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1 Comitato Difesa Duemila Quali missioni internazionali per le Forze Armate italiane? Colloqui di Venezia, 16-17 novembre 2007

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Comitato Difesa Duemila Colloqui di Venezia, 16-17 novembre 2007 1 Comitato Difesa Duemila: 2 1. Le missioni internazionali negli ultimi venti anni 2. Le missioni in corso 6. Il processo decisionale per la scelta delle missioni internazionali 5. La “trasformazione” dello strumento militare italiano Indice 3 4 5

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Comitato Difesa Duemila

Quali missioni internazionali per le Forze Armate italiane?

Colloqui di Venezia, 16-17 novembre 2007

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Comitato Difesa Duemila:

Prof. Michele Nones (coordinatore)

On. Ferdinando Adornato

Gen. Mario Arpino

Gen. Vincenzo Camporini

Gen. Carlo Finizio

Dott. Renzo Foa

Dr. Giovanni Gasparini

Gen. Carlo Jean

Dr. Andrea Nativi

Sen. Luigi Ramponi

Prof. Stefano Silvestri

Amm. Guido Venturoni

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Indice

1. Le missioni internazionali negli ultimi venti anni

2. Le missioni in corso

3. La legittimazione internazionale

4. Quadro giuridico delle missioni e regole di ingaggio

5. La “trasformazione” dello strumento militare italiano

6. Il processo decisionale per la scelta delle missioni internazionali

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1. Le missioni internazionali negli ultimi venti anni 1.1 L’Italia vanta una lunga e consolidata esperienza nella partecipazione alle missioni internazionali, a molte delle quali ha preso parte pur disponendo di uno strumento militare essenzialmente basato su personale di leva e quindi politicamente, anche se forse non tecnicamente, poco adatto ad essere impiegato in operazioni che talvolta presentano elevati fattori di rischio o sono esposte al mission creeping, come è accaduto ad esempio in Somalia. I nostri militari si sono complessivamente comportati in modo esemplare nel corso di queste missioni e in molti casi sono assurti a modello di riferimento internazionale. Purtroppo è, però, pressoché regolarmente mancato un approccio politico-strategico corretto nella valutazione della convenienza a impegnare o meno lo strumento militare, mentre non c’è stata la volontà/capacità di sfruttare appieno le opportunità favorevoli createsi sul piano politico, strategico ed economico a seguito dello sforzo militare. 1.2 L’Italia ha condotto negli ultimi due decenni ogni tipo di missione internazionale: da quelle esclusivamente a carattere umanitario e in condizioni estremamente permissive, come è accaduto per le Pellicano in Albania nel 1991-1992, a quelle convenzionali di combattimento ad alta intensità, come accadde durante la Guerra del Golfo del 1991 o quella del Kosovo del 1999, passando per situazioni intermedie (Somalia nel 1992-1994), sino a giungere alle operazioni antiterrorismo/controguerriglia (operazioni navali nel quadro di Enduring Freedom - ancora in corso, almeno sotto egida NATO, e quelle terrestri in Afghanistan con le missioni Nibbio del 2003). Il palmares delle missioni internazionali italiane comprende anche un intervento nella lontanissima Timor Est, nel 1999-2000, operazioni NEO di evacuazione di civili (Ippocampo in Ruanda nel 1994), missioni di stabilizzazione in terra d’Africa (Mozambico, tra il 1993 ed il 1994), difficili operazioni umanitarie post belliche (Airone in Kurdistan nel 1991), per non parlare delle “maratone” di stabilizzazione di cui i nostri militari sono stati tra i principali protagonisti nei Balcani, dove operano ininterrottamente dal 1995 con contingenti che hanno contato migliaia e migliaia di effettivi. Va anche ricordata una missione, Alba, in Albania nel 1997, che è oggetto di studio e analisi non solo perché è perfettamente riuscita, ma anche perché rappresenta un raro esempio di coalition of the willing formata e guidata da un singolo paese, proprio l’Italia. Il know-how acquisito è quindi tra i più completi e le Forze Armate italiane hanno conquistato una ottima reputazione in campo internazionale, che poi si è tradotta in significativi riconoscimenti, a partire dalla responsabilità di comando che l’Italia ha ottenuto in missioni come SFOR, KFOR, ISAF e UNIFIL. Solo pochissimi paesi hanno le carte in regola per gestire missioni di questo livello. Naturalmente la consistenza e le risorse limitate delle Forze Armate hanno condizionato e condizionano la quantità e qualità delle forze impiegabili, la durata dello sforzo e la tipologia di missioni che possono essere effettuate. Negli ultimi anni si è andata consolidando la scelta politica di impiegare prevalentemente pacchetti di forze incentrati su robusti contingenti terrestri, utilizzando le forze aeree e navali solo in ruolo di trasporto/supporto e si è volutamente cercato di evitare il coinvolgimento in missioni di combattimento, anche ricorrendo a specifiche limitazioni (i “caveat”). Non solo si è evitato di utilizzare strumenti offensivi aerei/navali/terrestri o piattaforme principali ad alta visibilità per motivi di politica interna, a prescindere dalle valutazioni tecniche o strategiche, ma si è giunti fino al punto di doversi interrogare se i contingenti in teatro dovessero essere dotati di tutti gli strumenti e armamenti necessari per fronteggiare adeguatamente e immediatamente una eventuale e repentina crescita del livello di minaccia. Tale impostazione sta ora portando non solo ad una certa atrofia delle capacità non utilizzate se non a fini addestrativi, ma comporta anche uno scadimento del “valore” internazionale riconosciuto ai contingenti italiani, che finiscono in qualche modo per essere percepiti, indipendentemente dalla realtà, come disponibili solo per situazioni benigne o comunque non di combattimento. Il che equivale ad un declassamento, strategico, operativo e

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politico dello strumento militare, così faticosamente costruito e mantenuto e del paese che lo esprime. 1.3 L’attivismo militare nazionale non ha purtroppo portato tutti i risultati teoricamente possibili. Mentre le Forze Armate si sono comportate più che bene, considerando la pochezza delle risorse a disposizione, quello che è mancato è stato l’intervento del “sistema paese”, che avrebbe dovuto muoversi in modo coordinato sulla base di una linea strategica ben definita, per sfruttare al meglio, le opportunità favorevoli via via createsi. Ciò, purtroppo, non è avvenuto. Il che è un peccato, perché l’investimento effettuato è stato significativo, considerando sia il numero di perdite subite, che, pur non essendo particolarmente elevato, non è certo trascurabile, sia i costi vivi delle missioni, sia il logoramento al quale sono stati sottoposti mezzi e materiali, sia infine le attività di cooperazione e gli aiuti concessi a molti di paesi dove queste missioni si sono svolte. Il costo totale è largamente superiore ad una decina di miliardi di euro. In alcuni casi la mancanza di “ritorno” è davvero incomprensibile, quando si pensi, ad esempio, all’impegno profuso nei Balcani o in Africa. La stessa partecipazione ad Iraqi Freedom, Enduring Freedom e ISAF non è stata affatto capitalizzata come sarebbe potuto accadere. Evidentemente esiste un problema di cultura: se il generale De La Billiere, comandante delle forze britanniche nel Golfo nel 1991, scrive che prima ancora che le ostilità fossero ufficialmente concluse già iniziavano, direttamente in teatro, le riunioni con la comunità industriale e finanziaria britannica per verificare come sfruttare il “bonus” di credibilità e riconoscenza conquistato nel Golfo, da noi ci si è regolarmente affidati ad iniziative più o meno estemporanee e scoordinate. Eppure in tutti questi anni si sarebbe ben potuto imparare, al massimo limitandosi a copiare pedissequamente da Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, ma anche Germania, Olanda o Spagna. Manca, quindi, un approccio integrato e una visione politica, anche perché politica di difesa e sicurezza e politica estera continuano ad essere scoordinate, mentre il governo nel suo complesso sembra disinteressarsi delle opportunità che derivano dall’impegnare il paese in missioni militari internazionali. Al massimo ci si dedica a cercare di ottenere il consenso interno o ad operazioni di immagine e mediatiche, spesso volte a “compiacere” una vivace componente pacifista della nostra opinione pubblica. Una carenza gravissima, di cui naturalmente approfittano i nostri alleati/concorrenti. E non sembrano esserci possibilità di superare il nanismo che, a dispetto degli sforzi, continua a caratterizzare l’Italia sul piano internazionale. E’ anche evidente che il criterio in base al quale i governi che si sono via via succeduti hanno deciso la partecipazione dei nostri contingenti militari alle diverse missioni non è né omogeneo, né frutto di un calcolo politico o strategico. Se in qualche caso si è aderito perché non se ne poteva fare a meno (Guerra del Golfo del 1991, operazioni NATO contro la Jugoslavia nel 1999 e quindi successive missioni di stabilizzazione in Kosovo, partecipazione iniziale ad Enduring Freedom post 9/11), in altri casi si è scelto di partecipare genericamente per acquisire benemerenze con l’ONU, per rispondere a pressioni più o meno esplicite di forti lobbies/circoli politici (Timor Est è esemplare in tal senso), per cercare di conquistare un “posto al sole” nella scena internazionale. Raramente si è agito nel quadro di un disegno coerente di politica internazionale o per salvaguardare primari interessi nazionali. E proprio il fatto che si scelga di impegnare le Forze Armate senza aver ben chiare finalità, costi e benefici dell’intervento riduce la possibilità di raccogliere risultati positivi. 1.4 Non vi è dubbio peraltro che almeno per le Forze Armate le missioni internazionali si siano dimostrate un banco di prova, verifica e crescita assolutamente straordinario. Grazie al confronto continuo con gli alleati si è compresa la impossibilità di operare in consesso militare internazionale se non si possiedono tutti gli elementi “enabling” fondamentali (dal comando e controllo al supporto logistico), si sono compiuti enormi progressi e si è riusciti a contenere il distacco, il gap, nei confronti dei primi della classe, almeno in alcuni settori chiave. Parallelamente si è forgiata una nuova classe di militari, ufficiali, quadri, professionisti abituati ad operare in contesti operativi reali

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e in integrazione costante con i colleghi stranieri, mentre si è sviluppata, sia pure timidamente, una mentalità joint. E’ per questo che per l’Italia con le stellette un ridimensionamento troppo marcato degli impegni operativi reali sarebbe catastrofico. Non solo, lezioni apprese sul campo hanno anche consentito di adeguare strutture, organizzazione, addestramento, formazione e anche di cambiare la priorità e modificare i requisiti per i nuovi sistemi ed equipaggiamenti. Questo anche se, come accennato, nella maggior parte dei casi i nostri militari sono stati impegnati in operazioni a bassa intensità piuttosto che in missioni dichiaratamente combat. Ed è semplicemente straordinario che se nel 1991 il sistema difesa non era in grado di schierare un singolo reparto operativo terrestre nel Golfo, già da qualche anno ha dimostrato di poter agevolmente condurre operazioni reali in parallelo in teatri difficili e lontani come Afghanistan, Iraq, Balcani. E se, sempre nel 1991, l’Aeronautica poté schierare solo i Tornado nel Golfo e i vetusti F-104 in Turchia, oggi sarebbe in grado di impiegare velivoli di ogni tipo (caccia, aerei d’attacco, da trasporto) e dotati di adeguati sistemi d’arma di precisione, mentre la Marina ha provato, con la missione Leonte, di poter condurre operazioni di proiezione di forza con tempi di preavviso minimi, mentre con anni di missioni si è dimostrata capace di operare nei mari più lontani per mesi e mesi. Le missioni internazionali sono state quindi più che positive per la Difesa. Ora la sfida consiste nel riuscire a conseguire lo stesso risultato a livello di paese. 2. Le missioni in corso 2.1 Le forze armate italiane contribuiscono a 27 missioni all’estero in 19 paesi, per un totale di 7.700 militari. I costi vivi (ma non quelli complessivi, ben più alti) di tale impegno ammontano a circa 1 miliardo di euro all’anno, la cui copertura è prevista da un apposito fondo presso il Ministero dell’Economia. 2.2 In termini numerici, i Balcani hanno assorbito nel 2007 2.700 uomini, di cui 2.250 in missioni NATO (focalizzate in Kosovo) e meno di 400 in Bosnia sotto cappello UE; si tratta di una presenza di lungo periodo che è però destinata a ridursi numericamente ed in intensità man mano che i paesi coinvolti si avviano alla normalizzazione ed integrazione nel contesto europeo. L’Italia è presente nell’area sin dalla seconda metà degli anni ’90, in seguito all’implosione della ex-Yugoslavia e alla gravissima crisi umanitaria e al perpetuarsi di veri e propri crimini di guerra contro la popolazione da parte dei vari gruppi etnici combattenti. Le missioni in Bosnia Herzegovina sono iniziate sotto il cappello dell’Alleanza Atlantica e con l’egida delle Nazioni Unite; il primo intervento ha riguardato diverse centinaia di uomini in una situazione di conflittualità accentuata, mentre successivamente, in virtù del parziale successo del processo di pacificazione, la missione è stata numericamente e qualitativamente ridotta ed è passata sotto il controllo dell’Unione Europea, accentuandone il profilo di missione di polizia e supporto allo sviluppo delle istituzioni locali (EUFOR ALTHEA e EUMP). La presenza in Kosovo, che risale al 1999, sta seguendo un percorso simile: la missione (sotto mandato ONU) KFOR per la stabilizzazione dell’area è intervenuta al termine dei bombardamenti della NATO contro la Serbia per definire un quadro di sicurezza per la missione di amministrazione ONU UNMIK. KFOR ha subito un ridimensionamento progressivo e si appresta a divenire una missione di sicurezza ed amministrazione civile dell’UE, qualora la decisione politica della comunità internazionale circa lo status finale del Kosovo lo permetta. Accanto a questi due teatri principali l’Italia è intervenuta in Albania e Macedonia, con missioni di stabilizzazione a forte carattere umanitario, successivamente divenute di assistenza alle autorità locali, man mano che la presenza militare si riduceva a favore di quella di polizia.

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In generale, la presenza militare nell’ex-Yugoslavia ha permesso un seppur tardivo, soprattutto nel caso bosniaco, congelamento dei violenti contrasti interetnici ed una progressiva stabilizzazione, evitando peggiori catastrofi umanitarie e perpetrazione di crimini di guerra. Rimangono però irrisolti alcuni problemi politici di fondo e si è assistito ad una scarsa capacità di governance a livello locale, che ha permesso il fiorire di attività criminali internazionali. 2.3 In termini numerici, ai Balcani segue immediatamente il ben più recente (almeno nelle dimensioni attuali) impegno in Libano, dove l’Italia con 2.450 uomini è il primo contribuente e grande promotore della missione di stabilizzazione UNIFIL II, varata nell’estate 2006 per congelare il conflitto aperto fra Israele e Libano. E’ una missione ONU a guida italo-francese ma, nonostante i paesi europei siano i principali contribuenti e l’accordo sulla composizione della forza sia avvenuto nell’ambito di un Consiglio Europeo straordinario, non si tratta di una operazione dell’UE o della NATO. Si tratta di una missione impegnativa di interposizione fra forze in armi, che mira alla restaurazione della sovranità libanese sull’area di confine controllata dalla guerriglia Hezballah e da essa utilizzata per vere e proprie azioni di guerra contro Israele. La stabilità interna del Libano e dei sui rapporti con Israele è vista come un tassello essenziale del gioco diplomatico in Medio Oriente. La missione, quindi, pur avendo anche finalità di aiuto alla ricostruzione e sminamento, ha carattere eminentemente politico. Sebbene sia prematuro definire un bilancio, si può notare una certa lentezza da parte delle leadership politiche nello sfruttare la finestra d’opportunità, non certo di durata infinita, garantita dalla presenza militare; ciò potrebbe rivelarsi problematico, qualora le parti in causa decidessero la ripresa delle ostilità, con conseguenze deleterie per la sicurezza del contingente. Ci si può domandare quali potrebbero essere le conseguenze di un diverso atteggiamento della Siria, dovuto ad un possibile mutamento dello scenario strategico nell’area, con inevitabile irrigidimento di Israele e degli Stati Uniti.. In definitiva, il successo di questa operazione militare, così come di ogni altra missione di stabilizzazione, risiede nella capacità delle diplomazie di giungere in tempi ragionevoli alla soluzione dei problemi strutturali che di per sé l’intervento in armi non risolve. 2.3 Altra missione di particolare importanza numerica e politica riguarda la presenza in Afghanistan, attestata a 2.200 uomini, destinati forse ad un aumento a causa del peggioramento della situazione di sicurezza a partire dal 2006. La presenza nel paese, prima solo a Kabul e poi ad Herat, dove l’Italia è responsabile del PRT, ovvero della struttura militare/civile di amministrazione e ricostruzione, risponde ad una serie di obiettivi e logiche differenti, il cui peso è variato dal 2001 ad oggi. Inizialmente, si trattava di una larga coalizione internazionale a guida USA sotto il nome di Enduring Freedom, per il contrasto al terrorismo responsabile dell’ 9-11 e ai guerriglieri talebani. In seguito, si è affiancata la missione a guida NATO ISAF, che in varie fasi sta tentando di riportare il failed state in condizioni di relativa stabilità, secondo una logica di presenza capillare sul territorio che si scontra con la presenza di guerriglieri soprattutto nelle zone vicine al Pakistan. Non sempre le due logiche si rivelano complementari, e la missione italiana tende ad assumere maggiormente il carattere di presenza per la stabilizzazione e la ricostruzione, privilegiando quindi gli elementi umanitari rispetto al combattimento per il controllo del territorio ed il contrasto al narco-traffico. L’esito complessivo è ancora incerto, in parte dipendente da variabili internazionali quali il ruolo del Pakistan e dell’Iran, ma il valore della missione trascende il semplice aspetto operativo, dal momento che l’Alleanza Atlantica ne ha fatto un cardine della sua sopravvivenza. 2.4 La missione in Afghanistan è in cima alla lista per quanto riguarda il profilo di rischio, e richiede una particolare attenzione, quella in Libano presenta per ora un livello di rischio medio,

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mentre le altre si caratterizzano per profili di rischio medio-basso, almeno nella configurazione attuale, sebbene talune possano evolvere in impegni onerosi e di alto significato, quali le missioni in Israele e Palestina, o in Africa, dove sinora prevale l’idea di supportare l’intervento di peacekeeper locali. Al di fuori delle tre aree d’intervento maggiori, ovvero Balcani, Libano e Afghanistan, vi sono una miriade di medi, piccoli e piccolissimi impegni in attività di supporto alle missioni ONU, NATO e EU, dispersi nei quattro cantoni del mondo. Si tratta spesso di missioni di lunghissimo periodo, il cui valore è di natura largamente simbolica. Al di là di piccole presenze, non si registrano oramai da anni missioni che possano configurare un’iniziativa autonoma italiana o a guida prevalentemente italiana senza una forte presenza internazionale. 3. La legittimazione internazionale 3.1 Dopo la fine della guerra fredda il problema della legittimazione internazionale è divenuto uno dei punti centrali dei dibattiti sugli interventi militari attuali. Il problema della legittimità non può prescindere da quello della legalità e da quello dell’opportunità politica e del consenso interno ed internazionale. Sono problemi essenziali soprattutto per gli Stati, come l’Italia, usciti sconfitti dalla seconda guerra mondiale, divisi all’interno nel corso della guerra fredda e che conoscono tuttora difficoltà nella definizione dell’identità e degli interessi nazionali. Tali problemi sono resi di difficile soluzione da due fatti. Primo: il conflitto armato (termine che si usa oggi per sottolineare il fatto che la guerra “westfaliana” fra gli Stati e le loro forze regolari ha lasciato luogo ad un situazione molto più complessa, con pluralità di attori statali e non) non scoppia più fra gli Stati forti ma all’interno degli Stati deboli e non termina più con la debellatio del contendente più debole. E’ cessata anche la tacita “convenzione”, valevole da Westfalia in poi, secondo cui chi era sconfitto in battaglia riconosceva di essere stato vinto anche politicamente e accettava le condizioni di pace impostegli dal vincitore. Oggi, la guerra vera e propria e la vittoria militare è quasi sempre seguita dalla “guerra dopo la guerra”, cioè dal peacekeeping, dal peace and institutions building e dal post-conflict reconstruction. Si tratta di operazioni a bassa intensità che pongono al diritto interno e internazionale complessi problemi di legalità e di legittimità, e alla politica delicati problemi di opportunità, dato che non è sempre chiaro quali siano gli interessi nazionali che si vogliono tutelare o promuovere. Si riferiscono, infatti, a fattispecie di conflitto armato che nel 1945 non si potevano neppure immaginare. In secondo luogo, né la Carta né le strutture dell’ONU (e, più in generale, neppure il diritto internazionale patrizio) si sono adeguate alla nuova conflittualità del XXI secolo, ad esempio a quella del terrorismo transnazionale che, assieme alla proliferazione, costituisce il principale pericolo per le democrazie occidentali, e non solo per esse. Esso amplia in termini sia orizzontali (attacco a Stati basi del terrorismo, reddition extra-territoriali, ecc) che temporali (difesa attiva preventiva) il principio di autodifesa, il quale, va ricordato, discende direttamente dal diritto naturale, non da quello patrizio o convenzionale. Le modifiche in tal senso, proposte dall’High Level Group costituito dal Segretario Generale della Nazioni Unite, non sono state approvate. Lo scollamento della realtà degli attuali conflitti dai riferimenti del diritto internazionale rende ambigua sotto il profilo giuridico e morale la questione della legittimità di tutti i conflitti armati attuali. Tutti gli Stati hanno dovuto quindi risolvere pragmaticamente il problema, dato che non potevano isolarsi dal mondo in attesa che le norme giuridiche si adattassero alle nuove realtà. Anche in ambito Nazioni Unite si è dovuto, comunque, intervenire, creando una speciale cellula strategica per il comando della missione Libano. E’ un’innovazione forse di fatto non molto gradita dalla Segreteria Generale, ma che era stata più volte raccomandata dai progetti di riforma. E’, quindi, probabile che un crescente ricorso all’ONU per crisi complesse imponga delle riforme che, però, da ad hoc come oggi sono, debbono divenire strutturali.

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3.2 A tali problemi si aggiunge il fatto che il sistema politico italiano è particolarmente frammentato ed è carente di una solida cultura della sicurezza, basata su una ragionevole condivisione degli interessi nazionali e realizzabile con un approccio bipartisan. Ad esso si oppongono soprattutto le forze cha a sinistra (e non solo quella “antagonista”) hanno mantenuto una forte connnotazione ideologica. L’esame che segue riguarda tre punti attinenti la legittimità, beninteso in riferimento alla specifica situazione italiana: 1) le nuove fattispecie della conflittualità e le esigenze che ne derivano per il diritto costituzionale; 2) l’inadeguatezza del diritto internazionale ad affrontare le nuove forme di conflittualità e di interventi armati; 3) i sistemi con cui, in modo del tutto pragmatico e spesso contraddittorio, le difficoltà sono state superate in Italia. 3.2 La Costituzione italiana prevede solamente lo stato di pace e quello di guerra (una guerra cioè di tipo tradizionale, fra gli Stati e i loro eserciti regolari, del tipo di quelle combattute da Westfalia in poi). Non tiene conto e, quindi, non regolamenta le procedure da attuare nella “zona grigia”, sempre più ampia, esistente fra le due. Non prevede stati di preallarme, di crisi e di emergenza, che configurano molte delle situazioni attuali e che andrebbero affrontate con procedure proprie di quelli che rientrano nella grande categoria degli “stati di eccezione” e delle conseguenti ricadute interne ed internazionali. Per fronteggiare adeguatamente le esigenze poste da questi ultimi, dovrebbero essere previste apposite procedure e profili costituzionali per attribuire all’esecutivo i poteri necessari ed eventualmente per imporre temporanee limitazioni alle libertà civili ed economiche per salvaguardare il bene pubblico prioritario della sicurezza. Innumerevoli studi giuridici e proposte di modifica della Costituzione italiana (che è una costituzione rigida, non facilmente modificabile,) sono state fatte e dibattute. Nulla è stato però deciso, anzi in alcune proposte, avanzate ad esempio nella Commissione Bicamerale, si è ipotizzato un ulteriore indebolimento dell’Esecutivo.. Per ogni intervento vengono quindi posti problemi, oltre che di opportunità politica, anche di legittimità costituzionale, in riferimento al “ripudio della guerra” contenuto nella prima parte dell’art. 11 della Costituzione. Tale ripudio ricorda il Patto Briand-Kellog del 1928 (che, per inciso, fu sottoscritto immediatamente dall’Italia mussoliniana), ma il suo apparente irrealismo scompare quando esso viene letto non isolatamente, ma nel contesto della Costituzione, che esclude isolamento internazionale e neutralità, e della seconda parte dello stesso art. 11, che afferma che l’Italia accetta le limitazioni di sovranità conseguenti alla sua appartenenza ad organizzazioni internazionali. Il riferimento alle Nazioni Unite (che prevedono l’impiego della forza anche non a fini di autodifesa) è più che evidente. La Costituzione italiana non esclude la guerra difensiva che, nell’articolo 52, viene definita “sacro dovere di tutti i cittadini”. E’ interessante notare come tale aggettivazione derivò da una proposta che, tenuto conto della provenienza, era presumibilmente ispirata alla Costituzione sovietica. Ma, ancora più importante, la Costituzione esclude la neutralità e l’isolamento dell’Italia. Anzi, ne prevede la collaborazione con le istituzioni internazionali, facendo implicito riferimento alle Nazioni Unite. I Costituenti del “Gruppo dei 75” furono particolarmente attenti a redigere una Costituzione compatibile con la Carta delle Nazioni Unite, che estende l’uso della forza al mantenimento “offensivo” della pace e della sicurezza internazionali, disposto con risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. L’intervento armato in tale circostanze non solo è legittimo, ma diventa quasi obbligatorio. Nonostante questo e i numerosi tentativi di risolvere in sede para-costituzionale lo scollamento determinatosi fra la Costituzione italiana (da molti considerata “pacifista” ma, per inciso, molto meno “pacifista” di quelle tedesca e giapponese, dettate dai vincitori del conflitto) e la realtà del ritorno della storia e della forza nelle relazioni internazionali, la questione non è stata veramente risolta sotto il profilo formale. Tuttavia la prassi ha consentito all’Italia non solo di mantenere

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dignitosamente i suoi impegni in ambito NATO (basti ricordare lo schieramento degli euromissili a Comiso), ma anche di intervenire costantemente nelle operazioni internazionali di pacificazione. 3.3 Lo stesso diritto internazionale e la Carta delle Nazioni Unite si sono rilevati inadeguati a configurare la nuova situazione internazionale e la nuova conflittualità in tutta la sua complessità ed imprevedibilità. La complessità deriva anche dal fatto che non esiste più un solo ONU ma “due”: accanto alle Nazioni Unite, spesso ridotte a semplice luogo di dibattiti, di inefficienze e di ipocrisie, ci sono gli Stati Uniti, unica superpotenza o iperpotenza, che dispongono invece della capacità non solo materiale, ma anche politica interna di impiegare la forza per contribuire a completare e gestire l’ordine internazionale derivato dalla fine della guerra fredda. Le previsioni e prescrizioni della Carta sono riferite alla situazione internazionale esistente nel 1945. Essa si è profondamente modificata, non solo perché i Membri permanenti del Consiglio di Sicurezza hanno utilizzato i privilegi loro concessi per perseguire i propri interessi nazionali, ma anche perché hanno rotto la loro solidarietà post-bellica e non hanno ottemperato alle disposizioni del Titolo VII della Carta, in tema di costituzione di forze militari alla dipendenza diretta dell’ONU. Il Consiglio di Sicurezza ha poi adottato nella prassi approcci e iniziative che eccedevano grandemente le sue attribuzioni. Basti pensare al fatto che il peacekeeping (soprattutto quello re-inforced previsto dal rapporto Brahimi) non è considerato nella Carta dell’ONU. Per giustificare le conseguenti operazioni, si è fatto ricorso a formule quanto meno ambigue, come l’estensibilità delle facts finding missions, previste agli articoli 34 e 99 della Carta, oppure ad ancora più ambigue missioni ascrivibili al capitolo 6 della Carta, intermedie fra il negoziato e l’intervento armato, in caso di minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali. Si fa sempre più ricorso al concetto di “guerra giusta” per giustificare le ingerenze negli affari interni degli stati, nonostante la salvaguardia della loro sovranità interna riconosciuta esplicitamente dalla Carta. Ancora maggiore dissonanza rispetto al diritto internazionale positivo presentano le operazioni di ingerenza umanitaria. Se effettuate senza l’assenso dello stato sul cui territorio vengono svolte, esse contravvengono al principio fondamentale, sancito dall’art. 2 commi 4 e 7 della Carta, della completa sovranità degli Stati sul proprio territorio. Il problema della legittimità è stato risolto in via pragmatico-politica. Sotto il profilo giuridico, si è cercato di affermarla nelle ingerenze umanitarie, richiamandosi alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, oppure alla necessità di fondare la pace non solo sull’ordine e sull’assenza di guerra, ma anche sulla giustizia. Il fatto che ciascuno abbia una propria concezione della giustizia, configgente con quella degli altri, è stato sottaciuto. Si è ricorsi al riguardo alla retorica della “guerra giusta”, superando il peraltro ben meno sanguinoso principio dello jus ad bellum della tradizione europea. 3.4 Il problema della legittimità si è posto in termini politici e di consenso dell’opinione pubblica, non in termini giuridici. L’opinione pubblica italiana ha generalmente risposto in modo molto positivo a tali sollecitazioni, anche perché il missionarismo costituisce uno dei filoni storici dell’approccio italiano alla politica estera. Ciò ha consentito di superare i dubbi avanzati sulla legittimità degli interventi, anche in quello del Kosovo, il quale presenta i maggiori dubbi di legittimità sia costituzionali, sia sotto il profilo del diritto internazionale, pur essendo del tutto giustificato sotto il profilo della moralità e della giustizia internazionali. Dal punto di vista semantico, si è censurato ed espulso il termine guerra dal linguaggio politico. Si sono preferite espressioni come “operazioni di pace”, ingerenze umanitarie o interventi di polizia internazionale e così via. Esse hanno contribuito a smilitarizzare la political correctness, avvolgendo con un velo di ipocrisia e di ambiguità quello che viene deciso. Si è determinato al riguardo, almeno in Italia, un forte divario fra dirigenza politica e intelligentzia da un lato e opinione pubblica, dall’altro. Questo è emerso nel modo molto composto con cui gli italiani si sono comportati in occasione della strage di Nassirjia, nel novembre 2003. La massa dei cittadini è risultata molto più consapevole che nel passato delle realtà internazionali e delle responsabilità che

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l’Italia deve affrontare per mantenere un rango decoroso in ambito internazionale. E non è certo un caso che ancora oggi un recente studio1 mostri che, nonostante la vivacità della componente cosiddetta “pacifista”, gli italiani sono per il 70% favorevoli all’invio di forze militari per contribuire alla “ricostruzione dell’Afghanistan” nel quadro di una missione internazionale (percentuale significativamente superiore alla media europea che si attesta intorno al 64%). Beninteso, sono stati fatti numerosi sforzi per conferire una trasparenza procedurale e sostanziale alle decisioni di intervento. Pur essendo lodevoli nelle loro finalità, esse non hanno comunque prodotto risultati di rilievo, né potevano farlo. Solo una modifica costituzionale che regolamenti gli “stati di eccezione”, cioè la “zona grigia” intermedia fra la pace assoluta e la guerra totale, potrebbe conseguire tale risultato. Questo, però, sembra per ora impraticabile. Forse solo l’adeguamento della Carta dell’ONU e della composizione del Consiglio di Sicurezza (obiettivi che il Summit del settembre 2005 non è però riuscito a realizzare neppure in parte) potrebbe dare uno stimolo all’adeguamento della normativa nazionale alla realtà dei conflitti armati del XXI secolo ed aumentarne la trasparenza e la legalità sostanziale. 3.5 Tutto fa ritenere che le difficoltà esistenti nel campo della legittimità degli interventi armati internazionali continueranno a sussistere in Italia, senza peraltro impedire una sua dignitosa partecipazione alle iniziative dell’Occidente e dell’ONU, come è avvenuto nel passato. Giova ancora ricordare che una cosa è la legalità, altra è la legittimità. Quest’ultima si fonda sul consenso dei cittadini e sul loro sostegno ai reparti impiegati, che non è mai sostanzialmente mancato, ma che addirittura si mantiene a livello superiore alla media europea. Sarebbe beninteso preferibile che anche “le carte” fossero a posto. Ma che lo possano essere, sembra alquanto improbabile anche nel medio termine, data la frammentazione e la litigiosità del sistema politico. Ciò nonostante gli interventi continueranno a trovare una legittimità sostanziale nell’opinione pubblica, sempre più consapevole che essi costituiscano gli aspetti forse più qualificanti dell’attuale presenza internazionale italiana. Tutto fa pensare che potranno verificarsi anche al di fuori della “benedizione” formale di mandati dell’ONU, cioè nell’ambito dell’UE e/o soprattutto di quello NATO, sulla cui solidità è basato il futuro di tutto l’Occidente. 4. Quadro giuridico delle missioni e regole di ingaggio 4.1 Afghanistan, Irak e Libano rappresentano solo gli ultimi tra i numerosi impegni che le Forze Armate italiane assolvono all’estero, con modalità operative che, in termini allargati, continuiamo a chiamare “missioni di pace”. La “war on terror” ha infatti complicato l’analisi delle finalità di ciascuna missione, e il vivace dibattito parlamentare che caratterizza ormai ogni decisione altro non è che un nitido specchio di una situazione mutevole, complessa e non sufficientemente codificata. In questa ottica, portare medicinali, viveri e coperte ai terremotati è differente dall’interporsi con le armi tra due contendenti, e ciò è ancora diverso dall’abbattere dittature, sia pure sanguinarie e violente. A questo proposito è interessante riflettere sulle parole e i concetti espressi dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ricevendo al Quirinale una delegazione dell’assemblea parlamentare della NATO. “Il ruolo che l’Italia svolge per la pace e la sicurezza internazionale si basa su un’importante norma della nostra Costituzione”.2 L’articolo 11 prevede sì il ripudio alla guerra come offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, “…ma stabilisce l’impegno di partecipazione dell’Italia alle organizzazioni internazionali che perseguono gli obiettivi della pace e della giustizia tra le nazioni”, tanto da

1 German Marshall Fund of the United States e Compagnia di San Paolo, Transatlantic Trends: Principali risultati 2007, pag. 18 2 Corriere della Sera 2 aprile 2007 p. 15

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prevedere per questo anche alcune limitazioni alla nostra sovranità. E’ per questo motivo che i nostri soldati sono “impegnati, anche con una rilevante presenza, soprattutto in tre missioni, che si svolgono nei Balcani, in Afghanistan e, da ultimo, in Libano”. Il Presidente ha poi continuato dicendo che “Ci troviamo nell’Alleanza Atlantica legati da un rapporto di storica solidarietà, da un costume di aperto e franco dibattito e da un principio di pari dignità”. Le relazioni tra le due sponde dell’Atlantico non si esauriscono nella comune partecipazione all’Alleanza, ma rientrano ormai nel quadro più vasto del rapporto tra il Nord America e l’Unione Europea. Vi è qui il riconoscimento del significato delle missioni di pace italiane, vecchie e nuove, e del loro supporto giuridico, indicando nel contempo i temi problematici che, tra cronaca e storia, è quanto mai necessario sviluppare per una corretta ed equilibrata cognizione del fenomeno “missioni di pace”. Il quadro giuridico delle missioni italiane è quindi un perimetro unico, individuabile nella Costituzione, già citata, nella Carta dell’ONU, con particolare riferimento ai capitoli VI e VII, nelle leggi e decreti del Parlamento e del Governo, nelle Convenzioni di Ginevra e, infine, nei codici militari di pace e di guerra. 4.2 Il modo di concepire i conflitti si è trasformato più volte ed è normale che tutto il sistema organizzato ne risenta sotto vari profili, non ultimo quello del diritto internazionale. Ma l’obiettivo finale, quello di eliminare il fenomeno “guerra” e di costruire un mondo più giusto e più umano, è ben lungi dall’essere raggiunto. Se l’articolo 2, paragrafo 4, della Carta dell’ONU afferma il divieto dell’uso della forza nella risoluzione delle controversie internazionali, demandando al Consiglio di Sicurezza come, se e quando usarla, la trasformazione, al di là dei buoni principi ed alla prova dei fatti, sembrerebbe per ora essere riuscita ad eliminare solo la parola “guerra”, e non di certo il fenomeno. La guerre, infatti, si fanno ugualmente, come prima, con la variante che non si chiamano più così, non essendo state ufficialmente dichiarate da Ambasciatori in tight e feluca. E’ questa, ovviamente, la madre delle mille implicazioni giuridiche che a cascata ne derivano, delle quali i Parlamenti nazionali devono continuamente farsi carico. Si fa spesso strada il concetto che se un’operazione di pace è richiesta dall’ONU, o è condotta sotto la sua egida, o, meglio, è condotta direttamente dai Caschi Blu, allora questa non solo è lecita, ma è anche buona e giusta. In realtà, non è sempre così. Gli episodi di “conflittualità non convenzionale” sono di molto aumentati dopo la caduta del muro, per cui sarebbe per prima cosa necessario capire quale possa essere, nel contesto giuridico internazionale, lo strumento più idoneo per combatterli, arginarli o, magari, prevenirli. La Carta dell’ONU, e le varie organizzazioni che più o meno direttamente ad essa fanno capo, hanno in se tutti gli strumenti idonei a risolvere, o quantomeno a controllare, questo tipo di questioni, e la risposta sembrerebbe quindi scontata. Ma, purtroppo, non lo è affatto. L’Assemblea è infatti rappresentativa proprio di quella frammentazione di interessi che è origine prima dei conflitti. Se, teoricamente, il Capitolo VI e il Capitolo VII della Carta contengono tutto ciò che servirebbe per controllare il nuovo modo di concepire i conflitti, la realtà ci dimostra che, guardando indietro anche non di molto, i successi militari dell’ONU si possono forse contare sulle dita di una mano, mentre le soluzioni irrisolte, lasciate a metà come focolai di sicuri conflitti futuri, sono un gran numero. Il concorso delle grandi organizzazioni internazionali o nazionali in possesso di una robusta struttura militare e di un valido sistema di comando e controllo continuerà, almeno nel medio termine, ad essere indispensabile. Su mandato o meno, purchè l’intervento si ispiri ai principi ed allo spirito della Carta. Principi quali il “diritto di autodifesa”, oppure “minaccia per la pace internazionale e per la sicurezza della regione” e la necessità di combattere questa minaccia “con tutti i mezzi”, come nel caso dell’Afghanistan, consentono di ricorrere anche all’uso della forza. A proposito di quest’ultimo caso, giova ricordare che il Consiglio di Sicurezza è stato assai prolifico e insolitamente preciso. Con le risoluzioni del 2006, la 1659 di febbraio e la 1707 di settembre, raccomandava ai responsabili dell’ISAF, quindi alla NATO e agli Stati impegnati, di intraprendere tutte le azioni per “combattere la minaccia dei terroristi e dei narcotrafficanti, con particolare riferimento a quella posta dai Talebani, da al-Qaeda e da altri gruppi estremisti” e di “prendere ogni

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misura necessaria per adempiere al mandato”. Queste ultime risoluzioni nel nostro dibattito parlamentare vengono solitamente sottaciute. 4.3 Il carattere parlamentare del nostro ordinamento comporta che l’indirizzo politico, ivi compreso l’impiego delle Forze Armate, spetti alle Camere ed al Governo, legati da un rapporto fiduciario. Su circa novanta missioni militari, compresi i rinnovi, cui abbiamo partecipato nel dopoguerra, l’intervento del Parlamento si è verificato in circa settanta casi, attraverso strumenti e procedure tra loro diverse. La prassi del passaggio parlamentare non è quindi costante, e qualche Governo lo ha addirittura omesso limitandosi a una “informazione” nel quadro di autorizzazioni precedenti, o dando per scontato ampio e unanime supporto, specie nei casi di “obbligo internazionale” quando piccole operazioni sono state disposte direttamente dall’ONU. Vi sono, poi, dei casi in cui l’intervento parlamentare si è svolto successivamente all’inizio della missione, come, per esempio, nel caso della missione umanitaria NATO AFOR (Allied Harbour) svoltasi in Albania dall’8 aprile 1999, contestualmente alle operazioni di guerra in Kossovo. Il dibattito parlamentare ha ultimamente assunto aspetti di ampio rilievo a seguito della situazione venutasi a creare con l’11 settembre 2001, con particolare riferimento alla legittimazione delle cosiddette “guerre preventive” e al ruolo delle Nazioni Unite, della NATO e, in genere, delle organizzazioni internazionali. La stessa definizione di “missioni di pace” per alcune delle attività militari in atto è stata in più occasioni posta in discussione. Ciò nonostante, la percezione socio-politica delle missioni da parte dell’opinione pubblica sembra essere positivamente crescente. 4.4 Ogni volta che una delle nostre missioni trova un intoppo parlamentare o è funestata da qualche incidente, si riaccende la polemica sulle “regole di ingaggio”, dall’espressione inglese Rules Of Engagement (ROE, secondo l’acronimo in uso). L’espressione sta a significare “norme da osservare per graduare l’uso della forza nel corso di un impegno operativo in tempo di pace, di crisi o di guerra”. In pratica, quando si decide di partecipare ad un’operazione multinazionale, ne vengono anche fissate le condizioni generali. In una prima fase, che è politica, si decidono i contorni generali della missione. Di massima, si origina all’ONU o in altre organizzazioni multinazionali, ma può anche avere un’origine tutta nazionale, come nel caso dell’operazione in Albania nel 1997. Di regole di ingaggio si comincia poi a parlare in fase politico-militare, che si conclude normalmente in sede internazionale con l’approvazione su mandato dei ministri della Difesa, degli Esteri e, quindi, dei Governi o dei rispettivi rappresentanti diplomatici. L’ultima fase, le norme di dettaglio, viene concordata direttamente dai comandanti sul campo, trattandosi di regole operative spesso segretate. Prevalgono, naturalmente, quelle dettate dai Comandanti di Grande Unità alle cui dipendenze operano i diversi contingenti nazionali. Nel caso attuale dell’Afghanistan, trattandosi di operazione della NATO, le regole non possono che derivare dal manuale delle regole di ingaggio delle NATO, alle quali anche i nostri soldati sono bene abituati. E’ però facoltà di ogni paese partecipante dettare alcune condizioni cui si uniformerà il comportamento del proprio contingente. In genere le regole applicate, integrate e corrette dai così detti national caveat, rispecchiano la politica del singolo paese contribuente. E’ ovvio che la flessibilità o meno dell’intero complesso di forze, e quindi la sua efficacia operativa, è inversamente proporzionale al numero ed alla tipologia dei singoli “caveat” dei diversi contingenti nazionali, che in Afghanistan sono ben trentacinque. Va tuttavia riconosciuto che regole di ingaggio e caveat servono anche a tutelare sotto il profilo giuridico sia i singoli militari sia i comandanti. Infatti, fermo restando il diritto all’autodifesa, in genere tutti i casi che si possono presentare sono compresi, anche se può capitare a un singolo militare di dover decidere se è il caso o meno di aprire il fuoco, e contro chi. In queste missioni si usano volontari esperti e bene addestrati proprio per questo: si tratta di soldati che sanno valutare con fermezza e forza d’animo, proprio perché sono stati addestrati a comportarsi così nel momento del rischio. Non va dimenticato, ed è bene che anche i cittadini lo sappiano, che i militari italiani che partecipano a questo tipo di missioni devono poi rispondere di eventuali trasgressioni alle regole di ingaggio secondo il codice penale militare di fronte al Tribunale Militare di Roma, la cui

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Procura è responsabile delle relative inchieste. Inizialmente si applicava il codice penale militare di pace, poco adatto, però, alle esigenze dei comandanti sul campo. Successivamente è stato possibile utilizzare il codice penale militare di guerra, dal quale, con un provvedimento legislativo, era stata tuttavia espunta la pena di morte. L’attuale legislatura ha ritenuto di ripristinare, in queste missioni “di pace”, l’applicazione del codice penale militare di pace, pur se non offre la stessa tutela nei confronti della popolazione civile eventualmente coinvolta. 5. La “trasformazione” dello strumento militare italiano 5.1 Trasformazione, più che il leit motiv della fisiologica evoluzione dei moderni strumenti militari, è diventata un “mantra” pressoché rituale, da tutti evocato, a volte senza avere bene approfondito tutti gli aspetti multimensionali di una serie di processi connessi tra di loro, ma che raramente vengono considerati nel loro insieme. Si parte sempre, ovviamente, dal crollo del muro di Berlino, come se durante la Guerra Fredda i mezzi, le dottrine, la stessa strategia globale fossero stati per quarant’anni dati inamovibili ed immutabili: certo è che la “scomparsa” del nemico storico del mondo occidentale ha tolto ai pensatori politici ed ai pianificatori militari una serie di elementi di base e che questa mancanza ha fatto dissolvere certezze e presupposti, aprendo peraltro nuovi orizzonti tutti da esplorare. Svanita presto l’illusione di essere entrati in una nuova era di pace, in cui lo sviluppo economico, finalmente libero da pastoie ideologiche, avrebbe fatto progressivamente giustizia di rivalità e conflitti, compreso che il “dividendo della pace” conseguente allo smantellamento degli eserciti, non più necessari, sarebbe stato ben più modesto di quanto ipotizzato, si è avviata una nuova stagione di elaborazione strategica e dottrinaria che prendeva gradualmente coscienza di quanto le nostre società benestanti fossero in realtà solo un’isola in una realtà globale dominata da ostilità ancestrali, odi secolari, miserie irrimediabili e che solo una politica attiva che favorisse ricomposizioni, che incentivasse alla convivenza pacifica, che garantisse le condizioni minime di sicurezza per uno sviluppo economico più diffuso possibile, avrebbe potuto salvaguardare al meglio le nostre stesse società. Fra i vari strumenti disponibili per la concretizzazione di tali politiche, quello militare, pur con i suoi limiti di efficacia, è stato, proprio per la sua immediata disponibilità, quello cui più facilmente si è fatto ricorso; ma ci si è ben presto accorti che gli eserciti creati per difendere i territori nazionali dall’invasione dell’Armata Rossa mal si prestavano ad un impiego ottimale nei nuovi scenari, per una serie di motivi, sia connessi con le strutture organizzative, sia per le modalità di arruolamento, sia per il tipo di utilizzo che se ne poteva immaginare. Bisognava quindi “trasformare” gli eserciti statici, progettati per difendere le frontiere, in organizzazioni dotate di grande mobilità in modo da poter essere proiettate, da poter operare, da poter essere supportate logisticamente dovunque se ne rendesse necessario l’impiego, anche a grande distanza dalle basi stanziali, pur senza pregiudicare la difesa nazionale. Forze Armate il cui utilizzo più frequente fosse quello di partecipare ad operazioni in coalizioni internazionali ben al di fuori dei propri confini non potevano più essere basate sulla leva: se la difesa del territorio nazionale ben si può definire un sacro dovere di tutti i cittadini (e tale rimane anche oggi) il coinvolgimento in spedizioni che pure rispondono al principio della salvaguardia degli interessi nazionali, inquadrati nell’appartenenza alle Nazioni Unite, alla NATO e all’Unione Europea, ha una pregnanza etica meno intensa. Da un punto di vista più pragmatico, poi, per questo tipo di operazioni è necessaria una preparazione tecnica, professionale, culturale, che sarebbe impossibile impartire ad un giovane in pochi mesi. Altra radicale “trasformazione” è poi quella relativa alla capacità di imparare ad operare fianco a fianco con truppe dei paesi più diversi, cosa che durante la guerra fredda avveniva in modo del tutto marginale e solo con i membri dell’Alleanza Atlantica. Ne deriva la necessità di una conoscenza non superficiale dell’inglese anche a livello truppa e la necessità di armonizzare procedure,

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modalità di impiego, manualistica, in modo da assicurare che le operazioni, anche in teatri ostili, vengano condotte nel modo più integrato possibile, escludendo fraintendimenti ed incomprensioni che in determinate circostanze possono risultare addirittura letali. 5.2 Si osservi che le “trasformazioni” cui si è finora fatto cenno si sono rese necessarie per il solo mutamento del quadro strategico e non tengono ancora conto del tumultuoso sviluppo tecnologico di cui tutta la nostra società è pervasa e da cui le Forze Armate traggono motivo per evoluzioni dal carattere davvero rivoluzionario, con conseguenze non solo sui mezzi impiegati, ma sulle loro stesse strutture organizzative e sulla filosofia di base all’origine delle stesse. Su questo terreno occorre tuttavia procedere con una certa cautela, per non cadere nella diabolica tentazione dell’illusione tecnologica, causa non ultima degli ormai riconosciuti limiti della strategia USA in Iraq. Fra i vari aspetti di questo sviluppo tecnologico, due sembrano quelli più significativi: la connettività e la capacità di ingaggio preciso. La prima consente uno scambio di informazioni e una consapevolezza della situazione in precedenza impensabili e quindi consente una decentralizzazione esecutiva che potenzialmente rivoluziona lo stesso concetto di catena gerarchica, a patto che la qualità del personale sia di adeguato livello e che la sua formazione professionale risponda al nuovo ambiente. La seconda dà una nuova dimensione al concetto clausevitziano di concentrazione degli sforzi, che oggi, invece che essere basato sulla massa, può essere realizzato con una convergenza istantanea di sistemi fisicamente fra loro separati. 5.3 Un ultimo aspetto della “trasformazione” che merita di essere evocato (ultimo per trattazione, ma non certo per importanza) è la crescente complessità della relazione tra livello operativo e livello politico, con il ruolo sempre più marcato dei mass media e un coinvolgimento dell’opinione pubblica nella stessa fase attuativa delle operazioni, il che influenza in misura determinante non solo le modalità pratiche di intervento, ma lo stesso atteggiamento etico dei militari sul terreno, con conseguenze di vario ordine e non trascurando l’aspetto giuridico. 5.4 In questo quadro complesso, come si pongono le Forze Armate italiane? La loro evoluzione si può considerare in armonia con i lineamenti qui descritti? La risposta è sostanzialmente positiva, anche se il quadro è molto variegato, con luci ed ombre e con un trend che non dà alcuna certezza. Il compito è stato sicuramente più arduo per l’Esercito che da forza di guarnigione, arroccato nella fortezza Bastiani a guardia della “soglia di Gorizia”, ha attuato un poderoso sforzo di aggiornamento ed adeguamento al nuovo quadro strategico. Mentre nel 1991 una sua partecipazione diretta alla Prima Guerra del Golfo sarebbe apparsa un azzardo insostenibile prima ancora che inaccettabile, solo pochi anni dopo esso poteva schierare nei teatri operativi balcanici e poi in Afghanistan ed in Iraq (senza dimenticare la breve ma intensa esperienza a Timor Est) contingenti con picchi che sono andati oltre le 10000 unità, con una “utilizzabilità” secondo i criteri NATO ben superiore a quella della maggior parte degli alleati. Il passaggio dalla coscrizione obbligatoria al solo reclutamento su base volontaria non è stato vissuto in modo traumatico, anche grazie al fatto che la qualità dei volontari, favorita anche dagli incentivi connessi con l’arruolamento, si è stabilizzata su livelli assai elevati, il che ha permesso di consolidare una cultura operativa, diffusa a tutti i livelli, basata su un uso consapevole della minima forza necessaria, con ciò definendo standard comportamentali che sono diventati riferimento per tutti. Anche dal punto di vista degli equipaggiamenti le scelte fatte ancora durante la guerra fredda si sono rivelate tecnicamente adeguate, anche se i drammatici problemi finanziari del paese hanno indotto i decisori politici ad attingere senza riserve alle quote del bilancio della difesa (già fortemente penalizzato rispetto a quelli degli alleati da sempre considerati come riferimento), impedendo così sia sufficienti approvvigionamenti di nuovi mezzi, sia, soprattutto, il ripristino di

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quelli rapidamente usurati da un impiego la cui intensità è andata bene al di là di ogni ragionevole previsione. Più agevole è stato il percorso per Marina ed Aeronautica, da sempre bene integrate nel dispositivo della NATO e con una decennale consuetudine ad operazioni in ambiente internazionale. Per queste Forze Armate, però, assume se possibile rilevanza ancora maggiore il tema finanziario, atteso il più elevato livello di investimenti necessario per assicurare l’adeguatezza tecnico-operativa di navi ed aerei; anche in questi casi, si patisce in modo drammatico l’impossibilità del ripristino dell’efficacia operativa e del mantenimento in efficienza dei mezzi, logorati da un impiego più intenso e in condizioni operative più critiche rispetto a quanto pianificato. 5.5 Quando però si passa ad uno sguardo di insieme il quadro si fa assai più preoccupante: l’integrazione interforze avviata dieci anni fa con la cosiddetta nuova ‘legge sui vertici’ ha avuto un successo solo parziale, soprattutto per motivi interni alle stesse Forze Armate, ciascuna delle quali è molto attenta alle sue peculiarità e che, strumentalizzando formulazioni a volte ambigue della normativa di riferimento, non hanno fatto nessun passo avanti, ad esempio, nel campo delle organizzazioni territoriali, in quello della gestione dei beni demaniali, in quello della logistica sia di base che dei sistemi d’arma, in cui pure le moderne tecnologie informatiche permetterebbero “trasformazioni” delle strutture con sostanziali risparmi in termini economici così come in termini organici. La “trasformazione” delle componenti operative delle Forze Armate, così efficace e radicale non è stata dunque accompagnata da un’altrettanto radicale riforma delle sovrastrutture negli altri settori. E’ qui che è indispensabile da un lato che si dia nuovo impulso alla razionalizzazione interforze, da realizzarsi anche mediante la concretizzazione del concetto di lead service (chi è capace di far bene qualcosa, la fa per tutti), dall’altro che siano rimossi gli ostacoli dei vari localismi che, in nome di un preteso impatto economico sul territorio, si oppongono a qualsiasi operazione di razionalizzazione che comporti la chiusura anche del più piccolo ente militare. Passi avanti in questi due ambiti possono risultare decisivi per l’ottimizzazione della spesa militare, liberando risorse finanziarie che possono a loro volta mitigare gli effetti dei tagli operati nei precedenti esercizi a danno dell’ammodernamento dei mezzi e soprattutto del loro mantenimento in efficienza, così come delle risorse destinate all’addestramento, senza il quale le Forze Armate, anche dotate degli strumenti più moderni, sarebbero sostanzialmente inutili. 6. Il processo decisionale per la scelta delle missioni internazionali 6.1 L’area d’impiego dello strumento militare italiano è, come si è visto, ampia e differenziata. Pur avendo disponibile il riferimento geografico/geopolitico sviluppato nel Concetto Strategico del Capo di Stato Maggiore della Difesa, tale impiego si è in realtà sviluppato principalmente sotto la spinta a contribuire ad interventi man mano proposti nelle organizzazioni multilaterali in cui si colloca la nostra politica di sicurezza. In effetti, il criterio prevalente sembra essere quello della dimensione europea ed euro-atlantica delle missioni all’estero, di massima legittimate da un mandato, quando non anche da un invito a contribuire, da parte delle Nazioni Unite. Il quadro istituzionale e legale di riferimento assume dunque un’importanza del tutto particolare e pervade ogni momento decisionale, sia esso di natura più squisitamente politica che operativa. La partecipazione italiana alle missioni internazionali di stabilizzazione assume quindi un’importanza particolare per lo status internazionale del paese e diviene di per sé uno strumento di politica estera che trascende le finalità immediate dell’intervento. Inoltre, bisogna riconoscere la sostanziale incapacità di sviluppare una missione internazionale su base esclusivamente nazionale, non solo dal punto di vista della legittimità, ma anche da quello delle risorse e delle capacità operative.

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L’impegno viene normalmente qualificato con forti riferimenti, non solo retorici, in senso umanitario, e quindi universale, secondo una impostazione che risente, come già detto in precedenza, di una vivace componente “pacifista” della nostra opinione pubblica e della conseguente pressione dei mass media. La tendenza all’impegno universale è legata ad un’impostazione idealista della politica estera e ad una concezione di sicurezza e difesa collettiva tanto ampia, da identificarsi con un concetto di sicurezza comune. Ciò, però, comporta una difficoltà oggettiva di selezione dell’impegno e drammatica allocazione di risorse economiche, umane, politiche e militari. In mancanza di obiettivi intermedi determinati da interessi reali pur compatibili con la missione generale, si sperimenta inoltre una certa difficoltà a coordinare l’azione politico-diplomatica con l’intervento militare, che pertanto è troppo spesso chiamato a “congelare” la situazione, ma non può per sua natura risolverlo da solo, rischiando conseguentemente una situazione di stallo che costringe a presenze di lungo periodo in contesti in cui l’escalation è sempre possibile. La maggior parte delle missioni richiede impegni di lungo e lunghissimo periodo, a volte per l’ambizione del mandato (stabilizzazione in contesti particolarmente difficili), a volte per la mancanza di una strategia complessiva che ne governi l’azione, coordinando civili e militari nonché soft e hard power.. È, quindi, inevitabile porsi la questione del livello dell’impegno e delle sue modalità. Si deve in sostanza decidere in quale fase intervenire, con quali mezzi, con quali regole di ingaggio, quanto sia importante ottenere una posizione di comando o comunque di rilievo nella missione. Davanti alla difficile trasformazione delle Forze Armate italiane e alla crescente pressione internazionale a fornire contributi importanti in un numero sempre maggiore di missioni all’estero, vi è l’esigenza di selezionare gli impegni secondo una metodologia di valutazione che tenga conto non solo di principi e valori generali, ma anche degli interessi specifici e dei vincoli interni ed esterni e dell’effettiva capacità di “fare la differenza”. E’ innegabile comunque che ciò comporti una forte pressione internazionale finalizzata ad accrescere la proiettabilità delle forze, tuttora troppo bassa (circa 30.000 uomini complessivi su 190.000) a causa dell’ormai storico gap di capitalizzazione ed addestramento, nonché di una struttura del personale sbagliata ed insostenibile. Ne risente la capacità di gestire le turnazioni e di garantire la sicurezza delle truppe inviate e la capacità di tempestivo rinforzo in caso di necessità, ma anche una penalizzazione del profilo internazionale del paese, particolarmente grave poiché in Italia le missioni militari assumono particolare rilevanza nella politica estera del paese. . La questione delle risorse diviene centrale e i meccanismi sinora previsti non sembrano favorire la cooperazione internazionale; nel caso delle missioni a guida UE è associato un meccanismo di finanziamento denominato Athena, secondo cui ad eccezione di alcuni costi comuni ciascun paese finanzia direttamente il proprio impegno, secondo la formula “cost lies where they fall” che informa anche le operazioni NATO. Il ruolo italiano nelle missioni internazionali rimane, comunque, importante ed è destinato ad aumentare ulteriormente, ma è messo in forse dalla cronica mancanza e spreco di risorse e anche dall’assenza di una forte identità nazionale e coesione politica interna, data la disomogeneità della coalizioni al governo e la loro litigiosità, anche su questioni di politica estera. 6.2 Le missioni militari all’estero rappresentano una delle componenti più delicate della nostra politica internazionale, ma probabilmente anche quella più positivo. Abbiamo recuperato, grazie alle Forze Armate, un peso e una credibilità che sono state e sono regolarmente compromesse dal nostro modo di gestire la politica internazionale, dalla mancanza di continuità e coerenza delle nostre iniziative e dalla scarsità di risorse umane e finanziarie che vi destiniamo. Diversa può essere la valutazione sul piano qualitativo perché non sempre è stata chiara in tutti questi anni la strategia

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che ha determinato la nostra partecipazione e, soprattutto, le sue caratteristiche. Gioca al riguardo – è opportuno ricordarlo ancora - la conflittualità esistente nel nostro bipolarismo imperfetto. In qualche modo la componente militare ha surrogato quella politica sia nella proiezione internazionale, sia nella fase operativa del processo decisionale. Mentre solleva non poche perplessità la gestione delle decisioni che ci hanno portato nei più disparati angoli della terra, dal momento in cui la scelta è stata compiuta le Forze Armate hanno dimostrato una considerevole capacità di metterla in pratica. Sembra, però, essere mancata troppo spesso una consultazione preventiva volta ad acquisire tutte le necessarie informazioni sulle nostre effettive capacità operative e su tutte le implicazioni per la direzione operativa e spesso anche tattica delle operazioni.. Ma il maggiore problema è dato dall’incapacità di procedere ad una valutazione del contesto globale dell’intervento e ad una sua impostazione e realizzazione globale, militare e civile. Il comprehensive approach, che ormai ha sempre più spazio nel dibattito sul futuro della NATO, trova la sua ragion d’essere anche in campo nazionale, dove ogni intervento in una qualsiasi area esterna al territorio nazionale dovrebbe essere valutato in un contesto che vede, fin dall’inizio, il coinvolgimento congiunto e convinto di tutte le sue componenti, non solo cioè di quella militare. Potrebbe, quindi, essere utile allargare la riflessione sulle modalità con cui dovrebbero essere prese le decisioni politico-strategiche, auspicando che al termine del necessario approfondimento si possa arrivare a formalizzare una qualche procedura da utilizzare in futuro. Come tutte le procedure, è inevitabile una certa “ingegnerizzazione”, pur nella consapevolezza che l’azione politica, tanto più in campo internazionale, comporta una valutazione di ordine generale di più ampio respiro. Senza alcuna pretesa di essere esaustivi, si possono indicare alcuni primi elementi da tenere in considerazione. 6.3 Le motivazioni sono fondamentali per giustificare un’eventuale decisione positiva. Dato per scontato che vi è sempre un nostro interesse generale alla stabilizzazione delle aree di crisi, resta da vedere se vi è un interesse per lo specifico intervento in rapporto alla nostra collocazione nel quadro geo-politico. Dovrebbe, quindi, essere valutata, innanzi tutto, la coerenza della scelta con le direttrici fondamentali della nostra politica estera attraverso cui dovremmo esprimere i nostri interessi nazionali. Se ci siamo dati delle priorità, sarebbe bene cercare di rispettarle evitando di impegnarci in aree che non vi rientrano. In quest’ottica un’attenzione particolare andrebbe data alla nostra dipendenza dalle fonti di produzione dell’energia e dal suo trasporto. Va tenuto presente che si stima in circa l’85% la nostra dipendenza diretta e indiretta dall’estero nel campo energetico (93% del petrolio, 86% del metano, 97% del carbone, 15% dell’energia elettrica), anche a causa dell’uscita dal nucleare (che in Europa copre circa il 15% dei consumi di energia). Più in generale, andrebbero considerate le tendenze caratterizzanti il processo di internazionalizzazione della nostra economia. Emergono, infatti, delle aree prioritarie di cui tener conto. Non vi è mai stato nella decisione italiana di partecipare ad una missione un interesse economico diretto. Si può, anzi, dire che in realtà non vi è stato nemmeno un interesse indiretto. Se si analizza la quota di importazioni di questi paesi dall’Italia nel decennio a cavallo del nostro intervento si può vedere che non si registrano miglioramenti. Bisogna, però tener conto che molti di questi teatri non sono tornati alla normalità o è passato troppo poco tempo e, quindi, non si registra alcuna ripresa economica. In termini di immagine questo “disinteresse” italiano è positivo perché conferma che alla base delle scelte effettuate vi sono state solo motivazioni politiche e strategiche. Forse siamo, però, fin troppo prudenti, o, secondo alcuni, ingenui, nel non valorizzare l’intervento a favore del nostro sistema economico, per lo meno per alleviare in parte i costi delle missioni. Ha influito anche la

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parcellizzazione e frammentazione delle competenze, un’insoddisfacente coordinamento fra i vari dicasteri e il mancato coinvolgimento di quelli dello Sviluppo economico e del Commercio estero. E’ quanto meno singolare che nemmeno negli investimenti pubblici di questi paesi si registri una qualche forma di attenzione verso l’Italia in considerazione dell’aiuto fornito. Su questo potrebbe incidere anche la nostra mancanza di adeguate strutture di coordinamento che gestiscano fin dall’inizio tutti gli aspetti del nostro intervento e che proseguano l’attività anche quando la componente militare si riduce o scompare. Se non vi è, infatti, una continuità di presenza dopo il superamento della fase più acuta della crisi, è molto difficile poter valorizzare lo sforzo che abbiamo sostenuto. Ma, forse, su questa “mancanza di ritorni” incide anche una ipocrita iniziale “mancanza di interessi”, derivante da una esaltazione dell’approccio “umanitario” al momento della decisione dell’intervento, approccio che preclude la programmazione di incisive azioni volte a cogliere e valorizzare, a posteriori, le opportunità favorevoli che si possono creare a seguito dei nostri interventi. Dovrebbero, inoltre, essere valutate le possibili conseguenze politiche per la NATO e per l’Unione Europea: mantenimento e rafforzamento dell’integrazione europea e della collaborazione transatlantica dovrebbero essere due valori da salvaguardare sempre, rispetto ai quali subordinare ogni decisione specifica e limitata. Non è un problema formale, ma sostanziale. Anche quando l’Italia si è mossa per prima, o al limite e all’inizio quasi da sola, lo ha fatto in accordo con i nostri partners. Tener conto e privilegiare la dimensione europea e transatlantica dovrebbe, dunque, essere sempre un punto fermo. Infine, dovrebbero essere considerati gli impegni già assunti. Il “lenzuolo” italiano è limitato (sia che lo si consideri sul piano militare, sia, e ancor più, su quello di una capacità globale di intervento). Tirarlo da una parte rischia di lasciarne scoperta un’altra. E limitare all’osso ogni capacità di riserva alza troppo il livello del rischio per l’intero paese. E’ vero che sul piano militare le missioni rappresentano anche un’attività di formazione permanente che, se non altro, sostituisce le esercitazioni, molto più ridotte e “virtuali”, sul territorio nazionale o, sporadicamente, all’estero. Così come consentono di offrire qualche beneficio economico ai militari impegnati in modo da compensare parzialmente l’inadeguato livello retributivo. Ma comportano anche un logoramento dei mezzi che rischia di compromettere ogni tentativo di pianificare l’ammodernamento e di cui non si tiene conto nel definire il loro finanziamento. Sarebbe, quindi, opportuno che Governo e Parlamento tenessero in considerazione questa esigenza quando decidono il bilancio della Difesa. La scelta dipende solo in parte dalla disponibilità delle forze che si intenderebbero schierare. Il vero problema è “politico” perché mentre le Forze Armate spingono tendenzialmente per avere i maggiori margini di sicurezza operativa, i decisori politici tendono a ridurre al minimo l’impegno in termini di quantità di uomini, tipologia di equipaggiamenti e regole di ingaggio. Deve, quindi, essere trovato un punto di equilibrio fra le due tendenze divaricanti. 6.4 Nell’esperienza di questi ultimi quindici anni il problema del “come” è stato quasi sempre più determinante di quello del “perché” e del “se”. Innanzi tutto, il “come” è sempre entrato contemporaneamente anche nella prima fase, un po’ perché Governo e Parlamento ne sono stati condizionati, un po’ perché lo hanno spesso usato strumentalmente per ridurre il dissenso. Su questo tema ogni Governo ha una grandissima responsabilità perché, al di là della doverosa correttezza verso l’opinione pubblica e verso gli stessi militari e civili impegnati sul campo, si devono creare le basi per la tenuta del “fronte interno”, che, peraltro, in Italia ha dimostrato maggiore solidità che in altri paesi Una missione internazionale, proprio perché non è facilmente percepibile come una guerra difensiva in senso stretto, richiede un grosso sforzo per ottenere il necessario consenso nell’opinione pubblica e nelle forze politiche che in qualche modo la rappresentano. Il “fronte interno” ne rappresenta il “tallone di Achille”: se le perdite sul campo sono più elevate di quanto un paese possa accettare, il rischio di dover rientrare sale proporzionalmente. Di questo sono consapevoli anche terroristi e le bande armate che sono, quindi, incentivati ad elevare il costo umano degli attacchi nel tentativo di far crollare questo “fronte interno”. In questo caso si

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vanificano i costi e le perdite subite, ma se la classe politica non è capace di resistere a questa pressione, la battaglia è persa. Sarebbe, quindi, indispensabile evitare di creare, all’inizio di ogni missione, illusioni sull’assenza di rischi e, piuttosto, dare una migliore informazione sulle ragioni dell’intervento. Un’attività informativa che dovrebbe essere costantemente portata avanti in modo da non lasciare l’opinione pubblica impreparata e quasi ignara delle iniziative in corso. La strumentalizzazione a fini politici interni acuisce il problema dell’opinione pubblica. Si è, infatti, rotto durante quest’anno il tacito impegno a non fare delle missioni internazionali l’ennesima occasione di rissa politica interna. Se sulla latente deriva pacifista o, meglio, isolazionista e localista della nostra opinione pubblica si aggiungono anche i tatticismi delle forze politiche, la situazione rischia di diventare incontrollabile. Si alimenta così anche una forte tendenza all’antipolitica, molto forte in questi tempi nel nostro paese. Vi è nella nostra opinione pubblica una componente pacifista, legata in parte ad una certa tradizione cattolica e, in parte, al terzomondismo. Difficile valutarne le dimensioni perché, essendo un atteggiamento ideologico, è legato non alla forma “armata” dell’intervento, ma alla sua natura. Così fu solo in parte contraria all’iniziale intervento in Afghanistan e non è stata contraria all’operazione in Libano l’estate scorsa. Ma, in realtà, il problema maggiore è quello del disinteresse, se non rifiuto, verso i problemi internazionali. La globalizzazione viene da molti percepita come un fenomeno negativo e, quel che è peggio, come una scelta. E’, quindi, forte l’illusione che basti estraniarsi da una crisi per non esserne coinvolti. Le missioni internazionali vengono percepite come il nostro legame con queste aree di crisi: basterebbe reciderlo per potersene dimenticare. E’ diffusa l’idea di un’Italia e di un’Europa che si chiudono in se stesse come una fortezza, indifferenti a quanto avviene attorno. Questo approccio, anche culturale, andrebbe sistematicamente contrastato perché rischia di rendere più difficile e complesso ogni sforzo per creare il necessario consenso nei confronti delle missioni internazionali a cui partecipiamo. L’importanza del “come” è legata anche al fatto che la scelta non si esaurisce al momento della decisione iniziale, ma si ripropone continuamente. Soprattutto se, come è nella nostra tradizione, si preferisce iniziare sempre la missione con un basso profilo, anche quando sarebbe meglio non centellinare quantità e tipologia di uomini e mezzi. Così è stato in Iraq, così è oggi in Afghanistan. In questo modo vengono frammischiate le responsabilità politiche con quelle operative e si fa venir meno il confine fra il ruolo di Governo e Parlamento nel decidere e definire le linee guida della nostra partecipazione alle missioni internazionali, assegnando le necessarie risorse finanziarie, e il ruolo dei vertici militari nel metterle in pratica sulla base della loro responsabilità tecnica. 6.5 In questo quadro ci si può domandare se non dovremmo sempre inserire fin dall’inizio le missioni militari all’estero nel quadro di un progetto globale di intervento. Bisognerebbe, quindi, coordinare la presenza delle forze militari e di sicurezza e gli investimenti pubblici e privati, tenendo anche conto delle organizzazioni non governative. Per ogni operazione potrebbe essere costituito un gruppo di lavoro interministeriale che, con un approccio il più possibile informale, dovrebbe assicurarne, fin dall’impostazione, la gestione e il monitoraggio con conseguente circolazione delle informazioni. Senza mettere in piedi faragginosi e costosi carrozzoni, si potrebbe cercare di rafforzare il ruolo di questi gruppi di lavoro con alcuni piccoli accorgimenti: assegnarne la responsabilità ad un dirigente di fiducia del Governo che, possibilmente libero da incarichi amministrativi, possa seguire i lavori a tempo pieno e che, sulla base della sua nomina da parte del Presidente del Consiglio, riesca a superare la barriera delle singole competenze ministeriali; indicare il Ministro di riferimento per la singola missione (anche tenendo conto della sua evoluzione) che possa operare a nome dell’intero Governo; fare in modo che sia data continuità all’informazione verso il Governo e il Parlamento in modo da favorire il loro massimo coinvolgimento.

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6.6 Nell’auspicata definizione di una procedura un altro elemento dovrebbe essere rappresentato dal fattore temporale. In primo luogo la decisione deve, infatti, riguardare il “quando” di un intervento. Anche in questo caso vi è un aspetto militare legato alla disponibilità delle forze da impiegare e un aspetto politico legato alla valutazione di ordine generale in termini sia di politica interna, sia di politica estera. In secondo luogo vi è il problema del “fino a quando”. E’ un aspetto molto delicato e che, fino ad ora, non si è potuto nè saputo affrontare adeguatamente. In assenza di un’effettiva capacità di controllo da parte del Parlamento nei confronti del Governo, nel campo delle missioni internazionali il ruolo parlamentare si è concentrato sul loro finanziamento. Questa impostazione ha dato luogo a tre conseguenze negative: ha impostato la discussione sugli aspetti di dettaglio della missione anziché sugli aspetti generali; ha costretto a ridiscutere con eccessiva frequenza gli obiettivi delle missioni; ha ridotto la proiezione temporale del nostro intervento, riducendone la credibilità nei confronti dei nostri partners, del governo locale e degli stessi gruppi armati che devono essere contrastati. Non si capisce perché le missioni, dopo l’iniziale approvazione in termini politici e, limitatamente al periodo che arriva alla fine dell’anno, in termini finanziari, non debbano essere inserite nel Bilancio annuale, seppur con carattere straordinario. Una volta varato il Bilancio, il dibattito dovrebbe rimanere sul piano esclusivamente politico, salvo eventuali nuovi riesami nel caso di sopravvenuti cambiamenti del quadro di riferimento. Per assicurare l’esercizio del potere di controllo del Parlamento, il Governo potrebbe fornire con regolarità le necessarie informazioni alle Commissioni competenti. 6.7 Se, come sembra auspicabile, l’Italia vuole continuare ad assicurare una sua adeguata partecipazione alle operazioni internazionali per il mantenimento e il ristabilimento della pace, bisognerà in qualche modo sistematizzare meglio questa attività. Solo uscendo dall’attuale impostazione caso per caso, riusciremo ad inquadrare le singole missioni in una strategia complessiva di perseguimento degli interessi nazionali e ad inquadrare la componente militare in una logica globale di intervento che, assicurandone una maggiore continuità, potrà valorizzare sia gli sforzi e i sacrifici delle Forze Armate, sia l’impegno del sistema paese.