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Recognitiones da laura silvestri A. / RELOADED

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Recognitiones da laura silvestri

A. / RELOADED

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Personaggi A. Esira Inga Zarema Alina Donne Uomini

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PRIMO

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Beslan. Interno della Scuola N.1. La faccia della bambina, la faccia bianca devastata dal bianco della calce, Madina che chiede da bere, e vorrà bere ancora per anni e anni fino a gonfiarsi coma una rana morta. Tra calcinacci e pareti sventrate le trenta donne in veglia hanno occhi bucati come i fori nel muro, da lì, dagli occhi, dai fori, passa un sapere che non ha confini, sfonda e dilaga oltre i millenni di corpi sfigurati, di cacce, incespicare di caviglie afferrate e gridi di animale che vede il coltello alla gola. Le donne a turno si alzano, a due, a tre, come per una danza nera appresa al latte di altre madri, generazioni di sventura. Sfondare, andare là dove il danno ebbe inizio e nascimento, andare senza coscienza, con occhi ciechi, solo annusando, e lunghe e disarticolate braccia e mani indietro a brancolare nel tempo scuro, tastare nelle pieghe di quel tempo innumerabile, tra le pietre diventate cenere e sabbia. Archeologia delle ripetizioni. Archeologia del lutto delle madri. Vedono e non sanno dimenticare, fulminate da memoria febbrile e instancabile, a numerare case edificate nel fango, villaggi, infiniti muri sbriciolati dalla furia degli uomini che passarono di lì, e popoli interi da quella terra melmosa sorti per secoli, uno dietro l'altro, come da pietre sotterrate nell'umido, e poi partiti a far prede e sventrare e figliare altrove. Altri muri tirati su, tappeti appesi alle pareti e l'albero che cresce alla finestra, svelano le donne l'orrore del mondo muovendo i passi nella scarpe impolverate, è cenere che ricoprì le foglie di quell'albero, sabbia che intrise il tappeto sfilacciato. Svelare danzando l'orrore come muti uccelli, con occhi penetranti di falco. Che chiarità accecante, stare lì a fissare la catastrofe, l'inflessibile e certa ripetizione, e come chi nuota in un sogno bianco e allucinato contare i mille destini sovrapposti e identici, un'intera storia fatta di cenere, e che solo nella cenere dura. Ma sfuggono alla paralisi le donne, benché quasi in quell'accecamento il contorno dei corpi sembri

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a loro un po' sfaldarsi, e coi passi impolverati frugano e smuovono e vedono l'origine, quel germe, di lutto e sventura, passato attraverso le ere e seminato. Di utero in utero. La sua nuova dimora adesso è qui, dopo lungo viaggio oggi sosta tra la polvere di questi muri abbattuti. Esira Solo questa mi è rimasta, e cosa ne farò. Se la chiami nasconde la testa tra le ginocchia. Urla forte come un uccello di sventura, urla i nomi di tutti i fratelli. Sotto le pietre. Dice che sono. Sotto le pietre e i mattoni, tutti e sette, anche la più piccola, Dzira, che aveva il vestito verde con il fiocco. Cosa ne faccio di Madina, ha gli occhi annacquati come se il rumore delle esplosioni, troppo vicino al suo cuore, come se quel boato glieli avesse inondati. Non li può più usare. Portatela via.

Se non volete ridarmi tutti gli altri. Inga Sentitela, l'infelice, la disgraziata, meriterebbe un colpo in testa, farla tacere, piuttosto che mal dire. Una almeno le è rimasta, all'intronata.

Alina Lasciala dire, sta facendo esperienza - non vedi? - del nulla, di come si sta nella

devastazione, quel luogo, questo luogo, da cui si vorrebbe fuggire ma ci trattiene, come se gambe e piedi diventassero di pietra e calce. Troppo pesanti. Tra poco anche la bocca si seccherà, la gola sarà dura come quella di una statua e non potrà più dire, mal dire. E' già murata nel silenzio, anche se ancora sparge cupe preghiere e si venderebbe l'unica figlia. Perché non può più servire. Perché si è rotta. Lei è già murata, come gridasse nel deserto, eppure ancora parla. Ma sarà per poco.

Zarema Sì, ma così spezza le nostre preghiere. Siamo qui, cercando di tenere insieme i ricordi prima che si disfino come questi muri e vadano a confondersi con la polvere immensa che si muove intorno, anche solo a respirare, e lei interrompe il filo. Se non sta zitta potrei dimenticare in un momento la faccia di Inga Quale faccia ricordi, disperata, quella liscia di Azhamat quando gli pettinavi i capelli e glieli profumavi, ogni mattina, prima della scuola, o quella raggrinzita, la sua, come un frutto seccato troppo in fretta, di quando te l'hanno riportato, dopo giorni, e la faccia era la cosa migliore. A vedersi. In tutta la mia vita non ho mai conosciuto, mai, un tale carnaio... eccola che ricomincia. Ancora lì a cercare sepoltura C'è Madina che ha raccolto grandi pietre e mattoni e pezzi di muro e in un angolo, come per non dare fastidio, si è accucciata e ha cominciato a ricoprirsi, con le pietre. I piedi. Le gambe. Le ginocchia. Tutto un muovere di polvere intorno, una bella ghirlanda di calcinacci. Santifichiamo chi è sopravvissuto e per insulso eroismo cammina, respira, non si butta giù dal ponte. Madina è tutta pietre, ora, strana costruzione, un frammento preistorico, riportato alla luce, di cui più nessuno capisce la funzione. Un'urna? Un instabile sepolcro? Solo le braccia ora escono dal mucchio e si muovono intorno, lunghe e magre. Ma adesso che le pietre arrivano alle spalle, al collo, e lei sembra quasi soffocare, la madre comincia a liberarla con fretta e nervosismo, getta via le pietre e quelle fanno un secco rumore nel cadere - oh, le esplosioni secche nelle orecchie di Madina, ad ognuna ussulta e gli occhi si fanno più bianchi e appannati e preferirebbe restare coperta, sepolta, piuttosto che sentire quel tonfo e che sia la madre per giunta a forarle le orecchie. Per salvarla, dice. Ma lei non può crederci. Allora ricomincia, un po' più in là.

Inga Un carnaio, sì, una mirabile operazione di macelleria, come in un sogno in cui da scantinati e vecchi magazzini - uno strano paesaggio, di gran luce fuori, tra l'erba, e ombre improvvise e fredde, da sotto - dai fori, dalle grate arrivano segnali, un rimestare, una frenesia da formicaio, lavori da portare a compimento, e tu ti affacci e dentro è tutto un gran squartare,

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sbudellare, una catena di montaggio soffocante e fumosa, un nastro su cui scorrono frattaglie, frammenti di corpi ma ormai inconoscibili, materia, violentata, e nessuno che possa fermare, inceppare il congegno, quella macchina perfetta ideata per sventrare... con questa mia faccia devastata di rughe, con questi occhi abituati all'orrore mai ho visto un simile grandioso mattatoio. E i maestri macellai, i gran cerimonieri del massacro? Dzasokov, presidente, la nostra Natasha , così

lo chiamiamo, a dimostrargli il nostro affetto. Cosa facevi, Natasha, mentre dentro, nella palestra, i corpi si ammassavano, bambini nonne maestri, e tutto un groviglio di cavi, di fili elettrici, e un bel sacchetto gonfio di esplosivo che pendeva dal canestro. L'albero della cuccagna.Quale dolce rituale di giarrettiere rosa e coppe di champagne stavi mettendo in scena mentre là dentro i bambini si leccavano l'urina e a Ljuobocka che proprio non voleva - piuttosto morire per sete - per rabbia uno di quelli con il piede la testa gliel' ha schiacciata contro le travi. E mentre nell'aula li facevano spogliare, quei bambini, i loro padri, qualche madre, e che piegassero bene i vestiti come prima di andare a dormire, e i soldi che avevano nella tasche, due paia di orecchini, gli occhiali, quelli li mettessero sulla cattedra. E dopo avergli sparato chiamavano altri studenti, più grandi, perché buttassero i corpi giù in giardino, dalle finestre dell'aula. E chi ti ha suggerito, Natasha dai baffoni

spioventi, chi ti ha bisbigliato di ordinare l'attacco proprio mentre qualcuno stava trattando e quelli forse sarebbero usciti, prima o poi, liberando la gran massa di carne allibita, tutti quegli occhi spalancati, quei piccoli piedi incespicanti. E' stato il tuo amante, mentre ti accarezzava le cosce, così, per giocare, per vedere come il film andava a finire, o è stato il gran maestro, il re dei macellai, la gran troia esperta in massacri, fin da quando seduto sul suo trono, quella sua bella scrivania che quasi brillava, dava ordini ai suoi sgherri, al komitet, pianificava sparizioni, agguati, e scientifico procedere negli interrogatori, parole convincenti e solo qua e là una strizzata di coglioni. Ha un bel cranio luccicante, il re dei macellai, e un naso di quelli insinuanti, di grande esperienza, e ama noi tutti, suoi popoli, di uguale passione. Vladimir The Lucky. Il Fortunato. Che ai compari regala gasdotti, mucchi di diamanti, intere pianure da razziare. Purché nessuno sfugga al suo abbraccio profumato, e la bella famiglia resti unita. Insomma, avrà chiamato Nikolaj, il nipotino di qui, gran capo delle piccole spie di provincia, e quelle allora avranno chiuso gli occhi, tappato le orecchie, mentre passavano i camion pieni di armi e di uomini, entravano nel cortile della scuola dopo aver attraversato la città, e là con calma scaricavano, piazzavano mitraglie e bombe e aspettavano la festa. E allora sentite cosa ho da dirvi, maestri macellai. Che un qualche dio vi maledica, uscendo dal suo ozio, che possiate sentire da lontano la catastrofe che lenta si avvicina costringendovi a contare i giorni, le ore, mentre restringe il cerchio intorno a voi... Alina Non maledire, sventurata. C'è un altro modo. Le crepe, guarda le crepe.

Inga Sì, una gran paura davvero che vi prende all'improvviso, mentre state ballando un bel valzer, e non sapete cos'è, questo soffio di vento gelido che spalanca la porta... cosa? che dici, tu? che modi, che crepe?

Zarema Cosa dici, Alina? Guardala, Inga. Mentre parlavi si è alzata e strascicando i piedi, come volesse alzare più polvere e tutte imbiancarci, così, si è messa a ispezionare i muri, li scruta da molto vicino. Un altro piccolo passo. Un altro frammento. Infila le dita nei fori, ficca gli occhi nelle fenditure. Come un'inutile cerimonia. Ridicola crimonia. Ogni tanto ride forte, come se di là, oltre la finestra che non ha più vetri, vedesse saltimbanchi e pagliacci. Poi di nuovo bisbiglia, appoggia le labbra nelle crepe della parete. Parlare alla cenere. Un'altra. Di noi. Che si è bevuta il cervello.

Alina ...un altro modo. Bisognerà perdere ancora, gli occhi, la lingua. Assentarsi. Sottrarre parola. Sostare. Stiamo qui, accanto a questa piega, ferita, guardiamo dentro fino a perdere gli occhi. C'è un modo per non essere d'accordo. Stiamo su questo bordo disgregato. Non filo a ricucire ciò che è stato lacerato. Entriamo e consumiamo il male a forza di visione. Poi il canto, la melodia del disaccordo. Che accada, che continui ad accadere, che sia accaduto. Che il male dilaghi. Lo

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guarderò attentamente intonando infine una bella canzone. Ma prima dovremo consumare questa calce, forse anche ringraziarla. Come farina gettata nella grotta dei serpenti. Laggiù, vicino, molto vicino al sole nascosto nel buio della terra, là dove nessuna parola risuona. Là s'invoca con lingua silenziosa e sconnessa. Si accoglie l'onda forte di questa grammatica scomposta come fosse l'annuncio di una voce che non vuole più dire, articolare. Poi, verrà il canto.

Zarema Alina, tu anche ti metti a delirare? Cos'è questa storia di farina e serpenti? Rispetta le altre donne e il loro rito. Alina Verrà il canto. E sarà come costruire su quelle rovine. Come un ruscello che scorre in una pianura afosa e sembra perso a se stesso, alla sua voce, ma poi d'un tratto s'inventa una pendenza di pietre sonore. Cuciremo nella vita anche l'orrore. Solo così puoi sfuggire all'assedio. Di quelle interminabili schiere di morti. Del generarsi ininterrotto di morti dai morti, di colpe dalle colpe. E' un dono del dio. Guardare a lungo. Poi distogliere gli occhi. Oblio. Liberare spazio e sguardi a una nuova visione. La vita. E' un suono che mi buca il cervello, e squilla di nuovo, è il brillio della polvere che si leva, come una nevicata, come piccoli sandali che in quella neve intatta lasciano tracce sottili. L'ansia di ascoltare una voce che riprende a dire. Parla, e le donne ora compiono il rito. O è una danza... Tre giorni. Senza mangiare. Senza bee. Tendono un filo di metallo da una parete all'altra della grande palestra scoperchiata e si portano addosso dei secchi da bucato. Ma leggeri. Li appoggiano a terra e ne tirano fuori non abiti o sottane, solo fogli, neri, come pagine di libri bruciati o messi a tacere. La voce cancellata. Le nostre lingue disarticolate, sconnesse. Li appendono al filo di metallo, ad asciugare. Un nero bucato ben steso, la partitura di un canto silenzioso. Ma non si arresta Inga, ha da compiere la sua invettiva. Perché, sì, quella stupida ha sempre avuto ambizioni da profeta, già prima dello scempio passava ogni tanto per la via cantilenando come un'invasata, ed anche adesso ci scodella il suo delirio. Ma che mi resti almeno il diritto. Di gridare. Maledire. Noi. Siamo. Innocenti. E tu fai pure, lucida i tuoi muri e le crepe. Intanto, laggiù, un'altra. Sposta mucchi di pietre, vestiti, scarpe, riempie sacchi di polvere e cenere. Riempie e rovescia, dispone e arrotonda, come fosse un tumulo, come volesse seppellire qualcosa. Non c'è niente da nascondere però sotto la terra, né corpo né tesoro. Niente da custodire. Ma forse è un'altra di quelle impazzite, e il rito è anch'esso delirio, chiuso nella mente e negli occhi, spiegato a sé da una nuova grammatica. Fatta di gesso e cenere. Si distende infine, lì, accanto al suo mucchio. E' lei la voce, la senti sillabare un suo personale commento, quasi nenia leggera, cantilena d'infanzia. Per potersi riposare almeno un po', custodendo la polvere raccolta, e distrarsi con quelle poche note che nella gola risalgono portando con sé la vertigine di un gioco, le ragazze in cerchio, la corsa, la cattura, un abbraccio sul piccolo sgabello al centro… Fammi il favore - dissipa la mia noia - un ballo solo ballerò - e sette volte ti bacerò.

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CANTO DELL'ORIGINE DEL LUTTO

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Qui, dove la storia è cominciata dense paludi che davano fuoco e in rosse nebbie sfumavano spettri, parvenze di donne nomadi erranti da Leucosiria - noi siamo quelle che vivono insieme siamo quelle che non mangiano pane ma midollo di canne lacustri quelle che agitano sistri, Cavalla nera, mi seppellirono con uno specchio orecchini di bronzo collana di perle di vetro due punte di lancia e una faretra ricolma di frecce. Qui, dove i monti si levarono dal mare posandosi taglienti come asce e in valli profonde nerazzurre popoli superbi iniziarono la lotta, cercatori di fuoco, custodi dei boschi di pini e betulle guerrieri presi da solo incanto nel dolce che la sposa tenne al caldo nel suo seno e per la dote che sembrava un canto tre fodere e un piumino i copriletti ricamati un lenzuolo cuscini la cortina per il letto asciugamani decorati per le icone e tovaglie traforate. Qui, dove nascevi al vento che ancora sapeva di steppa e il rollio della culla sospesa al soffitto in lunghe ore ti cantava del mare sconosciuto e del caldo che avevi lasciato e negli anni allungavi i polpacci come animale che sa la corsa e lo sguardo - presto verranno a dividermi i capelli faranno trecce attorno alla mia testa e porteranno il letto alla mia nuova casa, corteo sonante per le strade del villaggio. Qui giunsero nei secoli i soldati mutando i vocaboli del sangue e le divise sotto lo stesso sole che arrossava i tigli passavano gli eserciti lasciando

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pietre e cenere e cumuli di rabbia vennero treni sigillati e corpi che scoppiavano di tifo venne il viaggio interminabile e bianco nella neve buttammo i morti uscendo alla luce che accecava vennero i cittadini con lunghe automobili nere e dollari e pellicce vennero i militari e qui figliarono sui muri vantando torture e conquiste. Qui non c'è canto universale compiuto non ritmo che disperda il dramma d'essere ancora in vita la sventura qui, nella crepa che si allarga se l'ascolti - noi siamo gente che piange - qui sono lingue che bruciano se solo le madri iniziano a parlare ferocia delle madri ormai inabitabili e bui terremoti dei ventri - svuotati in notturna parentela esperti di cenere e macerie e polvere e bocche arse e indicibili umori liquidi odori di strazio urgente insopportabile visione, materia in temporaneo disfarsi e sfaldarsi avviandosi a svanire qui il canto delle morti inutili il coro dell'origine del lutto e dell'indefinito trascorrere nei tempi cenere dei nostri figli bruciati spezzati come neri tronchi gesso dei volti triturati e il calore di corpi per sempre assetati sparavano dai tetti e tra le sale e i corridoi e al cielo scoperchiato e lontano come chiamare questa bestia che scanna la carne più giovane e bianca come spazzare il sangue e ripulire il fiato attossicato l'aria sparavano padroni e governanti e padri un tempo docili sparavano ribelli e macellai.

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Qui da questo accesso devastato al mondo noi - per sempre irriducibili al vostro parlare alla bianca vostra accecante mattanza - su chi meglio invocare con lingue bruciate la strage?

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SECONDO

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Villaggio ceceno. Interno. Cucina. Camera.

Stiamo nella stanza ammassate come agnelli già avvizziti, abbiamo ancora le nostre facce bianche e lisce di ragazze e corpi appena arrotondati, ma tutte sappiamo di avere finito. Noi siamo macerie, a noi stesse inguardabili e oscene, siamo i residui gli scarti di vite che hanno solo da marcire, sgretolarsi come pietre abbandonate tra i rovi. Noi siamo gli spettri da affossare, nessuna utilità potrebbe ormai rinascere dalle mani, dai ventri, dai nostri respiri. Nella cucina la Khalkhaieva si muove con destrezza, dalla porta aperta vediamo la sua lunga gonna balenare come ventate di marzo, audaci improvvise, e anche quel suo fazzoletto rosa, quella bocca rotonda di bambina, tutto sembra un vivace temporale, violento sì, ma in fondo ancora prematuro. Invece la sa lunga, Natalia, come e da chi comprare i mitra e l'esplosivo, come imbottire una cintura di polvere e biglie e bulloni e di metallo. La cucina di Natalia è un'officina, si fabbricano macchine. Pensanti. Che pensiero... ma certo, quello del massacro, formule riflessioni, equazioni di massacro, stanno sul tavolo sparse e ancora frammentarie, come frasi da assemblare per rendere più pura la visione. Ci sono fili elettrici, inneschi, e chiodi a centinaia, tritolo, dadi di ferro, e lei se li cucina con la sua faccia da bambola slava, e anche gli uomini che entrano ed escono, con gli stivali infangati e quelle tute per giocare alla guerriglia, perfino quelli si zittiscono disposti intorno al tavolo come a una mensa sacra. Alla Khalkhaieva si porta reverenza, con quell'aria da ragazzetta è capace che l'infilza come spiedi. A lei rispetto. A noi ci prendono ogni tanto, oggi tocca a quella, domani all'altra. C'è la stanza vicina con il letto. E non c'è neanche bisogno di togliere gli stivali. Noi siamo scarti, inservibili, anche se loro per convincerci canticchiano frasi d'amore, ci portano piccoli libri e dischi da ascoltare, ci chiamano moglie mia, e ci raccontano di come rivedremo i volti dei nostri fratelli, amanti, mariti perduti. Ma a me non esce dagli occhi la faccia di mio padre quando mi ha messo alla porta e mentre mi cacciava era come una mostruosa litania, lo sanno tutti diceva, di quando t'incontri di sera con Anton dietro il muro della scuola, e ti alzi la gonna, e gli mostri il viso scoperto e te lo lasci leccare, diceva così e mi spingeva fuori dalla porta con braccia pesanti. Mia madre guardava appoggiata allo stipite, mostrando appena metà della faccia, ferma. Poi Anton l'hanno preso i soldati, tirato per le braccia, scalciava nel fango lasciando solchi neri. So bene che non lo rivedrò. Starà marcendo ormai in qualche fossa, con i piedi abbandonati e le mani aperte e nere. Qui tutte stiamo strette come se questo calore di corpi potesse cancellarci i ricordi, siamo conigli da scannare, ma per ora ci basta questa zuppa per la cena, il vapore che si scioglie lungo i vetri e perfino quell'uomo che ogni tanto si avvicina e mi morde l'orecchio, mi bacia sul collo. Il martirio, se verrà, avrà l'odore del suo fiato, del tabacco che si fuma. Gli altri, gli occupanti, i nostri uccisori... li ho visti tante volte camminando per la strada, ammassati sui camion, seduti al caffè, è vero, gridavano forte, con voci sguaiate, si spingevano l'un l'altro dandosi addosso come animali nella foia, ma a guardarli negli occhi arrossati avrei pensato a bestie da macello, all'angoscia di vite che si sono ormai troppo allontanate. E tutti giovanissimi, quasi ragazzi, con quei crani rasati, i nasi sgocciolanti e gelati,

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come li avessero appena strappati alla gonna della madre, nostalgici e piagnucolosi. Cagasotto. Uccisori. A Zulihan le azzopparono il fratello, e siccome poi ogni giorno si faceva troppo vicino in quella sua passeggiata ridicola, con quelle stampelle che affondavano nella neve e nel fango della strada, in quel suo sobbalzare e riaversi, alla fine gli spararono, ridendo, e lo lasciarono lì nella piazza. Lui era per lei come uno specchio. Adesso, ogni notte, la stessa visione. Nel sonno si deve sposare, ma nessuno l'aiuta ad ornarsi, s'infila con fatica l'abito ricamato, pesante di strati e strati, di stoffe soffocanti, si pettina i capelli e se li intreccia. Nessuno si affaccia alla finestra. Sogna e si stringe a noi come un coniglio, al risveglio la solita frase, che per favore tutti perdano memoria, di lei, del suo passato esistere. Ti chiamano, dissero invece a Zaira, e tirandola di peso giù dall'autobus la caricarono su una Volga. Nella borsa nascondeva ancora l'unica cosa che di lui le rimaneva, un passaporto insanguinato, una foto cancellata dall'acqua sporca, arrossata. Un altro coniglio, sta seduta nell'angolo e spesso ride piano, si sistema il fazzoletto e la gonna. Ma queste sono storie da poco, racconti da scolari dell'orrore. A Natalia Khalkhaieva, la nostra madre bambola che nasconde le granate nelle pieghe del maglione, i due figli li hanno presi, portati chissà dove, e poi aperti, dal collo all'addome, svuotati, ripuliti per bene di ogni fardello interiore, frattaglie, inutili succhi, filamenti, e poi ricuciti con uno spago nero, caricati come sacchi e infine gettati da lassù, da un elicottero, giusto nel prato dietro casa, ancora bagnato di rugiada per la notte appena svanita, nell'odore di erbe e tronchi macerati. Là, le piccole mummie, a bersi la rugiada con quelle bocche piegate, annerite. Se ha da essere, quindi, dice lei, diciamo tutte come fosse una canzone un ritornello, che sia strage e martirio ben fatto. Per quei piccoli nasi spaccati, per le dita bruciate, e gli occhi aperti spalancati.

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TERZO

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Beslan. Spianata.Cimitero.

Che immensa distesa di pietre, e terra smossa, terra nera e dura d'autunno, e interminabile scavare di piccole fosse che odorano di fradicio, di erbe calpestate, che buchi, per minimi corpi assetati, che freddo Madina qua sotto e invisibili animali che corrono e scavano e fuggono vedendoci discendere a loro, con gli abiti da sposa, gli orecchini, il cappello di pizzo, e che pioggia poi, battente, e fango che confonde le orme e i tracciati. Pianura piatta. Attraversata da. E quanti infiniti sentieri di bianche pietre di fiume, bianche e lavate. Come i corpi assetati. Che percorsi fino a ieri impensati, una nuova città abbiamo tirato su nella notte, con terra nera e pietre e buchi dove impareremo a camminare come per improvvisa nascita feroce e non voluta, trascinando scarpe sempre più pesanti, intere zolle ci faranno da suola e le porteremo come pesi legati ai piedi. Di piombo e di morte. Una nuova città di pietre e voragini e spettri, una lebbra arrivata come un vento cieco ad aprire le fosse, e questo mai visto sfilare in corteo di corpi solo vecchi, di madri senza figli, di padri inferociti dal pianto. Inga E i bellimbusti, le piccole spie, i generali. Le autorità. Hanno tirato su il palco in tutta fretta, con microfoni bandiere, le autorità ci hanno scavato in tutta fretta un nuovo accogliente cimitero là dove ieri c'era il pascolo di Zaur, e portano ghirlande, centinaia di ghirlande. Trecentodiciotto. Il nostro minuscolo macellaio, Natasha dai baffi ben curati, con l'occhio un po' spento, oggi, ecco che c'illustra con toni piangenti il progetto, disinfestare, faremo fuori questi insetti velenosi, li staneremo dai loro buchi imputriditi, li andremo a cacciare nei boschi dove fanno le tane, questi animali incancreniti che azzannano la carne più bianca. Disinfestazione. Chiederemo consigli al nostro padre e guida Vladimir, V.t.L., lui sì che ha avuto fortuna, con tutto quel gas ben usato, al momento opportuno. C'è un crepitare di megafoni, qua intorno, di richiami, nomi urlati. C'è di nuovo quella di prima, l'impazzita, quella che lavorava all'ufficio della procura, la sopravvissuta, cupa e sconnessa, danza nel fango con i polpacci incrostati, si porta via i fiori, scompagina l'ordine, i percorsi della mappa scavata nella nuova città, scioglie ghirlande e coroncine, e i fiori scivolano e vanno ad imbrattarsi, neri, sotto le suole di chi arriva. C'è un canto freddo, acido, nell'aria.

Ma ora. Come per onda brusca che interrompe il flusso, come per una violenta intrusione che scompiglia il sottile lamentare, per nero flutto virale che sporchi e intorbidi ciò che stava sommesso e ritroso, ecco l'improvviso inseguire, incespicando, afferrare, scomporsi nell'andare ordinato. Una ragazza appena, in quegli abiti stranamente così bianchi, la trascinano ora, la spingono a terra a sporcarle la faccia. Gli stivali sulla nuca. La faccia nel fango. Voce di uomo Eccola. L'abbiamo presa. Voce di donna Donna? Chi? Voce di uomo Questa troia imbrattata di sangue e sterco. Un'altra delle cagne che si alleva la Khalkhaieva, di sicuro. Li vedete i suoi abiti bianchi? Cercava di scappare ma sotto la sua gonna è bruna come una notte atroce. E tu, cos'è? Ti si è intasata la gola? Ci vedi? Ci senti? La voce ce l'hai?

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A. Voi non sapete niente. Come potete parlare.

Voce di uomo Oh, sì che sappiamo, sei la troia dal viso di angelo e corvo, quella che cercava di farla franca. Qui ormai tutte sembrano impazzite e così speravi di nasconderti, mescolandoti alle altre, con quel tuo brancolare fingendoti accecata. Dall'orrore. Ma ti hanno vista. Là, in mezzo ai bambini ammassati, coi tuoi abiti da uccello che urla e quella pancia gonfia, imbottita e

Zarema Lasciatela a noi, non la toccate. Questa ci spetta. E' faccenda di donne, di madri disfatte A. Io non sono di voi. Inga Come parli, bestia? Ma sì, puoi dirlo, non sei delle nostre, donna di infinite disgrazie, cagna infoiata. Di sangue. Prega il tuo dio, se c'è chi possa altrove tollerare il tuo esistere, il tuo respiro che sa di pestilenza, e prega i tuoi vivi, che vengano a riprendere i pezzi di te, se qualcosa ancora potranno trovare. Perché adesso lo mettiamo al lavoro, il tuo corpo, lo accendiamo bene, che possa sentire ogni cosa, fino al più estremo dettaglio di atrocità. I capelli, là dove si attaccano al tuo cranio di già morta... là ci sentirai il terrore come una lunga scarica che incenerisce la pelle. Gli occhi

I nostri bambini, dice appena A. con labbra ancora chiuse. Nati per sentire tra i denti il gusto dell'urina bevuta laggiù, negli scantinati, mentre fuori le bombe aprono varchi, a scoperchiare quelli pregherai di poterli serrare, ma avrai spilli piantati nelle pupille a ricordare ognuno un piccolo nome, a spararli da lì, dalle tue iridi di palude velenosa, fin dentro al cervello, a farteli scorrere col sangue in tutto il corpo, a toccare ogni cellula marcia, tutti quei nomi, quei piccoli destini bruciati

altri li prendono, hanno solo pochi anni, e li mettono al muro insieme ai padri, ai fratelli. Guarda all'origine, voce chiusa nella gola fredda. E trascinavano i corpi legati dietro i camion, con le gambe spalancate e le teste che saltavano sui sassi e contro i marciapiedi

Alina Sta parlando. Muove le labbra. Tacete.

e le donne, quelle donne nel teatro, le trovarono con la bocca aperta come uccelli che

Inga e col naso, col tuo naso di sciacallo, ci sentirai l'odore della paura, quando arriva e smuove smuove le viscere, ci sentirai il tuo fiato di terrore e avrà il respiro di tutti quei corpi assetati. E nella bocca avrai mille piccoli denti spezzati, sul collo i segni di mani che hanno stretto, lungo la schiena

Voce di donna Smettila, ora, non siamo a teatro. Lei deve parlare, oggi, non tu. Lei deve spiegare. Inga ...ogni parte del tuo corpo avrà i segni del disastro, dell'inutile catastrofe, le braccia, le braccia, le dita, il tuo ventre che già si sta sfacendo, le ginocchia, i piedi che male ti hanno condotto, lasciando tracce di sangue al tuo passaggio. Conta bene ti dico, di quante immonde parti è composto il tuo corpo, perché alla fine del lavoro ben poco di te resterà. E prega che qualche brandello possa un giorno trovare sepoltura, che qualcuno dei tuoi vivi ti venga a reclamare

A. Sepoltura... Ne abbiamo. Di cattive morti. Senza rito. Senza saluto. Mi avessero lasciato lasciato qualcosa. Ungere il petto, le cosce, i calcagni martoriati. Fare stoffe di corteccia. Scavare nelle radici aeree di grandi alberi un letto oscillante, vegetale e uro. Mi avessero lasciato almeno le ossa, per lavarle nell'acqua tiepida. In cenere calda tracciare il disegno del volto. Dare. Il sonno. Pace.

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Zarema Guarda che belle parole ti escono adesso. Pace. Ma lì, nella tua bocca nera, è come un soffio di lebbra, inarrestabile. Meglio per te se non la ripeti, qui, in mezzo a noi. Un fiato osceno, impronunciabile, ha spazzato le nostre strade, dilagando, oltre finestre sigillate, e blindature, e crepe. La nostra pace è un'infinita bruna combustione. Il nostro sonno vive di macabri balli, scomposti, di un lungo spalancare bocche, sospesi nel vuoto. Ma lo sai che la città è piena di banchetti, davanti alle porte delle case, ovunque mense funebri, come se nessuno ormai potesse più vivere dentro le stanze. Vova, l'idraulico. La figlia stava là, nell'ospedale, senza gambe e con la pelle nera. Non è lei, dice, sono scuro, ma poi vede gli orecchini con la pietra gialla che brilla, i topazi che lei custodiva nella scatoletta foderata di velluto. Zalina. Stanotte si è buttata dentro il pozzo, nel cortile di casa. Ma l'hanno tirata fuori, anche da lì. Non riesce a morire. Allora con il ferro da stiro si brucia le mani, le gambe, e si maledice. Perché è sopravvissuta. Ira non riesce più a parlare, apre la bocca, resta immobile, per lunghi minuti. Lidia ha il cranio scoperchiato, là nel letto, e un odore mai sentito, innominabile, si diffonde da quella sua testa bruciata. Che dici, ti basta, o hai bisogno di altri dettagli, porzioni di orrore?

A. Nessun legame, ormai. Non potremo ricostruire. Come dire. Spiegare. Come una straniera. Come un parlare di spettri. Se chiedono di A. dite che l'avete vista andare verso. Vado ai miei

Inga Ehi, piccola bestia, attenta a parlare di parentele, potrebbe costarti caro

Alina Madri. Eravamo. Illuminate dal figlio nella corsa. Sprofondate nei lucidi capelli della figlia. Forse è colpa, quel cieco confidare nelle carni dei nati. Meglio strapparseli di dosso in tempo. Svuotarsi. Inga Ora ti do ragione, Alina, questo tuo parlare, benché dissennato, va dentro alla cosa, preciso. Perché non si era visto ancora un mondo, un posto fottuto dentro al mondo, dove fosse sventura il partorire, e danno feroce ogni minuto passato a far crescere corpi, lisciando e modellando come piccole sculture, annaffiando come fossero erbe e piante, un luogo maledetto dove rimpiangere di non esserci sepolte in fretta, ai nostri giorni di ragazze. Sotto metri di terra bagnata bisognava andare, che nessun gesto di uomo ci sfiorasse il ventre. Donne stupide e cieche. Pensare di vivere per sempre nei figli ingrossati. Nessuno ci aveva avvertito? Nessun delirio di madre accecata ci era stato raccontato? O non doveva forse circolarci nel sangue implacabile, non detto, senza voce, eppure così familiare. Bastava voltare la testa. Madri davvero idiote, per non voler ricordare ciò che il tempo ha ammassato. E come se non bastasse, eccola qui, la piccola bastarda, ciò che resta di chissà quale innesto, incrocio allucinato, fecondazione di macchine e bestie, eccola che arriva con la sua pancia sformata, cigolante. Ma guardati, animale, cos'è questo ventre rgonfio, questo finto bagaglio che nascondi sotto le vesti? Cosa credi di riempire, che meccanismi agitare in quel tuo utero disseccato prima del tempo, credi forse di pompare sangue e aria e luci dal mondo? E' per questo che ti gonfi, perché il vuoto delle viscere non t'inghiotta, per questo vai in giro a disfare le carni degli altri? Ecco le nuove madri, con facce da bambine e corpi dilatati e sonanti. Ma il tuo feto è freddo come un inverno senza fine che ucce le pianure e brucia per sempre le gemme. Il tuo feto ti gela la vagina, piccola puttana. Ma sia, aspetteremo con te il tuo parto mostruoso. Ci va di assisterti, sai? A. Vado ai miei. Una folla. Ci vado con questa pancia posticcia. E allora? Purtroppo per voi c'è un'altra versione. Dei fatti. Generare rivolta. Sedizione. Mi farò trasparente e svuotata, andrò leggera in stretto dialogo con me sola, e gli altri miei che già fanno cerchio, in attesa. Prima, però, sarò l'assalto che vi secca la gola, sarò il travaglio e la guerra che vi spezza, vi atterra. Zarema Strana, la ragazza. Prima sussurra invasata, come l'eroe che cade ma non sa, come chi

raccoglie sulle spalle destini implacabili, oscuri. E subito dopo alza la voce, arrogante, e gira gli

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occhi intorno come un uomo che si è armato. Non voglio più sentirla. Facciamola tacere, cuciamo quella bocca. Inga Avremo tempo, dopo. Adesso invece mi va di ascoltare. In fondo la nuova versione è più comprensibile, come un suono che ne richiama un altro e gli si affianca. La piccola va in giro con questa sua pancia piena di biglie e bulloni, si muove sferragliando. Peggio che un uomo, un mostro. Diamole il tempo di sentire sulla lingua il gusto di tutto quel metallo mentre ancora s'illude di poterci minacciare. Alina Un'innamorata dei morti, odiosa al mondo delle madri A. L'hai detto. Mi ripugna questo vostro piagnisteo, questo affondare i piedi nella terra biascicando preghiere. Non sono più miei docilità e lamento, vado sola all'azione, al linciaggio. Se devo oppormi, che sia almeno senza ritorno il mio oltraggio alle misere leggi. Dissolversi. Diventare invisibile. Che nessuno possa trovare di me una traccia, un residuo. L'impronta di un lontano passaggio tra i vivi. L'hai detto, non verranno figli dal mio ventre. Ho corpo nuovo, mai visto, di questo avete paura, donne immiserite e senza fantasia. Ho una morbidezza, qua sotto la gonna, che esplode e s'indura, ho schegge e frammenti d'acciaio per un combattimento che neanche i vostri uomini saprebbero osare. Non padre. Non madre. Non fratello. Non figli a venire. Io ora sono madre, e figlio, e fratello, io lo specchio. Io il parto sanguinoso e imprevedibile. C'è giustizia. Infine. Zarema Eccola che ricomincia. Tra il delirio e l'insulto. Non sappiamo cosa farcene di questi tuoi nuovi confini di morte, delle tue parentele mostruose. A. Una macchina guasta? Un corpo meccanico, ai vostri occhi allibiti? Corpo grottesco, vi dite. Perché allora non portarmi in corteo per le vie della città, esposta in una gabbia, come fossi un nano, una donna barbuta, un freak di un circo di passaggio accampato in periferia... Ma la macchina funziona. A dovere. E' corpo bruciante, esplosivo, è macchina da guerra che inghiotte il mondo e si fa beffe di voi. Non m'importa cosa farete dei frammenti di me, in che dimora trasparente andranno a rifugiarsi, nonostante voi. M'importa la battaglia. L'inutile dispendio. Vi ucciderò con le parole e con questa risata d'eccesso che vi getto addosso come fiamma. Con queste mie braccia ora levate e scoperte, denudate. Vi offro queste braccia. Come un danzatore o un acrobata vi lancio questa sfida e la battaglia avrà la grazia acuminata di un passaggio sulla corda tesa, come lama di coltello, o il segnale di un polso rovesciato nella presa. Esponetemi agli sguardi, se ne siete capaci. Sono la vostra basilissa, la vostra piccola regina. Non vedete questa macchia bianca sulla fronte, e la bella coda che mi esce zigzagando da sotto la gonna? Ma attenzione a non incrociare il mio sguardo. E soprattutto, guai al mio respiro, alle porte, alle feritoie che dalla mia pelle liberano venti e virus che spezzano le rocce. Farò nuotare il mio corpo sui fossati neri di pioggia e peserà meno di un soffio o di un canto nevoso o di fragili sculture che si sfaldano in una sola notte come gesso o ferro rarefatto. Inga Regina dei corvi e delle cagne. Regina senza altezze e sommità, schiacciata al suolo nero. E' abietto il tuo delirare e per giunta qui, davanti a queste tombe ancora scoperchiate. Lì dentro ti voglio vedere, affondata nel fango. Seppellirai tu i nostri figli, carni infelici, carni da nascondere all'inferno degli umani, e poi, solo alla fine, ti scaverai un'inutile fossa. Inutile perché, lo sai, noi tutte ormai siamo qui per lo spettacolo, il gran botto, e i tuoi infiniti rammenti vogliamo vederli disperdersi al vento che spazza la terra fradicia come coriandoli di questo nostro lurido precoce carnevale. Sarà quella, se vuoi, la tua danza. Quanto agli occhi, li posso fissare fin da ora, vedi, e mi sembrano solo piccoli spilli opachi, minuscole paludi senza trasparenza. Non scorgo niente, là in fondo, regina fredda e nera, né il gesto del tuo polso o un tuo passo sospeso ricordano feste di seduzione. O sbaglio, donne? Ci vedete una danza, in quel suo gravido barcollare? Vi turba la sua

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caviglia regale? Vi fanno paura i suoi occhi? E' certo parte della pazzia che ci ha invaso che noi si ascolti il tuo delirio superbo. Altro ha da discutere questo tribunale, piuttosto. Qualcuna di voi chiede un'altra sorte per la macchina guasta e lorda, per la piccola bastarda? Voce di donna Perché non concederle quello che chiede? I mostri si espongono ai curiosi, agli insulti, ad occhi che frugano e aprono, agli sberleffi. La spoglieremo, lasciandole solo quella sua pancia posticcia di chiodi e bulloni, la trascineremo per le strade della città, davanti ad ogni casa dove si piange un giovane ammazzato. I suoni più immondi, gli sguardi feroci, l'oscenità dei gesti. Saranno lebbra, le bucheranno il corpo, lasciandola a sé irriconoscibile. Il suo ingresso da regina, il suo tragitto, la sua acclamazione Non cercavo le carni da voi cresciute, dice parlando a sé, non alle altre, le altre, quelle, vivono in un'aria che non è più la sua, scavavo vie sul mio corpo. Combattere per svanire. Diventare trasparente allora sì, invocherà la morte,vergognosa di sé, lordata, sporca degli sguardi e delle trafitture. Ma dopo la vorrei nella fossa e spalancata, che le cagne, di cui è la vera regina, se la vengano a leccare a lungo. Lo prendono, dice guardando a un suo vuoto, là dove stanno compressi e annullati cielo e terra e volti del prima, della vita, lo portano via, fuori dalla stanza, nel cortile, trascinandolo per le braccia come un animale che scalcia. Nell'azzurro scrostato, alla parete, sotto la foto della vecchia madre, i fori dei proiettili. Un solco. Come una frattura del tempo. Un primo segnale che la vita sta fuggendo. Mi chiama. Lui era tenero come una pianta ancora giovane, ancora cresceva e si allungava. Lui era il mio specchio. La terra dietro casa era smossa e umida per le piogge d'autunno. Seguii le tracce lasciate dai suoi stivali, come una danza di sventura. Li ritrovo, là, nel sotterraneo della scuola. Li prego di lasciarlo andare. E' troppo giovane ancora. Possono prendere me, se vogliono. Gli squarciano il ventre, allora, davanti ai miei occhi. Mi afferrano la testa. Il collo, i capelli, la faccia. Mi immergono il volto in quel suo corpo spalancato. Troppo. Caldo. Troppo caldo. Là dentro Alina Eppure, se la guardo più a lungo - trattenete il vostro odio, ascoltatemi per un momento - è come se riconoscessi qualcosa di lei. Non so spiegare. Porta forse una sua verità? E se non fosse così diversa dalla nostra, se la superbia del suo affronto fosse costruita su macerie, proprio come il nostro pianto? Ora ad esempio avrei timore di sentire realmente cosa racconta a se stessa, escludendoci. Forse quello è il vero delirio, lì sta il massacro, l'esplosione. Ma è legge della guerra che i cuori diventino sordi e gli occhi non vogliano più vedere. Anche le madri hanno da essere feroci. Un altro cadavere però non ci serve né cagne a frugare nei campi. A cosa ci sarà servito, dopo, mostrarla così bianca e aperta dentro la fossa? Col tempo perfino la pietà tornerà ad accompagnarla. E noi non riavremo, comunque, i nostri figli. Mi cacciano poi. Così, imbrattata. Barcollo. Da fuori sento ancora i suoi richiami, la voce sempre più lontana. E quel suo corpo poi lo fanno a pezzi, come fosse una giovane pianta abbattuta dalla tempesta, lo gettano in un campo a marcire sotto la pioggia. Corpo rotto. Corpo spezzato. A me, la sorella, lo specchio in cui sapeva di sé l'eleganza, il procedere leggero, a me negano il diritto di raccogliere i resti, ripulirli, nasconderli agli sguardi. Credevano, così lacerandolo, di piegarci. Ma ogni brano di quel corpo è diventato miccia, qui, piantato dentro me, germinato sotto la mia pelle e pronto per la danza finale, per la tempesta variopinta che come turbine spazzerà le pianure Voci di donne Adesso è il momento di finirla. Che tribunale sgangherato, incerto, è mai questo.

Farsi abbindolare da una piccola commediante. Un'assassina.

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L'ho detto. Portiamola in trionfo per le vie della città come lei stessa chiede. E' lei che ci si offre, il piccolo mostro catturato. Poi l'ammazzeremo. La terra nera non ha tempo di aspettare. L'ora della guarigione. Infine. Quale forma dare all'addio. Una struggente qualità dell'addio. Deragliare. Prendere per i campi, inseguendo l'odore di tutte le erbe di tutte le estati vissute. Diventare la risata che sale nella gola. Far perdere le tracce. Mio limpido specchio, pensavo quel giorno salendo sull'autobus

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CANTO DEL RIFLESSO

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Mio limpido specchio - pensò quel giorno salendo per l'ultima volta sull'autobus - vado alla città del dolore ma è mattina di gran sole oggi d'illusione di erbe profumate di tutte le estati vissute di corse nei campi di risate nella gola. Mio specchio mio riflesso di giovinezza quando correvi veloce quando poi allungavi come i miei i capelli e quasi m'invidiavi il canto. Lo so - diceva - è inutile l'agire dispendio senza misura e senza approdo. Come se in lei premessero generazioni sconosciute. Una cripta segreta, mio specchio, una immensa spaventevole folla ho al posto del cuore, una nebbia. Anche tu, infine, sei andato. Chiudiamo allora questo assedio - pensò - diamo oblio a queste schiere di non dimenticati a questi resti mai inceneriti. Così - dice - guardai nei giorni che restavano il verde dei campi, il verde più di tutto mancherà a questi occhi, e il mutare della luce nelle ore come l'alba arrivava lentamente come a sera si spegnevano sui volti i colori. E notti intere ho vegliato per contare ancora una volta i minuti nel silenzio e portare nella mente come di lontano i gridi si rispondono di animali spaventati eccitati

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come le cose si richiamano nel buio assicurandosi così del loro esistere. Confine. Invidiabile licenza. Lei non più tra i vivi, non ancora tra i sepolti ma accesa, come se il vasto mondo la prendesse nel suo sogno solo allora a lei svelandolo, in dono. Infine, mio chiaro specchio, ho preso quell'autobus. Ma prima, nella vetrina del negozio, a lungo ho guardato quelle bellissime scarpe - erano rosse, erano di vernice erano come le avevo sempre sognate