

mestiere invisibile della badante sta trovando una sua codificazione, un suo riconoscimento. Se ne è occupato il sindacato, con un’esperienza originale di organizzazione di queste lavoratrici, se ne sono occupate la ricerca e le istituzioni locali 106, alle prese con la programmazione

106 Cfr. il contributo di Paola Quadri al capitolo 4 di questo volume, che permette l’accesso diretto a una serie di materiali di ricerca e studi promossi negli ultimi anni in Ticino e in generale in Svizzera.

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socio-sanitaria; se ne sta occupando anche il Consiglio Federale 107, che ha ritenuto di dover redigere un rapporto, in risposta a un postulato del 2012, in cui fa il punto della situazione ed esorta a regolamentare il settore, a dotarlo di forme di qualificazione e assetti contrattuali in grado di tutelare la dignità professionale delle operatrici. In questo volume ci soffermiamo altrove sugli scenari nuovi che sembrano aprirsi. Ma le nostre protagoniste come vedono il loro domani?

Zofia, quando parla del domani, lo immagina come un sogno

coronato. Da un lato il futuro dei suoi figli: il primo, quello che la preoccupava per i suoi atteggiamenti e comportamenti, si è sistemato in Olanda, con una sua casa, una sua famiglia, la più giovane si sta affacciando al mercato del lavoro, e i fine settimana fa la DJ a Varsavia. Dall’altro lato finalmente la possibilità di pensare a se stessa, avendo completato il suo progetto famigliare. Intanto, ironizza divertita Zofia, l’orizzonte rimane quello del lavoro come badante, che per sua natura va sempre riconquistato, riagganciato, reinventato. E lei è pronta a rimettersi in gioco. Zofia non è sicura di voler acquisire la qualifica che finalmente verrà offerta a livello cantonale, deve pensarci, non sa se riavrà il lavoro, quali saranno le condizioni, se potrà partecipare al corso, come pure vorrebbe. Nelle sue parole l’incertezza di una posizione costantemente precaria, ma anche la determinazione di avercela fatta. Una generazione di donne che ha molto sacrificato per i figli, che ha assunto la responsabilità di traghettarli nella difficile transizione post-comunista, spesso vicariando il ruolo dei capifamiglia maschi.

107 Condizioni quadro per le migranti pendolari impiegate nella cura degli anziani, Rapporto del Consiglio federale in adempimento del postulato Schmid-Federer 12.3266 del 16 marzo 2012 – SECO, marzo 2015.

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Il futuro di queste donne sarà in Svizzera, almeno quello prossimo. La loro determinazione è quella di difendere un obiettivo raggiunto, da cui ripartire per agganciare nuove prospettive professionali. Tuttavia sanno che sarà difficile emanciparsi dal lavoro che stanno svolgendo. Una professione in qualche modo “involontaria”, nata da una irripetibile convergenza di bisogni sociali ed economici che ne ha consentito lo sviluppo. Anche questo emerge dai racconti e dai vissuti.

Così nelle narrazioni la speranza di emancipazione talvolta si trasferisce ai figli e alle figlie: farli venire in Svizzera anche loro, farli studiare, acquisire un diploma o un master, cercare un altro lavoro in un paese che nel complesso loro giudicano sia stato assai generoso.

Sullo sfondo rimangono tutte aperte le incognite che riguardano le prospettive del loro lavoro – quello della cura a domicilio – i cui codici deontologici, profili professionali, possibili percorsi formativi stiamo solo ora scoprendo, cercando di scrivere e di riconoscere. E dovremo saperlo fare ripartendo dalle loro esperienze, da spazi e luoghi inesplorati di servizio.

10.9 Riflessioni conclusive

La professione della badante è paradigmatica di una condizione del

tutto nuova che si inserisce in un contesto di lavoro e servizio inedito: una prestazione che ha caratteristiche e obiettivi assai particolari, poiché avviene presso l’abitazione privata del cliente, deve favorirne l’autonomia e la relativa indipendenza dallo stesso prestatore, sostituisce in una logica di “mercato” il lavoro di cura che normalmente era svolto da un famigliare in una logica di “dono”, connaturato ai rapporti affettivi che lo legavano al suo “utente”. Questo coacervo di dimensioni intrecciate genera un profilo professionale che solo ora iniziamo a scrivere, alla base di un’identità ancora incerta, da taluni negata. Nelle parole delle donne si legge bene tale incertezza, e anche si leggono le diverse dimensioni della prestazione loro richiesta: la

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prossimità all’utente, le caratteristiche affettive e di esclusività della relazione che esse cercano di stabilire con l’anziano, il senso della responsabilità che ne deriva, la specificità del luogo in cui la prestazione si svolge, non la sede anonima e quindi personalizzabile di qualsiasi lavoro, ma il luogo di vita di una persona che diviene progressivamente casa comune.

La ricostruzione dei percorsi di apprendimento seguiti dalle badanti, propone le sfide metodologiche e euristiche più generali alla base della progettazione dei servizi di cura a domicilio. Come ogni professione nuova, non codificata, quella della badante nasce dalle pratiche, dalle esperienze, dagli sforzi di accomodamento che le protagoniste compiono cercando di trasferire i loro saperi nel nuovo contesto. A ben vedere l’intero comparto della cura a domicilio non può sviluppare professionalità adeguate se non attraverso la rilettura delle esperienze, di quelle informali che facevano del famigliare e dei vicini prossimi i naturali caregiver, di quelle delle badanti che stanno dando risposta al vuoto di servizio generato dall’evoluzione socio-demografica e culturale. Troppo spesso, invece, pretendiamo di derivare procedure, protocolli e competenze applicabili alla cura a domicilio partendo dal contesto del lavoro di cura che si svolge nelle istituzioni preposte. Con questo non vogliamo dire che molte delle competenze, delle conoscenze e delle abilità necessarie a curare a domicilio non siano le medesime agite nella cura sanitaria o nelle case anziani, sia sul piano tecnico che su quello relazionale. Ma vogliamo sottolineare che il luogo fa la differenza, e rende del tutto peculiare sia l’esercizio che l’apprendimento della professione.

Le biografie che abbiamo raccolto – avendo attenzione a rilevare nelle narrazioni i processi di apprendimento sottesi – gettano una luce interessante sulla realtà, utile per progettare oggi la formazione formale che le stesse intervistate dicono di aver cercato nella loro vita, senza poter trovare risposte adeguate. Perché una volta in più il problema che si pone è quello del come nel percorso di costruzione della competenza

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si possano integrare e intrecciare apprendimenti informali – esperienziali e riflessivi – e apprendimenti codificati. Queste donne hanno appreso sul campo, in buona parte grazie all’atteggiamento resiliente frutto delle loro vite, trovando motivazioni elementari nella necessità di tirare avanti (soprattutto guardando al futuro dei loro figli) e mettendo in campo una capacità non banale di trasferire competenze e attitudini acquisite in contesti affatto diversi nel nuovo lavoro. La professione di badante concretamente l’hanno imparata sul campo, in prevalenza da auto-didatte, così hanno appreso la lingua per esposizione, hanno socializzato con le nuove tecnologie della comunicazione utilizzandole per connettersi con il “fuori” delle loro case, hanno imparato a muoversi nel contesto sociale e istituzionale dai loro stessi utenti e dai famigliari. In qualche modo è stato un apprendimento “workbased”, ma in un posto di lavoro anomalo, che nessuno ha mai pensato come luogo di apprendistato. Un apprendimento realizzato il più delle volte in solitudine, senza l’accompagnamento di un mentore che non fosse il loro utente, senza maestri di tirocinio capaci di favorire processi di assimilazione e accomodamento dei nuovi saperi.

Le biografie raccolte sono significative non perché ci rimandano processi standard, ma nella loro originalità e irripetibilità, perché solo questi tratti garantiscono l’autenticità delle informazioni che dobbiamo raccogliere in una fase magmatica di costruzione dell’identità professionale del caregiver domiciliare. Esse ci indicano alcune strade: − la necessità di apprendere è in un campo come questo un driver

fondamentale: servono motivazioni personali forti, anche elementari, per rinunciare a una propria vita famigliare e riposizionarsi in una diversa, estranea e nemmeno elettiva; la dimensione affettiva, volitiva gioca un ruolo chiave: si deve apprendere e si apprende;

− in questo senso, e in questo contesto, la migrazione, e la mobilità transfrontaliera, giocano un ruolo chiave nella costruzione delle motivazioni, della forza e delle resilienza di queste donne, come

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nella capacità di adattamento a contesti nuovi e nella sensibilità interculturale;

− l’apprendimento vero, quello che segue al transfer più diretto di saperi che permette un primo inserimento, si gioca nella capacità di decostruire e ricostruire i propri modi di agire, evitando di applicare meccanicamente modelli mutuati dalla propria cultura e dalle proprie pratiche di riferimento; è un apprendimento esperienziale e riflessivo per antonomasia;

− per realizzarsi compiutamente questo apprendimento avrebbe bisogno di scaffold didattici e supporti, di tipo conoscitivo e di tipo relazionale, che permettano di aggirare l’esclusività della relazione che la caregiver intrattiene con l’utente, che agevolino la presa di distanze, che forniscano all’apprendente le coordinate base per poter leggere la realtà che ha di fronte (conoscere l’Alzheimer e le sue conseguenze da un professionista, piuttosto che attraverso la lettura di un opuscolo o di Wikipedia). Processi di apprendimento conseguenti si possono ingegnerizzare

utilizzando metodi e mettendo in valore pratiche che in questi anni si sono affermate soprattutto nel campo della formazione al lavoro pedagogico, sociale e sanitario.

In primo luogo si tratta di riprendere il filone ormai consolidato dell’apprendimento esperienziale e riflessivo. La riflessività è una meta-competenza strategica per chi opera nella cura a domicilio. Va coltivata e supportata, tenendo conto del fatto che ci rivolgiamo a persone abituate a operare nel qui e ora, a mettere in campo saperi pratici, che sono alla ricerca di risposte e non sono abituate a porsi domande. Nell’esercizio riflessivo chi accompagna deve dunque fornire le coordinate, le strutture e le conoscenze che permettono all’apprendente di porsi le domande giuste e di sistematizzare nuovi modi di agire, assimilando i concetti, accomodandoli, persino trasformando i suoi modelli di azione (pensiamo allo sforzo interculturale sotteso all’inserimento nell’abitazione dell’utente come

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luogo di vita e di lavoro). Metodologie come il PBL appaiono idonee, a patto di partire dai casi reali (dagli auto-casi, ove possibile) e non da situazioni problema standard, quindi artificiali. “La prospettiva epistemologica (…) è che per elaborare un sapere capace di costituirsi come orizzonte di senso per la pratica è necessario coltivare un pensare radicato nella pratica, cioè che prenda le mosse dall’esperienza viva e che a questa rimanga costantemente legato sia per trovare domande significative su cui riflettere sia per misurare il valore delle teorie trovate. (…) Quando il sapere di casi viene trasformato in una teoria dalla valenza generale entro la quale sussumere i casi particolari, allora anche il sapere esperienziale perde il suo valore e assume la stessa coloritura di una outside-theory, incapace di costituirsi come valido strumento per l’agire” 108. Pensiamo dunque ad un apprendimento costruito a partire da e sulle pratiche quotidiane, dove la riflessione sulla cura rimandi a una più generale cura di sé, sia alimentata dalla messa in parola dei vissuti, sia irrobustita da conoscenze formali che permettono di rileggere la propria azione.

La narrazione, che è stata la cifra del nostro approccio, assume un valore fondamentale come strumento di apprendimento. La narrazione come luogo del “dare senso”, del dare forma ai fenomeni e agli eventi, come presupposto della costruzione di sapere esperienziale e competenza 109. Recenti esperienze di formazione in campo sanitario indicano piste interessanti in proposito 110. Nel lavoro di cura è

108 Luigina Mortari, Ricercare e riflettere. La formazione del docente professionista. Roma, Carocci, 2009; pagg. 112-113. Della stessa autrice vedi anche Aver cura di sé, Milano, Bruno Mondadori, 2009. 109 Jerome Bruner, La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura e vita. Bari, Laterza, 2002. 110 Valerio Dimonte (con M.Trento, E.Borgo, L.Semperboni, L.Cirio, M.Porta), La narrazione e la rilettura delle esperienze personali come strumento di formazione in ambito sanitario, disponibile in “Research Gate”, pubblicato in Giornale Italiano Diabetol Metabol, 2009, 29; 151-156.

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necessario emanciparsi da una visione della formazione influenzata eminentemente dalle dimensioni tecniche della professione, per riconoscere il giusto valore di quelle relazionali, che implicano una nuova visione del professionista, e della sua capacità di ripensare sé stesso nella relazione con l’utente in una sorta di sforzo co-educativo, che nel lavoro del caregiver significa apprendere assieme all’utente a riprogettare giorno dopo giorno la massima autonomia di vita possibile.

La narrazione è sede di costruzione identitaria, sede di strutturazione e sistematizzazione del proprio sapere, che conduce anche all’autoconsapevolezza, un punto che emerge fragile in queste donne, che sentono di non sapere abbastanza, che tendono a rifugiarsi nella familiarizzazione del loro rapporto di lavoro, con i rischi connessi, per loro stesse e per l’utente. Servono allora setting formativi inediti, che valorizzino lo story telling come metodo e risorsa, che sappiano intrecciare la dimensione biografica e quella del workplace learning.

Va enfatizzata inoltre la dimensione relazionale dell’apprendimento, nutrendo lo scambio e favorendo l’apprendimento cooperativo, come antidoto all’isolamento entro il quale la badante svolge il suo lavoro. Nelle esperienze di “group care”, che si stanno realizzando in questi anni, l’apprendimento nasce dal dubbio che si genera di fronte alle situazioni problema, dallo scambio tra professionisti, dalla co-progettazione di soluzioni che vede impegnati assieme caregiver, utente, famigliari, operatori della rete dei servizi.

La narrazione e il ripensamento della propria esperienza aprono la porta alla pianificazione partecipata della cura, una modalità che contribuisce alla cura di sé, facilita il mantenimento dell’autonomia, produce apprendimento sia nel caregiver che nell’anziano, chiamato egli stesso a uno sforzo imponente, alle prese con il mutamento progressivo, irreversibile della sua condizione psico-fisica, e a riprogettare la sua vita nel contesto abitativo. Essa implica capacità di lavorare in modo cooperativo (quindi formazioni che allenino al peer learning, al lavoro in piccoli gruppi), e permette la costruzione di una

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nuova identità professionale, subalterna a nessun altra, e piuttosto paradigmatica più di ogni altra del mondo inesplorato della cura a domicilio.

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11.

Riconoscere gli apprendimenti informali e qualificare i percorsi formali: una contaminazione possibile

di Carlo Catania 11.1 Un dialogo necessario ma difficile

Ciascuno di noi ha imparato e impara molto dalle esperienze della

vita, dal lavoro, dalla famiglia, dai propri interessi personali e dalle condizioni in cui queste esperienze prendono forma e si sviluppano. Sembra una considerazione ovvia. La saggezza popolare ci insegna che è così da sempre, che le culture si modificano, le società e le economie cambiano, anche radicalmente, ma imparare l’arte e metterla da parte continua a essere uno dei modi più efficaci di adattarsi a questi cambiamenti.

Da questo punto di vista potrebbe apparire poco giustificata l’enfasi che da oltre un decennio caratterizza il dibattito intorno ai processi di apprendimento formali, non formali e informali. Questa stessa tripartizione, di origine comunitaria111, è oramai presente in molte legislazioni nazionali, soprattutto per quanto concerne il tema della

111 La definizione si trova in diversi materiali del Cedefop (European Centre for the Development of Vocational Training). Per un approfondimento si rimanda ai seguenti documenti: il glossario Terminology of European education and training policy. A selection of 100 key terms (2008) e le linee guida European guidelines for validating non-formal and informal learning (2009).

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certificazione delle competenze, tanto da influenzare in diversi casi la stessa architettura dei sistemi formativi. In realtà, sappiamo che le ragioni di questa enfasi sono molteplici. E soprattutto sappiamo che l’attenzione crescente nei riguardi degli apprendimenti acquisiti in modo informale (ossia come esito, il più delle volte non intenzionale, delle attività della vita quotidiana legate al lavoro, alla famiglia o al tempo libero) è la conseguenza di un nuovo e diverso modo attraverso cui le persone incontrano e acquisiscono conoscenza, grazie alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ma grazie anche alla crescente mobilità che, per scelta o per condizioni di forza, spinge sempre più persone a spostarsi verso paesi e culture diverse da quella di origine. Il sapere formale, codificato e trasmesso in tempi, luoghi e spazi strutturati (i sistemi formativi) deve necessariamente confrontarsi con i saperi informali ovunque e comunque acquisiti. Il confronto, tuttavia, non è affatto semplice e deve fare i conti non solo con oggettivi impedimenti tecnici o vincoli burocratici (per esempio l’assenza di standard formativi e professionali riconosciuti per alcuni ambiti e profili professionali, la difficoltà di comparazione tra competenze acquisite in contesti differenti, la mancanza di norme e procedure certe, la difficoltà a dialogare tra linguaggi e sistemi diversi) ma anche con il retaggio di posizione conservative. A proposito di riconoscimento di nuove figure professionali o di certificazione di competenze acquisite attraverso l’esperienza di vita e di lavoro il dibattito a volte sembra nascondere (ma neanche troppo) interessi corporativi che vedono come potenzialmente destabilizzante il tema del riconoscimento degli apprendimenti informali quale strumento di qualificazione e sviluppo delle professionalità.

D’altro canto, probabilmente anche come reazione a questo stato di cose, la letteratura e le pratiche di validazione non formale e informale degli apprendimenti scivolano a volte nella mitizzazione dell’esperienza tout court come luogo privilegiato di un apprendimento definito autentico, anche per distinguerlo sul piano valoriale dal

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formalismo del sapere acquisito nei processi formativi strutturati e istituzionalizzati. Va ribadito, invece, che non tutta l’esperienza è un’esperienza valida112 ai fini dell’apprendimento di competenze. E tanto più non tutte le esperienze sono in uguale misura significative rispetto a processi di qualificazione professionale dove, come ci ricorda il contributo di Giuseppe Porzio in questo volume, la dimensione istituzionale e codificata di una professione si intreccia con la dimensione lavorativa che rimanda a ruoli, funzioni, attività che si declinano concretamente in specifici contesti e condizioni. Non a caso l’integrazione tra queste due dimensioni sta diventando sempre più un punto di attenzione per gli attori economici, sociali e istituzionali coinvolti in diversa misura nella programmazione e gestione delle politiche formative. Cresce la sensibilità degli stakeholders nei confronti di questi temi e cresce anche la consapevolezza sul ritardo che occorre colmare rispetto ai processi reali che nelle società e nelle economie avanzate si sviluppano spontaneamente e con sempre maggiore frequenza.

All’interno di questa cornice problematica vanno quindi accolte con grande favore e fiducia le iniziative che la Regione Piemonte e il Canton Ticino stanno predisponendo sui due lati della frontiera, seppur su piani differenti, nei confronti di una figura professionale come quella dell’assistente familiare che finora non ha trovato una sua specifica regolamentazione sul piano dei processi di formazione e professionalizzazione, a fronte di una crescente domanda del mercato del lavoro. Sul lato italiano, la Regione ha attivato uno specifico gruppo di lavoro con l’incarico di elaborare gli standard di riferimento per la figura dell’assistente familiare. Si tratta di un primo passo che va nella direzione di codificare un profilo professionale e definire un framework di riferimento riconosciuto per i molteplici attori sociali e istituzionali

112 Cfr. il volume di Pier Giorgio Reggio ed Elena Righetti (a cura di), L’esperienza valida. Teorie e pratiche per riconoscere e valutare le competenze, Carocci, Roma 2013.

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che si occupano di assistenza domiciliare. L’auspicio è che a questo primo passo facciano seguito le opportune iniziative di programmazione di un’offerta formativa sul territorio così da colmare un vuoto che le stesse assistenti familiari segnalano come un punto critico.

Sul lato svizzero, un’iniziativa d seguire con interesse è quella che ha portato all’istituzione di un Diploma cantonale di collaboratrice familiare, attraverso il coinvolgimento di alcuni enti113. Si tratta del primo titolo professionale riconosciuto in Svizzera per questo ambito professionale e prevede un esame regolamentato direttamente dal Cantone.

Entrambe le iniziative rappresentano due segnali importanti che vanno nella direzione di superare l’isolamento (fisico e simbolico) in cui sono state lasciate le persone che svolgono questa professione, ma anche le stesse famiglie che le accolgono nelle loro case private per seguire gli anziani non più autosufficienti. Entrambe le iniziative, per tornare alle nostre categorie (formale e informale), tentano la difficile operazione di formalizzare l’informale114, di dare una codificazione (e quindi una legittimazione) a un’attività professionale la cui domanda crescente da parte del mercato del lavoro è molto probabilmente collegata anche alla sua natura eminentemente informale.

11.2 Un profilo e una vicenda emblematiche In questa prospettiva la figura dell’assistente familiare e le traiettorie

formative e professionali che conducono le persone a svolgere questo

113 Per i dettagli della proposta si rimanda al contributo di Paola Quadri al capitolo 4 di questa pubblicazione. 114 Solo in questo punto del contributo utilizziamo i due termini in un duplice significato, con riferimento ai processi di apprendimento ma anche pensando alla definizione di uno statuto professionale, sociale e contrattuale della figura dell’assistente familiare. D’ora in poi useremo le due categorie solo con riferimento ai processi di apprendimento e di acquisizione di competenze.

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mestiere costituiscono una vicenda per molti aspetti emblematica, una sorta di cartina di tornasole delle potenzialità ma soprattutto delle problematiche e degli attuali limiti che caratterizzano il difficile rapporto tra questi due modi di imparare. Almeno tre considerazioni contribuiscono a sostenere questa tesi e possono essere lette anche come tre grandi sfide per (ri) pensare la formazione di questa figura professionale in un logica di contaminazione tra saperi formalmente codificati e competenze informalmente apprese.

La prima considerazione si limita qui a richiamare un aspetto più volte argomentato in diversi contributi di questa pubblicazione: la fusione tra dimensione pubblica e privata del lavoro di cura delle assistenti familiari e la definizione di uno statuto contrattuale che identifica il luogo di lavoro nell’abitazione privata dell’utente privano di senso l’uso stesso delle categorie di formale e informale. Nessuna distinzione è realmente possibile. Qualunque sforzo di codificazione formale di ambiti di competenza non può prescindere dall’unicità dell’ambiente di lavoro (luogo informale per eccellenza), a meno che non si voglia rimanere su un piano di descrizione astratta che finirebbe per negare il valore stesso della competenza. La prima sfida per la formazione deve essere, pertanto, quella di prestare massima attenzione alla progettazione di un setting formativo peculiare, che consenta un interscambio continuo tra il luogo privato di esercizio della professionale e gli spazi pubblici destinati al confronto, alla rielaborazione e alla trasmissione/aggiornamento dei saperi e delle abilità tecnico professionali e trasversali.

La seconda considerazione incrocia la dimensione professionale con la dimensione sociale e culturale delle assistenti familiari. Anche questo è un aspetto approfondito nel volume ma qui vogliamo focalizzare l’attenzione sulla specificità del background migratorio quale ambito privilegiato di competenze acquisite spesso in modo

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informale. Molte assistenti familiari sono straniere115 e hanno acquisito le competenze utili a svolgere questo mestiere nei modi più diversi, anche attraverso esperienze di studio o di lavoro non direttamente riconducibili alla nuova professione svolta nel paese ospitante. Parlare di back ground migratorio significa, pertanto, riconoscere la peculiarità dell’esperienza migratoria come esperienza di apprendimento di una pluralità di competenze che oggi il mercato del lavoro delle economie avanzate richiede a molte professioni116.

Da questo punto di vista le storie “raccontate” da Furio Bednarz nel suo contributo hanno il pregio di mostrare quanto il background migratorio possa essere denso di significati e di esperienze (valide) di cui le società e le economie dei paesi ospitanti non si curano minimamente di conoscere e tanto meno di valorizzare all’interno di percorsi di formazione e professionalizzazione. Per un curioso paradosso (ben noto negli studi sulle migrazioni) sono spesso gli stessi migranti che non hanno consapevolezza del valore delle esperienze pregresse, o manifestano una tendenza alla rimozione e alla sottovalutazione della loro utilità rispetto alla propria condizione attuale e alla progettualità futura. Anche per queste ragioni il metodo dello storytelling117 usato per raccogliere queste storie, nonché tutte le

115 Origine etnica e componente di genere rappresentano due tra i principali aspetti che maggiormente emergono dai vissuti personali delle assistenti familiari coinvolte dal progetto Casa Comune. 116 La valorizzazione del background migratorio è oggetto di interesse di molti filoni di ricerca in ambito economico-sociale, tra cui segnaliamo gli studi sul diversity management. Per un approfondimento si veda anche il contributo di Massimiliano Monaci, Culture nella diversità. Culture della diversità. Una ricognizione nel mondo d’impresa., Fondazione ISMU, Milano 2012. Sempre sul tema della valorizzazione del background migratorio si segnala la pubblicazione di L. Zanfrini (a cura di), The Diversity Value. How to reinvent the european approach to immigration Mc Graw Hill, Maidenhead, UK 2015. 117 Sull’uso delle metodologie narrative e argomentative nei processi di validazione informale degli apprendimenti si veda il contributo di Carlo Catania, Gli strumenti per la validazione e certificazione delle competenze, in (a cura di) P.G. Reggio, E. Righetti, L’esperienza valida, Carocci, Roma 2013.

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altre testimonianze basate sul presupposto della narrazione e documentate in diversi altri contributi di questo volume118, acquisiscono non solo un valore documentale e di ricerca ma suggeriscono allo stesso tempo una metodologia didattica che può efficacemente contribuire a selezionare le esperienze e a mettere in valore all’interno di processi formali gli apprendimenti informalmente acquisiti. Di nuovo possiamo qui richiamare le considerazioni di Porzio nella proposta di un dispositivo formativo per le assistenti familiari basato sul workplace learning, là dove si identifica una specifica fase del processo formativo dedicata alla rielaborazione e interpretazione critica delle pratiche lavorative esercitate sul campo. Perché le esperienze lavorative diventino occasioni preziose di apprendimento serve una presa di consapevolezza che richiede capacità di riflessione personale e di confronto e condivisione con gli altri.

La seconda sfida per la formazione dell’assistente familiare dovrebbe, quindi, essere quella di riuscire a valorizzare il background esperienziale dei partecipanti attraverso la previsione di servizi/momenti complementari ma distinti dalla formazione d’aula. L’auto osservazione, il counselling, le pratiche personalizzate di bilancio delle competenze, l’accompagnamento di facilitatori ed esperti (per esempio valorizzando l’expertise dell’OSS) possono essere tutte valide opzioni metodologiche per riconoscere le competenze acquisite in modo informale, con modalità destrutturate e non basate su modelli trasmissivi docente/discente, all’interno di percorsi formali rivolti alle assistenti familiari.

Sempre le storie raccolte da Furio Bednarz ci introducono la terza sfida per la formazione, mostrando come un ruolo determinante nella vicenda biografica di queste persone sia giocato da un insieme di caratteristiche personali che l’esperienza migratoria ha contribuito a

118 Cfr. i contributi ai capitoli 2 (L. Cardenas, I. Ferero), 4 (P. Quadri) e 7 (S. Riggio, C. Vanetti).

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rinforzare: grande motivazione e determinazione (“si deve imparare e si impara”), capacità di costruire relazioni in contesti completamente nuovi e spesso senza un’adeguata preparazione linguistica, flessibilità e spirito di adattamento e soprattutto capacità di imparare ad imparare in qualsiasi circostanza e condizione. Tutte queste capacità che in letteratura hanno assunto nel tempo svariate denominazioni (soft skills, life skills, competenze trasversali, key competences119) rappresentano un ideale terreno di incontro tra contesti di apprendimento formali e informali. Sappiamo che per la figura dell’assistente familiare, così come per molte altre professioni di cura e di relazione, queste capacità costituiscono un ambito di competenza molto importante per l’esercizio della professione. La formazione in aula può aiutare a migliorare la consapevolezza di sé rispetto a queste competenze e la capacità di riflessione critica sui propri comportamenti ma la vera palestra di apprendimento è l’esperienza. Qui troviamo una piena convergenza tra la scuola delle vita di cui parla Bednarz e la metodologia del workplace learning proposta da Porzio. Partendo da approcci distinti i due contributi forniscono indicazioni utili per la costruzione di un programma di formazione per le assistenti familiari e per qualificare i percorsi formali che sono in via di definizione, anche attraverso l’implementazione di metodologie formative che siano in grado di valorizzare gli apprendimenti informali posseduti da molte persone che, per scelta o più frequentemente per condizioni del mercato del lavoro, si trovano oggi a svolgere questo difficile mestiere.

Senza alcuna pretesa di esaustività, queste tre sfide invitano le istituzioni preposte a costruire modelli formativi innovativi all’interno di processi di governance territoriale. Dalla contaminazione tra questi due modi di imparare possono svilupparsi percorsi in grado di

119 Cfr la Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006 relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente (2006/962/CE).

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assicurare la qualità della preparazione tecnico-professionale ma anche, forse anzitutto, in grado di facilitare il superamento delle barriere culturali e dell’isolamento di questa professione e di chi la esercita, in una logica di integrazione sociale e formazione alla cittadinanza.

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Conclusioni

L’attore pubblico locale assume il ruolo di facilitatore di processi e di coordinatore di reti multi-attore.

di Patrizia Spina Il cambiamento parte dalla resistenza. Da qualche tempo, “RESISTIAMO!” è una delle risposte più

frequenti alla domanda:“come vanno le cose presso il vostro servizio?”. Nel corso degli ultimi anni, chi lavora nel sociale ha acquisito la consapevolezza di svolgere una vera e propria azione di resistenza, sia nei confronti di una società dura ed espulsiva, che considera ciò che è sociale come inutile costo e come spesa rivedibile sia nei confronti di una cultura egoistica che tende a considerare i problemi come “di chi ce li ha”.

Oggi, chi è quotidianamente impegnato nel lavoro di comunità e nello sviluppo della cultura di prossimità non fa che resistere a questo pensiero dominante, nel tentativo di mostrare un’altra idea di uomo e di società.

Contestualmente, però, l’operatore sociale non può non chiedersi che senso abbia il pensare e l’agire localmente quando non vi è una prospettiva di cambiamento globale.

Proprio nel momento in cui i Servizi Sociali del Comune di Novara si ponevano queste domande e faticavano ad individuare risposte soddisfacenti, si è affacciata l’opportunità di creare e di sperimentare

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un nuovo modello di intervento relativo al mantenimento degli anziani presso il proprio domicilio. Avremmo potuto decidere di avviare il nostro progetto nella consapevolezza che, nonostante le buone intenzioni, poco sarebbe cambiato o avremmo potuto provare ad assumere, in modo fermo e deciso, il ruolo di facilitatore e di coordinatore all’interno della rete territoriale presente, piuttosto ricca in termini di risorse ma parecchio immatura nelle sue connessioni.

Abbiamo optato per la seconda opportunità, sposando le convinzioni di Miguel Benasayag120 che sostiene che è proprio nella situazione che si cerca di dare risposta a ciò che si vuole combattere. È nella situazione che si costruiscono le sue connessioni con il livello globale e che si gioca il nostro potere, che può sperare di essere tanto più influente quanto più si dota di chiavi di lettura capaci di collegare l’individuo alla collettività e quanto più sviluppa un pensiero critico in grado di aprire conflitti costruttivi nella vita sociale.

Siamo partiti dal presupposto che la fragilità umana, in tutte le sue espressioni, va sempre vista in connessione con il contesto sociale. La vita non è mai solo qualcosa di personale, ognuno di noi porta dentro di sé la crisi sociale.

Conoscere e comprendere il cambiamento che ha investito la nostra società è fondamentale per comprendere come le prospettive di lettura del fenomeno “fragilità” siano cambiate: negli anni Settanta, dimettere una persona fragile da un circuito protetto di cura significava reintegrarla in una società ricca di speranze e di promesse, una società

120 Animazione Sociale (febbraio 2014) - Resistenza è creazione di opzioni diverse, intervista a Miguel Benasayag a cura di G. Innocenti Malini.

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solidale che lottava per il proprio miglioramento. Oggi, la medesima dimissione implica qualcosa di diverso poiché la persona incontra una società dura, dove disagio e malessere sono generalizzati. Una società dura al punto che ognuno sa che è possibile cadere in disgrazia, personale o familiare, in qualsiasi momento. Una società divisa, in cui i legami di solidarietà e le fragilità non hanno più diritto di esistere.

Non è difficile comprendere quanto sia diverso prendersi cura delle fragilità in un mondo che crede nel futuro rispetto al prendersene cura in un mondo che ritiene il futuro una minaccia.

Le istituzioni incaricate di curare sono investite in pieno da questo cambiamento, vi reagiscono e vi si adattano passivamente, senza ripensare seriamente alla loro missione. Sono spaventate dall’ideologia dominante di una società a carattere utilitaristico, dove ha diritto di esistere solo chi non costituisce un costo ed è in qualche modo utile per la società.

Questo è un cambiamento enorme ed è il sintomo più significativo della crisi della nostra società. Chiediamo alla gente di mostrarci la sua utilità. È proprio contro questa società utilitaristica che dobbiamo resistere e non dobbiamo dimenticare che le persone soffrono perché sono, in primo luogo, portatori di fragilità ma che la loro sofferenza ci parla anche dell’intolleranza che la nostra società manifesta contro la fragilità umana. Gli esseri umani devono poter convivere con le proprie fragilità e non vivere contro la propria fragilità. È perché siamo fragili che possiamo agire. Dobbiamo resistere perché non tutto è possibile ma dobbiamo uscire dalla contraddizione che se non tutto è possibile allora siamo impotenti. È proprio da ciò che non cambia che è possibile sviluppare nuove possibilità.

E quindi, cosa possono fare gli operatori sociali in un contesto come questo?

Abbiamo già detto che non esiste un modello alternativo per un cambiamento sistemico globale ma, in questa assenza, dobbiamo cercare di produrre solidarietà e legame sociale. Oggi il sociale vive

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sfide molteplici che non convergono verso un modello di superamento globale. È un’epoca di sperimentazione, in cui ricercare come sia possibile una vita di socialità che non sia né normalizzante (devo stare bene ad ogni costo) né utilitaristica (per esistere, devo essere utile alla società), provando nella propria città e nel proprio quartiere. Se è possibile lì, allora questa è un’esperienza importante che può risultare estremamente utile. È per questo che abbiamo pensato, con il progetto “CASA COMUNE”, di sviluppare un modo di resistenza-creazione che non avesse come obiettivo il cambiamento totale, bensì il nuovo possibile concreto e locale. Abbiamo puntato sulla realizzazione del passaggio dal Primo Welfare al Secondo Welfare, da un modello di governo gerarchico e centralizzato (government) ad uno più diffuso ed alimentato dal basso (governance).

In questo cammino è stato di grande utilità il costante confronto con i partner svizzeri del Cantone Ticino che, pur essendo portatori di esperienze organizzative molto differenti dalle nostre in tema di assistenza a domicilio degli anziani, sono risultati molto preziosi nel sostenere e rinforzare la nostra spinta al cambiamento. La loro organizzazione, infatti, mostrava esperienze di co-progettazione e di co-produzione di servizi tra pubblico/privato lontane dalla nostra cultura di servizio e, proprio partendo da queste differenze, siamo riusciti a fare nostri alcuni concetti fondamentali che ci hanno sostenuti nei principali momenti di difficoltà.

La costruzione di nuovi processi e di nuove filosofie: le politiche regionali e le innovazioni a livello locale. Nella Regione Piemonte, e ancor più nella nostra comunità locale, a

distanza di quindici anni dall’approvazione della legge quadro sul’assistenza, sembra ancora faticare ad affermarsi l’applicazione del principio di integrazione tra politiche di welfare e tra attori del territorio in vista di una programmazione partecipata degli interventi di

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assistenza. Una delle ragioni è certamente quello della cultura di governo delle istituzioni. La legge 328/2000121 richiede alle amministrazioni pubbliche un cambio di mentalità. Le architetture formali o le articolazioni organizzative sono condizione necessaria al dispiegarsi dei processi di programmazione partecipata, ma non sufficiente. Non è indifferente se i diversi soggetti chiamati a mettere in atto le norme condividono o meno la ratio e i principi della stessa, anche perché la manipolazione della norma è sempre possibile. Il passaggio da government a governance sottintende un mutamento profondo tra riconfigurazione dei soggetti protagonisti della sfera pubblica e produzione delle policy, perché implica un diverso modo di produzione delle politiche pubbliche: non più basato e trainato dall’offerta pubblica ma risultante da una pianificazione costruita a livello di comunità locale e basata su una rilettura e ricodifica di bisogni, risorse e soluzioni (community planning). Il concetto di partecipazione, in una prospettiva di governance, assume una valenza simbolica cruciale in quanto comporta una ridistribuzione del potere tra gli attori in gioco nell’arena della sfera pubblica per il conseguimento di una forma più matura di sussidiarietà, in cui tutti gli attori sociali diventano responsabili della costruzione del bene comune. In questo scenario, la sussidiarietà non può che coniugarsi con il concetto di responsabilità.

La Regione Piemonte, proprio in questa prospettiva, ha lavorato nell’ultimo anno alla creazione di un processo che attivasse una dinamica partecipativa, in grado di coinvolgere una pluralità di attori territoriali, in una logica di reciprocità e di corresponsabilità. A questo processo è stato dato il nome di “Patto per il Sociale della Regione

121 L. 8 novembre 2000, n. 328, in materia di “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”.

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Piemonte”122 con l’obiettivo di costruire le condizioni più adeguate per affrontare il disagio che, nelle forme più svariate, attraversa le comunità, favorendo uno spirito di cooperazione tra tutti gli attori territoriali.

Le quattro principali tematiche su cui la Regione Piemonte ha voluto avviare il confronto territoriale sono state l’integrazione socio-sanitaria, con particolare riguardo alla non autosufficienza, il contrasto alla povertà e l’inclusione sociale, le politiche di sostegno alle responsabilità familiari e gli sportelli di accesso alla rete dei servizi territoriali. L’elevata partecipazione agli incontri ha consentito alla Regione di individuare, per ogni tematica trattata, obiettivi strategici su cui lavorare. Tale impianto è funzionale anche al presupposto ineludibile di un quadro finanziario che prevede e prevederà, nella migliore delle ipotesi, un mantenimento delle risorse economiche disponibili se non una loro contrazione. In un quadro come questo diventa imperativo disporre di un piano chiaro e ragionato di priorità che possa anche richiedere la rivalutazione di scelte date sino ad oggi date per scontate.

Parallelamente alla costruzione del Patto per il Sociale, la Regione ha avviato la riorganizzazione del modello di governance territoriale in materia Sanitaria, Socio-Saniataria e di integrazione con i Servizi Sociali. Il Distretto Sanitario, che dovrà coincidere con l’ambito territoriale degli Enti Gestori delle funzioni socio-assistenziali, dovrà garantire le adeguate risposte non solo di carattere sanitario ma anche socio-sanitario e sociale.

In questa ottica si è mosso anche il Comune di Novara che, a partire dalla realizzazione delle azioni previste nel progetto “CASA COMUNE”, si è impegnato nello sviluppo e nell’implementazione del sistema di governance locale.

122 Nell’introduzione a questo volume sono richiamati alcuni dei principali spunti del “Patto per il sociale”.

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Relativamente alla popolazione anziana, il Comune di Novara vanta un Servizio di Assistenza Domiciliare ben strutturato ed ampiamente riconosciuto dalla comunità locale. Altrettanto si può dire del Servizio di Assistenza Domiciliare Integrata erogato dall’ASL di Novara e dai numerosi interventi domiciliari erogati dalle diverse associazioni che, sul territorio, garantiscono il loro contributo, anche se non sempre di carattere professionale.

L’integrazione delle politiche socio-assistenziali con altre politiche di welfare, in primis quelle sanitarie, appare ancora lontana dal suo pieno raggiungimento. Nonostante accordi di programma, convenzioni, Unità Valutative Multidisciplinari siano stati diffusi ampiamente, esistono sul piano concreto gap più o meno significativi che rendono raramente realizzabile l’obiettivo legislativo. Si pensi solo al fatto che le aziende sanitarie ed i comuni rispondono a logiche diverse nella individuazione degli obiettivi, fanno riferimento a diversi canali di finanziamento ma, soprattutto, derivano la loro legittimazione da fonti differenti per quanto, comunque, di natura politica.

Come garantire, dunque, che gli interventi e le prestazioni sopra citate non risultino frammentate alla percezione della cittadinanza e dei servizi? Il lungo e complesso lavoro presentato in questa pubblicazione aveva come obiettivo l’integrazione dei servizi e delle prestazioni, la rilettura dei bisogni espressi della popolazione anziana novarese e la costruzione di saperi, stili e servizi in grado di soddisfare quanto rilevato, nell’ottica di sostenere l’anziano e la sua famiglia, con le loro fragilità, nel complesso e poliedrico percorso di cura e di assistenza.

La famiglia che intende mantenere un proprio anziano non autosufficiente a domicilio si aspetta almeno tre diverse condizioni: in primo luogo, informazioni accessibili, precise e chiare rispetto alle opportunità offerte dalla rete territoriale dei servizi pubblici e del privato sociale a sostegno della propria decisione e assunzione di impegno; in secondo luogo, rapidità di risposta a fronte di un bisogno (la perdita dell’autosufficienza) che presenta sempre i connotati di

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un’emergenza, La perdita dell’autosufficienza è un'emergenza, anche quando è il risultato di un declino lento. La famiglia non deve sentirsi abbandonata nella ricerca della soluzione più adeguata alle proprie necessità; in terzo luogo, flessibilità dei servizi, a fronte di un soggetto (l’anziano non autosufficiente) che è normalmente portatore di una pluralità di bisogni a cui dovrebbero corrispondere soluzioni flessibili e personalizzate (possibilità di un mix di servizi pubblico/privato/volontariato, ipotesi di condivisione di assistenti familiari, domiciliarità protetta, ipotesi di soluzioni residenziali intermedie tra domicilio e struttura).

Quale percorso si è deciso di intraprendere al fine di produrre e di assicurare risposte congrue alle aspettative delle famiglie con anziani non autosufficienti?

Per prima cosa sì è lavorato per sviluppare, insieme agli attori territoriali coinvolti, un senso di appartenenza alla comunità basato su legami fiduciari che andassero oltre gli interessi personali e la produzione di beni relazionali collettivi.

Il metodo sperimentato ha visto, in prima battuta, il riconoscimento della rete e la condivisione di un processo che stimolasse la nascita di un’identità collettiva, solidale e cooperativistica per poi giungere alla realizzazione di un percorso costruttivo di sviluppo caratterizzato da apertura, messa in rete di risorse e progettazione sociale condivisa.

La maggiore criticità è stata abbattere la diffidenza del privato nei confronti del pubblico, legata alle precedenti esperienze di costruzione dei Piani di Zona123, risultate meno funzionali di quanto previsto in sede di programmazione. La parte pubblica, dal canto proprio, ha dovuto fare lo sforzo di rivedere il proprio ruolo all’interno della

123 Il Piano di zona è lo strumento che la L. 328/2000 individua per la programmazione integrata a livello di ambiti territoriali distrettuali degli interventi e dei servizi socio-assistenziali. Il piano prevede il coinvolgimento dei Comuni del distretto, dell’ASL e di tutti i soggetti attivi nella progettazione dei servizi.

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comunità, allontanandosi dalla funzione di decisore e di unico responsabile ed assumendo, pian piano, la funzione di facilitatore di processi e di coordinatore delle reti sociali.

Punto di forza è stata la motivazione comunque tangibile in queste realtà territoriali coinvolte nel progetto, che ha consentito il superamento della diffidenza e la disponibilità alla sperimentazione di un modello che implicasse, in capo a ciascuno, una maggiore assunzione di valore e di responsabilità.

Raggiunto questo traguardo, si è cominciato a lavorare sulla realizzazione concreta di obiettivi comuni, co-progettati, co-partecipati e co-gestiti. Un primo obiettivo ha riguardato la creazione di un portale web dei soggetti che, a livello cittadino, si occupano di domiciliarità e di assistenza agli anziani al fine di diffondere, in modo semplice ed immediato, tra l’utenza e gli operatori sociali, la gamma dei servizi offerti da tutti gli enti/organizzazioni (es. servizi di volontariato, servizi di gestione delle assistenti familiari, ecc.), favorendone il coinvolgimento e l’integrazione nel tessuto cittadino.

Un secondo obiettivo si è proposto di promuovere l’apertura di un Punto Informativo Anziani, che vanta una progettazione ed una gestione condivisa tra Comune di Novara, ASL – Distretto di Novara e volontariato locale. È opportuno sottolineare la costante partecipazione, in fase di progettazione, dell’Azienda Ospedaliera Universitaria, direttamente coinvolta per quanto attinente alla dimissione ospedaliera protetta.

Altro esito degno di attenzione è stato il rilancio, a cura del Centro Servizi per il Territorio, del tavolo di coordinamento tra le associazioni che, più direttamente, si occupano della popolazione anziana per ripensare il ruolo del volontariato, la sua valorizzazione ed integrazione, anche con gli enti pubblici, invitati a parteciparvi.

In ultimo, non certamente per importanza, va toccato il tema della formazione. Il lavoro svolto dal Dottor Porzio è da considerarsi come

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La costruzione di un dispositivo formativo per le assistenti familiari124 ha rappresentato una grande occasione per favorire l’evoluzione dei Servizi di Assistenza Domiciliare Territoriale verso modelli sostenibili orientati ad una logica di Secondo Welfare. L’innovazione è costituita dall’avere attivato percorsi di apprendimento e di professionalizzazione fondati sulle pratiche lavorative, centrando l’attenzione sul lavoro a domicilio, a differenza di quanto avviene nei percorsi formativi riconosciuti (si pensi al corso per Operatore Socio Sanitario) in cui il contesto di cura che assume maggiore rilievo è il contesto della residenzialità.

Positivo è anche il rapporto avviato con la Regione Piemonte- Settore Formazione Professionale, relativo alla possibile istituzione della qualifica dell’Assistente Familiare. L’obiettivo è quello di poter fornire alla Regione Piemonte un contributo concreto affinché non si perdano di vista le reali necessità formative di persone che, nella maggior parte dei casi, non si approcciano per la prima volta ad una esperienza che le vede assumere le funzioni di assistente familiare.

Si è inteso dunque accentuare il ruolo dell’esperienza lavorativa come risorsa per l’apprendimento e quello dell’esperienza formativa come avvio di un percorso di inserimento in una comunità professionale territoriale.

Giunti alla conclusione del progetto “Casa Comune”, mi sento di poter affermare che la sperimentazione attivata e gli sforzi compiuti dai diversi attori sono palestra di cittadinanza e di buona amministrazione che potrà alimentare e sostenere percorsi futuri, avendo dimostrato che un altro stile di governo, quello del Secondo Welfare, condiviso anziché accentrato, è possibile.

124 Cfr il contributo di G. Porzio al capitolo 9 di questa pubblicazione.

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Presentazione degli autori

Maurizio Ambrosini è docente di Sociologia nell'università degli studi di Milano, Facoltà di Scienze politiche, economiche e sociali. Insegna inoltre nell'università di Nizza. Dirige la rivista "Mondi migranti" e la Scuola estiva di Sociologia delle Migrazioni di Genova. Fra le sue pubblicazioni recenti: Sociologia (con L.Sciolla), Mondadori 2015; Non passa lo straniero?, Cittadella 2014; Immigrazione irregolare e welfare invisibile, Il Mulino, 2013. Furio Bednarz vive e lavora a Lugano, ed è responsabile ricerca e sviluppo presso la Fondazione Ecap Svizzera, e Presidente della Conferenza per la Formazione Continua della Svizzera Italiana. Si occupa di ricerca e valutazione di dispositivi di formazione, analisi delle competenze, migrazioni e mercato del lavoro. Ha realizzato progetti e pubblicazioni nel campo delle dinamiche del mercato transfrontaliero del lavoro, sia sul versante svizzero che su quello italiano. Luz Cardenas è psicologa e psicosociologa, si occupa di studi, ricerche, progettazione di percorsi formativi e docenza finalizzati allo sviluppo di competenze interculturali in particolare nei contesti lavorativi. Carlo Catania è esperto di progettazione e valutazione di processi formativi. Nell’ambito dei suoi interessi di ricerca si è occupato di background migratorio, con particolare riferimento ai temi del riconoscimento non formale e informale degli apprendimenti e della certificazione delle competenze. Ilaria Ferrero: lavora presso Filos, dove si occupa di ricerca, progettazione e tutoraggio di progetti innovativi. Franca Maino è Ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università degli Studi di Milano e Direttrice del Laboratorio Percorsi di secondo welfare presso il Centro Einaudi di Torino. I suoi interessi di ricerca riguardano le politiche sociali in prospettiva comparata.

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Federico Manfredda è esperto di sistemi formativi, dei processi di transizione e di progettazione europea e consulente per il Comune di Novara nell’ambito del progetto Casa Comune. Paolo Moroni è responsabile Area Occupabilità e formazione continua presso Filos, si occupa di analisi dei fabbisogni, progettazione e coordinamento di progetti, in particolare nel settore Socio sanitario. Giuseppe Porzio è consulente di sviluppo organizzativo e processi formativi, esperto di workplace learning e di alternanza formazione lavoro. Paola Quadri Cardani, ex presidente dell'associazione Opera Prima, è formatrice per adulti, responsabile dei corsi per stranieri organizzati dalla stessa associazione. Sara Riggio è psicologa magistrale e mediatrice familiare. Si occupa di progettazione di servizi e formazione per le professioni di cura per conto di Enti pubblici e del privato sociale. Ha 56 anni ed è madre di due ragazzi. Patrizia Spina è Funzionario Responsabile Unità Alta Professionalità " Organizzazione e Gestione Manageriale dei Servizi Sociali" Comune di Novara - Servizi Sociali e Politiche della Casa. Chiara Vanetti è consulente per la progettazione e gestione di progetti europei in ambito formativo, lavora presso Fondazione Ecap Svizzera.

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