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Quaderni del Laboratorio Montessori n. 3 – luglio 2016 Materiali didattici 2015-2016 ISSN: 1974-8787 © 2016 Lorenza De Simone, Gianluca Di Legge, Fabio Falleni, Edoardo Girardi, Antonio Parisi

Quaderni del Laboratorio Montessori n. 3 – luglio 2016 · pansofia, una scienza universale. Del 1633 è Schola materni gremii o Schola infantiaee nel 1636 è nominato rettore al

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Quaderni del Laboratorio Montessori

n. 3 – luglio 2016

Materiali didattici 2015-2016

ISSN: 1974-8787

© 2016 Lorenza De Simone, Gianluca Di Legge, Fabio Falleni,

Edoardo Girardi, Antonio Parisi

Materiali didattici 2015-2016

Lorenza De Simone

Lo spirito riformista di Comenio

Gianluca Di Legge

Willkommen Übermensch

Fabio Falleni

Agostino. Dal platonismo cristiano alla dottrina della grazia

Edoardo Girardi

La questione pedagogica nella critica omosessuale di Mario Mieli

Antonio Parisi

La soluzione del labirinto Visione del mondo e ideale educativo di J. A. Comenius

Quaderni del Laboratorio Montessori

n. 3 – luglio 2016

Materiali didattici 2015-2016

ISSN: 1974-8787

© 2016 Lorenza De Simone

Materiali didattici 2015-2016

Lorenza de Simone

Lo spirito riformista di Comenio

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Lo spirito riformista di Comenio

di Lorenza De Simone

2

1- Un’esistenza travagliata

Johann Amos Komenski (latinizzato in Comenius, 1592-1670), considerato il fondatore della

pedagogia sistematica, espose le sue tesi pedagogiche innovative nell’opera Pampaedia. Tale

testo, secondo quanto riportato dal filosofo e slavista Cyzevskij, il quale ritrovò quest’opera nel

1935 negli archivi dell’orfanotrofio “Francke” ad Halle in Germania (dove fu tradotta in italiano per

la prima volta), doveva essere la quarta parte di un’opera maggiore che rimase incompiuta: De

rerum humanarumemendationeconsultatiocatholica (Deliberazione universale sulla riforma degli

affari umani).Probabilmente l’autore nel 1656 aveva già steso il progetto dell’opera ma la

redazione definitiva è postuma, del 1677; infatti alcuni dei capitoli finali sonorimasti inconclusi e

alcune parti figurano solo sotto forma di appunti.Quando Comenio lasciò la Polonia dopo un

incendio in cui perse tutto il suo patrimonio e si diresse in Olanda, aveva già concepito la base

della sua opera.

Per comprendere meglio le opere del filosofo bisogna sicuramente tenere presente la sua vita

travagliata. Nato a Nivnice in Moravia nel 1592 da una famiglia aderente alla comunità cristiana

“Fratelli Boemi”, rimase orfano a 10 anni e con l’aiuto della“Unità dei fratelli” continuò i suoi studi

a Prerov, nell’accademia teologica di Herborn(1611) e nell’università di Heidelberg (1613). Nel

1616 ordinato sacerdote, si trasferì a Fulnek per il ministero di pastore e ispettore scolastico

(1618-1621).

A seguito della sconfitta protestante nella battaglia della montagna Bianca (1620), dovette lasciare

la città: infatti per l’ordinanza di persecuzione indetta dall’imperatore Ferdinando II d’Asburgo,

vincitore di tale battaglia, Comeniocostretto all’esiliosi rifugiò a Leszno in Polonia (1628); con la

distruzione della città di Fulnekegli perse tutti i suoi beni, inclusi i manoscritti e la biblioteca. A

causa di una pestilenza, poi, dovette affrontare la perdita della moglie e dei due figli (1622-1623).

A questo periodo così tragico risalgono le opere consolatorie, come Il labirinto del mondo e Il

paradiso del cuorein cui egli vedeva Dio come l’unico centro di sicurezza. Nel 1627 ci fu quella che

può essere considerata la svolta pedagogica all’interno della sua vocazione religiosa evangelica.

Probabilmente a seguito della lettura dellaDidacticadi Elias Bodin, Comenio decise di riprodurne

una simile nella sua lingua; del 1631 è Junualinguarumreserata-del 1628-1632 Didaktikacekà, in

cui dopo una visione pessimista si apre a una più ampia prospettiva di riforma politica e religiosa

attraverso l’educazione. L’opera nel 1657 venne pubblicata in latino come Didactica magna.

Nel 1628 Comenio, coniugatosi nuovamente, lascia la città e si rifugia e Leszno in Polonia dove

rimane fino al 1656. Leszno fu per il filosofo la città in cui maturò e arricchì le sue tesi e progettò la

pansofia, una scienza universale. Del 1633 è Schola materni gremii o Schola infantiaee nel 1636 è

nominato rettore al ginnasio della città. Nel 1641-1642 viaggiò prima verso Londra dove scrisse Via

lucis, poi decise di andare in Svezia e in viaggio verso Amsterdam incontrò Cartesio.

Abbiamo già anticipato che in questi anni il filosofo preparava l’opera incompiuta De rerum

humanarumemendationeConsultatiocatholica. Nel 1648, con la pace di Westfalia, Comenio tornò a

Leszno; lì morì la moglie lasciando cinque figli. Si sposò per la terza volta e andò in Ungheria ma

non trovando collaborazione degli insegnanti per il suo progetto ritornò a Leszno, che nel 1656

venne distrutta perdendo tutto ciò che aveva. Nell’ultimo periodo della sua vita si rifugiò ad

Amsterdam dove,tra delusioni politiche e polemiche religiose, morì il 15 novembre 1670.

3

L’appartenenza alla comunità dei Fratelli Boemi fu un fattore determinante nella sua vita e nel suo

pensiero; la Chiesa dell’Unione, la quale si basava sulla tradizione hussita, predicava un ritorno ai

veri valori evangelici in opposizione alla Chiesa di Roma, ritenuta avversa agli ideali di austerità e

povertà e dalla quale siera distaccata definitivamente nel 1467. I Fratelli Boemi combattevano le

discriminazioni sociali, le intolleranze religiose e cercavano un coinvolgimento delle classi più

povere ed emarginate.D’altra parte la sua concezione pedagogica è strettamente connessa al suo

ideale religioso: concepisce l’uomo e la natura come manifestazioni di un disegno divino. Dio è al

centro del mondo e della vita stessa dell’uomo; lo stesso Comenio si è sempre considerato

theologus proprio per il suo tentativo di interpretare e concretizzare la volontà divina.

Quest’ultima può essere compresa attraverso i tre libri ad essa attribuibili: la natura, la mente

umana e la Bibbia, che detiene il primato. Secondo queste tre direzioni si sviluppano gli studi degli

individui e quindi gli interessi del filosofo, il quale non trascura neanche le scienze naturali e la

matematica.

2- La tesi dell’educazione/formazione universale

Fin dal primo capitolo della PampaediaComenio spiega che con essasi intende l’educazione

universale di tutta l’umanità. Difatti il progetto è quello di una istruzione generale estesa a tutti,

superando ogni discriminazione di sesso, classe sociale, religione, nazione: un’idea di natura

umana chiaramente moderna e innovativa. Desidera educare tutti in tutto in modo totale, in tutte

quelle discipline che perfezionano gli esseri umani, per rendere al più alto grado gli uomini

conformiall’immagine di Dio.Così come riassunto dal filosofo, occorre che “vengano istruiti

all’universale cultura: 1) Tutti gli uomini; 2) intorno a TUTTE LE COSE; 3) affinché divengano colti

TOTALMENTE”1, concetto già espresso nella Didactica magna con l’espressione omnibus

omnesomnino. Quindi ogni individuo deve tendere a una formazione più esaustiva e integrale

possibile per realizzare il piùalto grado di umanità (pansofia); perciò prevede un apprendimento

che accompagni tutta la vita dell’uomo, dall’utero materno fino alla morte. La pansofia, come

formazione completa dell’uomo, si realizza attraverso la pampaedia; infatti la Pampaedia è

collocata nella parte centrale della Consultatio, ciòindica come il problema educativo, la

componente pratica a cui il sapere tendeva, occupi un ruolo fondamentale in Comenio.

Egli infatti definisce la pampaedia come “la via spianata per far discendere la luce dalla pansofia

nei pensieri, nei discorsi e nelle azioni degli uomini. Ovvero è anche l’arte di trapiantare la

sapienza nelle menti, nelle lingue, nei cuori e nelle mani di tutti gli uomini”2.

Il pedagogista è consapevole del carattere rivoluzionario delle sue tesi e per questo motivo spesso

preferisce ripetere i concetti per renderli maggiormente chiari, utilizzando metodi espositivi

schematici. Sotto questo aspetto probabilmente risente della sistematicità di Bacone,

dell’importanza di adottare un metodo quanto più scientifico possibile. Infatti proprio

nell’educazione è essenziale il metodo da seguire che deve tener conto delle caratteristiche e

1COMENIUS J.A., Pampaedia, Armando Editore, Roma, 1968, pag. 25

2Ibidempag. 27

4

dell’età di ciascun alunno; deve essere “a misura dell’allievo” ispirandosi ad alcuni principi

essenziali: graduare i contenuti dell’insegnamento a seconda delle fasi della vita, perseguire l’idea

di insegnare dilettando, privilegiare l’insegnamento collettivo rispetto a quello individuale, non

intimidire gli studenti con un numero eccessivo di nozioni da imparare ma cercare di partire dal

facile per poi arrivare al complesso, ed altre tesi che espone nell’opera.

Nelle sue esposizioni si può cogliere qualche analogia con il pensiero di Bacone anche nell’intento

di voler realizzare un’opera utile per la patria, un sapere universale in grado di superare ogni

barriera sociale forse anche in riferimento alla difficile situazione storica di quel periodo segnata

da guerre religiose e da dispute filosofiche dogmatiche che non offrivano alcun contributo

intellettuale.

L’istruzione deve essere rivolta a tutti gli esseri umani indistintamente, in quanto ciascuno ha

davanti a sé la stessa possibilità di vita.E deve riguardare tutte le cose che possono rendere la vita

dell’uomo sapiente e felice. Queste principi per Comenio si possono racchiudere in quelli che “il

saggio Salomone riscontrava in quattro animaletti sapientissimi: 1) la provvidenza per il futuro,

2)la prudenza per il presente, 3)lo spirito di concordia, 4) il bisogno di armonia, di regolarità”3. Se

gli uomini apprendessero tali fondamenti diverrebberopansofi, ovvero totalmente sapienti.

Occorre educare tutti gli esseri umani affinché Dio raggiunga il suo fine, ovvero creare uomini a

sua immagine e somiglianza.Assecondando tale intenzione le creature devono adoperarsi per

vivere secondo i dettami della ragione, di cui sono fatti dono. È necessaria quindi un’istruzione per

rendere utilizzabile il dono che hanno ricevuto; per questo motivo occorre educare gli uomini ad

usare bene le cose e i mezzi che hanno a disposizione, in modo che il mondo ritorni ad essere il

Paradiso perduto. Un simile compito, se realmente ispirato e ricercato, si rivelerà più facile del

previsto.

Il desiderio di un tale sapere pervase sia i Greci che lo definirono“Enciclopedia” sia i Romani che lo

chiamarono doctrinarumorbis(sfera della scienza). Lo stesso Comenio cercherà di prospettare un

sapere universale. Quando afferma di voler insegnare tutto a tutti non intende l’intero scibile

umano ma ritiene che tutti debbano conoscere i principi fondamentali della conoscenza, della

natura e della morale, secondo un ideale di educazione che sia culturale, linguistico, morale e

teologico. Tuttigli individui sono in grado di differenziarsi dalle bestie per la ragione, per il

linguaggio e per la libera attività,intesa come capacità dell’uomo di portare a compimento i propri

progetti. Essi si relazionano con gli esseri a loro inferiori, con gli altri uomini e con Dio. Il filosofo

esplicita le prerogative della natura umana che si riducono a 5 elementi: “1) essere capaci di

pensare e quindi di sapienza; 2) essere capaci di parlare e quindi di eloquenza; 3) essere in grado

di agire; 4) essere buoni di costumi e modi civili; 5) infine per grazia di Dio essere pii in questo

mondo e, per l’eternità, essere, per sua grazia, degnidi coabitare beatamente con Lui”4.Nell’animo

dell’uomo sono innati i desideri di conseguire la sua completa perfezione; occorre insegnargli ad

amare la vita presente in modo da augurarsela eterna, ovvero fare in modo che se qualcosa segue

la vita, sia anche essa vita e non morte. Qui infatti nell’esprimere questa esigenza assoluta il

3Ibidem pag. 25

4Ibidempag. 50

5

filosofo pronuncia un’affermazione molto impegnativa: “D’altronde, se attraverso la vita si

dovesse giungere alla morte, sarebbe stato meglio non nascere”5. Non è sufficiente essere

semplicemente inseriti nel tutto ma l’uomo si deve innalzare a Dio; essendo libero può rifiutare di

attendere al suo fine ma in tal caso degenera in “non uomo”. Per evitare questa deriva occorre

seguire una retta educazione e in tale prospettiva il filosofo dispensa consigli diversi e diretti. Per

esempiosuggerisce di mantenersi in salute: infatti come indicava il poeta Giovenale- che egli

riprende - “Si deve pregare affinché sia una mente sana in un corpo sano”6.

Si può notare come l’opera di Comenio sia ricca di citazioni tratte dalla Sacre Scritture, da poeti e

filosofi del passato. Ciò anche perché oltre a voler rappresentare un vero e proprio manuale di

pedagogia, sembra voler enunciare delle massime esistenziali e spirituali. Non bisogna essere

passivi all’obbedienza altrimenti si rischia di fare violenza sulla natura umana, ma nemmeno

attribuirsiun eccesso di autorità dimenticandosi di essere uomini. Èquesto un invito ad essere

attivi e amanti del lavoro, ad utilizzare bene la libertà del volere. L’individuo per sua natura è

portato a cercare di conoscere in anticipo gli eventi e tenta di essere non solo uno spettatore ma

anche un giudice; però prima di giudicare le cose dovrebbe averle comprese bene equindi fruire

della libertà solamente una volta che sia in grado di distinguere il bene dal male.

Per Comenio è auspicabileche gli uomini posseggano beni materiali a sufficienza, ciascuno secondo

la propria necessità, e perciò bisogna insegnare a tutti l’arte di arricchirsi, saper bastare a se stessi,

non vivere in miseria e non aspirare alle cose altrui. “Il mondo sarebbe tranquillo se tutti vivessero

contenti di se e delle loro cose, se nessuno facesse lite per il mio e per il tuo!”7. Come suggerisce

l’autore nel corso dell’opera, bisogna fare in modo che gli uomini non vivano nel bisogno ma

piuttosto nell’abbondanza. In tre modi ci si può arricchire: pregando, lavorando e

accontentandosi. Si deve pregare ma non aspettarsi che i doni piovano dal cielo bensì ottenerli con

il lavoro e la fatica, come dice la Verità. “Chi cerca troverà e a chi bussa sarà aperto”8.“Cerca il vero

onore che siede sul trono della virtù”9.Seguendo tali principi gli uomini potrebbero vivere in

tranquillità. Sicuramente l’insegnamento più importante(oltre a quelli di essere eloquenti, di

imparare i buoni costumi) è quello di instillare negli animi il sentimento religioso, essendo questo

l’anima di tutta l’istruzione e di tutta la nostra vita. Bisogna incominciare da quando si è piccoli,

prima che l’anima assorba qualche corruzione; successivamente è importante mantenersi occupati

in attività buone per non avere il tempo di peccare ed è consigliabile anche frequentare le buone

compagnie per non farsi indurre in errore.

3- Il metodo di conoscenza

L’autore nel corso del testo espone il metodo per comprendere ogni cosa: si parte dai sensi che

permettono all’individuo di entrare in contatto con il mondo esterno e con tutte le cose che gli

appartengono. Si passa poi alla ragione che viene considerata come la porta attraverso la quale

5Ibidempag. 52

6Ibidempag. 53

7Ibidempag. 55

8Ibidem pag. 68

9Ibidempag. 69

6

l’uomo entra in contatto con se stesso, come immagine di Dio, e trova dentro di sé i numeri, le

misure e i pesi che gli servono a penetrare nel cuore delle cose. Infine vi è la fede che permette il

contatto con Dio e la sua eternità. Il filosofo paragona il suo metodo di conoscenza a quello di

Aristotele. Tuttavia afferma anche di non essere del tutto soddisfatto del confronto con la tesi

aristotelica: Aristotelesostiene che nella nostra mente nulla sia innato, tutto può essere impresso

(con l’aiuto dei sensi, della ragione e della fede). Famosa l’analogia di Aristotele della mente con la

tabula rasa. Maè proprio questo paragone causa di conflitto con la tesi di Comenio: essendo la

tabula (tavola) un oggetto materiale finito, questa ha una capienza limitata; la vera mente umanaè

invece infinita, in quanto creata dall’essere infinito. Per un dono così incommensurabile si deve a

Dio una infinita gratitudine: il Signore ha fornito l’uomo di un corpo e di sensi limitati ma di una

mente in grado di penetrare elevate conoscenze. La capacità di apprendimento e la memoria

umana hanno potenzialità pressoché infinite. Queste tematiche, come anche quella

dell’immaginazione come strumento di verità, sono di stampo rinascimentale e infatti risentono

degli influssi esercitati dalla filosofia di quel periodo. Tali argomentazioni saranno considerate

fantasticherie e finzioni nell’età moderna in cui prevarrà il dominio della ragione matematica come

fonte di verità (come avviene nel razionalismo cartesiano).

Riguardo al metodo di conoscenza rappresentato da Comenio si può cogliere anche un riferimento

a Bacone sia nel sottolineare il valore primario della conoscenza dalla natura immediatamente

percepibile dalle intuizioni sia nel voler cogliere l’essenza stessa della realtà. Tuttavia occorre

essere educati non all’apparenza, che in passato ha portato l’umanità in errore, ma alla verità, che

sarà utile a questa vita e a quella futura. “Bisogna che tutto ciò che agli uomini viene insegnato ed

essi apprendono, sia: 1) non parso o parziale, ma unitario e totale; 2) non superficiale e apparente,

ma profondo e reale; 3) non amaro ed ostico ma dolce e gradevole e, perciò, duraturo”10.La

conoscenza vera è necessaria, possibile e facile; purché l’impresa sia affrontata con pienezza di

ragione.L’errore nasce dal fatto che gli esseri umani sono così desiderosi di conoscere il vero che

credono anche nel falso quando si presenta celato sotto l’aspetto della verità. Quindi essi

reputano il falso solo perché pensano che sia vero. All’individuo(dotato di intelletto, volontà e

memoria) è stato donato uno spirito di infinita capacità ma sebbene l’uomo abbia una mente

dotata di possibilità infinite ha orrore dell’infinito, cioè della sua incapacità di poter circoscrivere e

determinare le cose. Una soluzione è presentare le cose nei limiti precisi della propria essenza;

infatti per Comenio la vera felicità consiste nel godere dei veri beni, “tanto che chi possiede pochi,

ma veri beni, è meno distratto e molestato, e riposa e gode di più essendo meno esposto al timore

di perderli”11.Se si tengono a mente le vere cose importanti, di conseguenza si allontanano dalla

vista le occupazioni futili e mondane.

4- La “riforma” della scuola

Il filosofo nel quarto capitolo esprime l’esigenza di creare scuole universali come istituti culturali

per erudire tutti, la PANSCOLIA. In questa parte infatti ribadisce uno dei punti essenziali del suo

10

Ibidempag. 76 11

Ibidempag. 86

7

pensieroecioè che l’educazione si svolge in tutte le fasi della vita, con modalità diverse per

ciascuna fase. Queste scuole saranno a vantaggio di tutto il genere umano, verranno costruite in

ambienti con piacevoli giardiniproprio per rievocarenegli uomini l’immagine di Dio. Del resto

l’orientamento religioso di Comenio si riversa in un preciso disegno pedagogico definito da una

specifica visione antropologica e un altrettanto chiaro indirizzo gnoseologico. Si coglie nelle parole

chiaveusate dall’autore l’utilizzo del prefisso greco “pan” da applicare a tutte le possibili

dimensioni di intervento e di espressione umana proprio per sottolineare il suo ideale di globalità

e universalità.Come appare evidente la stessa parola “pampaedia” è composta da “pan”, che

significa universalità, e “paideia”, ovvero educazione e disciplina.

Per apprendere ogni cosa saranno necessari dei libri che contengano tali informazioni, ovvero

PANBIBLIA; l’educazione si realizza attraverso lo studio di tutto il sapere, non in forma

enciclopedica, ma in maniera sistematica e facendo costante riferimento ai tre regni della

conoscenza: il mondo, la mente e la rivelazione. Per raggiungere lo scopo prefissato ci sonomaestri

universali I PANDIDASCALIA, che sono in grado di dare tutto a tutti, in tutti i modi.

L’apprendimento seguirà i criteri dell’universalità (dando tutto a tutti), della semplicità (attraverso

mezzi certi) e della spontaneità (facendo tutto dolcemente e piacevolmente come un gioco).

Affermato il bisogno di scuole, libri e maestri, tali temi verranno affrontati nello specifico nei

capitoli successivi (quinto, sesto e settimo).

Comenioritiene che tutta la vita sia una scuola, dalla culla al sepolcro. È ripresa infatti una massima

di Seneca per cui “nessuna età è troppo tarda per imparare”12.L’essere umanoin qualunque età

avrà qualcosa da studiare. Le fasi della vitaumana sono divise in sette età: la prima comprende il

concepimento e la formazione nell’utero materno, la seconda la nascita e poi l’infanzia, la terza la

puerizia, la quarta l’adolescenza, la quinta la giovinezza, la sesta la maturità, la settima la vecchiaia

a cui subentra la morte. A seconda della fase della vita per perfezionare gradualmente l’individuo

occorrerà istituire sette scuole,che seguiranno propri metodi e raggiungeranno specifici obiettivi

(nella Pampaedia prevede altre quattro scuole rispetto a quelle che aveva già presentate nella

Didactica magna). “Il luogo della prima scuola sarà ovunque gli uomini nascano; dalla seconda in

ogni casa; della terza in ogni villaggio; dalla quarta in ogni città, della quinta in ogni regno o

provincia; della sesta in tutto il mondo; della settima ovunque si trovino uomini più longevi. Le

prime due potranno dirsi private, la cui cura incombe privatamente ai soli genitori; le tre di mezzo,

scuole pubbliche sotto il controllo della Chiesa e dei magistrati; le ultime due personali; essendo

ciascuno giunto a tale grado di maturità da poter e dover egli stesso essere l’artefice della propria

fortuna affidato come è a Dio e a se stesso”13.Comenio sottolinea l’esigenza di aprire scuole

ovunque, in tutte le citta e i paesi. Tali affermazioni rappresentavano dei giudizi critici verso la

condizione del suo tempo dove le scuole erano poco diffuse. Le scuole primarie mireranno

anzitutto a insegnare a leggere e a scrivere; poi le arti della vita dovranno saper orientaregli

individui verso i veri compiti della vita:la gioventù andrà educata a una sana moralità e come detto

precedentemente, al sentimento religioso. È importante che i giovani siano istruiti collettivamente

sia per formarli in modo unitario, sia per conseguire economie di lavoro e di denaro assumendo i

12

Ibidempag. 89 13

Ibidempag. 92

8

migliori insegnanti non per i singoli ma per tutti. Comenio auspica quindi che si realizzino scuole

pubbliche dove i nobili si mischino con i plebei.Egli consideral’esistenza didifferenze tra le persone,

per età, per cultura ed esperienza di vita;proprio per questo i maestri non dovranno mai mancare.

“Poiché insegnare agli altri niente altro è che andare innanzi con la parola e con l’esempio a quelli

che devono apprendere. Perciò basta solo che uno vada innanzi perché già vi sia una scuola e

l’istruzione proceda: quello stesso modo in cui procede una costruzione, quando il costruttore

mette mano a disporre con arte il legame o la calce”14.

Le scuole a cui si riferisce l’autore sono delineate come piccoli paradisi, gradevoli a vedersi sia

all’interno che all’esterno, dove si dibatte e si riflette su diverse questioni; prefigurandoun’idea di

scuola come fosse un gioco, viene ripreso il detto di Orazio: “Ottiene unanime consenso chi ha

saputo mescolare l’utile al dilettevole”15.Al loro interno verrebbero trattate le cose materiali, sia

quelle intellettuali e spirituali (cioè di fisica, metafisica e iperfisica) tutte insieme per tutte le sette

età della vita partendo dai fondamenti e dai principi di base e progredendo man a mano. Una

scuola facile come altrettanto facile il suo metodo (dalla teoria, alla pratica e infine all’utilità).

Forse questa visione ricorda l’aspirazione di Giordano Bruno verso un sapere universale e

armonico, sempre secondo un ideale scientifico. La pansofia umana rappresenterebbe la pansofia

divina, un mondo armonico creato a immagine della sapienza divina che può essere compreso

ripercorrendo i gradi dell’essere.Spesso appaiono evidenti i riferimenti e le fonti a cui si ispira

l’autore: Platone, Agostino, filosofi rinascimentali, Campanella, Galileo e altri.

5- Mezzi e modalità dell’apprendimento

Nel capitolo sesto,intitolato Pambiblia, è affrontatoil tema degli strumenti e dei mezzi utilizzati per

tale impresa educativa. Per questo motivo egli sostiene che il capitolo si possa chiamare

PANORGANIA, “in quanto tratta dei mezzi che servono a forbire gli ingegni, e qui si insegnerà ad

usarli: 1) anzitutto le cose presentate immediatamente ai sensi; 2) di poi le RAPPRESENTAZIONI,

dipinte o scolpite, delle cose; 3) infine, le DESCRIZIONI delle cose fatte con il discorso, le quali noi

chiamiamo LIBRI”16.Per PAMBIBLIA si intende “l’apparato di libri destinati alla cultura universale,

organizzato secondo le leggi di un metodo universale”17.Il filosofo qui ribalta un luogo comune

secondo il quale per essere saggi bisogna leggere molti libri.Egli ritiene che siano necessari solo

trelibri: il mondo con le sue opere intorno a noi, la mente dentro di noi e infine le rivelazioni

avvenute prima di noi e le riposte nelle Scritture. Ma questi libri sono destinati a coloro che sono

ormai sapienti; per gli altriuomini vi sono dei libri, pochi e di ridotte dimensioni, per ciascuna

età.Occorrono testi semplici e redatti con la massima cura,che utilizzano la forma platonica del

dialogo di modo che lo scolaro impari a interrogare e a rispondere, mettendosi sia nei panni

dell’esaminatore che in quelli dell’alunno; la forma dialogica è ritenuta la più efficace per

l’apprendimento dei giovani.

14

Ibidempag. 99 15

Ibidempag. 153 16

Ibidempag. 103 17

Ibidempag. 103

9

Comenio invita a pubblicare solo le scoperte nuove e utili, tralasciando le nozioni già note, ed

evitando così la diffusione di testi ripetitivi che non fanno altro che confondere le idee. I nuovi libri

dovranno essere scritti con il metodo della matematica, ovvero saranno atti a dimostrare e

saranno frutto di certissima esperienza. Ma per giungere alla sapienza non saranno solo necessari

libri idonei ma occorrerà anche applicare un buon metodo (indicato da Dio stesso) che verrà

esposto da insegnanti pampedici che sapranno formare tutti gli uomini in tutte le cose. Tali

maestri saranno in grado di restaurare negli uomini l’immagine perduta di Dio secondo

l’universalità, la semplicità e la spontaneità dei suoi insegnamenti. Nel corso dell’opera il

pedagogista tende a sottolineare che la scuola che prospetta dovrà essere una scuola-gioco e il

motto che racchiude i suoi principi è esplicitato nell’istruire tutti, in tutte le cose, universalmente

(Omnes, Omnia, Omnimode). Insiste proprio sul fatto che tutti gli esseri umanisaranno istruiti in

tutte le cose che perfezionano la natura umana, in modo totale ed esaustivo (un insegnamento

solido, spontaneo ovvero realizzato con piacere, e completo); di fatto egli desidererebbe realizzare

una vera riforma scolastica e culturale.Tutti gli esseri umani in quanto creature del Signore

portano in sé quel carattere spirituale-divino che attribuisce loro l’eguaglianza di tutti gli uomini

(uomini e donne, ricchi e poveri). Sicuramente all’epoca di Comenio,in cui la maggior parte della

popolazione era contadina e analfabeta, la discriminazione nell’accesso al sapere tra i pochi

privilegiati e i molti ignorantiera molto evidente, ciò che per il filosofo costituisce un’offesa a Dio

stesso che ha creato tutti gli uomini uguali nel corpo e nella facoltà della mente.

Il metodo comprenderà il momento dell’analisi, della sintesi e della sincrisi(il giudizio

comparativo). Infatti una cosa, o meglio un concetto, per essere capito deve essere scomposto

nelle parti che lo compongono, distinto in tutti i suoi elementi, poi ricomposto nel suo insieme,

secondo ordine, e infine sottoposto al momento del confronto evidenziando le relazioni e

l’armonia tra le parti e le altre cose in rapporto al tutto. Il filosofo descrive le tre fasi del

conoscere: la prima è quella intuitiva, quando la cosa si presenta immediatamente ai sensi e

l’immagine si imprime nell’intelletto; segue la fase comparativa quando una cosa già conosciuta si

confronta con quelle simili, che si ripresentano nel corso della vita, evidenziando le differenze o le

somiglianze. Tale momento è quello che rivela un’armonia universale e mostra conoscenze non

immediatamente evidenti;l’ultimo grado della conoscenza è quello ideativo in cui a partire da

un’idea si mettono in relazione più idee che vi partecipano e che sono collegate tra loro.

Quest’ultimo grado rappresenta proprioquello della pansofia.Quindi l’insegnamento procederà

secondo una gradualità e un ordine logico, dal più generale al sintetico.

Fu Dio stesso a volere che l’uomo in quanto sua immagine fosse in grado di conoscere

eimparare.Comprendere però in un modo finito, ovverosenza possedere tutte le cose

contemporaneamente, ma l’una dopo l’altra, con gradualità.Le nuove conoscenze saranno

collegate a quelle precedenti in un rapporto di concatenazione: niente si presenterà all’uomo

come nuovo ma solo come una deduzione di ciò che l’ha preceduto. Un’impostazione didattica

non basata da un sovraccarico di nozioni ma fondata sull’intelligenza, ricavando il sapere non dai

libri ma dalla natura, come facevano gli antichi; il disegno educativo prevede un riferimento

costante agli oggetti, all’esperienza e al grande libro della natura.Il suo programma educativo,

caratterizzato da uno spiccato pragmatismo, riflette una pedagogia delle cose e non delle parole

10

(res, non verba). La cultura dispensata è solida, non superficiale e nemmeno faticosa. Quindi si

procederà con un metodo naturale e ciclico, caratterizzato dall’ampliamento delle conoscenze per

gradi, senza perdere di vista l’unità.Comenio ribadisce che una volta intrapreso uno studio bisogna

continuarlo fino a quando non sia compiuto e non siano apprese tutte le cose mediante la teoria e

la prassi. Una volta acquisita una conoscenza essa non sarà “disimparata”ma bisognerà cercare di

utilizzare tecniche per mantenere viva la memoria ed evitare dimenticanze. A questo scopo sarà

utile ignorare le cose senza valore di cui si occupa il volgo. Il pedagogista tenta di avvicinare le

persone allo studio e non allontanarle da esso, perciò ritiene che non siano necessari per

l’apprendimento castighi o punizioni né situazioni di ansia. Una scuola dove regna il piacere, la

spontaneità e non la violenza a significare un’opera di vera e propria denuncia contro tutti i

maltrattamenti scolastici delle scuole dell’epoca.

Una volta messi in luce i principi fondamentali, il resto della conoscenza si mostrerà in modo

naturale. Gli errori si commettono nel confondere le idee, nell’ingarbugliarsi nei discorsi e nei

pensieri complessi. Bisognerebbe imparare: “a) ad avere una percezione articolata, distinta, chiara

delle cose; b) ad esprimerle per mezzo delle parole; c) ad imitarle praticamente con la propria

opera”.18Un invito ad essere sempre attivi,ad impegnarsi e a partecipare nella scuola:in questo

modo il fanciullo, facendo ciò che desidera, diventa in un certo senso l’artefice del suo destino.

6- Il progetto di un sapere aperto a tutti

Un ulteriore innovazione concettuale di Comenio è l’idea di una scuola “geniturale”che fornisca

istruzioni per i genitori quando il figlio è ancora nel grembo materno. Egli invita a non procreare

se non all’interno di un matrimonio, secondo condizioni di salute e prudenza. Si uniranno in

matrimonio solo coloro che saranno in età matura per farlo (non fanciulli o adolescenti) evitando

così danni a se stessi e alla propria prole, e lo stesso varrà per i poveri, privi di mezzi, i quali non

sarebbero in grado né di mantenere se stessi né i propri figli. Moderna per l’epoca appare pure la

sua concezione di responsabilità dei genitori e di cura prenatale; infatti nel testo sono esposti

anche consigli utili per la madre in gestazione, come per esempio il suggerimento di non assumere

sostanze che potrebbero essere nocive per il bambino e consigli da seguire dopo la nascita, come

quello di allattare il bambino con il proprio latte. Tale scuola prenatale ha per obiettivo quello di

fornire ai genitori consigli utili sia sul piano morale che sul piano igienico-sanitario.Come si evince

già da questo capitolo nel disegno pedagogico sono importanti, oltre ai maestri, anche i genitorial

pari dei pastori della Chiesa, tutte figure che devono assecondare e indirizzare i giovani in un

corretto cammino.

Dal capitolo nono sono descritte le scuole delle diverse età: quella dell’infanzia, seguita da quella

del fanciullo che va dal sesto al dodicesimo anno di età. Nell’undicesimo capitolo tratta la scuola

dell’adolescenza, successivamente la scuola della gioventù equella della virilità. Infine gli ultimi

18

Ibidempag. 153

11

due capitoli trattano scuole per età di solito trascurate, quella della vecchiaia e quella della morte.

L’uomo è infatti mandato nel mondo come in una scuola, per prepararsi alla vita che segue e dalla

quale non si esce più per tutta l’eternità.

Fin dall’infanzia, considerata la primavera della vita, occorreimparare a servirsi della ragione e

ispirarsi ad adeguati modelli ed esempi del passato.E’necessario seminare fin da subito buoni

insegnamenti per raccoglierne i frutti successivamente; si deve tenere presente che il fondamento

dello Stato è proprio una retta educazione della gioventù. I genitori non dovrebbero perdere

l’occasione di educare i propri figli fin da subito, pena un danno irreparabile. La scuola

dell’infanzia, la più importante della vita, deve preoccuparsi di educare i sensi a rivolgersi

correttamente alle cose e ai buoni costumi, attraverso gli esempi, l’istruzione, la disciplina. Gli

insegnanti stessi dovranno essere da esempio, e se da un lato sarà opportuno evitare le situazioni

in cui l’alunno sia portato ad apprendere il male, dall’altro servirà avere una visione completa della

realtà, includendo perfino il male, per essere così in grado di orientarsi anche nelle situazioni

ambigue. Quello che Comenio prospetta in queste pagine somiglia, o per meglio dire richiamala

nostra odierna scuola materna che si rivolge ai bambini dai quattro ai sei anni.

Crescendo, gli alunni ormai fanciulli (dai 6 ai 12 anni) dovranno raggiungere nuovi obiettivi e

maggiori conoscenze, dal consolidare le attività del sistema motorio al miglioramento dell’utilizzo

del raziocinio, attraverso le fondamenta delle arti (aritmetica, musica) e con l’ausilio della fede

racchiusa nei brani della Sacra Scrittura. Molto dettagliatamente sono descritti i vari insegnamenti

(scrivere, fare i calcoli, storia e geografia, facili lavori manuali) secondo un preciso disegno

didattico che oggi risultadi stampomolto conservatore.Infatti appare rigida la visione secondo la

quale fin da piccoli occorre tenere presente il fine della propria vita, interrogarsi sulla propria

esistenza e sulla meta a cui si tende,una capacità contemplativa che contribuisce a distinguerci

dagli animalie dalle piante. L’uomo, essendo dotato di ragione, parola e capacità comunicativa, è

in grado di riflettere e di imporsi come soggetto attivo nella propria esistenza; l’individuo si pone

infatti come la più alta e perfetta fra tutte le creature dell’universo. Per questo motivo non deve

mai dimenticare il monito “Dimmi perché sei qui”, evitando di perdere del tempo utile, cercando

di organizzarlo nel miglior modo possibile. In queste pagine si consiglia di non interrompere mai il

dialogo con Dio e continuare a fare cose a Lui degne; lo stesso Comenio coglie una similitudine tra

il suo pensiero e quello di Campanella proprio per la sublimità dell’animo umano. L’idea di

Comenio è quella di una perfettibilità umana inesauribile che tende a conseguire l’armonia già

presente nell’universo creato da Dio. In ciò si può leggere la concezione dell’uomo come

microcosmo, come mondo che riproduce in sé l’insieme delle connessioni e delle dinamiche

presenti nel macrocosmo (tipica idea della cultura rinascimentale).

L’ordine e l’armonia, già presenti nel cosmo, devono invece essere conquistati dall’uomo.

L’educazione non farebbe altro che portare alla luce le potenzialità della natura umana, come si

evince dalla metafora del seme che potrà diventare un frutto; del resto anche la concezione

dinamica ed evolutiva della natura umana è tipica della filosofia rinascimentale. L’uomo essendo la

creatura più elevata ha come fine l’eterna beatitudine dell’unione con Dio alla quale ci si prepara

in questa vita.

Il filosofo se da un lato pone ai fanciulli mete cosi elevate e impegnative, dall’altro consiglia di

utilizzare nel metodo didattico indovinelli di argomento morale e religioso, favole e parabole

12

coniugando la rigidità con la spensieratezza tipica della giovane età, tentativo che appare però

piuttosto arduo. Tuttavia la regola generale nella scuola della fanciullezza è quella di trasmettere

una cultura generale a tutti, senza distinzioni, in modo da acquisire una preparazione generale di

base a prescindere dalla scelta di proseguire o meno gli studi.

La scuola dell’adolescenza (dai 12 ai 18 anni) è il ginnasio delle lingue (soprattutto quella latina) e

delle arti. Tale istituto si occuperà di ordinare le nozioni raccolte dai sensi attraverso il raziocinio

per rendere le ragioni di tutte le cose; il metodo sarà sempre quello del dialogo poiché rimane

essenziale l’arte del comunicare ma le nozioni si impartiranno in diverse lingue. In

questocontestoavranno luogo gli studi sulle lingue (quella latina, greca, ebraica e una o due dei

popoli vicini), le arti (quelle umane, le scritture) e i costumi (come l’arte di estirpare i vizi e radicare

le virtù). In queste pagine viene affrontato lo studio dei vizi, degli accorgimenti per evitarli o per

sconfiggerli sradicandoli fin dalle fondamenta e per mantenere una buona condotta, anche

cercando di stare lontani dalle cattive compagnie e dai vizi incui ci sentiamo maggiormente

coinvolti. L’insegnamento morale va tenuto presente per l’intera esistenza dell’uomo.

La scuola della gioventù (dai 18 ai 25 anni) invece si suddivide in tre parti: l’Accademia, l’Apodemia

e la scelta della professione. Per Accademia è inteso un concilio di sapienti, giovani studiosi e

professori che si dedicano alla ricerca e alla diffusione del sapere soprattutto in campo scientifico

e tecnologicoattraverso l’utilizzo di un vasto repertorio di libri. Lo scopo di questa scuola è la

conoscenza pura delle cose, definita una sorta di “giocosa sapienza

(«sapientialudens»)”19orientata alla prassi attraverso gli esperimenti. Assegnata tale finalità

aquesta istituzione, Comenio invita i filosofi a dedicarsi alle cose della realtà piuttosto che a vane

speculazioni teoriche: bisogna fare attenzione a non perdersi dietro ad astrazioni valorizzando

l’essere umano nella sua concretezza. Per lo stesso motivo l’autore, trattando il tema

dell’apodemia - ovvero il viaggiare all’estero come una componente importante e dilettevole

dell’istruzione pratica - ritieneche leggere troppi libri equivalga a viaggiare per tutta la vita

incontro a popoli stranieri.Occorre invece leggere solo determinate opere (magari scelte

attraverso le indicazioni di Cartesio in Contro Voezio, parte 1), come pure è opportunoritornare in

patria dopo aver trascorso del tempo lontano da essa, per partecipare alle problematiche del

proprio paeseerielaborare su se stessi le esperienze accumulate. Ancor prima di intraprendere un

viaggio, che deve essere utile e non futile, si deve possedere una cultura solida trascorrendo la

gioventù in patria; ma si tenga presente anche il monito “A te che vuoi conoscere i costumi del

genere umano basta una sola casa”20.Con questa espressione il filosofo, se apparentemente

sembra contraddirsi, in realtà non fa altro che invitare i lettori ad operare sempre secondo

prudenza e secondo il giusto mezzo, viaggiando non continuamente e facendolo in modo

organizzato, assimilando i costumi delle popolazioni che incontra affinché gli possano essere utili

in futuro. Allo stesso modo si consiglia di non trascorrere troppo tempo inseguendo le relazioni

sociali ma si ritiene,con ciò assecondando il pensiero di Seneca (“Molto fece colui che cominciò ad

essere amico a se stesso”21), chel’individuo prima di tutto debba trovare la giusta quiete con se

stesso per poi porsi in relazione con l’altro.

19

Ibidempag. 245 20

Ibidempag. 253 21

Ibidempag. 255

13

Insiste sul fatto che la vita stessa sia una scuola, denotando il forte carattere pragmatico delle sue

tesi. Un approccio che contraddistingue anche il capitolo tredicesimo, dedicato alla scuola della

virilità dove sono date indicazioni per vivere sviluppando a pieno le proprie capacità. L’individuo,

ormai maestro di se stesso, dovrà ancora nutrirsi dei libri e scegliere la propria professione una

volta per tutteattraverso un’analisi interiore delle sue personali inclinazioni.Poiché la scelta del

lavoro sarà determinante per tutto il resto della sua vita dovrà ponderare a fondole decisioni da

assumere in quanto l’attività lavorativa costituiràla funzione principale per ognuno.Le letture

devono essere adatte alla propria professione, basate sulla fama e celebrità degli autori selezionati

per la loro chiarezza, evitando di perder tempo per svelare testi arcani e indecifrabili.

Un’operazioneche esige attenzione eriferimento costante all’uso pratico. Quel che occorre

sicuramente è cercare di mettere a frutto ciò che si è appreso in gioventù, portando a buon esito il

proprio percorso di vita.Ancora una volta vi è qui una metafora molto lampante secondo la quale

la vecchiaia è paragonata all’inverno, un mese freddo in cui per sopravvivere occorrono le

provviste accumulate nei mesi precedenti. La fase virile permette di utilizzare al meglio le proprie

facoltà disponendo di tutto il necessario non solo per la vecchiaia, in cui ci si riposerà, ma anche

per prepararsi alla morte e alla vita futura. “Lo scopo della vita è la pace della vecchiaia e poi

dell’eternità”22.Si può apprezzarecome le fasi della vita siano paragonate alle stagioni più

appropriate: precedentemente infatti la giovane età era stata accostata alla primavera.

Comenio, nonostante una visione molto rigorista, sembra quasi invitare il lettore a vivere una vita

senza rimpianti né rimorsi:sottolinea infatti che l’unica regola fondamentale della sapienza pratica

è “Fa’quelle cose che, morendo, vorrai aver già fatte”23.L’uomo, oltre a Dio, dovrà fare

affidamento solo su se stesso e al suo lavoro costante, magari cercando sollievo negli studi.

La vecchiaia, ritenuta la più debole dell’età, in quanto fase finale ha bisogno di regole per non

vanificare il lavoro di una vita.Riflettere sulla propria fine soprattutto in questa fase è inevitabile

perché sebbene in ogni età si debba tenere a mente il proprio destino, solo nella vecchiaia la

morte appare imminente e non si può più cambiare la direzione del proprio percorso. Proprio per

il fatto di avvicinarsi al sonno eterno, la cosa più terribile per l’uomo, saranno utili dei buoni

avvertimenti, che Comenio racchiude in tre ammonimenti: “a) godere il frutto della vita

rettamente trascorsa; b) continuare ad agire rettamente per il resto della vita; c) chiudere

rettamente tutta la vita mortale e lietamente entrare nella vita eterna”24.Neanche quest’ultima

fase può ritenersi passiva: non è possibile dedicarsi all’ozio né al torpore; si potrà ricevere l’ausilio

della filosofia la quale insegna a morire bene. “Infatti, per morire non c’è bisogno di nessuna arte,

è una cosa spontanea ma morire bene è l’arte delle arti”25.Bisogna imparare a porsi nel modo

corretto verso l’eternità, tenendo sempre a mente che la morte è solo la fine di questa vita, una

tensione verso l’eternità. I modelli potranno rifarsi alle figure eroiche e degne di stima del passato

e naturalmente ai libri. Occorrerà assicurarsi che la nostra anima sia diretta verso il Cielo, che il

nostro corpo non patirà turbamenti nel transito ma potrà riposare in pace nel sepolcro e infine che

il nostro ricordo sarà conservato dai nostri cari. Il pedagogista consiglia di non impigrirsi nella

22

Ibidempag. 269 23

Ibidempag. 269 24

Ibidempag. 289 25

Ibidempag. 291

14

vecchiaia: cosa migliore sarebbe “morire in piedi” mentre si svolgono le proprie attività, facendo

attenzione a non affaccendarsi in attività vane e inutili, ma cercando magari di superare i propri

difetti e correggere i propri errori, espiare i propri peccati prima che ciò non sia più possibile,

prima della morte. Come rammenta infatti in più occasioni non bisogna imparare semplicemente a

morire, ma a “MORIR BENE”26, vivendo già una vita spirituale prima di viverla davvero; come se

non fossimo ancora incatenati dal corpo ma già spirito.

Leggendo il capitolo sulla morte si può concordare con Pasquale Camerota, autore

dell’introduzione del testo pubblicato nel 1968,nel ritenere questa parte non completa ma solo

una prima bozza. Cristiano Nigrino, del quale ci sono rimaste alcune lettere che egli scambiò con il

filosofo, lavorò sugli appunti conclusivi dell’opera ma semplicemente riportandoli, senza nessuna

aggiunta di sua iniziativa. Infatti l’inizio dell’opera era pronto per la stampa, mente le parti

conclusive erano solo sotto forma di appunti.

In quel poco che c’è del capitolo sulla scholamortissi sostiene che in realtà tale capitolo dovrebbe

riferirsi a tutte le fasi della vita, poiché il fine dell’umanità deve essere tenuto a mente da tutti gli

individui ad ogni età.

Le ultime due pagine dedicate alla conclusione della Pampaedia riportano una preghiera all’eterna

Sapienza, come si evince dal titolo. Si invoca la sapienza “increata”, che si è incarnata per essere

da esempio per gli individui e per guidarci verso comportamenti virtuosi, accogliendoci nelle sue

braccia e donandoci la sua benedizione eterna. Nella pagina conclusiva del testo si fa anche

riferimento a come si potrebbe superare l’ostacolo della confusione delle lingue fra i popoli,

ostacolo posto dall’indignazione di Dio.Il tema delle difficoltà linguistiche a cui l’autore era molto

legato lo spinge a giudicare molti equivoci e molti errori determinati proprio da problemi di

incomprensione della lingua.Comenio, anche in altre sue opere, assegna uno spazio rilevante allo

studio linguistico, basato sulla connessione tra parole e cose: imparare e conoscere una lingua

equivale a conoscere tutte le cose.

6- Riflessioni conclusive

La circostanza che il testo sia stato ritrovato solo nel secolo scorso, come ricordato in precedenza,

sicuramente spiega come l’eco del suo pensiero sia rimasto sotto tono.Certamentea ciò ha

contribuito anche la complessità delle sue tesi, in quanto Comenio si fa promotore di un pensiero

che per molti aspetti oggi potremmo definire d’avanguardia e che forse fa di lui uno dei fondatori

della moderna pedagogia. Argomenti, ragionamenti cheall’epoca dell’autore potevano apparire al

limite dell’utopia; solo successivamente si mostreranno come i presupposti per una nuova

impostazione pedagogica basata sull’idea che l’educazione/la formazione debbano essere

istituzioni pubbliche, organizzate per classi e aperte a tutti, sottolineando in questo modo

l’importanza sia dell’educazione femminile che addirittura di quella dei portatori di disabilità.Un

principio eversivo quello di insegnare tutto a tutti, visto con timore dalle classi dominanti del

tempo per le conseguenze che avrebbe potuto determinare sul piano politico, sociale ed

economico anche in considerazione dei costi dell’istruzione pubblica. Proprio questi

26

Ibidempag. 302

15

motivivengono posti a ostacolo dell’idea di un’alfabetizzazione di massa, teorizzata anche dalla

Riforma protestante. Solo con la rivoluzione industriale tale progettopoté trovare un’applicazione

concretapoggiando su un progresso di conoscenza di carattere tecnico-scientifico, oltre che di

carattere socio-culturale. Del resto,anche il concetto di eguaglianza della mente tra i sessisarà

affermato solo con la Rivoluzione francese.

Per il filosofo una buona educazione può esercitare un potere infinito e tangibile sulla società e

sull’uomo stesso. Proprio per questo laPampaediarisulta essere un manuale non solo pedagogico

ma esistenziale e spirituale. Sorprende come il testo risulti porsi a fondamento di una moderna

visione di apprendimento e allo stesso tempocome si basi su un’ideale di educazione che ricorda

molto la paidéia greca, intesa come trasmissione di un sistema di conoscenze e valori. Infatti è

come se l’autore tornasse a mettere in rilievo l’importanza di una cultura completa, collettiva,

quasi circondata da un alone di purezza, e la ponesse all’interno di un metodo di apprendimento

“scientifico” adeguato alla natura degli allievi, per la prima volta affrontando la materia

pedagogica in modo sistematico. Un disegno che punta ad uno sviluppo quanto più completodelle

potenzialità degli individui in quanto figure che rappresentano in grado inferiore l’onniscienza

divina.L’utopia di Comenio è stata quella di poter pervenire a simili risultati con semplicità e

chiarezza pur affrontando tematiche e situazioni assai complesse e difficili per il suo tempo.

Nonostante una vita così travagliata, che lo mise più volte nella condizione di rinunciare a questi

obiettivi, come ad esempio quello di realizzare un coinvolgimento di ricerca e fede, si sforzò per

tutta la vita di raggiungere questa meta.Segnati dalla grave situazione sociale europea gli ultimi

anni della sua esistenza saranno improntati ad una vena profeticaannunciando guerre violente, la

fine della chiesa di Roma e della Casa asburgica e poi un ritorno alla pace attraverso una nuova

riforma della cristianità.

Ciò che permane nel suo pensiero è un ideale di tolleranza unitaallo sforzo di realizzare una

concordia universale tra tutti i Cristiani in un periodo così difficile e violento, tema alla base della

Consultatiocatholica. Una tolleranzada perseguire attraverso una riforma delle Istituzioni e dei

costumicon la collaborazione dei singoli individui, delle famiglie, della scuola, della Chiesa e dello

Stato. Infatti per il filosofo, istruzione e moralità sussistono e procedono in parallelo. L’istruzione

insegna ad aspirare al bene;dedicandosi a letture adeguate – in primo luogo la Bibbia - si

prevengono i vizi e l’ozio. Ciò che emerge in modo costante è il ruolo che assumel’educazione,

giudicata un elemento essenziale nella vita dell’essere umano, una funzione così importante

dacontaminare la politica e la religione.In questo senso Comenioelaborauna riforma generale

dell’assetto sociale non focalizzandosi solo su un aspetto specifico della vita dell’uomo. Il suo

pensiero delinea una società di tipo aperta al contributo dei più e al tempo stesso inclusiva quanto

alla natura dei soggetti coinvolti. Per ciòstessoComenio può essere considerato uno dei primi

teorici dei “diritto allo studio”, un precursore di un sistema sociale capace di valorizzare ogni età

nel nome di un sapere universale.

La sua figura e la sua articolata e coerente elaborazione filosofica, per quanto poco apprezzata se

non addirittura screditata nel corso dei secoli, continua ancora oggi ad affascinare e a stimolare la

nostra riflessione critica.

16

17

BIBLIOGRAFIA

AA.VV.,Le garzantine Filosofia, Garzanti Editore, Milano, 2013 AA.VV.,Le nuove questioni di storia della pedagogia 2, Editore La Scuola, Brescia, 1977

ADORNO F., GREGORY T., VERRA V., Manuale di storia della filosofia 2, Editori Laterza, Bari, 1996 COMENIUS J.A., De rerum humanarumemendatione: consultatiocatholica,Editioprinceps Pragae: AcademiaeScientiarumBohemoslovacae, 1966 COMENIUS J.A., Pampaedia, Armando Editore, Roma, 1968 DE BARTOLOMEO M., MAGNI V.,Filosofia. Dall’umanesimo all’età della scienza, Tomo 3, Atlas, Bergamo, 2001 FORNACA R., Storia della pedagogia, La nuova Italia, Firenze, 1999

Quaderni del Laboratorio Montessori

n. 3 – luglio 2016

Materiali didattici 2015-2016

ISSN: 1974-8787

© 2016 Gianluca Di Legge

Materiali didattici 2015-2016

Gianluca Di Legge

Willkommen Übermensch

WILLKOMMEN ÜBERMENSCH

di

Gianluca Di Legge

Il dolore è anche un piacere, la maledizione è anche benedizione, la notte è anche un sole […] avete mai detto sì a un solo piacere? Amici miei, allora dite sì anche a tutta la sofferenza. Tutte le cose sono intrecciate, incatenate, innamorate, e se mai abbiate voluto 'una volta' due volte e detto << tu mi piaci, felicità! Guizzo! Attimo!>>, avete voluto tutto indietro! Tutto di nuovo, tutto in eterno, tutto incatenato, intrecciato, innamorato, oh così avete amato il mondo, voi eterni, amatelo in eterno e in ogni tempo: e anche al dolore dite: passa, ma torna indietro! Perché ogni piacere vuole L’Eternità!

(Così parlò Zarathustra, parte IV, Il canto del nottambulo)

1- L'uomo come animale metafisico

Io vi insegno l'oltreuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto per superarlo?1

Zarathustra è il portatore di un messaggio nuovo, quello di una oltre-umanità. L'uomo è qualcosa che deve essere superato, dice il profeta. Risulta dunque necessario riflettere sulla struttura fondamentale di questo uomo da superare.

Già da Umano troppo Umano comincia ad apparire in Nietzsche la tesi per la quale l'uomo risulta essere un animale metafisico. Tradizionalmente con il termine metafisica intendiamo una dimensione altra rispetto a quella della realtà, verso cui l'uomo si rivolge per trovare il senso da attribuire al non senso del reale. La metafisica, letteralmente “metá ta physiká” (oltre la fisica) indica una dimensione che trascende la realtà ed è distinta da questa. Come intendere allora l'asserzione secondo cui l'uomo è un animale metafisico? La metafisica è vista da Nietzsche in modo assolutamente radicale, essa non è una semplice dottrina o posizione filosofica ma va considerata come la forma stessa dell'uomo. L'uomo non può non essere metafisico. Ciò che caratterizza il concetto di metafisica è il fatto di essere duplicante. Ogni metafisica duplica il reale, e conseguentemente, se ne allontana. L'allontanamento dall'esistenza – ossia l'allontanamento dalla realtà in vista della vera essenza- della cosa è ciò che più appartiene alla metafisica.

Non si potrebbe infatti dire del mondo metafisico, se non che esso è un essere-Altro, a noi inaccessibile, inafferrabile.2

Tutte le classiche divisioni dicotomiche appartenenti alla storia della filosofia, come quelle di fenomeno-noumeno, mondo apparente-mondo vero, reale-ideale, altro non sono che un tentativo di allontanamento dall'effimero del mondo in continuo divenire, e un rivolgersi verso la stabilità del mondo ideale. Ora, in Nietzsche, è di fondamentale importanza capire come la metafisica sia una condizione che riguarda in primo luogo l'essenza stessa dell'uomo. L'uomo è concepibile solo in quanto essere metafisico, in quanto la metafisica caratterizza la sua forma. L'uomo è quell'animale che vede il cielo oltre la terra, che duplica il reale dando nomi alle cose, e non potrebbe fare altrimenti. Il platonismo caratterizza limpidamente il carattere più proprio dell'uomo. L'aspetto che più interessa, per comprendere come la condizione metafisica attenga alla “forma” dell'umano, è il suo carattere estraniante. L'allontanamento verso, è anche un'estraneazione da; cercare un mondo vero, un mondo più vero del mondo reale, comporta necessariamente una

1 Nietzsche Friedrich, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1976, p. 5. 2 Nietzsche Friedrich, Opere 1870/1881, Grandi Tascabili Economici Newton, Roma 2008, p. 524, Umano, troppo

umano, Vol. I, par. 9.

svalutazione di quella che è considerata apparenza. Tale svalutazione non è da intendersi ora in un senso morale; la svalutazione operata dalla metafisica è prima di tutto svalutazione ontologica. Ci si allontana dall'ente.

1.1- L'uomo come animale dotato di parola.

L'aspetto che più di tutti ci consente di descrivere la forma metafisica dell'uomo riguarda il linguaggio. Nel paragrafo 11 della prima parte di 'Umano, troppo Umano ', intitolato 'La lingua come presunta scienza', si legge:

Il significato della lingua per l'evoluzione della cultura consiste nel fatto che in essa l'uomo pose un proprio mondo accanto all'altro, un luogo che egli riteneva tanto solido da potere, appoggiandosi ad esso, scardinare il resto del mondo e farsene signore. In quanto l'uomo ha creduto, per lungo tempo, ai concetti e ai nomi delle cose come ad aeternae veritates, ha acquistato quell'orgoglio con il quale si è elevato al di sopra della bestia: nella lingua egli riteneva di possedere veramente la coscienza del mondo. Il plasmatore del linguaggio non era così modesto da credere di dare semplicemente designazioni alle cose, egli immaginava piuttosto di esprimere con le parole la più alta sapienza sulle cose; in effetti la lingua è il primo gradino dello sforzo verso la scienza.3

È il dare nomi alle cose l'atto che manifesta la costituzione metafisica dell'uomo. Nominare significa quindi duplicare il reale, non fare più i conti con le cose in quanto tali ma con le loro proiezioni linguistiche. Ogni rappresentazione linguistica, che consiste nel creare un mondo dietro il mondo, è già l'essenza stessa della metafisica, e proprio per questo produce uno scostamento estraniante dalla realtà. Criticare e comprendere la funzione e la portata del linguaggio è un passo fondamentale per criticare e riformare il rapporto che abbiamo con l'esperienza, la conoscenza, e quella che consideriamo realtà.4 Chi, secondo Nietzsche, credeva dunque di 'esprimere con le parole la più alta sapienza sulle cose', si sbagliava di grosso giacché non c'è verità alcuna nel linguaggio, o quanto meno, c'è una verità solo presunta.

Il linguaggio oltre ad essere un allontanamento dall'ente è anche uno strumento interpretativo con il quale l'uomo si approccia al mondo. Lungi dall'essere uno strumento neutro di espressione, le parole interpretano già sempre ciò di cui facciamo esperienza. Come sottolinea Stegmaier, per esempio, << le lingue indoeuropee, con la loro grammatica soggetto-predicato, potrebbero aver suggerito la distinzione metafisica fondamentale tra sostanze permanenti, che fungono da soggetti delle proposizioni, e proprietà variabili, che vengono predicate di questi soggetti>>.

Alla luce delle considerazioni fatte, ed essendo emersa una forte implicazione fra l'idea di metafisica e quella di verità, occorre analizzare in che modo si sviluppi la critica di Nietzsche nei confronti di questo concetto.

2- Il concetto di verità.

È possibile rintracciare, senza per questo doversi irrigidire in una schematizzazione regolamentante, una tendenza ottimistica della filosofia occidentale nei confronti del conoscere e delle potenzialità della ragione, che perdura grosso modo fino ad Hegel. Questa progressiva presa di coscienza della propria razionalità porterà alla celebre tesi secondo cui 'tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale'. La realtà viene vista nella sua sostanza razionale, e l'uomo, essendo dotato di ragione, può agire su di essa.

3 Ivi., p. 525, Umano, troppo Umano, par. 11. 4 Piazzesi Chiara, Nietzsche, Carocci editore, Roma 2015, p.166.

Con Schopenhauer inizia una parabola discendente della ragione nella quale viene meno la fiducia nelle possibilità dell'uomo di conoscere la realtà e, conseguentemente, una sfiducia nei confronti dell'agire pratico. Il pessimismo schopenhaueriano è accolto da Nietzsche, anche se, come vedremo, è riformulato in una chiave differente. Entrambi appartengono ad una filosofia che non crede più di poter attingere al vero grazie all'uso della propria razionalità.

Per Nietzsche infatti, il compito dell'intelletto, preceduto e seguito da eternità, non consiste in nessuna missione ulteriore, che conduca al di là della vita dell'uomo5. Solo degli essere presuntuosi possono credere di trovarsi al centro di questa eternità e di poter conoscere ciò che li circonda. In verità e menzogna in senso extra morale, è lo stesso filosofo a fornirci la spiegazione molto chiara di ciò che lui intende con il termine “verità”.

Che cos'è dunque la verità? Un esercizio mobile di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane, che sono sublimate, tradotte, abbellite poeticamente e retoricamente, e che per lunga consuetudine sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni, delle quali si è dimenticato che appunto non sono che illusioni, metafore, che si sono consumate e hanno perduto di forza, monete che hanno perduto la loro immagine e che quindi vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete.6

L'eco di queste righe è giunto fino ai giorni nostri. E ci è giunto attraversando un secolo, il Novecento, nel quale la filosofia, l'arte, la cultura in generale, sono state profondamente segnate dalle parole nietzscheane. Quello che Nietzsche sta sentenziando non è una semplice formula filosofica, bensì è dinamite in grado di distruggere duemila anni di certezze. Quando si legge che le verità sono degli antropomorfismi, 'in breve una somma di relazioni umane', emerge uno degli aspetti che più di tutti caratterizzano la vita secondo il filosofo di Ròcken: il suo essere una visione in prospettiva7. Ogni vita, e dunque, ogni conoscere e ogni sapere, sono essenzialmente prospettici, il che vuole dire, mai uguali. La verità certa e definitiva risuona ora come ora come un concetto chimerico. In questo gioco di prospettive e di interpretazioni la verità assume i connotati di un feticcio. Il rapporto feticistico nei confronti della verità, come già detto in precedenza, si realizza innanzitutto nel linguaggio, per il fatto di essere arbitrario e senza alcun aggancio con il reale.

Il tratto più inquietante della civiltà occidentale sta proprio nella venerazione indiscussa della verità e nel suo valore in quanto fine della vita umana. La fede nel valore della verità è vista da Nietzsche come una negazione del mondo della vita. Difatti la contrapposizione fra un mondo vero e un mondo falso porta alla svalutazione degli istinti vitali e fisiologici. Ecco un altro effetto del carattere estraniante di ogni metafisica. Risulta estremamente chiaro che la sua critica non ha di mira solo l'universo cristiano, ma anche gli atei, i moralisti e gli scienziati del sue tempo: tutte quelle figure, insomma, che sono legati a questa idea fondativa di verità. Sta proprio nell'esaltazione di questo mondo, della vita in tutti i suoi aspetti, il tratto di disgiunzione dal pessimismo schopenhaueriano. Entrambi arrivano alla tesi pessimistica dell'impossibilità di afferrare il vero, ma in due modi differenti. La filosofia di Nietzsche vuole essere, in un modo che si svelerà man mano, tutt'altro che depressa constatazione dell'impossibilità di raggiungere il vero. Il pessimismo filosofico apre la strada ad un antipessimismo della vita nella sua totalità.

Ma l'uomo, è bene sempre ricordarlo, è un animale metafisico. E se, come detto, il metafisico è regolato sul paradigma di verità, anche l'uomo non può non fare a meno di possedere delle certezze,

5 Cfr. Nietzsche Friedrich, Opere 1870/1881, cit., pp. 93-101, Su verità e menzogna in senso extramorale, par. 1 6 Ivi., p. 96, Su verità e menzogna in senso extramorale, par. 1. 7 Ivi., pp. 515- 52o, Cfr. Umano, troppo umano, Prefazione.

delle credenze, dei valori a cui aggrapparsi. Cosa accadrebbe allora all'uomo se gli si chiedesse di fare a meno del vero, e con esso a tutte le certezze finora acquisite?

3- La fine del soggetto

La caduta dell'impianto metafisico trascina necessariamente con sé tutte le sue conquiste e i suoi dogmi paradigmatici. Quando si è detto che il carattere più proprio della metafisica è quello della duplicazione, non si intendeva per forza una duplicazione immediatamente trascendente la realtà. La trascendenza è ovviamente il tratto fondativo di qualsiasi pensiero metafisico, ma tale trascendenza può manifestarsi anche in un secondo momento. È metafisica la concezione per la quale esista in un determinato luogo, trascendente il reale, l'idea in sé del bello, e che questa consenta tutte le singole applicazioni particolari del bello. Ma è allo stesso modo metafisico, quel pensiero che tenta di determinare l'essenza delle cose, ricercando cioè il <<che cos'è>>, giacché anche l'essenza della cosa, seppure in un secondo momento, rimanda ad un qualcosa che va oltre la realtà così come appare: l'essenza difatti trascende la realtà concreta e sensibile. Da questo discorso si può meglio comprendere come una delle conquiste più importanti della metafisica sia la distinzione fra soggetto e oggetto, cioè fra un ente, il soggetto, che si rivolge conoscitivamente ad un altro ente, l'oggetto, tentando di determinarne l'essenza.

Se mai verrà scritta la storia genetica del pensiero, essa conterrà anche, illuminata di nuova luce, il seguente principio di un eccellente logico:<< La legge originaria, generale del soggetto conoscente consiste nell'intima necessità di conoscere ogni oggetto in sé, nella sua essenza, come un oggetto identico a se stesso, dunque esistente di per sé e in fondo sempre uguale e immutabile, in breve come una sostanza>>.8

Venendo meno il concetto normativo di verità, garante dell'essenza della cosa- non sarebbe infatti concepibile un simile sistema dicotomico se non esistesse l'essenza vera della cosa da conoscere- viene meno anche il millenario paradigma soggetto-oggetto. L'affermazione linguistica che dice <<io>>, una volta che il sistema soggetto-oggetto viene meno, risulta vuota e priva di senso. L'utilizzo del pronome personale “io” sostiene infatti l'illusione che qualcosa come l'“io” esista, e sia causa di atti come il pensare, il sentire, il conoscere.9

Il rapporto conoscitivo soggetto-oggetto, contraddistinto dall'illusione di poter cogliere il reale in modo definitivo e in tutta la sua portata, lascia il posto nel corso del ventesimo secolo ad un'analitica dell'esistenza caratterizzata dalla presa di coscienza dell'intima negatività dell'essere umano. Accanto al principio di identità troviamo ora anche la differenza: l'uomo è al tempo stesso identico e differente, ed è proprio in vista di tale differenza che la pretesa metafisica di spiegare l'uomo, ossia di cogliere il soggetto, non è più concepibile. Il negativo interno alla condizione umana non viene più colmato dalle illusioni metafisiche, bensì emerge in tutta la sua radicale problematicità. Il pensiero della metafisica, essendo un pensiero oggettualizzante, non coglie questa negatività, questa differenza. Esso infatti ragiona per attributi positivi, rispondendo alla domanda <<che cos'è?>>, trovando cioè il carattere specifico della realtà e degli enti che la compongono.

3.1- La volontà di potenza

8 Ivi., p. 525, Umano Troppo umano, par. 18. 9 Piazzesi Chiara, Nietzsche, cit., p.169.

Appare oltremodo necessario esplicare chiaramente alcune contraddizioni che potrebbero emergere dopo simili affermazioni. Dire che il pensiero della metafisica è un pensiero oggettualizzante dovrebbe ormai essere evidente. Ma possiamo affermare con la stessa evidenza che il discorso nietzscheano si trovi al di fuori di questa schematizzazione totalizzante? Possiamo insomma ritenere il suo pensiero effettivamente avulso da qualsiasi visione oggettualizzante, e quindi estraneo alla vecchia dicotomia soggetto-oggetto? Uno dei pilastri della filosofia di Nietzsche è costituito dalla nozione di volontà di potenza. Quello che qui interessa non è tanto cogliere questo concetto in tutta la sua complessa portata- fiumi di inchiostro sono stati scritti su queste tema, e sarebbe quantomeno presuntuoso tentare di riassumerli in un paragrafo- quanto comprendere in che modo la volontà di potenza sia effettivamente scevra dall'oggettualizzazione tipica del pensiero metafisico.

Ogni volta che ho trovato un essere vivente, ho anche trovato volontà di potenza.10

Di fronte ad una simile affermazione sarebbe possibile rintracciare nel discorso sulla volontà di potenza un punto di vista sull'ente nel suo insieme. Sarebbe una prospettiva che tende a dirci quale sia la struttura di ogni reale. Ci darebbe il tratto essenziale di quello che Heidegger chiamerebbe 'l'ente in quanto ente'. Se la vita è volontà di potenza, come non considerare questo un principio in grado di fornirci una caratterizzazione onnicomprensiva della realtà? Al pari, o meglio, in modo ancora più radicale, di qualsiasi pensiero metafisico, la volontà di potenza costituirebbe il tratto essenziale di ogni reale, sarebbe essa stessa l'essenza del reale, risponderebbe al <<che cosa>> che anima la ricerca metafisica.

Se la natura intima dell'essere è volontà di potenza, se il piacere è ogni crescere della potenza, e il dispiacere ogni sensazione di impossibilità di resistere, di non poter diventare padroni, non dobbiamo in tal caso porre come fatti cardinali il piacere e il dispiacere? È possibile una volontà di potenza senza queste due oscillazioni del sì e del no? … Ma chi vuole potenza? … Domanda assurda!! La creatura stessa è volontà di potenza e quindi sensazione di piacere e dispiacere. E tuttavia: la creatura ha bisogno di contrasti, di resistenze, quindi, correlativamente, di unità che l'aggrediscano … 11

Da queste parole presenti ne 'La volontà di potenza' emerge come il piacere e il dispiacere siano la coppia fondamentale della vita. E questa coppia ce la fa comprendere proprio la volontà di potenza. In modo ancora più preciso è possibile dire che la volontà di potenza si palesa esplicitamente proprio in questi due poli di piacere e dispiacere, nella misura in cui ogni piacere è un 'crescere della volontà di potenza', e ogni dispiacere costituisce un suo abbassamento. Il punto determinante, decisivo, ai fini del discorso che si è intrapreso, è dato dall'affermazione subito successiva, quando Nietzsche si chiede: << ma chi vuole potenza? >>. La risposta a questa domanda sarebbe, per detta dello stesso filosofo, una risposta assurda. La domanda sul “chi” della volontà di potenza risuona assurda proprio perché non c'è un “chi” a cui questa volontà di potenza fa capo. Qui Nietzsche sembra lucidissimo nel dirci che non c'è nulla di soggettivistico nel suo discorso. Già, perché non è il soggetto ad essere il creatore della volontà di potenza, in quanto ogni creatura è essa stessa volontà di potenza. Il punto fondamentale da capire è che la volontà di potenza è qualcosa che destruttura la soggettività, che fa venire meno ogni “chi”. Ogni creatura è frammentata in una moltitudine di volontà di potenza che di volta in volta agiscono come centri di forza. Non c'è un centro da cui parte questa volontà di potenza: la conservazione e l'accrescimento, l'agonismo universale, la gerarchia, sono tutte manifestazioni della medesima volontà di potenza. E questa volontà di potenza entra in gioco nel momento stesso dell'agire, in tutte le sue possibili forme, ed è quindi da intendersi come una nozione 'al plurale'.

10 Nietzsche Friedrich, Così parlò Zarathustra, cit., pag 130. 11 Nietzsche Friedrich, La volontà di potenza, Saggi Tascabili Bompiani, Bergamo 1995, p. 379, aforisma 693.

L'uomo come una pluralità di <<volontà di potenza>>: ciascuna con una pluralità di espressioni e forme.12 Si assiste dunque ad un'uscita da quell'orizzonte metafisico, dalla dicotomia soggetto-oggetto, dall'assoluta fede nel principio di identità come unica chiave di lettura del reale, di cui sopra si è parlato. Se la metafisica ci dava i fondamenti ultimi questo pensiero invece diventa un'analisi dei rapporti di forza sempre parziali. L'unità dell'anima, dell'io, del soggetto è messa in discussione. Dire “anima”, “io”, è unificare istanze e forze diverse che significano unità solo in virtù della loro organizzazione13. La creazione di un'autocoscienza chiaramente definita, che la psicologia tradizionale considera come un atto fondativo e come l'unità dell'identità, va in frantumi. Dopo aver decostruito il concetto di verità si sono visti i possibili risvolti di un simile accadimento soprattutto in chiave psicologica. Si è inoltre visto come Nietzsche non contraddica i suoi stessi propositi: fornendoci la nozione di volontà di potenza si può ancora continuare a parlare di uomo e di vita senza per questo irrigidirsi nel tentativo metafisico di trovare un fondamento ultimo.

Parallelamente a queste osservazioni, l'analisi di Nietzsche si sofferma soprattutto sugli aspetti antropologico-culturali derivanti dalla consapevolezza di questa nuova visione della verità. Alle orecchie del profeta Zarathustra l'affermazione che dice <<non ci sono più verità>> risuonerà in modo ancor più drammatico. Nella piazza del mercato egli udirà un folle esclamare <<Dio è morto>>.

4- Il nichilismo

Ci troviamo nel cuore della filosofia nietzscheana, e d'ora in avanti è necessario procedere molto accuratamente. L'uomo, in quanto animale metafisico, è inscritto nella dinamica di allontanamento dal mondo delle cose reali, in vista di qualcosa d'altro. Questa predisposizione alienante c'è da sempre. Ma, mentre prima, il vuoto dell'apparenza veniva colmato con il pieno del mondo ultrasensibile, ora le cose sono notevolmente diverse. C'è un “negativo” che appartiene da sempre alla struttura fondamentale dell'uomo. Ma questo negativo emerge solo ora in tutta la sua portata distruttiva, solo quando non è più colmato e riempito dal massimo generatore dei valori che è Dio. Al termine della millenaria storia metafisica, l'evento della morte di Dio segna incontrovertibilmente il destino dell'uomo. Quando infatti, ci si rende conto, che Dio è radicalmente morto, con lui viene a mancare il sostegno della dimensione ultrasensibile; manca il “vero” che dà senso all'effimero della vita. Solo ora il nichilismo fa la sua comparsa.

Ma cosa significa nichilismo? Significa che i valori supremi si svalutano. Manca lo scopo, manca la risposta al: perché?14

I valori a cui l'uomo si rifaceva per trovare il senso della sua esistenza, ora hanno un contenuto vuoto. Tutta la critica nietzscheana alla nozione di verità precedentemente esposta, è illuminante per comprendere il terremoto filosofico verso cui ci stiamo dirigendo: affermare infatti che la verità si consuma solo all'interno di un gioco di prospettive, che è una chimera, che è solo un antropomorfismo, e che dunque 'non ci sono fatti solo interpretazioni', come si legge in una nota postuma del 1886 comporta necessariamente la svalutazione di tutte le credenze valoriali credute certe fino a quel momento, e conseguentemente il passaggio in un epoca in cui 'il più inquietante fra tutti gli ospiti'15, il nichilismo, è ormai alla porta. Si potrebbe definire il nichilismo come quella condizione che si palesa quando l'uomo, in quanto animale metafisico, si trova di fronte alla perdita di senso dell'impianto metafisico stesso. La perdita

12 Piazzesi Chiara, Nietzsche, cit., p. 129. 13 Ivi., p. 220. 14 Nietzsche Friedrich, La volontà di potenza, cit., p. 9, aforisma 2. 15 Ivi., p.7.

di senso dell'impianto metafisico è dunque una perdita di senso della sua stessa forma: l'uomo non riesce più a riconoscersi in modo autentico nella sua forma. Questa forma però non scompare. Resta, ma resta priva di senso.

La domanda da porsi ora è dunque la seguente: ma come si è giunti alla morte di Dio, e con lui alla morte dello statuto normativo di verità? Insomma, come è possibile che dopo millenni, il nichilismo abbia fatto la sua comparsa? Prima di tentare di dare risposta a questa domanda è necessario chiarire ancora una questione fondamentale. Quando parliamo di nichilismo non ci riferiamo ad un evento esterno alla storia della metafisica, che subentra a questa provenendo da un altro luogo. La storia della metafisica è la storia dell'occultamento del negativo della vita. Il nichilismo compare, si presenta, potremmo dire, entra in scena dopo essere stato a lungo dietro le quinte, quando ci si rende conto che anche il “vero” ultramondano, è ormai privo di senso. Il nichilismo è un morbo che è rimasto latente per millenni e che si palesa solo ora quando dio è ormai morto. Dio muore per mano del suo stesso creatore. Il bisogno di verità, tipico dell'uomo metafisico, aveva condotto l'esito della sua ricerca alla tesi per la quale il mondo sensibile doveva essere spiegato da un mondo ultrasensibile. Lo stesso bisogno di verità, la stessa attitudine smascherante, lo stesso amore per la ricerca porta ora a mettere in dubbio la verità ultrasensibile a cui prima ci si rifaceva. Dio è morto, e noi lo abbiamo ucciso16. Il nichilismo è, come detto, intimamente legato alla tradizione culturale metafisica, in quanto è questa stessa tradizione ad essere portatrice del germe della sua distruzione. Nietzsche inoltre si fa carico del nichilismo e dell'evento della morte di Dio in tutta la sua portata. Non vede infatti l'uomo solo in quanto carnefice del suo dio: l'uomo è allo stesso tempo carnefice e vittima.

4.1 Il deicida

In “Così parlò Zarathustra” il nichilismo è ben rappresentato dall'immagine di un paesaggio dove <<dei macigni appuntiti, di color nero e rossastro, fissano rigidi il cielo>>17. Si tratta di una valle <<che tutti gli animali evitano, anche quelli più feroci>>18. Poco più in là nella narrazione, sempre circondato dallo stesso paesaggio, Zarathustra fa un incontro terrificante: davanti a lui compare “l'uomo più brutto” - che è non a caso il titolo del passo in questione. Questi è l'assassino di Dio. Zarathustra non sopporta la vista del deicida, lo considera un essere ripugnante, e vuole andare via. Già perché né Zarathustra né Nietzsche hanno ucciso Dio. Né tanto meno viene elogiato colui che si è macchiato di questo crimine. Si capisce infatti che l'assassino di Dio, per rimanere nella metafora, ha compiuto un gesto terribile, togliendo all'umanità il luogo in cui riponeva fiducia e speranza, consegnandogli un ambiente desolante fatto solo di macigni appuntiti. Questo gesto non può non lasciare Zarathustra sgomento e turbato, perché d'ora in poi gli uomini saranno smarriti e confusi.

4.2- L'ultimo papa

Un'altra immagine che testimonia gli sconvolgimenti recati dalla morte di dio è quella dell'ultimo papa. Lo smarrimento della condizione umana antecedente al grande evento è il grande tema del passo 'A riposo '. Così si rivolge l'ultimo papa al viandante Zarathustra:

16 Nietzsche Friedrich, La Gaia scienza e gli idilli di Messina, Adelphi, Milano 2011, p. 163. 17 Nietzsche Friedrich, Così parlò Zarathustra, cit., p.305. 18 Ibidem.

Chiunque tu sia, viandante, aiuta uno smarrito che cerca la strada, un vecchio a cui potrebbe facilmente accadere qualcosa di male! Questo mondo mi è estraneo e lontano, e ho anche sentito ululare fiere selvagge; colui, poi, che avrebbe potuto prestarmi aiuto, non è più.19

L'ultimo papa è una figura patetica: come altro potrebbe essere chiamato un papa senza più il suo Dio? È abbandonato a se stesso, è un umile fedele che per tutta la vita non ha fatto altro che servire il suo Dio e ora, a riposo e senza padrone, non si sente ugualmente libero, non possiede più la felicità se non nei ricordi. Questo è il ritratto dell'umanità afflitta e addolorata per non aver più la risposta al <<perché?>>. L'umanità mostra il suo volto patetico in quanto, incapace di sentirsi libera senza un padrone che la guidi, l'unica soluzione che trova è quella di continuare a seguire i propri antichi valori, ormai svuotati di qualsiasi significato, invece di crearne di nuovi.

4.3- La leggenda del grande inquisitore

La grande questione del nichilismo messa a fuoco da Nietzsche ha molti punti in comune con quella posta, più meno nello stesso periodo, da Dostoevskij. Ciò che però differenzia i due, è la fiducia nei confronti di un possibile oltrepassamento della fase nichilistica: se per Dostoevskij non c'è redenzione alcuna, in Nietzsche si profila la possibilità di aprirsi ad un 'nichilismo attivo ', non depresso ma creatore. Vediamo come.

Il manifesto più esplicito del nichilismo in Dostoevskij è dato sicuramente dalla leggenda del grande inquisitore presente ne 'I fratelli Karamazov'. La vicenda si svolge in Spagna, a Siviglia, nel periodo dell'inquisizione <<quando ogni giorno nel paese ardevano i roghi per la gloria di Dio e con grandiosi autodafé si bruciavano gli eretici>>20. Improvvisamente Gesù ritorna e osserva gli uomini come sono. Ma soprattutto tace. Mai una parola esce da Gesù: lui è il testimone della sua epoca che scende fra gli uomini e guarda. Di fronte a Gesù il Grande Inquisitore pronuncia un lungo discorso, che altro non è che il discorso sul nichilismo:

Invece d’impadronirti della libertà umana, Tu l’hai moltiplicata e hai per sempre gravato col peso dei suoi tormenti la vita morale dell’uomo. Tu volesti il libero amore dell’uomo, perché Ti seguisse liberamente, attratto e conquistato da Te. In luogo di seguire la salda legge antica, l’uomo doveva per l’avvenire decidere da sé liberamente, che cosa fosse bene che cosa fosse male, avendo dinanzi come guida la sola Tua immagine; ma non avevi Tu pensato che, se lo si fosse oppresso con un così terribile fardello come la libertà di scelta, egli avrebbe finito per respingere e contestare perfino la Tua immagine e la Tua verità? Essi esclameranno, alla fine, che la verità non è in Te, perché era impossibile abbandonarli fra ansie ed angosce maggiori di come Tu facesti, lasciando loro tante inquietudini e tanti insolubili problemi. In tal modo preparasti Tu stesso la rovina del Tuo regno, e non darne più la colpa a nessuno.21

L'annuncio nietzscheanno della morte di dio e questo breve estratto delle parole del Grande Inquisitore hanno moltissimo in comune. Viene analizzata un'epoca in cui Dio ha smesso di essere il garante del senso della vita umana. Dio qui è morto per mano degli stessi uomini a cui Gesù aveva sacrificato la sua esistenza terrena. Il Grande Inquisitore colpevolizza Gesù per aver concesso agli uomini la libertà, libertà che non sono in grado di gestire; Gesù è infatti venuto tra gli uomini come liberatore ma si è illuso sulle capacità della natura umana non capendo che l'uomo è troppo debole per recepire il suo messaggio di liberazione.

19 Ivi., p. 300. 20 Dostoevskij Fëdor Michajlovič, I fratelli Karamazov, Garzanti, Milano, 1979, vol. I., pp. 263-282. 21 Ibidem.

Ma il gregge tornerà a raccogliersi, tornerà a sottomettersi, e questa volta per sempre. Allora noi daremo loro la tranquilla, umile felicità degli esseri deboli, quali essi furono creati. Oh, noi li persuaderemo infine a non inorgoglirsi, ché Tu li innalzasti e in tal modo insegnasti loro a inorgoglirsi: proveremo loro che sono deboli, che sono soltanto dei poveri bimbi, ma che la felicità infantile è la più dolce di tutte. Essi diverranno mansueti, guarderanno a noi e a noi si stringeranno, nella paura, come i pulcini alla chioccia. Ci ammireranno e avranno paura di noi, e saranno fieri che noi siamo così potenti e così intelligenti da aver potuto pacificare un così tumultuoso e innumere gregge.22

Gli uomini hanno quello che possono avere, cioè la felicità terrena e non quella suprema. L'uomo svuotandosi di ogni valore e vivendo nell'orizzonte della sola utilità terrena ha rinunciato a Cristo, e tale rinuncia comporta anche la perdita della propria libertà. Per Dostoevskij, infatti, un mondo senza valori è un mondo senza libertà, poiché è solo nella promessa del bene che può compiersi la piena realizzazione dell'uomo. Facendosi gregge e affidandosi al potere ingannevole del Grande Inquisitore l'uomo ha determinato la sua condanna, senza possibilità di redenzione alcuna: il nichilismo in Dostoevskij è assolutamente privo di qualsiasi risvolto positivo, è una condanna senza appello.

4.4- Nichilismo attivo

Tra l'immagine dell'ultimo papa e la rappresentazione del gregge presente nella leggenda del grande inquisitore, ritroviamo lo stesso disarmante squallore. L'incapacità del genere umano di essere veramente libero. Quando Dio è morto, e cioè, quando il bene (o il male) non sono più fatti certi e indubitabili a cui fare riferimento, ma solo delle interpretazioni create dall'uomo, ecco che avviene lacatastrofe. Il nichilismo. La mancata risposta al <<perché?>> una certa cosa è bene o è male, la mancanza di senso del nostro esistere. La disarmante miseria dell'uomo sta proprio qui: nel non riuscire ad uscire da questo circolo, e quindi, nel continuare a seguire valori nonostante questi non abbiano più significato. Ciò non contraddice però la precedente definizione di nichilismo. Dire che 'i valori si svalutano' non significa dire che il valori non ci sono più. Il luogo dei valori resta, anche se ormai è privo di contenuto, anche se ormai è vuoto. Non è pensabile per l'uomo fare a meno di valori formativi per il semplice fatto che è la metafisica a tracciare l'orizzonte dell'uomo: il volto patetico dell'uomo sta proprio qui, nel continuare a venerare dei valori che sono ormai completamente svuotati.

La grandissima differenza tra Nietzsche e Dostoevskij sta proprio nel concepimento di un oltrepassamento della fase nichilistica. Per Dostoevskij la morte di dio porta ad una frattura irreparabile. Infatti solo in un mondo fatto di valori, solo nella promessa del bene annunciata da Gesù, che l'uomo può trovare la sua libertà. Egli è in un certo senso ancora uno spirito cristiano, metafisico. Per Nietzsche invece c'è la possibilità di un oltrepassamento. Questo oltrepassamento però comporta un superamento della stessa condizione umana. La storia della metafisica è la storia dell'occultamento del nulla dell'esistenza umana: è l'occultamento del fatto che dietro ogni azione, non si cela un senso svelatore, bensì solo la manifestazione della nostra volontà di potenza. Ma la volontà di potenza tutto è fuorché un fondamento ultimo cui appellarsi per trovare il senso della nostra vita. Essa è il modo in cui la nostra esistenza si consuma. Non è un principio metafisico. La vita è volontà di potenza non di certo nel senso della risposta alla domanda ontologica del “ti esti” platonico, del che cos'è che fonda la vita così come appare. Perché nulla fonda la mia esistenza. Ma come può l'uomo sorreggere il peso della sua inconsistenza? Non può. Perché se da un lato l'uomo è inconsistente, l'uomo è anche colui che vede il cielo oltre la terra, che garantisce senso alla sua esistenza con la creazione di valori, di verità, di idee. Ecco che solo l'annuncio di qualcosa di non umano può assolvere un simile compito.

22 Ibidem.

Proprio perché l'uomo non può rinunciare al luogo dei valori in senso stretto perché è la metafisica a costituire la sua forma, lo sforzo da richiedergli è uno sforzo non umano, oltre umano; rinunciare alla metafisica dei valori è il compito che deve assumersi quell'oltreuomo annunciato all'inizio.

5- Eterno ritorno e oltreuomo

Questa situazione drammatica e paradossale dell'uomo portano Nietzsche a parlare di una vera e propria malattia. La sua struttura metafisica, che tenta di garantire senso al reale con un movimento alienante, che riempie le profondità dell'essere ignorando il negativo che vi si nasconde, che sposta sempre di là da noi il significato della nostra esistenza, fa sì che l'uomo sia il più malato tra tutti gli animali.

eternamente di là da venire, che per l'empito della sua stessa forza non trova più requie, sì che il suo futuro, come uno sprone, spietatamente gli va frugando nella carne d'ogni presente- come non dovrebbe essere, un tale ardito e ricco animale, anche il più esposto al pericolo, il più lungamente e profondamente malato tra tutti gli animali malati?23

La malattia porta l'uomo a rivolgersi sempre al di là di sé, e in tal modo ad attribuire sempre senso a qualcosa d'altro, al futuro. La predisposizione alienante tipica della metafisica che si è descritta all'inizio, trova ora nuovi importanti stimoli di riflessione.

La strada percorsa da Nietzsche per superare la stasi prodotta dalla morte di Dio- dal nichilismo- consiste innanzitutto in una radicalizzazione assoluta dello stesso nichilismo. Proprio perché non serve a nulla mettere il nichilismo alla porta, <<perché ovunque, già da tempo e in modo invisibile, esso si aggira per la casa. Ciò che occorre è accorgersi di quest'ospite e guardarlo bene in faccia>>24. Guardarlo in faccia significa non poterne fare a meno e dunque rivolgersi ad esso in modo autentico, non ignorandolo, ponendo fine alle tranquillizzanti illusioni metafisiche. Come si è ben capito, radicalizzare il nichilismo significa esattamente togliere il luogo dei valori. Se la metafisica aveva posto con cura dei valori affinché l'uomo potesse orientarsi nel reale, se l'evento della morte di dio aveva prodotto la perdita di fiducia nei confronti di quei valori e dunque il nichilismo, ora bisogna essere ancor più coraggiosi, rinunciando definitivamente allo stesso luogo dei valori. I nuovi stimoli di riflessione per meglio comprendere concretamente cosa si intenda per radicalizzazione assoluta del nichilismo sono presenti in parte nel passo appena sopra citato. Il futuro che 'come uno sprone va frugando dentro la carne d'ogni presente' impone a Nietzsche di compiere una vera e propria rivoluzione affinché il suo oltreuomo- quel non-uomo che è in grado di rinunciare al luogo dei valori- possa sussistere. Questa rivoluzione è quella che riguarda la concezione della temporalità.

Il tempo metafisico è paragonabile ad una linea retta in cui tutto ciò che conta è il punto finale, che nella concezione cristiana si chiama salvezza, in quella scientifica progresso, in quella medica guarigione. Questa visione escatologica del tempo costituisce quella prospettiva per cui l'esistenza, la presenza, la volontà, l'attimo, non hanno significato in se stessi, bensì sempre oltre si sé. Tutto il tempo qui si articola intorno al telos. Quanto si è detto in relazione al carattere estraniante del linguaggio, qui viene riproposto in modo ancor più radicale. Il tempo metafisico è un tempo alienante: lo statuto del presente è legittimato solo dalla sua proiezione nel passato e nel futuro. Nel tempo metafisico l'uomo può mai essere presente a se stesso in quanto l'attimo della sua esistenza si configura solo in relazione ai ricordi e alle possibilità. La promessa del cristianesimo o

23 Nietzsche Friedrich, Genealogia della morale, Adelphi, Milano 2010, p. 115. 24 Heidegger Martin, La questione dell'essere, Adelphi, Milano 1987, p.337.

della scienza o della medicina divora il presente aprendo il tempo verso ciò che ancora non è, ossia il futuro e dunque la redenzione, il progresso, la guarigione: il senso.

Il lutto della morte di Dio mette in crisi questa visione lineare del tempo. Il tempo rettilineo in cui ogni singolo attimo non ha senso di per sé ma va ricondotto al telos finale, fa posto, con il nichilismo e dunque con la perdita del telos, ad un eterno e circolare ritorno di attimi privi di qualsiasi stella cometa. È questo eterno ripetersi di avvenimenti senza un senso a cui rifarsi che produce quella condizione di drammatico svuotamento che caratterizza l'uomo del nichilismo. La rivoluzione nietzscheana non sta tanto nell'aver “inventato” una modalità di intendere il tempo diversa da quella tradizionale. Anche qui Nietzsche non si è inventato nulla: è l'avvento del nichilismo a produrre la distruzione del tempo rettilineo. La sua grandezza sta piuttosto nell'aver provato a cercare una via sperimentale di redenzione che consiste nella piena accettazione di ogni singolo attimo che dovrà ripetersi in eterno.

Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l'hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione - e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L'eterna clessidra dell'esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere!». Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: «Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina»? Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: «Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?» graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun'altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello?25

È una redenzione dell'esistenza dal tempo lineare. Il tempo lineare è un tempo che non si possiede mai, che guarda o avanti o indietro. E la conseguenza di questo non possedersi fa sì che la volontà si trovi all'interno di un confine astratto e sia svuotata del suo valore. Il test per la oltreumanità che annuncia Nietzsche è quello del demone: siamo noi in grado di accettare, anzi addirittura di amare, ogni singolo istante trascorso e ogni istante che verrà, e anche questo momento qui, non nella speranza che le cose siano un giorno migliori ma nella consapevolezza che nessun senso e nessuno scopo si trovi al di là di ogni singolo momento? Per l'uomo questo sarebbe una maledizione da sopportare, per l'oltreuomo sarebbe invece il miracolo più grande. L'esperimento dell'eterno ritorno dell'uguale rappresenta il compimento di quel progetto annunciato all'inizio, quello di una radicalizzazione assoluta del nichilismo e del conseguentemente avvento dell'oltreuomo.

Se l'evento del nichilismo si palesa quando manca la risposta al “perché?”, l'oltreuomo è quel non-uomo che non si pone più la domanda “perché?”. E non se la pone perché non ha più bisogno della questione del senso. Se l'uomo è un animale metafisico, e la metafisica è intimamente connessa alla questione della verità e del senso, nell'oltreuomo, in quanto essere che non è più uomo, e dunque non più metafisico, la questione del senso non sussiste più. È un'uscita totale dall'orizzonte metafisico. Qui il nichilismo è assunto nella sua portata più estrema. Qui il problema del senso non esiste più. Accettare la vita in tutti i suoi istanti non significa rassegnarsi ad un'esistenza insensata. L'accettazione non è da intendersi come sopportazione di una vita a cui hanno tolto il fine ultimo e che risulta ora priva di significato.

25 Nietzsche Friedrich, La Gaia scienza e gli idilli di Messina, cit., p. 341.

L'amor fati dell'oltreuomo è un gesto attivo, gioioso, volitivo, ma soprattutto coraggioso. L'oltreuomo dice alla vita “sì!”, e può farlo solo dopo aver compiuto il gesto coraggioso- il più coraggioso che sia mai stato compiuto- di dire “no” al problema del senso. Non bisogna dire che si rassegni all'insensatezza dell'attimo, giacché parlare di insensatezza significa ancora una volta trovarsi nell'orizzonte del senso. Se si dice che la vita non ha senso significa comunque che la questione del senso rimane presente, significa svalutare questa vita e ritenere che il senso si trova altrove; oppure, ancora peggio, essere depressi perché questo senso non lo si trova più nemmeno da un'altra parte. La vita nei suoi attimi non è da ricondurre ad un senso ultimo, come nella tradizione metafisica, ma non è nemmeno da ritenere insensata: alla vita non attiene proprio la questione del senso. L'oltreuomo è l'unico essere in grado di amare veramente la vita proprio rinunciando definitivamente al senso. L'olltreuomo riesce a vivere nella presenza dell'istante perché in lui non c'è nessuno sguardo teleologico nei confronti del tempo. Nella visione del tempo intesa come eterno ritorno dell'uguale ciò che conta è il singolo attimo, ma se come detto la forma metafisica non consentiva all'uomo di essere mai pienamente presente a se stesso, ora all'oltreuomo questo miracolo è permesso. È il coraggio di dire “no” in modo radicale che consente finalmente di guardare l'ospite inquietante bene in faccia. E guardandolo attentamente questi ora ride ironicamente e già si sente superato: il coraggio del no diventa amore che dice “sì” dando il benvenuto all'oltreuomo.

BIBLIOGRAFIA

Dostoevskij Fëdor Michajlovič , I fratelli Karamazov, Garzanti, Milano, 1979, vol. I.

Heidegger Martin, La questione dell'essere, Adelphi, Milano 1987.

Nietzsche Friedrich, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1976.

Nietzsche Friedrich, Opere 1870/1881, Grandi Tascabili Economici Newton, Roma 2008.

Nietzsche Friedrich, La volontà di potenza, Saggi Tascabili Bompiani, Bergamo 1995.

Nietzsche Friedrich, La Gaia scienza e gli idilli di Messina, Adelphi, Milano 2011.

Nietzsche Friedrich, Genealogia della morale, Adelphi, Milano 2010.

Piazzesi Chiara, Nietzsche, Carocci editore, Roma 2015.

Quaderni del Laboratorio Montessori

n. 3 – luglio 2016

Materiali didattici 2015-2016

ISSN: 1974-8787

© 2016 Fabio Falleni

Materiali didattici 2015-2016

Fabio Falleni

Agostino. Dal platonismo cristiano alla dottrina della grazia

falleni2

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Agostino: dal platonismo cristiano alla

dottrina della Grazia

di Fabio Falleni

Introduzione

Scopo del presente lavoro è la descrizione delle due fasi teologico-filosofiche di Agostino(354-430)

che accompagnano tutto il suo pensiero: in entrambe vengono a mostrarsi due modi diversi di

concepire la verità.

Nella prima fase Agostino vede la verità come un connubio tra filosofia neoplatonica e

cristianesimo, restando affascinato dal pensiero neoplatonico. Successivamente la vede come

subordinata alla scoperta della Grazia indebita dove Dio è vicino all’uomo e si rivela come amore

incondizionato verso di lui.

La visione del primo pensiero agostiniano, che ho descritto nei primi due capitoli, compare in

Agostino fin dai primi scritti a Cassiciaco e dura per un periodo abbastanza lungo di circa dieci

anni, che lo ha portato a demarcare sempre più la sua posizione su uno sfondo prettamente

platonico-cristiano.

In questo periodo compare la centralità di temi platonici riletti in chiave cristiana: viene mostrato il

dualismo metafisico dove Dio è a capo della gerarchia che sorregge tutto il reale da Lui creato.

Fondamentale, nel primo capitolo, è l’antitesi con la teoria manichea basata sull’orizzontalità e

sull’immanenza della verità: al contrario nel primo Agostino si evidenzia una forte concezione

astratta e interiorizzante della verità stessa. Ho evidenziato, quindi, come l’ontoteologia è il pilastro

fondante del suo pensiero nella misura in cui tutto ha un suo ordine, una sua misura e una forma ben

precisa e stabilita: questi sono gli attributi presentati da Agostino per descrivere Dio, che è il

sommo Bene. Secondo questa prospettiva se Dio è il Sommo Bene, caratterizzato dalla Misura,

dalla Forma e dall’Ordine, il male allora risulta essere l’assenza di tutti questi attributi nel reale: ed

inoltre esso è visto come la scelta di un bene inferiore in luogo di un bene superiore. Perciò è

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importante comprendere che Dio è visto come Bene al di sopra di tutto in quanto è la causa del reale

creato: quest’ultimo è ciò che riceverà forma, ordine e misura da Dio.

Altro tema centrale è quello dell’illuminazione poiché emerge un paragone tra la luce della filosofia

platonica, letta come vera e unica filosofia, e la luce di Cristo, vista come lume interiore a cui

bisogna rivolgersi distaccandosi dai beni esteriori e carnali. Appare quindi evidente il richiamo ad

un’ascesi mistica che procede dall’esteriorità all’interiorità di se stessi, dove risiede la verità più

autentica. Tutto ciò è possibile mediante uno sforzo della volontà che deve rivolgersi all’eterno

splendore divino e distaccarsi in senso platonico dal mondo sensibile: quindi compare un forte

connubio tra religione cristiana e filosofia platonica.

Ciò è alla base del De Magistro, approfondito nel secondo capitolo, dove appare centrale il tema

dell’unico Maestro a cui rivolgersi, ossia quello interiore che è Dio stesso: è da notare quindi il

legame tra teologia del primo Agostino e pedagogia. In quest’opera Agostino esprime fin da subito

la centralità della dialettica platonica res-signa necessaria per una conoscenza di tutte le cose.

Dopo i vari tentativi fatti con il figlio Adeodato per spiegare il significato dei signa, Agostino

stesso comprende che essi non fanno approdare all’essenza delle cose stesse: qui scopre che solo

Dio vero Maestro ci illumina interiormente sulle cose e che la bravura di un maestro è quella di fare

arrivare a Dio. Molto forte è il richiamo ad un percorso della volontà che deve cogliere le realtà più

alte.

Nel terzo capitolo ho presentato invece il pensiero dell’altro Agostino, che emerge dalla stesura

dell’ Ad Simplicianum I,2, ossia dal 397, che viene definito come una ritrattazione del precedente

nella misura in cui tutte le tematiche ontoteologiche di stampo platonico-cristiano vengono

subordinate alla centralità della Grazia, letta come Dono che irrompe nella creatura. Qui ci sono

diverse differenze poiché non compare più una Res divina universalmente fruibile, ma bensì è essa

stessa qualcosa di indeterminabile ed anarchico: la libertà nell’altro Agostino è impotente e

peccaminosa. Il potere del libero arbitrio umano e della ragione del singolo è completamente

svuotato al cospetto dello Spirito divino che ricrea la creatura, che è perversa e corrotta fin

dall’origine: è necessario quindi l’evento carismatico della Grazia per essere salvati.

Quindi la libertà del soggetto è nell’Altro, ossia in Dio stesso che viene anarchicamente nel soggetto

corrotto.

Infine nell’ultimo capitolo relativo alle Confessioni ho voluto mostrare come questa teologia

ritrattata offra una nuova visione del soggetto umano: esso è fin dall’origine macchiato dal peccato,

quindi corrotto, perverso ed incapace di dominare i suoi desideri carnali e peccaminosi. Di fronte a

tutto ciò, solo l’evento di Grazia può dare nuova vita alla creatura: l’uomo per sussistere deve essere

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contenuto in Dio che lo sorregge, altrimenti sprofonda nell’abisso del peccato. L’unica modalità per

esprimere e raccontare questo è la confessio: in essa il soggetto si confessa peccatore e bisognoso

dell’intervento divino. Agostino nelle Confessioni fa quindi un forte atto d’umiltà nel riconoscersi

incapace di governare autonomamente la sua vita.

Nella confessio emerge una struttura comunicativa nuova dove è l’Altro a parlare, ossia Dio stesso,

che fa lodare, pregare e invocare il dono di Grazia ad Agostino del tutto incapace di rileggere i fatti

quotidiani con la ragione: solo lo Spirito può essere dunque l’unico mezzo possibile per esprimere

ogni cosa.

Ho voluto riportare solo alcune opere di Agostino in questo elaborato in quanto esse riescono ad

evidenziare in modo chiaro la distinzione delle due fasi teologico-filosofiche di Agostino. Per

quanto riguarda il primo Agostino ho riportato “De Natura Boni”, “De Vera Religione” e il “De

Magistro”. Queste opere descrivono la struttura gerarchica del reale ontoteologico di stampo

platonico-cristiano, l’identità stretta tra filosofia platonica e religione cristiana ed infine il forte

legame tra la teologia e la pedagogia, dove Dio è Maestro interiore.

Invece “AdSimplicianum” e le “Confessiones” presentano la teologia matura di Agostino che

approda nella Grazia indebita e predestinata: qui si nota la subordinazione del soggetto, del libero

arbitrio e del reale creato al Dono eventuale dello Spiritus che rivivifica ogni cosa.

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1. L’ONTOTEOLOGIA CRISTIANA DI AGOSTINO

Agostino(354-430) risulta essere un filosofo-teologo di notevole importanza nel panorama culturale

poiché fin dagli esordi ha voluto legare strettamente la filosofia greca di stampo platonico con il

cristianesimo. Questa volontà lo ha accompagnato in un periodo abbastanza lungo di circa dieci

anni, che lo ha portato a demarcare sempre più la sua posizione su uno sfondo prettamente

platonico-cristiano di eccezionale densità. Un tratto fondamentale di questa prospettiva è dato dalla

centralità della metafisica, quindi conseguentemente dell’ ordine della realtà circostante.

Queste tematiche vengono presentate in modo unitario e sistematico nella misura in cui tutto ha un

suo ordine, una misura e una forma: tutto ciò rispecchia la concezione di Dio che Agostino ci offre.

Inoltre di notevole importanza risulta essere la sua polemica contro i Manichei, i quali presentarono

una concezione del tutto terrena e materialistica della verità.

Si può denotare fin da subito una forte concezione della verità letta in modo trascendente e non in

modo immanente ricollegandosi al dualismo platonico: qui Agostino presenta la verità come

concetto più grande ed elevato in un’ottica verticale rispetto alla concezione manichea del tutto

orizzontale.

Il Manicheismo appunto presenta dottrine alquanto assurde contestate da Agostino, che introducela

metafisica platonico-cristiana. I Manichei pongono molte dottrine del bene nella natura del male e

molti mali nella Natura del Bene1: in primo luogo vedono uno scontro assoluto tra Bene e Male in

una prospettiva terrena che vede una stretta mescolanza causata da questo conflitto. Conseguenza di

ciò è il fatto che Dio stesso mescolandosi con le Tenebre perde la sua incorruttibilità, quindi il Bene

risulta essere molto più malvagio rispetto al Male poiché quest’ultimo non ha mai voluto mescolarsi

con il Bene che risulta esser la causa di ogni violenza.

1cfr. Agostino “Natura del Bene”, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani 2001, pagg.79-93

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Quindi la dottrina di Dio presentata dai Manichei risulta essere molto pessimistica in quanto pone

alla base il fatto che Dio stesso ha in sé un grande male tale da spingersi nel regno delle Tenebre per

annientare il proprio nemico2.

Ciò potrebbe indurre a concepire due teorie: la prima è che Dio non sapeva che parte delle proprie

membra si unissero a quelle del male e questo comporterebbe l’attribuzione a Dio di una cospicua

ignoranza. La seconda invece ammette che Dio sapeva ciò a cui andava incontro e quindi si

arriverebbe a sostenere una crudeltà divina.

Alla base di questa teoria quindi viene esposta la presenza di due nature, quella del Bene e quella

del Male, in conflitto tra loro che producono conseguenze molto discusse e contestate duramente da

Agostino:

“I Manichei, se non insistessero in modo perniciosonel difendere il proprio errore e se avessero

timore di Dio, non pronuncerebbero bestemmie in maniera scelleratissima, introducendo due

nature: una buona che chiamano Dio, e una cattiva che Dio non avrebbe creato3”

Qui è del tutto evidente la critica di Agostino nella misura in cui egli stesso contesta fortemente la

dottrina delle due nature da cui ogni cosa scaturisce e viene a formarsi: viene sottolineata da

Agostino la centralità di una creazione improntata sull’assoluta bontà divina del tutto incorruttibile

tale che non possa unirsi a nessuna natura malignaperversa.

Infatti Agostino ammette che

“Nessuna natura, in quanto è natura, è cattiva4”

Perciò il teorema cristiano presentato da Agostino è che la creazione ex nihilo di Dio, in quanto

bene supremo implica che tutto sia bene compresa la materia sensibile. Infatti proprio

sull’argomento circa la materia Agostino si scaglia contro i Manichei poiché essi la vedevano come

“Concupiscenza, appetito malvagio del piacere, istinto di morte5”

Quindi la materia per i manichei si configura come principio del male poiché deriva non da un Bene

supremo, come quello presentato da Agostino, ma da quel principio corrotto delle due nature in

conflitto tra loro.

2Ibidem 3Agostino “Natura del Bene”, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani 2001,pag 185 4Agostino “Natura del Bene”, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani 2001,pag 34 5Agostino “Natura del Bene”, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani 2001,pag 35

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Agostino al contrario definisce la materia come qualcosa di informe da cui viene a delinearsi ogni

cosa. Infatti dice

“Dunque, non si deve chiamare male questa materia che non si può percepire mediante qualche

forma, ma che a mala pena si può pensare con ogni sorta di privazione di forma6”

Agostino quindi allontanandosi da un concetto manicheo di materia si avvicina fortemente alla

concezione greca che sostiene la materia come bisognosa di forma: tutto ciò viene ripreso e riletto

in un’ottica cristiana dove Dio è colui che dal nulla dà avvio alla materia informe donandogli

qualità. Infatti afferma:

“ Tu, o Signore, creasti l’universo dalla materia informe, che, presso che nulla, creasti dal nulla7”

Agostino, a quanto si può vedere, si apre ad una concezione metafisica del divino cristiano di

stampo platonico, ma l’impianto presentato nella teoria della creazione dal nulla presenta differenze

strutturali con la struttura gerarchica del reale presentata da Platone. Se appunto quest’ultimo pone

una divisione tra intellegibile e sensibile, Agostino mantiene una differenziazione formale

modificando notevolmente i contenuti di essi. Infatti si può notare che il mondo intellegibile

platonico diviene esclusivamente di Dio, Uno-Trino, escludendo quindi ogni gerarchia delle Idee.

Di conseguenza tutto il resto è il creato che può essere o spirituale o corporeo.La tripartizione

risulta essere quindi: Dio essere immutabile, Spiriti creati mutabili e corpi creati8.

Quindi Agostino afferma una netta superiorità onto-gnoseologica di Dio su tutti gli esseri creandoli

dal nulla:

“Il Bene supremo al di sopra del quale non c’è niente è Dio…Per questo è un bene immutabile,

perciò veramente eterno e veramente immutabile9”

Il suo essere immutabile e quindi eterno da come conseguenza necessaria che tutto il creato è

mutabile e mortale: dove ciascuna creatura è “natura ad opera di Dio10

”.

Il pensiero greco vedeva nella materia e nell’informe un momento strutturalmente necessario per

l’attuarsi dell’ordinamento formale e quindi del cosmo stesso, e questo bipolarismo non poteva

6Agostino “Natura del Bene”, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani 2001,pag 40 7Agostino “Natura del Bene”, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani 2001,pag 41 8Cfr.8Agostino “Natura del Bene”, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani 2001,pag 43 9Agostino “Natura del Bene”, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani 2001,pag 17 10Cfr.Agostino “Natura del Bene”, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani 2001,pag 17

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superarsi nella misura in cui il greco non possedeva il concetto di creazione dal nulla da parte di Dio

onnipotente.

L’infinito, tratto essenziale del Dio presentato da Agostino, era da sempre percepito in modo

negativo dal greco in quanto era non determinabile e non limitato, quindi nettamente inferiore al

finito e al limitato11

. L’ assoluto dar inizio dal niente si oppone quindi alla concezione greca

dell’eternità del mondo(Aristotele) divenendo perciò punto di differenziazione della teologia

cristiana con la metafisica greca12

.

Agostino riporta questo concetto di creazione dal nulla cristiano in un passo significativo tratto dal “

Contro Felice Manicheo”:

“Ciò che Dio ha creato non è dalla sua natura. Ma egli lo ha creato dal nulla, poiché Egli è

onnipotente. Esso non era , e Dio lo ha creato: non derivandolo da sé o da qualche altra cosa che

egli non aveva fatto, ma dal nulla13

Dio, in quanto Sommo Bene, viene descritto da Agostino mediante tre connotazioni essenziali che

ne rivelano la natura metafisica in un modo ampio ed articolato14

. I tre attributi teoretici, tratti dai

platonici per via razionale possono esser colti anche per via di fede dal testo biblico, sono: misura,

forma e ordine. Il primo, in base ad una concezione classica, indica il limite visto come

compiutezza e quindi perfezionamento con un connotato del tutto positivo e non negativo come

potremmo intendere oggi. La misura è un termine che indica, in senso ontologico, l’esplicarsi

dell’uno verso i molti e ciò quindi conferisce anche un senso di unità.

“ Il fatto che l’ente è ordinato secondo misura significa che il suo essere è precisamente

determinato, misurato sulla base di un’esatta dimensione, delimitato come un preciso

qualcosa(essenza) e quindi finito. La misura posta si fonda su un atto del Creatore misurante,

determinante-limitante(terminare), ma esso stesso infinito(infinitum)15

11Cfr.Agostino “Natura del Bene”, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani 2001,pag 25

12Cfr.Agostino “Natura del Bene”, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani 2001,pag 27 13Agostino “Natura del Bene”, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani 2001,pag 27 14Cfr.Agostino “Natura del Bene”, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani 2001,pag 52 15Agostino “Natura del Bene”, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani 2001,pag 54

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La forma, che viene fuori dalla misura, ha una valenza metafisica di essenza nella misura in cui

ciascuna cosa è ciò che è, differenziandosi così da ogni altra cosa.

“Ogni cosa, sostanza, essenza, natura, o con quale altro nome la si voglia meglio chiamare, ha

insieme queste tre proprietà: è qualcosa, si distingue dal resto per una propria specifica forma e

non oltrepassa l’ordine naturale16

La terza connotazione essenziale del Bene è quella dell’ordine, esso è evidenziato chiaramente nella

struttura gerarchica del reale in quanto rappresenta la più significativa espressione di ordine.

Ciascuna cosa è al suo posto, ontologicamente ed assiologicamente parlando, nel quadro dell’unità

e dell’insieme delle cose, poiché il termine misura non è solo un connotato metafisico essenziale,

ma anche ciò da cui dipendono sia la forma che l’ordine.

Dire che Dio è misura non deve essere inteso come fine o termine poiché indicherebbe che Dio ha

un fine o un termine ma, al contrario, bisogna intenderlo come qualcosa che andrebbe ad indicare

l’essere oltre e al di là della misura che circoscrive tutte le cose create, essendone l’origine e la

fonte da cui tutto deriva17

.

“Dio è al di sopra di ogni misura di ciò che è creato, al di sopra di ogni forma e ordine. Ed è al di

sopra non già per distanza di spazi, ma per una potenza ineffabile e singolare, da cui deriva ogni

misura, ogni forma e ogni ordine18

Se le caratteristiche essenziali del Bene sono appunto la misura, la forma e l’ordine, si può

comprendere necessariamente che il Male risulta essere la privazione di queste caratteristiche19

.

Agostino afferma dunque che

“Il male non è altro che corruzione della misura, o della forma o dell’ordine naturale20

16Agostino “Natura del Bene”, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani 2001,pag 55 17Cfr.Agostino “Natura del Bene”, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani 2001,pagg 62-63 18Agostino “Natura del Bene”, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani 2001,pag 63 19Cfr.Agostino “Natura del Bene”, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani 2001,pag 69 20Agostino “Natura del Bene”, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani 2001,pag 69

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Se dunque tutto ciò che è bene deriva da Dio , principio primo di tutte le cose, il male fisico-

ontologico delle cose realiè spiegabile nell’ottica della struttura metafisica gerarchica del reale e

dell’ordine ad esso connesso21

. Il male quindi dipende non dalle cose o da chi le ha create: la causa

è nella libera volontà delle creature che usano in modo scorretto le cose, andando a scegliere beni

gerarchicamente inferiori.

“ Il peccato non è il desiderio di una natura cattiva, ma è la rinuncia ad una migliore22

Esprimendo questo concetto del tutto fondamentale, Agostino si distacca profondamente dalla

visione greca del male. Tutta l’etica greca, infatti, dipende da presupposti di un chiaro

intellettualismo socratico del tutto razionale23

. Tutto dipende per i greci dal conoscere il bene che

rappresenta la garanzia necessaria e sufficiente per la realizzazione del bene stesso: secondo questa

teoria tutti gli aspetti della vita dell’essere umano sono perfettamente controllabili.

Agostino darebbe ragione a Socrate nell’affermazione che quello che l’uomo vuole è il bene e non il

male in sé, ma Socrate non ha tenuto conto del ruolo centrale della volontà umana che è in grado di

scegliere un bene inferiore al posto di quello superiore24

.

La volontà, quindi, ha un ruolo fondamentale nel discorso agostiniano in quanto rappresenta ciò che

fa muovere verso una realtà inferiore oppure innalza verso il sommo bene, Dio stesso: andando così

ad effettuare un percorso di discesa o di ascesa all’ interno della scala gerarchica ontoteologica del

reale.

Quindi viene proposto un percorso ascensionale verso l’Uno, che è la verità divina, letto come luce

interiore non come concetto intellettuale. La differenza che si viene a delineare tra il loghismos,

ossia il ragionamento inferiore legato alle varie situazioni psicologiche, e la verità come luce

interiore è netta: perciò si comprende la divisione tra un qualcosa di esteriore e materiale rispetto a

qualcosa che al contrario è di natura interiore e spirituale25

. Agostino descrive la verità come una

luce:

21Cfr.Agostino “Natura del Bene”, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani 2001,pag 47

22Agostino “Natura del Bene”, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani 2001,pag 48 23Cfr.Agostino “Natura del Bene”, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani 2001,pag 49

24Cfr.Agostino “Natura del Bene”, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani 2001,pag 51

25Cfr. Agostino, La Vera Religione, a cura di Marco vannini, Milano, Mursia 2014,pag 6

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“Veniva nel mondo una luce vera, quella che illumina ogni uomo26

Da questo tratto del vangelo di Giovanni si può dedurre che Agostino raffigura la verità come

qualcosa di assolutamente spirituale e lontano da ogni visione esteriorizzante, e la coglie nella sua

più totale intimità. Questo concetto di verità è anche platonico in quanto è presente l’idea di

un’ascesa verso le realtà noetiche del mondo intellegibile. A questo punto si può tracciare un

parallelismo tra vera religione e vera filosofia: entrambe vanno verso il manifestarsi graduale di

quella bellezza noetica, applicando un forte distacco dalle cose terrene27

.

Agostino a questo punto si spinge oltre sottolineando che la religione e la filosofia sono in pieno

accordo in quanto l’una ha bisogno dell’altra: ragione e fede sono la stessa cosa poiché la prima non

è il pensiero calcolante, ma una realtà noetica che si coglie nel fondo dell’anima28

.

Per arrivare a godere di queste realtà noetiche però è necessario distaccarsi dai piaceri carnali e solo

ciò può garantire un passaggio autentico ad una vera vita: così avviene lo slancio dall’uomo vecchio

all’uomo nuovo29

.

La castità dunque è ciò che ti fa approdare all’interiorità uscendo dall’esteriore e ciò rappresenta

una chiara conversione dalla carne allo spirito. Solo così si distruggono quei legami presenti con il

possesso che è la caratteristica dell’io psicologico30

. Qui Agostino afferma infatti:

“Perché la giustizia della legge si adempisse in noi, che non viviamo secondo la carne ma secondo

lo Spirito31

Nel vangelo di Giovanni si può vedere il chiaro invito di Cristo a rivolgerci verso di Lui perché

quest’esperienza dello spirito è ciò che converte l’uomo alla realtà più vera:

“Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me32

26Giovanni I,9 27Cfr. Agostino, La Vera Religione, a cura di Marco vannini, Milano, Mursia 2014,pag 5 28Cfr. Agostino, La Vera Religione, a cura di Marco vannini, Milano, Mursia 2014,pag 7 29Cfr. Agostino, La Vera Religione, a cura di Marco vannini, Milano, Mursia 2014,pag 9 30 Ibidem 31Rom., VIII,4 32Giov.XIV,6

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Il cristianesimo risulta essere non una credenza, ma una realtà spirituale che abbraccia uno stile di

vita opposto al modello carnale33

.

A questo punto si può dire che Agostino è uno dei grandi scopritori della realtà interiore dell’uomo,

in una prospettiva prettamente platonico-cristiana, nella misura in cui apre le porte per un processo

di ascesa al divino grazie alla volontà che deve rivolgersi verso la realtà più autentica. Un ruolo

importante, a quanto si può comprendere, è quello apportato dalla dialettica res-signa ossia dal fatto

che ciò che ci circonda è manifestazione della luce divina che è Res eterna. La dialettica bipolare

res-signa nel mondo terreno è la manifestazione della bellezza sempre viva di Dio: egli lascia

traccia di sé all’uomo in modo tale che quest’ultimo possa innalzarsi verso l’interiorità.

2. Il Maestro interiore nella pedagogia agostiniana

Agostino presentando una visione gerarchica del reale in senso ontoteologico, ispirato al modello

platonico, apre le porte ad una nuova visione pedagogica che si distanzia fortemente da quella

erudita di stampo classico.Pur notando fin da subito una sua adesione alla pedagogia classica, si

vedrà successivamente che ciò verrà inquadrato sotto una nuova luce: ossia quella divina che è la

meta a cui una buona pedagogia deve arrivare. Proprio su queste basi Agostino stesso andrà a creare

la sua opera del De Magistroin cui sarà evidente lo stretto connubio tra pedagogia e teologia.Infatti

egli stesso vuole dimostrare in quest’opera che un apprendimento fine a se stesso che non porta a

contemplare la bellezza di Dio è inutile: la pedagogia agostiniana ha quindi un fortissimo valore

strumentale.

Quindi molto importanti risultano le tematiche connesse all’opera in quanto vanno a svelare

l’intima connessione con la visione filosofico- teologica: inoltre si può notare la centralità del

dialogo con il Figlio Adeodato,da leggersi come itinerario verso la bellezza divina.

33Cfr. Agostino, La Vera Religione, a cura di Marco vannini, Milano, Mursia 2014,pag 14

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Agostino nell’opera fin dall’inizio riconosce le funzioni principali del linguaggio: insegnare e

richiamare alla memoria propria o altrui, mostrando la funzione centrale della parola. Agostino

ricorda che anche il sommo maestro, Gesù Cristo, insegnò parole ai discepoli per pregare:

“ E non ti colpisce il fatto che il sommo Maestro, quando insegnò a pregare ai discepoli, insegno

delle parole? Con questo sembra che non volesse far altro che insegnare come si deve parlare

quando si prega34

Adeodato viene portato a pensare che è possibile comunicare e trasmettere le informazioni grazie al

linguaggio come sistema di segni35

evidenziando la centralità del rapporto signa-res.

“Ammetto che non possiamo mostrare nulla senza un segno, se siamo interrogati mentre lo stiamo

facendo: se non aggiungiamo nulla, chi ci domanda penserà che non glielo vogliamo mostrare e

che senza dargli retta abbiamo continuato a fare quello che stavamo facendo36

Nella seconda parte del dialogo Agostino muta profondamente la sua teoria notando che la lingua,

in quanto sistema di segni può far arrivare a due casi: nel primo colui che parla propone un qualcosa

di sconosciuto al destinatario, mentre nel secondo caso colui che parla presenta un qualcosa di

conosciuto al destinatario. In entrambi i casi non c‘è una conoscenza poiché ci si accorge che i segni

rimandano sempre ad altri segni e non all’essenza di una cosa stessa.

“Impariamo il valore della parola, cioè il significato che si nasconde nel suono, tramite la cosa

conosciuta che è significata, anziché la cosa tramite la significazione stessa37

34Agostino, Il maestro e la parola, Il maestro, la dialettica, la retorica, la grammatica, a cura

di Maria Bettini, Bompiani 2004,pag 85

35Cfr.Agostino, Il maestro e la parola, Il maestro, la dialettica, la retorica, la grammatica, a

cura di Maria Bettini, Bompiani 2004,pag 22

36Agostino, Il maestro e la parola, Il maestro, la dialettica, la retorica, la grammatica, a cura

di Maria Bettini, Bompiani 2004,pag 95

37Agostino, Il maestro e la parola, Il maestro, la dialettica, la retorica, la grammatica, a cura

di Maria Bettini, Bompiani 2004,pag 153

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A questo punto Agostino sostiene che per la conoscenza del sensibile sia necessaria l’esperienza

diretta delle cose, mentre per la conoscenza di realtàinteriori come quelle spirituali, si deve

contemplare la verità interiore dove l’unico maestro risulta essere Dio.

“Ma se per i colori ci rivolgiamo alla luce e per tutto il resto che percepiamo con il corpo agli

elementi di questo mondo, agli stessi corpi che sentiamo, e ai sensi, di cui la mente si serve per

conoscere questo genere di cose, per quanto riguarda le cose intelligibili, ci rivolgiamo mediante la

ragione alla verità interiore38

La conoscenza della cosa, per Agostino, è precedente quella del segno poiché appunto i segni non

insegnano nulla: essi non ti portano all’intima essenza di una cosa.

“ E questa conoscenza è stata anteposta al segno di cui parliamo solo perché è stato dimostrato che

questo è in funzione di quella e non quella in funzione di questo39

Agostino parla qui di una conoscenza che si ha tramite stimoli interni da parte del Verbo interiore,

mentre tutto il resto che viene dall’esterno, come le parole o i segni,è solo uno stimolo esterno per

conoscere la verità40

.

“ Si ingannano gli uomini nel chiamare maestri quelli che non lo sono, perché il più delle volte tra

il tempo del discorso e il tempo della conoscenza non si frappone alcun intervallo, e siccome dopo

lo stimolo di chi parla imparano subito interiormente, ritengono di aver imparato da chi li ha

stimolati da fuori41

38Agostino, Il maestro e la parola, Il maestro, la dialettica, la retorica, la grammatica, a cura

di Maria Bettini, Bompiani 2004,pag 157

39Agostino, Il maestro e la parola, Il maestro, la dialettica, la retorica, la grammatica, a cura

di Maria Bettini, Bompiani 2004,pag 137

40Cfr.Agostino, Il maestro e la parola, Il maestro, la dialettica, la retorica, la grammatica, a

cura di Maria Bettini, Bompiani 2004,pag 28

41Agostino, Il maestro e la parola, Il maestro, la dialettica, la retorica, la grammatica, a cura

di Maria Bettini, Bompiani 2004,pag 167

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Agostino sostiene che l'unico vero maestro è Dio, e arriva dunque a porre in secondo piano la

funzione didattica e pedagogica dell'insegnante. Infatti, se l'insegnamento è volto a portare al

raggiungimento della verità, e se la verità proviene da Dio, la funzione di un buon maestro non sarà

quella di imporre dall'esterno l'acquisizione di concetti specifici, quanto di aiutare gli alunni a

trovare la verità. Tale ricerca si svolge in definitiva all'interno dello studente, in quanto la verità per

Agostino sta dentro l'uomo: la verità non viene quindi consegnata dall'insegnante ma

vieneriscoperta dall'alunno con la guida del suo formatore. Questa forte sottolineatura del mondo

interiore e spirituale porta Agostino a porre in secondo piano, quando non a disprezzare, le più

diffuse questioni sociali e quotidiane, in quanto la stessa esperienza umana è vista unicamente come

chiave di perfezionamento non per la vita terrena, ma come preparazione per la vita nel regno di

Dio.

Interessante è l'importanza che Agostino dà all'allievo: egli ritiene, infatti, che qualsiasi nozione,per

essere effettivamente appresa, debba essere trovata e sentita come vera dagli alunni.Solo in questo

caso essi attueranno un trasferimento di quanto appreso dal suo ambito iniziale a un altro a esso

attinente, ma ancora non noto.

Risulta fondamentale quindi il percorso gnoseologico di apprendimento che si divide in due livelli:

sensibile e interiore. Se appunto, si comprende il sensibile attraverso una diretta esperienza di esso,

si apprende quello interiore grazie al Verbo che permette di vedere ogni realtà intelligibile: qui

appare centrale la dottrina dell’illuminazione. Essa, di origine platonica, è una metafora che cerca di

spiegare la funzione del Dio-creatore visto come sole che illumina le cose e le rende visibili dando

verità agli intelligibili e rendendoli tali42

.

“Come la parola esterna è l’estrinsecazione o il dispiegamento della parola interna, così il

“proclamare” dell’ente è espressione o manifestazione della sua parola (assoluta)che lo fonda, ed

è ad esso immanente43

42Cfr.Agostino, Il maestro e la parola, Il maestro, la dialettica, la retorica, la grammatica, a

cura di Maria Bettini, Bompiani 2004,pag 31

43Agostino, Il maestro e la parola, Il maestro, la dialettica, la retorica, la grammatica, a cura

di Maria Bettini, Bompiani 2004,pag 31

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Quindi si può comprendere che tale dottrina non è un’astrazione, ma bensì una lettura perché la

mente riconosca nella struttura dei sensibili l’ordine razionale da cui essa stessa è governata:e

dall’altra parte, i sensibili, in quanto fondati dal Verbo divino parlano lo stesso linguaggio della

mente44

.

La verità dunque è stabilita dalla presenza del Verbo nell’animo umano: non si parla di innatismo

anche se questo è in parte influenzato dalla dottrina platonica dell’anamnesi.

“Se dunque Agostino per spiegare il proprio pensiero, adopera ancora i termini di ricordo e

reminiscenza, occorre intenderli in senso assai diverso da Platone. Al di là di ciò che sappiamo e a

cui pensiamo, esiste ciò a cui pensiamo, ma che potremmo tuttavia sapere, perché Dio non cessa

d’insegnarcelo: impararlo dal Verbo è quel che Agostino chiama indifferentemente imparare,

ricordarsi o anche, semplicemente, pensare45

Agostino presuppone la formazione del verbo interiore prima di quello esteriore: il primo si fonda

sul confronto con la verità e qui si denota la centralità di una conoscenza che nasce da una

comunicazione verticale nell’unione con la verità, non più orizzontale, basata sul confronto tra gli

uomini.

A questo punto Agostino dice che nel rapporto spirituale tra anima del singolo e Maestro interiore,

quest’ultimo è sempre disponibile ad insegnare e solo la volontà di un’anima può frapporsi a ciò:

perciò la vera comunicazione nasce ed è resa possibile da un rapporto verticale con il maestro

interiore per poi svilupparsi in una difficile trasmissione orizzontale.

“Il De Magistro non è un dialogo sull’impossibilità del linguaggio, e nemmeno sull’impossibilità

dell’insegnamento, ma sulle loro condizioni di possibilità46

Lo studio del linguaggio diviene quindi un’esercitazione dell’anima non inutile, ma finalizzata a

rinforzare lo spirito per preparare a far propri i temi più elevati come quello del possibile

fondamento del linguaggio nella contemplazione della verità.

44Ibidem 45Agostino, Il maestro e la parola, Il maestro, la dialettica, la retorica, la grammatica, a cura

di Maria Bettini, Bompiani 2004,pag 32

46Agostino, Il maestro e la parola, Il maestro, la dialettica, la retorica, la grammatica, a cura

di Maria Bettini, Bompiani 2004,pag 33

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“Lo studio delle discipline liberali, per quanto mediocre e poco profondo, rende coloro che amano

più pronti, più perseveranti, più ferventi nei confronti della verità da abbracciare, tanto che più

ardentemente la desiderano, e con più costanza la inseguono e infine più dolcemente vi

aderiscono47

Si può vedere, come in molti altri passi di Agostino, che l’obiettivo del conoscere e lo sforzo verso

una meta come quella del Verbo divino ha come fine la vita beata.

La verità per Agostino quindi non è di natura logica ma, come per Platone, è la condizione di vedere

la realtà sotto una prospettiva: quindi è garanzia di conoscere ciò che ci circonda. La verità dunque

mostra tutto il reale circostante ed il pensiero stesso deve adeguarsi a questa visione intellettuale: gli

intelligibili non derivano da fuori, ma sono presenti nell’interiorità stessa dove risiede la verità.

Un ruolo centrale viene svolto all’interno del De Magistro dal termine “mostrare”: esso stesso viene

usato fin dall’inizio per descrivere i segni come unici datori di conoscenza per arrivare alla fine

dove essi sono del tutto incapaci di rappresentare il reale48

. Si può vedere che non esistono dei dati

prima dell’atto gnoseologico, ma è presente il riferimento originario di pensiero ed essere: la verità

non è un accidente, ma il presupposto della relazione pensiero-essere49

.

“Il grande guadagno dell’idealismo antico sta appunto nell’affermazione del carattere non

accidentale del pensiero rispetto alla realtà, senza cadere per questo nelle difficoltà dell’idealismo

moderno50

L’unità non è un dato esperienziale, ma essa deve essere conosciuta anticipatamente e

aprioristicamente per rendere possibile l’apprensione intellettuale della molteplicità.

La nozione di unità è precedente ad ogni esperienza ed Agostino vede l’attività della ratio come

qualcosa di puramente unificante che conosce il reale sotto una prospettiva di unità antecedente ad

47 Ibidem

48Cfr.Agostino, Il maestro e la parola, Il maestro, la dialettica, la retorica, la grammatica, a

cura di Maria Bettini, Bompiani 2004,pag 35 49Ibidem

50Agostino, Il maestro e la parola, Il maestro, la dialettica, la retorica, la grammatica, a cura

di Maria Bettini, Bompiani 2004,pag 35

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ogni empirismo: quindi si distacca fortemente da quella visione aristotelica che vede la verità come

composizione e divisione.

A questo punto i può cogliere il senso della parola che viene vista come mezzo, portatore di

significato, in grado di evocare, ma non di contenere completamente i dati della mente ossia gli

intelligibili stessi, dato che il conoscere stesso è fortemente radicato nel principio unificante51

.

Agostino rifiuta l’impostazione aristotelica che vede la deduzione dal reale del concetto di unità

poiché esso non è ricavato a partire dal modello costituito dall’unità numerica della cosa sensibile,

ma invece è l’apriori costitutivo del reale.

Agostino riprende come concetto neopitagorico e plotiniano la superiorità dell’unità sull’essere e

tutte le sue speculazioni: l’uno contiene in sé tutto il reale52

.

L’unità non è una forma vuota, una sorta di universale astratto raggiunto attraverso successive

privazioni, bensì rappresenta un punto indivisibile in cui si trova la pienezza di tutte le dimensioni

dell’essere.

“Nihil est autem esse, quam unum esse53

In questa citazione si vuole dire che: “in un ente, tanto vi è di essere quanto di unità”. Perciò si

deduce che l’essere dipende completamente dall’attività unificante dell’uno.

L’Unum agostiniano, ossia Dio stesso, si identifica con la parola, quindi con il Verbum interiore,

essendo Sapienza che continua eternamente a parlare nell’interiorità di ogni uomo, vivendo ed

essendo continuamente rievocata dalle parole dell’uomo: quindi la parola assume un fortissimo

valore poiché appunto è strumento con cui Dio crea.

“La parola nella quale o con la quale viene detto, e con ciò immediatamente creato, è la parola di

“Dio presso Dio”, la parola che viene pronunciata eternamente e tutta insieme54

51Cfr.Agostino, Il maestro e la parola, Il maestro, la dialettica, la retorica, la grammatica, a

cura di Maria Bettini, Bompiani 2004,pag 36

52Cfr.Agostino, Il maestro e la parola, Il maestro, la dialettica, la retorica, la grammatica, a

cura di Maria Bettini, Bompiani 2004,pag 37

53Agostino, Il maestro e la parola, Il maestro, la dialettica, la retorica, la grammatica, a cura

di Maria Bettini, Bompiani 2004,pag 37

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La parola assume un significato estremamente forte, sempre presente in Agostino anche quando

sembra che voglia alludere solo ad un discorso pronunciato o scritto:

“Ricordatevi che uno solo è il discorso di Dio che si sviluppa in tutta la Sacra Scrittura ed uno solo

è il Verbo che risuona sulla bocca di tutti gli scrittori santi, il quale essendo in principio Dio presso

Dio, non conosce sillabazione ed è fuori del tempo55

Il Verbo in Agostino non è solo il contenuto delle Scritture, ma è anche l’unica Parola di Dio , che è

una e non frammentaria, al di sopra dello spazio e del tempo.

3.La retractatio agostiniana

In questi primi due capitoli si è analizzato il primo pensiero agostiniano di base platonica-cristiana

che ha dominato non solo l’ontoteologia, ma anche la prospettiva pedagogica: conferendo così una

piena visione metafisica di una realtà creata da Dio, visto come maestro interiore a cui ci si deve

rivolgere per arrivare all’autenticità e alla verità. Concetto chiave risulta essere quello del libero

54Agostino, Il maestro e la parola, Il maestro, la dialettica, la retorica, la grammatica, a cura

di Maria Bettini, Bompiani 2004,pag 43 55

Ibidem

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arbitrio del soggetto, il quale doveva distaccarsi dai beni materiali per rivolgersi all’eterna Verità

del Verbo, mediante la propria voluntas, libera e capace di governare se stessa56

.

“Che cosa infatti è più in potere della volontà, se non la volontà stessa?[…] Chi vuol vivere

rettamente e onestamente, e se lo vuol volere in luogo dei beni caduchi, consegue un tale bene con

tanta facilità che l’avere ciò che vuole si identifica con lo stesso volerlo57

Se dunque la libertà ha questa potenza, allora il volere è ciò che si adegua alla perfezione ontologica

inscritta nell’identità dell’immagine creaturale quindi si può dire che:

“La nostra volontà non sarebbe volontà se non fosse in nostro potere. Effettivamente perché è in

nostro potere, è per noi libera58

A questo punto si comprende che Dio risulta essere solo un perfezionamento in quanto coopera con

la libertà umana: l’incarnazione di Cristo serve solo a far distaccare il soggetto dai beni materiali

per rivolgerlo alla Veritas eterna.

La Caritas divina è semplicemente suasio, ossia è ciò che chiama, insegna amorevolmente alla

libertà del singolo come convertire il desiderio dalla cupiditas all’amore divino.

In questa prospettiva il peccato è atto del tutto libero di chi non volendo resistere alla tentazione si

distacca da Dio59

: quindi è visto solo come uso perverso di ciò che ci circonda.

56 Cfr. Mario De Caro, Massimo Mori, Emidio Spinelli, Libero arbitrio. Storia di una controversia

filosofica, Roma Carocci Editore 2014, pag.156

57Mario De Caro, Massimo Mori, Emidio Spinelli, Libero arbitrio. Storia di una controversia

filosofica, Roma Carocci Editore 2014, pag.156

58Mario De Caro, Massimo Mori, Emidio Spinelli, Libero arbitrio. Storia di una controversia

filosofica, Roma Carocci Editore 2014, pag.157

59 Cfr. Mario De Caro, Massimo Mori, Emidio Spinelli, Libero arbitrio. Storia di una controversia

filosofica, Roma Carocci Editore 2014, pag.157

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Di fronte a tutto ciò, Agostino modifica questa visione aprendo le porte ad una nuova via del tutto

opposta e diversa rispetto alla visione platonico-cristiana che ripropone un’ ontoteologia del reale.

Il pensiero maturo di Agostino approda ad uno scarto tra due livelli teologici che passano

dall’idealizzante visione platonizzante del reale ad una teologia retractata dove il reale è

subordinato ad una visione eventuale della Verità divina che visita il soggetto stesso ricreandolo60

.

A questo punto però si nota che la prima visione teologica-platonica non viene abbandonata, ma

bensì subordinata a questa nuova visione apocalittica, ossia una nuova prospettiva dove Dio visita la

povertà del soggetto donandogli una nuova vita: tutto ciò avviene grazie al dono dello Spiritus

divino61

. E’ importante quindi capire che è avvenuta una traslatio che va oltre la metafisica

ontoteologica, andando a toccare una prospettiva “catastrofica” che ha rovesciato la libera

intelligenza in totale dipendenza dall’assoluta venuta dello spirito eventuale62

.

Quindi fondamentale è la messa in questione del primo Agostino, sostenitore della libertà umana,

che verrà ritrattato in una nuova teologia più matura e consapevole che coglie la centralità della

Grazia, la quale va oltre ogni possibile libera scelta umana:

“Laboratum est quidem pro libero arbitrio voluntatishumanae, sedvicit Dei gratia63

Questa nuova visione avviene grazie agli scritti a Simpliciano dove nel primo libro dell’ Ad

Simplicianumdel 397propone una prospettiva ulteriore e nuova rispetto a quella platonico-cristiana

del tutto ritrattata e subordinata: ciò evidenzia una nuova evoluzione della teoria della

giustificazione di Agostino.

Si sviluppa così un processo rivoluzionario nella storia del pensiero occidentale, attraverso una

teologia dialettica mediante la quale nasce un nuovo complesso di ritrattazione del pensiero

tradizionale protocattolico, prima dominante, poi messo in crisi e superato, ma al tempo stesso

60Gaetano Lettieri, Il Differire della metafora, pag. 1

61 Ibidem 62Gaetano Lettieri, Il Differire della metafora, pag. 5

63Mario De Caro, Massimo Mori, Emidio Spinelli, Libero arbitrio. Storia di una controversia

filosofica, Roma Carocci Editore 2014, pag.155

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relativizzato e conservato in una nuova visione neopaolina: dal libero arbitrio dell’uomo si passa

all’annuncio del dono indebito che avviene nell’evento64

.

Viene a nascer un sistema teologico che dall’assoluta coerenza razionale del primo Agostino passa

al paradosso incomprensibile della libertà sovrana di Dio che si manifesta all’uomo. La Grazia così

risulta essere la manifestazione di un dono indebito e gratuito di Dio che salva e vivifica non in

modo universale, ma singolare: la salvezza risulta essere per l’altro Agostino destinata a poche

creature che sono gli eletti.

Agostino concepisce una nuova dottrina della giustificazione che diversifica gli uomini in due

categorie, eletti e reietti, in base all’imperscrutabile onnipotenza divina65

: essa fin dall’eternità

divide l’umanità in due creature distinte, non come nel primo Agostino dove tutta l’umanità poteva

attingere all’amore divino.

La libertà umana viene salvata dalla Grazia che libera l’uomo morto in sé ricreando in lui la vita

nuova: il soggetto in assenza di essa non è più libero, ma diviene peccaminoso. La visione

pessimistica antropologica dell’uomo è l’ombra di una gioiosa espropriazione della grazia divina66

.

Tutto ciò si spiega perfettamente nell’opera di Agostino del 412 il De Spiritu et Litteradove viene

rivelata la concezione antitetica di Dio e della libertà umana: la littera è la conoscenza estrinseca di

Dio visto come res eterna e fondamento dell’essere e della conoscenza. Qui Dio è solo oggettività

ossia meta da raggiungere da parte del soggetto che è mosso esclusivamente dal libero arbitrio: qui

compare tutta la teologia del primo Agostino. La legge della libertà naturale è la legge della

perversione e del peccato basata sull’autonomia e sull’autarchia: qui compare l’assolutizzazione e

l’autodivinizzazione.

64 Cfr. Mario De Caro, Massimo Mori, Emidio Spinelli, Libero arbitrio. Storia di una controversia

filosofica, Roma Carocci Editore 2014, pag.155

65 Cfr. Mario De Caro, Massimo Mori, Emidio Spinelli, Libero arbitrio. Storia di una controversia

filosofica, Roma Carocci Editore 2014, pag.156

66 Cfr. Mario De Caro, Massimo Mori, Emidio Spinelli, Libero arbitrio. Storia di una controversia

filosofica, Roma Carocci Editore 2014, pag.158

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Nella nuova visione Agostino contesta questa posizione tipica di Pelagio e dei platonici, i quali

sostenevano l’assoluta centralità della possibilità dell’atto libero il solo in grado di far compiere

l’azione nel soggetto:

“Dobbiamo sapere appunto che egli crede che né la nostra volontà, né la nostra attività sono

aiutate dall’aiuto divino, ma è aiutata unicamente la nostra possibilità di volere e di agire, la quale

dei tre fattori è la sola che secondo lui riceviamo da Dio67

Ciò significa attribuire all’ uomo una libertà redentiva che perfeziona la stessa creazione divina

“I pelagiani sostengono persino di avere Dio stesso non da Dio, ma da se stessi. E mentre

ammettono che la scienza della legge ci proviene da Dio, pretendono che la carità ci provenga da

noi stessi68

Quindi il pelagianesimo per Agostino è teologia letterale priva dello Spirito che vivifica l’uomo, la

vera libertà per l’altro Agostino è quella che rimette ogni cosa anche la volontà e l’azione a Dio: la

libertà vera è quella ritrattata dallo Spirito vivificatore, che è anche Dono69

.

La libertà dell’eletto è quindi espropriata , mossa da un’irresistibile potenza dove la mente umana è

alienata da sé e incapace di darsi un’autentica vita. Bisogna attendere e sperare nell’irruzione

dell’Altro, il quale agisce in modo irresistibile e anarchico: quindi la libertà dipende sempre da un

indisponibile atto, da un desiderio sottratto70

.

67Mario De Caro, Massimo Mori, Emidio Spinelli, Libero arbitrio. Storia di una controversia

filosofica, Roma Carocci Editore 2014, pag.159

68Ibidem

69 Cfr. Mario De Caro, Massimo Mori, Emidio Spinelli, Libero arbitrio. Storia di una controversia

filosofica, Roma Carocci Editore 2014, pag.159

70 Cfr. Mario De Caro, Massimo Mori, Emidio Spinelli, Libero arbitrio. Storia di una controversia

filosofica, Roma Carocci Editore 2014, pag.160

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Dio, irrompendo nella volontà creaturale, trasforma la volontà del soggetto che non può non volere

e non amare ciò che la fa innamorare

“E’ certo che simo noi a volere, quando vogliamo; ma a fare si che vogliamo il bene è Dio” “E’

Dio a volere, perché egli fa si che vogliamo noi71

L’autonomia della libertà è in realtà dipendente da un’irriducibile eteronomia del desiderio che è

potenza irresistibile e gratuitamente operante nel soggetto umano

“Sempre c’è in noi una volontà libera[…]. O essa è libera dal vincolo della giustizia, quando è

serva del peccato, o è libera dal vincolo del peccato, quando è serva della giustizia e allora è

buona […]. La Grazia di Dio non elimina la volontà, ma la cambia da cattiva in buona e dopo

averla fatta buona la soccorre […]. Il Signore opera nel cuore degli uomini per inclinare le loro

volontà dovunque voglia. Ora le volge al bene perché egli è misericordioso, ora al male, perché

essi lo meritano72

La teoria agostiniana della libertà a questo punto la si può distinguere in erotica e retorica: da un

lato la libertà è attratta dalla bellezza e dalla forza divina irresistibile, dall’altro lato la libertà vive

difede e di consenso alla parola persuasiva di Dio, capace di muovere l’assenso razionale umano: si

passa dalla suasio del primo Agostino alla persuasio retorica del secondo Agostino73

.

71Mario De Caro, Massimo Mori, Emidio Spinelli, Libero arbitrio. Storia di una controversia

filosofica, Roma Carocci Editore 2014, pag.160

72Mario De Caro, Massimo Mori, Emidio Spinelli, Libero arbitrio. Storia di una controversia

filosofica, Roma Carocci Editore 2014, pag.161

73 Cfr. Mario De Caro, Massimo Mori, Emidio Spinelli, Libero arbitrio. Storia di una controversia

filosofica, Roma Carocci Editore 2014, pag.161

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La libertà del soggetto non è mai astratta, pura, ma si rivela sempre incarnata in un preciso contesto

storico-sociale, vivendo quindi in uno status di appartenenza preciso e stabilito. Si può vedere come

la libertà navighi o nella possessione mondana e nell’illusione della res immanente oppure nella

speranza della trascendenza letta però come irruzione della Grazia salvifica nella storia. Qui si

denota la dicotomia tra l’amor sui e l’amor Dei: il primo è caratterizzato dalla superbia della

conoscenza e dell’autonomia della propria volontà, il secondo invece è fondato sulla confessione

della miseria umana e sull’eccedenza del dono della Grazia, la quale ricostituisce e rivivifica la

creatura74

.

Ogni cosa senza l’intervento dello Spiritus resta idolo terreno della volontà perversa umana, senza

la manifestazione anarchica del Dono eventuale ogni realtà storica-religiosa e politica risulta essere

un pervertimento terreno.

La relazione tra onnipotente volontà divina e libera volontà umana risulta essere una relazione di

ritrattazione tra una potestà assoluta e una relativa, e quest’ultima, se priva di Grazia, risulta essere

schiava della concupiscenza

“Abusando del libero arbitrio, l’uomo si perde e lo perde[…]. Peccando grazie al libero arbitrio, si

è perduto il libero arbitrio per il trionfo del peccato[…]. Ed è libero per il peccato chi è schiavo di

esso. Di conseguenza sarà libero di operare con giustizia solo chi avrà cominciato ad essere

schiavo della giustizia, una volta liberato dal peccato. E’ questa la vera libertà per la gioia

dell’azione retta e insieme una pia schiavitù per l’obbedienza dell’insegnamento75

La volontà creativa di Dio è dunque anarchica in confronto ad ogni schema razionale in quanto

assolutamente gratuito: così viene reduplicata la gratuità dell’atto creativo ex nihilo poiché oltre alla

creazione originaria del mondo, vi è una ricreazione della creatura da parte dello Spiritus anarchico.

Si può allora ammettere che paradossalmente la predestinazione divina, che irrompe liberamente in

alcune creature, riscatti la libertà umana nonostante privi la creatura di una propria libera volontà76

.

74

Cfr. Mario De Caro, Massimo Mori, Emidio Spinelli, Libero arbitrio. Storia di una controversia

filosofica, Roma Carocci Editore 2014, pag.162 75Mario De Caro, Massimo Mori, Emidio Spinelli, Libero arbitrio. Storia di una controversia

filosofica, Roma Carocci Editore 2014, pag.162

76 Cfr. Mario De Caro, Massimo Mori, Emidio Spinelli, Libero arbitrio. Storia di una controversia

filosofica, Roma Carocci Editore 2014, pag.164

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Quindi la predestinazione riscatta la libertà in quanto è l’esperienza decisiva del dono eventuale,

che non si potrà mai dominare e determinare in alcun modo.

Il possesso e la conoscenza sono in profonda antitesi con la fede, la carità e la speranza, lette da

Agostino come uniche in grado di garantire alla creatura la vera libertà: essa vive in uno stato di

completo abbandono al dono, all’evento dello Spiritus77

.

Questa teologia agostiniana ritrattata appare quindi a partire dal 397 con la stesura di Ad

Simplicianum I,2, dove emerge in modo chiaro la subordinazione della precedente ontoteologia

platonico-cristiana alla nuova dottrina della Grazia eventuale, che irrompe nella creatura

ricreandola. Tutto ciò si nota anche nell’opera del De Doctrina Christiana nella misura in cui

Agostino la interrompe per circa trent’anni per poi riprenderla e presentare nel secondo blocco

questa nuova visione filosofico-teologica: da qui la visione enigmatica del De Doctrina Christiana.

In sintesi si possono riscontrare quattro elementi che spiegano questo mutarsi di prospettiva, ossia il

passaggio da una teologia platonica alla dottrina della Grazia indebita:

° In primo luogo l’interruzione del De Doctrina Christiana dipende dalla scoperta della grazia

indebita e predestinata da parte di Agostino in Ad Simplicianum I,2, all’interno del quale

Agostino si allontana dalla platonizzante ontoteologia del primo blocco del De Doctrina

Christiana.

° In secondo luogo Agostino scopre non solo la corrispondenza tra ontologia ed ermeneutica,

ma anche tra queste e la grazia;

° in terzo luogo è evidente la retractatio del primo Agostino platonizzante con l’altro Agostino

che scopre la grazia onnipotente divina che si rivela come Caritas assoluta, ossia come

volontà incondizionata di relazione e d’amore.

° In quarto luogo ribalta la metafisica dell’ordine del primo blocco platonico dove infatti la

cognitio metafisica deve essere subordinata alla teologia della grazia affinché tutto abbia un

suo significato senza cadere nell’autoreferenzialità e nell’idolatria.78

In Ad Simplicianum I,2 compare una volontà mossa infallibilmente dalla misericordia che opera e

crea un libero consenso nell’uomo. Non volendo rinunciare alla libertà in Ad Simplicianum I,2

77Ibidem 78Cfr.G. Lettieri, L'altro Agostino. Ermeneutica e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi

delDe doctrina Christiana, Ed. Morcelliana, Brescia 2001, pag. 7-8

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l’autore afferma che l’uomo agisce libero ma al tempo stesso la grazia opera in lui. Quindi l’atto di

fede è il libero consenso dell’ uomo ad una chiamata che lo investe in maniera tale da produrre una

risposta affermativa a Dio.

Quindi avviene con Ad Simplicianum I,2 il passaggio dall’ontoteologia platonica alla rivelazione,

dalla veritas alla Caritas, dal platonismo al vangelo e dalla libertà alla grazia. Infine si può dire

chequesta teologia è la ritrattazione della prima ontoteologica platonizzante che viene trascesa e

conservata: in questa nuova teologia viene sottolineata la pochezza umana con un completo

scetticismo nei confronti della libertà e della virtù umana.

4.Le Confessioni: la scomparsa del sé

La seconda fase teologico-filosofica di Agostino, quella appunto caratterizzata dall’irruzione della

grazia nel soggetto umano, è testimoniata a partire dal 397 con la stesura di Ad Simplicianum I,2 e

andrà ad influenzare, come si è visto, anche il secondo blocco del De Doctrina Christiana, prima

interrotto poi ripreso.

Si può vedere la presenza di questo nuovo impianto teologico soprattutto nell’opera delle

Confessioni dove appunto nasce un nuovo modo di comunicare e di manifestare la fede: tutto

dipende fortemente dall’irruzione anarchica della Grazia salvifica.

Questo discorso teologico per esprimeretotalmente e in modo veritiero la sua portata trova spazio

comunicativo solo ed esclusivamente nella confessio, la quale rappresenta la manifestazione

sensibile della ritrattazione del pensiero ontoteologico platonico. Questo modello comunicativo si

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sviluppa mediante un’ eterobiografiadove la Grazia divina muove Agostino nel racconto della sua

vita: neanche la sua vita a questo punto può essere raccontata mediante schemi personali, ma solo

mediante l’ispirazione dello Spiritus79

. Agostino nelle Confessioni non parla di ciò che Dio non sa

in quanto Dio è il vero conoscitore della vita e dei desideri di ogni uomo

“Accetta l’olocausto delle mie confessioni dalla mano della mia lingua, formata e sollecitata da te

alla confessione del tuo nome. Risana tutte le mie ossa, e ti dicano: "Signore, chi simile a te?". Chi

a te si confessa non ti rende nota la sua intima storia, poiché un cuore chiuso non esclude da sé il

tuo occhio, né la durezza degli uomini respinge la tua mano, bensì tu la stempri a tuo piacere, con

la pietà o la punizione; e nessuno si sottrae al tuo calore. La mia anima ti lodi per amarti, ti

confessi gli atti della tua commiserazione per lodarti. L’intero tuo creato non interrompe mai il

canto delle tue lodi: né gli spiriti tutti attraverso la bocca rivolta verso di te, né gli esseri animati e

gli esseri materiali, attraverso la bocca di chi li contempla. Così la nostra anima, sollevandosi

dalla sua debolezza e appoggiandosi alle tue creature, trapassa fino a te, loro mirabile creatore. E

lì ha ristoro e vigore vero80

Senza l’irruzione della Grazia, il racconto risulta essere littera morta in quanto solo la presenza dell’

evento carismatico di Dio può esser fonte di verità: qui si fa riferimento al fatto che lo Spirituslibera

l’uomo dall’ ignoranza illuminando i fatti della vita81

.

“Tu, Signore, mi giudichi. Nessuno fra gli uomini conosce le cose dell'uomo, se non lo spirito

dell'uomo che è in lui. Viè tuttavia nell'uomo qualcosa, che neppure lo spirito stesso dell'uomo che

è in lui conosce; tu invece, Signore, sai tutto di lui per averlo creato82”

Quindi la luce dello Spiritus che viene, serve a redimere l’uomo dalla sua ignoranza e dalla sua

colpevolezza traendolo fuori così dalle tenebre del peccato.

Divenuto estatico, decentrato, mosso da Altro, il soggetto nelle Confessioni vive nel totale

abbandono nella speranza che il Dono gratuito di Dio venga a rivelarsi all’uomo: si moltiplicano le

invocazioni a Dio affinché venga a salvare l’uomo perso nel peccato83

.

79Cfr.Gaetano Lettieri, Il Differire della metafora, pag. 7 80Agostino, Le Confessioni, a cura di Maria Bettini, Einaudi, Torino 2013; libro V1,1 81Cfr.Gaetano Lettieri, Il Differire della metafora, pag. 8 82Agostino, Le Confessioni, a cura di Maria Bettini, Einaudi, Torino 2013; libro X,5,7 83Cfr.Gaetano Lettieri, Il Differire della metafora, pag. 10

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“Anche nella miserabile inquietudine degli spiriti che sprofondano e, denudati della veste della tua

luce, mostrano le proprie tenebre, tu indichi abbastanza chiaramente la grandezza cui hai chiamato

la creatura razionale; poiché nulla meno di te stesso, e quindi neppure se stessa le basta per la sua

felicità e il suo riposo. Tu infatti, Dio nostro, illuminerai le nostre tenebre. Da te proviene la nostra

veste, e le nostre tenebre saranno quale il mezzodì. Dammi te stesso, Dio mio, restituiscimi te

stesso. Io ti amo. Se così è poco, fammi amare più forte. Non posso misurare, per sapere quanto

manca al mio amore perché basti a spingere la mia vita fra le tue braccia e di là non toglierla

finché ripari al riparo del tuo volto. So questo soltanto: che tranne te, per me tutto è male, non solo

fuori di me, ma anche in me stesso; e che ogni mia ricchezza, se non è A mio Dio, è povertà84

A questo punto si può vedere la differenza presente tra il primo Agostino teso a cogliere l’assoluta

Verità, letta come Res assolutamente disponibile alla conoscenza umana, e l’altro Agostino che

vede il tutto come Dono eventuale che vivifica l’uomo: qui si nota una nuova dimensione che

procede dall’esterno all’interno del soggetto, al contrario del primo Agostino.

Agostino mostra, mediante una metafora, questo Dono dello Spiritus divino paragonandolo

all’andare per mano con Dio da parte dell’uomo85

“Che tu mi riesca più dolce di tutte le attrazioni dietro a cui correvo; che io, ti ami fortissimamente

e stringa con tutto il mio, intimo essere la tua mano; che tu mi scampi da ogni tentazione fino alla

fine86

In questa dinamica dove la Grazia ha un ruolo principale, il soggetto umano ha come mezzo

comunicativo il pianto, mediante il quale si confessa misero e peccaminoso ed incapace di arrivare

alla salvezza. Il pianto oltre ad essere una misera confessione, rappresenta l’appello alla venuta

dell’Altro87

84Agostino, Le Confessioni, a cura di Maria Bettini, Einaudi, Torino 2013; libro XIII 8,9 85Cfr.Gaetano Lettieri, Il Differire della metafora, pag. 9

86Agostino, Le Confessioni, a cura di Maria Bettini, Einaudi, Torino 2013; libro I, 15,24

87Cfr.Gaetano Lettieri, Il Differire della metafora, pag. 9

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“O Luce, che vedeva Tobia quando, questi occhi chiusi, insegnava al figlio la via della vita e lo

precedeva col piede della carità senza mai perdersi88

Qui allora diviene assoluta e radicale la negazione di un ruolo autonomo del libero arbitrio innanzi

al cospetto della Volontà assoluta che eternamente ordina qualsiasi movimento dell’animo umano:

quest’ultimo quindi non sussiste più come cosa in sé89

“O Signore, io sono servo tuo, io sono servo tuo e sono figlio dell’ancella tua. Poiché hai spezzato i

miei lacci, ti offrirò in sacrificio di lode una vittima. Ti lodi il mio cuore, la mia lingua; tutte le mie

ossa dicano: "Signore, chi simile a te?". Così dicano, e tu rispondimi, di’ all’anima mia: "La

salvezza tua io sono90

Quindi le Confessioni sono un’opera dove la libertà umana è felicemente nel possesso di un Altro, il

quale strappa la creatura dal nulla e la trae a sé: qui si evidenzia il paradosso in quanto si narra

un’esperienza umanamente impossibile da comunicare91

.

La mente umana quindi risulta essere svuotata e ricolmata da Dio, assoluta esteriorità indisponibile:

qui il soggetto è tenebra in se stesso, ma luce nell’ Altro92

.

“Ti comprenderò, o tu che mi comprendi; ti comprenderò come sono anche compreso da te. Virtù

dell’anima mia, entra in essa e adeguala a te, per tenerla e possederla senza macchia né ruga.

Questa è la mia speranza, per questo parlo, da questa speranza ho gioia ogni qual volta la mia

gioia è sana. Gli altri beni di questa vita meritano tanto meno le nostre lacrime, quanto più ne

versiamo per essi, e tanto più ne meritano, quanto meno ne versiamo. Ecco, tu amasti la verità,

88Agostino, Le Confessioni, a cura di Maria Bettini, Einaudi, Torino 2013; libro X, 34,52 89Cfr.G. Lettieri, L'altro Agostino. Ermeneutica e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi

delDe doctrina Christiana, Ed. Morcelliana, Brescia 2001 pag156 90Agostino, Le Confessioni, a cura di Maria Bettini, Einaudi, Torino 2013; libro IX , 1,1 91Cfr.G. Lettieri, L'altro Agostino. Ermeneutica e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi

delDe doctrina Christiana, Ed. Morcelliana, Brescia 2001, pag156

92Cfr.G. Lettieri, L'altro Agostino. Ermeneutica e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi

delDe doctrina Christiana, Ed. Morcelliana, Brescia 2001, pag157

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poiché chi l’attua viene alla luce. Voglio dunque attuarla dentro al mio cuore: davanti a te nella

mia confessione, e nel mio scritto davanti a molti testimoni93

La relazione tra uomo e Dio propria della confessio rovescia quindi l’intellettuale ascesi dai segni

alle res tipica della visione ontoteologica platonica del primo Agostino: la Caritas non è più letta

come virtù umana, ma bensì è Dio stesso che realizza la conversione nell’eletto94

.

La virtù umana non è quindi capace di amare Dio e di riceverne la sua Luce, tutto ciò è possibile

soltanto mediante la Grazia che irrompe in modo anarchico

“Eppure si avvicinano e sono illuminati al ricevere la tua luce, e quanti la ricevono, ricevono da te

il potere di divenire tuoi figli95

L’azione della Grazia avviene quindi come violenza irresistibile capace di trascinare la libertà

umana spezzando così la catena del peccato. Essa governa ormai ogni cosa: la fede a Dio, il

desiderio spirituale, la confessio che il fedele innalza a Dio. Si assiste nell’opera ad una paradossale

concordia tra la miseria umana, il libero arbitrio e la Grazia onnipotente che irrompe nell’esistenza

convertendo il fedele e ricreando in lui l’oggetto d’amore96

.

“Tu sei grande, Signore, e ben degno di lode; grande è la tua virtù, e la tua sapienza incalcolabile.

E l’uomo vuole lodarti, una particella del tuo creato, che si porta attorno il suo destino mortale,

che si porta attorno la prova del suo peccato e la prova che tu resisti ai superbi. Eppure l’uomo,

una particella del tuo creato, vuole lodarti. Sei tu che lo stimoli a dilettarsi delle tue lodi, perché ci

hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te. Concedimi, Signore, di

conoscere e capire se si deve prima invocarti o lodarti, prima conoscere oppure invocare. Ma come

potrebbe invocarti chi non ti conosce? Per ignoranza potrebbe invocare questo per quello. Dunque

93Agostino, Le Confessioni, a cura di Maria Bettini, Einaudi, Torino 2013; libro X , 1,1 94Cfr.G. Lettieri, L'altro Agostino. Ermeneutica e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi

delDe doctrina Christiana, Ed. Morcelliana, Brescia 2001, pag157

95Agostino, Le Confessioni, a cura di Maria Bettini, Einaudi, Torino 2013; libro VIII, 4,9 96Cfr.G. Lettieri, L'altro Agostino. Ermeneutica e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi

delDe doctrina Christiana, Ed. Morcelliana, Brescia 2001, pag153

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ti si deve piuttosto invocare per conoscere? Ma come invocheranno colui in cui non credettero? E

come credere, se prima nessuno dà l’annunzio?. Loderanno il Signore coloro che lo cercano?,

perché cercandolo lo trovano, e trovandolo lo loderanno. Che io ti cerchi, Signore, invocandoti, e

t’invochi credendoti, perché il tuo annunzio ci è giunto. T’invoca, Signore, la mia fede, che mi hai

dato e ispirato mediante il tuo Figlio fatto uomo, mediante l’opera del tuo Annunziatore97

Quindi il dono di Grazia è la parola ricreatrice ed è il vero soggetto delle confessioni: si comprende

che l’unico luogo della confessio a Dio è Dio stesso che contiene chi, invocandolo, lo ha in sé. La

confessio risulta essere ciò che fa avere un cuore contrito e umiliato e al tempo stesso fa vivere

l’esperienza di essere una creatura eletta su cui è presente l’opera di Dio: ciò che l’uomo ha di

buono è dono di Grazia in quanto l’uomo in sé e per sé è solo un peccatore.98

“Chi dunque ti ha dato questo privilegio? Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se

l’hai ricevuto, perché te ne vanti come non l’avessi ricevuto?99

L’uomo in quanto creatura perversa non ha possibilità di salvarsi se non mediante l’irruzione della

grazia salvifica che lo strappa dalla carnalità corrotta: qui Agostino fa riferimento al conflitto

interiore dell’uomo tra le due volontà irrazionali che lo dominano. La prima quella carnale tipica di

ogni creatura che fin dall’origine è corrotta e l’altra di natura spirituale è l’evento anarchico del

Dono: solo un atto indeterminato e incomprensibile all’uomo può donargli la salvezza e la

redenzione100

.

“Il nemico deteneva il mio volere e ne aveva foggiato una catena con cui mi stringeva. Sì, dalla

volontà perversa si genera la passione, e l’ubbidienza alla passione genera l’abitudine, e

97Agostino, Le Confessioni, a cura di Maria Bettini, Einaudi, Torino 2013; libro I, 1,1 98Cfr.G. Lettieri, L'altro Agostino. Ermeneutica e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi

delDe doctrina Christiana, Ed. Morcelliana, Brescia 2001, pag155

991Cor 4,7 100Cfr.G. Lettieri, L'altro Agostino. Ermeneutica e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi

delDe doctrina Christiana, Ed. Morcelliana, Brescia 2001, pag156

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l’acquiescenza all’abitudine genera la necessità. Con questa sorta di anelli collegati fra loro, per

cui ho parlato di catena, mi teneva avvinto una dura schiavitù. La volontà nuova, che aveva

cominciato a sorgere in me, volontà di servirti gratuitamente e goderti, o Dio, unica felicità sicura,

non era ancora capace di soverchiare la prima, indurita dall’anzianità. Così in me due volontà,

una vecchia, l’altra nuova, la prima carnale, la seconda spirituale, si scontravano e il loro dissidio

lacerava la mia anima101

Quindi è necessario l’atto esteriore dell’Altro che scioglie i legami con il peccato in quanto non è

possibile alcuna cosa al libero arbitrio dell’uomo

“Così parlavo e piangevo nell’amarezza sconfinata del mio cuore affranto. A un tratto dalla casa

vicina mi giunge una voce, come di fanciullo o fanciulla, non so, che diceva cantando e ripetendo

più volte: "Prendi e leggi, prendi e leggi". Mutai d’aspetto all’istante e cominciai a riflettere con la

massima cura se fosse una cantilena usata in qualche gioco di ragazzi, ma non ricordavo affatto di

averla udita da nessuna parte. Arginata la piena delle lacrime, mi alzai. L’unica interpretazione

possibile era per me che si trattasse di un comando divino ad aprire il libro e a leggere il primo

verso che vi avrei trovato102

Oltre ad un piano ontologico di salvezza della creatura, la Grazia fornisce una nuova comprensione

garantendo la conversione e l’illuminazione della peccaminosa intelligenza umana del tutto

incapace di possedere in sé la ragione del suo atto interpretativo: quindi la grazia offre un nuovo

impianto gnoseologico103

.

“Da molto mi riarde il desiderio di meditare la tua legge, di confessarti la mia conoscenza e la mia

ignoranza in proposito, le prime luci della tua illuminazione e i residui delle mie tenebre, fino a

quando la mia debolezza sia inghiottita dalla tua forza104

101Agostino, Le Confessioni, a cura di Maria Bettini, Einaudi, Torino 2013; libro VIII, 5,10 102Agostino, Le Confessioni, a cura di Maria Bettini, Einaudi, Torino 2013; libro VIII, 12,29 103Cfr.G. Lettieri, L'altro Agostino. Ermeneutica e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi

delDe doctrina Christiana, Ed. Morcelliana, Brescia 2001, pag177 104104Agostino, Le Confessioni, a cura di Maria Bettini, Einaudi, Torino 2013; libro XI, 2,2

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Crolla così il desiderio di conoscere dell’uomo tipico del primo Agostino, solo la luce della Grazia

può donare la vera comprensione: si assiste allo svelamento del Verbo divino nell’intelligenza

umana.

Anche la comprensione della Sacra Scrittura per Agostino necessita della venuta della Grazia che

deve svelarne il senso più autentico: Dio così opera nella creatura svelando un segreto nascosto alla

semplice comprensione umana105

.

Tutto ciò fa comprendere che la Sacra Scrittura non è un testo con un interpretazione

irrazionalistica, ma è rivendicato allo Spirito il ruolo principale di illuminare la dottrina esegeticaper

la comprensione umana.

“Ma Dio non potrebbe essere amato se non attraverso lo Spirito che ci diede, poiché l’amore di

Dio fu diffuso nei nostri cuori ad opera dello Spirito Santo che ci fu dato. Attraverso lo Spirito noi

vediamo come tutto ciò che in qualche modo è, è buono, poiché è da colui che non è in qualche

modo, ma è Colui che è106”

Lo Spirito Santo è ciò che perfeziona e rende viva ogni cosa nella creatura e nel creato: qui emerge

l’articolarsi della struttura della confessio che fa lodare l’azione dello Spirito che irrompe e svela

ogni cosa alla creatura107

.

Infine si può dire che si intreccia fortemente l’ermeneutica biblica con la nuova prospettiva

teologica di Agostino: nel Verbo divino parlare e creare si identificano, manifestando la presenza di

Dio che ha in sé tutto il reale. Avendo Dio in sé tutto il reale, nessuna conoscenza ontoteologica è

ormai possibile in quanto solo la grazia può aprire la mente alla conoscenza, solo nella grazia

indebita il tempo trova la sua vera realtà. Anche la Scrittura trova la sua vera e naturale

interpretazione nella dottrina della grazia divina, non essendo più ridotta ad un corpus dottrinale

ricavato tramite regole, ma divenendo il luogo dove lo spirito divino avviene e si manifesta.

105Cfr.G. Lettieri, L'altro Agostino. Ermeneutica e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi

delDe doctrina Christiana, Ed. Morcelliana, Brescia 2001, pag179 106Agostino, Le Confessioni, a cura di Maria Bettini, Einaudi, Torino 2013; libro XIII, 31,46 107Cfr.G. Lettieri, L'altro Agostino. Ermeneutica e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi

delDe doctrina Christiana, Ed. Morcelliana, Brescia 2001, pag184

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Conclusioni

Agostino presenta nella sua visione teologico-filosofica due fasi di pensiero ben distinte che

producono un differire che non è in sé una contraddizione, ma bensì è l’evolversi di una

conversione verso una lettura più matura della rivelazione divina.

A questo punto si può notare il passaggio da una visione metafisica-platonizzante dove la Verità è

qualcosa di universalmente fruibile mediante il libero sforzo della volontà umana alla visione della

Verità come qualcosa di indisponibile alla mente umana e dipendente esclusivamente dalla

manifestazione eventuale della Grazia.

In questa nuova prospettiva allora si evidenzia un andare oltre la visione interiorizzante ed ascetica

del primo Agostino fortemente fiducioso, sostenitore delle possibilità dell’uomo di elevarsi al

divino, che rappresentava la luce interiore a cui rivolgersi.

Lo scarto con la visione umanistica del primo Agostino è evidente in quanto avviene una

ritrattazione verso una nuova visione anti umanistica definita “meta-metafisica” nella misura in cui

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Dio è lontano dalle pretese di possesso di una comprensione totalmente fruibile poiché è

indisponibile.

Qui si denota pienamente una concezione anarchica di Dio che opera senza alcuna necessità in

quanto l’atto creativo e redentivo è del tutto libero.

Bibliografia:

Agostino “Natura del Bene”, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani 2001

Agostino, La Vera Religione, a cura di Marco Vannini, Milano, Mursia 2014

Gaetano Lettieri, Il Differire della metafora (articolo)

G. Lettieri, L'altro Agostino. Ermeneutica e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi delDe

doctrina Christiana, Ed. Morcelliana, Brescia 2001

Agostino, Il maestro e la parola, Il maestro, la dialettica, la retorica, la grammatica, a cura

di Maria Bettini, Bompiani 2004

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Mario De Caro, Massimo Mori, Emidio Spinelli, Libero arbitrio. Storia di una controversia

filosofica, Roma Carocci Editore 2014

Agostino, Le Confessioni, a cura di Maria Bettini, Einaudi, Torino 2013

Quaderni del Laboratorio Montessori

n. 3 – luglio 2016

Materiali didattici 2015-2016

ISSN: 1974-8787

© 2016 Edoardo Girardi

Materiali didattici 2015-2016

Edoardo Girardi

La questione pedagogica nella “critica omosessuale” di Mario Mieli

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La questione pedagogica nella “critica omosessuale” di Mario Mieli

di Edoardo Girardi

Scopo di questa tesina è un’analisi di Elementi di Critica Omosessuale1di Mario Mieli con uno

sguardo attentoalle sue ricadute pedagogiche. Ho cercato di farla guardando il testo controluce e riferendomi al contesto politico e culturale in cui furono avanzate le sue tesi, poiché Mieli non tratta esplicitamente tematiche pedagogiche se non occasionalmente. Eppure il filosofo milanese si sforza primariamente di ripensare e riformulare da un lato i legami tra la relazionalità (con sé e con gli altri) e i processi di trasformazione della persona e, dall’altro, le modalità in cui questi due elementi si influenzano vicendevolmente. Ebbene questi sonooggetti privilegiati anche dell’indagine pedagogica. Il tipo di analisi che useremo non sembra quindi esterno al campo indagato. Interessante mi è apparso inoltre tentare di cogliere analiticamente come all’interno del libro la tematica pedagogica venga sviluppata anche nel suo senso etimologico, ovvero con riferimento forte all'età che tradizionalmente viene considerata quella più densa di trasformazioni, la fanciullezza, e capire quali differenti meccanismi psichici questa tematica metta in gioco.Temi che meritano un approfondimento sia per la radicalità delle posizioni di Mieli, che per la loro centralità nella descrizione di una nuova umanità (che cercherò di delineare), il cui raggiungimento è il fine pratico che si propone il suo libro. In ultima analisi, l’obiettivo principale degli Elementi mi è parso essere proprio di tipo pedagogico: avendo cura della propria esperienza di diversità (effettiva o quantomeno elaborata come tale), partendo da essa e costantemente riferendovisi, Mieli cerca di tratteggiare un nuovo modo di vivere i rapporti e la trasformazione (vera e propria rivoluzione/redenzione) che questocomporta.

La scarsa (o nulla) risonanza delle tesi di Mieli nella letteratura pedagogicapotrebbe far tuttavia dubitare della validità di questo tipo di approccio. Va sottolineato che tale dimenticanza disciplinare non è indice di scarsa risonanza culturale dello scritto: infatti per Gianni Rossi Barilli si tratta del più importante saggio teorico italiano prodotto nell'area dei movimenti di liberazione sessuale2 e nell’ambito dei gender studies Mieli è conosciuto e rispettato. In particolare, molti teorici queer, che oggi dibattono sulla possibilità di dare nuova configurazione alle idee di “umano” e di “soggetto”e conseguentemente di pedagogia, riconoscono come le tesi degli Elementi abbiano forte consonanza di tematiche con la loro ricerca.3 Mieli oggi entra quindi, seppur di traverso, nel campo in cui si dovrebbe iscrivere questa tesina.

Aggiungerei che,piuttosto che essere dovuto all’indifferenza, quest’isolamento è programmatico nella stessa visione di Mieli, e rispecchia la posizione di radicale alterità critica in cui si pone lo scritto rispetto alla cultura della «Norma», ovvero la cultura istituzionale e condivisa, rifiutando radicalmente ogni contatto con l’accademia del suo tempo. Ma tale rifiuto non è una posa, un vezzo di un egocentrico solipsista: è frutto di anni di lavoro sperimentale e condiviso(svolto soprattutto nei “gruppi di autocoscienza” che furono «laboratori della liberazione sessuale molto in voga negli anni ‘70, dove la formula "il privato è politico" assunse la sua espressione più concreta»)4, è la

1M. Mieli, Elementi di critica omosessuale, Feltrinelli, Milano 2002 2 G. Rossi Barilli, Il movimento gay in Italia, Feltrinelli, Milano, 1999; La rivoluzione in corpo, in Elementi di critica

omosessuale, pp. 303-312 3 Cfr., per esempio, L. Bernini Élements de theoriequeer antisociale: Mieli, Hocquenghem, Bersani, Edelman& Co,

(https://www.academia.edu/3721395/%C3%89lements_de_theorie_queer_antisociale_Mieli_Hocquenghem_Bersani_Edelman_and_Co); C. Lane, L’estetica transessuale di Mieli, in Elementi di critica omosessuale, cit., p.283: «Il suo libro è un contributo preveggente all’antidentitarismo, che oggi costituisce tanta parte della teoria queer»; O. Fiorilli, Queer uno sguardo attraverso, (https://www.academia.edu/18871656/Queer_uno_sguardo_attraverso) 4 G. Rossi Barilli, La rivoluzione in corpo, cit., p. 304

2

conseguenza di un tentativo di elaborare nuovi concetti per capire la realtà a partire dal proprio sentirsi (ed essere additati come) diversi. Le tesi portate avanti negli Elementi sono inscindibili dalla prassi di vita e di lotta che le hanno fatte evolvere e che, mi pare, si intrecciano tra loro e vivificano l’impianto più schiettamente teoretico del libro, che poggia sulle impalcature incrociate del marxismo e della psicanalisi (con grandi debiti verso autori quali Marcuse e Norman O Brown) creativamente, e a volte forzatamente, mescolate.

Elementi di Critica Omosessuale si può quindi inserire in quel filone di studi che prova a ripensare le elaborazioni della sessualità che si muovono nel campo freudiano classico e che, già da più di un ventennio, venivano spesso percepite come omofobe e repressive;5 in questo senso il testo oggi presenta un limite sopra tutti gli altri (dovuto principalmente, ma non solo, a motivi cronologici): l'ignoranza completa di Foucault.6 Cercherò brevemente di esporre tali mancanze nella conclusione della mia analisi. Mi è parso però che Foucault, oltre che a mettere in crisi alcune conclusioni di Mieli, possa aiutarci anche a mostrare apsetti e contraddizioni poco appariscenti ma molto fecondi del testo, sia riguardo alla peculiarità della sua pedagogia sia per una rilettura generale del discorso sulla sessualità che soggiace al pensiero elaborato in questo testo e che non sempre emerge del tutto.

Abbiamo detto che le teorie di Freud sono per il nostro autore un costante punto di confronto e scontro dialettico per sviluppare la propria idea di sessualità. D’altro canto, forniscono l’impianto generale dell’analisi: Mieli, come molti altri pensatori legati alla pratica d’autocoscienza, pare scorgervi una via per universalizzare le sue esperienze di eterodossia sessuale. Ciò che muove il libro è essenzialmente una domanda: «Per quali motivi la società ci emargina e tanto duramente ci reprime?»; questo è il problema quotidiano che assilla gli omosessuali. E’ la constatazione di un dato di fatto evidente (seppur dissimulato), come lo è il fatto che la società non solo reprime ma perseguita e colpevolizza, cercando di rendere la vita dell’omosessuale invivibile. Per Mieli tale situazione ha origini antichissime, ma raggiunge il suo apice (e si presenta nelle forme che più interessano all’autore e a noi) nella fase del dominio reale del Capitale, ossia quando esso, dopo aver superato la fase storica in cui il suo fine è la sottomissionedel lavoro per la creazione di plusvalore, sviluppa oltre a ciò e definitivamente un nuovo modo di produzione (prettamente capitalistico per l’appunto) cui lo stesso plusvalore viene finalizzato.7In questa fase storica, che per Mieli inizia dal secondo dopoguerra, ha luogo una socializzazione non solo del lavoro, ma dell'uomo stesso: l'industria produce il "lavoratore complessivo", base dell’”uomo sociale di domani”, usando una formula di Camatte.

Mieli usa quindi l’analisi socioeconomica Marxista per relativizzare quella psico-antropologica freudiana, ossia: l’essere umano che ci presenta Freud è frutto (anche e soprattutto) delle leggi di produzione capitalistiche. Com'è questo “uomo sociale di domani” (che è ormai oggi)? E' fondamentalmente un essere mutilato, cheha perso le caratteristiche dell’umano e che si presenta come ciò che spesso la storia del pensiero e la psicanalisi ci indicano come “Persona” o “individuo”,8un prodotto alienato del Capitale. La società (“Kultur”) per sopravvivere ed espandersi nelle forme che le sono proprie produce la “Norma”. Con questo termine Mieli identifica modelli di individuo e di grammatica comportamentale che vengonoimposti e riconosciuti come normali e che formano l’individuo funzionale al Capitale: sostanzialmente, borghese eterosessuale. La Norma esercita il suo fortissimo potere culturale escludendo tutto ciò che non può includere, castrando le

5Mieli si riferisce a gran parte degli psicoterapeuti chiamandoli «psiconazisti»; cfr. M. Mieli, Elementi di critica omosessuale, cit., cap. 1 par. 5 6 «Ciò che davvero separa Elementi dall’attuale critica gay della sessualità […] è la sua ignoranza di Foucault». Tim Dean, ”Il mio tesoro”: note a posteriori da Elementi di critica omosessuale, cit.,p. 256-257 7 «La produzione per la produzione – come fine in sé», K. Marx, Il capitale, libro 1 capitolo 6, La nuova Italia, Firenze 1969 8 Cfr. M. Mieli, Elementi di teoria omosessuale, pp. 25 e 186

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potenzialità e la pienezza della sessualità e dell'umano stesso, costituendo, come detto, la Persona; con le parole di Jung (citato negli Elementi), «La persona è un complicato sistema di relazioni fra la coscienza individuale e la società, una specie di maschera che serve da un lato a fare una determinata impressione sugli altri, dall'altro a nascondere la vera natura dell'individuo».9 Ciò è estremamente pericoloso per il sé, poiché esso può arrivare ad identificarsi perfettamente con questa maschera sociale. Si finisce per identificare il proprio io con l’io della Norma, reprimendo una gran parte della propria natura e cristallizzando il proprio essere.

Freud offre a Mieli materiale fondamentale anche nella caratterizzazione positiva dell’umano, di ciò che non viene espresso perché represso. Il giovane filosofo recupera infatti l’idea che il bambino abbia una larghissima disponibilità erotica; la sua sessualità è «polimorfoperversa», e nessuna delle cosiddette perversioni le è estranea.Lo stare al mondo infantile sarebbe caratterizzato dalla costante positività del desiderio, che non solo non esita a rivolgersi verso persone dello stesso sesso, ma si dispiega in infinite altre perversioni come la coprofagia o il sadomasochismo. Tale condizione è universale, e quindi in chiunque vi è una predisposizione erotica per persone dello stesso sesso.

Nel bambino, che non è stato ancora normalizzato, ha libera espressione l’Eros, pulsione vitale e desiderativa primaria del soggetto umano, sua essenza profonda, originariamente polimorfa e attiva (non esiste, infatti, desiderio negativo, l’energia dell’essere umano altro non può se non essere appropriativa)10. L’Eros è intrinsecamente destrutturante e rifugge dall’incanalazione, dalla teleologia statica e univoca.11 Ecco perché la civiltà, man mano che cresce il suo grandioso edificio, ha sempre più bisogno di una Norma per difendere i propri fini (che non sono, evidentemente, affini a quelli dell’umano), che possonocoincidere solo con la monosessualità eterosessuale, in quanto base della famiglia borghese, e che considera perverso (ossia, non orientato nella giusta direzione teleologica) tutto ciò che esula dal campo che delimita. L’omosessuale, non ostante la grande pressione normalizzante, riesce a non reprimere una pulsione erotica che gli altri invece negano. In ogni caso, tale pulsione è originariamente condivisa da tutti! Affermazione centrale per un libro che nasce dall’ambiente di lotta gay.

La Persona (il cui archetipo è nella figura paterna per l'uomo e materna per la donna) da maschera sociale diviene fatalmente Norma prescrittiva: tutto l'Eros che non è funzionale alla costruzione del nucleo familiare «normale» viene rimosso, ossia negato a livello di coscienza. Ciò produce anche in un secondo modo un ritorno per il Capitale, in quanto la forza repressa dell’Eros perverso (che sarebbe naturalmentedissipatrice, ossia fine a sé stessa) viene sublimata nel lavoro; la storia della civiltà è storia dell'Eros represso, poiché esso viene espropriato dell’energia capace di edificarla.12Mieli arriva così a stabilire la necessità inderogabile per la lotta comunista rivoluzionaria di dedicarsianche e soprattutto alla questione della sessualità:l’Eros, in quanto muove il processo storico, viene definitosottostrutturale.13

L’analisi della sublimazione prosegue e si confronta anche con i suoi meccanismi più recenti,suggerendocicome l'Eros perverso oggi non sia solo perseguitato; spesso viene esso stesso accettato eliberalizzato (specie per quanto riguarda l’omosessualità), non però liberato. Ci viene concesso piuttosto sotto forma di merce, di feticcio (per esempio, dall’industria pornografica). 9C. G. Jung, L’io e l’inconscio, Boringhieri, Torino 1973 (citato da M. Mieli, Elementi di critica omosessuale, cit., p.25) 10M. Mieli, Elementi di critica omosessuale, cit., p.174: «L’esistenza del desiderio si riduce in gran parte all’esistenza del desiderio negato». 11 ivi, p. 50: «Considerare la sessualità come finalizzata alla riproduzione significa applicare una categoria interpretativa teleologico-eterosessuale, e quindi riduttiva, al complesso molteplice delle funzioni libidiche dell’esistenza» 12 ivi, p. 30. Trovandoci però nella fase storica del Capitalismo reale Mieli non tralascia di far notare, seguendo pedissequamente Marx, che, in quanto il lavoro perde in tale momento centralità nella produzione di plusvalore, la sublimazione di sessualità è obsoleta ed ha ormai mera funzione sociale. Ivi, p. 216-217 13 ivi, p. 219

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L’omosessualità finisce per essere sfruttata economicamente.Quest’idea ci porta quindi a condannare duramente tendenze riformiste (presenti sin dalla nascita del movimento gay),14che si presentano come progressiste ma ad un occhio attento si rivelano inveceesse stesse funzionali al dominio normativizzante: la desublimazione resta in questo caso repressiva in quanto l'Eros è finalizzato alla produzione e, in quanto merce, non può che essere alienante e alienato. Inoltre, riconoscendo il diritto degli omosessuali ad essere, in una certa misura, «diversi», si insabbia il fatto che la Norma operi con violenza anche verso chi non si dichiara e non si riconosce omosessuale, poiché la monosessualità è sempre creata eteronomamente.15 Questo Eros non spinge verso l’amore o il rapporto, che restano comunque repressi, vedremo poi meglio perché. La tolleranza è fondamentalmente un escamotage per non confrontarsi realmente con una diversità che è completamente esterna alla logica dei rapporti sociali, o meglio asociali in quanto non umani, della Norma, e che altrimenti li sovvertirebbe.

La rivoluzione comunista è quindi l'unica via per arrivare ad una umanità non alienata e libera, in grado di esprimere nuovamente l’Eros nella sua pienezza. Ci si potrebbe chiedere che ruolo preciso abbia l’omosessualità in tale programma rivoluzionario, e perché si parla di “critica omosessuale”.Prima di tutto è importante ripetere che Mieli considera il desiderio verso persone del proprio sesso universale, o meglio: ognuno nasce con tale disposizione desiderativa, e solo in un secondo momento essa viene negata (e, più che rimossa, resa latente, come vedremo in seguito). Questa è già un’acquisizione fondamentale rispetto alla domanda iniziale, quella che abbiamo chiamato la questione quotidiana di chi vive l’omosessualità («Per quali motivi la società ci emargina e tanto duramente ci reprime?»), e costituisce una grande arma politica contro analisi regressiste sull’omosessualità molto frequenti negli anni 70. Partendo da quest’acquisizione ci rendiamo subito conto di quanto queste posizioni siano lontane da possibili rivendicazioni liberali che si basano sulla libertà di scelta («omosessuali si nasce, non si diventa» sintetizzerà Mieli).16

L’esperienza omosessuale diviene inoltre centrale non di per sé, ma in quanto ci mette a contatto con il diverso dalla Norma, diverso che è al contempo ciò che è più propriodell’umano. E’ un punto di vista estraniato che permette di cogliere la castrazione messa in atto dal mortifero Capitale e, facendo questo, apre alla possibilità della rivoluzione, che è prima di tutto trasformazione individuale verso l’Eros libero. Mieli si riferisce a questa condizione trasformatacome “transessualità originaria” o “profonda”, non intesa nel senso di bisessualità (che riconosce solo due possibili alternative sessuali) ma appunto come estrema multiformità del desiderio, polisessualità; solo essa rispecchierebbe la nostra essenza profonda e ci permetterebbe di passare da «sopravvivere a vivere».

E’ solo l’educazione (in particolare quella precoce del nucleo famigliare) a forzare l’individuo verso la monosessualità, non concedendogli uno sviluppo armonioso del desiderio. Questo punto di dissonanza con Freud, per il quale vi è anche una tendenza naturale ad abbandonare pulsioni perverse infantili,17 ci rivela che proprio qui risiede lo snodo che consente di prospettare un’unione

14 I primi gruppi di lotta di rivendicazioni omosessuali nascono in America dopo la celebre “rivolta di Stonewall”, svoltasi tra la notte del 26 e quella del 27 giugno 1969; in Italia il primo gruppo fu il Fuori, fondato da Angelo Pezzana nel 1971. Benché il movimento si attestasse su posizioni spesso affini a quelle rivoluzionarie, non mancarono mai anime riformiste, che divennero maggioritarie nel corso degli anni per il grande appoggio che i militanti ricevettero dai Radicali. Non furono invece pochi i momenti di tensione con i gruppi di sinistra marxista. Per una analisi storica completa, cfr. G. Rossi Barilli, Il movimento gay in Italia 15 Cfr. intervento di Mario Mieli in «Fuori!», XIV, 1976, pp. 17-18 16 In questa affermazione si possono però notare anche dei rischi connessi all’esplicitazione di un’essenza umana, che proverò ad illustrare in seguito 17 «Nel bambino civile si ha l’impressione che la costruzione di questi argini [potenze psichiche che più tardi si presentano come ostacoli alla pulsione sessuale] sia opera dell’educazione […] In realtà questo sviluppo è condizionato organicamente, fissato ereditariamente, e può talvolta verificarsi senza alcun aiuto dell’educazione. L’educazione

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tra Marx e Freud sotto il segno di una rivoluzione che, da un lato, deriva dalla psicanalisi l’attenzione per il lavoro sul privato (non ci può essere rivoluzione senza rivoluzione sessuale), dall’altro promette un modo nuovo e, finalmente, umano di stare al mondo e di vivere con le persone. Perché i rapporti non siano più alienati, bisogna riappropriarsi di sé.18

Cosa succede quindi durante la crescita, come si diventa “Persone”? L'educazione impartita secondo la Norma è "educastrazione": «L'educastrazione ha come obiettivo primario la trasformazione del bimbo, tendenzialmente polimorfo e perverso, in adulto eterosessuale, eroticamente mutilato»19. Si instaura un processo di rimozione dei desideri “non normali”, che restano però latenti, residui,e che vengono sublimati o deformati in sindromi patologiche. Mieli, non accogliendo il concetto di Eros come lo presenta Freud, una forza conservatrice che spinge il desiderio teleologicamente verso la riproduzione, ma presentandolo invece come fenomeno della nostra essenza transessuale, rovescia il giudizio per cui solo il coito genitale eterosessuale non presenta devianze: le attività sessuali vengono considerate normali o perverse solo in base a parametri di giudizio relativi, storici e culturali. E’ da notare che per Freud stesso non è la devianza ad essere patologica (in quanto universale); al contrario la patologia psiconevrotica è determinata dalla repressione della libido.

In quest’analisi, come detto, l’omosessualità non ha un ruolo qualitativamente unico, ma è una delle tante tendenze che vengono rifiutate. Siccome però si presenta come molto difficile da nascondere per la Norma (basti banalmente pensare che metà della popolazione mondiale è dello stesso sesso) diventa un vero e proprio tabù, azione proibita ma verso la quale l'inconscio tende costantemente; la nevrosi non è legata direttamente al desiderio omosessuale ma alla sua latenza. Per rinnegare tale tendenza esulante dalla Norma si perseguono socialmente i gay; la nevrosi omosessuale altro non è se non frutto di quella etero, che presenta la pratica dell’omosessualità come mostruosa e produce gravissimi sensi di colpa. Ma è chiaro che al contempo l’attrazione per il proprio sesso è un’indomabile principio di azione rivoluzionaria e mostra la libertà transessuale che sola può garantire la restaurazione dell’umano, sottrarlo dall’alienazione.

Prendiamo ora in considerazione i meccanismi psichici che determinano la repressione nell’educazione.

Per Freud nel meccanismo di rimozione entrano in gioco fattori sia biologici che socioculturali; la fase latente della libido infantile (che caratterizza la vita infantile dai sei anni alla pubertà) è un passaggio di crescita fisiologico. Per Mieli invece la latenza è figlia di una castrazione del desiderio operata dalla mortifera imposizione della “griglia edipica”.I bambini hanno «voglia di Eros», e una giusta pratica educativa non la negherebbe, piuttosto riconoscerebbe il grande valore della pederastia per coltivare il desiderio infantile in tutte le sue forme.20Invece per prima cosa l’educazione famigliare reprime tale desiderio multiforme e lo instrada poi verso una sessualitàcompletamente artificiale; anche l’identificazione con un solo sesso, l’assunzione di un’identità sessuale univoca è imposta dall’educastrazione.

La famiglia è l'unità basilare della società che ha dato vita alla Norma e si costituisce grazie ad una polarizzazione "maschile/femminile". Ciò contrasta con il fatto che in ogni essere umano vi è

rimane in tutto e per tutto nella sfera che le è propria se si limita a favorire ciò che è organicamente predeterminato» Freud, Opere 1900-1905. Vol. 4: Tre saggi sulla teoria sessuale e altri scritti, Boringhieri Torino 1970, cit., p. 488 18 «Non si ferma a riflettere che repressione (politica) e rimozione (psichica) appartengono ad ordini concettuali distinti […] liberare il soggetto umano dalla rimozione, se pur fosse possibile, varrebbe a renderlo assolutamente inerme non solo di fronte ai genitori, agli adulti e alla norma sociale ma anche alle pretese smisurate dell’Es», T. De Lauretis, La

gaia scienza, ovvero la traviata Norma, in Elementi di critica omosessuale, cit., p.265 . Ciò ci mostra di come la lettura psicanalitica venga mossa da un motore desiderativo a lei esterna, l’analisi comunista. 19 M. Mieli, Elementi di critica omosessuale, cit., p. 17 20 Cfr. ivi, cap. 1, par. 8.

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innegabilmente sia il femminile che il maschile.Possiamo dire usando Jung che ciascunfemminile ha un “Animus” e ciascun maschile un'”Anima”.21Questiaggettivi non hanno però niente a che fare con le categorie di virilità e femminilità che la Norma ci presenta quotidianamente e che sono piuttosto mutilazioni e cristallizzazioni dell'armoniosa coesistenza di generi e desideri nel bambino.

Il bambino ha come modelli i genitori che gli mostrano e gli insegnano tale scissione dell'umano: per essere come il padre, se ha organi di riproduzione maschile, o come la madre, se ha quelli femminili,sarà violentemente costretto a ripudiare parte del suo eros, ossia parte del suo essere, per divenire una Persona. Gli elementi femminili del bimbo maschio che sono stati castrati verranno proiettati sulla madre, primo oggetto di attenzione sessuale, e lo attrarranno come componenti del proprio essere repressi. L’eterosessualità «si basa sulla proiezione dell’altro sesso latente in noi su persone del sesso opposto»: è una forma di sessualità alienata perché fondata sull’estraniazione dell’essere umano da sé.E’ inoltre una forma di narcisismo poiché il maschio eterosessuale, rimuovendo il desiderio gay, pone sé stesso quale unico oggetto omosessuale e impone il proprio autoerotismo anche alle donne, in quanto non vede altro in loro se non sé stesso. L’uomo non può amare la donna perché la usa solo per amare, in maniera alienata, le proprie caratteristiche ripudiate. Così si costituisce la femminilità, per imposizione maschile. Le identità di genere della Norma si reggono sulla soggezione delle donne, l'estraniazione dell'essere umano da sè e la negazione della comunità. Aggiungo che è interessante che questo desiderio narcisistico venga definito “aspirazione alla totalità”; tornerò su questo punto in seguito.

Le cure parentali quindi, lungi dal garantire un'educazione equilibrata calibrando elementi diversi, impongono un'alienazione della sessualità, ossia un'estraniazione di ciò che è più profondo nell'uomo (l'eros) dall'uomo stesso, che non può più accedervi. Per usare termini psicanalitici, l’Io si scinde dall’Es, divengono tra loro non comunicanti. L'uomo non può riconoscersi per quello che è, Animus e Anima, e così facendo non può conoscere neanche l'altro, che diventa oggetto di desiderio (fatalmente frustrato) di appropriazione egotica. La conoscenza e la cura di sé, del proprio Es, sembrano essere quindi l’unico modo per amare realmente gli altri, ossia accettarli nelle loro diversità.

Qui troviamo il nodo centrale che lega Rivoluzione e esperienza omosessuale: la rivoluzione sociale seguirà ad una relazionale, ad un nuovo modo di rapportarsi con sé, e conseguentemente con gli altri, che si svincoli dalle restrizioni imposte dalla Norma eterosessuale eal quale si può accedere solo grazie ad un’esperienza pratica che liberi dalla coazione a ripetere, che ci metta in contatto con ciò che l’Io (e la ragione) vieta. La rivoluzione personale si riversa necessariamente nell'ambito politico, perché l'uomo è nella sua essenza Eros e quindi costituzionalmente aperto verso l’altro, trascendente i limiti.

L’omosessualità acquista valore liberatorio come pratica che fa da ponte verso una condizione lontana dalla Norma.22 Mieli stesso dichiara la difficoltà della lingua ad esprimerequesto stato: sia per sue mancanze,23sia per l’irriducibilità di tale esperienza a concetti razionali, a discorsi fondati sulla consequenzialità logica che sono in grado di restituire solo ciò che è al di qua del «Velo di Maya», il falso mondo del desiderio castrato e strozzato. Tale irriducibilità riposa su quella dell’esperienza alla teoria (ecco perché, come ripete più volte, dell’omosessualità possono parlare solo gli omosessuali, e perché il “battere”24 sia più efficace di qualsiasi comizio); direi inoltre irriducibilità dell’Es all’Io. Nel paragrafo tre del quarto capitolo degli Elementi Mieli cerca di

21 Cfr. Carl G. Jung, L’Io e l’inconscio, Boringhieri, Torino 1973 23Rilevanti in questo senso sono, per esempio, la nota 14 a p. 21, e p. 7 («mischiarsi dei toni barbosi scolastici con quelli meno inibiti di un modo di esprimersi più gaio»), entrambi da M. Mieli, Elementi di critica omosessuale, cit. 24 Per l’uso che negli Elementi si fa di questo termine, cfr. ivi nota 1, capitolo 1 paragrafo 2

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analizzare un’altra esperienza del “diverso” vissuta in prima persona, il «trip schizofrenico», assimilata all’omosessualità e definita “magica”.

Mi sembra che stiano venendo alla luce nodi concettuali interessanti intorno al problema dell’ “esperienza”. Bisogna sempre ricordare che gli Elementi sono sì un testo teoretico ma nascono per istanze di battaglia, e battagliere sono le sue finalità.La necessità di pratiche nuove che ci portassero oltre i limiti che imponeva un linguaggio non sentito come proprio è stata un’istanza diffusamente sentita già dalla fine degli anni ’60 negli ambienti di controcultura. L’idea era che una nuova cultura e dei nuovi modi di esprimersi si potessero elaborare solo grazie al confronto dialettico tra esperienze di esclusione, non ancora pensate e nè dette.

Gli Elementi di Critica sono il risultato e la summa delle conclusioni tratte dai lavori collettivi di “autocoscienza”: tentativi di promuovere tale nuova produzione. Per Corrado Levi questo lavoro«era un'esperienza educativa e anche fonte di conoscenza teorica. Secondo me, tutte le riflessioni teoriche che abbiamo tirato fuori io, Mario e altri sono nate da quegli incontri».25Ma i gruppi di autocoscienza non sono solo la causa efficiente di questo libro e di tanta parte della produzione politica gay. Credo che influenzino ad un livello molto profondo le teorie di Mieli per l’idea di persona, di relazioni e di potere che sottendono. Inscritto in essi vi è non solo la scaturigine dell'opera,ma anche spunti per il suo fine liberatorio, il punto in cui il teorico si riversa nel politico e vice versa.

L’«autocoscienza» è una pratica sviluppatasi in ambito femminista. Nacque verso la metà degli anni Sessanta in America e fu adottata in Italia per la prima volta da Carla Lonzi nel 1970. Consisteva nell’incontrarsi tra donne, in gruppi volutamente piccoli, «per parlare di sé o di qualsiasi altra cosa purché sia in base alla propria esperienza personale»26. Si pensava che la donna non avesse ancora un’identità, che non rielaborasse la propria vita quotidiana per renderla vissuto in modo autonomo, ma soprattutto che non avesse spazio sociale: il femminile era un’identità slegata, atomizzata, apolitica, che si costituiva solo per il rapporto di soggezione con il maschile. Ci si rende conto che «Le donne sono un problema sociale».27Ilfine del femminismo italiano alla sua nascita (sin dal suo primo documento, il Manifesto programmatico del gruppo Demau)era ripensare i rapporti di una società che negava il ruolo sociale della femminilità, costringendo la donna o a vivere isolata, o a rinunciare al proprio sesso mascolinizzandosi.

Al contempo vi era la necessità di creareun“soggetto” donna che non era mai esistito, capace di pensare da sé la storia e la società. Il problema più grande cui ci si trovava di fronte consisteva nei mezzi, negli strumenti concettuali di cui servirsi,poiché quelli esistiti finora negavano per l’appunto alle donne di essere principio pensante. Ecco che l’autocoscienza sembra essere un momento imprescindibile: da un lato era necessario che ciascuna avesse finalmente la libertà di parlare di sé, di esprimere desideri e piaceri e paure, dall’altro l’esperienza vissuta dal soggetto femminileveniva considerata come feconda di possibilità nuove e non ancora contaminate dal maschilismo, perché mai del tutto riducibile a concettualizzazione e quindi ancora zona franca; è possibile insomma partire da essa per scoprirvi parole nuove. «C’era […] la tesi di un’intrinseca autenticità del vissuto personale e quindi della parola che lo significa. L’autenticità era assolutizzata, nel senso che non ci sarebbe stata altra possibile autenticità per le donne che riferirsi a ciò che vivevano in prima persona»28.

La sua grande conquista dell’autocoscienza fu di dare identità politica alla donna, facendola nascere come soggetto intrinsecamente relazionale: si conosce il sé come comune all’altro. «La pratica

25 Cfr. G. Rossi Barilli, Il movimento gay in Italia 26Cfr. Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, Rosenberg &Sellier, Milano 1987, p. 32 27 Ivi, p.26 28 Ivi, p. 35

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dell’autocoscienza presupponeva e favoriva una perfetta identificazione reciproca. Io sono te, e tu sei me, le parole che una dice sono parola di donna, sono tue e mie. Questo, si intende, vale nella misura in cui la donna che parla ha coscienza di sé o l’ha guadagnata politicamente. La presa di coscienza essendo l’atto politico in cui si scopre e afferma la comune identità femminile»29. Imprescindibile è quindi una rivoluzione sociale che permetta alla donna di ottenere la sua dimensione politica, ma soprattutto che permetta la politicità nuova che apporta la donnadivenuta soggetto.Le parole nuove del femminile ci permettono di ripensarci come esseri relazionali.

Vediamo come molte delle tematiche teoriche dell’autocoscienza abbiano delle assonanze con dichiarazioni degli Elementi.D’altra parte, questo libro è mosso dalla convinzione che solo gli omosessuali possano dire cose sensate su loro stessi. Come ci dice Corrado Levi in un articolo di Fuori! che tenta di ripercorrere il lavoro del gruppo di Milano, dopo aver eliminato tutti quelli che considerano pregiudizi (ossia giudizi dati da persone che non vivono ciò di cui parlano), i compagni devono fare i conti con quanto a tali pregiudizi si sottraeva, il corpo: «Il nostro corpo diventa per noi uno strumento, fra gli altri, di conoscenza. Sperimentando tutte le possibilità che esso offre, suonandolo in tutti i registri come si direbbe di uno strumento musicale, e in tutte le modalità […], ponendo l’attenzione sulle relazioni di piacere, ma soprattutto su quelle di dispiacere, di disgusto, di repellenza, tentiamo di isolare da queste il loro aspetto culturale che è generalmente legato ai valori sociali correnti […] e che nulla ha a che vedere con le potenzialità del corpo.»30

Si capisce bene come il lavoro di unire quest’idea di un luogo che ci è più proprio, non toccato dai valori condivisi (la Norma di Mieli) e fonte di una potenza trasformativa inesausta, con l’Es sia facile. Mieli radicalizza alcuni esiti dell’autocoscienza femminista: omosessualità ed esperienza schizofrenica mostrano la natura intersoggettiva dell’uomo, che riposa nelsuo profondo intoccata dalla Norma, ovvero l’Es, che segue la legge del desiderio. Ed è proprio ascoltando il nostro corpo che sentiamo il nostro Es. Ciò emerge chiaramente quando Mieli parla del Narcisismo omosessuale: diverso da quello etero che impedisce di riconoscere gli altri imponendogli parte del proprio sé rinnegato, il narcisismo omosessuale «scopre sé stesso negli altri, coglie l’umanità attraverso le diversità che distinguono i singoli uomini. Se Narciso, cogliendosi nell’acqua, nel mondo, valica poeticamente il confine tra io e non io che sta alla radice della nevrosi occidentale della contrapposizione tra materia e spirito, oggi non è possibile una riconciliazione rivoluzionaria totalizzante tra esseri umani senza che ci si riconosca gli uni negli altri, nella natura, nei nostri corpi e nel progetto comune comunista. Narciso, oggi, potrebbe essere un simbolo rivoluzionario»31 Il processo comunista deve passare per la liberazione dell’Eros, che comporta l’esplosione dell’inconscio collettivo; tale esplosione «dissolve e dilata i confini dell’Io», non più solo Ego, non più schizofrenicamente scisso. La tensione è quindi rivolta al superamento della divisione in tutte le sue forme:di alienazione dei rapporti, di separazione schizofrenica tra Es ed Io, di allontanamento repressivo del desiderio dal suo oggetto, finanche nella forma di limite dell’essere umano che separa ciò che è interno dall’esterno; «Se per non-Io si può intendere sia l’Es che il mondo “esterno”,allora i “pazzi” dimostrano come la conoscenza del profondovalichi l’individualità e i confini tra Io e non-Io: una volta superatala doppia separazione del mondo “esterno” e dell’Es dall’Io,s’intuisce che l’Io “normalmente” non è altro se non barrierarepressiva (in quanto prodotto della repressione e costruita sullarimozione) tra il nostro profondo e il cosmo. L’Es (il non-Iointerno) e il mondo “esterno” (il non-Io esterno) si illuminano avicenda, poiché si

29 Ivi, p. 3 30 Cfr. «Fuori!», VII, 1973, p. 12. Mieli si esprime con parole simili: «Il corpo deve diventare luogo e mezzo di conoscenza e di evoluzione personale e di gruppo. L’essere umano è potenzialmente libero, ma poi l’educazione, la famiglia, l’ambiente lo condizionano e solo attraverso il corpo, “nostra vera e unica proprietà” in senso stirneriano possiamo riconquistare la nostra libertà e dunque lottare anche per la libertà altrui» Cfr. anche l’intervista Alchimia,

merda, droga e sogno in G. Silvestri, L’ultimo Mario Mieli, Edizioni Libreria Croce, Roma 2002, p. 68 31 M. Mieli, Elementi di critica omosessuale, cit., p. 225

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sono sempre determinati reciprocamente».Qualsiasi razionalizzazione dell’Eros, operando una scissione dell’unità dell’esperienza transessuale in concetti castranti, è molto lontana dal comprenderne la follia. Per questo Mieli ha difficoltà ad esprimersi in forma di saggio e parla della falsità che è difficile evitare scrivendo; per questo non scriverà altri grandi saggi e si dedicherà a forme di conoscenza misteriche ed alchemiche. Il desiderio spinge sempre verso “l’Uno” (come ci insegna il più volte citato mito Platonico) ed è interessante che Mieli riesca a declinarlo sia in senso mistico che comunista, e sempre più l’armonia con l’intero universo, anche con la morte stessa,32 si identificheranno con la rivoluzione.33 Costruendo una visione dell’umano così radicalmente aperta alla relazione col diverso Mieli rischia forse però di annullare tale diversità, ossia di ricomprenderla sempre in qualcosa che ci è proprio e di eliminare così sostanzialmente la sua alterità. Affronteremo dopo il problema. Per tornare all’autocoscienza, è da notare come tale pratica veda l’educazione come un lavoro di trasformazione qualitativa più che di accrescimento quantitativo, di avvicinamento ad un modello, che è invece il lavoro che si prefigge l’educazione famigliare per Mieli. E’ necessario un lavoro su sé stessi, una pratica di “cura di sé”: rieducarsi per liberarsi. Come annunciato all’inizio, vorrei mettere a confronto e in risonanza alcune delle tematiche degli Elementicon degli spunti tratti da lavori di Foucault. L’accostamento tra i sue autoriè molto frequente in riletture di studiosi delle opere di entrambi, e per molti è proprio la lontananza che emerge tra i duel’aspetto più critico delle riflessioni di Mieli. Basti citare Tim Dean, per il quale l’ignoranza di Foucault è ciò che rende gli Elementipiù lontani dall’attuale critica gay, e De Lauretis, che suggerisce che non abbia più senso parlare di Norma dopo ciò che ha scritto il filosofo francese. Ho pensato però di trovare dei parallelismi tra questi due autori prima di analizzare i nodi che vengono al pettine leggendo soprattutto La volontà di sapere.34

Abbiamo più volte ripetuto la necessità della rivoluzione del rapporto con sé per poter cambiare il rapporto con gli altri. Questo schema ricorda da vicino quello della epimeleiaheautou di cui si occupa Foucault ne L’ermeneutica del soggetto. La cura di sé rappresenta «l’insieme delle condizioni di spiritualità, l’insieme delle trasformazioni di sé che rappresentano la condizione necessaria per avere accesso alla verità»35 nel mondo greco. Per una vasta fetta della cultura e della filosofia greca, di cui Foucault prende come interlocutore privilegiato Platone, la pedagogia consisteva primariamente in un lavoro su se stessi. La trasformazione di sé necessaria per arrivare alla verità si compie attraverso la coscienza, e tale coscienza si ottiene sempre in un confronto con l’altro, che per Platone è il maestro, Socrate. Sappiamo che anche per Mieli è necessaria una trasformazione del soggetto (anche se volta ad un ritorno a qualcosa di originario) per giungere in contatto con la verità; il confronto col diverso si configura poi non nei termini di una relazione con un maestro, ma con il diverso dalla Norma.

Nel dialogo platonico Alcibiade viene inscenato un ‘incontro tra Socrate e il giovane aristocratico. Quest’ultimo è smanioso di dedicarsi alla politica, ma il maestro vuole insegnargli che è necessario prendersi prima di tutto cura di ciò che gli è più proprio per potersi poi dedicare a ciò che è comune, altrimenti procederà sempre a casaccio. Il richiamo all’ ”epimeleiaheautou” si affianca alla critica del sistema pedagogico condiviso, che ci spinge ad occuparci subito di ciò che ci è esterno senza bisogno di indugi su di sé, e che Foucault oppone alla “paideia”, che si concentra invece sull’anima.

32 «Il fascino della morte stessa potrà essere riscoperto e goduto soltanto quando la vita sarà ritrovata, e l’essere umano vivrà in armonia con la comunità, con il mondo con l’altro che è parte della sua esistenza». Ivi, p. 177 33 Per l’evoluzione di queste tematiche, G. Silvestri, L’ultimo Mario Mieli 34 M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978 35 M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, Feltrinelli, Milano 2003

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Notiamo qui da un lato la critica alla coazione a ripetere, la necessità di elaborare a partire da sé (“da noi” avrebbe forse detto Mieli in una riunione di autocoscienza) e la fede che ciò di cui si ha bisogno sia da scovare in noi: l’animo per Platone e la transessualità per Mieli. Quest’idea di paideia s’incrina quando nasce il soggetto cartesiano, che per conoscere non ha più bisogno del lavoro su di sé, ma al quale basta rispettare condizioni formali e universali. Le condizioni di conoscenza sono esterne, si separa lo spirituale dal vero che non può più quindi avere un ritorno trasformativo sul soggetto.

E' interessante notare infine il legame che c'è anche in Platone tra cura di sé e politica. Alcibiade inizia il suo cammino di cura perché prima di governare gli altri deve saper governare sé stesso. Il modello in un certo senso è quello della Repubblica (dove per sapere cosa fosse giusto per sé bisognava interrogare la città), rovesciato. Vediamo quindi lo stesso slittamento tra personale e politico che negli Elementiverrà radicalizzato, fino al confondersi dei limiti tra Io e non-Io

Più problematico è il confronto con un testo di Foucault che ha rivoluzionato non solo l'approccio allo studio della sessualità ma anche pratiche politiche: Storia della sessualità, il cui primo volume (La volontà di sapere) esce nel 1976, l’anno successivo alla scrittura della tesi di laurea di Mieli.

Foucault non si interroga direttamente sui comportamenti sessuali ma sulla nascita di un campo di sapere ad essi attinente, la sessualità. La cultura in cui viviamo (sin almeno dal XVIII secolo) sembra ossessionata dalla sfera sessuale, sembra volerla indagare minuziosamente in ogni suo aspetto, e le conferisce una centralità discorsiva che non aveva mai avuto. Questa lettura culturale viene presentata in opposizione puntuale e continua con la“tesi della repressione”, ossia l'idea (a partire dagli anni 50 molto diffusa) che la sessualità fosse il luogo in cui più fortemente si esercitava l'imposizione di silenzio e il rifiuto borghese. La repressione, in quest’ottica, sarebbe la forma più comune del rapporto potere-sessualità: la pulsione sessuale, se non viene controllata, è incompatibile con lo sfruttamento del lavoro capitalista, viene perciò taciuta e nascosta. Così, la liberazione del sesso viene legata alla liberazione in toto: «Mi sembra essenziale nella nostra epoca un discorso in cui il sesso, la rivelazione della verità, il rovesciamento della legge del mondo, l'annuncio di un'altra èra e la promessa di una certa felicità sono legati insieme. E' il sesso che oggi serve da supporto alla vecchia forma della predicazione».36 Ecco, per Foucault tale legame viene istituito dal potere stesso, non dalla sua presunta opposizione, che non farebbe altro che spostarlo, traslarlo leggermente.

Foucault sposta il fuoco della domanda: da «perché il sesso è represso?» a «perché si dice con tanta passione che il sesso è represso?». Sostiene che l'ipotesi repressiva non si opponeal discorso che era vigente fino a quel momento, ma anzi può essere ricollocata nell'economia dello stesso discorso sulla sessualità che già esisteva e che si sviluppa a partire dal XVIII secolo. Vi è una comune e costante “volontà di sapere” che investe il sesso e crea il campo di sapere della sessualità: attraverso l’aiuto di svariate discipline (medicina, pedagogia, psicologia, sociologia) si attua una trasposizione in sapere del sesso indagandolo fin nelle sue più contorte spire, si cerca di trasformare il desiderio in discorso, dividendolo analiticamente con pretesa di scientificità. Questo non per reprimerlo ma per farlo funzionare al meglio e consentire uno sviluppo ordinato delle forze collettive ed individuali.

Il sesso si considera, ora, qualcosa di profondo, un segreto da scovare, per promuovere un meccanismo psichico di incitazione a parlarne. Acquista una centralità sociale mai avuta, entra nel corpo delle persone e inizia a costituirne l'identità; di più, diviene principio di classificazione ed intelligibilità dei corpi e del reale. Nascono figure nuove legate alla catalogazione della sessualità, come l'omosessuale, mentre prima le attività sessuali non formavano l’identità di una persona. La sessualità coniugale non è affatto (come sostengono alcuni) l'unica investita dal discorso. Si

36 M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p.13

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cristallizzano sessualità disseminate, nascono le perversioni, anzi la società moderna stessa è perversa; viene prodotta e fissata la diversità sessuale.

Sarebbe ingenuo pensare che la società borghese abbia voluto nascondere la verità sul sesso quindi; piuttosto, l'ha creata, creando la scienza sessuale. Il sesso non è più solo questione di desiderio e piacere, ma di verità e falsità. Verità e sesso si connettono nella confessione, che scandaglia la coscienza (in quanto, come detto, la sessualità è qualcosa di intrinsecamente oscuro, profondo e latente) e tira fuori la verità individuale, ciò che crea il soggetto.

Insomma, per concludere, «si sviluppano due processi che rinviano continuamente l'uno all'altro: gli chiediamo [al sesso] di dire la verità [...] e gli chiediamo di dirci la nostra verità, o piuttosto gli chiediamo di dire la verità profondamente sepolta».37 Sesso e soggetto (come conoscente e conoscibile) sono dunque profondamente legati da tale discorso.

Possiamo riconoscere chiaramenteElementi di critica omosessuale come una voce tra le “teorie della repressione” che non interrogano l’ordine strutturale del discorso, e anzi si muovono al suo interno. E’ interessante però cercare di caratterizzare l’arringa liberatoriadi Mieli nell’ambito concettuale delineato dallo studio storico-genealogico foucaultiano e di capire verso quale direzione in particolare spinga il discorso. Ciò che per Mieli reprime il sesso e contro cui egli combatte, si contorce e dibatte, la famosa Norma, se indagata con le coordinate de La volontà di

sapere altro non sembra essere se non la stessa “scientiasexualis”, ossia ciò che si viene edificando con la costruzione di un discorso sulla sessualità. Il problema per Mieli non è che la sessualità sia taciuta, che non se ne parli perché sconvolgente; il problema è chi ne parla e come lo fa. Il tentativo sarebbe quindi di sconvolgere il rapporto tra verità e sessualità.

Le divisioni della sessualità che seguono allo sforzo della nostra epoca di rielaborarla continuamente perdono di senso di fronte ad idee come il polimorfismo infantile, la transessualità profonda, la natura erotica dell'uomo. Tutte le divisioni che lo studio della sessualità crea (per esempio, in ambito psichiatrico, l’elenco delle perversioni), che creano identificazioni singolari della propria persona con un certo tipo di desiderio, per Mieli perdono di senso: ogni tendenza erotica è buona, ogni perversione è santama non in sé, bensì solo come ponte per la transessualità. Quando ci si ferma su un solo aspetto si cristallizza l’essenza polimorfa dell’uomo, le si dà un’identità; e invece solo l’atto può essere definito omosessuale, etero, sadomaso e via dicendo.38Stessa cosa vale anche per l'omosessualità ovviamente: accettarla staticamente significa accettare la bisessualità che verte ancora su polarizzazioni della norma Eterosessuale.Il corpo ci dà conoscenza, ma essa è irriducibile alla catalogazione razionale;39 per esempio, la transessualità viene ridotta a bisessualità. Parlare del sesso diventa impossibile, bisogna viverlo. Di fronte al tutto-uno erotico prospettato dalla rivoluzione, qualsiasi pretesa di catalogare e forzare il sesso a dire la verità su se stesso perde di senso.Ogni identità sessuale è per Mieli oppressiva, e questo sarà il suo grande lascito alle teorie future.

Cometale posizione viene sviluppata è interessante: viene sviluppata, in un certo senso, assolutizzando il discorso di Freud, la sua volontà di verità sul sesso,da ogni vincolo che Mieli considera esterno alla logica della riflessione e dovuto a remore moralistiche. Ciò comporta però 37 Ivi, p. 64 38 Cfr., per es., M. Mieli, Elementi di critica omosessuale, cit., cap. 1 par. 5 Anche per Foucault «Tante domande insistenti rendono singolari, in colui che deve rispondere, i piaceri che prova; lo sguardo li fissa, l’attenzione li isola e li anima», M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p.44 39

M. Mieli, Elementi di critica omosessuale, cit., p. 186: «Credo che, se vogliamo tentare di superare i limiti delle nostre disquisizioni razionalistiche sulla sessualità, dobbiamo accostarci ai temi e contenuti erotici della “schizofrenia”; il desiderio erotico è mille volte superiore alle limitatezze della nostra concezione intellettuale dell’amore […] Le categorie concettuali classiche, il linguaggio comune che le esprime, mal si adattano alle descrizioni delle sensazioni, delle esperienze della follia».

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che si rimanganel medesimo universo di segni e significati. Il sesso è esattamente la parte più nascosta e più vera di noi; la stessa pratica dell’autocoscienza è legata all’idea che la verità sia nell’Es, in ciò che è profondo, rimosso e reticente (anche se, in questo caso, a causa di una forza a lui esterna). Rimane l’interrogazione spasmodica del sesso per conoscere la verità su di noi. Per fuggire la Norma, ma più in generale la scienza sexualis in senso lato, qualsiasi classificazione della sessualità (poiché sempre eteronoma e castrante), Mieli si rifugia in un’essenza dell’umano (per quanto vada riconosciuto il polimorfismo di quest’essenza, che rende quasi difficile definirla tale) che gli consenta di mettere in luce le violenze che il Capitale opera su ognuno di noi. La transessualità, per quanto antimoralista e libertaria, rischia, a detta anche di molti critici, di diventare una nuova norma, tanto che «il conseguimento della transessualità si presenta […] come un dovere […] La rivolta contro la Norma rischia a questo punto di diventare normativa a sua volta»40 Come dice Cristopher Lane, la «psicanalisi è a un tempo il problema e la sua soluzione».41

Nella pedagogia di Mieli non solo la trasformatività è centrale, ma è anche radicale. La tensione è volta a separare ogni scissione tragica, ogni separazione schizofrenica, attribuite completamente alla contingenza, alla “Kultur”;l’altro, che prima veniva concepito come nostro limite, deve invece compenetrarsi all’io, entrarvi in rapporto armonico. Il desiderio è la chiave di tale rivoluzione, poiché ci svela che siamo sempre anche altro da quello che ci può suggerire ogni tentativo di razionalizzarlo e razionalizzarci. Vivere il desiderio e imparare da lui è ciò cui ci vuole esortare il pensiero che abbiamo preso in considerazione. E’ un modo per ripensarci, e come mette a fuoco De Lauretis: «per risignificare la sessualità bisogna poter immaginare un altro modo di essere e agire nel mondo».42

40 G. Rossi Barilli, La rivoluzione in corpo, cit., pp. 309-310 41 Non facile ma interessante potrebbe essere il confronto tra le pagine che Wittgenstein dedica alla teoria dei sogni di Freud in Lezioni sull’estetica e la riduzione della verità alla sessualità nel discorso di Foucault. Per il filosofo austriaco, sostenere posizioni del tipo «Questo, in realtà, è solo questo» (ossia, che il sogno sarebbe solo l’interpretazione che lo psicanalista ne dà) è pura persuasione riduzionista a trascurare differenze che pure vi sono. Ossia, si riduce l’unicità del sogno ad un’essenza. Cfr. L. Wittgenstein, Lezioni sull’estetica da Lezioni e conversazioni, Adelphi, Milano 1967. 42 Cfr. Teresa De Lauretis, La gaia scienza, ovvero la traviata Norma, cit., p. 268

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BIBLIOGRAFIA:

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Tim Dean, ”Il mio tesoro”: note a posteriori in Elementi di critica omosessuale, pp. 243-260

De Lauretis, La gaia scienza, ovvero la traviata Norma, in Elementi di critica omosessuale, pp. 261-268

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Fuori!, VII, 1973;XII,1974;XVI, 1976 Carl G. Jung, L’Io e l’inconscio, Boringhieri, Torino 1973 La libreria delle donne, Non credere di avere dei diritti, Rosenberg &Sellier, Milano 1987 C. Lane, L’estetica transessuale di Mieli, in Elementi di critica omosessuale, pp. 279-290

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G. Rossi Barilli, Il movimento gay in Italia, Feltrinelli, Milano 1999;

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G. Silvestri,L’ultimo Mario Mieli,Edizioni Libreria Croce, Roma 2002 L. Wittgenstein, Lezioni sull’estetica da Lezioni e conversazioni, Adelphi, Milano1967

Quaderni del Laboratorio Montessori

n. 3 – luglio 2016

Materiali didattici 2015-2016

ISSN: 1974-8787

© 2016 Antonio Parisi

Materiali didattici 2015-2016

Antonio Parisi

La soluzione del labirinto. Visione del mondo e ideale educativo

di J. A. Comenius

La soluzione del labirinto. Vi

di Antonio Parisi

o. Visione del mondo e ideale educativo in

vo in J. A. Comenius

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Gli uomini sono al mondo gli uni per gli altri. Perciò istruiscili, o sopportali.

Marco Aurelio, Pensieri

2

Introduzione

“Perché ci riesce tanto difficile anche semplicemente immaginare una società diversa? Perché sembra al di sopra delle nostre forze concepire un assetto diverso, che vada a vantaggio di tutti?”Con queste parole Tony Judt, uno dei più influenti intellettuali contemporanei, esordiva in un capitolo di un suo celebre saggio1. La risposta, che seguiva a tali questioni, era quanto mai chiara: il mondo è affetto da una “disabilità discorsiva”, abbiamo, cioè, perso la capacità di parlare di queste cose e di ragionare in termini collettivi. Non di rado, però, interessanti motivi di riflessione ci giungono dal passato, magari da autori non troppo spesso citati.È questo il caso del pensatore moravo Jan Amos Komenský (1592-1670), latinizzato in Comenius, considerato ormai universalmente come il “padre” della moderna pedagogia.

Le due opere di Comenius che tenteremo di analizzare in questo nostro lavoro, sembrano proprio giungere in soccorso a quella “disabilità discorsiva” accennata da Judt. Si tratta di due testi all’apparenza non facilmente conciliabili (il primo giovanile e più “letterario”, il secondo maturo e decisamente più espositivo), ma che contengono i fondamentali nuclei teorici del loro autore. “Il labirinto del mondo e il paradiso del cuore” è un’opera redatta nel 1623: Comenius la scrisse in uno dei momenti più drammatici della sua peregrinante esistenza,ossia dopo gli avvenimenti della battaglia della Montagna Bianca, che lo costrinsero all’esilio. Qui si racconta delle vicende di un suo possibile alter-ego – nominato genericamente come “ilPellegrino” - alla scoperta del mondo e alla ricerca dell’autentica felicità. Il ritratto che Comenius offre dell’umana perdizione, oltre a rivelarsi in tutta la sua attualità, funge da primo spunto critico verso la ricerca di quell’approdo in una società dai più autentici e consapevoli legami. La piena felicità sarà possibile, nel Labirinto, solo tra le braccia di Dio; gli strumenti effettivi per agire con successo sul tessuto sociale vengono invece delineati nell’altro testo in analisi: la “Pampaedia”. Come si può intuire dalla derivazione etimologica del titolo, si tratta del progetto di un’educazione universale, quindi rivolta a tutti e nella maniera più completa. Le storture di natura etica, relazionale e caratteriale osservate nel labirintico orizzonte del mondo, possono trovare il proprio riassestamento, nell’ottica comeniana, solo partendo dall’impartizione di una forte base culturale omnicomprensiva. È l’educazione, il momento culturale – che in Comenius, con disarmante modernità, non conosce limiti o barriere di tipo territoriale, sociale, sessuale o anagrafico- a render possibile un diverso, ossia migliore, assetto sociale. È l’istruzione di ciascuno che si espande al Tutto, è la vita stessa intesa come una scuola interminabile, giacché le insidie del labirinto sono sempre pronte a richiamare a sé l’instabile natura umana. È appunto l’uomo, nel pieno compimento della sua dignità. Di qui il grande merito e la grande attualità del pensatore moravo. Di qui la speranza in una sua più profonda riscoperta.

1T. Judt, Guasto è il mondo, Roma-Bari, Editori Laterza, 2011

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Comenius e il Labirinto

Con un’indicazione di tipo anagrafico ha inizio “Il Labirinto del mondo e il Paradiso del cuore”, scritto da Comenius in lingua ceca nel 1623 e pubblicato a Pirna nel 1631: “Nell’età in cui la ragione umana comincia a cogliere le differenze tra il bene e il male[…]” 2. Indicazione che rimanda immediatamente all’incipitdantesco “Nel mezzo del cammin di nostra vita”, come a sottolineare la maturità necessaria per intraprendere un viaggio che accoglie in sé dimensione etica, estetica, conoscitiva ed individuale. Come per la Divina commedia e come è stato fatto notare da Marta Fattori3, il Labirinto appartiene a quel gruppo di opere che riflettono il momento storico ed individuale in cui l’autore si trovava al momento della sua stesura; nel 1661 lo stesso Comenius rievocava ancora, in una lettera all’amico Petrus Montanus, “i giorni disastrosi del 1623, le notti insonni per l’angoscia del passato e l’ancor più incerto futuro”, nonché il dolore per “esser costretto a nascondermi a causa della mia personale persecuzione”4. Un tono, è evidente, non lontano dagli endecasillabi del Paradiso dantesco a proposito dell’esilio: “… Tu lascerai ogne cosa diletta / più caramente; e questo è quello strale / che l'arco de lo essilio pria saetta. / Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e 'l salir per l'altrui scale...” (Paradiso XVII, vv. 55-60). Ma mentre l’esilio di Dante era dovuto a ragioni per lo più di ordine politico, il dramma di Comenius si estende sullo sfondo dei contrasti senza tregua tra confessioni religiose, che nella Guerra dei Trent’anni (1618-48) giunsero alle dimensioni di catastrofe epocale. Membro, per tradizione familiare, dell’Unione dei Fratelli Boemi (gruppo religioso diffuso in Boemia e Moravia a partire dalla metà del ‘400, che seguiva la dottrina del riformatore boemo Jan Hus: individuavano in diversi aspetti nella Chiesa Cattolicauna forma corrotta del cristianesimo delle origini; consideravano la Bibbia l’unica norma per la fede e la pratica religiosa; identificavano come viziosa la natura umana e vedevano in Gesù Cristo l’unica possibilità di redenzione), Comenius fu ordinato pastore nel 1616. Dopo la sconfitta nella battaglia della Montagna Bianca ad opera delle forze cattoliche e alla conseguente fine della libertà protestante, Comenius condivise le sorti dei Fratelli e fu costretto all’esilio. Èin questo clima che a Brandýs, nel 1623, sotto la protezione di Karel von Žerotin – al quale l’opera e dedicata- Comenius scrive il Labirinto del mondo e il paradiso del cuore. Il testo, come dichiara lo stesso autore nella dedica iniziale al suo protettore, nasce da una riflessione circa la vanità e l’illusorietà del mondo “in questo mio stato di isolamento non gradito, lontano dagli affari religiosi, poiché io non dovevo né volevo restare inattivo”.5Il Labirintodivenne per i Fratelli Boemi quasi un libro sacro. Pubblicato nella sua versione definitiva nel 1663, esso costituisce una testimonianza essenziale della vita dell’ultimo Vescovo dei moraviani, e ne viene a rispecchiare gli interessi filosofici, teologici e pedagogici, essenziali per cogliere appieno la figura del pensatore boemo in tutta la sua complessità.

L’opera si articola in 54 capitoli, assumendo la forma di poema allegorico, filosofico, satirico: una “commedia umana” che ha la valenza di un percorso conoscitivo, dal marcato taglio autobiografico, che si inauguranella complessa tortuosità mondana e che trova la sua lieta conclusione nell’accoglienza nella famiglia di Dio. Il testo può essere infatti inteso come un componimento bipartito: nella prima parte -la più estesa- si narra del pellegrinaggio del protagonista, alla ricerca della verità e della migliore occupazione per se stesso, attraverso il mondo e in osservazione di tutti i mestieri umani. Ad accompagnarlo in questo viaggio il Pellegrino godrà della compagnia di due guide: Satutto ed Inganno. Indagando la malvagità, l’ipocrisia, il peccato, la menzogna che dominano il mondo in tutti i suoi aspetti, il Pellegrino-Comenius descrive la sua crescente

2J. A. Komenský, Il labirinto del mondo e il paradiso del cuore, Milano, Silvio Berlusconi Editore,2003

3 Ibid., p. XXIII

4Epistula ad Montanum, in Johannis Amos Comenii Opera Omnia, 23 voll., Praga, Academia,1961, Vol. I, p.20

5Komenský, Il labirinto del mondo e il paradiso del cuore, cit., p. 5

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delusione, giungendo a preferire addirittura la morte piuttosto che rimanere in vita e continuare avedere ingiustizia, seduzione, crudeltà e disperazione: “Preferisco mille volte morire piuttosto che star qui, dove succedono cose simili, e guardare l’iniquità, la falsità, la menzogna, la seduzione e la crudeltà. Così adesso la morte mi sembra più desiderabile della vita; vado a vedere qual è il destino dei morti che vedo trascinare via.”6Il ritorno in se stesso -quindi la seconda parte del poema- ha inizio dal capitolo XXXVII, dopo che il Pellegrino, incredulo e paralizzato davanti all’abisso di morte ed inganno ovunque incombente, viene colto da una improvvisa perdita di coscienza. Ode dunque una voce, che lo richiama tre volte: “Ritorna, da dove sei partito, alla casa del tuo cuore, e chiudi la porta dietro di te”7. In netto rapporto antitetico con la prima parte, hanno così inizio il percorsotutto interiore verso Dio ed il cammino in direzione della strada della pace, consistente nel pieno abbandono al Signore Gesù Cristo.

La Divina Commedia – se ci è ancora permesso il paragone con il capolavoro dantesco- è sicuramente un’opera di ben più ampio respiro, dimensioni ed implicazionirispetto al resoconto comeniano, una vera e propria “cattedrale con un impianto murario solidissimo e tutto, all’esterno e all’interno, animato da figurazioni fantasiose che si alternano ad altre realistiche senza però che i particolari alterino l’effetto d’insieme”8.Ma il punto di incontro tra le due opere risiede in quell’intento dimostrativo, realizzantesi tramite un vivido affresco allegorico, volto alla delineazione di una condizione umana precipitatain uno stato di miseria, vertigine e confusione.Il sottotitolo del Labirinto del mondo risulta, in questo senso, particolarmente significativo9.Dante e Comenius ci appaiono, inoltre, appassionati ricercatori di quell’umana felicità che, se non pienamente realizzabile nel sapere, trova in Dio il suo sicuro approdo.Passiamo ora ad una lettura e ad un’analisi più ravvicinata del libro di Comenius.

-Il Labirinto del mondo (capp. I-XXXVI)

“Non è una storia inventata quella che leggerai, lettore, anche se ne ha la forma: si tratta di cose vere, come tu dopo aver letto riconoscerai, soprattutto se sai qualcosa della mia vita e delle mie vicissitudini. Giacché qui io ho illustrato perlopiù vicende nelle quali in prima persona mi sono imbattuto in questi non molti anni della mia vita, che ho visto capitare ad altri, o che da altri mi sono state raccontate.”Così esordisce Comenius nel quinto paragrafo della proemiale premessa al lettore, instaurando in tal modo una contrapposizione narrativa tra una storia inventata, e quindi falsa, ed un resoconto decisamente autobiografico, e quindi vero. Si può a ragione ritenere, come osserva Marta Fattori, che la contrapposizione tra opera vera ed opera di fantasia sia soltanto apparente e che Comenius utilizzi un consolidato genere letterario: “egli è certo consapevole che il risultato non sarà una ‘storia vera’, ma un poema allegorico per mezzo del quale iniziare un percorso di conoscenza in cui il ‘poema’ stesso è veicolo di decodificazione”10. Nella lettera dedicatoria al suo protettore Karel von Žerotìn, in latino, lo stesso autore sembra confermare tale ipotesi: fra le mani di Comenius è nato infatti un drama, quindi un’azione scenica, la forma del poema (“donec mihi hoc, quod Illustritati Tuae offero, drama sub manibus natum est”). Ma ora, chiarite tali questioni, in cosa ritrovare il “casus narrandi” o, meglio, il “casus peregrinandi” che funge da motore primo e perpetuo del racconto? Una prima indicazione ci è fornita, ancora una volta, dalle iniziali battute dell’avvertenza al lettore. Ogni creatura, ci dice Comenius, è portata per sua natura a desiderare ciò che è piacevole e confortevole. Tanto più negl’esseri umani, ove vige il potere della ragione. Dunque da sempre i saggi si pongono una domanda fondamentale: dove si trova e in che cosa consiste il sommo bene (summum bonum) nel quale l’uomo può finalmente 6Komenský, Il labirinto del mondo e il paradiso del cuore, cit., p. 208

7 Ibid., p. 210

8 N. Borsellino, Ritratto di Dante, Roma-Bari, Editori Laterza, 2007

9“Chiaro affresco di come nel mondo e in tutte le sue cose non si trovi altro che confusione e vertigini, vortici e fatica,

obnubilamento e inganno, miseria e tristezza e infine tedio e disperazione[…], in Komenský, Il Labirinto…, cit. p. 3 10

Ibid., p. XXVIII

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cogliere l’appagamento definitivodi ogni desiderare? I filosofi hanno da sempre cercato, meticolosamente, di rispondere a tale quesito ma, come il resto dell’umanità, hanno fallito nel loro intento, incapaci di “uscire da loro stessi” e finendo con lo scambiare l’interno con l’esterno, cercando cioè nel mondo e nelle cose terrene la fonte del proprio bene e della propria felicità. Ma che questa non possa ritrovarsi semplicemente nelle ricchezze, nelle delizie, nella gloria o nelle arti ne è testimone Salomone, “il più sapiente tra gli uomini”. Egli, dopo aver esaminato il mondo intero, confessò tristemente di aver preso “in uggia la vita, perché mi sa male quanto si fa sotto il sole, perché tutto è vanità e affanno di spirito”11. La vera soddisfazione della mente si realizzò, per Salomone, nel lasciare il mondo così com’è, dedicandosi solamente a Dio e all’osservanza dei suoi comandamenti. Le vanità e la miseria che si celano dietro lo “splendore esteriore” di questo mondo divennero chiare allo stesso Comenius, condotto dalla “misericordia divina” a cercare altrove tranquillità e sicurezza. La dimostrazione e la descrizione di come ciò avvenne, il passaggio cioè dalle deformità mondane al piacere desiderato, delineano il vivace dipinto del Labirinto del mondo e il paradiso del cuore, che può finalmente inaugurarsi nel suo primo capitolo.

Un interrogativo fondamentale occupa da subito la mente del Pellegrino-Comenius giunto all’età della ragione, indispensabile per discernere adeguatamente il bene dal male: a quale gruppo di uomini (secondo il loro stato, ordine e mestiere) unirsi e in quali affari passare la vita? Diligenti riflessioni lo conducono ad una conclusione in linea con quanto era stato già espresso nella premessa al lettore, cioè in“un modo di vivere che comportasse il meno possibile di preoccupazioni e fatiche, e viceversa tanta comodità, pace e tranquillità”12. La diffidenza verso l’altrui consiglio ed il timore di una scelta operata troppo in fretta, spingono il Pellegrino “ad uscire da se stesso”e a girare per il mondo, osservando “tutte le cose umane che accadono sotto il sole” onde operare, dopo una saggia comparazione, la scelta migliore per il proprio avvenire. Ma in questo viaggio non sarà solo. Proprio all’uscita dalla sua casa il Pellegrino si imbatte in una figura singolare, comparsa improvvisamente e senza una chiara provenienza, dallo sguardo acuto, parlantina pronta e grande agilità. Dopo avere appreso gli intenti del Pellegrino e approvandone le finalità, questo particolare personaggio si presenta: il suo nome è Satutto (il cognome:Dappertutto), “fatto per accompagnare coloro che vogliono vedere e sperimentare le cose, per mostrare loro come stanno e dove”13. Si offre quindi al Pellegrino -che accetta di buon grado- come sua guida, sottolineando come la celebre struttura del labirinto cretese sia soltanto un gioco rispetto all’ attuale condizione del “labirinto” di questo mondo.Il compito di Satutto è quello di fungere da guida; mostrare invececiò che nel mondo si trova e favorirne la comprensionespetta ad un nuovo personaggio-di difficile identificazione e offuscato in un’aura nebulosa-, che fa anch’egli una comparsa improvvisa. Si tratta di Inganno, ossia dell’interprete di colei che governa il mondo e tutto il suo corso: la Sapienza, “anche se alcuni di quelli che arzigogolano troppo la chiamano Vanità”14, precisa Dappertutto.Come ancora fatto notare da Marta Fattori, il gioco di parole tra Moudrost (= Sapienza) e Màrnost (=Vanità) permette a Comenius di indicare l’assoluta inutilità del viaggio del Pellegrino nel mondo: “alla ricerca della Sapienza mondana, il pellegrino troverà solo la vanità caotica del labirinto”15.La Vanità, vera reggitrice del mondo, non favorisce uno sguardo critico su di esso o quel “filosofeggiare” da subito scoraggiato da Satutto in obbedienza al gradimento di “Sua Maestà”: opera piuttosto attraverso l’inganno dell’abitudine, dell’acritica trasmissione del già conosciuto.Inganno, dunque, proprio in questo senso, è il primo interprete della Sapienza-Vanità, regina mondana.

Anche nel poema dantesco è prevista la presenza di una guida, quella di Virgilio. E anche il grande poeta dell’età aurea della romanità fa la sua comparsa in maniera improvvisa, seppur salvifica e dovuta ad un originario intervento celeste. Ma mentre Dante porge da subito i suoi onori al maestro 11

Ec. 2, 17 12

Komenský, Il labirinto del mondo e il paradiso del cuore, cit., p. 13 13

Ibid., p. 15 14

Ibid., p. 16 15

Ibid., p. XXXIII

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(“O de li altri poeti onore e lume, / vagliami ‘l lungo studio e ‘l grande amore / che m’ha fatto cercar lo tuo volume. / Tu se’lo mio maestro e ‘l mio autore/ tu se’ solo colui da cu’ io tolsi / lo bello stilo che m’ha fatto onore)16facendone modello di verità e d’arte per tutto il poema, ponte ideale tra un’umanità pagana e l’umanità nuova, il Pellegrino di Comenius non appare immediatamente convinto dei suoi accompagnatori e delle loro parole. Le prime battute del IV capitolo testimoniano proprio una certa titubanza da parte del protagonista ed una accennata esitazione a proseguire nel viaggio. Dal “Miserere di me” implorato da Dante al cospetto dell’ombra di Virgilio17, al “Povero me!” singhiozzato dal Pellegrino tra le due guide. Pellegrino che, oramai, non puòpiù tornare indietro.Sulle sue esitazioni interviene prontamente Satutto, gettandogli al collo una sorta di briglia “fabbricata con le cinghie della indiscrezione”e con il morso fatto del “ferro dell’ostinazione nei propositi”18. Il suo sguardo sul mondo non sarebbe più stato libero. All’intervento di Satutto segue quello di Inganno, che infila sul naso del Pellegrino un paio di occhialimolati nel “vetro della presunzione” e ricavati dal corno “detto dell’abitudine”19. Gli occhiali hanno il potere di far apparire, a chi vi guarda attraverso, il mondo come distorto e quindi la cosa lontana come vicina, la piccola come la grande, la nera come bianca e la bianca come nera, e così via. Impongono cioè quel tipo di visione voluta dalle guide e, attraverso di loro, dalla regina Sapienza-Vanità. Per la fortuna del Pellegrino gli occhiali gli vengono indossati di sbieco, permettendogli quindi, alzando il capo e abbassando lo sguardo, una visione del tutto naturale. Egli ha ora la possibilità di vedere in due modi: come pretendono le guide e come le cose sono in realtà. È chiaro allora, come notato da Sylvie Richterová20, che l’Inganno non diviene mai padrone incontrastato dell’uomo e che, grazie all’espediente della duplice vista, l’autore ottiene un’efficace contrapposizione tra illusorio e reale.

Con la bocca imbrigliata e la vista appannata, il Pellegrino viene condotto sulla cima di una torre altissima: da questa posizione Satutto e Inganno gli consentono di avere una visione completa del mondo intero. Il mondo si conforma agl'occhi del Pellegrino come una città "bella a vedersi, magnifica e molto estesa",della quale tuttavia si possono intuire i confini. La luce illumina solo la città, oltre le sue mura v'è il buio pesto. Il "formicolar di gente", che colpisce subito l'occhio del narratore, trova il suo punto di ritrovo nella piazza centrale, nel cui mezzo è situata la dimora della Sapienza, regina del mondo. A est, spiega Dappertutto, vi è la porta della vita, attraverso la quale "capitano tutti coloro che abiteranno il mondo"21. L'altra porta più vicina è, invece, quella della separazione, da dove ciascuno si dirige verso il proprio mestiere. La città è attraversata da sei vie principali, orientate da levante a ponente, che corrispondono ai sei stati principali che il Pellegrino esaminerà durante il suo viaggio: lo stato del matrimonio, quello degli artigiani, dei dotti, delle autorità, dei soldati, dei cavalieri. All'estremo ovest si erige un castello magnifico: è il Forte della Fortuna, dove abitano le persone più distinte e vi godono di ricchezze e piaceri. Dopo questo sguardo d'insieme, non resta al Pellegrino e alle sue guide che esaminare il mondo da più vicino.--------------Scesi attraverso un’oscura scala a chiocciola, i tre si ritrovano al cospetto di una figura minacciosa, che tiene in mano una grossa pentola di rame. Si tratta del Destino, che distribuisce, attraverso dei bigliettini contenuti nella pentola, le occupazioni e i mestieri per dare ad ognuno una funzione utile nel mondo. Lo stesso Pellegrino è spinto da Inganno ad estrarre dalla pentola un biglietto, quindi la propria sorte. Ma, una volta spiegate al Destino le ragioni del suo viaggio, il Pellegrino riesce ad ottenere il permesso di continuare l’esame del mondo senza acquisire ancora un impiego definitivo e dettato dalla sorte. Riceve allora un biglietto particolare con su scritto 16

Dante Alighieri,Inferno I, 82-87 17

Ivi,65 18

Komenský, Il labirinto del mondo e il paradiso del cuore, cit., p. 20 19

Ibid., p. 21 20

S. Richterová, Il “Labirinto del mondo e il Paradiso del cuore” di Jan Amos Komenský-Comenius, in Filosofia e

letteratura tra Seicento e Settecento. Atti del convegno internazionale (Viterbo 3-5 febbraio 1997),Viterbo, Archivio

Guido Izzi, 1999. 21

Komenský, Il labirinto del mondo e il paradiso del cuore, cit., pp. 22-23.

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“Speculare” (ossia Osserva, o Esamina) e viene lasciato libero.L’osservazione diretta è, in generale, un nodo di fondamentale importanza nell’ideale pedagogico di Comenius. Emblematica è, in questo senso, un’opera destinata a grande fortuna, pubblicata nel 1658 durante il soggiorno ungherese dell’autore: l’Orbis sensualium pictus.Questo testo può considerarsi il primo manuale moderno per l’insegnamento delle discipline tipiche del curriculum scolastico. La sua particolarità risiede in una composizione dotata di testi corredati da illustrazioni, che favoriscono, proprio attraverso l’osservazione diretta, l’apprendimento “secondo il principio dell’abbinamento didattico delle parole con le cose stesse”22. Sempre a proposito di questo passo, si può tentare un accostamento tra la figura del Destino e quella, presente nel V Canto dell’Inferno dantesco, di Minosse: come il Destino precede l’ingresso nel mondo, così Minosse sosta all’ingresso dell’Averno; come il primo distribuisce a ciascuno il suo impiego, il secondo si occupa di collocare ogni peccatore nella debita sede; entrambi si oppongono, inizialmente, al passaggio del proprio visitatore, salvo poi permettere l’accesso sia al Pellegrino sia a Dante.

La prima tappa del viaggio è costituita dalla piazza centrale della città, per osservare da vicino la razza umana. A cogliere l’attenzione del Pellegrino, tra la folla “fitta come nebbia” e la completa eterogeneità di atteggiamenti, andature, compagnie, vesti e lingue, v’è una particolare azione compiuta sistematicamente dagl’uomini. In mezzo agl’altri essi tengono, infatti, una maschera in volto; quando si trovano da soli, o tra loro pari, la maschera viene dismessa. L’ipocrisia mondana, ovunque imperante, prende quindi forma attraverso l’allegoria della maschera.Quella maschera che, proseguendo nel nostro paragone, cade completamente nell'Inferno dantesco: i vari personaggi assumono infatti nell'oltretomba "quell'autenticità morale che la vita adombra o nasconde, sono in una condizione inalterabile di verità"23. Francesca non ci resta nel ricordo come un'adultera punita, ma piuttosto come una donna che può esprimere ora "una piena coscienza intellettuale del suo amore"24 rivivendolo come un tempo felice violentemente interrotto. ---------------------------

Prestando maggiore attenzione, il Pellegrino può notare, scrutando oltre gli occhiali di Inganno, che tutti gli uomini presentano delle anomalie e delle deformità in volto e nelle altre parti del corpo: "tutti erano pustolosi, rognosi lebbrosi, e inoltre alcuni di essi avevano il grugno di porco, altri denti di cane, altri orecchie d'asino, altri occhi di basilisco [...]"25. Il richiamo è qui diretto alla dottrina fisiognomica, molto nota dopo il De humana phisiognomia (1586) di Giovan Battista Della Porta, secondo la quale i segni fisici delle varie parti del corpo, e i loro corrispondenti negli animali, indicavano i differenti temperamenti e le differenti passioni degli uomini. Lo spavento del protagonista dinnanzi a tali mostruosità viene subito ripreso dal tono minaccioso di Inganno: "Guarda bene attraverso gli occhiali e vedrai che sono uomini!". Consapevole della realtà, il Pellegrino non si oppone ulteriormente, timoroso del fatto che la sua guida possa calcargli meglio gli occhiali sul naso. Quella relativa all'aspetto non è la sola stranezza che il Pellegrino può notare: tutti gli uomini parlano infatti una grande varietà di lingue diverse, senza potersi intendere tra loro e finendo con facilità in "zuffa e baruffa"; alcuni uomini restano in ozio, altri invece si dedicano a delle attività, ma completamente inutili come la spartizione della spazzatura, il sollevamento di travi e pietre o il gioco con dei campanelli, contraddicendo dunque quella che è la vera destinazione"dell'ingegno divino" dell'uomo; il disordine, il litigio, l'incostanza vengono a caratterizzare i rapporti umani, e diversi individui si ribellano persino all'ordine richiamato dai funzionari e dai sorveglianti; una certa confusione caratterizza anche l'aspetto della piazza e delle vie, piene di buche, fossi e voragini che provocano ricorrenti incidenti di cui gli uomini, ottusamente, sembrano non preoccuparsene affatto; l'orgoglio, la superbia e l'amor proprio portano certi uomini a camminare su scarpe altissime-o addirittura su dei trampoli- e ad ammirare di continuo la propria bellezza ed il proprio fisico allo specchio, mentre altri, colti da invidia, si 22

F. Pesci, Maestri e idee della pedagogia moderna, Milano, Mondadori Università, 2010 23

Borsellino, Ritratto di Dante, cit., p. 77 24

Ibid., p.78 25

Komenský, Il labirinto del mondo e il paradiso del cuore, cit., p. 29

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dedicano al dispetto e allo scherno. La risposta che lo stupore del protagonista (difronte a tanta volubilità, scelleratezza e incomprensione nelle cose umane) riceve dalle due sue guide è di non “filosofeggiare troppo” e di vedere, invece, come tutto proceda in modo ordinato, senza intromettersi di continuo. L’atteggiamento mistificatorio delle guide è dunque una costante. --L’incontro finale è con la Morte che, munita di falce ed arco, si aggira tra gli uomini rammentandoli, nella noncuranza collettiva, circa la loro natura mortale. I dardi della Morte si scagliano contro gli uomini senza differenza di età, appartenenza sociale o livello di istruzione. Anzi, la malattia o la cessazione della vita sopraggiungono, non di rado, proprio nel momento di maggior vigore e di realizzazione nell’esistenza di un uomo. La caducità della condizione umana, nonché la notata mancanza di una piena consapevolezza, a parte hominis, dell’instabilità della propria posizione, favoriscono il sorgere di amare considerazioni nella mente del Pellegrino. Ma, si accorge, l’azione della Morte non è dettata totalmente dal caso: sono gli stessi uomini a fabbricare e ad offrirle le frecce con cui colpisce. Fuor di metafora, non resta al Pellegrino che constatare come ciascuno sia responsabile anche della propria morte: “non muore nessuno che non abbia prodotto con la smodatezza, la poca astinenza, la sconsideratezza e infine l’incuria, le sue tumefazioni, vesciche, ferite interne ed esterne”26. Satutto ed Inganno preferiscono però osservare il mondo della vita: inizia così l’esame dei sei stati principali, partendo dal matrimonio.

Matrimonio.In un vasto slargo si trova una moltitudine di persone, di ambo i sessi, attenta a scrutarsi e ad esaminarsi attentamente mentre passeggia. Solo chi trova un compagno, infatti, può passare attraverso la porta del Fidanzamento. Ma, prima di potervi entrare, l’equilibrio della coppia viene misurato col singolare metodo della bilancia, instaurando in tal modo unioni che non tengono conto della comunanza di età, status sociale, aspetto fisico. Il legame della coppia, così congiunta, non può più sciogliersi: i coniugi vengono infatti legati con pesanti ed indistruttibili catene. Il Pellegrino equipara da subito il matrimonio, siffatto, ad un carcere crudele, ma le due guide specificano come questo sia il legame umano più forte e “non c’è motivo di averne paura”27. Dopo aver osservato le difficoltà della vita matrimoniale, dovute all’allevamento dei figli, alle continue incomprensioni nei matrimoni non riusciti, alla disperazione delle coppie sterili, Satutto e Inganno stabiliscono che lo stesso Pellegrino-nonostante la sua contrarietà- debba provare lo stato del matrimonio “per capire meglio come stanno le cose”. Il protagonista passa così dalla bilancia alle catene, ritrovandosi con moglie e due figli. Ma, durante una tempesta improvvisa, perdono la vita tutti e tre i componenti della sua famiglia, lasciando il Pellegrino solo e stordito dall’orrore28. Constatando come, anche nei matrimoni meglio riusciti, il dolce si mescoli all’amaro, il Pellegrino decide di proseguire per altre strade.

Artigiani. Di fronte al frastuono delle sale, dei laboratori e delle officine, il Pellegrino può esaminare lo stato degli artigiani. Le sue considerazioni insistono sostanzialmente sulle fatiche e sui pericoli delle varie discipline artigianali: sforzi ininterrotti conducono a guadagni modesti e di breve durata; la piena acquisizione di un mestiere richiede molti anni di applicazione;una concorrenza insana e il sentimento di invidia si erigono tra coloro che praticano il medesimo mestiere; le fatiche degli artigiani richiedono un grande impegno del corpo, ma trascurano l’anima, la più importante componente della natura umana; data la semplicità dei bisogni essenziali degli uomini, gran parte dei lavori artigianali si configurano come fatiche vane e inutili. Quest’ ultima considerazione sembra contenere due nodi concettuali significativi, che verranno sviluppati da J.-J. Rousseau nel Discorso sull’ ineguaglianza, un secolo più tardi. Il filosofo ginevrino vedeva infatti i bisogni dell’uomo, “così come uscito dalle mani della natura”, soddisfatti nel riposo sotto una quercia, nell’acqua dissetante di un ruscello, nei frutti di quello stesso albero che gli offrirà un giaciglio per la notte.L’orgoglio e la vanagloria porteranno invece l’uomo a solcare i mari, a innalzare enormi

26

Komenský, Il labirinto del mondo e il paradiso del cuore, cit., p. 38 27

Ibid., p.42 28

Chiaro riferimento autobiografico: durante la pestilenza del 1621, Comenius perse la moglie e due figli.

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costruzioni, costruire dighe, spianare montagne, senza giungere, a fronte di tante fatiche, ad un reale corrispettivo in termini di felicità29. Satutto e Inganno decidono quindi di far provare al Pellegrino l’esperienza della navigazione, ritenendola particolarmente stimolante. Ma, imbarcato su una precaria costruzione a forma di capsula, il protagonista e i suoi compagni di viaggio si trovano da subito in balìa delle onde ed infine di una vera tempesta, che affonda del tutto la nave e procura molti morti. Il Pellegrino riesce a salvarsi e a giungere a riva: il terrore provato lo convince ad intraprendere altre vie.

Dotti. Le due guide sono convinte, allora, che lo stato dei dotti sia il più soddisfacente per il Pellegrino: qui si abbandonano le fatiche materiali, ci si dedica allo studio delle cose nobili e ci si avvicina dunque a Dio, attraverso una piena conoscenza del mondo.La porta che conduce sulla strada dei dotti è detta della Disciplina, e a cercare di oltrepassarla vi sono per lo più giovani sottoposti ad un duro esame, che potremmo definire quasi di tipo alchemico. I cinque metalli che gli aspiranti dotti devono avere in dotazione (testa d’acciaio e cervello di mercurio, sedere di piombo, pelle di ferro e una borsa d’oro) corrispondono alle quattro qualità fisiche della salute, dell’arguzia, della perseveranza e della pazienza, nonché agli averi necessari (la borsa d’oro) per pagare i maestri e comprare i libri. Coloro che non superano l’esame, ma che vengono comunque accolti in quanto perfettibili, sono sottoposti ad un duro processo di trasformazione fisica (ad alcuni viene addirittura trapanato il cranio per versarne dentro qualcosa): la critica tipica di Comenius ai metodi pedagogici tradizionali, basati sulla severità e le punizioni corporee, ben emerge nella descrizione di questi passaggi30.

Sottoposto anch’egli al duro rituale di formazione, il Pellegrino giunge con le sue guide al quadrivio da dove si diramano la via della filosofia, della medicina, della giurisprudenza e della teologia (secondola suddivisione delle Facoltà che formavano le università, dalle loro origini ai secoli XII-XIII), decidendo però di scrutare, per prima cosa, il piazzale dove i dotti si riuniscono tutti insieme. Comenius opera, attraverso l’occhio ingenuo e semplice del suo protagonista, una sottile ed ironica critica sia nei confronti dei sapienti vivi (che presentano anch’essi difetti di metodo, di osservazione e di esposizione) sia nei confronti dei sapienti “morti” (ossia, i libri), rappresentati come rimedi officinali per le malattie dello spirito, comescatole da ingerire in quella particolare farmacia che è la biblioteca. Ma i libri sono anche i portatori di quel sapere pedantesco, cristallizzato in lessici, luoghi retorici, antologie e florilegi: dei subsidia memoriae che non rivelano alcuna verità, ma che conducono piuttosto a dispute prive di soluzioni, come quella, suggestivamente affrescata alla fine del capitolo X, tra i sapienti antichi e moderni. Aristotele in lite con Platone, Cicerone con Sallustio, Erasmo con i sorbonnisti, Tolomeo con Copernico, Hus e Lutero con il papa e i gesuiti: un nugolo di incomprensioni che fa scoppiare in lacrime il Pellegrino31 e che è ben lontano dal canto beato e dalla dolce danza dei sapienti, che avvolgono in una corona di anime splendenti Dante e Beatrice nel Canto X del Paradiso32.-Si giunge allora tra i filosofi,il cui lavoro consiste -dalle parole di Inganno- nella ricerca dei mezzi per correggere i difetti umani e nel dimostrare la vera saggezza. Ma, nonostante le premesse, il Pellegrino non può che rimanere deluso alla vista dei maggiori pensatori dell’antichità (da Talete ad Aristotele, da Omero a Seneca) ritratti in goffi atteggiamenti, tratti per lo più da resoconti aneddotici (la fonte principale utilizzata da Comenius sono le Vite dei filosofi di Diogene Laerzio), o in ironiche declinazioni comportamentali del loro stesso impianto teorico. Solo la figura e le parole di Paolo di Tarso colpiscono l’attenzione del Pellegrino e sembrano descrivere quanto sta osservando, giacché: “la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Sta scritto: […] Il Signore sa che sono vani i pensieri dei sapienti”33. Il viaggio

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Cfr.J.-J. Rousseau, Discorso sull'origine e i fondamenti dell'ineguaglianza tra gli uomini, in Id.,Opere politiche, 3

voll.,Roma-Bari, Editori Laterza, 1994, Vol. I 30

Komenský, Il labirinto del mondo e il paradiso del cuore, cit., p. 66 31

Cfr. Ibid., pp. 67-77 32

Cfr. Dante Alighieri,ParadisoX,64-81. 33

Komenský, Il labirinto del mondo e il paradiso del cuore, cit., p. 79

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nello stato dei dotti prosegue tra le ricerche di precisione lessicale dei grammatici, gli esercizi retorici degli oratori, la ricercata licenziosità dei poeti, le dispute dei dialettici (dotati di particolari occhiali, capaci di vedere le cose sino al loro interno), i vani tentativi dei fisici di giungere ad una conoscenza profonda della natura (metaforicamente rappresentata da un grande albero e dai suoi frutti, dal guscio inviolabile), le discussioni dei metafisici sulla vera essenza delle cose e sulle vette raggiunte dall’ingegno umano. Tra quest’ultimi si fa avanti Pietro Ramo(Pierre de la Ramée, filosofo francese ucciso nella tragica “notte di San Bartolomeo” e a lungo studiato da Johann Heinrich Alsted, maestro di Comenius) che invita a diffidare dalle “fantasie” della metafisica e attira a sé alcune persone, finendo però con l’essere condannato come eretico assieme al suo gruppo34. Il Pellegrino va oltre e passa dagli aritmetici, tra i geometri,intenti -specie nella significativa disputa tra Scaligero e Clavius- a dimostrare la quadratura del cerchio, i geodeti e le loro frenetiche misurazioni, le ricerche sonore dei musici, gli astronomi, di cui Comenius apprezza l’audacia ma ne sottolineal’incertezza e la divisione di opinioni (in linea con gli avvenimenti e le dispute scientifiche del suo secolo) e gli astrologi. Nei confronti di quest’ultimi -da alcuni denominati “astrofalsologi” - il Pellegrino-Comenius esprime tutta la sua diffidenza, notando il forte squilibro tra il numero di predizioni corrette e quelle fallite, nonché la facile possibilità di rifugiarsi in scuse, in caso di errore.Se gli astrologi tentano di predire il futuro, in un’altra piazza vi sono gli storici che, con l’ausilio di un cannocchiale ricurvo, tentano di scrutare il passato. Ma anche qui la disputa è inevitabile: gli avvenimenti trascorsi variano a seconda della prospettiva dell’osservatore, impossibilitando cosìun’analisi oggettiva delle vicende storiche. I moralisti e i politici, invece, contemplano e pennellano deidipinti rappresentanti rispettivamente i sette vizi e le sette virtù: ripudiano ed imbruttiscono i primi, lodano e abbelliscono i secondi. Ma, al di là di certi atteggiamenti e delle parole pronunciate in favore dell’integrità morale, cadono anch’essi nellafrequentazionedel vizio e della corruzione.35-----------------------------------------------------------

Nella cultura scientifica del Seicento, un posto di rilevante importanza è occupato dalla cosiddetta filosofia chimica. Quest’ultima affonda indubbiamente le sue radici nella tradizione ermetica e nell’alchimia, trovando la propria matrice teorica nell’opera grandiosa dello svizzero Paracelsus. La nuova filosofia “distrusse la medicina fondata sugli insegnamenti di Galeno, trasformò alle radici la pratica medica ed ebbe effetti sconvolgenti sulla struttura dell’insegnamento nelle università. Filosofia ermetica e paracelsismo, nel corso del Seicento, non furono fenomeni limitati a piccoli gruppi intellettuali né fenomeni marginali. La discussione che si svolse in tutta Europa sulle dottrine di Paracelso ebbe una vastità e una intensità nonminore di quella che si svolse su Copernico e sulla nuova astronomia”36. Non indifferente ai dibattiti attorno l’alchimia, in grado, nella tradizione del proprio secolo, di preparare particolari medicine capaci di restaurare l’equilibrio turbato dalla malattia, Comenius vi dedica il capitolo XII del Labirinto. Gli alchimisti sono qui ritratti nel tentativo di produrre artificialmente il “lapis philosophicum”, la pietra filosofale, che, come spiega Satutto, conferisce a chi è in grado di utilizzarla il potere di trasmutare i metalli in oro e diprolungare la propria vita sino a 200-300 anni.Ma i vari esperimenti nei laboratori sono destinati all’insuccesso: c’è chi dosa male la temperatura del fuoco, chi mescola inadeguatamente i liquidi necessari, chi non ha mai carbone a sufficienza, chi addirittura muore inalando le esalazioni del mercurio. Una sterile discussioni sulla causa degl’insuccessi degli esperimenti accompagna gli alchimisti fuori dai laboratori uno dietro l’altro, e con loro il Pellegrino e le sue guide.

I tre, giunti in una piazza, vengono colti da uno squillo di tromba emesso da un cavaliere, chiamante a raccolta tutti i filosofi. Il cavaliere annuncia i Rosa-croce, “uomini da Dio chiamati” a correggere le imperfezioni delle arti liberali e della filosofia, già giunti ad innalzare l’umana saggezza al grado in cui si trovava in paradiso prima della caduta. La natura è per loro del tutto disvelata, conoscono

34

Cfr. Ibid., pp. 80-85. 35

Cfr. Ibid., pp. 85-94. 36

P. Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa, Roma-Bari, Editori Laterza, 1997

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le lingue di tutti i popoli, sono in possesso del lapis philosophicum. Poiché il tempo delle grandi riforme è ormai vicino, essi vogliono condividere le loro segrete e secolari dottrine con chiunque se ne dimostri degno37.In questi passaggi del Labirinto è stata individuatal’effettiva prova dell’appartenenza di Comenius alla confraternita dei Rosa-croce38: la nota posta a margine (Fama fraternitatis, anno 1612latine ac germanice edita) costituisce una delle testimonianze più significative del fatto che i manifesti rosacrociani fossero conosciuti da Comenius prima della loro pubblicazione, a Kassel nel 1614. Inoltre, continuando nella narrazione, quando un membro della “santa Fraternità delle rose” espone in un chiosco delle scatole contenenti saggezza segreta e invita tutti a comprarle, si può notare come le incisioni riportate sulle suddette scatole (Porta sapientiae, Fortalitium scientiae, Gymnasium universitatis, Bonum macro-micro-cosmicon, Harmonia utriusque cosmi, Christiano cabalisticum, Antrum naturae, Arx primaterialis, Divino-magicum, Tertrinum catholicum, Pyramis Triumphalis, Hallelujah) rinviano ad opere della tradizione rosacrociana ed a una precisa cultura qabbalistica.Ma l’aspettativa nei confronti del fenomeno rosacrociano sfocia in una profonda delusione: le scatole della saggezza sono in realtà vuote e in molti, adirati, gridano alla truffa, all’inganno. Solo i filii scientiae (=gli iniziati), infatti, possono aver accesso al “segreto più segreto”: le speranze del Pellegrino, di trovare un nuovo nutrimento per la propria mente, vengono allora disilluse e lo spingono così ad intraprendere altre vie. Ben emerge, in questo capitolo, la delineazione dei caratteri essenziali del sapere ermetico. Come ha osservato Paolo Rossi:“La comunicazione e la diffusione del sapere, nonché la pubblica discussione delle teorie (che sono per noi pratiche correnti), non sono state sempre avvertite come valori. Sono invece diventate dei valori. Alla comunicazione come valore si è sempre contrapposta- fino dalle origini del pensiero europeo- una differente immagine del sapere: come iniziazione, come un patrimonio che solo pochi possono attingere.”39Un sapere per pochi, che non può certo conciliarsi con l’ideale pedagogico comeniano per il quale si richiede, come vedremo più avanti, che tutti siano educati in tutto e totalmente. Il giudizio che il Pellegrino formula a proposito dello stato dei dotti non viene alterato dall’esamedel lavoro dei medici- ove la vivisezione cadaverica provoca solo ribrezzo nel protagonista, anche per motivazioni teologiche- né dall’osservazione dei metodi della juris prudentia: i dotti, nonostante il tempo trascorso nelle scuole, i beni investiti e magari i titoli conseguiti, non sono in possesso di alcuna conoscenza sostanziale, come dimostra il silenzio di chi, appena nominato maestro o dottore nella cerimonia di laurea descritta nel capitolo XVI, non è in grado di addurre alcuna argomentazione a proposito delle sette arti liberali.40

Religiosi.Il numero e le diverse forme di templi e di cappelle che caratterizzano la nuova piazza dove Satutto e Inganno conducono il Pellegrino, alludono chiaramente alla molteplicità dei riti pagani. Facendo il suo ingresso in uno di questi templi, il Pellegrino può da subito notare la grande varietà ed eterogeneità delle incisioni e delle raffigurazioni dinnanzi le quali vengono espressi i diversi culti, nonché ammirare l’armonioso atteggiamento di tolleranza delle religioni pagane, impensabile in qualsiasi religione monoteista. In un altro tempio si trovano gli ebrei, raccolti nello studio del Talmud (testo classico dell’ebraismo, secondo solo alla Bibbia)e delle sue raffigurazioni derivate dai bestiari fantastici, tipici della tradizione medioevale: la stranezza di tali immagini e il disdegno generale nei loro confronti portano il Pellegrino stesso a disprezzare gli ebrei.Un’iniziale simpatia gli viene invece suscitata dalla pulizia e dal rispettoso silenzio dei maomettani. Ma, una volta appreso il contenuto del loro credo, le sanguinolente dispute in nome del Corano e le loro interne discordie (riferimento alla scissione tra sunniti e sciiti), il Pellegrino non può che allontanarsi inorridito. Nella descrizione di Comenius gli islamici, con efferata violenza,infilzano con la spada chiunque incontrino e dimostrano tra loro stessi una divisione fratricida. Le discordie attribuite al mondo islamico e le fratture interne allo stesso credo trovano, nel XVIII Canto

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Komenský, Il labirinto del mondo e il paradiso del cuore, cit.,pp. 98-99 38

Cfr. F. Yates, L’Illuminismo dei Rosacroce. Uno stile di pensiero dell’Europa del Seicento, Torino, Einaudi, 1976. 39

Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa, cit. p. 18 40

Cfr.Komenský, Il labirinto del mondo e il paradiso del cuore, cit.,pp. 108-110

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dell’Inferno dantesco, la loro vivida personificazione nelle figure di Maometto e di suo genero Alì: il primo squarciato, per contrappasso, dal mento al deretano, il secondo “fesso nel volto dal mento al ciuffetto”41.

La religione attorno la quale Comenius più si dilunga è, chiaramente, quella cristiana, “che da una parte mette chiaramente in luce la verità celeste, dall’altra sconfigge le abominevoli deviazioni”42. Per accedere al tempio cristiano è necessario attraversare un fiume-ovvero immergersi nell’acqua battesimale-, vestirsi dei colori della purezza e della Passione di Cristo (il bianco ed il rosso)e giurare fedeltà al credo e ai comandamenti di tale religione.Varcata la soglia del tempio, il Pellegrino assiste da subito alla predicazione del Verbo divino mediante la raffigurazione del Figlio di Dio, glorificata e portata in lode dai fedeli, nonché alla celebrazione dell’Eucarestia, volta alla fisica interiorizzazione della stessa immagine divina e all’espiazione del peccato. Ma, poco dopo, gli stessi che avevano appena accolto in sé Dio, si lasciano andare al bere, alle liti, alle fornicazioni e a qualunque altro tipo di dissolutezza: si abbandonano, cioè, al contrario di quello che avevano appena promesso di fare, osserva il Pellegrino. Una non dissimile condotta contraddistingue i predicatori e i “maestri in tutte le Scritture”, dediti all’ozio, ai piaceri sensuali e all’avidità, piuttosto che allo studio della Bibbia e alla contemplazione del Mistero. I Vescovi, tra l’altro, non si occupano della disciplina dei loro inferiori di grado, impegnati come sono nel controllo dei registri e delle rendite ecclesiastiche: padri contabili, più che padri spirituali, sentenzia il protagonista. Nemmeno l’invito di San Pietro, ad una maggiore applicazione alla preghiera e al ministero della parola, trova accoglienza presso i Vescovi. Inganno,allora, giustifica le irregolarità nella vita dei cristiani spiegando come la salvezza di questi uomini non dipenda dal loro operato, bensì dalla loro fede: può esservi incertezza nel primo, ma non nella seconda, affinché si aprano le porte della salvezza. Ma almeno nell’ambito della fede, v’è concordia? Tutt’altro: nonostante l’eguale fondamento, costituito dal testo della Sacra Scrittura, ciascuno si fa portatore di una sua diversa interpretazione, accendendo litigi e risse. Proprio tali incomprensioni provocano la divisione dei cristiani in sètte, ognuna delle quali distinta da certe regole (ad esempio, professare il culto dei Santi per i cattolici o rifiutare la musica strumentale durante i riti religiosi per i calvinisti).

Dopo aver constatato la debolezza delle argomentazioni dei cattolici di fronte agli attacchi delle altre sètte riformate, e dopo aver osservato i vani tentativi di riunificazione da parte dei “rinnovati” (questione che occuperà lo stesso Comenius in un’operetta composta nel 1643: Irenica quaedam pro pace ecclesiae), il Pellegrino coglie la vera cristianità nei “miseri, nei laceri, consunti dai digiuni e dalla sete”43, silenziosi nella meditazione e portatori di gentilezza. Tenta allora di seguirli nel loro cammino verso un luogo nascosto della Chiesa, ma subito le guide lo riportano tra i meandri del labirinto. Dappertutto, quindi, lo convince a passare nelle file dei religiosi: il Pellegrino indossa tonaca e cappuccio ma, una volta preso il proprio posto, comincia ad essere minacciato ed aggredito da chi gli sta attorno. La sua guida interviene nuovamente, portandolo via per mano, verso l’esplorazione di nuovi luoghi.Quest’ultimo passo del capitolo XVIII presenta una forte componente autobiografica. Comenius nel 1618 venne infatti nominato, a Fulnek, ministro nella più antica comunità dei Fratelli Boemi. Nonostante le persecuzioni e l’esilio -richiamate nel testo in una implorazione contro il “miserevole mondo”- non abbandonerà mai il suo importante incarico, morendo come ultimo vescovo dell’antica Chiesa hussita.

Autorità.“Eccoti qui gli uomini che, giudicando ed emettendo sentenze nelle contese, punendo i cattivi, proteggendo i buoni, mantengono l’ordine nel mondo”44: con queste parole Inganno presenta al Pellegrino lo stato delle autorità. Le persone appartenenti a tale stato non dànno però l’impressione di provenirvi per discendenza diretta, per merito o in virtù di una nomina comunitaria,

41

Dante Alighieri, Inferno.XVIII, 33 42

Komenský, Il labirinto del mondo e il paradiso del cuore, cit., p. 115 43

Komenský, Il labirinto del mondo e il paradiso del cuore, cit., p. 127 44

Ibid., p. 130

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come afferma lo stesso Inganno. Piuttosto l’adulazione, la corruzione e la menzogna sembrano aver posizionato le autorità sui loro alti sedili. Inoltre, osservando con attenzione, il Pellegrino nota che tra questidavvero in pochi posseggono tutte le parti del corpo: ad alcuni mancano le orecchie per ascoltare i lamenti dei sudditi, ad altri gli occhi per scovare gli abusi, ad altri la lingua per intervenire in favore degli oppressi e così via. Tutto ciò si traduce, praticamente, nell’emissione di ingiuste ed approssimative sentenze nei tribunali, nella perversione di avvocati attenti solo al guadagno, nell’assolutismo di regnanti chiusi in una nobiltà fine a se stessa, nella folla di adulatori che si agita attorno ai sedili di potenti signori.Il malgoverno ovunque imperante, nonostante qualche estemporaneo rispetto dei diritti, chiarisce al Pellegrino la sua estraneità allo stato delle autorità e, stupito da quanta “vanità e dorata miseria” insidino quest’ordine, si allontana per altre vie al seguito delle due sue guide.

Soldati. Mentre tutti i mestieri e gli impieghi sinora osservati, malgrado delle interne contraddizioni, erano volti all’accrescimento delle comodità terrene e dello stesso genere umano, lo stato dei soldati mira piuttosto all’annientamento della vita e alla disgregazione delle umane fatiche. I soldati si abbandonano completamente ad un’esistenza dissoluta, al furto, alla sodomia, alle gozzoviglie e all’ozio: “io vedo sì forme umane, ma comportamenti da porci”, osserva il Pellegrino. Nonostante le viziose comodità, i membri di quest’ordine sono soggetti ad un duro addestramento, diremmo di tipo spartano, e affrontano sanguinose e feroci battaglie che, nella descrizione di Comenius, ricalcano quanto vissuto dallo stesso autore durante la battaglia della Montagna Bianca del 1620.45I conflitti armati scoppiano per “accomodare gli affari tra i grandi signori, i re e i regni, che non hanno sopra di loro nessun giudice”, spiega Inganno: in quella situazione inter-statale, possiamo dire, che Thomas Hobbes identificherà come un esempio di status naturae storicamente contestabile. Inorridito dalle asperità del campo di battaglia, il Pellegrino chiede alle guide di essere condotto altrove.

Cavalieri. Lo stato dei cavalieri deriva direttamente da quello dei soldati: chi in guerra si è particolarmente distinto per coraggio ed azioni eroiche riceve onorificenze e particolari privilegi sociali. Ma la vanità dei cavalieri e il loro portamento “cavalleresco” si conformano, agli occhi del Pellegrino, come goffe stranezze: nessuna tra le fatiche umane sembra averlo infine soddisfatto. Al fine di mostragli lo scopo ultimo di tutte le occupazioni degli uomini, Satutto e Inganno decidono quindi di condurre il Pellegrino verso il Forte della Fortuna.

Il Forte della Fortuna costituisce il punto di approdo per tutti coloro che in vita hanno lavorato senza risparmiarsi, raggiungendo così ricchezza e rispetto sociale.Nel castello si entra per un’unica porta, ormai diroccata e preceduta da una via impervia: il nome del vecchio ingresso è Virtù. Alludendo metaforicamente al decadimento morale dell’umanità, Comenius può descrivere la porta della Virtù come caduta in rovina e dal passaggio ripido ed inaccessibile: al suo posto sono stati aperti dei varchi laterali, nominati stavolta con le meno rassicuranti iscrizioni di Ipocrisia, Menzogna, Adulazione, Iniquità, Intrigo, Violenza. Il Pellegrino fa anch’egli il suo ingresso tramite una di queste postierle laterali e si ritrova in un piazzale colmo di persone, speranzose di poter avere accesso ai piani più alti dell’edificio. Ma la selezione di chi potrà accedervi avviene senza un preciso criterio, magari di tipo etico: è la Fortuna ad accogliere, arbitrariamente, chi vuole e chi non vuole presso di sé, attraverso una ruota, posta in alto, che gira senza sosta. Chi riesce ad aggrapparsi alla ruota, grazie all’aiuto del Caso (funzionario della Fortuna), può accedere al piano superiore, tra la tristezza di chi è destinato ad una vana attesa. I premiati sono dunque distribuiti nell’edificio in tre piani.Al piano inferiore, che si rivela effettivamente una sorta di carcere, sono destinati i ricchi: ciascuno di loro è legato con pesanti catene che, comunque, costituiscono agli occhi di questi motivo di vanto, ostentazione e cura premurosa. La ricchezza è, quindi, allegoricamente presentata da Comenius come un pesante vincolo materiale, la cui vanità ne acceca i possessori. Al secondo piano sono collocati i viziati e gli amanti di delizie: si tratta di coloro che non temono nulla e che 45

Ibid., p. 144

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non permettono neanche ad “un filo di vento sfavorevole” di sfiorarli. L’edonismo sfrenato e gli eccessi di un’esistenza condotta nella continua dissolutezza fanno sì che, sazi e assuefatti, tali individui non riescano nemmeno più a godere di quegli stessi piaceri che ricercano incessantemente. La nausea, l’insonnia, la tosse, irritazioni cutanee e malattie veneree giungono col condizionare la loro vita in via definitiva. Si tratta diimpedimenti figli del loro stesso vizio, così come i golosi, nel VI Canto dell’Inferno dantesco, sono gravati e resi infermi da una pioggia “etterna, maladetta, fredda e greve”46, in chiaro contrasto con le “dilicate vivande” e i “savorosi vini” (Boccaccio) ai quali i peccatori erano avvezzi in vita. Al terzo piano, a cielo aperto, sono accolti gli eletti del mondo.Questi, collocati su alti sedilial bordo più estremo dell’edificio, godono sì dell’altrui rispetto, ma si tratta di un rispetto solo apparente, contraddetto subito dall’odioe dai dispetti compiuti alle loro spalle.Il rapporto degli eletti tra di loro è inoltre contraddistinto dall’astio, dal conflitto e dall’invidia. Sul fianco occidentale del Forte, Satutto mostra infine al Pellegrino un nuovo spiazzale, ancor più alto: qui vi giungono coloro che sono destinati all’immortalità, in seguito all’esame delle loro azioni da parte di unostrano individuo, pieno di occhi e orecchie, chiamato Giudicatutto. Ma ad essere ammessi non sono tanto i buoni, quanto, per intercessione della stessa Fortuna, i malvagi: Erostrato, il Duca d’Alba, l’eretico Arius, Ponzio Pilato, Niccolò Copernico e Ignazio di Loyola (fondatore dell’ordine gesuita, da Comenius sempre esecrato). Il Pellegrino, però, si accorge ben presto che il profitto effettivo di ognuno di quei immortalitatis canditatusnon consiste in una reale dilatazione del tempo della vita, ma nella perpetuazione del loro ricordo o per mezzo della voce della Fama (anch’essa funzionaria della Fortuna, piena di lingue e di bocche da tutti i lati), o attraverso dei ritratti issati in alto, per consentirne a chiunque la visione. La Morte, insomma, giunge anche qui, ed uccide i ricchi soffocandoli con le loro stesse catene, i voluttuosi avvelenando i loro prelibati bocconi e gli eletti precipitandoli giù dai loro alti sedili. Spaventato dalla bizzarra instabilità della Fortuna e da un mondo in cui fatiche e avversità appaiono inevitabili, il Pellegrino discute vivacemente con le sue guide, contrapponendosi con forza al loro invito a conformarsi all’atteggiamento comune, fonte soltanto di una gioia e di una saggezza superficiali. Inganno e Satutto concludono allora di portarlo al castello della Sapienza, onde fargli recuperare quella ragione che ritengono perduta.

Il Pellegrino giunge dunque al castello di Sua Maestà la Sapienza: l’ingresso è sorvegliato da guardie che impediscono l’accesso a chiunque non svolga un qualche incarico amministrativo o di governo, mentre gli esterni e le mura, apparentemente in alabastro e adornate di scintillanti decorazioni, si rivelano essere, al tatto del Pellegrino, di carta e imbottite di stoppa.All’interno del castello, la regina siede nel posto più elevato, sotto un baldacchino. Sempre accanto a lei stanziano le sue consigliere: alla destra Purezza, Avvedutezza, Prudenza, Ponderatezza, Affabilità, Mitezza; alla sinistra: Verità, Alacrità, Sincerità, Audacia, Pazienza, Costanza. Ancora ai lati della regina, sorvegliano due guardie: la prima è Potenza, avvolta in un’armatura di ferro irta di punte; la seconda, con indosso una pelliccia di volpe, è Adulazione. Più in basso, siedono Industria e Fortuna, funzionarie di Sua Maestà. Giuntial cospetto della Sapienza, Inganno inizia ad accusare il Pellegrino:questi, nonostante il permesso concessogli dal Destino di esaminare tutti gli stati e gli ordini del mondo, manifesta una continua insoddisfazione ed un certo spirito critico nei confronti di tutto ciò che le sue guide, con grande sforzo, gli hanno mostrato. Il Pellegrino viene allora rimesso alla volontà della Sapienza che, volendo dare esempio della sua benevolenza piuttosto che della sua severità, gli concede ospitalità presso il suo castello,offrendogli la possibilità di meglio comprendere il governo del mondo. A questo punto fa il suo ingresso nel castello Salomone, re d’Israele, esaminatore privilegiato del mondo, giunto sin qui per prendere in sposa la Sapienza, ma con l’intento preventivo di scorgere la differenza tra la Sapienza e la Stoltezza, giacché nulla gli piace “di quello che succede sotto il sole”. Le parole di Salomone – accompagnato da una schiera di uomini venerabili, patriarchi, profeti e filosofi – suscitano un immediato sollievo nello spirito del Pellegrino, speranzoso in una nuova guida ed in un nuovo consigliere per investigare il mondo. A

46

Dante Alighieri,Inferno VI, 8

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ciò si aggiungono i discorsi di Industria e Fortuna, che denunciano alla regina un completo stato di disordine nel mondo, accordandosi alle conclusioni del Pellegrino. Dopo diverse indagini e ricerche, si comprende che certi cospiratori e ribelli si sono intrufolati nel regno, al fine di seminare disarmonia e incomprensione. I colpevoli vengono immediatamente individuati in certi vizi: si tratta di Gola, Avarizia, Usura, Lussuria, Superbia, Crudeltà, Pigrizia e Oziosità. Chiamatia corte, questi si presentano però sotto le false e più tenere sembianze di Allegria, Economia, Interesse, Grazia, Dignità, Severità, Bonarietà e vengono quindi rilasciati, con un primo cenno di dissenso di Salomone e dei suoi compagni: “I nomi sono stati messi al bando, ma i traditori e i malfattori, cambiando il nome, sono liberi:non ne verrà certo niente di buono”.47Il malgoverno della Sapienza viene, poco dopo, ulteriormente confermato. Da lei si recano i rappresentantidei sei stati del mondo, richiedendo delle migliorie e dei perfezionamenti circa la propria condizione. Gli stati più ricchi e socialmente più agiati ricevono ulteriori privilegi (nuove onorificenze per sacerdoti e cavalieri; tentativi di concedere l’immoralità agli uomini più dotti e più celebri; tempi di riposo maggiori per le autorità; tutele per il lavoro dei politici), mentre i più poveri, le persone diligenti e i sudditi ottengono al massimo qualche buona promessa o addirittura una necessaria conferma della loro condizione di fatto (possibilità per i meno abbienti di uscire dalla povertà solo tramite le proprie abilità e conoscenze;considerazione maggiore per coloro che non si risparmiano nel lavoro, che restano comunque soggetti alla Fortuna e al Caso; inevitabile sottomissione dei contadini e degli artigiani ai loro padroni, dei quali si invita ad apprezzarne addirittura la benevolenza). Salomone, sino a quel momento spettatore silenzioso, non può più trattenersi dinnanzi a tanta ingiustizia: “Vanità delle vanità, tutto è vanità!”48, esclama possente. Fiero, si dirige verso la Sapienza e, allungando la mano, le toglie dal volto il velo – in realtà una ragnatela – mostrandone la reale bruttezza e deformità. Anche le maschere delle consigliere della regina cadono, esibendone la sottostante viziosità. Salomone, irato, abbandona quindi il castello con la sua schiera al seguito e, attraversando i diversi stati del mondo, comincia a spargere sapienza e ad utilizzare il suo ingegno in favore delle diverse arti. Ma, una volta entrato nella via del Matrimonio, cade nella trappola tesagli da Delizia, incaricata dalla Sapienza di catturarlo assieme alla sua schiera. Delizia corrompe Salomone mostrandogli le giovinette più graziose, al punto che il re d’Israele ne mette insieme, in breve tempo, settecento come spose e altre trecento come concubine, dedicandosi nient’altro che a giochi amorosi. I più importanti della sua schiera- tra cui Mosè, Elia, Isaia e Geremia- tentano di opporsi allo stato di perdizione del proprio re, che ha ormai “toccato il fondo” passando per la via dei religiosi. Ma la compagnia di Salomone nulla può contro le truppe riorganizzate dalla regina Sapienza che, in un crudo scenario rimandante ancora una volta alla personale esperienza di Comenius, cattura e massacra i membri della schiera del re d’Israele. Il Pellegrino, “non potendo più guardare tutto questo né sopportare il dolore del cuore”49, abbandona le sue guide e si reca, disperato, sino ai confini del mondo e della luce. Qui, gettati via gli occhiali dell’inganno, si sporge in avanti e coglie unicamente quella terrificante oscurità “di cui la ragione umana non potrà mai raggiungere né il fondo né la fine”. Sfinito dallo spavento, il Pellegrino cade a terra svenuto, abbandonandosi ad un’ultima supplica verso Dio. Con questa vivida immagine che, in tutta la sua fatalità, ci rimanda immediatamente al verso conclusivo del V Canto dell’Inferno dantesco50, Comenius conclude la prima, lunga parte della sua opera. Un’interruzione in senso forte, inevitabile spartiacque tra le tortuosità del labirinto ed il viaggio di ritorno verso casa.

47

Komenský, Il labirinto del mondo e il paradiso del cuore, cit., p. 188 48

Ibid., p. 200 49

Ibid., p. 208 50

Dante Alighieri,Inferno V, 142: “E caddi come corpo morto cade.”

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-Il Paradiso del cuore (capp. XXXVII - LIV)

“Ritorna”. A scuotere il Pellegrino dal suo spavento intervengono, per tre volte, le parole stesse di Dio: “Ritorna da dove sei partito, alla casa del tuo cuore, e chiudi la porta dietro di te”51. Intese le parole divine, il Pellegrino si concentra al meglio sui propri pensieri, isolandosi da qualsiasi stimolo esterno, ed entra in contatto col profondo del proprio cuore. Ciò che riesce a scorgere è l’immagine di una stanza desolata, semibuia, con scale e pareti rotte, allegoria della corruzione del mondo e della natura. Ma la luce all’interno di questa stanza si fa via via più intensa, sino a conformarsi pienamente nell’immagine di Gesù, che avvolge in un primo, dolcissimo abbraccio il Pellegrino. Questi, di fronte a quest’estasiante visione, non può far altro che sospirare profondamente e, in un devoto atteggiamento di umiltà, ascoltare le parole del Signore: “Dove sei stato, figlio mio? Dove sei stato per così tanto tempo? Cosa cercavi nel mondo? Felicita? Ma dove altro volevi cercarla se non in Dio? E Dio, dov’altro se non nel suo tempio? E quale tempio, […] se non il tuo proprio cuore?”52. Comprendendo finalmente che la vera felicità è perseguibile solo nel totale abbandono alla volontà e alla saggezza divina, il Pellegrino si concede totalmente a Dio, stipulando con lui un accordo. Egli sarà infatti condotto verso la tanto agognata felicità, ma a patto di volgere e trasferire in Dio tutte le fatiche osservate nel mondo. Il lungo discorso di Gesù, che viene a suggellare l’accordo con il fedele ritrovato, sembra ricalcare il senso delle stesse parole evangeliche: “Io sono la via, la verità e la vita.53.I sei stati del mondo, osservati dal protagonista durante il suo viaggio, vengono infatti rideclinati nel senso di una completa consegna alla guida di Dio: il matrimonio viene concepito come un'unione con Cristo, ossia con l'unico ed eterno sposo; il solo mestiere in cui è opportuno applicarsi è quello che ha nel favore di Dio il suo esclusivo profitto; l'immenso e stancante lavoro dei dotti nelle biblioteche è facilmente sostituito da un unico libro, la Bibbia, dove si trovano depositate tutte le arti liberali; solo Dio può decidere circa la durata della nostra esistenza, al di là dei tentativi dei medici di allungare e curare la vita; la religione non si rivela nell'esteriorità delle pratiche cerimoniali, ma nell'individuale e più profonda dimensione interiore; mentre gli uomini si affannano nella ricerca di posizioni di dominio, Dio consegna al suo fedele l'anima e il corpo in luogo di un regno da governare; il diavolo e i desideri carnali sono i veri nemici da combattere e non gli appartenenti alla propria stessa stirpe , contro i quali si scagliano i soldati; attraverso la solitudine, il digiuno e il rifugio dalla gloria mondana si giunge all'autentica compagnia, alle delizie e alla gloria, ossia alla totale beatitudine unicamente in Dio riposta. Comenius concede, in questo passo, un dialogo e addirittura un contatto fisico tra il suo protagonista e l’immagine di Gesù, avvolta in un’aurea sempre più luminosa. Quella stessa luce divina che, invece, nel XXXIII Canto del Paradiso, impedì Dante sia nell’espressione poetica sia nel ricordo della sublime visione divina54, dinnanzi alla quale la parola e la memoria s’inchinano impotenti.--------------------------------------------------------------------------------------------

Il Pellegrino riceve, dunque, una nuova briglia e dei nuovi occhiali:la prima consiste nell’ubbidienza alla volontà celeste, i secondi sono invece forgiati nella parola di Dio e il vetro al suo interno è costituito dallo Spirito Santo. Così munito, il Pellegrino può far ora ritorno laddove, nel capitolo XVIII dell’opera, era stato distolto dalle sue vecchie guide: nella parte più interna della Chiesa, nel tempio della Cristianità e della Verità, nel punto in cui aveva visto dirigersi i miseri e i più poveri. Per accedervi, occorre superare un doppio sipario: la parte esterna, più scura, si chiama Disprezzo del mondo; l’altra, interna e splendente, porta il nome diAmore in Cristo. Nonostante un gran numero di persone si ritrovi a passare in prossimità del sipario- tra cui ecclesiastici e studiosi

51

Komenský, Il labirinto del mondo e il paradiso del cuore, cit., p.210 52

Ibid., p. 213 53

Gv 14, 6 54

Cfr. Dante Alighieri, ParadisoXXXIII, 52-56

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delle Scritture-, quasi nessuno vi fa ingresso, immediatamente richiamato dal fulgore mondano. Il motivo principale per cui solo in pochi riescono ad entrare è presto svelato: per accedervi bisogna infatti disfarsi di tutti i beni materiali, di tutte le vanità mondane, persino di qualsiasi forma di conoscenza maturata. Tale rinuncia, autentica “medicina celeste”, rinvigorisce la vita piuttosto che indebolirla: “dopo, ognuno si chiedeva con meraviglia come avesse potuto fino ad allora appesantirsi con inutili fardelli, sovraccaricandosi di quello che il mondo chiamava sapienza, gloria, letizia, ricchezza (in verità, nient’altro che pesi)”55. Ciò che accade oltre il sipario, osserva il Pellegrino, è in effetti l’esatto opposto di quel che avviene nel mondo: all’agitazione si sostituisce la pace, alla corruzione la nobiltà di spirito, agli affanni e ai tormenti la letizia e la gioia, alle falsità la verità. Per i cristiani, per i veri cristiani, splende infatti una duplice luce: la luce della ragione e la luce della fede, entrambe governate dallo Spirito Santo. Tramite la prima, il fedele viene dotato di un autentico potenziamento delle facoltà sensoriali, che gli permette di scorgere al di là delle possibilità dell’occhio dello scienziato e di non soffermarsi, cioè, solo al guscio di ciò che si vede o tocca, ma di giungere sino al suonocciolo interno, ossia sino alla percezione della gloria di Dio che tutto pervade. Tramite la seconda, invece, anche ciò che non è raggiungibile attraverso i sensi diviene, per il cristiano, manifesto. Tutto quanto in terra “era prima e sarà” è stato rivelato da Dio nel suo Verbo: attraverso un atto di piena fede e di ubbidienza al Signore, il fedele può cogliere ciò che per tutti gli altri è inconoscibile, evitando le incertezze e le esitazioni tipiche della realtà mondana. Tutto ciòè reso possibile dal fatto che, per quanto possa essere esteso il mondo, qualunque cosa vi accada, dalla più grande alla più piccola, tutto avviene per mezzo della volontà divina.La completa servitù al volere di Dio diviene, nella dimensione cristiana, la più grande libertà, giacché svincola l’individuo dalle intenzioni e dalle limitazioni dei re, degli amici, della famiglia e persino delle proprie interne ed incostanti disposizioni. Qui Comenius ricalca tipiche posizioni luterane, secondo le quali la libertà del cristiano si configura come una libertà che porta una particolare autonomia di condotta, diretta conseguenza dell'intima soggezione alla legge di Dio, liberando gli esseri umani dalla "legge" dei codici storici.

Servire Cristo significa regnare, dal momento che: “vi è più gloria nell’essere il vassallo di Dio che nell’essere il monarca del mondo intero”56. Comenius riformula quindi, in dieci punti, il contenuto del Decalogo: il rispetto dei comandamenti garantisce quell’ordine che il Pellegrino non aveva potuto osservare in nessuno degli stati del mondo. La summa di tutte queste regole certe consiste “nell’amare Dio al di sopra di ogni cosa possa essere nominata e nell’augurare con sincerità al prossimo quello che si può augurare a se stessi.”57. Poche parole, che superano in perfezione e in efficacia qualsiasi legge o regolamento del mondo. I cristiani si identificano come “provenienti tutti da un sangue solo, redenti e purificati da un solo sangue”, figli dello stesso Padre, commensali di un’unica tavola: tutto ciò fa sì che tra di loro viga una totale unità d’intenti, una condivisa dimensione emotiva -diametralmente opposta alle angherie osservate nel mondo- e la comunità di tutti i beni (per lo più modesti)disponibili.La vita, così disposta, non presenta difficoltà alcuna per il vero cristiano. “Io dunque non esisterei, mio Dio, non sarei assolutamente nulla, se tu non fossi in me. O piuttosto, non esisterei se io non fossi in te: perché da te, per te, in te ogni cosa esiste”58.Questo passo, tratto dalle Confessioniagostiniane, ben esemplifica la dimensione cristiana descritta da Comenius in quest’ultime pagine dell’opera. Il fedele, infatti, non teme nulla, nemmeno la sofferenza, imperturbabile accoglie il dolore,giacché sa che ogni cosa deriva dall’ insondabile volontà divina; qualsiasi bene esteriore costituisce per essi un fardello più che un guadagno; gode dell’assistenza di un angelo custode, direttamente affidatogli da Dio che (come con insistenza sostenuto dai rosacrociani) lo protegge dal diavolo, dall’umana malvagità, dalle disgraziee, nel caso dei santi, gli consente di operare profezie o miracoli.I torti, il disprezzo e la derisione che il resto del

55

Komenský, Il labirinto del mondo e il paradiso del cuore, cit., p. 227 56

Ibid., p. 236 57

Ibid., p. 237 58

Agostino di Ippona, Confessiones,I, 2

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mondo riversa su di loro, non possono scalfire la pace assoluta di cui godono i fedeli: la loro capacità di sopportazione è la prima testimonianza del pieno possesso dello spirito divino, che li rende incrollabili di fronte all’alternarsi delle fortune, al disordine mondano, alla mestizia che spesso li avvolge, ma che è facilmente curabile attraverso la costante vicinanza di Dio.

Il Pellegrino passa dunque ad un rapido esame dei cristiani secondo gli stati. Per quanto riguarda il loro matrimonio, questo non si discosta molto dalla castità: tanto nel desiderio quanto nei comportamenti vige la moderazione, in una felice unione dei corpi e dei cuori. Le autorità posseggono sì un titolo superiore, ma con i sudditi a loro affidati si comportano come i genitori con i figli, ossia con amore e sollecitudine. Un buon numero di dotti è presente tra i cristiani: questi agiscono con assoluta modestia e semplicità - nonostante l’alto grado di conoscenza conseguito – e sostengono che l’unica vera fonte di sapere sia costituita dalle Sacre Scritture. Essi stessi scrivono libri, non però per diffondere il proprio nome, ma nella speranza di poter condividere qualcosa di utile con il prossimo. Infine i sacerdoti, tutti in abiti semplicissimi, trascorrono quasi la totalità del loro tempo in preghiere, letture e meditazioni. Essi rifiutano qualsiasi onorificenza o altisonante appellativo, in favore del più semplice e dignitoso titolo di “servi di Dio”. Il mondo dei cristiani presenta, in definitiva, una sobrietà, una moderazione, una diligenza radicalmente opposte alla superbia, all’avarizia e alle discordie osservate dal Pellegrino nel suo viaggio. Persino la Morte appare sotto più liete sembianze: avvolta nel sudario di Cristo, annuncia il momento di abbandonare il mondo ai diversi fedeli, che docilmente si addormentano in pace, silenzio e letizia. --------------------------------------------------------------------Il labirinto del mondo e il paradiso del cuoresi concludecon la visione di Dio, in tutto il suo indicibile splendore, da parte del Pellegrino: è lo stesso Gesù a parlargli ancora, ad accoglierlo nella famiglia divina ribadendogli i capisaldi della fede e della condotta cristiana. Il Pellegrino si abbandona allora ad un’ultima, appassionata, preghiera che sancisce definitivamente il suo ritrovamento interiore e la sua totale consegna alle “dolcezze del cielo”. Ancora una volta, risulta diretto il rimando alle parole di Sant’Agostino: “Eri con me, io non ero con te. Le cose mi tenevano lontano, le cose che non ci sarebbero se non fossero in te. Mi hai chiamato, e il tuo grido ha lacerato la mia sordità; […] mi hai sfiorato e mi sono incendiato per la tua pace”59.

Il progetto di un’educazione universale

Il Labirinto è, sostanzialmente, un testo letterario.In esso, che può essere considerato come un lavoro giovanile, ritroviamo sicuramente alcuni aspetti tipici del pensiero comeniano, ma non può di certo esservi, tranne qualche accenno, una piena e sistematica esposizione dell’ideale educativo dell’autore moravo.Il vivido affresco che Comenius offre del vizio, della dissolutezza, dell’incostanza e, in definitiva, della rovina in cui il genere umano è precipitato trova, nell’ultima parte dell’opera, la sua antitesi speculare nella descrizione de regno di Dio. Ma in cosa identificare il mezzo in grado di superare la conflittualità mondana e di consentire una pacifica armonia nel mondo stesso, secondo il dettato divino? La soluzione risiede nell’educazione, anzi, in una particolare declinazione dell’ideale educativo: la “pansofia”. Questo termine, di chiara derivazione greca, viene ad indicare il legame globale ed organico della totalità del sapere, “ricostruendo in una sintesi armoniosa l’unità tra filosofia, teologia e scienze. Essendo uno solo l’Autore della natura, delle Scritture e della mente umana che ad entrambe guarda, Comenio ritiene necessario recuperare la capacità di gettare uno sguardo unitario su tutte tre le branche del sapere.”60Nella prospettiva comeniana, dunque, i principi fondamentali del sapere debbono essere impartiti alla

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Ibid.,X, 27 60

Pesci, Maestri e idee della pedagogia moderna, cit., p.19

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totalitàdegli uomini, come indispensabile bagaglio in quell’unica scuola che conduce a Dio: la vita nella sua interezza. Comenius assume la cultura come centro unificatore dell’umanità, perciò egli vuole “scuole, libri, insegnanti in ogni luogo della terra, per ogni essere umano in ogni sua età e condizione. Tutta la vita è scuola, e poiché la natura umana è tutta attiva, dovunque si rivolge lì tutta si effonde: dovunque, quindi, può e deve essere educata”61. L’originalità e la grandezza di Comenius consistono nell’aver risposto alle difficoltà e ai tormenti della propria epoca – la guerra e, da un punto di vista personale, l’esilio – non tanto in termini strettamente politici, come gran parte degli autori del coevo contrattualismo, ma in termini di educazione, cultura, felicità. Non si tratta quindi di individuare la miglior forma di governo in grado di garantire al meglio giustizia, libertà e sicurezza: si mira bensì direttamente all’edificazione di ogni singola individualità, per tutto l’arco della sua esistenza. La diffusione dell’istruzione avrebbe dunque provocato trasformazioni sociali sulla base di consapevoli rapporti intersoggettivi, in grado di operare per l’unità e l’armonia di tutti gli uomini, nel recupero del messaggio di Dio. La prospettiva educativa di tipo personale subisce allora, nel pensiero comeniano, un inevitabile ampliamento ad una dimensione di tipo politico-sociale.

Opera di emblematica importanza, in linea con le prospettive sovraccennate, è la Pampaedia. Questo testo, composto probabilmente attorno il 1656, fu ritrovato in Germania dallo slavista e filosofo D. Cyzevskij negli archivi dell’orfanotrofio Francke, inaugurando difattouna riscoperta del complesso pensiero dell’ultimo vescovo dei Fratelli boemi.La Pampaedia avrebbe dovuto costituire una delle sette parti in cui si sarebbe dovuta articolare la De rerum humanarum emendatione consultatio catholica, la più vasta opera comeniana, rimasta incompiuta. Secondo le notizie date da Cyzevskij, la Pampaedia avrebbe dovuto costituire una parte separata, di “didattica speciale”, nell’ambito dell’esposizione pansofica: avrebbe infatti dovuto rappresentare la fecondazione spirituale delle anime umane mediante un efficace insegnamento. L’idea di formulare piani pansofici per il miglioramento dell’umanità nasceva in Comenius dal desiderio di consolidare le conseguenze etico-politiche della pace di Westfalia del 1648, con un sistema filosofico ricco di proposte concrete per l’organizzazione della cultura, delle scuole, delle istituzioni religiose e politiche62.Passiamo ora ad una più ravvicinata lettura dell’opera.

Cosa si intende, anzitutto, per Pampaedia? È lo stesso Comenius ad offrire una puntuale risposta nell’incipit del primo capitolo del libro, con un chiaro rimando alla civiltà classica: “La Pampaedia è l’educazione universale di tutta l’umana gente. Per i Greci, infatti,παιδεία significa l’educazione e la disciplina nella quale gli uomini sono eruditi;πᾶν significa l’universalità. Si richiede dunque, che tutti siano educati in tutto e totalmente”63. Quest’aspirazione ad una cultura universale fa da contrappunto alla condizione, diametralmente opposta, della fattuale divisione tra le idee in niente, qualcosa e tutto. Niente sta a significare “l’assenza totale” di educazione, come quella che si osserva con commiserazione tra le popolazioni barbare, tra le quali gli uomini “nascono, vivono e muoiono a guisa di bestie”. Qualcosa sta ad indicare un certo livello d’istruzione, ma non ovunque diffusa: una “qualche educazione”, cioè, verso quella o questa direzione determinata, constatabile tra i popoli giunti ad un buon grado di civiltà. L’unica prospettiva possibile è, invece, per l’educatore moravo quella del Tutto, ossia di “un’educazione universale”, che sola può condurre l’uomo all’altezza dell’immagine di Dio.L’aspirazione omnicomprensiva di Comenius, si spinge, nella sua forza, al di là di qualsivoglia distinzione: il raggiungimento della piena umanità mediante l’educazione non riguardainfatti un singolo individuo o una realtà parziale, bensì ogni essere umano, di ogni età, appartenente a qualsiasi classe sociale, di tutte le nazioni, maschi e femmine, dimodoché ciascuno possa degnamente occupare il proprio posto sulla terra e “non allontanarsi in nessun caso dalla meta della sua felicità”. Ogni uomo ben formato, inoltre, deve essere educato non

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J. A. Comenius, Pampaedia, Roma, Armando Editore, 1993 62

Cfr. Ibid., p.9 63

Ibid., p. 23

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in una sola disciplina o in poche o molte, ma in tutte quelle che perfezionano la natura umana, rendendola avveduta e felice. Comenius le individua in quelle quattro “che il saggio Salomone riscontra in quattro animaletti sapientissimi”: la previdenza per il futuro tipica delle formiche, la prudenza per il presente caratteristica dei conigli, lo spirito di concordia proprio delle cavallette, il bisogno di armonia, regolarità e metodo riscontrabile nei ragni.64Questo tipo di formazione, infine, non è volto all’ostentazione o all’abbellimento, ma alla Verità, quindi a “rendere tutti gli uomini nel più alto grado conformi alla immagine di Dio”, ossia veramente razionali e sapienti, attivi e dinamici, pii ed onesti. La razionalità corrisponde, nell’ottica comeniana, all’elemento più significativo dell’umanità, all’esemplare impronta divina presente in ciascun individuo: l’uomo deve essere formato quindiin modo totale, in quanto è stato creato ad immagine di Dio. Da ciò ne consegue che tanto nei pensieri, quanto nelle parole e nelle opere ciascun essere umano non deve certo adeguarsi all’istinto bestiale o alle altrui opinioni, ma agire bensì secondo la propria intelligenza – pienamente sviluppata tramite l’educazione pansofica -, in grado di rivelare quella “corrispondenza di fini tra l’anima umana e l’ordine divino”65. Sin troppo diretto è il rimando alla celeberrima terzina dantesca: “Considerate la vostra semenza:/fatti non foste a viver come bruti, /ma per seguir virtute e canoscenza”66, ove s’introduceva, nel contesto antico, il motivo cristiano dell’origine divina dell’uomo. Secondo Comenius, se i postulati del suo ideale educativo giungessero a compimento, “i miseri mortali” coglierebbero l’autentico rimedio contro la loro infelicità, il giusto strumento per orientarsi nel “labirinto del mondo”, il quale finirebbe, tramite la diffusione universale del sapere, con il trasmutarsi in una realtà piena di ordine, di luce e di pace. Possiamo, allora, dare della Pampaedia una nuova e più specifica definizione: essa si delinea come “l’arte di trapiantare la sapienza nelle menti, nelle lingue, nei cuori e nelle mani di tutti gli uomini.”67Passiamo ora ad analizzare più da presso il progettodella dottrina comeniana, secondo l’annunciata educazione di tuttigl’uomini, in tutte le cose e totalmente.

- Tutti

L’allontanamento di tutte le tenebre, in cui gran parte del genere umano è ancora avvolto, nonché l’incremento della luce nella mente di tutti gli uomini si delineano, nell’ottica di Comenius, come delle operazioni necessarie, possibili e senza particolari difficoltà realizzative. La loro necessità risulta evidente dal fatto che l’educazione di tutto il genere umano ricade sia nell’interesse di Dio, sia in quello degli uomini, sia in quelle delle cose stesse: interessa a Dio “affinché non resti frustrato del suo fine circa l’uomo”; agli uomini affinché non si allontanino dalla loro beatitudine, in Dio realizzantesi; alle cose “affinché non soggiacciano eternamente alla loro inutilità, qualora non siano utilizzate rettamente dagli uomini”.68 Questa esposizione d’insieme viene esaminata da Comenius attraverso un puntuale rimando al resoconto biblico.Proprio dalla Sacre Scritture(dal Genesi, in particolare), risultano infatti evidenti le finalità per le quali Dio ha plasmato la sua creatura razionale. In primo luogo, creandola a propria immagine e somiglianza, per avere "fuori di Sé un'immagine di cui compiacersi”; in secondo luogo, investendola della signoria sulle bestie e sopra tutta la terra, per offrire un reggitore alle creature inferiori; in terzo luogo "affinché il medesimo uomo[...] non dipendesse da nessuno e sapesse e potesse reggere anche se stesso". Il progetto pansofico mira quindi a congiungersi con le intenzioni del Creatore, affinché Dio non resti privo del suo fine ultimo circa l'uomo. Proprio per quanto riguarda gli uomini, il loro interesse risiede invece nel fatto che nessuno di essi si allontani dallo scopo della sua introduzione nel mondo. Come è privo di senso camminare verso qualcosa senza mai raggiungerla o cercare senza trovare, allo stesso modo risulterebbe vano non realizzare ciò per cui siamo al mondo:nessuno deve

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Cfr. Ibid., p. 25 65

Pesci, Maestri e idee della pedagogia moderna, cit., p.20 66

Dante Alighieri, Inferno XXVI, 118-120. 67

Comenius, Pampaedia, cit., p. 27 68

Cfr. Ibid. p. 30

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pentirsi di essere nato. Ciò può rendersi possibile anzitutto educando ogni natura razionale all'uso della retta ragione, della cui luce tutti hanno il dono. Tali affermazioni, diremmo di stampo illuministico, sembrano ricollegabili a quelli che saranno i principi della filosofia di Immanuel Kant, il quale “rideclina l’oggettività del sapere in una validità che possiamo dire intersoggettiva, ovvero universalmente elaborabile e ricontrollabile da tutti gli esseri umani, dotati, insieme con la ricettività dei sensi, anche della spontanea […] capacità connettiva e discorsivo-concettuale della ragione.”69 Il secondo passo consiste nell'istruzione: è da desiderare che tutti gli uomini divengano sapienti e che lo divengano quanto più possibile, rispondendo così alla Saggezza Infinita dalla quale la loro immagine fu tratta. Non si parla quindi di un'istruzione parziale, ma di un'istruzione estesa a tutti gli uomini: soltanto educando ciascun individuo circa i propri fini e quelli delle cose, i mezzi per raggiungere tali fini ed i legittimi modi per adoperare quei mezzi, si potranno finalmente evitare i tanti errori che ovunque si commettono e la "cecità della mente". Il genere umano va considerato come un Tutto: come il corpo non gode di buona salute se le sue singole membra non stanno bene, così il complesso della società umana non giunge al suo pieno compimento se anche le nazioni meno istruite e che vivono nel grado estremo di barbarie non vengono illuminate e liberate dalle loro tenebre. Comenius è dunque perfettamente consapevole dei risvolti sociali del suo pensiero e delle implicazioni di un’istruzione imposta su larga scala. Non si devono allora porre differenze dove Dio non ne ha poste: gli uomini condividono la stessa materia, la stessa forma, la medesima origine ed un fine unitario (la preparazione verso un'altra vita). Tema di straordinaria attualità, ancor di più se inserito in un contesto educativo, è l'uguaglianza di ciascun individuo, di tutti i popoli, anche dei più remoti, ad erigersi, nell'ottica comeniana, come primo motivo di un'istruzione a tutti applicabile. E questo è, indubbiamente, uno degli aspetti più laici e moderni (nonostante l'uguaglianza venga sempre colta nella condivisione di un'origine divina) della riflessione del pensatore moravo. Infine, è interesse anche delle cose stesse che tutti gli uomini siano educati ad una vita ragionevole: anche le cose, dunque, si trovano meglio sotto una guida sapiente, che è in grado di farne buon uso e buon godimento, così come l’orto quando si trova in mano ad un buon ortolano.

Proprio dal momento che la natura umana è ovunque la stessa, educare tutti gli uomini è chiaramente possibile. Infatti Dio, essendo sapiente, ha concesso a tutti i mezzi in grado di rendere l’uomo saggio. E più precisamente: da un lato le Sacre Scritture, dall’altro gli organi per la lettura dei libri divini, ossia “il SENSO per conoscere tutto ciò che il mondo contiene; la RAGIONE per esaminare tutte le conseguenze che l’umana natura concatena; la FEDE per ammettere come vero ciò che riferiscono i testimoni degni di fede”.70I mezzi per istruirsi, è ribadito, risiedono nelle facoltà degli uomini di tutto il mondo. Comenius parla di tutti i sensi esterni ed interni: della mente, qualora sia pienamente fornita del corredo delle conoscenze, degli istinti e delle facoltà comuni; del cuore come sede degli affetti e del sommo bene; della lingua, indispensabile alla comunicazione; delle mani, per “fare in modo simile tutte le cose che sono simili”; della lentezza del crescere, affinché vi sia un tempo sufficiente per tutti gli scopi da raggiungere.

Educare tutti gli uomini all’umanità è, dunque, chiaramente possibile. Ma, aggiunge infine Comenius, è anche facile a farsi. Questo perché ciascun uomo, una volta allontanate dall’intelletto le tenebre che lo abbruttiscono, mostra una naturale aspirazione all’indipendenza, alla conoscenza e al godimento del Sommo Bene, al giusto e buon utilizzo delle cose stesse. Il medesimo discorso vale per i “barbari”: una volta offertagli la possibilità di cogliere coi sensi i vari oggetti, di scrutarli con il ragionamento e di esaminarli storicamente, “nella stessa Scizia vedremo spuntare degli Anacarsi”. La sapienza non si delinea, quindi, quale esclusivopatrimonio di filosofi, teologi, re, magistrati. Essa è bensì a tutti necessaria, giacché ciascun uomo non dev’essere guida e reggitore solo di se stesso, ma, secondo il dettato divino, anche del proprio simile.

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V. Marzocchi, Filosofia politica. Storia, concetti, contesti, Roma-Bari, Editori Laterza, 2011 70

Comenius, Pampaedia, cit., p. 37

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- In tutto

Il desiderio di una scienza universale ha pervaso l’ideale di moltissimi uomini sin dall’antichità: i Greci nominavano tale complesso Enciclopedia, i Romani docrinarum orbis. Oggi come allora, è possibile rinvenire ingegni di siffatta cultura. Ma il progetto pansofico -lo ribadiamo- non si rivolge soltanto ad alcune persone, ma alla totalità degli uomini, richiedendo che essi siano istruiti non “soltanto in tutte quelle cose che si possono conoscere, ma anche in quelle cose che debbono esser fatte e spiegate col discorso”71. Tutte le azioni che l’uomo può compiere sono infatti riconducibili a tre categorie fondamentali:pensieri, parole ed azioni. E poiché ciascun uomo può essere impegnato nel mondo sostanzialmente in tre tipi di relazioni – con le creature inferiori, con i suoi simili e con Dio – le suddette categorie della natura umana si riducono di conseguenza a cinque elementi fondamentali: l’esser capaci di pensare, l’esser capaci di eloquenza, l’esser in grado di agire, l’esser di buoni costumi e di modi civili, l’esser pii nel rispetto di Dio. Inoltre, se consideriamo integralmente i desideri innati degl’uomini, assegnatici dalla stessa volontà divina, l’educazione umana può esseredistinta in dodici elementi. Infatti, ciascun uomo desidera di:esistere, ossia vivere; star bene; conoscere le cose che ha attorno a sé; comprendere le cose che sa; esistere liberamente, operando scelte secondo il proprio personale giudizio; realizzare attivamente ciò che comprende e sceglie; avere o possedere molto; godere di ciò che possiede in tranquillità; eccellere ed essere onorato; essere un buon parlatore, per comunicare il proprio sapere; ottenere la simpatia degl’altri uomini; avere, infine, il propizio di Dio.72 Ecco dunque chiarite ed elencate tutte quelle cose verso le quali deve essere accuratamente promossa l’educazione di tutti gli esseri umani. Sulla base di tali considerazioni, secondo Comenius, il bene e il sapere più completo così si articolano e conseguono: nell’ insegnare agl’uomini ad amare questa vita presente, in modo da augurarsela eterna nella grazia divina; nel curare la vitalità fisica, giacché un male trascurato all’inizio può poi rivelarsi incurabile; nell’ avviare gli esseri umani alla conoscenza di molte cose, onde evitare pensieri vani ed una condotta oziosa; nel condurre gli uomini al punto di intendere il significato intimo delle cose, per rifuggiredagli errori derivanti da una conoscenza superficiale; nel disabituare gli uomini ad imitarsi l’un l’altro come animali, giacché è di fondamentale importanza che essi sappiano scegliere ed ordinare liberamente secondo il proprio arbitrio; nel rendere gli uomini attivi ed amanti del lavoro, dal momento che l’ozio è il padre di ogni vizio; nel desiderare che ciascuno possegga secondo la propria necessità, in modo che tutti possano vivere contenti di sé e non sopravvivere nella miseria; nell’esigere che tutti gli uomini vivano in sicurezza, e cioè nella serenità di una mente onesta e nel godimento pacifico dei propri beni; per evitare contese, guerre e stragi, occorre che nessuno subisca torti od offese, giacché l’uomo è la creatura più elevata agl’occhi di Dio e, al contempo, si lascia facilmente trasportare alla vendetta; tutti devono essere educati ad esporre i propri bisogni, tanto ai propri simili quanto a Dio, secondo la natura umana; bisogna educare gl’uomini a comportarsi pacificamente, addolcendo le indoli più irose e controllando quelle più docili; risiede nell’interesse di tutti, infine, che la mente umana sia imbevuta di pietà, per acquisire il favore di Dio e in prosecuzione dello stesso insegnamento di Gesù.73 È dunque evidente, da quest’elenco, come tanto la dimensione individuale (conoscenza, cura del corpo, libero arbitrio etc.) quanto quella sociale (rifiuto dell’omologazione, sicurezza, concordia tra gl’individui) vengano a costituire, nell’ideale dell’autore moravo, un unico ed indivisibile aspetto dell’educazione umana, a sua volta sussunta all’interno d’una portante visione religiosa d’insieme.

Questa forma completa di educazione, sostiene Comenius, è assolutamente possibile per tutti gli uomini. Tutti, infatti, desideriamo per noi stessi conoscenza, bontà d’animo e autosufficienza, dal momento che siamo stati creati in “modo da riprodurre Dio come Sua immagine”. E Dio stesso, avendoci concesso di volere queste cose, vi ha conseguenzialmente aggiunto la possibilità di

71

Ibid., p. 48 72

Cfr. Ibid., pp. 50-51. 73

Cfr. Ibid., pp. 52-57.

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realizzarle. Realizzazione che, sempre in linea con la natura umana, presenta anche un certo grado di facilità. Comenius dimostra quindi, in dodici punti, come i desideri essenziali degli uomini, ossia ciò che deve essere promosso dall’educazione, possa essere conseguito mediante agili accorgimenti e direttive (ad esempio, per rendere gli uomini attivi occorre un esercizio al moto sin dall’infanzia, che unisca serietà e piacevolezza, onde conseguire lode e vittoria; per godere di una costante salute occorrono un nutrimento adatto, un giusto riposo e piaceri onesti etc.).74 In tal modo si provvede allora allo spirito e al corpo di ciascun uomo: con il sapere così oculatamente impartito vengono curati i mali del Labirinto.

- Totalmente

Cosa si intende, giunti a questo punto, quando si sostiene che gli uomini possono essere “rifiniti e raffinati totalmente”? Esser educati in modo integrale corrisponde, nell’esposizione comeniana, ad una piena e consapevole interiorizzazione della cultura, dell’integrità morale, dell’autentico sentimento religioso: in un’educazione, cioè, non “all’apparenza”, ma alla verità; non di un “saputello” ma di un saggio; non di un “millantatore”, ma di un uomo in grado di portare a termine i propri impegni; non di un ipocrita simulatore nell’adorazione di Cristo, ma di “un pio e santo adoratore di Dio”.75 A cosa hanno condotto, infatti, la superficiale conoscenza delle cose, l’invenzione di opere vane, la falsa cortesia dei costumi, la fede in nessun luogo sincera? A nient’altro che a quella situazione di perdizione, menzogna, oziosità ed inganno che aveva terrorizzato il Pellegrino durante il suo viaggio nel mondo. La perfetta formazione umana – conseguibile attraverso la trasmissione di un sapere unitario e totale, profondo e reale, gradevole e quindi duraturo – non è certo esente da difficoltà. Difficoltà che, però, possono essere indebolite o rimosse una volta eliminatene le cause.

L’uomo è dicerto la creatura più complessa, che tanta cura richiede se deve essere preservato dalla corruzione: il miglior antidoto contro di essa non risiede, però, nel servire ai sensi umani una minima varietà e molteplicità di oggetti (comunque in grado di sviare l’immaginazione verso cose vane, nocive per il corpo e per l’anima), ma bensì nel dotare l’uomo del più completo sapere e di tutti i mezzi in grado di mostrare il vero uso delle cose e di prevenirne l’abuso. Inoltre la costituzione della natura umana, “per la sua stessa superiorità”, risulta essere tale da non ammettere facilmente una guida: a complicare ancor di più la situazionev’è stata “la sciagurata caduta dei nostri primi progenitori nel peccato”, per colpa della quale anche gli uomini più saggi e devoti peccano e sbagliano. Secondo Comenius, non si può pensare ad un rimedio migliore contro un tale stato di cose se non educando ciascun uomo “a credere e a capire che i nostri istinti sono del tutto corrotti e che noi, avendo noi stessi come guida, non possiamo andare incontro se non alla perdizione. Dunque nulla si può escogitare di più sicuro di questo: che l’uomo scelga come guida Dio […] e lo preghi, e si rimetta completamente a lui, così da non poter perire.”76Un altro grande ostacolo per la sana educazione dell’uomo è dato dagli esempi dei cattivi costumi e delle opinioni, che penetrano soprattutto tra i giovani. A ciò si aggiunge, inoltre, la massa di coloro che acconsentono al vizio e che trascina chi li circonda nello sbaglio e nel peccato. Ma tali errori, secondo la soluzione comeniana, risulterebbero evitabili se fosse possibile comandare di allontanare dagli occhi e dalle orecchie degl’uomini -specie nell’infanzia- le occasioni di scandali ed esempi fuorvianti. Infatti, i peccati non si compiono se non per imitazione, e non v’è imitazione senza esempio: “se saranno tenuti lontani gli esempi, sarà tenuta lontana l’imitazione”. In ultima istanza, nonostante le sue capacità infinite, la nostra mente, non potendo circoscrivere i termini di ogni cosa, prova un certo orrore per l’infinito: la si può aiutare presentandole nulla come vago, ma ogni cosa nei suoi precisi limiti e nelle sue parti maggiori, che spontaneamente traggono con sé le minori.

74

Cfr. Ibid., pp. 60-70. 75

Cfr. Ibid., p. 75 76

Ibid., p. 84

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Abbiamo dunque visto cosa intenda, in sostanza, Comenius quando parla di un’educazione pansofica, diretta a tutti, in tutto e totalmente. Le parti restanti della Pampaedia sono volte quindi a sviluppare le naturali conseguenze di queste prime considerazioni: la necessità di scuole universali per erudire tutti (Panscolia); il bisogno di libri come strumenti universali di cultura (Panbiblia); la presenza di maestri universali, che sappiano istruire tutti in tutto (Pandidascalia). L’ultima sezione dell’opera è invece impegnata ad illustrare la necessità di un ordinamento scolastico che accompagni l’uomo dalla prima infanzia sino alla morte, secondo delle metodologie che, nei loro tratti innovativi, legittimano la figura di Comenius come padre della pedagogia moderna.

In questo nostro percorso, giunto così a conclusione, ciò che ci è sembrato essere il grande merito della produzione comeniana risiede nella lucidissima capacità dell’educatore moravo di offrire un ritratto della fattuale condizione mondana (dove l’allegoria costituisce soltanto la scorciatoia verso la realtà), partendo dagli elementi caratteristici della natura umana, nonché nell’aver pensato a delle soluzioni nei termini, attualissimi, di una cultura a tutti applicabile, valida in ogni luogo, in ogni tempo.

ANTONIO PARISI

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