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PROGETTO GIORNALINO SCOLASTICO A.S. 2016 /2017 D.S. Prof. Renato Daniele Responsabile Prof. Francesco Treccozzi

PROGETTO GIORNALINO SCOLASTICO...Polizia Postale e delle Comunicazioni ma anche da parte delle scuole stesse». Un minore può, ad esempio, fotografarsi nelle parti intime ed in Àiare,

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PROGETTO GIORNALINO SCOLASTICO

A.S. 2016 /2017

D.S. Prof. Renato Daniele

Responsabile Prof. Francesco Treccozzi

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REDATTORI ALUNNI CLASSI II A e II B

Daniele Sinopoli Valerio Diaco Chiara Rosano’ Iemmello Noemi Iannelli Irene Simona Concolino Maria Grazia Squillacioti Giorgia Esposito Arianna Mancuso Francesco Sciumbata Francesco Pio Voci Giulia Fiorentino Valeria Comis Alice De Giorgio Pugliano Andrea Gino Mariano Mazzotta Mark Migliarese Lorenzo Iannelli Michele Reverso

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I.C. MONTEPAONE – IL GIORNALINO SCOLASTICO: LA SCUOLA FA NOTIZIA – A.S. 2016/17

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I.C. MONTEPAONE – IL GIORNALINO SCOLASTICO: LA SCUOLA FA NOTIZIA – A.S. 2016/17

1. Bullismo e Cyberbullismo

(Chiara Rosano’- Giorgia Esposito – Mark Migliarese –

Lorenzo Iannelli)

2. I Diritti Delle Donne

(Arianna Mancuso - Maria Grazia Squillacioti)

(Noemi Iemmello – Alice De Giorgio – Irene Iannelli)

3. La Fame Nel Mondo – Alimentazione

(Giulia Fiorentino- Simona Concolino)

4. Le Nuove Tecnologie – Pro e Contro

(Sinopoli Daniele – Pugliano Andrea – Sciumbata

Francesco -)

5. Arte – Cultura E Tradizioni Locali

(Valerio Diaco) (Valeria Comis)

6. L’inquinamento Nel Mondo

(Mazzotta Gino Mariano)

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BULLISMO: l’ignoranza di credersi forti Il Bullismo nuoce alla società in modi devastanti,

sfavorisce lo sviluppo sociale ed economico, alimenta

l'aggressività e la criminalità. Un paese moderno non

può e non deve tollerare tutto questo.

Per bullismo si intendono tutte quelle azioni di

sistematica prevaricazione e sopruso messa in atto da

parte di un bambino o adolescente, definito bullo nei

confronti di un individuo più debole, la vittima. E’

possibile distinguere tra bullismo diretto (che

comprende attacchi espliciti nei confronti della vittima

e può essere di tipo fisico o verbale) e bullismo indiretto

(che danneggia la vittima nelle sue relazioni con altre

persone, attraverso atti come l’esclusione dal gruppo

dei pari, l’isolamento, la diffusione dei pettegolezzi sul

suo conto e il danneggiamento sui rapporti di amicizia).

Per le vittime il rischio è quello di manifestare il disagio

innanzitutto attraverso:

sintomi fisici (es. mal di pancia, mal di testa);

psicologici (es. incubi, attacchi d’ansia).

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In caso di prevaricazioni protratte nel tempo, le vittime

possono intravedere come unica possibilità per sottrarsi

al bullismo quella di cambiare scuola, fino ad arrivare in

casi estremi all’abbandono scolastico; alla lunga, le

vittime mostrano una svalutazione di sé e delle proprie

capacità, insicurezza, problemi sul piano relazionale,

fino a manifestare, in alcuni casi, veri e propri disturbi

psicologici, tra cui quelli d’ansia o depressivi.

Secondo uno studio, il 78% degli adolescenti che hanno

commesso suicidio sono stati vittime di bullismo sia a

scuola che on-line, mentre solo il 17% sono stati

esclusivame

nte vittime

di cyber-

bullismo. In

realtà il

fenomeno

del bullismo

non è una

forza, ma

una

debolezza e

se un

ragazzo

picchia o

minaccia un

individuo è

per sentirsi forte o perché non riesce a esprimersi

diversamente. Infatti, il bullo spesso si comporta così

perché cerca di attirare l’attenzione, ha problemi in

famiglia o subisce violenza, o non riesce ad ambientarsi

e quindi vuole nascondere in realtà la sua fragilità e i

suoi problemi e riversa la propria rabbia sugli altri.

Anche le persone che guardano senza intervenire

passano dalla parte del torto.

Un grave episodio di bullismo accadde nella scuola

media di Ciriè. Due ragazzi hanno scaraventato e preso

a calci la vittima lesionandogli una costola. I genitori

raccontano:

“I primi insulti e spinte sono iniziati a settembre, in

prima media, poi la situazione si è aggravata. Sono

arrivate le botte, i piedi pestati con le gambe della

sedia della fila davanti, l’isolamento. Gli toccavano

un braccio e poi schizzavano a lavarsi le mani,

schifati, in bagno. Un paio di volte gli hanno

buttato la testa nel gabinetto e negli orinatoi. Lo hanno

trascinato per terra facendogli sporcare tutta la camicia

e i pantaloni di pipì”.

Lui aveva paura di confidarsi con i più grandi, gli

dicevano: “sciogliamo te e la tua famiglia nell’acido”.

Il ragazzino era preso in giro per il fisico e il modo

particolare di camminare e correre (ha i femori

retroversi), ma anche per la sua sensibilità e le sue

passioni per l’arte e la musica.

Cyber-bullismo: i social che uccidono

Negli ultimi anni, il bullismo ha assunto nuove forme.

Oggi si sente spesso parlare di cyber-bullismo. Questo

termine si riferisce ad azioni di bullismo messe in atto

attraverso le nuove tecnologie, come ad esempio

diffondere foto private su internet, postare offese sulla

bacheca di Facebook o scrivere insulti in chat. Anche se

non c’è una relazione o un contatto diretto fra il cyber-

bullo e la sua vittima, questo non significa che ciò che

accade online non abbia conseguenze dannose: proprio

per la possibilità di avere i telefonini sempre accesi e

connessi ad internet, per la vittima di cyber-bullismo è

molto difficile sottrarsi agli attacchi di un cyber-bullo,

che possono avvenire in qualunque momento. Le

prepotenze online, infatti, possono essere perpetrate

anche di notte, in forma anonima e raggiungere in

pochissimi click moltissime persone, rimanendo

accessibili online anche per molto tempo.

Queste sono le parole di una giovane protagonista:

“Al giorno d’oggi, con gli innumerevoli Social Network

che abbiamo a disposizione, è molto più semplice

comunicare con una persona. Questo fenomeno dei

Social Network però, è un’arma a doppio taglio.

L’aspetto positivo è sicuramente quello di poter parlare

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con chiunque e quindi di poter conoscere molte più

persone ma c’è anche un aspetto negativo: su questi

siti, apparentemente sicuri, si riesce a mettere

totalmente a nudo la privacy di un individuo, anche se

magari quest’ultimo non è d’accordo. La vergogna e il

disagio sono così grandi alle volte da non riuscire più ad

uscire di casa e qualche volta anche da compiere un

gesto estremo.

Se vi trovate in una situazione analoga il mio consiglio è

di parlarne con qualcuno che vi possa aiutare, di cercare

di essere forti anche davanti alle persone che vi fanno

del male e di non mollare!”

Il caso di Amanda Todd è forse il più raccapricciante:

infatti, umiliata dagli insulti ricevuti, interruppe

qualsiasi relazione sociale, iniziò a drogarsi, cadde in

una grave depressione e tentò il suicidio. Invece di

scoraggiare i persecutori, la tragedia sfiorata divenne

nuovo oggetto di scherno: la pagina Facebook di

Amanda fu invasa da foto di confezioni di farmaci

accompagnate dal consiglio di aumentare la prossima

volta le dosi. Poche settimane dopo Amanda pubblicò

un video di addio su Youtube e si tolse la vita.

Come nel caso di Amanda, a volte nemmeno la tragedia

scoraggia i persecutori. Un noto caso di cyber-bullismo

è anche quello di Amanda Cummings che, dopo mesi in

cui è tormentata a scuola da alcuni bulli non ce la fa più

e si fa investire da un autobus. La pagina Facebook

creata dai genitori per ricordarla è invasa da commenti

offensivi: la sua morte viene derisa con filastrocche,

ingiurie e immagini. Un altro esempio è quello del

doppio dramma delle sorelle Erin e Shannon Gallagher:

Erin si toglie la vita stanca degli insulti quotidiani che

riceve sul web; due mesi dopo Shannon si suicida

perché non sopporta

la perdita della sorella.

Per gli attacchi rivolti a Megan Meier si scopre

addirittura che dietro non ci sono immaturi adolescenti

ma alcuni adulti. Lei è una ragazzina problematica,

perennemente a dieta, insicura, in cura per

depressione. I vicini di casa vogliono prendersi gioco di

lei e scoprire le sue confidenze: così creano un profilo

falso su Myspace e iniziano un'amicizia virtuale con

Megan, che non frequenta altri coetanei, per poi

'scaricarla' senza motivo, queste sono le parole che

hanno portato la giovane alla morte:

"Tutti sanno che sei una persona cattiva e tutti ti

odiano. Spero che il resto della tua vita sia schifosa. Il

mondo sarebbe un mondo migliore senza di te".

E' un colpo durissimo per la fragile quattordicenne che

si impicca in casa.

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Cosa fare in caso di bullismo?

Rispondi “NO” con tono deciso, fai finta di

niente e allontanati, non ascoltare la

provocazione del bullo e non preoccuparti del

giudizio degli altri;

Mantieni la calma, non ti arrabbiare e non

piangere, non azzuffarti con il bullo: potresti

peggiorare la situazione;

Il bullo ti istiga perché gode nel vedere la tua

reazione, lasciagli prendere ciò che vuole ma

racconta tutto subito ad un adulto, ricorda che

sei più intelligente e scaltro del bullo, lo farai

sentire a disagio e ti lascerà stare.

Cosa fare in caso di cyber-bullismo?

Comportati nel web come nella vita reale;

pensa prima di postare;

non rispondere alle provocazioni;

segnala il cyber-bullismo;

mantieni segrete le password;

salva le prove;

segnala comportamenti offensivi.

Ultimamente è stato creato un numero

telefonico appositamente per segnalare casi di

bullismo ai carabinieri. Il seguente è il numero

verde: 800090335.

Intervista alla Sezione Polizia Postale e

delle Comunicazioni di Bolzano

Quanti casi di sexting/cyber-bullismo sono stati

registrati durante l’anno 2016 presso la Sezione Polizia

Postale di Bolzano?

«Il seguente dato è parziale poiché i cittadini si possono

presentare anche presso altri Uffici di Polizia; per

quanto riguarda la Sezione Polizia Postale e delle

Comunicazioni di Bolzano il numero complessivo dei

casi trattati è di circa una decina».

«Va detto che non si tratta di un dato allarmante anche

grazie al fatto che viene svolta, all’interno delle scuole,

un’ampia attività di sensibilizzazione sia da parte della

Polizia Postale e delle Comunicazioni ma anche da parte

delle scuole stesse».

Un minore può, ad esempio, fotografarsi nelle parti

intime ed inviare, quindi, l’immagine ad un'altra

persona?

«Assolutamente no! Tali condotte possono essere

estremamente pericolose in quanto tali immagini, una

volta pubblicate in rete, possono alimentare il mercato

illegale della pornografia minorile e possono anche

essere utilizzate dai cyber-bulli per mettere in atto

condotte persecutorie, prevaricanti e diffamatorie nei

confronti delle proprie vittime».

Oltre alle conseguenze di ordine penale, quali altre

conseguenze può comportare la «pratica» del

«sexting»?

«Le conseguenze possono essere di varia natura.

Tuttavia giova ricordare che di tutte quelle immagini

che vengono inviate con il cellulare e/o pubblicate sui

social network, il titolare, ne perde definitivamente il

controllo e, le stesse, potrebbero anche venir condivise

da milioni di utenti.

Quindi, anche una foto ove sono ritratta o ritratto in un

atteggiamento «sessualmente esplicito» e che ho

inviato a qualcuno con il cellulare in qualsiasi momento,

anche a distanza di anni, può riemergere creandomi dei

notevoli danni e mettendomi in un forte stato di

imbarazzo.

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Inoltre l’uso così disinibito di foto a sfondo sessuale può

diventare strumento pericoloso nelle mani dei bulli che

possono così ricattare in vario modo le loro vittime

oppure estorcere loro denaro o altri beni in cambio del

loro silenzio e della mancata diffusione di quelle

immagini».

Quali potrebbero essere le conseguenze a cui va

incontro un cyber-bullo che decide di danneggiare

qualcuno pubblicando fotografie e/o informazioni false

o poco lusinghiere sul conto della sua vittima?

«L’argomento è di sicuro interesse poiché molti

adolescenti e giovani rischiano di sottovalutare

condotte che potrebbero ben presto riservare delle

spiacevoli sorprese. Infatti il bullo - che in rete è quasi

sempre identificabile - potrebbe venir accusato di aver

violato l’articolo 595 comma 3 c.p. (diffamazione) e

rischiare la reclusione da 6 mesi a 3 anni o una multa

non inferiore ad € 516,00.

A seconda dei casi potrebbero emergere anche delle

condotte che integrano i reati di cui all’articolo 612

(minaccia) o il 612 bis del c.p. (atti persecutori) che

prevedono pene da 6 mesi a 4 anni.

Nel caso in cui il bullo pubblichi poi delle foto di altre

persone senza il loro consenso questa condotta

comporterebbe altresì la violazione della normativa

prevista dal D. Lgs 196/2003 (T.U. Privacy) con pene che

prevedono la reclusione da 6 a 24 mesi».

Intervista alla D.ssa Silvia Mulargia sui

fenomeno «sexting e cyber-bullismo.»

(Psicologa della Polizia di Stato in servizio presso la Questura di Bolzano)

Quali sono le pratiche di cyber-bullismo più utilizzate

dal bullo?

«L’obiettivo del bullo è molestare la vittima,

minacciarla, deriderla; in particolare diffondere

pettegolezzi maliziosi, mettere sul web fotografie o

registrazioni video diffamatorie, mandare e-mail

sgradevoli e volgari, mandare e-mail o messaggi

istantanei con contenuti pornografici, far circolare

battute o barzellette di pessimo gusto con il chiaro

intendo di offendere, diffamare, escludere o isolare

intenzionalmente la vittima da un determinato gruppo

o social.»

A quali indicatori i genitori devono prestare attenzione

per capire se un loro figlio è vittima di bullismo

elettronico?

«Un problema molto rilevante che coinvolge le vittime

del bullismo elettronico è il silenzio.

Spesso, circa la metà delle vittime (come anche nel

bullismo tradizionale) dichiara di non avere detto a

nessuno delle aggressioni elettroniche subite e chi ha

scelto di confidarsi ha preferito principalmente un

amico. Pertanto gli indicatori che soprattutto i genitori

non devono sottovalutare sono: cambiamento

improvviso nelle abitudini di utilizzo di internet ovvero:

il ragazzo/a fa un uso eccessivo del computer e di

Internet; è turbato/a dopo aver utilizzato internet; ha

un calo rilevante nel rendimento scolastico e nella

frequenza scolastica; il ragazzo/a diventa isolato

rispetto alle normali interazioni con la famiglia e gli

amici; presenta ansia diffusa, umore depresso.»

Se si è vittima di «cyber-bullismo» come comportarsi?

«Non rispondere a e-mail o altri messaggi offensivi o

molesti.

Salvare i messaggi offensivi che si ricevono annotando

giorno ora in cui il messaggio è arrivato; cambiare il

proprio nickname, cambiare il numero del cellulare, non

fornire mai dati personali a chi si incontra in chat o sul

web, parlarne immediatamente con i genitori o

insegnanti e in caso di minacce, di molestie continue

contattare un Ufficio di Polizia.»

«E’ fondamentale responsabilizzare i genitori e gli insegnanti sull’importanza di promuovere una cultura digitale che indirizzi i ragazzi ad un uso corretto e sano delle nuove tecnologie. E’ indispensabile soffermarsi anche sulla cultura del rispetto, assertività, empatia e senso critico. Il metodo più efficace è sempre l’educazione, la quale deve partire sicuramente dalle famiglie che, tuttavia, non devono rimanere sole nella lotta al bullismo, ma essere sostenute ed accompagnate in questo percorso educativo anche dalla scuola e dai mezzi di informazione

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The Blue Whale Game

In Italia non si è ancora manifestato, ma dalla Francia arrivano dati allarmanti tanto da essere segnalato a

presidi e insegnanti per sensibilizzare le famiglie. È un gioco, se così è lecito chiamarlo, che comprende 50

prove (svegliarsi di notte per ascoltare musiche tristi, ferirsi, non parlare con nessuno, salire su una gru, andare

su un tetto), fino a quella finale di uccidersi, proprio come la balena blu che si dà la morte spiaggiandosi.

La terribile sfida che prende di mira adolescenti e persone inclini alla depressione è nata due anni fa in Russia

da un trio di ragazzi oggi in prigione: le loro motivazioni restano poco chiare e le loro spiegazioni poco credibili.

Ma hanno pensato a tutto, al logo, alle musiche e alle domande in crescendo e sempre legate al tema della

morte.

L’idea sarebbe nata intorno al gruppo VKontakte chiamato f57 dove venne pubblicata due anni fa la foto di

una ragazza suicida sotto un treno. Ma la macabra iniziativa ha varcato i confini ed è arrivata in Francia sotto il

nome «The blue whale challange», ma continua a diffondersi: alcuni dei video postati nei gruppi della sfida

contano anche 200 mila visualizzazioni.

Per entrare nel gioco bisognerebbe scrivere su un social “#sono nel gioco” o “#f57” in modo che i tutor ti

aggiungano in un gruppo in cui quotidianamente, per 50 giorni, inviano le sfide. Per dimostrare che si è portata

al termine la sfida bisognerebbe inviare sul gruppo una foto. Questo terribile “gioco” ha già contato 130

vittime.

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Conferenza sul bullismo del 09.05.2017

Teatro comunale di Soverato

Il 9 maggio 2017 si è tenuta una conferenza sul bullismo

e sul cyber-bullismo al Teatro Comunale di Soverato,

organizzata dal preside dell’Istituto Comprensivo “Mario

Squillace” di Montepaone e dell’istituto comprensivo di

Fabrizia e di Vibo Valentia: Renato Daniele. Erano

presenti all’evento:

Mario Migliarese - Sindaco di Montepaone,

Enzo Bruno - Presidente della provincia,

Claudia Ambrosio – Criminologa,

Daniele Rondinelli - Social Media Manager,

Enzo Attisani - Avvocato

Ernesto Francesco Alecci - Sindaco di Soverato,

Emanuele Amoruso - Delegato Cultura di Soverato,

Pietro Mosella e Rossella Galati - Moderatori.

Si è parlato della tematica del bullismo, del cyber-bullismo e dei vari comportamenti sbagliati o giusti. Tutti

hanno fatto discorsi molto interessanti e coinvolgenti, rivolti soprattutto ai ragazzi adolescenti ma anche agli

adulti. Dopo c’è stato il concerto di Alessia D’Andrea e di Heidi Joubert che fanno parte di un’associazione

contro il bullismo: l’Artists United Againist Bullyng. Le due cantanti si sono esibite con canzoni dal significato

molto bello, ovvero di essere forti e sorridere alla vita. E’ stata una serata molto bella, molto significativa e

soprattutto molto importante.

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SANNO COSA FANNO?

Il cyberbullismo o ciberbullismo (ossia «bullismo online») è il termine che indica un tipo di attacco continuo,

ripetuto, offensivo e sistematico attuato mediante gli strumenti della Rete.

Il termine cyberbullying è stato coniato dall'insegnante canadese Bill Belsey. I giuristi anglofoni distinguono di

solito tra il cyberbullying (cyberbullismo), che avviene tra minorenni, e il cyberharassment ("cybermolestia")

che avviene tra adulti o tra un adulto e un minorenne. Tuttavia nell'uso corrente cyber-bullismo viene

utilizzato indifferentemente per entrambi i casi. Come il bullismo nella vita reale, il cyberbullismo può a volte

costituire una violazione del Codice civile e del Codice penale e, per quanto riguarda l'ordinamento italiano,

del Codice della Privacy.

GLI EFFETTI

Le vittime delle violenze digitali sono molto più a rischio di suicidio rispetto alle vittime di bullismo fisico e

verbale e a tutti gli altri adolescenti e le femmine sono più a rischio dei maschi perché spesso vengono violate

nella loro intimità esempio con l’invio di video intimi e sessuali.

Significa che si rischia di innescare un circolo vizioso per cui si vive la scuola con sofferenza, si ha quasi paura di

confrontarsi con gli altri, non si capisce come possa essere possibile che nessuno si accorga della sua pena, si

può arrivare anche a credere di essere direttamente la causa del problema o il problema stesso e di essere

quindi “sbagliati”.

I MOTIVI

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I motivi? Sono tanti, dalla gelosia alla mancanza di

educazione, dalla voglia di imporsi a quella di mettersi in

mostra. Il gruppo rappresenta così una sorta di protezione.

Chi offende, insulta, fa del male al coetaneo in apparenza

più fragile, sa bene che il gruppo stesso è un sostegno

irrinunciabile.

COME COMBATTERLO

Per prima cosa, bisognerebbe non accettare l’amicizia sui social

network da persone che non conosciamo o che ci sembrano sospette,

anche se abbiamo altre amicizie con loro in comune: prima di

accettare, informarsi bene sulla persona, anche se, come è ormai

risaputo, non sappiamo mai chi si può nascondere dietro uno schermo.

Altre soluzioni da adottare, potrebbero essere, per esempio, cambiare

indirizzo di posta elettronica e non frequentare più, o per un po’, siti e chat

in cui agisce il cyber-bullo; non fare il gioco del persecutore come supplicarlo di

smettere, rispondergli per le rime o mostrarsi arrabbiati perché, a volte, non fa che aumentare il suo interesse.

La vittima può inviare un unico messaggio con scritto che i genitori sono stati informati e hanno sporto

denuncia alla Polizia. Inoltre, se le cose non cambiano e i fatti continuano a verificarsi, anche dopo aver

adottato queste soluzioni, è preferibile contattare realmente la Polizia Postale e delle Comunicazioni o i

Carabinieri

FILMATI SEXTING “Stai facendo un video? Bravoh!”. Tanti abbiamo sentito o addirittura ripetuto questa frase, vuoi per gioco,

vuoi per giudizio. La stessa che ha poi ucciso Tiziana Cantone, la prima a pronunciarla in un video hot

condiviso sul web a sua insaputa e diventato virale. Tiziana è l’ennesima vittima del cyberbullismo, si è tolta la

vita martedì 13 settembre impiccandosi con un foulard. Era stanca della gogna mediatica a cui è stata

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sottoposta da oltre un anno senza mai averlo voluto, stanca di sentir ridere di lei persino personaggi autorevoli

del mondo della musica, dello sport, della radio – televisione.

BULLISMO IN EUROPA

Italia terza in Europa, dietro Gran Bretagna e Francia, nella classifica sul bullismo nelle scuole: lo rivela un

dossier della rivista “Polizia Moderna” (il mensile della Polizia di Stato), pubblicato a fine 2003, il cui contenuto

è stato riproposto a Bastia Umbra, dove si è aperta la mostra “Bulli e bulle – Né vittime nè prepotenti”.

Il fenomeno del bullismo nelle scuole italiane, secondo quanto sostengono ricercatori ed esperti, ha un rilievo

preoccupante: già nel 1997 – è stato ricordato – la psicologa Ada Fonzi, nel suo libro “Il bullismo in Italia – Il

fenomeno delle prepotenze a scuola dal Piemonte alla Sicilia”, sottolineava che “il 41 per cento dei bambini

delle elementari ed il 26 per cento dei ragazzini delle medie italiane subiscono prepotenze”.

INSIEME SI SUPERA TUTTO

Andrea oggi ha quindici anni, vive in provincia di Bergamo e si considera una sopravvissuta. Perché per anni, è

stata vittima di cyber-bullismo. Gli attacchi le arrivavano via Instagram e Ask.me, un’indagine è ancora in

corso. I bulli non sono stati ancora tutti identificati, ma Andrea ha messo nero su bianco in un diario il suo

vissuto di vittima dando al suo sfogo un titolo significativo: Ho scelto me. Le parole che emozionarono i lettori

furono “Perché mi sono sempre rialzata anche quando tutto sembrava senza senso, perché ho avuto la volontà

e l’esigenza di star bene. È un diritto star bene. Bisogna lottare per i propri diritti. Questa storia è dedicata a

me stessa, che dopo ogni caduta e qualche graffio, mi sono sempre rialzata, più forte di prima. Ho scelto me”

Ma anche Lizzie Velàsquez che si è dovuta sorbire l’ennesimo collage tra immagine e scritta sovraimpressa

che la ritrae quasi a figura intera vicino ad un albero e la scritta: “Michael mi ha detto di volermi incontrare

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dietro a questo albero per divertirsi un po’, ma è in ritardo. Per favore qualcuno può dirgli che lo sto

aspettando?”. Sui suoi canali social ha però voluto prontamente rispondere così: “Ultimamente ho visto su

Facebook tonnellate di meme come questi. Scrivo questo post non come vittima, ma come qualcuno che usa la

propria voce” dice prontamente “Lo so, è parecchio tardi mentre sto scrivendo questo post, ma le persone

innocenti, che vengono fatte diventare soggetti a loro insaputa di questi meme, mentre scorrono i post d

Facebook stanno provando sensazioni che non augurerei al mio peggior nemico” Questa frase ha fatto il giro

del web per far capire alle vittime di cyberbullismo che possono combattere questo orribile fenomeno.

LA BALENA BLU

In Italia non si è ancora manifestato, ma dalla Francia arrivano dati

allarmanti tanto da essere segnalato a presidi e insegnanti per

sensibilizzare le famiglie. È un gioco, se così è lecito chiamarlo, che

comprende 50 prove: le prime di solito inoffensive – fai felice

qualcuno, di’ ti amo a qualcuno, parla con uno sconosciuto per strada –

ma poi si passa di grado – svegliarsi di notte per ascoltare musiche

tristi, ferirsi, non parlare con nessuno, salire su una gru – fino a quella

finale di uccidersi, proprio come la balena blu che si dà la morte spiaggiandosi. Ci sono i tutor che, con

pseudonimo, tengono i rapporti con chi accetta di partecipare alla sfida senza però capire il pericolo nascosto.

È, a tutti gli effetti, un gioco che istiga al suicidio.

La terribile sfida che prende di mira adolescenti e persone inclini alla depressione è nata due anni fa in Russia

da un trio di ragazzi oggi in prigione: le loro motivazioni restano poco chiare e le loro spiegazioni poco credibili.

Ma hanno pensato a tutto, al logo, alle musiche e alle domande in crescendo e sempre legate al tema della

morte.

L’idea sarebbe nata intorno al gruppo VKontakte chiamato f57 dove venne pubblicata due anni fa la foto di

una ragazza suicida sotto un treno. Ma la macabra iniziativa ha varcato i confini ed è arrivata in Francia sotto il

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nome «The blue whale challange», ma continua a diffondersi: alcuni dei video postati nei gruppi della sfida

contano anche 200 mila visualizzazioni.

GENITORI POSSONO AIUTARCI

La prima risposta è la comunicazione, ossia il

dialogo che un genitore riesce ad instaurare con

i propri figli; se è buono, è probabile che siano

loro stessi a dire o a far capire cosa stia

accadendo. Tuttavia, proprio per il tipo

di violenza che subiscono, la confusione che

provano, il senso di colpa e di impotenza,

spesso le vittime, specie se adolescenti, si chiudono in se stesse e pensano di poterne, o meglio, di doverne

risolvere il problema da sole. A questo punto i giovani si ritrovano in un circolo vizioso da cui è sempre più

difficile uscirne.

Allora è di fondamentale importanza l’osservazione. Alcuni comportamenti potrebbero aiutare un genitore a

capire se c’è qualcosa che non va; ovviamente esistono comportamenti isolati che non lasciano intendere

niente di rilevante, anzi possono essere indice di altre problematiche o della normalissima fase della

crescita. Tuttavia se un genitore nota un comportamento ambiguo, dovrebbe cercare di indagare, provando a

chiedere al figlio cosa succede e facendo più attenzione a cosa accade intorno.

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IL BULLISMO Cosa si intende per bullismo

Con il termine bullismo s’intende definire un comportamento aggressivo ripetitivo nei

confronti di chi non è in grado di difendersi. Solitamente, i ruoli del bullismo sono ben

definiti: da una parte c’è il bullo, colui che attua dei comportamenti violenti fisicamente

e/o psicologicamente e dall’altra parte la vittima, colui che invece subisce tali

atteggiamenti. La sofferenza psicologica e l’esclusione sociale sono sperimentate di

sovente da bambini che, senza sceglierlo, si ritrovano a vestire il ruolo della vittima

subendo ripetute umiliazioni da coloro che invece ricoprono il ruolo di bullo.

Le principali caratteristiche che permettono di definire un episodio con l’etichetta

“bullismo” sono l’intenzionalità del comportamento aggressivo agito, la sistematicità

delle azioni aggressive fino a divenire persecutorie (non basta un episodio perché vi

sia bullismo) e l’asimmetria di potere tra vittima e persecutore

Come si divide il bullismo: Possiamo distinguere due tipi di bullismo:

BULLISMO FISICO

La forma di bullismo più conosciuta è il bullismo fisico. Questo tipo di bullismo è

in atto soprattutto dai ragazzi nei confronti di altri ragazzi. E’ un tipo di violenza

diretta, che ha lo scopo di fare del male, di far sentire l’altro più debole e indifeso.

Il bullo è colui che vuole dimostrare agli altri la propria forza e potenza, attraverso la

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violenza: usa pugni, calci e spesso si crea un vero e proprio branco che aggredisce la

vittima fisicamente. Queste caratteristiche sono diffuse nel bullismo maschile.

Si è vittime di bullismo fisico se si subiscono:

1. Atti aggressivi e fisici: schiaffi, spintoni, calci, pugni, minacce fisiche, aggressioni

2. Se i bulli danneggiano oggetti personali: rompere lo zaino, appropriarsi e

strappare diari, gettare nell’immondizia penne ecc.

3. Se rubano oggetti personali: rubano la merenda, penne, quaderni, penne.

IL BULLISMO PSICOLOGICO O BULLISMO FEMMINILE

Si parla di bullismo psicologico o di bullismo femminile: la bulla è più subdola e furba

del bullo e fa leva sui punti deboli della sua vittima, colpendola a livello psicologico e

quasi mai fisico. E’ difficile da individuare perché non ha sintomi, segni visibili e spesso

chi vive questo tipo di bullismo non può dimostrare ciò che accade e rimane in silenzio.

Inoltre la vittima stessa, non subendo violenza fisica, tende a sottovalutare la

situazione e non coinvolge gli adulti per paura di sembrare debole.

Si è vittima di bullismo psicologico se:

1. Vengono messe in giro false voci sulla vittima.

2. La bulla crea un proprio gruppo in cui la vittima viene esclusa, ignorata. (non

viene invitata alle feste di compleanno, alle uscite di gruppo o coinvolta negli

sport di squadra…)

3. A poco a poco si viene isolati e si perde ogni amicizia.

4. Si ha il terrore e l’ansia di andare a scuola, i voti calano.

5. Si comincia ad odiare se stessi e a pensare di essere “sbagliati”: il bullismo

psicologico distrugge l’autostima.

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Non si ha più voglia di uscire, si diventa depressi, chiusi e insicuri e si ha il timore

persino di uscire e stare a contatto con la gente perché ci si sente derisi anche da

sconosciuti (si sente un costante senso di inferiorità)

IL BULLISMO VERBALE

Bullismo verbale ha lo stesso obbiettivo del bullismo psicologico cioè quello di fare del

male alla vittima al livello interiore. Per colpire la vittima non si usano pugni o calci, ma

un’arma potente: la parola.

Si usano parole cattive, offensive e vengono ripetute quotidianamente, finché la vittima

non si convince che siano vere: inizia a vedersi brutta, a credere di essere grassa, sola,

sbagliata, diversa e finisce con l’incolpare se stessa della situazione, invece di incolpare

gli altri.

Si è vittima di bullismo verbale se:

1. Si viene derisi, insultati quotidianamente, con battute e parole offensive su

aspetto fisico, abbigliamento, orientamento sessuale, situazione familiare.

2. Si viene chiamati con nomignoli offensivi e che hanno lo scopo di ridicolizzare e

fare del male.

IL BULLO

Generalmente è: aggressivo, fisicamente forte, pronto a ricorrere alla violenza, povero

nella comunicazione interpersonale, scolasticamente al di sotto della media, con un

basso livello di autostima, insicuro Ha bisogno di sentirsi rispettato, ma non sa

distinguere tra rispetto e paura, può venire da un ambiente domestico disfunzionale, è

emotivamente immaturo, non accetta responsabilità, pensa che sia divertente dare il

tormento ai compagni fisicamente più deboli.

Il bullo:

- ha bisogno di attrarre l’attenzione;

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- stabilisce il suo potere sui membri più deboli del gruppo;

- pratica il bullismo sia perché crede di essere benvoluto e supportato dal gruppo, sia

perché crede che sia eccitante;

- conosce come l’insegnante reagisce alle piccole trasgressioni ed agli attacchi

minori alla vittima. Studia anche il comportamento dell’insegnante davanti alle

proteste della vittima. E’ importante, per questo, che gli insegnanti siano consapevoli e

coerenti nel loro atteggiamento;

- continua a comportarsi da bullo, se non ci sono conseguenze al suo

comportamento, se il resto del gruppo è un silenzioso testimone, se la vittima è

silenziosa.

Perché essere bullo?

I ragazzi che scelgono di fare i bulli esibiscono un livello di rabbia e di aggressività che

sentono di dover scaricare su altri, scelti per la loro vulnerabilità – vera o apparente -.

Quando scoperti, i bulli negano e contrattaccano fingendo vittimismo, e così provano

ad evadere, spesso con successo, le proprie responsabilità.

Domande essenziali dovrebbero essere: perché questo bambino o ragazzo è così

aggressivo?; Perché non ha imparato a stare con gli atri senza usare la violenza?

E’ importante capire che genere di bullo abbiamo dinanzi per scegliere quale strategia

utilizzare.

Il nostro bullo potrebbe, tra le tante ragioni del suo agire, essere:

Frustrato: una difficoltà che non è stata identificata potrebbe essere alla base di

questa frustrazione. Un problema come la dislessia, la sordità, l’autismo, o una

qualche difficoltà di apprendimento, che non gli consente né di vivere la scuola,

né di rendere scolasticamente, come vorrebbe, potrebbe, o gli sia richiesto.

Potrebbe combattere la frustrazione con il senso di potere che gli dà l’essere

bullo.

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A sua volta una vittima di bullismo. Anche essere bulli è cosa che si impara. In un

ambiente in cui gli adulti falliscono in modo continuativo nel loro ruolo, potrebbe

essere un modo di sopravvivere.

A corto di modelli comportamentali familiari da seguire, perché poveri o

inesistenti. E’ difficile imparare le regole del comportamento o maturare

un’intelligenza emotiva da autodidatti.

Abusato in famiglia, ed esprimere la sua rabbia nel bullismo.

Trascurato, o deprivato, tanto che il suo sviluppo comportamentale ed emotivo

ha subito un ritardo.

Influenzato negativamente: perché, ad esempio ha frequentato, o frequenta,

cattive compagnie di pari.

Affetto da un disordine di comportamento che può essere precursore di

comportamenti antisociali, o disordini della personalità.

Tranne che nell’ultimo caso – usando, una strategia educativa adeguata.

LA VITTIMA Generalmente ha una bassa propensione alla violenza e cercherà di fare il possibile per

evitarla. Fisicamente meno forte del bullo, spesso scolasticamente al di sopra della

norma, differente (sebbene il termine sia altamente relativo), sensibile, spesso

indipendente, con buona capacità di comunicazione con gli adulti, la vittima non riveste

posizioni di potere ed è schivo alle politiche di classe. Ma accade anche che la vittima:

- sia carente nella capacità di chiedere aiuto;

- non abbia il supporto dei compagni o dell’insegnante, perché non è attraente;

- attribuisca la responsabilità di ciò che accade a se stessa;

- proviene da un ambiente familiare che rinforza tale responsabilità;

- ha un grande bisogno di integrarsi.

S;;ebbene sia la vittima ad essere spesso etichettata come debole e inadeguata, è il

bullo ad essere tale. Se non lo fosse, non avrebbe bisogno di essere un bullo.

Come si diventa vittima?

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Perché si è grassi, o magri, o alti, o bassi, o per il colore di capelli, o per quello della

pelle, perché si è silenziosi, per via degli occhiali, delle orecchie grandi o piccole o a

sventola, per i denti sporgenti, per essere di un’altra cultura, per indossare i vestiti

‘sbagliati’, per non voler usare violenza per difendersi, o per qualsiasi altra scusa. Tutte

le scuse hanno in comune un unico fattore, essere irrilevanti.

Il bersaglio è semplicemente un oggetto utile contro il quale scaricare la propria

aggressività. Facciamo un esempio, se la scusa è quella di essere grassi, dimagrire non

farà alcuna differenza.

Considerazioni sulla manifestazione dedicata al bullismo indetta dall’istituto

comprensivo di Montepaone Lido presso il teatro comunale di Soverato in data

09/05/2017

Il bullismo è uno degli effetti della nostra società malata. Alcuni propongono di

combattere questo fenomeno sradicandolo; in realtà il bullismo va combattuto ma

senza dimenticare che i bulli sono persone come noi, e che quindi cercando di

correggere il loro comportamento bisogna cercare di non ferirli a livello sentimentale o

psicologico.

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Arte - Cultura

e

Tradizioni

REDATTRICE: VALERIA COMIS

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La Calabria è una regione italiana a statuto

ordinario dell'Italia meridionale di 1 966 365 abitanti, con

capoluogo Catanzaro. Confina a nord con la Basilicata e a

sud-ovest un braccio di mare la separa dalla Sicilia. È

bagnata a est dal mar Ionio e ad ovest dal mar Tirreno. La

regione, che costituisce la punta dello stivale, è

prevalentemente collinare. Presenta ampie zone

montuose che la coprono per il 41,8%. I monti principali

sono il Massiccio del Pollino, che confina con la Basilicata,

e la Sila, con foreste di latifogli e aghifogli. I fiumi

principali sono il Crati e il Neto, che sfociano nel mar

Jonio. Il clima è mediterraneo.

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Arte

Un popolo di artisti

LE GROTTE DEL ROMITO La prima arte in Calabria risale all’epoca del

Paleolitico, nelle Grotte del Romito, a Papasidero, dove furono incisi due

bovidi. L’incisione di simboli o animali nel Paleolitico simboleggiava un

augurio verso la caccia dell’animale rappresentato.

I BRONZI DI RIACE Il 16 Agosto 1972, nei pressi di Riace Marina, sono state

trovate due statue greche in bronzo. I Bronzi di Riace presentano una

notevole elasticità muscolare, essendo raffigurati nella posizione definita a

chiasmo. In particolare, il bronzo A appare più nervoso e vitale, mentre il

bronzo B sembra più calmo e rilassato, ma nonostante siano diversi tra loro

presentano una bellezza immensa e un capolavoro dell’arte greca del V

secolo a.C. Le statue trasmettono una notevole sensazione di potenza,

dovuta soprattutto allo scatto delle braccia che si distanziano con vigore dal

corpo. Il braccio piegato sicuramente sorreggeva uno scudo, mentre l’altra

impugnava un’arma. Il bronzo B ha la testa modellata in modo strano,

appare piccola perché consentiva la collocazione di un elmo corinzio. Il

braccio destro e l’avambraccio sinistro della statua B hanno subito un’altra

fusione, probabilmente per un intervento di restauro antico.

LA CATTOLICA DI STILO La Cattolica è una piccola chiesa bizantina a

pianta centrale di forma quadrata, situata nel comune di Stilo, in

provincia di Reggio Calabria. La Cattolica di Stilo, è un'architettura

bizantina, assimilabile alla tipologia della chiesa a croce greca inscritta in

un quadrato, tipica del periodo medio-bizantino. All'interno

quattro colonne dividono lo spazio in nove parti, all'incirca di pari

dimensioni. Il quadrato centrale e quelli angolari sono coperti

da cupole su delle colonne di pari diametro, la cupola centrale è

leggermente più alta ed ha un diametro maggiore. Su un lato sono

presenti tre absidi.

CAPO COLONNA Capo Colonna è il promontorio che determina il limite occidentale

del golfo di Taranto, dove sorgeva il tempio dedicato ad Hera Lacinia. Fino al XVI

secolo era chiamato "capo delle Colonne" perché erano rimaste al loro posto molte

colonne del tempio di Hera Lacinia. Anticamente il suo nome era Lacinion. La sua

importanza risiede nella quantità di elementi storici che sono legati a questa punta di

terra protesa sullo Ionio. Sfortunatamente venne utilizzato come cava di pietre

lavorate per il castello, il porto e i palazzi nobiliari locali fino a che solo una solitaria

colonna rimase in vista dei naviganti, eretta fra i ruderi.

I

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LA PIETÀ La pietà è una scultura di Antonello Gagini datata nel 1521, custodita

nella chiesa di Maria Santissima Addolorata di Soverato situata nel borgo della

città. È un esempio di arte rinascimentale, una scultura in marmo bianco con la

Vergine Maria che porta in grembo Cristo deposto dalla croce. L'opera proviene

dal convento di Santa Maria della Pietà (oggi situato nel territorio del comune di

Petrizzi ma allora di Soverato), che subì danni dal terremoto del 1783: in marmo

bianco carrarese, raffigura la Vergine avente in grembo il Cristo morto; sul lato

anteriore del basamento, nell'ordine, san Michele Arcangelo, san Tommaso

d'Aquino che calpesta Averroè, attorniati da un gruppo di persone che leggono, e

san Giovanni battista. Dopo decenni di dimenticanza, il gruppo, restaurato a

Firenze, fu esposto nella chiesa matrice di Soverato. La bella statua porta nel

volto della Madonna i segni di un profondo, umanissimo dolore, assai lontano dal

modello della Pietà di Michelangelo. Serena è invece la morte del Cristo. Il lavoro è assai accurato. Il convento

di santa Maria dopo il terremoto restò abbandonato. Gli arredi sacri vennero divisi tra Soverato e Petrizzi.

MATTIA PRETI Mattia Preti è stato un pittore italiano, cittadino del Regno di Napoli

e fu uno dei più importanti esponenti della cultura napoletana. Mattia Preti nacque

a Taverna, in provincia di Catanzaro, piccolo centro della Sila piccola catanzarese, ai

margini della scena culturalmente più viva del suo tempo. Non è certo qui che può

aver ricevuto stimoli culturali tali da influenzare la successiva carriera artistica: il

clima che vi si respirava non doveva discostarsi troppo dalla rielaborazione in chiave

locale degli esempi del tardo manierismo meridionale, testimoniati dalla pittura di

Giovanni Balducci, Giovanni Bernardino Azzolino e Fabrizio Santafede. Gli stimoli più rilevanti furono

probabilmente di altra natura.

GERARDO SACCO Come un novello Ulisse, Gerardo Sacco ha viaggiato a lungo! Un

percorso travagliato, a volte difficile, ma sempre ricco di passione e grande volontà.

Nato a Crotone nel 1940 e ancora adolescente, per necessità, ha abbandonato la

scuola per andare a lavorare da un barbiere. Sono stati anni difficili in cui il ragazzo

si è scontrato con una dura realtà che avrebbe voluto, in cuor suo,

fosse diversa. Ed ecco arrivare la grande occasione… tra i clienti del

salone un orafo locale era alla ricerca di un garzone, e così il giovane

Sacco si è ritrovato ad essere il factotum di quel gioielliere, diventato

poi il suo Maestro.

È rimasto con lui fino al 1962. Aveva dieci anni quando, timido e timoroso, entrò nella sua bottega, ventidue

quando decise di mettersi in proprio, ed intraprendere un viaggio che lo ha condotto lontano dalle sue radici,

per formarsi, apprendere nuove tecniche del mestiere, e riuscire così a fondere manualità e creatività in gioielli

ricchi di significato. È tornato così a Crotone, la sua ltaca, al centro della Magna Grecia, dove il Mito, la Storia e

le tradizioni si mischiano, e dove la sua ispirazione si alimenta di un Mediterraneo ricco di cultura. Sono i primi

anni ’60, quando Gerardo Sacco realizza il suo primo campionario, conquistando il primo premio alla Mostra

dell’Artigianato Orafo di Firenze e I’Oscar dell’Artigianato alla Mostra di Sanremo. Di lì a poco verrà chiamato

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ad esporre a mostre internazionali, dove lui riesce a comunicare non grazie al suo inglese maccheronico, ma

attraverso i suoi gioielli, che lasciano estasiato il pubblico di Hong Kong e Osaka, così come quello di Lisbona,

New York e Stoccolma. Sul finire degli anni ’70 è invitato ad esporre a Tokio con gli argentieri di tutta Italia. Sul

finire degli anni ’70 è invitato ad esporre a Tokio con gli argentieri di tutta Italia. Egli ricorda la forza

prorompente della sua prima collezione di argenti, una collezione, la sua, interamente ispirata agli utensili

della cultura contadina del Mediterraneo, in completa contrapposizione con lo stile essenziale in voga in quel

momento. È così che un “salaturo” ed un’anfora diventano un moderno centro tavola. Gli articoli dei giornali

giapponesi parlano di lui dicendo che: -Gli argenti più nuovi sono gli argenti “vecchi” di Gerardo Sacco-. Partire

dal passato, reinterpretarlo e renderlo attuale con la creatività, è questa la vera sfida per Gerardo Sacco. Senza

dubbio una delle tappe più significative di questo viaggio è quella avvenuta alla metà degli anni ’80, l’incontro

con Franco Zeffirelli. Il loro fu un sodalizio artistico ventennale, in cui il famoso regista ha affidato “all’artigiano

dalle mani d’oro” la creazione di gioielli di scena per svariate opere cinematografiche e teatrali. Da lì

l’opportunità di far indossare i propri gioielli a stelle indimenticabili come Liz Taylor, Glenn Close, Isabella

Rossellini, e l’inizio del successo come “l’orafo delle dive”. Il suo spirito di navigatore non si è mai placato. La

continua ricerca di un sapere, la vigorosa curiosità di conoscere e la grande capacità di elaborare in maniera

originale tutti gli elementi appresi sono alla base delle sue creazioni. E’ questo continuo partire per poi

tornare, questa forza quasi magnetica che lo lega alla sua terra, che ha portato Gerardo Sacco a fondare la sua

azienda a Crotone. Positività e determinazione hanno portato questo artista-viaggiatore a creare dei pezzi

unici, che caratterizzati da questo continuo estro non rappresentavano delle vere e proprie collezioni ma

gioielli esclusivi. E’ così che il laboratorio-bottega inizia ad essere frequentato non solo da gente che vuole

acquistare un “pezzo unico”, ma anche maggiormente il loro glamour e la loro bellezza.

Gli anni passano e così nei primi anni 90′ nasce l’esigenza di creare una struttura aziendale che supportasse il

lavoro creativo del maestro. L’azienda Gerardo Sacco è una delle prime a realizzare delle linee di monili in

argento, e la loro caratteristica è quella di mantenere le stesse caratteristiche del pezzo unico (ovvero mai

perfettamente uguale ad un altro perché realizzato tramite tecniche artigianali e non automatizzate).

La struttura commerciale inizia ad ampliarsi così da permettere la diffusione delle collezioni Gerardo Sacco

oltre i confini regionali non solo attraverso l’apertura di mono marca, ma anche tramite numerose gioiellerie

concessionarie del brand Gerardo Sacco.

LE PIPE DI BROGNATURO Vincenzo Grenci, figlio di

Domenico Grenci, ha avviato una sua nuova linea di

pipe con il marchio Vincenzo Grenci. Personaggio dai

molteplici interessi, Vincenzo ha imparato il mestiere

da piccolo, vederlo all′opera mentre da un ciocco crea

una pipa è affascinante. Le mani sembrano suonare

uno strumento mentre passa con il piccolo pezzo del

ciocco a pochi millimetri dalle lame della seghe

elettrica. Visitare la sua bottega, a Brognaturo in

provincia di Vibo Valentia, è un′esperienza

entusiasmante. In un locale sotterraneo abbiamo visto

il ciocco appena tagliato e bagnato continuamente ,

poi, nel laboratorio accanto, quelli in stagionatura,

stagionati per dieci anni , gli abbozzi delle pipe, le pipe

finite. La lavorazione accurata e la fantasia nei modelli,

che si possono ammirare nelle foto accanto, certamente faranno apprezzare Vincenzo Grenci. Le sue pipe si

presentano in un bellissimo colore naturale che si scurisce fumando, esse infatti non vengono tinte ma solo

rifinite a cera ed il fornello è naturale. Le dimensioni delle pipe sono sempre generose, Vincenzo parte dal

ciocco e inventa la sua pipa secondo le venature, e non mancandogli la materia prima non si preoccupa di

utilizzare un ciocco che magari ha delle piccole imperfezioni da un lato e dal quale verrebbe una magnifica pipa

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di dimensioni contenute. La dolcezza della pipa si rivela fin dalla prima fumata, ed il gusto del legno non si

avverte più dopo 3 o 4 fumate. Vincenzo non mancherà di farvi visitare il laboratorio e farvi veder come nasce

una pipa ma anche di parlarvi dei boschi e della natura circostante e delle meravigliose escursioni possibili nei

dintorni ma soprattutto dei suoi cavalli e della sua passione più grande la zampogna; e magari suonerà per voi.

La zampogna è per alcuni versi una stretta parente della pipa, infatti le sue canne sono fatte con il legno

dell′erica arborea, e la foratura diritta delle canne richiede una grande capacità artigianale, come per le pipe;

spesso erano gli stessi artigiani a produrre sia pipe che zampogne.

SILVIO VIGLIATURO Silvio Vigliaturo nasce a Acri (Cosenza), nel 1949. Ancora bambino si trasferisce a Chieri (Torino), dove attualmente vive e lavora. Lui è un vetrofusione maestro e la sua tecnica è apprezzata a livello internazionale e considerato unico nel suo genere dai più importanti critici italiani e stranieri. Il percorso artistico di Vigliaturo è uno dei costante evoluzione. La ricerca senza fine su colori e forme è sintomatico di una lotta perpetua a favore della purezza dei colori e la materia è ricchezza espressiva. Un viaggio sia graduale e tenace, che ha portato l'artista a confrontarsi con una grande varietà di temi con diversi stili e strumenti. Vetro, acciaio, terracotta e pittura- che non ha mai

abbandonato - sono trattati come la materia, ma rappresentano pure una scelta ideologica, una connotazione importante sia la sua crescita umana e artistica. Le sue opere in vetro, che l'artista crea nelle sue bottega a Chieri, rappresentano il conflitto tra la modernità delle immagini, il segno, l'idea e l'antichità del mezzo. Etichettati come Homo Faber, le sue opere sono il primo pensiero, poi interpretato e vissuto attraverso un rapporto simbiotico costante tra mente e industriosity, la coscienza e l'artigianato, la creatività e intensità visiva. Nel 2006, mentre la città di Torino, lo ha scelto come unico testimonial artistico per le Olimpiadi invernali , in Acri è stato inaugurato il MACA - Museo Civico d'Arte Contemporanea Silvio Vigliaturo. Nel 2008

l'artista è stato nominato testimonial nel mondo del UNICAL, Università della Calabria.

LA TORRE DI CARLO V La torre di Carlo V è immersa in

una fitta vegetazione a ridosso della bella baia di Soverato

ed è stata completamente ricostruita in stile neogotico sui

ruderi di un'antica torre angioina.

È caratterizzata da un' ampia terrazza e da piccoli balconi

con finestre a ogiva. Originariamente aveva funzione di

avvistamento delle navi nemiche.

Ai suoi piedi sono ancora visibili i resti di altri tre punti difensivi

che, probabilmente, facevano parte di una piccola fortezza (oggi

inglobati in un'abitazione), posta forse a difesa di un porto.

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LE CASTELLA Le Castella è una frazione di Isola di Capo Rizzuto, dai residenti chiamata I Casteddi, in provincia di Crotone, in Calabria. È situata sulla costa ionica della Calabria, a 10 km da Isola di Capo Rizzuto e domina la baia con l'antica fortezza aragonese. La storia di Le Castella è lunga e segue più o meno le stesse vicende dei territori circostanti. Per i suoi paesaggi che destavano ammirazioni tra i viaggiatori antichi, Le Castella fu oggetto di tante leggende e addirittura, secondo alcuni studiosi, l'isola di Calypso descritta da Omero nella sua Odissea, sarebbe da collocarsi proprio nelle vicinanze del borgo Fa parte dei mitologici tre promontori “Japigi”, identificati in Capo Rizzuto, Capo Cimiti e Le Castella, così denominati dalla presenza del

mitico Japyx, figlio di Dedalo, uno degli artisti più valenti dell'antica Grecia. Infatti, secondo quanto riportano alcune testimonianze letterarie antiche (Erodoto, Strabone, etc), Japyx o Japige fuggì da Creta seguendo il padre in una spedizione in Sicilia; ma durante il ritorno, una violenta tempesta lo fece naufragare presso le coste dell'odierna Calabria, ed alla località fu dato il nome di “terra Japigia". Nel retro della fortezza ci sono tracce delle origini dell'abitato, una muratura greca a scacchiera, che fa pensare ad un'antica phrourion. I romani introdussero una colonia, come sorveglianza delle flotte in seguito ad un patto tra Roma e Taranto di tregua bellica. Il condottiero Annibale vi prese rifugio per tornare a Cartagine, diede il nome per alcuni secoli all'abitato, chiamato Castra Hannibalis. Secondo Strabone e Plinio il vecchio, ci furono varie isole distanti da Le Castella e Capo Rizzuto, alcune erano ammirate per la loro particolare bellezza e una fu abitata da pescatori bruzi. Nel XIV sec. fino al XVI sec. seguì le vicende storiche del regno di Napoli, in alcuni momenti Le Castella fece parte attiva nell'esito dei governi , infatti , ci fu la resistenza al dominio degli aragonesi, da parte degli abitanti del borgo che erano fedeli agli Angioini; dopo una lunga resistenza ove quasi tutta la popolazione si barricò dentro la fortezza, gli Aragonesi ebbero il dominio della fortezza e del borgo. L'evento è conosciuto come battaglia di Le Castella, fu una serie di battaglie decisive all'interno dei vespri siciliani. Fu durante il periodo aragonese che la fortezza prese le forme architettoniche odierne. Andrea Carafa commissionò il rifacimento della fortezza adattandolo alle moderne esigenze difensive, in particolare per rendere le mura più resistenti dai colpi di cannone . Dal XVI sec. fino al XVIII sec. il paese e la sua fortezza diventarono scenari delle invasioni turche , fu l'inizio dell'improvvisa decadenza del borgo , che durerà per molti secoli , fino al XX secolo. Gli ottomani misero a ferro e fuoco l'intero borgo, uccidendo e rapendo la quasi totalità degli abitanti. Nel 1536 il celebre corsaro barbaresco Khayr al-Din Barbarossa vi rapì Giovanni Dionigi Galeni, divenuto famoso come ammiraglio e corsaro con il nome di Uluç Ali Paşa. Dal XVII sec. fino agli inizi del XX sec. il paese di Le Castella fu scarsamente abitato , infatti nel 1644 l'abitato di Le Castella fu abbandonato per ordine della corte regia . Per molti secoli rimase una località rurale dedita all' agricoltura, allevamento, pastorizia, pesca e pochi altri mestieri. Per pochi decenni, la fortezza fece da ricovero per i pochi che possedevano terreni in luogo, in mancanza di altre difese da eventuali scorribande ottomane. È noto il resoconto del tour condotto dall'abate Saint-Non, in cui constatò lo stato di abbandono della fortezza, ridotto a rudere e le condizioni umili di vita dei pochi che abitavano nella località. Nella seconda metà del XX sec. fino ai giorni nostri , Le Castella ha conosciuto un aumento demografico ed una ripresa economica dovuta in principale misura dal turismo balneare , subacqueo e dei beni culturali . Dal 1991 fa parte dell'Area Marina Protetta di Capo Rizzuto.

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IL CASTELLO BELCASTRO Tra il 1073 e il 1074, mentre il duca di Puglia e Calabria Roberto d’Altavilla era intento con suo fratello Ruggero ad assediare Palermo dove si erano rinchiuse le ultime truppe saracene, il loro giovane nipote Abelardo, signore di Santa Severina, si era ribellato. Il duca corse a Santa Severina e mise sotto assedio il nipote che si era asserragliato nella città ribelle. Le cronache riferiscono che prevedendo un lungo assedio e ritenendo più importante l’assedio di Palermo,

il duca Roberto lasciò al comando degli assedianti il cavaliere normanno Hugo de Faloch, italianizzato poi in Ugo Fallucca e fece ritorno nel capoluogo siciliano. Al contempo incaricò il Fallucca di ”rinforzare” tre castelli con il compito di bloccare gli eventuali movimenti di Abelardo. Un castello fu affidato allo stesso Ugo Fallucca, un altro a Rinaldo di Simula ed il terzo a Erberto, fratello di Ugo, e a Tostino il Bardo, fratello di Rinaldo. L’identificazione delle località non è specificata, se non di una: Rocca Fallucca che si trova fra Tiriolo e Settingiano, nelle immediate vicinanze di Rocca de Cathantiaco (Catanzaro). Le altre due località non sono menzionate; però, dato che la loro funzione era quella di sorvegliare e fungere da blocco militare intorno a Santa Severina, esse dovevano essere necessariamente nei dintorni della città assediata. In quell’epoca, i luoghi con difese murarie, vicini a Santa Severina, erano i due castelli bizantini di Capo Tacina (Roccabernarda) e di Belcastro, per cui solo queste due località avrebbero potuto contrastare le eventuali azioni di Abelardo: il castello di Capo Tacina, oltre a controllare da molto vicino le mosse del giovane ribelle, poteva subito intervenire a sbarrare la strada in direzione della Puglia sempre in fermento e insofferente versoi due fratelli Altavilla. Quello di Belcastro, situato fra Santa Severina e Rocca Fallucca, oltre ad essere punto di collegamento con quest’ultima località dove risiedeva Ugo Fallucca, impediva eventuali movimenti verso sud, dato che la strada passava proprio nella sottostante vallata. Conseguentemente, i due castelli non menzionati dalle fonti dovevano essere necessariamente, l'uno, Capo Tacina, adesso completamente distrutto ma più volte citato dalle cronache fino al 1444 e, l'altro, Belcastro, tutt’ora esistente. Per quanto riguarda il castello di Belcastro. Il Malaterra non scrive che il duca Roberto dispose di costruire ma di rafforzare (firmavit) i tre castelli e ciò conferma la nostra tesi perché le località incastellate vicino a Santa Severina erano soltanto Crotone, Roccabernarda e Belcastro. Ma l’attuale castello di Belcastro non è sul colle Timpe, ma sul colle prospiciente. Ciò significa che Ruggero, ritenendo poco difendibile il vecchio e piccolo Castellaccio, dispose di rafforzarlo con la costruzione di una nuova torre sul colle di fronte. E in effetti, la torre si presenta secondo l’impostazione architettonica delle edificazioni militari normanne.

IL CASTELLO NORMANNO-SVEVO Il Castello normanno-svevo di Cosenza rappresenta il principale monumento della città dei Bruzi, che lo vede ergersi ormai da secoli su uno dei punti più alti della città: il colle Pancrazio. Le sue origini non sono ancora state chiarite: la sua costruzione viene solitamente attribuita ai Bizantini intorno al 937 sulle rovine di un'antica rocca, per difendersi dalle continue incursioni saracene. Durante l'anno mille fu occupato dagli arabi divenendo dimora del califfo Saati Cayti. Dopo la cacciata degli arabi dalla città, Ruggero II di Sicilia nel 1132, ne rinforzò

le fondamenta e le mura, facendo del castello una vera e propria roccaforte normanna. Nel 1184 come molti

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altri monumenti storici della città, fu gravemente danneggiato da un terremoto, fino alla sua completa ristrutturazione durante il XIII secolo da parte di Federico II di Svevia (da qui la sua denominazione ufficiale: normanno-svevo). Durante il conflitto angioino-aragonese fu adibito a zecca per la realizzazione di monete, e venne successivamente trasformato in residenza principesca per Luigi III d'Angiò e la consorte Margherita di Savoia, venuti a governare la provincia calabrese. Nel 1459 vi dimorò Re Alfonso II di Napoli, fino a quando gli spagnoli, nel XVI secolo, non gli restituirono la sua funzione bellica, rappresentando per tutto il 1500 il fortilizio militare più importante della Calabria settentrionale. La sua storia si perde per tutto il 1600, ed essendo nuovamente danneggiato da numerosi terremoti cadde completamente in rovina. Fu ripreso dai Borboni che lo adibirono a carcere, e dopo l'unità d'Italia passò finalmente al comune di Cosenza che lo acquistò in un'asta pubblica. Dopo i restauri degli ultimi anni il Castello presenta ben conservati: la torre ottagonale di epoca sveva, gli stemmi di età angioina incisi sugli archi svevi a costoloni, che si immettono nel corridoio detto "dei fiordalisi", lo scudo aragonese, le segrete e il cortile interno. Un ultimo intervento di restauro sulla struttura iniziato nel 2008 si è concluso nel 2015 rendendo la struttura nuovamente visitabile tramite un bus messo a disposizione per i turisti, e che permette a questi ultimi di raggiungere il castello in alto sulla collina.

I MURALES DI DIAMANTE Il merito lo si deve all’ideatore Nani Razzetti, un artista originario di Milano che nel 1981 ebbe un’idea originale per rinnovare il look della cittadina, proponendo al sindaco di allora il Progetto di Città Dipinte. Il progetto di cambiare il look della città venne avviato nel 1981 e coinvolse artisti provenienti da diverse parti del mondo, tra cui molti italiani, che arrivarono a Diamante per realizzare la loro opera. Cosi il centro storico di Diamante si trasformò in una galleria d’arte a cielo aperto. Passeggiando per i vicoli del borgo, tra un’abitazione e l’altra, vi troverete dinnanzi a rappresentazioni artistiche che vi raccontano, o meglio illustrano la storia di questa

città. Sono oltre 200 le opere d’arte dipinte nel centro storico di Diamante. Personaggi illustri come Matilde Serao e Gabriele d’Annunzio hanno dedicato particolare attenzione a questo paese. Il progetto non è ultimato, infatti, ogni anno gli artisti si ritrovano a Diamante per partecipare a Muralespanso. Progetto attraverso cui gli artisti realizzano nuove opere per decorare le facciate dei palazzi.

LE CERAMICHE La produzione di ceramiche e terrecotte, in Calabria, è influenzata dalla tradizione e dalla cultura delle popolazioni che, nei secoli, hanno abitato questa antica regione. Una delle caratteristiche della ceramica calabrese è l’utilizzo frequente di simbolismi e di ritualità di ispirazione magica. Di gran pregio la produzione dei graffiti, delle maschere, dei pinakes, dei pastori in ceramica. Da segnalare,

nella provincia di Reggio Calabria, le terrecotte di Gerace e le giare di Roccella Ionica. A Gerace, in armonia con la sua antica storia, si producono pezzi artistici singolari che vanno dai "pinakes" (tavolette di ceramica lavorate) alle statuine e agli oggetti di vario tipo anche lasciati con il colore naturale dell’argilla cotta.In questo centro calabrese la modesta produzione non riesce a soddisfare le richieste dei tanti turisti che, in ogni periodo dell’anno, visitano il paese. A Bisignano si continua la tradizione millenaria tramandata da generazioni e di cui si trova traccia anche in un antico documento datato 1573. La caratteristica delle terrecotte smaltate che si producono in questo angolo della Calabria è l’ornamento in azzurro su un sostrato bianco, di carattere popolareggiante, che riprende un disegno ritrovato nei resti ceramici dell’antica Sibari.

CULTURA

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Un caposaldo della nostra civiltà

LA CERTOSA DI SERRA SAN BRUNO La Certosa è un monastero certosino situato in provincia di Vibo Valentia. I monaci, durante la settimana si riuniscono tre volte al giorno in chiesa: per il Mattutino, per la messa conventuale e per i Vespri. Le domeniche, ed i giorni di festa di una certa importanza, cantano in coro tutto l'ufficio, eccetto l'ora Prima e la Compietà, pranzano in refettorio e hanno una ricreazione nel pomeriggio. Infine escono in "spaziamento" una volta la settimana. Lo "spaziamento" è la passeggiata settimanale durante la quale si può parlare liberamente. Si svolge il primo giorno libero della settimana, di solito il lunedì. Dura tre o quattro ore. Si cammina normalmente in coppia, per favorire il confronto personale.

Periodicamente ci si ferma per cambiare i gruppi. In refettorio non si parla mai. Durante il pasto uno dei monaci legge dal pulpito. Si legge, soprattutto, la Sacra Scrittura oppure gli Statuti, opere relative alla festività del giorno o altre opere scelte dal priore. Nell'Ordine certosino lo studio ha sempre avuto importanza, ma non è l'occupazione primaria per i monaci. I certosini si dedicano, soprattutto, allo studio della Sacra Scrittura e della teologia. Il lavoro manuale procura ai padri la distensione fisica necessaria alla salute. È, però, anche un modo per partecipare umilmente alla condizione umana, come Cristo a Nazaret. I monaci lavorano da soli nella cella. Il loro lavoro, che deve essere veramente utile, consiste in occupazioni diverse, ma tutti si occupano di tenere in ordine la cella, il giardino e di tagliare la legna per l'inverno. Alcuni padri, come il sacrista o il bibliotecario, hanno mansioni specifiche. Gli altri, invece, svolgono lavori di artigianato. Secondo la tradizione certosina, il "monaco del chiostro" ricerca la solitudine della cella per cercarvi Dio. La cella è un porto sicuro dove regnano la pace, il silenzio e la gioia. Se sono diversi i compiti ai quali il monaco si dedica durante la giornata, tutta la sua esistenza deve essere una preghiera continua.

LA TARANTELLA Il ritmo, nelle terre dell'Italia del sud, è da sempre legato ad un ballo maledetto, un ballo ghettizzato o proibito, la tarantella, che per vivere o sopravvivere è costretta a giustificarsi come pratica di guarigione da uno stato alterato, sorta di esorcismo in musica per scacciare il demone che invasa e possiede il tarantato. II mito della taranta, la leggenda del ragno nero che morde e costringe al ballo, nasce così proprio nell'era dell'oscurantismo medievale quando le divinità pagane della Magna Grecia sono messe a

tacere dai nuovi apostoli di una religione più razionale e composta, austera e castigata, Dioniso Bacco e Apollo, divinità dei riti sfrenati del vino della poesia e dell'eros spariscono nella nuova cultura che rinnegherà l’edonismo classico per il misticismo medievale. E cosi dalle feste pubbliche del dio pagano, dalla festa del dio che balla, si passa alla festa nascosta del dio che perdona, rappresentato dal suo apostolo San Paolo protettore

dei tarantati nel chiuso dei cortili o nel sagrato della basilica di Galatina che al santo e dedicata e che accoglie ed assiste le vittime della taranta nella fase finale della guarigione.

IL PARCO ARCHEOLOGICO DI ROCCELLETTA Nel territorio del comune di Borgia, poco più a sud di Catanzaro Lido, si

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estende l’area del Parco archeologico di Scolacium. I ritrovamenti archeologici, rinvenuti sul luogo, sono la testimonianza che trattasi della antica colonia greca di Skylletion che successivamente vide il sorgere della romana Scolacium. Secondo gli studiosi, altri indizi, farebbero pensare all’esistenza del borgo, ancor prima della venuta dei greci. Il parco conserva al suo interno, all’ ombra dei verdi ulivi secolari, antichissime costruzioni di epoca greco-romana, normanna e diversi reperti archeologici di notevole interesse storico-artistico, ceramiche di età remote e numerose statue acefale. All'ingresso del parco, imponente si erge la Roccelletta di Borgia, basilica dedicata a Santa Maria della Roccella, chiamata anche Roccelletta del vescovo di Squillace. Una costruzione fatta in mattoni rossi, di epoca incerta, poiché diverse sono le fasi di costruzione della stessa, come facilmente si può evincere dall’osservazione della sua composizione, varia e non uniforme. Sono mescolati insieme diversi stili architettonici, quello romanico, bizantino e arabo.

I RITI DEL VENERDÌ SANTO La Pasqua, in Calabria, è una delle festività più sentite, in alcuni luoghi ancor più che il Natale. La religiosità, ancor molto presente specie nei paesi, è certo una delle ragioni del successo delle festività pasquali tra i calabresi, ma non bisogna neanche dimenticare quanto siano radicate le tradizioni popolari in questa terra. La Pasqua è il periodo in cui si organizzano diverse manifestazioni folcloristiche che affondano le proprie radici nella tradizione pre-cristiana e non di rado questa commistione è visibile nelle rappresentazioni della Crocifissione del Venerdì Santo, in alcuni luoghi unite alle celebrazioni della Via Crucis. In

Calabria quasi ogni paese organizza una manifestazione pasquale secondo le usanze del posto: ovunque si svolgono processioni, veglie di preghiera e la benedizione dei sepolcri, ma sono le feste popolari ad attirare maggiormente cittadini e turisti, senza dimenticare l’appeal dei dolci tipici della Pasqua calabrese.

LA LOTTA ALLA ‘NDRANGHETA A LOCRI Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella incontra allo stadio di Locri i familiari delle vittime innocenti delle mafie nell’ambito della XXII Giornata della memoria e dell’impegno organizzata da Libera. All’ingresso nel capannone allestito al centro dello stadio il presidente della Repubblica è stato accolto da lunghi applausi. Piersanti Mattarella, fratello del Presidente della Repubblica Sergio, è una delle vittime di mafia il cui nome è stato letto dai familiari delle vittime innocenti di mafia nel corso dell’incontro. Nell’elenco «ci sono anche donne e bambini, i mafiosi non conoscono nè pietà nè umanità, non hanno alcun senso dell’onore e del coraggio, i sicari colpiscono con viltà persone inermi e disarmate. Le mafie non risparmiano nessuno:

colpiscono chiunque diventi ostacoli al raggiungimento dei loro obiettivi, denari potere e impunità. La lotta alla mafia riguarda tutti», dice il capo dello Stato.

IL CODEX ROSSANENSIS Il Codex Purpureus Rossanensis è un manoscritto onciale greco del VI secolo, conservato nel Museo diocesano e del Codex di Rossano e contenente un evangeliario con testi di Matteo e Marco. Fu ritrovato nel 1879 all'interno della sacrestia della Cattedrale di Maria Santissima Achiropita di Rossano da Adolf von Harnack e pubblicato subito dopo da Oscar von

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Gebhardt; è un evangeliario in lingua greca del 550 ca. È composto di 188 fogli di pergamena (31x26 cm) contenenti il Vangelo secondo Matteo e il Vangelo secondo Marco, oltre ad una lettera di Eusebio a Carpiano sulla concordanza dei vangeli. In origine conteneva tutti e quattro i vangeli canonici, come si evince dalla prima miniatura che contiene i simboli dei quattro evangelisti e soprattutto dalla presenza delle concordanze eusebiane, e pertanto doveva contare circa 400 fogli. La parte scritta è vergata in maiuscola biblica onciale su due colonne. Il manoscritto riporta testi vergati in oro ed argento ed è impreziosito da 14 miniature, accompagnate in calce di cartigli descrittivi, che illustrano i momenti più significativi della vita e della predicazione di Gesù, di cui alcune costituiscono tra le prime e più preziose rappresentazioni della figura di Pilato, raffigurato come un giudice canuto, assiso sulla sella curulis nell'atto prima di ricevere il Cristo e poi di pronunciare la sentenza della condanna a morte al notarius.

IL PARCO NAZIONALE DELLA SILA Il Parco nazionale della Sila è situato nel cuore della Sila e si estende per 73.695 ha assumendo una forma allungata nord-sud. La sede del parco si trova a Lorica, mentre il perimetro coinvolge territorialmente tre delle cinque province calabresi, la Provincia di Catanzaro, la Provincia di Cosenza e la Provincia di Crotone. Il Parco è stato istituito nel 1997 con legge n. 344, mentre l'istituzione definitiva è avvenuta per Decreto del

presidente della Repubblica del 14 novembre del 2002, dopo un iter politico iniziato nel 1923, quando in Italia si cominciò seriamente a parlare di Aree naturali protette, istituendo i primi parchi nazionali. Al suo interno il Parco nazionale della Sila custodisce uno dei più significativi sistemi di biodiversità. Il simbolo del Parco è il lupo, specie depredata per secoli e fortunatamente sopravvissuta fino al 1970, anno in cui venne istituita una legge a favore della sua salvaguardia. Lupo appenninico, 3 branchi di lupi accertati, composti da 3 - 4 individui ciascuno, per un totale di circa 15 - 20 esemplari su tutta la Sila. Simbolo del Parco questo mammifero è considerato il più importante predatore dei boschi dell'Appennino e della montagna calabrese.

IL MUSEO DELLA LIQUIRIZIA AMARELLI Il museo della liquirizia di Rossano espone al suo interno gli attrezzi utilizzati nella lavorazione, nella commercializzazione, e nell'estrazione della radice da cui si ricava la liquirizia, oltre ad abiti, oggetti, manoscritti legati alla famiglia Amarelli, impegnata da circa 3 secoli nella produzione della celebre liquirizia omonima. Si tratta dell'unico museo italiano su questa tematica. Secondo una ricerca del Touring

Club Italiano, è il secondo museo d'impresa più

visitato in Italia. La liquirizia è un dolciume aromatizzato con estratti della radice di Glycyrrhiza glabra, comunemente chiamata liquirizia. Vengono prodotti diversi tipi di liquirizia: negli USA quella originale è chiamata black licorice, per

distinguerla da varietà che non sono aromatizzate con estratto di liquirizia ma vengono comunque confezionate in forma di cordicelle o tubi. Nei Paesi Bassi e Paesi nordici la liquirizia contiene solitamente cloruro d'ammonio invece del cloruro di sodio, specie nella liquirizia salata. L'estratto della radice di liquirizia contiene glicirrizina, dal potere dolcificante 50 volte maggiore rispetto al saccarosio. Questo ingrediente ha proprietà di espettorante e di blando lassativo e può aumentare la pressione sanguigna quando il consumo giornaliero di liquirizia supera i 100 mg di principio attivo al giorno per almeno due settimane. La liquirizia ha anche potere dissetante: per questa proprietà Alessandro Magno usava fornire alle sue truppe razioni di radice di liquirizia. In Australia, Canada, Germania, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Regno Unito, Europa

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centrale e Stati Uniti d'America è in commercio un prodotto conosciuto come "liquirizia rossa", che ha forme somiglianti a quelle delle caramelle alla liquirizia ma contiene invece estratto di fragola, ciliegia o lampone.

I DIALETTI I dialetti calabresi sono idiomi ricchi di influenze linguistiche, dovute alle colonizzazioni, le dominazioni e le incursioni di differenti popoli. Principalmente comunque sono composti dalle

lingue classiche: il greco e il latino. I dialetti calabresi sono di tipo meridionale estremo (i parràti calabbrìsi definiti anche tricalabro o siciliano da Ethnolongue) nella parte centro-meridionale della Calabria e di tipo napoletano ('e parràte calabbrìse) nella parte settentrionale. Tale divisione linguistica corrisponde molto approssimativamente alla storica divisione amministrativa delle "Calabrie": Calabria Citeriore (o Calabria latina) e Calabria Ulteriore (o Calabria greca). I dialetti calabresi sono fra i dialetti italiani che più di altri hanno attirato l'attenzione degli studiosi per le proprie peculiarità e le radici in tempi antichi. L'evidente diversità linguistica nell'ambito della stessa regione, il rapporto tra impronta greca (grecanica) e storia della

Calabria, la più o meno precoce latinizzazione ed i "relitti" lessicali di altre lingue, la forte presenza della minoranza arbëreschë, sono oggi argomento di studio e discussione di glottologi e linguisti. Chi voglia infatti paragonare i dialetti italiani della Calabria meridionale con quelli parlati nella Calabria del nord, non può non notare il forte contrasto esistente. Un esempio è la forma del tempo perfetto indicativo (che include passato remoto e passato prossimo italiani), che ha due forme nelle due diverse zone: nel Nord-Calabria è un tempo composto, simile al passato prossimo italiano; nel Sud-Calabria invece, è un tempo semplice che ricorda il passato remoto italiano, da cui il grande errore di chiamare "passato remoto" questo tempo anche in calabrese (in realtà equivale esattamente al perfetto latino, dal quale deriva).

I PROVERBI I proverbi più belli della Calabria sono:

A meglia parola è chilla ca ‘un se dice. La miglior parola è quella che non si dice.

Maru cu sta ‘mpisu all’amuri, na vota nasci e natri centu mori Triste chi dipende dall’amore: nasce una volta e cento muore.

Chi te vo bene te fa ciangere chi te vo male te fa ridere. Chi ti vuol bene ti fa piangere, chi ti vuol male ti fa ridere

Cu ndavi muccia, cu non havi mustra. Chi possiede averi li nasconde e chi non li possiede li mette in mostra.

Cu mangia e non mbita, non mi campa mi si marita. Chi mangia e non invita, che non viva per sposarsi.

Cu pucu si vivi e cu nenti si mori. Con poco si vive e con niente si muore

Chiù allisciu u gattu, chiù arrizza u pilu. Più lisci il gatto, più gli si rizza il pelo

‘Cu si marita è cuntentu ‘nu jiornu, cu’ mmazza ‘ u pòrcu è cuntentu n’annu. Chi si sposa è felice per un giorno, chi ammazza il maiale è contento per un intero anno.

Cu’ non si faci l’affari soi ca lanterna va cercandu guai Chi non si fa gli affari suoi, con la lanterna va cercando guai.

Fatti ‘a fama e curcati. Fatti una fama e addormentati

A jumi cittu un ji a piscà. Non andare a pescare al fiume silenzioso

Duve cantanu tanti galli, ‘un fa mai juarnu. Dove cantano tanti galli, il giorno non arriva mai

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Si a fatica era bona, l’ordinava u medicu. Se il lavoro facesse bene lo prescriverebbe il medico

Quandu erumu ziti caramelli e ciucculati, mo’ chi simu maritati pani duru e bastunati! Quando eravamo fidanzati caramelle e cioccolata, adesso che siamo sposati pane duro e bastonate.

Vroccula e predicaturi doppu Pasca perdunu ‘u sapuri. Dopo Pasqua broccoli e predicatori perdono il sapore

Vai ‘chi megghiu toi e facci i spisi. Frequenta gente migliore di te e, se è necessario, impara da loro.

Amici e cumpari, paroli pochi e ‘cchjàri. Con amici e con compari, parla poco e in modo chiaro.

Megghiu pani e cipudda o to paisi, chi nu palazzu a mmenzu e missinisi. Meglio pane e cipolla al tuo paese, che un palazzo in mezzo ai messinesi.

A cunfidenza è patruna da malacrianza La confidenza è padrona della cattiva educazione.

Cu amici e cu parenti no cattari e non vindiri nenti. Con amici e con parenti non comprare e non vendere niente.

Vo sapiri qual è lu megghiu jocu? Fa beni e parra pocu. Vuoi sapere qual’è il gioco migliore? Fai del bene e parla poco.

Passunu l’anni e crisciunu i malanni. Passano gli anni e crescono i malanni.

I VATTIENTI Ogni anno a Nocera Torinese, un paesino

nella provincia di Catanzaro, a pochi chilometri dalla

costa tirrenica, la sera del Venerdì Santo e il Sabato Santo

si svolge il rito dei “Vattienti”. Secondo una tesi

minoritaria questa tradizione affonderebbe le sue radici

in una cerimonia di origine antichissima, praticata dai

Frigi nell’Asia Minore e dedicata a una divinità chiamata

Attis, la cui finalità era quella di rendere feconda la terra.

Secondo il pensiero dei più, invece, il rito dei Vattienti

trae la sua origine dalla pratica dell’autoflagellazione che

si diffuse a partire dal Medioevo e che ebbe

essenzialmente una funzione religiosa, ossia una

funzione di penitenza e di espiazione dei peccati.

All’inizio l’autoflagellazione fu praticata dai monaci

soltanto all’interno dei conventi, ma in seguito anche all’esterno e progressivamente vide il coinvolgimento del

popolo. Col tempo, poi, divenne non solo uno strumento per espiare i peccati, ma pure un modo per ottenere

il favore di Dio e allontanare le calamità e le guerre. Qualunque sia la sua origine, è cosa certa che il rito dei

Vattienti che si svolge a Nocera abbia il fine di celebrare la flagellazione e la morte che Cristo subì per offrire a

tutti la resurrezione. Il vattiente indossa una maglia nera e un pantalone corto, rimboccato in modo da lasciare

libere le cosce, nonché un copricapo, anche esso nero, sul quale viene posta la corona di spine fatta di

sparacogna (asparago selvatico). L’Ecce Homo indossa, invece, un panno rosso che, lasciando scoperto il petto,

dalla vita scende sino alle caviglie. Anche egli porta una corona in testa fatta di ramoscelli di un arbusto dalle

spine lunghe e aguzze chiamato spina santa; Il Cristo viene rappresentato da due persone: il Cristo flagellato,

ricoperto di piaghe e sangue, è rappresentato dal Vattiente, mentre il Cristo che, dopo la flagellazione, viene

portato da Pilato dinanzi al popolo per essere giudicato, è rappresentato dall’Ecce Homo (in dialetto detto

Acciomu). Espressione della unicità della rappresentazione della figura di Cristo è la cordicella con la quale

l’Ecce Homo è legato al vattiente. Il vattiente, indossa una maglia nera e un pantalone corto, rimboccato in

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modo da lasciare libere le cosce, nonché un copricapo, anche esso nero, sul quale viene posta la corona di

spine fatta di “sparacogna (asparago selvatico). L’Ecce Homo indossa, invece, un panno rosso che, lasciando

scoperto il petto, dalla vita scende sino alle caviglie. Anche egli porta una corona in testa fatta di ramoscelli di

un arbusto dalle spine lunghe e aguzze chiamato “spina santa”. L’Ecce Homo impugna una croce che, come

racconta ancora V. C., in passato era fatta da due canne mentre oggi viene realizzata con due stecche di legno

rivestite con del nastro rosso. Dopo il rivestimento, alcune strisce del nastro vengono lasciate pendere dalla

parte superiore della croce, come delle frange: esse, spiega V. C., simboleggiano il sangue di Cristo che scorre

dalle piaghe. Dopo essersi vestito, il vattiente immerge le mani in un pentolone dove è stata messa a bollire

acqua con rosmarino e con tale infuso lava le cosce e i polpacci. Lo stesso infuso viene utilizzato anche alla fine

della flagellazione perché, avendo un alto contenuto di tannino, “cauterizza” rapidamente le ferite. Gli

strumenti utilizzati dal vattiente sono la rosa e il cardo che, a più riprese, con particolare veemenza e

scrupolosa attenzione, vengono “battuti” sulle cosce e sulle gambe. La rosa è un disco di sughero del diametro

di dieci centimetri circa e dello spessore di tre, levigato su una faccia: serve ad ammortizzare le parti delle

cosce e delle gambe che subiscono autoflagellazione e a ripulirle dal sangue che ne fuoriesce di continuo

copiosamente. Il cardo, anche esso fatto di sughero, ha le

stesse dimensioni della rosa, ma su una faccia vi sono

infisse tredici schegge di vetro, dette “lanze, tenute salde

alla radice da una mistura di cere vergini che ne lascia

scoperte le punte acuminate di circa tre millimetri. Queste

13 “lanze” simboleggiano Cristo e i suoi dodici Apostoli,

Giuda compreso. La scheggia acuminata che rappresenta

quest’ultimo è leggermente più sporgente rispetto alle

altre per penetrare di più nelle carni, evocando in tal modo

il “tradimento. Di particolare impatto emotivo è

“l’incontro” dei penitenti con la Statua della Pietà, che i

noceresi definiscono “Madonna Addolorata: una bellissima scultura lignea che si fa risalire al 1300. Dinnanzi a

Essa il vattiente si inginocchia, prega, si autoflagella e scioglie o rinnova il voto fatto. Il vattiente e l’Ecce Homo,

che percorrono correndo tutto il tragitto che viene compiuto dalla Madonna durante la processione, sono, a

loro volta, seguiti da un terzo uomo che di tanto in tanto versa del vino sulle ferite del vattiente allo scopo di

disinfettarle. Tutti i noceresi “sentono” la Madonna come una presenza viva e reale che regna sul paese. A

dimostrazione di ciò, narra ancora V. C., da lungo tempo a Nocera si racconta di un uomo che quando vide la

“Addolorata” scendere da una delle vie della processione, trasportata sulle spalle dai portantini e seguita da

una folla di fedeli, cominciò ad imprecare contro di lei e in quel preciso istante perse la vista. Nel corso della

processione tutti i noceresi sentono la Madonna come una presenza viva e reale che regna sul paese. A

dimostrazione di ciò da lungo tempo a Nocera si racconta di un uomo che quando vide la Addolorata scendere

da una delle vie della processione, trasportata sulle spalle dai portantini e seguita da una folla di fedeli,

cominciò ad imprecare contro di lei e in quel preciso istante perse la vista.

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LA PACCHIANA Quando si parla di pacchiano, nel gergo corrente , ci si rifà ad un modo di essere e di vestirsi stravagante e appariscente privo cioè di quella classe e/o di quel decoroso equilibrio che offende i canoni della bellezza estetica. Non è certamente il nostro caso, il termine PACCHIANA, nella originaria etimologia, si rifà ad una manifesta voglia di divertimento, di allegria, un miscuglio di odori e sapori, di canti e tarantelle che facevano pensare alla Pacchia. Il costume montecalvese "La Pacchiana";non può considerarsi nemmeno tale per il semplice fatto che viene indossato, ancor oggi, da molte donne anziane fatto questo che lo rende un reperto vivente storico, culturale, antropologico in continua evoluzione. Descrizione vestito: Mutandoni ampi lunghi fino al ginocchio, arricchiti di merletti(puntine) di varie forme, spessori e colori, che si intravedevano nei momenti più o meno naturali del corpo e che si manifestavano durante i balli

sfrenati del tempo-tarantelle... Particolarità dei mutandoni è che prevedevano uno spacco nel mezzo per consentire il rapido e riservato esercizio degli elementari bisogni corporali. L 'effetto, sicuramente sexy, veniva accentuato dalla presenza di Calzettoni di lana spessa, di colore nero, fermati a mezza coscia con nastri e reggi calze a molla. I calzettoni venivano realizzati con una tecnica particolare, con 3 o 4 ferri di acciaio, che consentivano la realizzazione delle calze, quasi su misura, della fanciulla o signora che fosse, conservando quella tenuta e aderenza, necessaria nei tanti momenti della vita. La camicia e il sottanino erano la biancheria intima, la cui funzionalità e rimarcata dalla parola, la particolarità era dovuta alla tramatura del tessuto che significava la condizione sociale della donna, ma sempre con una finezza, grazia e sapiente utilizzo dei materiali. Le Scarpe venivano realizzate in cuoio e pelle dagli abilissimi artigiani montecalvesi (scarpari) il cui altissimo numero oltre 100, per tutto il decorso secolo,rappresentarono una formidabile realtà economica per il paese. Le scarpe di Montecalvo, realizzate su misura, conobbero un successo territoriale grandissimo, alcuni scarpai meritarono l'appellativo di maestri (masti) per la perfezione e la bellezza delle loro creazioni. L‘abito vero e proprio era cost composto: Gonna in lana castorino di colore nero, con applicazioni in cotone e/ o filo bianco, solo sotto la parte inferiore, quella cioè non coperta dal vantesino. Vantesino: parola di chiara derivazione latina (ante- sinum) a significare la particolare destinazione del manufatto. Realizzato in panno di lana di colore verde erba, con ricami, applicazioni (varianti in stoffa anche di colore nero, di seta in bianco con ricami a rilievo e perline nel vestito da sposa). Corpetto: avente la chiara funzione strategica di sorreggere il seno anche alle poco dotate, era realizzato in panno a strati e con accorgimenti nei bordi a mo di antiurto, con la funzione di tenere ben coperta la parte posteriore della cassa toracica, particolarmente vulnerabile nelle donne. Particolarità del corpetto (buttunera) e la presenza di una doppia fila di bottoni di argento di forma discoide, aventi la funzione di mettere in risalto la condizione della donna maritata. La Cammisola, camicia importante con pizzi agli orli di color senape e con evidenti ricami a punto croce e/o spugnetta con le iniziali della ragazza e/o della famiglia. Tovaglia: copricapo in lino grezzo, che come dice la parola aveva una funzionalità che andava oltre il semplice copricapo, infatti la grandezza, la forma rettangolare e il tipo di tessuto facevano si che il copricapo, alla bisogna poteva diventare un giaciglio, una tovaglia da cucina o un necessaire per i fanciulli. Pannuccia: copricapo in lino fine per le grandi occasioni, con ricami a punto croce e frangiatura a cascata sulle spalle. Maccaturo: copricapo in lana di color carne (nero in caso di lutto) che cade sul laterale delle guance, ricco di frange annodate, sovrastato da ricami a bassorilievo in spugna, con motivi floreali. Il costume da pacchiana aveva numerose varianti, dovute alla condizione della donna e infatti si ha un costume da bambina, da giovinetta, da donna promessa, da donna sposata, da vedova (tutto in nero). Discorso a parte merita il Vestito da Sposa , che non prevede alcun copricapo, ma uno scialle in seta con fronzoli, il vestito tutto in bianco, conserva la gonna nera e un vantesino bianco ricco di ricami a bassorilievo con l'apposizione di perline anche vitree di vario colore.

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TOMMASO CAMPANELLA Tommaso Campanella, Filosofo domenicano, fu accusato di eresia e di cospirazione antispagnola. Arrestato, fu condannato nel 1602; in carcere per 27 anni, poi a Roma sotto la sorveglianza di Urbano VIII, nel 1633 si rifugiò in Francia, dove pubblicò le opere scritte in carcere. Seguace dal naturalismo di Telesio, volle dare dell'universo una spiegazione razionale, considerandolo un tutto vivente e sensibile, immagine di Dio, avente la sua unità e il suo fondamento nell'autocoscienza: perciò cognoscere est esse. Nella Città del Sole (1602) vagheggiò l'instaurazione di una felice e pacifica repubblica universale retta su principi di giustizia naturale. Della Monarchia di Spagna (1601), De sensu rerum et magia (1620), Philosophia realis (1623), Metaphysica (1638), Theologia (edizione 1936). Tommaso Campanella si presenta come una figura davvero emblematica del rinascimento italiano, epoca caratterizzata dalle tensioni culturali più diverse e contrastanti. E di contrasti fu piena anche la

complessa personalità di questo frate domenicano che, non ancora trentenne, aveva dovuto subire già quattro processi, e che, implicato in una congiura antispagnola, seppe fingersi pazzo per 27 anni, scampando così alla pena capitale, per poi terminare la propria vita a Parigi, in mezzo agli onori e alla generale ammirazione. E non va lontano dal vero chi sostiene che al centro sia delle drammatiche traversie esistenziali di Campanella sia della sua speculazione contraddistinta da mille chiaroscuri, stanno questioni di indole religiosa, ovvero il problema dell'adesione all'autentica fede cristiana e quello dell'interpretazione che egli ne dette nei suoi numerosi scritti, i quali, costantemente, suscitarono i sospetti dell'autorità ecclesiastica. Un contributo assai importante in merito a una più attenta comprensione di queste problematiche viene ora dallo studio denso e documentato di Vito Angiuli, "Ragione moderna e verità del cristianesimo. Il dibattito intorno all'ortodossia cattolica di Campanella è stato assai vivace e a lungo dominato dalle tesi di chi vedeva nel pensatore calabrese un ateo e un libertino, grande simulatore e grande miscredente. Tommaso Campanella, Giordano Bruno, Galileo Galilei,sono tre nomi che si presentano legati insieme nell'immagine che ne ebbe l'Italia liberale: martiri dell'intolleranza ecclesiastica, eroi del libero pensiero e della scienza moderna. Nella realtà, l'unico di loro che conobbe e incontrò gli altri due fu Campanella: dall'ottobre del 1594 il domenicano calabrese - estradato da Padova, dove aveva conosciuto Galilei - condivise con Bruno le prigioni del Sant'Uffizio a Roma. Nei decenni che trascorse in carcere, Campanella, accumulò una quantità incredibile di opere e di pagine. Era il suo modo di restare vivo: l'amore per il sapere, la convinzione di avere un compito importante da svolgere nel mondo delle idee furono vivi in lui fin da quando, bambino, privo di mezzi per studiare, seguiva dalla finestra della scuola le lezioni destinate a coetanei più fortunati. Per i libri, c'era un'altra specie di prigione: la messa all'indice. E questa prigione accomunò idealmente i tre nomi che abbiamo ricordato, Bruno, Campanella, Galilei.

L’ISOLA DI CIRELLA L'isola di Cirella è un'isola dell'Italia sita nel mar Tirreno, in Calabria. Si trova nella costa nord occidentale del Tirreno calabrese, di fronte l'abitato di Cirella, frazione di Diamante in Provincia di Cosenza. Ha una superficie di 0,12 km² e raggiunge un'altezza massima di circa 40 metri; le rocce calcaree dell'isola, sottoposte all'erosione marina, hanno dato vita a molte grotte ed insenature. La flora è quella tipica della macchia

mediterranea, arricchita da boschetti di euforbio e limoni. Sulla sommità si ergono i ruderi di una fortificazione militare, detta Torre dell'Isola di Cirella, di pianta quadrata con lati lunghi circa 10 metri e mura spesse tre o quattro metri. Essa fu costruita nel 1562 per prevenire l'assalto dei pirati turchi all'abitato di Cirella. Si presume che uno specchio di mare intorno all'isola nasconda alcuni reperti archeologici a causa di rinvenimenti di anfore risalenti al periodo greco romano. I fondali del lato est dell'isola sono ricchissimi di vegetazione marina (Posidonia Oceanica) e si ritrovano anche esemplari di Pinna nobilis il più grande bivalve del mediterraneo. Nell'agosto del 2007, su segnalazione di alcuni turisti, sono stati rinvenuti due ordigni della seconda guerra

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mondiale a poca distanza dalla costa est dell'isola, a qualche metro di profondità. Qualche giorno dopo la segnalazione i due proiettili sono stati disinnescati e fatti brillare al largo da uomini della Guardia Costiera.

L’ISOLA DI DINO L'isola di Dino è la maggiore delle due isole Calabresi (l'altra è l'Isola di Cirella) e sorge sulla costa nord occidentale del Tirreno, di fronte all'abitato di Praia a Mare in Provincia di Cosenza, più precisamente davanti a Capo dell'Arena a sud del paese. Il nome forse deriva dal fatto che sull'isola sorgeva un tempio (aedina) dedicato a Venere, oppure, ipotesi più accreditata, è quella che farebbe derivare il nome dall'etimo greco dina, ovvero vortice, tempesta. Infatti erano un tempo pericolose per i naviganti, in giornate di mare mosso, le acque prossime alla punta sud dell'Isola, detta Frontone. Si estende per 50 ettari circa con

un'altitudine massima di 100 metri. Nel versante settentrionale, di fronte a Capo dell'Arena, c'è un piccolo molo di attracco da cui parte una strada rotabile che con uno sviluppo di 1700 metri conduce nei cottages situati nella zona alta dell'isola. Ha fianchi con strapiombi alti oltre 80 metri ed altri piuttosto scoscesi, alla base dei quali, sia al di sotto che al di sopra del livello del mare, l'erosione sulle rocce calcaree ha dato vita a molte grotte tra le quali quella del “Monaco”, delle “Sardine” dove sono presenti stalagmiti, delle “Cascate”, del “Leone” ed infine la “Grotta Azzurra” che è la più grande. Ma la grotta più interessante dell'isola, sebbene accessibile solo ai subacquei esperti, è la Grotta Gargiulo, che si apre a 18 metri sotto la superficie del mare e si estende nelle profondità dell'isola per alcune decine di metri, completamente sommersa, fatta eccezione per due bolle d'aria. L'accesso ad una parte della Grotta è sconsigliabile anche ai subacquei, tranne che a speleosub esperti. L'isola fu testimone di lotte e battaglie, incursioni piratesche, assalti, difese disperate. Vascelli musulmani vi fecero tappa in più occasioni nel corso delle loro spedizioni militari in Italia: nel IX secolo d.C., nel XV e nel XVI. Nell'estate del 1600 il litorale fu preso d'assalto dai Turchi, guidati da Amurat Rays, che con il suo esercito di predoni e le sue navi terrorizzava il Meridione d'Italia. Gli aietani si trincerarono sull'isola ed opposero forte resistenza. Dopo giorni di assalto i difensori guidati da Francesco Vitigno furono tutti catturati ed uccisi. Nel 1806 l'isola divenne base delle operazioni della flotta anglo borbonica, agli ordini dell'ammiraglio Sidney Smith, che tentava di opporsi alla penetrazione dell'esercito napoleonico in Calabria. Nel 1812 Gioacchino Murat elimina la feudalità. Il Demanio reale sottrasse l'isola al Marchese di Aieta, nella cui giurisdizione la stessa ricadeva e la concesse al Comune di Aieta. Successivamente l'isola passa ai Borbonici. Nei pressi dell'isola, durante la notte di Santo Stefano del 1917, il sommergibile tedesco UB-49 (Hans von Mellenthin) affondò il piroscafo inglese “Umballa” che trasportava orzo. Il piroscafo, varato nel 1898 e di proprietà della British India Steam Navigation Company Ltd., era salpato da Karachi, aveva fatto tappa a Siracusa ed era diretto a Napoli. Dopo la tragedia che costò la perdita di quindici vite umane, la campana della nave venne donata al Santuario della Madonna della Grotta. Fu fissata sul campanile dopo essere stata ribattezzata “Santa Maria della Vittoria”. Nel 1928 l'isola diventa proprietà del Comune di Praia a Mare, quando lo stesso diventa autonomo. Nel 1956 l'isola viene data in concessione per 99 anni e nel 1962 l'isola viene venduta per 50 milioni alla società amministrata dal comm. Bottani e Gianni Agnelli con il fine di portare allo sviluppo turistico a livello internazionale dell'intero territorio da Fiuzzi a San Nicola Arcella. Era prevista sull'isola un'edificabilità pari allo 0,20, con costruzioni alte metri 6,90. È stato effettuato lo sminamento dell'isola, ed è stata costruita una strada di 1700 metri che collega il pontile di attracco con la parte alta dell'isola, dove sono stati costruiti dei cottages. Nella parte bassa, all'altezza della Grotta del Leone,

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sono sorti dei tucul con ristorante. La proprietà dell'isola è poi passata ad un gruppo di imprenditori che per motivi amministrativi hanno abbandonato il bene a se stesso. Attualmente nuove forze imprenditoriali, locali, hanno intrapreso un difficile processo di valorizzazione dell'isola. Il 13 giugno 2014 la sezione distaccata di Scalea del Tribunale di Paola ha annullato il contratto con il quale Gianni Agnelli comprò l'isoletta per 50 milioni di lire.

LA GROTTA DELLE NINFE Le terme di Cerchiara sono caratterizzate da una profonda fenditura che taglia in due uno sperone roccioso, entro il quale scorre un ruscelletto di acqua termale. E’ questa sorta di canyon strettissimo e profondamente incavato che viene chiamato “Grotta delle Ninfe” e, nonostante la sua particolare conformazione, in alcuni punti si riesce a vedere il cielo. Secondo la mitologia greco-romana, la grotta in cui sgorgano le preziose acque medicamentose delle terme libere di Cerchiara rappresentava la dimora nascosta in cui era custodito il leggendario talamo di

Calipso, bellissima Nereide che, secondo il racconto dell’Odissea avrebbe sedotto Ulisse tentando di sviarlo dal suo viaggio di ritorno ad Itaca. La grotta termale prende il nome per questo motivo dalle Ninfe Lusiadi, mitiche creature che rappresentavano numi tutelari delle acque e, in questo caso, costituivano la corte di Calipso. La supposta presenza di queste divinità minori nei pressi di sorgenti d’acqua è tipica di luoghi, come questo, in cui le straordinarie proprietà curative delle acque termali dovevano apparire agli antichi derivanti appunto da presenza benefiche sovrannaturali.

IL LAGO ARVO Il lago Arvo è un lago artificiale situato in provincia di Cosenza, fra i monti Melillo e Cardoneto, vicino al comune di San Giovanni in Fiore. Con una capacità di circa 70 milioni di metri cubi di acqua e una lunghezza di 8,7 km, in Calabria questo lago è il secondo in grandezza dopo il Lago Cecita. Il lago è collegato con il Lago Ampollino tramite una condotta in galleria. La riva nord è frastagliata, mentre quella sud più rettilinea. Il fondale è coperto principalmente di sabbia e ciottoli. Questo lago fu creato tra il 1927 e il 1931 sbarrando il fiume Arvo e i ruscelli Bufalo e Fiego allo scopo di creare un bacino idroelettrico. Il

lago Arvo venne realizzato in un'area paludosa, mediante sbarramento tramite diga in terra compatta (unica in Calabria). Attualmente il lago ha una capacità che varia tra i 70 e gli 80 milioni di metri cubi, mentre la lunghezza diametrale è di circa 8,7 km per un perimetro totale di 24 km. In virtù di a queste caratteristiche il lago si presta bene a gare di canottaggio, ed è previsto il completamento del Centro olimpico di canottaggio. Nelle sue acque vivono trote, persici reali, anguille, cavedani, tinche, carpe e ciprinidi minori come scardole, triotti, alborelle e carassi È possibile avvistare, tutte le stagioni dell'anno, il Gabbiano reale, che risale dalle marine fino al cuore della Sila, attraverso le valli dei fiumi; quest'uccello, nidifica sul Lago Arvo, nei pressi di un isolotto situato nel comune di Aprigliano, con alcune decine di coppie da parecchi anni, rappresentando di fatto, un interessante dato ornitologico, in quanto, questa specie, specie nei laghi interni del Meridione, non è affatto comune come nidificante. Altri uccelli frequenti sono lo Svasso maggiore, il Germano reale, la Folaga, l'Airone cenerino e pur se di rado, durante i periodi migratori, sono stati avvistati anche il Falco pescatore e il Cavaliere d'Italia. Nei vasti boschi circostanti al lago vivono il Lupo,

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il Capriolo, il Cinghiale, la Martora, il Tasso, la Volpe, la Faina, il Picchio nero, la Poiana, l'Astore e tante altre diverse specie tipiche dell'ambiente silano. Sulla presenza della Lontra sono in corso studi da parte dell'Ente Parco Nazionale della Sila, secondo diverse testimonianze storiche, un tempo era presente anche nel bacino dell'Arvo. Purtroppo il recente progetto della società A2A di svuotare totalmente il bacino mette in grave pericolo l'intera fauna del loago Arvo. Lo svaso, annunciato per il mese di ottobre del 2013 dalla società si rende necessario per opere di manutenzione. Come già avvenuto in occasione dello svaso totale del lago Passante, lo svuotamento dell'Arvo costituirebbe la morte certa di tutta la fauna ittica e della flora che vive ai margini dell'invaso.

IL TEATRO CILEA Il teatro comunale Francesco Cilea di Reggio Calabria è intitolato alla memoria del compositore calabrese Francesco Cilea. Situato di fronte a palazzo San Giorgio, l'edificio occupa un'area compresa tra il corso Garibaldi ad ovest, la via cattolica dei Greci a sud, la via del Torrione ad est e la via Osanna a nord. Con una capacità di 1.500 posti è il teatro più grande in Calabria. I locali a piano terra (che si affacciano sul Corso Garibaldi) per molti anni furono adibiti ad uffici e ritrovi, i seminterrati furono invece utilizzati per convegni e mostre. Le linee esterne sono ispirate all'architettura classica per volere del sindaco Giuseppe Valentino, infatti egli volle che tra i tanti edifici

di Reggio, ve ne fosse qualcuno che riprendesse le forme architettoniche dell'antica città magnogreca. La grande sala, di stile ottocentesco, ha forma a ferro di cavallo, vi sono tre ordini di palchi ed un loggione, divisi da un ampio palco reale posto al centro. Al primo piano il teatro ospita la Pinacoteca Civica di Reggio Calabria che espone pregiate opere pittoriche acquisite dall'antico museo cittadino grazie a lasciti, donazioni e acquisti.

L’ABBAZIA FLORENSE L'Abbazia Florense è fra i più grandi edifici religiosi della Calabria, grazie all'imponenza dell'intero complesso badiale, ed è considerato, insieme al santuario di San Francesco di Paola, il più importante edificio religioso della provincia di Cosenza. Fa parte dell'arcidiocesi di Cosenza-Bisignano, ed è per cronologia, il primo edificio ed insediamento, realizzato a San Giovanni in Fiore, decretandone così, la nascita della città. Le origini dell'Abbazia Florense, racchiudono una

storia ricca di avvenimenti e coincidenze, situazioni tali che hanno portato solo in seguito ad un lungo viaggio, alla realizzazione del complesso monastico. La principale delle cause, è sicuramente la ricerca di una nuova ”fonte di spiritualità” da parte del fondatore del monastero, Gioacchino da Fiore. Il futuro abate, viaggiò da giovane, per alcune Abbazie, venendo a contatto con vari ordini monastici, tra cui quello cistercense. Da giovane, infatti, fu prima accolto presso l'Abbazia di Santa Maria della Sambucina nei pressi di Celico, ed in seguito soggiornò nel monastero di Corazzo, divenendone priore e poi abate. Recatosi nel 1183 presso l'abbazia di Casamari, nel Lazio, con l'intento di far accorpare il cenobio di Corazzo all'Ordine Cistercense, Gioacchino affinò la propria spiritualità, scorgendo un bisogno di meditazione fino ad allora mai capitatogli. Fu così che insieme ad un compagno decise, fra la Pasqua del 1186 e il febbraio del 1188 di salire sulla Sila alla ricerca di un luogo per abitare. Si fermarono dapprima presso la località di Pietra Lata, ma il luogo non ispirò completamente l'abate, che decise di ampliare il cammino e risalire ancora per un po', i monti

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della Sila. Superato il fiume Lese, i due giunsero presso una radura sul versante orientale della Sila, presso un'immensa foresta di boschi, e con a valle il fiume Arvo. La località si presentò perfetta per Gioacchino, che decise di stabilirvisi, ed ivi, edificare il monastero, dedicandolo a San Giovanni Evangelista. Intorno al 1230 l'Abbazia Florense venne terminata. Fu essenzialmente un'opera che subito apparve imponente, in un luogo quasi sperduto e difficile come quello silano. Costituiva una caso perlomeno unico per ciò che riguarda l'architettura religiosa di quel periodo. Nel corso del tempo infatti, ha subito numerosi rimaneggiamento e modifiche, spesso seguendo le tendenze architettoniche dei vari periodi, ma perdendo in questo modo l'originaria struttura architettonica. La prima impronta architettonica che si nota dell'Abbazia Florense, e certamente di marca Romanica. L'impianto del complesso badiale, è di forma quadrata, con al centro un grande chiostro ad archi ogivali. La pianta del monastero è invece a croce latina, con l'abside di forma rettangolare orientato verso oriente. Fra gli ultimi stili architettonici della quale abbiamo testimonianza, prima dell'ultimo restauro del 1989, vi è lo stile Barocco. L'aver apportato questo importante, e per sotto certi punti d'aspetto, poderoso cambiamento all'interno dell'Abbazia, vi è la forte concentrazione ed applicazione che tale stile architettonico ha avuto sull'intero patrimonio religione di San Giovanni in Fiore. Dal 1600 in poi, praticamente tutti gli edifici di culto posti nell'abitato cittadino, hanno subito interventi che ne hanno cambiato e rivoluzionato gli interni. Lo stile Barocco è stato lo stile più attuato, anche perché in quel periodo l'intera collettività silana, viveva un momento di profuso sviluppo economico. Lo stile barocco è poi passato indenne negli ultimi secoli, giungendo a noi così come praticamente lo si presentava più di quattro secoli fa.

Tradizioni : Maestri nella cucina

IL BERGAMOTTO Il bergamotto è un agrume classificato come Citrus Bergamia Risso,

appartiene alla famiglia delle Rutacee, sottofamiglia Mesperidee, genere Citrus. Il frutto ha forma sferica con peso medio intorno ai 200 gr., il colore a maturazione è giallo. La

maturazione da Novembre a Marzo. Il suo habitat più idoneo ed esclusivo è costituito dalla sottile striscia di terra, lunga poco più di cento chilometri, ovvero tra Villa San Giovanni e Monasterace, in provincia di Reggio Calabria. La coltivazione e la

produzione e commercializzazione della sua essenza, hanno costituito per oltre 50 anni, fino ai nostri giorni, un raro momento di imprenditorialità agricola di respiro internazionale per la Calabria. Oltre gli aspetti culturali, sono rilevanti gli aspetti della commercializzazione dell'essenza che addirittura producono fermenti economici che ancora hanno grande importanza nell'industria profumiera di tutto il mondo. Oltre la valenza economica, la straordinaria ed esclusiva ambientazione del bergamotto nella fascia costiera reggina rende questa coltura una realtà di enorme prestigio per l'intera Calabria.

IL PEPERONCINO Il classico e comunissimo peperoncino calabrese, chiamato in diversi modi, Diavolicchio, peperoncino di Soverato, peperoncino calabrese a mazzetti, è una delle varietà dei peperoncini classici calabresi molto amato ed apprezzato nella nostra cucina, con una piccantezza media, intorno i 30.000 sulla scala Scoville. Grazie al profumo e la piccantezza adatta ai meno veterani del piccante, permette di rendere anche le ricette più semplici, gustose e speciali, particolarmente indicata per la lavorazione sott’olio, rende meglio degli altri come sapore ed aroma. Un prodotto dal sapore piccante e al tempo stesso aromatico in grado di

dare sapore senza bruciare le papille gustative. Per via delle sue eccellenti caratteristiche, è particolarmente

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adatto per la preparazione di numerose ricette e prodotti tipici caratterizzando in maniera inequivocabile la cucina tipica regionale.

IL SUINO NERO La razza Suino Nero di Calabria o Apulo calabrese appartiene al gruppo delle razze suine autoctone italiane e, come dice il suo nome, la sua zona di diffusione corrisponde alla Calabria. La morfologia è quella tipica del suino iberico-mediterraneo con profilo fronto-nasale rettilineo e orecchie rivolte in avanti a coprire gli occhi. Presenta un mantello nero con setole nere abbondanti. L'origine del suino Nero di Calabria o Apulo calabrese[1] non si conosce con precisione, e ciò è dovuto – tra le varie ragioni – alla scarsa presenza di lavori scientifici soprattutto nell'ambito della zooarcheologia. In ogni caso, tra le informazioni raccolte su fonti di diversa natura, si presuppone che il suino Nero di Calabria trovi

le sue origini nell'area mediterranea sud-europea ed africana e che ripetuti incroci genetici fra i maiali primevi locali abbiano condotto alla varietà oggi conosciuta. Tramite questi innesti genetici, verosimilmente, questo suino ha ereditato la sua precocità riproduttiva e l'adattabilità morfologica e funzionale agli ecosistemi e alle forme di allevamento estensivo.

LA ‘NDUJA La 'nduja è un salume Calabrese di consistenza morbida e dal gusto particolarmente piccante. È tipica delle zone dell'altopiano del Poro: Spilinga (in provincia di Vibo Valentia) è il comune d'elezione, ma l'area di produzione è estesa a molti comuni, in particolar modo a quelli del versante tirrenico, a tal punto da fare della 'nduja un alimento tipicamente associato a tutta la Calabria. Preparata con le parti grasse del maiale, con l'aggiunta del peperoncino piccante calabrese, è insaccata nel budello cieco (orba), per poi essere affumicata. Storicamente la 'nduja è un piatto povero,

nato per utilizzare gli scarti delle carni del maiale: milza, stomaco, intestino, polmoni, esofago, cuore, trachea, parti molli del retrobocca e faringe, porzioni carnee della testa, muscoli pellicciai, linfonodi, grasso di varie regioni, ecc. Il successo commerciale è all'origine delle modificazioni attuali nelle diverse composizioni. L’abbondante contenuto di peperoncino con le sue proprietà antisettiche, fa sì che la 'nduja non abbia bisogno di conservanti.

LA SOPPRESSATA La Soppressata di Calabria è un insaccato a denominazione di origine protetta. Si ottiene con carne di maiale tagliata a pezzettoni a cui si unisce pepe nero, finocchio (a grani), sale e peperoncino. Si prepara prendendo le parti migliori della coscia del maiale, tritate e prive di nervi e insaccandole in budello naturale, in particolare bisogna usare il budello proveniente dall'intestino crasso, ben lavato con acqua, vino e limone e messo a mollo. Si usa anche il budello del bue che è più resistente. Si impasta la carne con sale e peperoncino rosso piccante. Una volta riempito il budello, viene forato con uno spillo e legato a mano. Il tutto viene poi lasciato asciugare all'aria.

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IL CAPOCOLLO Il Capocollo è un salume calabrese ottenuto dalla parte superiore del lombo e dalla coppa del maiale, previa salatura e stagionatura della stessa, lavorato secondo la sapiente tradizione salumiera calabrese, conosciuta in tutto il mondo per il pregio dei propri prodotti. La realizzazione di questo salume richiede molta pazienza ed attenzione, e si esegue indicativamente allo stesso modo con gli stessi aromi in tutta la

Calabria. La preparazione avviene contemporaneamente alla pancetta, come precedentemente detto, si ricava dal taglio della carne del lombo superiore e della coppa, esclusivamente di carne suina (tale taglio di carne deve presentare

uno strato di grasso di circa tre, quattro millimetri per mantenerlo morbido durante le fasi di stagionatura).

LA PANCETTA La Pancetta di Calabria DOP ha una forma rettangolare e uno spessore di 3-5 centimetri. La parte esterna ha un bel colore rosso, che può essere accentuato dalla presenza del peperoncino. Al taglio ha un colore roseo, con striature sottili tra grasso e carne magra. Il profumo è intenso e all’assaggio il sapore è deciso e caratteristico, con una buona sapidità. La Pancetta di Calabria DOP è perfetta per il sugo dell’amatriciana o della carbonara nei primi, con la polenta e le verdure, gustata da sola con pane casereccio e formaggi locali, per un antipasto accompagnato da un buon calice di vino locale.

I FUNGHI Le specie di funghi che crescono spontaneamente in Calabria sono centinaia, anche se quelle commestibili sono molto meno. Il regno dei funghi come in ogni area è la montagna, anche se non mancano le eccezioni ed in alcune aree in particolare favoriti dal clima estivo-autunnale di tipo temperato, una certa umidità dovuta alla presenza di fiumi, torrenti e laghi, favoriscono la crescita di queste prelibatezze della natura.

LA CUZZÙPA La Cuzzùpa è un dolce tipico pasquale calabrese, viene chiamato con nomi diversi e forme anche in maniera diversa, con la caratteristica dell'uovo simbolo della Pasqua, prodotto su tutto il territorio della Calabria, prodotto

nella provincia di Reggio Calabria, nella parte meridionale della provincia di Catanzaro e nella provincia di Crotone. Questo dolce pasquale è di origine orientale e simboleggia la fine del digiuno di quaresima: l'uovo è il simbolo della risurrezione di Gesù.

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LA PITTA La pitta è un tipico prodotto di panetteria calabrese. La pitta generalmente è una specialità da forno (tipo una focaccia) preparata con l'impasto per il pane che accompagna tradizionalmente il Morzeddhu alla catanzarisi. Storicamente la pitta era un prodotto secondario del forno, e ritenuto di minor pregio rispetto al pane. La pitta veniva usata come verifica della temperatura ottimale del forno a legna per la preparazione del pane. Il termine pitta non ha un significato univoco in tutta la regione; nelle provincie di Vibo Valentia e Reggio Calabria con pitta si intende una forma di pane "normale", tondeggiante Il prodotto con il buco al centro, da

consumarsi possibilmente in giornata. In provincia di Vibo Valentia è chiamata col nome jettata, letteralmente "buttata", forse ad indicare il fatto che venisse buttata per provare il forno. In contrapposizione per quanto riguarda la durata, il prodotto a più lunga conservazione è invece il "pani tostu" (pane duro) disidratato ottenuto aprendo alcune forme di pane e lasciandole nel forno ancora caldo per una notte; così trattato esso poteva durare varie settimane e si poteva consumare bagnandolo velocemente sotto l'acqua in uno scolapasta o duro, per accompagnare salumi, formaggi, o anche come biscotto nel latte a colazione o come alimento per i bambini, se cotto ottenendo una pappa.

IL TORRONE Il torrone gelato (turruni gilatu in dialetto locale ed in lingua siciliana) è un dolce caratteristico del reggino, e più in particolare di Reggio e Bagnara, nonché della città e della provincia di Messina. È detto

anche torrone di Reggio Calabria e non va confuso con il torrone di Bagnara, che è una specialità differente. A dispetto del nome, non è un gelato, bensì una sorta

di torrone molto morbido, costituito da un impasto di essenze aromatizzate di diversi agrumi, e zucchero fondente a vari colori, a cui vengono aggiunti canditi e mandorle; il tutto viene poi ricoperto da una camicia di cioccolato. È tradizionalmente legato alle feste natalizie, ma viene prodotto tutto l'anno.

LE PATATE DELLA SILA La patata della Sila (patati da' a Sila in dialetto calabrese) è una varietà di patata coltivata sull'altopiano della Sila, in Calabria. Dal 30 aprile 1998 fino al 9 ottobre 2010 ha fatto parte dell'albo dei prodotti agroalimentari tradizionali calabresi, ed è stata in seguito riconosciuta come prodotto IGP conquistando il marchio europeo. È iscritta nell'albo dei prodotti di montagna. I primi riferimenti alla coltivazione della patata della Sila si trovano nella Statistica del Regno di Napoli del 1811. Certo è che la coltivazione della patata sull'altopiano silano è da sempre un'attività tradizionale e ha un ruolo importante

nell'economia locale. A metà degli anni cinquanta, per porre un certo ordine nella coltivazione del tubero, viene fondato il "Centro silano di moltiplicazione e selezione delle patate da seme" (CE.MO.PA. silano) che si occupa principalmente di diffondere semi certificati. Vengono tuttora coltivate diverse varietà di patata della Sila: Agria, Désirée, Ditta, Majestic, Marabel e Nicola. Alcune varietà sono olandesi (Agria, Désirée). L'antico tubero locale era caratterizzato dalla buccia violacea e la pasta bianca. La caratteristica organolettica principale della "Patata della Sila" è quella di possedere una percentuale di amido superiore alla media. Ciò rende il

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tubero calabrese più nutriente e soprattutto più saporito delle altre patate italiane. A conferirle questa caratteristiche è l'areale di produzione della Patata che, coltivata sopra i 1000 metri di altezza dal livello del mare, le fa assumere l'alta percentuale di amido da essa contenuto, rendendola più saporita e con una polpa più consistente che necessita di tempi di cottura più lunghi. È una patata di alta qualità con forti connotazioni organolettiche, caratteristiche date dall'essere l'unico prodotto di alta montagna coltivato nel centro del Mediterraneo. La produzione di alta montagna, e il notevole sbalzo termico che subisce il prodotto, ha reso la buccia della patata più protettiva e con una maggiore capacità di resistenza ad attacchi batterici.

IL CACIOCAVALLO

Il caciocavallo è un formaggio stagionato a pasta filata tipico dell'Italia meridionale di forma tondeggiante, a "sacchetto", prodotto con latte particolarmente grasso di vacche podoliche, con l'aggiunta di solo caglio, fermenti lattici e sale. Per la sua conservazione è talvolta fatto uso di paraffina (sostanza derivata dal petrolio che ha lo scopo in genere di far scivolare un qualcosa su una superficie). Queste mucche vengono allevate allo stato brado, quasi come fossero pecore, pascolando nella macchia mediterranea fino alle steppe appenniniche in luoghi ricchi di arbusti e piantine di

sottobosco. La presenza di piante aromatiche nella zona dove si è nutrito l'animale caratterizza le sue note aromatiche e i suoi profumi, tanto che, a titolo esemplificativo, in primavera esso assume un caratteristico colore rosato dovuto alle fragoline di bosco ingerite dalle bestie, e dai camparini. Tipico di tutte le regioni che formavano il Regno delle Due Sicilie, ebbe una tale fama, da ispirare anche modi di dire popolari, come ad esempio "far la fine del caciocavallo", in analogia alla sua forma strozzata da una corda nella parte alta. Le varietà più conosciute sono quelle del caciocavallo Silano, del caciocavallo siciliano, che a sua volta può essere caciocavallo di Godrano, e del caciocavallo podolico e quello del Molise con il caciocavallo di Agnone. Caciocavallo viene menzionato per la prima volta da Ippocrate nel 500 a.C. La prima certificazione ufficiale risale al DPR del 30 ottobre 1955. Il nome di "caciocavallo" sembra derivare dall'uso di appendere le forme fresche, legate a coppie, a cavallo di una trave per farle essiccare. Potrebbe anche derivare dall'uso di lavorare la pasta "a cavalluccio" o dal marchio di un cavallo che veniva impresso sulle forme di caciocavallo durante il Regno di Napoli. Un'altra ipotesi sull'origine della denominazione "caciocavallo" la fa derivare al periodo in cui veniva effettuata la transumanza (migrazione stagionale delle greggi, delle mandrie e dei pastori) e dalla consuetudine dei pastori nomadi di cagliare direttamente nei campi il latte munto e di appendere le forme di formaggio, in coppie, a dorso di cavalli per venderli o barattarli nei paesi attraversati. In uno scritto napoletano dell'Ottocento è riportato che nei mercati cavalli e asini erano ornati di forme di caciocavallo accoppiate, anche se esistono diverse interpretazioni possibili sui motivi di quest'usanza e sulla sua rilevanza etimologica. In realtà, molti studi condotti partendo dalla constatazione dell'esistenza nei Balcani, fino dal XV secolo, di un diffusissimo formaggio di vacca chiamato Kashcaval, induce a pensare che il nome italiano e la tipologia del formaggio derivino in qualche modo dall'antenato Balcano/Ottomano. In tutta l'area ottomana e oggi soprattutto nella zona che va dalla Turchia alla Bulgaria, in Kashcaval è il formaggio più prodotto e consumato e di qui esportato verso paesi ex ottomani. Sembrerebbe che il nome abbia relazione con il termine ebraico Kasher, cioè puro/permesso dalla legge giudaica, ed infatti in varie zone del mondo ex ottomano si parla di questo formaggio come del formaggio degli ebrei, che lo avrebbero portato in Turchia a cavallo del 1500, dopo l'espulsione dal regno di Spagna e provenendo dalla Mancha, regione che oggi produce il celebre queso Manchego, peraltro a base di latte di pecora. L'ingenua ipotesi che il nome italiano di caciocavallo derivi dal fatto che fosse in qualche modo collegato agli equini, appare in effetti estremamente debole, tuttavia ha curiosamente trovato accoglienza ampia, anche in pubblicazioni dotte e in manuali ed enciclopedie.

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IL TARTUFO GELATO Il tartufo di Pizzo è un prodotto tipico della pasticceria calabrese. Si tratta di un gelato alla nocciola che viene modellato, rigorosamente nel palmo della mano, a forma di semisfera con un cuore di cioccolato fondente fuso e ricoperto da un spolverata di cacao amaro in polvere e zucchero. È stato inventato negli anni '50 dello scorso secolo quasi certamente ispirandosi all'omonimo cioccolatino della tradizione torinese commercializzato dalla Talmone, prodotto con gli stessi ingredienti e all'epoca popolarissimo.A questo dolce tipico sono ispirati vari tartufi industriali che non hanno niente a che fare con quello artigianale. La produzione è tradizionalmente artigianale ed è il primo gelato in Europa ad aver ottenuto il marchio IGP. Nel 1940, il maestro pasticcere messinese Dante Veronelli rileva dal napitino Jannarelli nel centro di Pizzo il Gran Bar Excelsior, che in seguito cambierà il nome in Gelateria Dante proprio in onore al suo primo proprietario, per proseguire l'attività imprenditoriale si avvale della collaborazione di un giovane pasticcere di belle speranze anche lui di Messina, Giuseppe De Maria, al secolo "Don Pippo". I due grazie alla genialità produttiva del secondo e a quella imprenditoriale del primo riescono in poco tempo ad attirare l'attenzione per la grande qualità e il gusto dei loro prodotti. Il genio dei due artigiani si esprime all'interno del laboratorio di produzione, al termine della seconda guerra mondiale. A seguito della morte del Veronelli, il De Maria rimane l'unico proprietario dell'esercizio. Il tartufo, nella sua forma attuale è nato a Pizzo dentro il laboratorio della Gelateria Dante (nel 1952 circa) per puro caso, artefice di questa innovazione proprio "Don Pippo" il quale in occasione di un matrimonio patrizio, avendo esaurito gli stampi e le forme per confezionare il gelato sfuso per rifornire i numerosi invitati del matrimonio, sovrappose nell'incavo della mano una porzione di gelato alla nocciola ad uno strato di gelato al cioccolato, inserì quindi all'interno del cioccolato fuso ed avvolse il tutto in un foglio di carta alimentare da zucchero dandole la forma tipica del tartufo, il tutto fu messo a raffreddare. Il successo conseguito gli valse l'immediata notorietà. La ricetta originale viene ancora custodita gelosamente dai nipoti del maestro "De Maria". Nel 1950, Giorgio Di Iorgi e Gaetano Di Iorgi, i quali avevano iniziato la loro carriera lavorativa dentro la gelateria con il ruolo di camerieri, cominciano ad apprendere l'arte della produzione del gelato; quindici anni dopo, in seguito al pensionamento del maestro De Maria, Giorgio Di Iorgi ne rileva l'attività della Gelateria Dante, mentre Gaetano Di Iorgi, prosegue la produzione del Tartufo di Pizzo, nell'attività di fronte ("Bar Ercole") che acquisì insieme a suo fratello Antonio, nel 1965. Da questo momento in poi le attività, Bar Dante e Bar Ercole; vengono gestite a conduzione familiare, tramandandosi da padre in figlio la ricetta segreta per la realizzazione dei prodotti di gelateria.

IL PECORINO Il pecorino crotonese è un formaggio tipico dell'intera provincia di Crotone ottenuto con latte misto ovi-caprino. Ha ottenuto il riconoscimento della denominazione di origine protetta (D.O.P.)

Il pecorino crotonese è prodotto dai comuni della provincia di Crotone, dodici Comuni della provincia di Catanzaro: Andali, Belcastro, Botricello, Cerva, Cropani,

Marcedusa, Petronà, Sellia, Sersale, Simeri Crichi, Soveria Simeri e Zagarise; da tredici Comuni della provincia di Cosenza: Bocchigliero, Calopezzati, Caloveto, Campana, Cariati, Cropalati, Crosia, Mandatoricco, Paludi, Pietrapaola, San Giovanni in Fiore, Scala Coeli, Terravecchia. Viene prodotto con latte di pecora proveniente dalla razza Gentile di Puglia e un terzo di latte caprino, e la sua

stagionatura dura fino a due anni. Può essere consumato come antipasto o altri prodotti tipici della cucina calabrese. Viene consumato anche come ingrediente da cucina e può essere grattugiato per accompagnare i primi piatti.

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LA CIPOLLA ROSSA La cipolla rossa di Tropea è il nome dato alla cipolla rossa (Allium cepa) coltivata tra Nicotera, in provincia di Vibo Valentia, e Campora San Giovanni, nel

comune di Amantea, in provincia di Cosenza, e lungo la fascia tirrenica. Viene prevalentemente prodotta tra Briatico e Capo Vaticano. È composta da varie tuniche concentriche carnose di colorito bianco e con involucro rosso; è coltivata in queste zone da oltre duemila anni, importata

dai Fenici, e da oltre un secolo, ora abbinata al turismo, contribuisce allo sviluppo socio-economico della zona. La dolcezza dell'ortaggio pare dipenda

dal microclima particolarmente stabile nel periodo invernale, senza sbalzi di temperatura per l'azione di mitezza esercitata dalla vicinanza del mare, e dai

terreni freschi e limosi, che determinano le caratteristiche pregiate del prodotto. La forma è rotonda od ovoidale. Plinio il Vecchio, nella Naturalis Historia, fa riferimento alla cipolla rossa come rimedio per curare una serie di mali e di disturbi fisici. Il gusto è determinato in particolare dalla consistente presenza di zuccheri tra i quali glucosio, fruttosio, saccarosio. Contribuisce alla dieta alimentare con circa 20 calorie per 100 grammi di prodotto fresco. Questo ortaggio contiene vitamina C, vitamina E, ferro, selenio, iodio, zinco e magnesio.

LE FRITTOLE Il termine frittole di maiale (in dialetto reggino frittuli, raramente al singolare frittula ) indica un piatto tipico della città di Reggio Calabria e zone limitrofe. I frammenti di carne di piccole dimensioni che si depositano sul fondo della pentola di bollitura vengono comunemente detti curcuci. Le frittole di maiale sono tipiche della città di Reggio Calabria. Al di fuori di essa (se non nel diretto circondario) esistono preparazioni simili, prodotte con tecniche largamente differenti, che assumono nomi come risimoglie, scarafuagli o sprinzuli. L'uccisione del maiale, in Calabria, era un vero e proprio avvenimento collettivo, di

tipo liberatorio e allo stesso tempo propiziatorio, durante il quale il pericolo delle forze della natura veniva imprigionato in un rito simbolico e culturale. In passato, infatti, il maiale calabrese era detto il nero, appellativo che sta a rappresentare non solo il colore, ma, al pari del cinghiale, anche lo stato selvaggio nei boschi. Il tipico detto popolare ru pòrcu non si jètta nènti ("del maiale non si butta via nulla") sta a indicare che durante tutta la fase dell'uccisione e della macellazione si trae qualcosa di utile da ogni parte dell'animale. Le frittole a Reggio Calabria vengono consumate tradizionalmente in occasione della Festa della Madonna della Consolazione, patrona della città e più in generale durante alcuni periodi di festività (Natale, e soprattutto nel periodo di Carnevale, particolarmente nel giorno di Giovedì Grasso). In questi periodi, lungo le strade del centro cittadino è possibile sentirne il profumo che contribuisce a creare il pittoresco e caratteristico ambiente festivo popolare. Tradizione vuole che il maiale si macelli solo nel periodo compreso fra la festa della Patrona e il martedì grasso. Naturalmente in epoca recente, per motivi commerciali, questa usanza è disattesa, ma dopo Carnevale (specie nel periodo della Quaresima e ancor di più nei mesi caldi) è difficile che vengano prodotte frittole. Il giorno della macellazione del maiale, risorsa di lusso per molte famiglie, ancora oggi nei paesi di montagna sopravvive un'antica usanza di fare la serenata, festeggiando con amici e parenti l'assaggio delle rinomate "frittuli". Si lasciando le parti più nobili per la conservazione nei vasi con la sugna. In queste occasioni anticamente il padrone di casa faceva assaggiare diversi pezzi di carne agli ospiti ed ogni pezzo aveva un significato differente, ad esempio la coda del maiale si dava alle donne incinte per propiziare la nascita di un figlio maschio. Ancora oggi è molto diffuso un antico proverbio calabrese sul maiale: "Cu si marita è cuntentu nu jornu, cu ammazza u porceju è cuntentu n'annu" (Chi si sposa è contento un solo giorno, chi ammazza il maiale è contento un anno intero)

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‘U MORZEDDHU 'U morzeddhu è un piatto tipico catanzarese a base di carne di vitello. Per molto tempo, tra il 1800 fino al 1970 circa, il morzello era lo spuntino delle 11,00 di manovali e operai. Tale pietanza è considerata un vero e proprio simbolo della città di Catanzaro. La nascita di questo piatto è legato ad una vecchia leggenda catanzarese, secondo la quale una donna che lavorava come serva in una famiglia molto facoltosa, aveva enormi difficoltà nel far quadrare i conti legati al bilancio domestico ed un giorno, per far fronte a tali problemi, ideò un piatto a base di carne: un piatto sostanzioso, che potesse essere conservato a lungo e che permettesse di utilizzare tutte le interiora del vitello che normalmente venivano scartate dal cuoco ufficiale della famiglia presso cui lavorava. Ideò quindi, dopo tante prove, il morzello e lo chiamò così perché è tagliato in piccoli pezzi (in dialetto catanzarese morzha morzha). Gli ingredienti originali di questo piatto sono: il cuore di vitella (chorettu), i polmoni, la milza, il fegato, lo stomaco, la trippa, l'intestino (questo ingrediente non è più utilizzato perché per essere pulito alla perfezione richiede particolari procedimenti ed esperienza), concentrato di pomodoro, peperoni piccanti, sale, origano, e alloro (nella vera ricetta Catanzarese l'alloro non viene usato, neanche l'origano viene aggiunto al sugo ma si fa un mazzetto e con questo si rimesta il preparato). Può essere servito nel piatto o, come vuole la tradizione, nella pitta detta "a ruota di carro" (pane casereccio di forma circolare con una circonferenza interna abbastanza ampia, così che il pezzo tagliato risulti lungo e stretto). Una variante del morzello originale è il morzello cento fogli fatto solo con la trippa di vitello. Spesso il morzello viene confuso con altri piatti calabresi simili, a base di carne come la stigghiolata e il soffritto di morzello. La stigghiolata ha come ingrediente principale i stigghioli, frattaglie di capretto o agnello, che vengono cucinati in un sughetto di pomodoro concentrato fresco, battuto di lardo o olio extravergine di oliva e peperoncini piccanti, insieme con cuore, fegato, polmone e stomaco di capretto o di agnello tagliati a strisce e avvolti attorno a rametti di rosmarino nelle "budelline". Il soffritto invece è fatto con la carne di maiale soffritta e cotta nel vino rosso con l'aggiunta di origano, peperoncino, concentrato di pomodoro, alloro e sale. Il soffritto catanzarese doc è composto da: cuore, polmoni, lingua e fegato tutti spezzettati e rigorosamente di maiale; con l'aggiunta di spezie e si cucina come il morzeddhu.

LA PIGNOLATA GLASSATA La pignolata, conosciuta anche come pignolata glassata, è un dolce tipico della città di Messina e della città di Reggio Calabria. La specialità dolciaria è inclusa nella lista siciliana dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani (P.A.T) del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali (Mipaaf) con la denominazione di pignolata di Messina. La pignolata glassata è inserita nei prodotti di tradizione Reggina nell'elenco dell'Assessorato Caccia e Pesca della Regione Calabria. Il dolce è ampiamente diffuso anche nella Sicilia orientale (in cui sono presente diverse varianti come quella ragusana) e nell'area calabrese che

va da Melito a Scilla dove vi è una variante con glassa al gusto di bergamotto, oltre alla tradizionale con cedro e cioccolato. È un dolce tradizionalmente tipico del periodo di carnevale, tuttavia oggi lo si produce durante tutto l'anno. Si presenta come un mucchietto di pigne di varie dimensioni ricoperte di glassa bianca al limone e scura al cioccolato e dall'odore di essenza di cedro (o bergamotto) e cioccolato vanigliato. La pignolata glassata deriva direttamente dalla pignolata al miele, che prevedeva un mucchietto di "pigne" fritte ricoperte da miele (versione ancora diffusa nei comuni montani delle due province). La pignolata glassata nasce nel periodo della dominazione spagnola, quando su commissione di famiglie nobili si rielaborò la precedente ricetta "povera" sostituendo la copertura con una dolcissima glassa aromatizzata al limone ed al cacao. Oggi la pignolata, che nel corso dei secoli si è diffusa in tutta l'area dello Stretto, è il dolce tipico più apprezzato della

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zona e vi è prodotto in grandi quantità per l'esportazione in Italia ed all'estero. Giuseppe Polimeni, nel suo testo "Quando a Reggio non c'erano i cornetti" afferma che "Il Carnevale, si diceva, era la festa della trasgressione, dell'illiceità, del superamento dell'atavica fame. Sulla tavola trasbordavano i maccarruni i zita con ragù di maiale (rassu e mariu), pasta o furnu, polpette che piacevano ai bambini, ma questi aspettavano soprattutto la distribuzione generosa della pignolata. Questo dolce era composto da palline di pasta fritte nello strutto e poi assemblata in mucchietti ricoperti con glassa di cioccolato ed al limone, oppure composto in piccoli coni impastati e ricoperti con il miele e decorati con confettini colorati.

LA ZIPPULA La Zippula, "zzippuli", (pl. zippuli), in italiano Zeppola è un tipico prodotto casereccio del territorio della Provincia di Reggio Calabria, del basso Jonio catanzarese e della Provincia di Vibo Valentia che si prepara nel periodo di Natale, nelle festività di Pasqua e Carnevale, inoltre vengono preparate durante l'anno in occasione di feste di famiglia, altre feste e anche nelle numerose sagre estive di paese. Le "Zeppole", si preparano con l'impasto di patate, farina e lievito e fritte, senza ripieno e con il ripieno

di acciughe dissalate, o baccalà o stocco (pescestocco). Da non confondere con il dolce calabrese Zeppola, preparata con zucchero, miele e uvetta. Deriva dal latino tardo zippula cioè dolce fatto di pasta e miele.

RICOTTA AFFUMICATA Le aziende zootecniche che producono le ricotte sono a conduzione familiare. Anticamente molti pastori che abitavano nelle

zone montane distanti dai centri abitati, conservavano le ricotte fresche con la tecnica dell'affumicatura e una volta a settimana le portavano al mercato per la vendita. Una tradizione molto usata è quella di regalare la Ricotta. Molti emigrati al rientro delle ferie la offrono agli amici e ne fanno consumo personale, per lungo tempo infatti il prodotto si

conserva bene sottovuoto in frigo. Viene commercializzato direttamente dalle aziende zootecniche nel comprensorio di Mammola.

La Ricotta è molto richiesta altresì sui mercati regionali, nazionali ed esteri e non si riesce a soddisfare le tante richieste dei consumatori. Da ricordare a Mammola la “Festa della Ricotta affumicata” che si svolge la prima domenica di giugno e la “Festa dei Sapori” che si svolge ogni anno il 7 dicembre, nella liete circostanze si degustano, con la Ricotta affumicata fatta dai pastori, altre pietanze tipiche, dagli antichi sapori ormai dimenticati. La “Ricotta affumicata di Mammola” viene utilizzata: a fettine negli antipasti tipici calabresi; grattugiata sulle paste caserecce, quando la ricotta è più dura; a fine pasto, da sola o con un misto di formaggi, accompagnata con vino rosso. I capi caprini censiti nei territori del Comuni sono: Mammola 2850. Il latte caprino viene versato in un pentolone e riscaldato girandolo col mestolo. Dopo averlo tolto dal fuoco si aggiunge il caglio, si rigira ancora e si lascia riposare per più di un'ora. Si rompe la cagliata e dopo ulteriore attesa, con le mani si estrae il formaggio. Si porta il pentolone sul fuoco e si ricomincia a mescolare con un bastoncino di essenza locale a punta ramificata (minaturi). Le abili mani del casaro strappano quello che dopo opportuno trattamento diventerà il saporito formaggio caprino locale. Quando il latte incomincia a bollire, si immerge un rametto di fico tagliuzzato e si gira con il bastoncino, sempre per un lato, ancora per pochi minuti. Dopodiché la Ricotta fresca è pronta, la si toglie dal fuoco e con un cucchiaio di legno appositamente prodotto per questa delicata fase della lavorazione, viene messa nelle forme (fasceji) e quindi avvolta e protetta da profumate felci di montagna. La Ricotta il giorno dopo è tolta dalle forme e salata. Poi viene messa in un'impalcatura alta circa un metro e mezzo (1,5 m), dal piano di fuoco del focolare, su un letto di cannicci di castagno coperti da felci di montagna. Si accende sotto, un fuoco a fiamma moderata, usando legna fresca di castagno oppure di erica, in modo da produrre un fumo denso e profumato che va ad investire direttamente, da sotto, le ricotte. L'operazione di affumicatura dovrà durare mediamente 24 ore,

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girando le ricotte dopo le prime 12, se si preferiscono di consistenza morbida. Se invece si preferiscono più dure e consistenti, il tempo di affumicatura si allungherà in maniera opportuna. La Ricotta Affumicata di Mammola è da considerarsi un prodotto ricavato con tecniche molto antiche ed artigianali. La bollitura del latte viene effettuata con il gas, sono in pochi quelli che ancora usano il fuoco a legna. I contenitori delle ricotte fresche si chiamano fasceji (fatte di junco) di forma cilindrica, la mastreja è la tavola per la scolatura della ricotta, il minaturi è un bastoncino a punta ramificata. I locali sono ambienti che si usano esclusivamente per la trasformazione del latte, nelle masserie. I Locali dove avviene la produzione sono ambienti che si usano esclusivamente per la trasformazione del latte.

LE MELANZANE RIPIENE Le Melanzane ripiene, “Melangiani chjini” o “Mulingiani chini”, vengono chiamati con nomi diversi. È una pietanza molto usata nella zona della Locride, nell’area metropolitana di Reggio Calabria e in molti comuni della Calabria, varia nella preparazione a seconda le tradizioni di ogni Comune e dalle zone montane e marine Le tradizionali “Melanzane ripiene” sono un piatto tipico, semplice e gustoso della cucina calabrese e si preparano con la polpa delle stesse melanzane, in particolare nel periodo estivo. Il sapore viene determinato dall’impasto e dalle giuste quantità degli aromi naturali, in particolare dal Formaggio Caprino, che esalta il

gusto. Le Melanzane, vengono anche preparate, con il ripieno dello stocco (stoccafisso), ricotta, verdure, patate ecc., variando di gusto. La pietanza fa parte della rinomata dieta mediterranea. Si utilizzano negli antipasti calabresi o come secondo piatto e possono essere gustate calde, tiepide o fredde. Vengono scelte le melanzane di media grandezza, si tagliano per lungo a metà e si mettono a bollire, in abbondante acqua. Quando si raffreddano, si svuotano della polpa lasciando intatto l’involucro. La polpa si mette in un recipiente per preparare l’impasto con il pane ammollato, le uova, il formaggio caprino, il peperoncino e l’aglio tagliuzzati, prezzemolo e/o basilico, sale e si mescolano per ottenere un impasto morbido e compatto per il ripieno. Dopo si riempiono le melanzane tagliate a metà, e in una padella con abbondante olio d’oliva, si friggono le melanzane, appena dorate si tolgono e si mettono su carta assorbente da cucina in un vassoio. Le Melanzane ripiene, si preparano in particolare in molte famiglie, vengono serviti nei ristoranti, trattorie e nelle aziende agrituristiche, negli antipasti o come secondo piatto. Si possono acquistare nelle rosticcerie e tavole calde. Si accompagnano con vino rosso locale o calabrese.

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CHIESA DELL’IMMACOLATA

La chiesa madre di Montepaone è dedicata a Maria Immacolata e si trova nell’omonima piazza, dove

troverete anche il famoso Olmo della Libertà. La Chiesa fu costruita nel Cinquecento, sebbene gli

eventi naturali e l’usura del tempo abbiano reso necessari numerosi interventi di ristrutturazione.

Dopo il 1783, anno del terribile sisma che distrusse gran parte della Calabria, la chiesa

dell’Immacolata fu del tutto inagibile e si dovette procedere alla sua ricostruzione. Viste le condizioni

economiche della cittadina non certo floride, si dovette procedere gradualmente, grazie anche alla

collaborazione di tutti i montepaonesi. Si narra, ad esempio, che per portare fino alla piazza la pietra

Redattore Valerio Diaco

Arte a Montepaone

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necessaria ai lavori, i cittadini diedero vita ad un passamano lungo otto chilometri. Oggi la chiesa ha

l’aspetto che le venne conferito in quell’ultima importante campagna di ristrutturazioni, datata 1846.

La facciata, dallo spiccato sviluppo verticale, è suddivisa in due livelli da un marcato cornicione ed ha

due imponenti torri campanarie addossate ai suoi lati che la rendono riconoscibile anche a grande

distanza. Molto belli anche le porte delle tre navate, il portale in pietra lavorata di quella centrale ed

il rosone ovoidale che lo sormonta. Al suo interno troverete molte decorazioni riconducibili all’arte

partenopea del XVII e XVIII secolo, ma soprattutto due tele di grande valore artistico, entrambe

seicentesche: una raffigura la Madonna del Rosario ed è attribuita al pittore Ippolito Borghese,

mentre l’altra, di Giovanni Bernardo Lama, ritrae la Madonna Immacolata a cui è intitolata la Chiesa.

Parco archeologico di Scolacium - Roccelletta di Borgia - (CZ)

Nel territorio del comune di Borgia, poco più a sud di Catanzaro Lido, si estende l’area del Parco archeologico di Scolacium, costituito nel 1982 da parte del Ministero per i Beni Culturali, grazie all'impegno della Soprintendenza Archeologica della Calabria. I ritrovamenti archeologici, rinvenuti sul luogo, sono la testimonianza che trattasi della antica colonia greca di Skylletion che successivamente vide il sorgere della romana Scolacium. Secondo gli studiosi, altri indizi, farebbero pensare all’esistenza del borgo, ancor prima della venuta dei greci. Il parco conserva al suo interno, all’ ombra dei verdi ulivi secolari, antichissime costruzioni di epoca greco-romana, normanna e diversi reperti archeologici di notevole interesse storico-artistico, ceramiche di età remote e numerose statue acefale. All'ingresso del parco, imponente si erge la Roccelletta di Borgia, basilica dedicata a Santa Maria della Roccella, chiamata anche Roccelletta del vescovo di Squillace. Una costruzione fatta in mattoni rossi, di epoca incerta, poiché diverse sono le fasi di costruzione della stessa, come facilmente si può evincere dall’osservazione della sua composizione, varia e non uniforme. Sono mescolati insieme diversi stili architettonici, quello romanico, bizantino e arabo. Secondo alcuni sarebbe stata edificata dai Normanni tra l'XI e il XII secolo, e probabilmente non venne mai portata a compimento. Nelle murature delle parti più alte della costruzione, si nota che sono stati riutilizzati materiali edilizi della città romana. All’interno, la costruzione si presenta vuota e priva di opere d’arte, con un’unica e grande navata che ha alla sommità l’abside divisa in tre parti e raggiungibile mediante ampie gradinate. Continuando la piacevole passeggiata all’interno del parco si può ammirare il Teatro Romano, di dimensioni ragguardevoli e di cui sono ben visibili le gradinate, e il vecchio Foro Romano, la piazza pavimentata con grandi mattoni laterizi, la sede del senato, un monumento religioso, una fontana L’intera area del parco, che conserva ancora sotto di se la maggior parte della storia di diverse civiltà che si sono succedute nel corso dei secoli, è un’area ricca, di notevole valore storico culturale e artistico, in grado di offrire molto ad un tipo di turismo socio-culturale che si affianca a quello balneare delle belle coste ancora vergini di Borgia. Capo Colonna

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Capo Colonna (Lacinium in Latino) è il promontorio che determina il limite occidentale del golfo di

Taranto, dove sorgeva il tempio dedicato ad Hera Lacinia. Fino al XVI secolo era chiamato "capo delle

Colonne" perché erano rimaste al loro posto molte colonne del tempio di Hera Lacinia. Anticamente il

suo nome era Lacinion (Λακίνιον in greco). La sua importanza risiede nella quantità di elementi storici

che sono legati a questa punta di terra protesa sullo Ionio. Sfortunatamente venne utilizzato come

cava di pietre lavorate per il castello, il porto e i palazzi nobiliari locali fino a che solo una solitaria

colonna rimase in vista dei naviganti, eretta fra i ruderi

Proprio la caratteristica di limite facilmente identificabile rese il capo Lacinio punto di riferimento per la navigazione e per la definizione di confini. Questo metodo di indicare i limiti della navigazione e le aree di influenza era generalizzato e derivava dal tipo di navigazione "sottocosta" dell'epoca; anche i trattati fra Roma e Cartagine prendevano un promontorio (capo Bello) come limite insuperabile dalle navi Romane.

Con la fondazione di Crotone da parte di coloni greci nell'VIII secolo a.C. l'area dell'antico Capo Lacinio, già considerata sacra dalle popolazioni autoctone, viene ulteriormente nobilitata dalla costruzione del famoso tempio dedicato a Hera Lacinia, divinità greca, protettrice delle donne e della fertilità e che viene nella mitologia classica abbinata alla romana Giunone. Queste due principali qualità: la facile riconoscibilità dal mare e la presenza del tempio fecero convergere sul capo Lacinio le pagine della storia.

Un riferimento alla funzione di "pietra di confine" ci viene fatta da Tito Livio quando ci informa che le navi romane, per il trattato stipulato nel 303 a.C. con Taranto non potevano superare il capo Lacinio. La mancata osservanza di questo trattato spinse nel 282 a.C. la città greca ad attaccare i romani e successivamente alle guerre pirriche

E sempre Tito Livio ci racconta che gli ambasciatori di Filippo V di Macedonia che stavano venendo in Italia per sottoscrivere il trattato con Annibale, avevano preso terra a capo Lacinio per non usare la troppo ovvia e controllata rotta diretta dall'Epiro a Brindisi

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Cucina calabrese

La cucina calabrese è una cucina povera di origine contadina con numerosi piatti fortemente legati

alle ricorrenze religiose: a Natale e all'Epifania era usanza mettere in tavola tredici portate, mentre a

Carnevale si mangiano maccheroni, polpette e carne di maiale. La Pasqua si festeggia con l'arrosto

d'agnello, i cudduraci e i pani spirituali e così per le altre feste. Ogni evento della vita familiare (nozze,

battesimi ecc.) si festeggia semprecon una cena o un pranzo particolare. Rivestono molta importanza

i cibi conservati, come le acciughe sotto sale, dissalate e messe sotto olio col peperoncino, gli

insaccati di maiale (come la 'nduja e la soppressata calabrese), i formaggi, le verdure sottolio e i

pomodori seccati, che consentivano di sopravvivere nei periodi di carestia, oltre che ai lunghi periodi

d'assedio dei pirati turchi.Oggi nelle aree coltivate si raccolgono ottimi prodotti agricoli, sulle

montagne si producono molti formaggi e sono in crescita la viticoltura e la produzione di olive. Le

ricette calabresi fanno molto uso di verdure, di cui il territorio è fertile: melanzane soprattutto e poi

pomodori, peperoni, cipolle rosse e fave .Un ruolo centrale nella cucina calabrese è occupato dal

pane, curato nella preparazione e negli ingredienti (importante il grano duro), e dalle paste

tradizionalmente fatte in casa; diffuso è anche l'utilizzo di peperoncini, più o meno piccanti, in special

modo in sughi e portate principali.

Piatti principali

.SiCacocciuli ca' pasta, pasta con cardi selvatici.

Cuccìa - Piatto tradizionale preparato in occasione delle feste patronali dei paesi della presila cosentina. Il piatto è a base di grano, carne di maiale e/o di capra.

Maccarrunicasarsa è un piatto tradizionale calabrese che si mangia a Condofuri, Melito Porto Salvo e a Bova Marina

Fileja o Fhilatierj (tipici di tutta la Calabria, conosciuti con nomi diversi nelle varie zone: maccarruni i casa, scilatelli, maccarruni a firrettu ecc.) pasta simile ai maccheroni è fatta in casa con il tipico ferretto calabrese a sezione quadrata (u' f'rzuh'); nel vibonese e nel reggino per la preparazione si usa, o almeno si usava, avvolgerli con i gonaci, ovvero gli steli legnosi del fiore della disa (Ampelodesmosmauritanicus, gùtimu in calabrese). Si abbinano ottimamente con la

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carne di capra. Nel vibonese un abbinamento tradizionale è quello coi ceci. Nel reggino si condiscono con il ragù di maiale ed a Bova è tipico il ragù di capra che de essere lastra cioè che non abbia conosciuto il maschio.

Lagane e ciciari - Tagliatelle tipiche di tutta la Calabria, specie quella di origini magno-greca, condite con ceci.

Maccarrunii'casa, i Maccheroni appartengono alla più antica tradizione calabrese e sono da considerarsi i capostipiti della pasta che dalla Calabria si è poi diffusa nella Penisola. Preparati con un impasto di semola e acqua, venivano modellati in antico intorno ad uno stello di un'erba particolare, oggi intorno ad un ferro da calza o, più spesso, con macchine industriali, e conditi con ricchi sughi a base di capra, manzo o maiale (Maccarrunicu'zucura Crapa, ru boi o ruporcu). Si completano con una grattugiata di ricotta salata.

Maccarruni alla pastura[3]

Pasta a lufùrnu (nella Calabria cosentina e catanzarese) o Pasta 'ncasciàta (nel reggino), rigatoni corti o paccheri conditi con ragù di carne, polpettine e salumi, arricchiti da uova sode e caciocavallo o provola ed abbondante formaggio pecorino. Vengono incassati ('ncasciàti) tra due o più strati di melanzane fritte in una teglia, completando la cottura in forno.

Pasta ca' muddhìca e alici (pasta con pan grattato e acciughe) piatto estremamente semplice e saporito costituito in genere da spaghetti conditi con alici e olio legati da una manciata di pane grattugiato ed abbrustolito.

Pasta e fagioli alla paisana, (fagioli. patate, broccoli e pasta bolliti insieme e poi condite con olio d'oliva al piatto)[4]

Pasta e Lambà: Pasta con lumache che viene mangiata nel periodo di ottobre e novembre

Pasta e patate ara tijeddra (pasta e patate al forno, piatto tipico di Cosenza cotto a crudo con tutti gli ingredienti: penne a candela, patate, sugo, parmigiano grattugiato, aglio, origano e sale). Nel reggino su una base di cipolla, olio e pomodoro, fresco o conservato in bottiglia, con sedano, peperoncino rosso e d'estate anche basilico, si cuociono le patate per un'ora circa e poi si aggiunge la pasta "ditali". Si servono con una manciata di pecorino.

Perciatelli cu piscistoccu.

Pulenta chi e brocculi e curcuci, polenta con broccoli e ciccioli.

"Rascatìll" (tipici del cosentino jonico) simili agli strascinati pugliesi preparati "assolutamente" a mano, proprio con le dita: si differenziano per il numero delle dita coinvolte nella creazione "a dujdit" (due dita) fino a "a gott'dit" (otto dita).

Zuppa i cipudduzzi (Calabria centrale e nord), una zuppa di pane e cipolle selvatiche, simili ai lampascioni pugliesi.

"Gnocchi alla maniera cosentina". Si tratta semplicemente di impastare della farina con acqua bollente (cioè portata ad ebollizione). Dall'impasto si ricavano poi degli gnocchi (come se fossero quelli con patate). Si condiscono in genere con un ricco ragù di carne di maiale. È un piatto per i giorni di festa.

Pasta e patati ca' trimmafriggono le patate novelle non sbucciate e tagliate a dadini. Si uniscono in padella, dopo scolate sommariamente, con la pasta corta lessata al dente, con uova sbattute con formaggio pecorino e pepe nero. Si mescola per qualche minuto e si serve all'istante.

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Secondi piatti

Carne

Frittole, sono cotenne e carne di maiale bollite nel grasso dell'animale nella caddara o cardara, tipiche del reggino e delle zone montane della Calabria;

Curcùci o salimorati, tipiche nel reggino, sono pezzetti di carne di maiale, residuati dopo la cottura delle frittole;

Polpette alla mammolese, preparate con l'impasto di carne tritata di maiale, pane ammollato, uova, peperoncino, aglio e formaggio caprino. Dopo con le mani si preparano le polpette a forma di palline di media grossezza, sono tra i piatti tipici più conosciuti ed apprezzat della Calabria;

Bucalàci (chiocciole, lumache), in alcuni posti chiamati anche Vermituri, Vavaluci o Virdelli (questi ultimi una specie di lumaca dal colorito verdognolo).

Capocollo fritto nella 'nduja con la cipolla di tropea (chiamato anche Cap'collufritt' n'da 'ndujaca a cipoll' i tropea in dialetto Calabrese) è un secondo cucinato friggendo il Capocollo nella 'Nduja (tipico insaccato calabrese, specialità di Curinga) aggiungendo poi la Cipolla (Di tropea) e qualche volta del pane o delle melanzane. Spesso si cucina in molte zone della Calabria;

Satizzu o sarzizzu nel reggino o sozizzu o sazizza nel cosentino (Salsiccia calabrese), piccante con peperoncino macinato rosso e finocchietto selvatico o con pepe nero,

Suppizzata, Supprezzata, Surpressata (Soppressata calabrese), ha due diverse tipologie: piccante con peperoncino macinato rosso piccante e, meno frequente, dolce o con pepe nero e finocchietto selvatico,

Ficatu alla rriggitana (fegato alla rriggitana) con cipolla, patate fritte e sfumato con aceto],

Mazzacorde alla cosentina preparate con interiora di agnello (trippa, polmone, cuore, milza, budelline, rete) e condite con aglio, peperoncino rosso piccante, pomodori pelati, basilico, origano, olio vergine d'oliva, e sale.

Morzeddhu (tipico nel catanzarese).

Cervellata(Calabria centrale e nord).

Suffrittu (Soffritto), tipico del Reggino e della Calabria, si prepara con gli interiora e può essere di vitello, capretto, agnello e di maiale. Viene cucinato in padella con pezzi di fegato, rognone, corata, milza e cuore, con abbondante cipolla.

Baccalà alla cosentina, preparato con patate, olive nere, peperoni, salsa di pomodoro, alloro, prezzemolo, sale e pepe;

Pesce spada calabrese si cucina in tantissimi piatti tra cui:

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Stocco alla mammolese - Piatto tipico di

Mammola e della Calabria

Piscispata alla riggitana

Piscispata alla bagnarota

Piscispata 'rustùtucu'sarmurìgghiu, Pesce Spada arrostito con salmoriglio), piatto tipico reggino;

Piscispataa'gghiotta (Pesce Spada alla Ghiotta), piatto tipico reggino;

Bracioletti i Piscispata (involtini di Pesce Spada), piatto tipico reggino;

Pesce Stocco o Stoccafisso, in particolare lo Stocco di Mammola, (incluso nell'elenco Nazionale dei Prodotti Agroalimentari dal Ministero delle Politiche Agricole e Forestali) e anche quello di Cittanova. Lo "stocco" viene cucinato in vari modi, ed è considerato tra i piatti tipici più rinomati della gastronomia calabrese;

Stocco con funghi, lo "stocco" viene cucinato con i funghi al pomodoro o in bianco;

Stocco e fagioli, lo "stocco" viene cucinato con i fagioli e pomodoro nella "tiana" recipiente di terracotta;

Stocco arrostito, lo "stocco" viene arrostito sulle brace o sulla piastra e condito con olio di oliva;

Stocco alla mammolese, preparato con pezzi di "stocco" e patate al sugo di pomodoro, olive e peperoncino, è considerato tra i piatti tipici più famosi della Calabria.

Piscistoccu a 'nzalata (stoccafisso in insalata), crudo, macerato nel limone, sale e prezzemolo;

Piscistoccu alla trappitara (stoccafisso alla frantoiana), tipico del Reggino

Melanzane ripiene con lo Stocco

Ventriceddi i piscistoccu (ventresche di stoccafisso), ripiene di pan grattato accomodato)

Tonno di Reggio "alla bagnarese"

"Sardella" (in dialetto "sardedda"), tipica di Crucoli, Trebisacce (qui denominata à sardicella piccante) e di Cirò ma diffusa in tutta la Calabria, è una pasta cremosa a base di sardine o bianchetti (neonato della sarda) con sale, peperoncino e spezie varie (es. il "finocchietto"). Si utilizza spalmandola sul pane, in tal caso è consuetudine servirla con cipolla fresca, o come condimento per gli spaghetti.

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Turtera di lici (tortino di acciughe)

Turtera di spatula (tortino di pesce bandiera)

Cutuletti i spatula (cotolette di pesce bandiera)

Spatula a brodettu" (pesce bandiera in umido)

Pìpichìni

Polpette di melanzane

Melanzane ripiene, “melangianichjini” o “mulingiani chini”, si preparano con il ripieno della polpa delle stesse melanzane, il sapore viene determinato dall’impasto e dagli aromi naturali. Le Melanzane, vengono anche preparate, con il ripieno dello stocco (stoccafisso), ricotta, verdure, patate, salsa di cipolla e pomodoro ecc…

Melanzane a scapece

Patate 'mpacchiuse-(piatto tipico della Calabria nord-centrale. La versione cosentina prevede nella frittura anche cipolla e peperoncino e le varianti aggiuntive di peperoni e salsiccia)

Pìpichìni (Peperoni ripieni)

N'ghiambara (frittata di cipolle tipica della città di Cosenza)

Gianfùttiri (peperonata) a base di ortaggi, composto da varie verdure cucinate separatamente, poi soffritte in olio e spruzzate di aceto raccolte in un unico piatto -(piatto tipico della Calabria nord-centrale)

Vruacculi i rapa e sazizza (Broccoli di rapa fritti e salsicci)-(piatto tipico cosentino)

Vruacculi ara tijeddra (pirofila in ceramica) broccoli calabresi bolliti e poi infornati con olio, aglio, pecorino e pan grattato (piatto tipico del nord della Calabria)

Màccu (Macco) la purea di fave bollite, ridotte a poltiglia e condite con olio e finocchietto selvatico

Pipi fritti detti anche Pipi e Patati (Peperoni fritti con patate)-(piatto tipico regionale)

Zafarani a rusceddra o zafafarani a ruscella, o zafaranicruschi (peperoni essiccati durante l'estate, che vengono fritti rendendosi molto croccanti)-(piatto tipico della Calabria nord-centrale).

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Ammuddicati, (peperoni, pomodori, zucchine, cipolle, patate ripiene di pan grattato apparecchiato con formaggio, aglio e capperi)

Cucuzzeddicatrimma (zucchine con l'uovo e pecorino grattugiato),

Brocculi 'ffucati (broccoli calabresi stufati con olio e aglio)

Peperoncini piccanti ripieni peperoncini ciliega ripieni di tonno, con l'aggiunta di un cappero, e conservati sott'olio.

Un piatto di cuddrurieddri cosentini

Zippuli

Cuddrurieddri cosentini

Biscottu a 'capunata (Biscotto di grano "a caponata")-(piatto tipico reggino)

Zippuli, preparati con l'impasto di patate e farina e poi fritti

Patati e caccìoffuli alla masciscTopinambur

Licurda (Calabria nord) zuppa di cipolle, sedano, patate, pesce, pomodoro e uova, come condimento del pane raffermo.

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'Nduja

'Nduja, tipico salame calabrese piccante (ma anche dolce) - (piatto tipico della Calabria centrale)

Suppizzata o suprissata, supprezzata, sopressata, tipica Soppressata calabrese - (piatto tipico della Calabria). Viene riempito il budello grande con carne magra e grasso di maiale, viene aggiunto peperoncino rosso piccante macinato e finocchietto selvatico, e si mette a stagionare.

satizzu, o sazizza, sozizzu, sazzizza, sarzizza tipica Salsiccia. Si riempie l'intestino tenue con carne magra e grasso di maiale, viene aggiunto peperoncino rosso piccante macinato e finocchietto selvatico, e si mette a stagionare.

Capicoddhu, o capicodu, capaccuallu, capicoju, capaccuaddrucapeccuallu, il tipico Capocollo calabrese;

Pancetta (viene fatta con la parte della pancia del maiale, si toglie la pelle e la parte interna composta da carne e grasso viene messa sotto sale per qualche giorno, finito il periodo di salatura la pancetta viene spalmata con peperoncino rosso piccante macinato o pepe nero, arrotolata e legata, e messa a stagionare)

Bucculàru, o Vuccularu o Vusjhulu Guanciale, viene spalmato con peperoncino rosso piccante macinato o pepe nero,

pizzenti o nduglia, nduja (o pezzente), tipico del cosentino e delle zone montane dell'Aspromonte, viene fatto riempiendo un intestino tenue (come salsiccia) con carne (muscolosa) polmoni e cuore del maiale, viene aggiunto il peperoncino rosso piccante macinato, per dare un sapore piccante e un colore tendente al rosso.

Ricotta di capra della Vallata dello Stilaro

Pecorino Crotonese

Provola Silana;

Caciocavallo Silano;

Pecorino del Monte Poro;

Caprino della Limina;

Pecorino del Pollino;

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Pecorino dell'Aspromonte

Ricotta Affumicata di Mammola

Ricotta affumicata Crotonese;

Ricotta di capra affumicata di Mammola;

Ricottone salato;

Ricotta di capra;

Ricotta di pecora;

La Pignolata Reggina

Cuzzupa

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Amaretti, pitta di San Martino, Chjinuli, fichi secchi e biscotti

Mastazzola, biscotti tipici a base di miele.

Il gelato calabrese è considerato da molti una vera specialità tipica, rinomati sono infatti:

il "Gelato artigianale" di Reggio e Bagnara Calabra;

il "Pezzo duro" di Gioiosa e di Mammola;

il Tartufo di Pizzo gelato al gusto di nocciola e cioccolato la cui forma richiama quella del tartufo;

Cannarìculi, biscotti della tradizione natalizia dell'alto jonio al vino cotto e miele;

Cuddhuraci (Cudduredda), dolce Pasquale tipico reggino;

Cururicchi (o Curujicchi), a Natale, dolci fritti di patate;

Chiacchiere, dolci fritti a carnevale;

Chinuliji (o Chjinuliji) dolci fritti ripieni con un impasto a base di ceci e frutta secca che si preparano tipicamente a Pizzo Calabro nel periodo di Natale;

Crispeddi cu' meli pastella fritta in olio d'oliva e poi condita con miele caldo;

Cupeta, torrone tipico di Montepaone (CZ), preparato con miele, sesamo e vino cotto;

Cuzzupa o Sguta; questo dolce viene preparato per le festività pasquali, quasi in tutto il territorio della Calabria. La "Cuzzupa", consiste in un dolce tipo brioche che viene fatto con forme augurali di uccelli, pupe o corona nella quale vengono inserite per decorazione sulla superficie delle uova. La "Sguta", ha forma di una piccola ciambella decorata con un uova al centro;

Dolci farciti con crema di bergamotto di Reggio Calabria;

Marzelletti, biscotti tipici di Soriano Calabro fatti con miele e mandorle;

Nacatole, dolci tradizionali della provincia di Reggio;

'Ncinetti, biscotti ricoperti con glassa di zucchero, tipici della provincia di Vibo Valentia. Si preparano per i matrimoni e a Pasqua;

Giurgiulèna, è un tipico dolce di Natale, in uso nella cucina Calabrese.L'ingrediente principale è il sesamo, che in calabrese è indicato appunto con i termine "giuggiulena" (giurgiulena). La ricetta si basa sulla composizione di semi di sesamo versati nel miele e fissati dalla caramellizzazione degli zuccheri (in una versione arricchita si aggiungono anche scorzette di arancia candite), a modo di torroncino;

"Pitta 'Mpigliata" di San Giovanni in Fiore è un dolce tipico natalizio; è composta da una sottile sfoglia ripiena di Noci, Mandorle, Uva passa, miele, e attorcigliata su sé stessa a formare una torta. Prende il suo caratteristico nome dal fatto che una volta attorcigliato, il dolce, viene legato con uno spago per tenerlo in forma durante la cottura in forno;

Chinuliddre a Natale - Dolce fritto tipico di Cosenza. Consiste in una mezzaluna di frolla ripiena di mostarda o cioccolata. Una volta fritto viene ricoperto da miele di fichi o d'api;

Ginetti sono delle ciambelle fritte e ricoperte con glassa di zucchero tipiche di Spezzano della Sila e del cosentino. Sono dolci tipici (beneauguranti) dei matrimoni assieme a Ciambrielli e Pizzille;

Ciambrielli, sono dei piccoli dolcetti di pasta a forma di piccolo panino rotondo. Sono poi ricoperti con glassa di zucchero. Sono dolci tipici di Spezzano della Sila e del cosentino che vengono preparati in occasioni liete come matrimoni o battesimi.

Pizzille, sono dei piccoli dolcetti a base di miele che sono poi tagliati di sbieco. Dolci tipici di Spezzano della Sila e del cosentino e vengono preparati in occasioni liete come matrimoni o battesimi;

Bucchinotti, sono un dolce tipico della provincia di Cosenza. Consistono in uno scrigno di pasta frolla che racchiude (almeno a Cosenza) la "mostarda" (marmellata d'uva) o anche delle

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marmellate fatte in casa o del cioccolato. Vengono cotti in forno in apposite formine metalliche. Una volta freddi si passano nello zucchero a velo. Questi dolcetti vengono preparati specialmente in occasioni di festa;

Varchiglia, dolce tipico di Cosenza che risale addirittura al 1300. Era un dolce preparato dalle suore, le Carmelitane Scalze. Il dolce è a base di mandorle e cioccolato ed ha ancora oggi una tipica forma a barca da cui probabilmente prende il nome. È in sostanza una frolla che racchiude un interno di farina di mandorle e zucchero che viene infine ricoperta con uno strato di cioccolato fondente;

Scaliddre o Scalille, dolce tipico del Natale. Dolce fritto tipico di Cosenza a base di tuorli d'uovo, farina, anice e olio. Vengono formati dei sottili cordoncini di pasta che si attorcigliano abilmente intorno ad un fuso di legno dandogli così la caratteristica forma di piccola scala (a chiocciola). Vengono in seguito fritti in olio profondo ed una volta freddi si ricoprono con miele aromatizzato alla cannella o più tipicamente con glassa di zucchero (detto "gileppo");

Turdiddri, dolce natalizio tipico di Cosenza. Sono degli "gnocchi" di pasta fritti a base di farina, zucchero, vino Moscato e olio, solitamente ricoperti di miele di fichi o di api;

'Nzuddha tipico di Festa Madonna a Reggio;

Petrali, biscotti di pasta frolla modellata a mezzaluna, farciti con fichi, cioccolato, caffè, noci, mandorle, buccia di arancia e di cedro e poi infornati;

Pignolata, tipico dolce del reggino formato da palline di pasta sfoglia fritta nello strutto assemblate a forma di pigna e ricoperto di miele. Esiste un secondo tipo ricoperto con una glassa al limone e cioccolato, o al bergamotto;

Pipareddhi (Piparelle) simili allo Stomatico ma fatti con le mandorle prodotti nella città di Reggio Calabria;

Pitta di San Martino, dolce preparato con uva passa;

Sammartini (San Martine), dolce natalizio tipico calabrese;

Stomatico, biscotto secco di zucchero caramellato, farina, olio, chiodi di garofano e cannella, prodotto nel reggino;

Susumelle, dolce preparato con uva passa, miele e cioccolato;

Tartine di sanguinaccio, dolce preparato con il sangue del maiale e il cioccolato;

Dita d'Apostuli, leggerissimo pan di Spagna con crema;

Suspiriri monache, ripiche a Bagnara Calabra, ricoperte di glasa bianca o cioccolata;

Zippuli, dolce con zucchero, miele e uvetta; salato con patate e farina;

Crema reggina, a base di alchermes;

Pastiera, molto simile a quella napoletana,

Turruni gelato, torrone a base di canditi tipico di Reggio.

Tipologia di Pitta

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Pane di Cuti , pane casereccio con lievito madre e cottura in forno a legno di Cuti Rogliano

Pan'iRanu, pane casereccio di Seminara

Pitta e Lestopitta, tipi di pane dell'area grecanica

Pitta farcita

"Pane pizzata" (pane di mais) tipico di Mammola

"Pane Pizzata" - Pane di mais tipico di Mammola

Arance

Bergamotti

Clementine

Limoni

Mandarini

Cedro

Prugne

Castagne

Fichi (in particolare i fichi secchi)

Annone Anona

Muluni (Melone)

Zipànguli (Anguria)

Zinzuli (Giuggiole)

Merendelle (una varietà di pesche)

La Calabria, un tempo chiamata "Enotria" (terra del vino), è particolarmente ricca di vini dal sapore tipicamente meridionale, alcuni vigneti risalgono infatti all'antichità, quando i coloni greci portarono i vitigni dalla madrepatria, cominciando a produrre il vino che ancora oggi viene da questa terra.

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Bivongi rosso

Bivongi rosso nelle province di Reggio Calabria e Catanzaro

Cirò nella provincia di Crotone

Donnici nella provincia di Cosenza

Greco di Bianco nella provincia di Reggio Calabria

Lamezia nella provincia di Catanzaro

Melissa nella provincia di Crotone

Pollino nella provincia di Cosenza

Sant'Anna di Isola Capo Rizzuto rosso o rosato nelle province di Crotone e Catanzaro

San Vito di Luzzi nella provincia di Cosenza

Savuto nelle province di Cosenza e Catanzaro

Scavigna nella provincia di Catanzaro

Verbicaro nella provincia di Cosenza

Arghillà nella provincia di Reggio Calabria.

Calabria nell'intero territorio della regione Calabria.

Condoleo nella provincia di Cosenza.

Costa Viola nella provincia di Reggio Calabria.

Esaro nella provincia di Cosenza.

Lipuda nella provincia di Crotone.

Locride nella provincia di Reggio Calabria.

Palizzi nella provincia di Reggio Calabria.

Pellaro nella provincia di Reggio Calabria.

Scilla nella provincia di Reggio Calabria.

Val di Neto nella provincia di Crotone.

Valdamato nella provincia di Catanzaro.

Valle del Crati nella provincia di Cosenza.

Valle del Savuto nella provincia di Cosenza.

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Il Ministero delle Politiche Agricole e Alimentari, in collaborazione con la Regione Calabria, ha riconosciuto 272 prodotti calabresi come "tradizionali"

Bottiglietta di Gassosa al caffè

Romanella, gassosa tipica al limone e gassosa al caffè (Reggio Calabria)

Gassosa al caffè (Siesta oppure Brasilena), gassosa al gusto di caffè

Bergamella oppure Bergotto, gassosa al Bergamotto di Reggio Calabria DOP

Cedrata, bibita ricavata dal cedro

Locretta, un'aranciata gassata prodotta in passato nella regione

Moka Drink, gassosa al gusto di caffè dell'area urbana di Cosenza

Amaro dell'Abate

Vecchio Amaro del Capo

Bergamino o Bergamello (liquore di bergamotto)

Liquorice (liquore alla liquirizia)

Liquore di Cedro

Pollino

Limoncello

Zagara

Calabrisella

More di gelso

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Liquore al mandarino

Nocino

Piparello (liquore a base di peperoncino con aroma di arancio, tipico del Reggino)

Paesanella (forte grappa)

Amarotto (elisir digestivo al bergamotto) Bergamotto di Reggio Calabria DOP Capocollo di Calabria DOP

Cipolla Rossa di Tropea IGP

Clementine di Calabria IGP

Pancetta di Calabria DOP

Salsiccia di Calabria DOP

Soppressata di Calabria DOP

Limone di Rocca Imperiale IGP

Torrone di Bagnara IGP

Caciocavallo Silano DOP

Pecorino Crotonese DOP

Liquirizia di Calabria DOP

Fichi di Cosenza DOP

Tartufo di Pizzo IGP

Patata della Sila IGP

Olio Extravergine di Oliva Alto Crotonese DOP

Olio Extravergine di Oliva Lametia DOP

Olivo Extravergine di Oliva Bruzio DOP

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I DIRITTI DELLE DONNE Redattrici: Noemi Iemmello – Alice De Giorgio – Irene Iannelli

Oggi la vita delle donne è migliorata, ma in alcuni paesi si lotta ancora

per il rispetto dei diritti femminili.

In Afghanistan e in Iran negli ultimi decenni la libertà e i diritti delle donne

sono stati fortemente ridotti con l’imposizione di dure leggi religiose. Molte

donne da un giorno all’ altro hanno perso la possibilità di studiare, di

lavorare e di scegliere come vestirsi: devono coprirsi i capelli, non possono

indossare gioielli, non possono smaltarsi le unghie.

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I DIRITTI DELLE DONNE E L’AMPLIAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA

I. L’ACQUIS COMUNITARIO IN MATERIA DI PARITA’ DI TRATTAMENTO E PARI OPPORTUNITÀ’

Il principio della parità di trattamento fra uomini e donne venne sancito per la prima volta

nell’articolo 119 del Trattato CEE come il diritto a "pari retribuzione per pari lavoro". Sebbene di

portata limitata, questa disposizione si è gradualmente tradotta in una serie di strumenti comunitari

a tutela del principio di pari accesso al lavoro, alla formazione e all’evoluzione professionale, a pari

condizioni di vita e di lavoro, per giungere fino al principio della non discriminazione in base al sesso o

all’inclinazione sessuale proposto dalla Conferenza intergovernativa per la riforma dell’Unione

europea e del Trattato( 1).

1. Il Trattato di Amsterdam

Un volta ratificato da tutti gli Stati membri dell’Unione europea, il Trattato conterrà molte nuove

disposizioni che costituiranno l’espressione dei seguenti principi:

articolo 2: raggiungere l’uguaglianza fra uomini e donne in quanto obiettivo della Comunità;

articolo 3, paragrafo 2: eliminare le disuguaglianze in ogni strategia per l’occupazione e in

tutte le azioni comunitarie;

articolo 13 (ex articolo 6 A): combattere la discriminazione in base al sesso o all’inclinazione

sessuale;

articolo 137 (ex articolo 118): promuovere l’uguaglianza fra uomini e donne rispetto alle

opportunità del mercato del lavoro e al trattamento sul posto di lavoro;

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articolo 141 (ex articolo 119): applicazione del principio di pari retribuzione per lavoratori di

sesso maschile e di sesso femminile per pari lavoro o lavoro di pari valore; parità di

retribuzione senza discriminazione basata sul sesso e introduzione di "misure che forniscono

vantaggi specifici per facilitare il sesso sottorappresentato a perseguire un’attività

professionale o prevenire o compensare gli svantaggi nelle carriere professionali".

2. Direttive e altri strumenti

Dal 1975 la Comunità europea ha adottato una serie di direttive per promuovere la posizione delle

donne sul mercato del lavoro. Inoltre, a partire dal 1982 l’Unione europea ha adottato quattro

programmi d’azione miranti a promuovere le pari opportunità, l’ultimo dei quali è stato il Quarto

programma d’azione (1996-2000) adottato con la decisione del Consiglio 95/593/CE del 22.12.1995.

L’UE ha inoltre adottato vari testi per promuovere la possibilità di conciliare la vita lavorativa e la vita

familiare delle donne attraverso la condivisione delle responsabilità familiari con gli uomini. Uno di

tali testi è la comunicazione della Commissione per un nuovo partenariato fra uomini e donne

(COM(95)221 definitivo) indirizzato alla Quarta conferenza mondiale ONU sulle donne tenutasi a

Pechino nel settembre 1995. La raccomandazione del Consiglio del 31.3.1992 sull’assistenza

all’infanzia (92/241/CEE) include alcune iniziative a sostegno delle azioni degli Stati membri per lo

sviluppo di politiche per l’infanzia quale mezzo per conciliare la vita lavorativa e la vita familiare.

Al fine di promuovere le qualifiche professionali delle donne e le loro opportunità occupazionali,

specie in periodi di crisi sociale, l’UE ha adottato svariati testi, come la raccomandazione della

Commissione sulla formazione professionale delle donne, oppure le risoluzioni del Consiglio sulle

azioni per combattere la disoccupazione femminile e sulla reintegrazione e l’integrazione tardiva

delle donne nella vita lavorativa.

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La Corte di giustizia europea ha svolto un ruolo importante nel definire alcuni concetti e principi

importanti, come il concetto di discriminazione e in larga parte il concetto di discriminazione indiretta

basata sul sesso, definendone altresì il campo di applicazione. Inoltre, la sua recente sentenza nella

causa Marschall ha aperto la strada ad azioni positive in favore delle donne, che ne agevolino

l’accesso al lavoro e all’evoluzione professionale, per compensare le disparità di trattamento che

talvolta costituiscono il modello predominante, contribuendo così a rafforzare il principio delle pari

opportunità.

Sebbene non tutti questi testi siano vincolanti per gli Stati membri, essi contribuiscono a rafforzare

una serie di principi e di norme che rappresentano le linee guida delle politiche comunitarie,

fungendo da punti di riferimento per gli Stati membri nella progressiva adozione dell’ acquis

comunitario. In questo contesto, una delle difficoltà espresse da alcuni PECO si riferisce al fatto che

questo acquis è in continua evoluzione e richiederà una lunga fase di adeguamento da parte di paesi

che, a loro volta, hanno ereditato un " acquis sociale" da regimi comunisti durati decenni.

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I DIRITTI DELLE DONNE NELLA COSTITUZIONE ITALIANA

La Costituzione stabilisce, per la prima volta, l’uguaglianza morale e giuridica tra donna

e uomo.

L’art. 3, infatti, afferma che «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali

davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni

politiche, di condizioni personali e sociali» e che «È compito della Repubblica

rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e

l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e

l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e

sociale del Paese».

Queste dichiarazioni sono molto importanti non solo perché affermano il diritto

all’uguaglianza, ma perché consentono – in apparente deroga, ma a sostanziale

conferma del principio di parità – quelle discriminazioni più favorevoli alle donne, a

carattere temporaneo, aventi lo scopo di superare le secolari disparità (azioni positive

).

FAMIGLIA

L’art. 29 della Costituzione stabilisce che: «La Repubblica riconosce i diritti della

famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato

sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia

dell’unità familiare».

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Come madre, insieme al padre, la donna ha il diritto-dovere di mantenere, istruire,

educare i figli anche se nati fuori dal matrimonio (art. 30 Cost.).

Tali princìpi hanno trovato piena applicazione nella riforma del diritto di famiglia (legge

19 maggio 1975, n. 151) risultato dell’ampia convergenza di forze politiche e di

associazioni e organizzazioni femminili di diversa ispirazione.

Sono state introdotte importanti innovazioni ispirate al valore della parità e

dell’uguaglianza nei rapporti tra donna e uomo considerati sotto il duplice ruolo di

coniugi e di genitori. Con il matrimonio, infatti, i coniugi acquistano gli stessi diritti e

assumono gli stessi doveri. Entrambi sono tenuti, in relazione alle proprie sostanze e

alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della

famiglia e concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare.

La potestà esercitata sui figli non è più solo del padre, ma spetta ad entrambi i genitori.

Forse, però, l’innovazione più rilevante della riforma è costituita dall’introduzione della

comunione legale dei beni fra i coniugi, per cui tutto quello che viene acquistato dopo

il matrimonio è considerato di proprietà comune di entrambi i coniugi in parti uguali.

È stato riconosciuto, in tal modo, tangibilmente, il contributo della donna alla famiglia

anche con il suo lavoro svolto fra le mura domestiche.

LAVORO

La Costituzione afferma che «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di

lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono

consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla

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madre e al bambino una speciale adeguata protezione» (art. 37).

Con la sensibilità acquisita oggi, si può dire che «l’essenziale funzione familiare» a cui si

fa riferimento nell’articolo citato deve riguardare indistintamente sia la donna sia

l’uomo.

Il principio della parità ha ispirato la legge n. 903 del 1977 sulla parità di trattamento

fra donne e uomini in materia di lavoro, che ha eliminato una serie di discriminazioni

che, sia pure sotto il pretesto di voler tutelare le donne in quanto tali, limitavano i

diritti delle lavoratrici. Tale legge ha, inoltre, esteso il diritto di assentarsi dal lavoro e il

trattamento economico previsti dalla legge sulla tutela delle lavoratrici madri, anche al

padre lavoratore in alternativa alla madre lavoratrice.

La legge vieta qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso

al lavoro, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o

il ramo d’attività a tutti i livelli della gerarchia professionale.

La Costituzione afferma, inoltre, un altro rilevante principio: tra donna e uomo, a parità

di lavoro, non deve esistere disuguaglianza di retribuzione; e non deve esserci

discriminazione per l’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive.

Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle

cariche elettive in condizioni di uguaglianza secondo i requisiti stabiliti dalla legge (art.

51). Questo principio ha trovato piena attuazione solo con la legge 9 gennaio 1963 n. 7,

che ha aperto alle donne carriere prima precluse, tra cui la carriera diplomatica e la

magistratura (escluso l’ingresso nelle forze armate).

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I princìpi finora esposti fanno esplicito riferimento alla donna nella sua specifica

condizione. È bene però ricordare anche gli altri princìpi fondamentali della

Costituzione, che riguardano indistintamente tutti i cittadini.

La condizione delle donne afghane

Nel paese dei talebani, le donne sono usate solo per perpetuare la specie, soddisfare i

bisogni sessuali degli uomini e occuparsi delle pulizie domestiche; in base ad alcuni

"illuminanti" versetti del corano: “le vostre donne sono come un seme da coltivare e

quindi potete farne quello che volete" (2:223).

Gli uomini hanno potere assoluto sulle donne e queste sono private di ogni diritto:

dietro ai loro burqa, i soffocanti veli integrali che le ricoprono da capo a piedi, non

possono neanche vedere, respirare, parlare, ridere, liberamente e se

malauguratamente i loro passi giungono all'udito di un uomo, rischiano di essere

fustigate pubblicamente per il ludibrio delle folle.

Private di un volto, di una voce, di libertà di movimento, della stessa dignità di essere

umano, non contenti i talebani le hanno private anche del pensiero

e della volontà.

Le donne che fino al 1994, anno in cui i talebani hanno preso il potere, esercitavano la

professione di medico, ingegnere, infermiera o qualunque altro mestiere, sono state

nascoste dietro il burqa e segregate in casa sotto lo stretto ed asfissiante controllo

degli uomini, con i vetri oscurati per evitare che qualcuno, da fuori, possa scorgerle,

picchiate brutalmente per ogni minima violazione della particolare legge coranica

riconosciuta dai talebani.

Costrette a queste insostenibili condizioni di vita, molte donne si lasciano morire, altre

si suicidano, anche dandosi fuoco, quando ad appiccarlo non è lo stesso marito,

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oppure muoiono per mancanza di cure mediche, visto che non possono essere visitate

da medici uomini e le donne non possono

i e le donne non possono più studiare e lavorare…altre sono afflitte da comprensibili

MALALA

Finalmente qualcuno è riuscito a ribellarsi a tutto ciò. La prima fu Malala Yousafzai una

ragazzina di soli 15 anni che il 9 ottobre 2012 fu colpita alla testa da uomini armati

saliti sul pullman scolastico su cui lei tornava a casa da scuola. Fortunatamente riuscì a

sopravvivere all’ intervento per la rimozione del proiettile però dovette trasferirsi a

New York perché i talebani avevano minacciato lei e la sua famiglia che se sarebbero

tornati gli avrebbero uccisi. Tutto questo accadde perché lei riteneva giusto che anche

le donne avessero il diritto all’ istruzione, che potevano vestirsi come volevano e che

potevano uscire liberamente. A soli 17 anni ha vinto il premio Nobel per la pace.

Questo è il discorso che ha fatto:

Vostre Maestà, illustri membri del comitato per il Nobel, cari fratelli e sorelle, oggi è un

giorno di grande gioia per me, sono onorata che il comitato del Nobel mi abbia scelto

per questo prezioso premio. Grazie a tutti per il vostro sostegno duraturo e per

l’affetto. Sono grata per le lettere che ricevo da tutto il mondo. Leggere le vostre parole

cordiali di incoraggiamento mi rafforza e mi ispira.

Vorrei ringraziare i miei genitori per i loro amore incondizionato. Grazie a mio padre

per non aver tarpato le mie ali e avermi lasciato volare. Grazie a mia madre per avermi

insegnato a essere paziente e a dire sempre la verità – quello che crediamo essere il

vero messaggio dell’Islam.

Sono molto orgogliosa di essere la prima pashtun, la prima pachistana e la prima

giovane a ricevere questo premio. Sono abbastanza sicura di essere anche la prima

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vincitrice del Nobel che ancora litiga con suo fratello minore. Vorrei che ci fosse pace

ovunque, ma io e i miei fratelli abbiamo ancora del lavoro da fare su quel fronte.

Sono onorata anche di ricevere questo premio con Kailash Satyarti, che è stato un

campione dei diritti dei bambini per parecchi anni. A dirla tutta, il doppio degli anni che

ho io adesso. Sono grata del fatto che possiamo essere qui insieme e mostrare al

mondo che un’indiana e un pachistano possono stare insieme in pace e lavorare

insieme per i diritti dei bambini.

Cari fratelli e sorelle, i miei genitori mi hanno dato il nome della “Giovanna d’Arco”

pashtun, Malalai di Maiwand. La parola Malala vuol dire “colpita da un lutto”, “triste”,

ma per aggiungere allegria al nome i miei genitori mi chiamano sempre “Malala, la

ragazza più felice del mondo” e sono molto felice che insieme stiamo sostenendo una

causa importante.

Questo premio non è solo per me. È per i bambini dimenticati che vogliono

un’istruzione. È per i bambini spaventati che vogliono la pace. È per i bambini senza

voce che vogliono il cambiamento. Sono qui per i loro diritti, per dare loro voce… Non

è il momento di averne compassione. È il momento di agire, per fare in modo che sia

l’ultima volta che a dei bambini è sottratta l’istruzione.

Ho notato che le persone mi descrivono in molti modi. Alcuni mi chiamano la ragazza

cui i talebani hanno sparato. Alcuni la ragazza che ha combattuto per i suoi diritti. Altri,

ora, mi chiamano la premio Nobel. Per quanto ne so io, sono una persona impegnata e

testarda che vuole che ciascun bambino abbia un’istruzione di qualità, che vuol pari

diritti per le donne, che vuole la pace in ogni angolo del mondo.

L’istruzione è una delle benedizioni della vita – e una delle sue necessità. Me lo dice

l’esperienza dei miei 17 anni di vita. A casa mia nella valle di Swat, nel nord del

Pakistan, ho sempre amato la scuola e imparare cose nuove. Ricordo quando io e i miei

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amici ci decoravamo le mani con gli henna (decorazioni floreali, ndr) per le occasioni

importanti. Invece di disegnare dei fiori e motivi geometrici, usavamo le formule

matematiche e le equazioni.

Avevamo sede di conoscenza perché il nostro futuro era lì, in classe. Ci sedevamo e

studiavamo e imparavamo insieme. Adoravamo indossare i nostri grembiuli puliti e

stare lì seduti con grandi sogni negli occhi. Volevamo rendere orgogliosi i nostri

genitori e dimostrare che potevamo eccellere negli studi e ottenere cose che secondo

alcuni solo i ragazzi possono fare.

Le cose sono cambiate. Quando avevo dieci anni Swat, un posto di bellezza e turismo,

è diventato improvvisamente un luogo di terrore. Più di 400 scuole sono state

distrutte. Alle ragazze è stato impedito di andare a scuola. Le donne sono state

picchiate. Innocenti sono stati uccisi. Tutti abbiamo sofferto. I nostri bei sogni sono

diventati incubi. L’istruzione da diritto e diventato crimine.

Ma quando il mondo è cambiato, anche le mie priorità sono cambiate. Avevo due

opzioni. Stare zitta e aspettare di venire uccisa. O parlare e venire uccisa. Ho deciso di

parlare. I terroristi hanno provato a fermarci e il 9 ottobre del 2012 hanno attaccato

me e i miei amici. Ma i loro proiettili non potevano vincere. Siamo sopravvissuti. E da

quel giorno le nostre voci si sono fatte più forti. Racconto la mia storia non perché sia

unica, ma perché non lo è. È la storia di molte ragazze. Oggi racconto anche le loro

storie. Ho portato con me a Oslo alcune delle mie sorelle, che condividono la mia

storia: amiche dal Pakistan, la Nigeria e la Siria. Le mie coraggiose sorelle Shazia e

Kainat Riaz che quel giorno a Swat sono state colpite dai proiettili con me. Anche loro

hanno attraversato un tragico trauma. E la mia sorella Kainat Somro dal Pakistan, che

ha sofferto violenze estreme e abusi, fino all’uccisione di suo fratello, ma non ha

ceduto e ci sono ragazze come me, che ho incontrato durante la campagna per il

Fondo Malala, che oggi sono come sorelle per me: la mia coraggiosa sorella sedicenne

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Mezon, dalla Siria, che oggi vive in Giordania in un campo profughi e va di tenda in

tenda per aiutare i bambini a studiare. E la mia sorella Amina, dal nord della Nigeria,

dove Boko Haram minaccia e rapisce le ragazze, solo perché chiedono di andare a

scuola. Potrò sembrarvi una sola ragazza, una sola persona, per di più alta neanche un

metro e sessanta coi tacchi. Ma non sono una voce solitaria: io sono tante voci. Sono

Shazia. Sono Kainat Riaz. Sono Kainat Somro. Sono Mezon. Sono Amina. Sono quei 66

milioni di ragazze che non possono andare a scuola. La gente spesso mi chiede perché

l’istruzione sia così importante per le ragazze. Rispondo sempre la stessa cosa. Dai

primi due capitolo del Corano ho imparato la parola Iqra, che vuol dire “leggere”, e la

parola nun wal-qalam, che vuol dire “con la penna”. Per questo, come ho detto lo

scorso anno alle Nazioni Unite, «un bambino, un maestro, una penna e un libro

possono cambiare il mondo». Oggi in mezzo mondo vediamo rapidi progressi,

modernizzazione e sviluppo. Ma ci sono paesi dove milioni di persone soffrono ancora

dai vecchi problemi della fame, della povertà, delle ingiustizie, dei conflitti. In questo

2014 ci viene ricordato che è passato un secolo dalla prima guerra mondiale, ma

ancora non abbiamo imparato la lezione che ci viene dalla morte di quei milioni di vite

cent’anni fa. Ci sono ancora guerre in cui centinaia di migliaia di innocenti perdono la

vita. Molte famiglie sono diventate profughe in Siria, a Gaza, in Iraq. Ci sono ancora

ragazze che non sono libere di andare a scuola nel nord della Nigeria. In Pakistan e in

Afghanistan vediamo persone innocenti che muoiono in attacchi suicidi ed esplosioni

di bombe. Molti bambini in Africa non hanno accesso all’istruzione per la povertà.

Molti bambini in India e in Pakistan sono deprivati del loro diritto all’istruzione per

tabù sociali, o perché sono stati costretti a lavorare o, le bambine, a sposarsi. Una delle

mie migliori amiche a scuola, della mia stessa età, è sempre stata una ragazza

coraggiosa e fiduciosa: voleva diventare medico. Ma il suo sogno è rimasto un sogno. A

12 anni è stata costretta a sposarsi e ha avuto un figlio quando era lei stessa ancora

una bambina, a quattordici anni. Sono sicura che sarebbe stata un ottimo medico. Ma

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non ha potuto diventarlo, perché è una ragazza. La sua storia è il motivo per cui

devolvo i soldi del premio Nobel al Fondo Malala, per aiutare le ragazze di tutto il

mondo ad avere un’istruzione di qualità e per fare appello ai leader ad aiutare le

ragazze come me, Mezun e Amina. Il primo luogo dove andranno i soldi e il paese dove

sta il mio cuore, il Pakistan, per costruire scuole, specialmente a Swat e Shangia. Nel

mio villaggio non c’è ancora una scuola superiore per ragazze. Voglio costruirne una,

perché i miei amici possano avere un’istruzione – e con essa l’opportunità di

raggiungere i loro sogni. Comincerò da lì, ma non mi fermerò lì. Continuerò questa

battaglia finché ogni bambino non avrà una scuola. Mi sento più forte dopo l’attacco

che ho subito, perché so che nessuno può fermarmi, fermarci, perché siamo milioni e

siamo uniti. Cari fratelli e sorelle, le grandi persone che hanno realizzato dei

cambiamenti – come Martin Luther King e Nelson Mandela, Madre Teresa e Aung San

Suu Kyi – un giorno hanno parlato da questo palco. Spero che anche i passi intrapresi

da me e da Kailash Satyarti finora, e quelli che ancora intraprenderemo, possano

realizzare un cambiamento, e un cambiamento duraturo.

La mia grande speranza è che questa sia l’ultima volta che dobbiamo combattere per

l’istruzione dei bambini. Chiediamo a tutti di unirsi e sostenerci nella nostra battaglia,

per poter risolvere questa situazione una volta per tutte. Come ho detto, abbiamo già

fatto molti passi nella giusta direzione. Ora è il momento di fare un balzo in avanti. Non

serve dire ai leader quant’è importante l’istruzione: lo sanno già, i loro figli sono nelle

migliori scuole. È ora di dirgli che devono agire, adesso. Chiediamo ai leader del mondo

di unirsi e fare dell’istruzione la loro priorità numero uno. Quindici anni fa i leader del

mondo decisero di fissare dei traguardi globali, i Millennium Development Goals. Nei

prima anni successivi abbiamo visto dei progressi. Il numero di bambini esclusi da

scuola è stato dimezzato. Ma il mondo di concentrò solo sull’istruzione primaria, e i

miglioramenti non toccarono tutti. L’anno prossimo, nel 2015, rappresentati di tutti i

paesi si vedranno alle Nazioni Unite per fissare dei nuovi traguardi, i Sustainable

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Development Goals. Sarà l’occasione per fissare le ambizioni della prossima

generazione. I leader devono cogliere quest’opportunità per garantire un’istruzione

primaria e superiore gratuità e di qualità a ciascun bambino. Alcuni dicono che sia poco

fattibile, o troppo costoso, o troppo difficile. O persino impossibile. Ma è il momento

che il mondo pensi in grande. Cari fratelli e sorelle, il cosiddetto mondo degli adulti

può anche capire queste obiezioni, noi bambini no.

Perché nazioni che chiamiamo grandi sono così potenti nel provocare guerre, ma

troppo deboli per la pace? Perché è così facile darci una pistola, ma così difficile darci

un libro? Perché è così facile costruire un carrarmato, ma costruire una scuola è così

difficile? Viviamo nel mondo moderno, nel ventunesimo secolo, e crediamo che nulla è

impossibile. Possiamo raggiungere la luna, forse a breve atterreremo su Marte. Per

questo, in questo ventunesimo secolo, dobbiamo essere determinati a far realizzare il

nostro sogno di un’istruzione di qualità. Realizziamo uguaglianza, giustizia e pace per

tutti. Non solo i politici e i leader del mondo, ma tutti dobbiamo fare la nostra parte.

Io. Voi. È nostro dovere.

Dobbiamo metterci al lavoro, non aspettare. Chiedo ai ragazzi come me di alzare la

testa, in tutto il mondo. Cari fratelli e sorelle, diventiamo la prima generazione a

decidere di essere l’ultima: classi vuote, infanzie perdute, potenziale perduto, facciamo

in modo che queste cose finiscano con noi. Che sia l’ultima volta che un bambino o una

bambina spendono la loro infanzia in una fabbrica.

Che sia l’ultima volta che una bambina è costretta a sposarsi.

Che sia l’ultima volta che un bambino innocente muore in guerra. Che sia l’ultima volta

che una classe resta vuota.

Che sia l’ultima volta che a una bambina viene detto che l’istruzione è un crimine, non

un diritto.

Che sia l’ultima volta che un bambino non può andare a scuola. Diamo inizio a questa

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fine. Che finisca con noi. Costruiamo un futuro migliore proprio qui, proprio ora.

Grazie.

LA VIOLENZA SULLE DONNE

Molte donne in tutto il mondo sono vittime di violenza e molte volte vengono

violentate per cose banali. Ancora oggi le stragi di violenza sulle donne vengono

codificate dalla cronaca con le parole “d’amore”, “raptus”, “momenti di gelosia”.

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Varie forme di violenza

Violenza domestica: Esercita soprattutto nell’ambito familiare o nella cerchia di

conoscenti, attraverso minacce, maltrattamenti fisici e psicologici.

Atteggiamenti persecutori: Percosse

Abusi sessuali, delitti d’onore: i bambini, gli adolescenti ma soprattutto le bambine e le

ragazze adolescenti.

L’ uso di acido per sfigurare. Alcune persone, ritengono ingiusto, non corretto

divulgare il fatto di violenza, sia in rispetto della vittima e della sua famiglia, sia della

personale reputazione di queste. Secondo loro anche se, all’ interno degli articoli, non

viene denunciato apertamente il nome della vittima e comunque sempre in

repentaglio e spesso “etichetta” dalla piccola cerchia di personale, che sanno. Al

contrario alcuni sostengono che sia molto importante rendere noto questo tipo di

notizie; proprio per fare sensibilizzare la gente, per far conoscere, far sapere, per far

capire che non si vive nell’ “ISOLA FELICE”, in cui le notizie di cronaca nera non toccano

assolutamente quel luogo così perfetto.

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I DIRITTI DELLE DONNE: “

Redattrici: Arianna Mancuso - M: Grazia Squillacioti

Date alle donne occasioni adeguate ed esse saranno

capaci di tutto

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Per diversi secoli le donne sono state considerate inferiori all’ uomo. Oggi La Costituzione della Repubblica italiana afferma la parità fra sessi, anche se purtroppo la donna è ancora lontana da godere di una piena parità dei diritti con l’uomo in campo economico, sociale, culturale e politico. La storia dei diritti delle donne rappresenta un aspetto tra i più importanti e significativi dell’emancipazione e del progresso dell’umanità. Rimaneva loro il ruolo di “regina della casa”; spettava loro badare alle incombenze domestiche, occuparsi dei figli, essere delle buone casalinghe, destinate a una vita tra le mura domestiche. Oggi può apparire scontato, almeno nella parte più evoluta del mondo, che i diritti siano condivisi, che la parità fra i sessi non possa essere messa in discussione, che le donne abbiano le stesse possibilità degli uomini e che, quindi, le differenze debbano fondarsi unicamente sul talento e sulla capacità individuale di promuovere e di affermare le proprie qualità. È cosa ovvia che le donne possano gestire la propria vita sulla base di un progetto individuale autonomo e libero da lacci e impedimenti; che possano scegliere se costituire una famiglia oppure vivere in maniera del tutto indipendente; che possano esprimere i propri affetti senza le pressioni e i condizionamenti della famiglia e dell’ ambiente culturale in cui vivono. Per

quanto queste osservazioni possano apparire scontate ed evidenti, non si deve tutta via dimenticare che il progresso dell’umanità non è mai omogeneo e rettilineo e non segue ovunque gli stessi percorsi. Non mancano infatti, tuttora, aree geografiche e contesti culturali in cui le conquiste, anche nelle situazioni più progredite.

È il ‘900 il secolo in cui le donne ottengono risultati positivi sia nell’ambito del lavoro sia in quello dei diritti. Il primo inserimento di massa delle donne nelle fabbriche si ebbe durante la Prima guerra mondiale, quando esse vennero chiamate a occupare i posti lasciati liberi dagli uomini. Al termine del conflitto, però, furono costrette a tornare alle abituali

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occupazioni. Con la Seconda guerra mondiale furono richiamate nelle fabbriche e questa volta non tornarono a casa, dato che l’espansione economica del dopoguerra consentì loro di mantenere i posti di lavoro. Negli ultimi quarant’anni, con la scolarizzazione di massa e l’espansione del terziario, le donne si sono inserite in tutte le attività produttive, anche in quelle tradizionalmente maschili (medicina, ingegneria, avvocatura…). Le fabbriche italiane, verso la fine

degli anni ’80, cominciarono a

richiedere manodopera flessibile a

basso costo, e lo sfruttamento di

donne e bambini fu allora simile, se

non peggiore, a quello realizzato

durante la rivoluzione industriale

inglese nel ‘700. Se, infatti, in un

primo tempo, la necessità di lunghi

anni di apprendistato aveva sfavorito

l’impiego della manodopera femminile

al telaio a mano poiché non si riteneva

conveniente investire sul futuro

lavorativo delle donne in quanto esse,

sposandosi, finivano per lasciare la

casa paterna oppure si

allontanavano dalla fabbrica e dal

lavoro esterno per seguire la famiglia,

successivamente, con la

meccanizzazione della tessitura ed un

accentuazione del livello di

automazione, il lavoro fu reso più

semplice, si abolì l’apprendistato, i

lavoranti divennero più facilmente

sostituibili in caso di dipartita e le

donne divennero appetibili soprattutto

per il basso salario femminile,

concorrenziale rispetto a quello

maschile. Gli imprenditori, in alcuni

casi, poiché le operaie erano le figlie o

le mogli di contadini ed il lavoro si

svolgeva al di fuori della casa, per

convincere i genitori e rassicurarli,

arrivarono a creare convitti gestiti da

religiose, che seguivano anche

l’educazione delle giovini ed

insegnavano i lavori domestici. In altri

casi, supplendo al mancato intervento

dello Stato, migliorarono le condizioni

di lavoro introducendo norme di igiene

individuale, creando villaggi per gli

operai o asili e scuole per i loro figli:

erano mossi da filantropia, ma

sapevano anche che queste modifiche

delle condizioni di vita dei loro operai

sarebbero state a vantaggio

dell’organizzazione dello stesso lavoro

di fabbrica. Questa situazione non

durò a lungo: dal 1881, infatti,

l’aumento del tasso di

industrializzazione non si accompagnò

più né ad un “paternalismo” degli

industriali, né ad una crescita del

tasso di occupazione femminile nelle

fabbriche. La causa è da individuarsi

nello sviluppo dell’industria pesante

che impiegò soprattutto manodopera

maschile, nella legislazione protettiva,

nel frattempo intervenuta, che aveva

reso meno vantaggiosa l’assunzione

delle donne, e nella presenza di forme

di attività artigianali e a domicilio, non

specializzate, che furono svolte da

donne nelle loro abitazioni, senza

venire registrate. Le industrie tessili,

alimentari, dei tabacchi che nel

periodo 1881-‘86 costituivano il 74.2%

del prodotto dell’industria

manifatturiera, nel periodo tra il 1911-

‘15 si ridussero al 59.2%; le industrie

meccaniche e metallurgiche

passarono, invece, dal 19.8% al

30.6%. Si verificò, pertanto, una

trasformazione della struttura

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economica dall’industria leggera a

quella pesante, con investimenti

economici rilevanti: le donne vennero

scaricate, escluse da questi ambiti,

sospinte verso la loro primitiva e

“naturale” collocazione domestica. In

realtà, esse furono collocate in nuovi

lavori marginali, con un salario

considerato sempre sussidiario.

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LA FAME

NEL

MONDO

REDATTRICI : SIMONA CONCOLINO – GIULIA FIORENTINO

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La fame continua ad essere un problema in tutto il mondo. Secondo

l’Organizzazione per l’ alimentazione delle Nazioni Unite 850 milioni di persone

nel mondo erano denutrite fra il 1999 e il 2005 ed il numero è in continuo

aumento. Nell’ anno 2000 le Nazioni Unite si sono impegnate a ridurre la povertà

della metà entro il 2015. Ma in effetti il difficile obiettivo non è stato raggiunto; anzi,

la fame nel mondo sembra, soprattutto in alcune regioni africane, tendere

all'aumento. Per la possibilità di sconfiggere la fame nel mondo si scontrano due

scuole di pensiero: una sottolinea soprattutto la necessità di una distribuzione delle

risorse minerarie ; la seconda vuole, vuole porre l'accento sulla necessità di

aumentare le capacità produttive .

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Ogni giorno nel mondo muoiono molte persone a causa della fame . La fame è

causata dalle guerre, dalla malnutrizione cronica, dalle malattie o dalla povertà.

Alcuni esperti sostengono che il rimedio alla fame sia l’ istruzione ; perché chi è

istruito riesce ad uscire dal ciclo di povertà. Per una famiglia vivere in estrema

povertà significa vivere in condizioni di estremo pericolo e insicurezza.

L’ UNITED NATIONS MILLENIUM DECLARATION sancisce gli otto obbiettivi

essenziali che dovevano essere raggiunti entro il 2015, e sono :

1) Sradicare la fame e la povertà.

2) Garantire l’ educazione primaria universale.

3) Promuovere la parità tra i sessi e l’ autonomia delle donne.

4) Ridurre la mortalità infantile.

5) Migliorare la salute materna.

6) Combattere l’ HIV o AIDS.

7) Garantire la sostenibilità ambientale.

8) Sviluppare la collaborazione mondiale dello sviluppo.

GLI OBBIETTIVI DEL MILLENNIO

LA POVERTÀ ESTREMA

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NAZIONI CON PIU’ ALTO TASSO DI MORTALITA’

Per la prima volta dopo sei anni, nel mondo si parla nuovamente di carestia

per due Paesi africani: la Somalia e il Sud Sudan. Il termine carestia non è il tipo di

parola che si usa con leggerezza. Questa espressione viene utilizzata nel quadro di

un sistema mondiale di classificazione, elaborata da diverse agenzie umanitarie.

Durante il secolo scorso, diverse carestie hanno colpito Paesi fuori dal continente

africano, come la Cambogia, la Cina, l’Unione Sovietica, l’Iran. Spesso sono state

frutto del volere di chi comandava. L’Europa ha conosciuto diverse fasi di carestia

durante il Medioevo.

Le più recenti sono state vissute durante le due Guerre Mondiali, in Germania,

Polonia e Olanda, come conseguenza degli embargo militari. L’Africa è stata colpita

da tante carestie negli ultimi decenni, da quella del Biafra (Nigeria), negli anni ’70, a

quella dell’Etiopia negli anni 1983-85. Quest’ultima aveva suscitato forti emozioni

nel Mondo, evidenziata dai media e dalla mobilitazione di numerosi artisti. L’ultima

carestia registrata è quella che colpito la Somalia nel 2011, causando la morte di

260.000 persone.

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LE CAUSE DELLA FAME

La malnutrizione rappresenta ancora oggi il principale fattore di rischio di mortalità

infantile: è la causa nascosta della morte di 1 bambino su 3. Nel mondo sono circa

200 milioni i bambini tra 0 e 5 anni che soffrono di carenze alimentari. Il mondo

produce cibo a sufficienza per sfamare l’intera popolazione mondiale - 7 miliardi di

persone. Tuttavia, una persona su nove nel mondo va a dormire affamata ogni

notte. In alcuni paesi, un bambino su tre è sottopeso.

Perché esiste la fame?

Molte sono le cause della fame nel mondo; si tratta di fattori spesso tra loro

collegati. Ve ne presentiamo sei tra i più rilevanti.

La trappola della povertà

Le persone che vivono in povertà non possono permettersi cibo nutriente per sé e

per le loro famiglie. Ciò le rende deboli e meno capaci di guadagnare il necessario

per sottrarsi alla povertà e alla fame. Il problema non ha solo conseguenze di breve

termine: quando i bambini soffrono la malnutrizione cronica, o il ‘deficit di sviluppo,

ciò può compromettere la loro futura capacità di guadagno, condannandoli a una

vita di povertà e stenti.

Nei paesi in via di sviluppo, gli agricoltori spesso non possono permettersi l’acquisto

di sementi, perciò non possono piantare le colture in grado di sfamare loro e gli altri

membri della famiglia.

E’ possibile che debbano coltivare i campi senza la strumentazione e i fertilizzanti

necessari. In altri casi, è la terra, l’acqua o l’istruzione a mancare. Il risultato è lo

stesso: i poveri soffrono la fame, e la fame li intrappola nella loro condizione di

povertà. Nel mondo, i conflitti compromettono sistematicamente l’agricoltura e la

produzione alimentare. I combattimenti, inoltre, costringono milioni di persone ad

abbandonare le loro case e producono vere e proprie emergenze alimentari, poiché

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gli sfollati dal conflitto si ritrovano senza i mezzi per sfamarsi. Il conflitto in corso in

Siria ne è un esempio.

Durante le guerre, il cibo diventa talvolta un’arma di guerra. I militari sono

determinati ad affamare i nemici fino alla capitolazione attraverso l’accaparramento

e la distruzione di cibo e bestiame, assieme alla devastazione dei mercati locali. I

campi vengono spesso minati e i pozzi d’acqua contaminati, costringendo gli

agricoltori ad abbandonare le loro terre. Il conflitto in corso in Somalia e nella

Repubblica Democratica del Congo ha contribuito significativamente allo stato di

deprivazione alimentare attuale nei due paesi. Al contrario, la fame diminuisce in

zone più pacifiche dell’Africa, come il Ghana e il Rwanda. In molti paesi in via di

sviluppo vi è insufficienza di infrastrutture agricole, quali strade, magazzini e sistemi

di irrigazione. La conseguenza sono elevati costi di trasporto, mancanza di strutture

di stoccaggio e approvvigionamenti idrici incerti. Tutto ciò concorre a limitare le rese

agricole e l’accesso al cibo. Gli investimenti nel miglioramento della gestione dei

suoli, nell’utilizzo più efficiente delle risorse idriche e nella fortificazione delle

sementi disponibili possono apportare considerevoli miglioramenti.

Studi condotti dall’ ORGANIZZAZIONE PER L’ ALIMENTAZIONE E L’ AGRICOLTURA

DELLE NAZIONI UNITE (FAO) dimostrano che gli investimenti in agricoltura sono

cinque volte più efficaci nel ridurre fame e povertà rispetto agli investimenti in

qualsiasi altro settore.

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QUALI SONO LE CAUSE DELLA FAME?

LA POVERTA’: Le persone che vivono in povertà non possono

permettersi cibo nutriente per sé e per le loro famiglie. Ciò le rende deboli e

meno capaci di guadagnare il necessario per sottrarsi alla povertà e alla fame. Il

problema non ha solo conseguenze di breve termine: quando i bambini

soffrono la malnutrizione cronica, o il “deficit di sviluppo”, ciò può

compromettere la loro futura capacità di guadagno, condannandoli a una vita di

povertà e stenti. Nei paesi in via di sviluppo, gli agricoltori spesso non possono

permettersi l’acquisto di sementi, perciò non possono piantare le colture in

grado di sfamare loro e gli altri membri della famiglia. E’ possibile che debbano

coltivare i campi senza la strumentazione e i fertilizzanti necessari. In altri casi, è

la terra, l’acqua o l’istruzione a mancare. Il risultato è lo stesso: i poveri soffrono

la fame, e la fame li intrappola nella loro condizione di povertà.

CLIMA E METEO: Disastri naturali come alluvioni, tempeste tropicali e lunghi

periodi di siccità sono in aumento – con conseguenze drammatiche per chi

soffre fame e povertà nei paesi in via di sviluppo. La siccità è una delle cause più

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comuni della scarsità di cibo nel mondo. Nel 2011, fenomeni di siccità ricorrenti

hanno vanificato il raccolto e provocato gravi perdite di bestiame in aree

dell’Etiopia, della Somalia e del Kenya. Nel 2012, una situazione simile si è

verificata nella regione del Sahel nell’Africa occidentale. In molti paesi, il

cambiamento climatico sta aggravando condizioni naturali già avverse. Sempre

di più, i terreni fertili nel mondo sono minacciati dall’erosione.

MERCATI INSTABILI: Negli ultimi anni, il prezzo dei prodotti alimentari è risultato

molto instabile. Prezzi erratici rendono difficile per i poveri l’accesso stabile a

cibo nutriente. I poveri hanno bisogno di avere accesso a cibo adeguato tutto

l’anno. Le impennate nei prezzi possono temporaneamente rendere il cibo

inaccessibile, con possibili conseguenze di lungo periodo per i bambini piccoli.

Quando i prezzi aumentano, i consumatori spesso passano al consumo di

alimenti più a buon mercato e meno nutrienti, aumentando il rischio di deficit

nutrizionali e altre forme di malnutrizione.

SPRECO ALIMENTARE: Un terzo di tutto il cibo prodotto (1,3 miliardi di

tonnellate) non viene mai consumato. Lo spreco alimentare rappresenta

un’opportunità mancata per migliorare la sicurezza alimentare globale in un

mondo dove una persona su nove soffre la fame.

Produrre questo cibo richiede l’utilizzo di risorse naturali preziose di cui

abbiamo bisogno per nutrire il pianeta. Ogni anno, il cibo prodotto ma non

consumato assorbe un volume d’acqua equivalente al flusso del fiume Volga, in

Russia.

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ALIMENTAZIONE Attraverso una corretta alimentazione si può aiutare il proprio organismo a

mantenersi in forma.

L’organismo umano ha bisogno di tutti i tipi di nutrienti per funzionare

correttamente. Alcuni sono essenziali a sopperire il bisogno di energia, altri ad

alimentare il continuo ricambio di cellule.

Pane, pasta, riso apportano all’organismo carboidrati, che rappresentano la

fonte energetica principale dell’organismo, meglio se consumati integrali.

Contengono inoltre vitamine del complesso B e minerali, oltre a piccole

quantità di proteine.

Frutta e ortaggi sono ricchi di vitamine e minerali, essenziali nel corretto

funzionamento dei meccanismi fisiologici. Contengono, infine, antiossidanti

che svolgono un’azione protettiva.

Carne, pesce, uova e legumi hanno la funzione di fornire proteine; forniscono

energie “di riserva “. Sono elementi importanti nella costruzione di alcune

molecole biologiche. Un insufficiente apporto di proteine può compromettere

diverse funzioni (per esempio si può perdere massa muscolare), ma un

eccesso è altrettanto inappropriato: le proteine di troppo vengono infatti

trasformate in depositi di grasso. Le carni, in particolare quelle rosse,

contengono grassi saturi e colesterolo, perciò vanno consumate con

moderazione. Vanno consumati con maggior frequenza il pesce, che ha un

effetto protettivo verso le malattie cardiovascolari e i legumi, che

rappresentano la fonte più ricca di proteine vegetali e sono inoltre ricchi di

fibre.

Latte e derivati sono alimenti ricchi di calcio, un minerale essenziale nella

costruzione delle ossa. E' preferibile il consumo di latte scremato e di latticini

a basso contenuto di grassi.

Circa il 70% dell’organismo umano è composto di acqua e la sua presenza, in

quantità adeguate, è essenziale per il mantenimento della vita. L’acqua è, infatti,

indispensabile per lo svolgimento di tutti i processi fisiologici svolge un ruolo

essenziale nella digestione, nell’assorbimento, nel trasporto e nell’impiego dei

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nutrienti. È il mezzo principale attraverso cui vengono eliminate le sostanze di scarto

dei processi biologici

CONSIGLI UTILI PER UNA GIUSTA

ALIMENTAZIONE: Fare la prima colazione e scegliere pane, frutta e cereali;

Non esistono cibi buoni o cattivi vanno mangiati tutti;

La frutta e la verdura non devono mai mancare;

Riduci al minimo i grassi saturi e i cibi che li contengono;

Evita di mangiare fuori pasto;

Bevi acqua liberamente e preferiscila a bevande dolci;

Bisogna lavarsi i denti sempre dopo aver mangiato o bevuto bevande dolci;

Non mangiare troppe merendine

Non mangiare più del necessario

Non esagerare con i dolci

Mangiare ogni giorno cibi differenti

L'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura, in sigla

FAO, è un'agenzia specializzata delle Nazioni Unite con lo scopo di contribuire ad

accrescere i livelli di nutrizione, aumentare la produttività agricola, migliorare la vita

delle popolazioni rurali e contribuire alla crescita economica mondiale. La FAO

lavora al servizio dei suoi paesi membri per ridurre la fame cronica e sviluppare in

tutto il mondo i settori dell'alimentazione e dell'agricoltura.

LA F.A.O.

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Ogni paese paga per appartenere all’Organizzazione. I contributi variano secondo la

ricchezza del paese. Con questi fondi l’Organizzazione compie il proprio lavoro per

conto dei suoi membri.

Alcune nazioni versano contributi extra per sostenere progetti sul campo. L’Italia è

uno dei paesi donatori più generosi per il programma della FAO sul campo.

La FAO mette a disposizione online una raccolta immensa di dati, informazioni,

statistiche, studi e ricerche su argomenti quali sicurezza alimentare, produzione

agricola, foreste, pesca, biodiversità, desertificazione, prodotti di base, risorse

naturali, alimentazione e molto altro.

La FAO, fondata il 16 ottobre 1945, è la prima agenzia specializzata creata in seno

alle Nazioni Unite. La nascita di tale organizzazione avviene verso la fine della

Seconda Guerra Mondiale, poiché proprio la guerra contribuisce a dare rilevanza al

problema delle esigenze alimentari imposte alle popolazioni e ai soldati.

La lotta contro la fame continua a essere il motivo conduttore dell’attività della

F.A.O., ma nuovi problemi sono emersi: per esempio, le coltivazioni di piante

geneticamente modificate e gli aspetti internazionali della pesca. La pesca è un altro

problema perché con i moderni metodi di pesca in alto mare molte specie rischiano

l’estinzione. La piaga biblica delle cavallette continua a minacciare l’africa. La F.A.O.

è da tempo il luogo eletto del coordinamento della lotta contro questo disastro

naturale. Il controllo si avvale di pesticidi sparsi da piccoli aerei, ma un grosso sforzo

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è in corso per seguire l’evoluzione degli sciami e intervenire tempestivamente

risparmiando tempo e denaro e minimizzando i danni ai raccolti

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PIRAMIDE ALIMENTARE La piramide alimentare serve per tenere una giusta alimentazione. In essa non

esistono cibi “buoni” o “cattivi” ciò significa che tutti gli alimenti rappresentati

devono essere presenti tutti i giorni. La forma della piramide rappresenta anche la

quantità del cibo che va mangiato (dal basso =quantità maggiori) (dall’alto= quantità

minori)

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Circa trent’anni fa gli Americani hanno creato una nuova alimentazione “La dieta

Mediterranea”, sana e genuina, e ha lo scopo di diminuire : l’obesità, il diabete e

alcuni tipi di tumori.

LA DIETA MEDITERRANEA

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1) Dado

2) Chewing gum /caramelle

3) Wustel e mortadella

4) Sottilette e formaggini

5) Caffè

6) Pane bianco

7) Coca cola

8) Pasta con il ragù

9) Patatine aromatizzate

10) Zucchero bianco

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LE NUOVE TECNOLOGIE Redattori: (Sinopoli Daniele – Pugliano Andrea – Sciumbata Francesco -)

In questa nuova era nella quale ogni individuo ha accesso ad internet internet ha cambiato il modo

di pensare e di essere umano in “ Carne ed ossa”.

Un pezzo consistente della nostra vita convive con una realtà virtuale: smartphone, computer,

tablet, antenna parabolica e molte altre tecnologie sono entrate a far parte della quotidianità.

Sono innovazioni che hanno generato una forte discontinuità con il passato anche nei nostri mondi

d’ogni giorno. La dimensione dello spazio fisico si è quasi annullata: in qualsiasi momento e luogo

possiamo vedere o sapere cosa accade altrove, comunicare con qualcuno. E così pure è per il

tempo: possiamo essere online costantemente connettendoci a Internet o con la televisione la cui

programmazione è 24 ore su 24. Soprattutto, e diversamente dal passato, queste tecnologie

rendono permeabili ambiti un tempo separati: il lavoro, il tempo libero, la famiglia. Quanto siamo

immersi nelle nuove tecnologie digitali, quanto fanno parte della nostra quotidianità è l’oggetto

dell’Indagine LaST (Community Media Research in collaborazione con Intesa Sanpaolo, per La

Stampa). I nove decimi della popolazione italiana dispongono di almeno di un computer (91,0%),

dell’accesso a Internet (90,6%) e del cellulare (88,0%). Le nostre comunicazioni transitano in

misura crescente attraverso Internet: mail, whatsapp, social network... E quanto questo sia parte

costitutiva della nostra sfera professionale è presto detto: il 43 ,1% della popolazione si connette

alla Rete quotidianamente per lavoro. E se escludiamo quanti non sono attivi e circoscriviamo il

risultato ai soli occupati scopriamo che il 72,4% si collega tutti i giorni a Internet. Ma un conto è

essere obbligati a connettersi a Internet per motivi di lavoro, altro è farlo autonomamente per

motivi personali, tenersi al corrente o per diletto. In quest’ultimo caso, ben tre interpellati su

quattro (74,1%)dichiarano di connettersi alla rete

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ESISTONO VARI TIPI DI TECNOLOGIE, FRA LE PIÙ IMPORTANTI TROVIAMO:

1) COMPUTER

2) STAMPANTI

3) ROBOTICA

I COMPUTER Prima della creazione del computer troviamo molti altri strumenti che lo precedevano:

Il primo computer I primi computer elettronici nascono sul finire della seconda guerra mondiale. A quell’epoca erano

molto diversi da come li concepiamo oggi: si trattava di enormi calcolatori, grandi quanto un intero

edificio, che venivano utilizzati per scopi specifici. Non avevano un sistema operativo, il loro

funzionamento era determinato dal loro schema elettrico invece che da un

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La pascalina di Blaise Pascal.

La “macchina analitica” di Charles Babbage.

programma. Il più famoso di questi, il “Colossus” (o “Mark I”)fù costruito nel 1943 dal governo

britannico per decriptare in maniera più rapida le comunicazioni radio dei Tedeschi criptate con la

macchina ENIGMA.

La macchina di Von Neumann

Lo studio dei calcolatori si trasferì nelle università degli Stati Uniti, dove il lavoro di molti

ricercatori ed in particolare del matematico e fisico John Von Neuman portò a definire le basi dei

moderni calcolatori: non più sofisticate calcolatrici ma entità capaci di eseguire sequenze di

comandi (algoritmi). John von Neumann definì per la prima volta il concetto di elaboratore

elettronico a programma memorizzato, la cosiddetta “macchina di von Neumann”. Neumann fù il

primo a inquadrare in una teoria matematica coerente le “macchine intelligenti” e gli automi. Per

questo è anche considerato come il padre dell’informatica.

Con lui nacquero le prime Memorie RAM: infatti proprio in quell’ anno nel 1951 Jay Forrester

registra un brevetto per la memoria a nuclei magnetici che sostituirà la più ingombrante memoria

a tamburo magnetico.

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La macchina di Von Neumann

Schema di Von Neumann.

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Gli elaboratori commerciali

Nel 1957 l’IBM introduce e inizia le installazioni dei sistemi RAMAC (Random Access Method Of

Accounting And Control). Si tratta dei primi elaboratori commerciali che dispongono di una unità a

dischi fissi (hard-disk) per la memorizzazione di dati che sostituisce le ingombranti e lente unità a

nastro magnetico. John Backus e altri colleghi della IBM rilasciano la prima versione del

compilatore per il linguaggio di programmazione FORTRAN (Formula Translator). Nel 1958 nasce il

modem. La Bell sviluppa un modem per la trasmissione di dati binari via telefono. Si forma il

Comitato per i linguaggi di sistemi di dati e nasce il COBOL (Common Business Oriented Language).

Nello stesso anno viene alla luce il LISP, un linguaggio studiato per l’intelligenza artificiale. Il 1960

vede la fine delle schede perforate come dispositivo di input e di programmazione. La DEC infatti,

introduce il PDP-1, il primo computer commerciale con un monitor e tastiera per l’input. Nel

1962 nasce al MIT il primo videogame della storia per merito dello studente Steve Russell creatore

di Spacewar!, sparatutto per PDP-1. Curiosità : il monitor del PDP-1 era di forma circolare, come un

oblo.Nel 1964 nasce il linguaggio BASIC (Beginner’s All-purpose Symbolic Instruction Code) .Nel

1964 Doug Engelbart inventa il mouse. Nel 1968 Robert Noyce, Andy Grove e Gordon Moore

fondano la Intel. Nel 1977 esce sul mercato l’APPLE II il primo home computer con programmi di

videoscrittura, fogli di calcolo, giochi e tanto altro. Nello stesso anno Bill Gates e Paul Allen

fondano la Microsoft. L’ATARI vende la prima console casalinga: il VCS 2600.Nel 1978 esce il

processore a 16 bit Intel 8086.Nel 1979 Don Bricklin e Bob Franston realizzano VISICALC il primo

foglio di calcolo elettronico (spreadsheet) della storia. La “fame di risorse” di questo programma

contribuì a rendere obsoleti tutti i precedenti computer. Sempre nel ’79 la Motorola presenta il

chip 68000, che più tardi supporterà i computer Macintosh ed i Commodore Amiga. Nello stesso

anno Sony e Philips annunciano i primi videodischi digitali mentre sono allo studio i primi telefoni

cellulari. Nel 1981 l’architettura aperta del PC IBM viene lanciata in agosto, decretando

l’affermazione del computer desktop a scapito dei terminali aziendali collegati al MainFrame.

Un’anno dopo la Compaq produce il primo clone. La Commodore presenta il celebre VIC 20:

processore 6502A, 5 KB di Ram. Se ne venderanno fino a 9000 esemplari al giorno. Nel 1982

Commodore presenta il Commodore 64. Il calcolatore più venduto della storia: fra 17 e 22 milioni di

unità.Nel 1983 esce il computer IBM XT contemporaneamente viene lanciato sul mercato il foglio

elettronico Lotus 1-2-3 che permette la realizzazione di grafici a torta. Nel 1983 vengono

pubblicate le specifiche del protocollo di rete TCP/IP che segna l’inizio dell’era di Internet. Nel 1984

l’Apple annuncia il personal computer Macintosh. Sony e Philips introducono i primi CD-ROM, che

forniscono una enorme capacità di registrazione dei dati (fino a 640mb). Inizia in agosto la

produzione del processore Intel 80286 a 16 bit, che viene inserito nel PCIBM “AT”.Silicon Graphics

commercializza la sua prima workstation grafica Unix interamente dedicata alla grafica

tridimensionale. Nasce il DNS (Domain Name Server) su Internet. Esso traduce gli indirizzi numerici

delle macchine in nomi. Nel 1985 La Microsoft sviluppa Windows 1.0, introducendo aspetti tipici

del Macintosh (menù, finestre, icone) nei computer DOS compatibili.

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LE STAMPANTI

“ DALLA PRIMA ALL’ULTIMA GENERAZIONE “

L'impiego delle stampanti risale agli albori dell'informatica, in quanto bisogna ricordare che

l'utilizzo del monitor per l'output dei dati è una invenzione relativamente recente. I primi computer

restituivano i dati per mezzo di spie luminose, nastri perforati e stampe su carta. In realtà anche

prima dell'era dei computer, già a metà Ottocento erano disponibili stampanti per imprimere su

carta i segnali in Codice Morse del telegrafo. Tutte le stampanti sviluppate fino agli anni

ottanta utilizzavano la tecnologia ad impatto, già sviluppata per le macchine da scrivere; i primi

sistemi di videoscrittura erano praticamente costituiti da una stampante abbinata ad un computer

dedicato.

L'introduzione della tecnologia a matrice di aghi avvenne nel 1970 ad opera di Centronics, nome

legato allo standard della porta parallela. Il numero limitato di aghi nei primi modelli produceva

caratteri poco definiti e sbiaditi.

L'introduzione della matrice a 24 aghi con la famiglia LQ della Epson, segnò una svolta nella

qualità, che divenne comparabile con la tecnologia ad impatto tradizionale, ma con in più la

possibilità della stampa grafica.

Nel 1971 la Casio inizia lo sviluppo della tecnologia a getto di inchiostro piezoelettrica. Il primo

modello commerciale di stampante inkjet fu disponibile solamente nel 1984: la

serie Thinkjet dalla Hewlett Packard. Questa svolta fu possibile grazie allo sviluppo della tecnologia

termica a partire dal 1979 dalla stessa HP. Dopo tre anni uscì il primo modello a colori: la paintjet.

La tecnologia laser fu sviluppata inizialmente da Xerox Corporation nel 1971. Le prime macchine

erano estremamente costose, complesse ed ingombranti. La prima stampante laser commerciale

da tavolo fu resa disponibile da Canon nel 1982: la LBP-10.

Importante fu anche lo sviluppo degli standard di comunicazione con il computer. Alcuni modelli di

stampanti di successo hanno dato origine a standard de facto, le cosiddette emulazioni. Una

stampante poteva accettare i comandi

destinati al modello standard emulato ed era

in questo modo compatibile con il software

esistente. Alcuni esempi di emulazioni sono:

IBM Proprinter, Epson ESC P/2, HP Laserjet.

Altrettanto importante è stata l'ideazione dei

linguaggi standard per la descrizione della

pagina, indipendenti dal modello di

stampante: i più diffusi sono

il Postscript di Adobe Systems (1976) ed

il Printer Control Language (PCL) di Hewlett

Packard. In pratica le applicazioni codificano

nel linguaggio specifico le pagine da stampare, senza doversi preoccupare di quale dispositivo di

output è utilizzato, il codice è poi interpretato dal microprocessore della stampante,

dai driver software, oppure da programmi di visualizzazione/conversione. Molteplici sono le

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tecnologie sviluppate per stampare informazioni su carta. Alcune sono state rese obsolete

dall'arrivo di altre, ma spesso non del tutto estinte, semplicemente relegate ad applicazioni

particolari Tridimensionali. Questo tipo di stampanti permette la riproduzione in tre dimensioni di

oggetti aventi varia foggia e dimensione. Si basano su di una serie di testine - disposte secondo i

tre assi dello spazio (x, y, z) dalle quali viene estruso il materiale (in genere una resina) che

costituirà l'oggetto finito. La precisione e l'ordine di grandezza dei dettagli riprodotti rendono

questo tipo di stampanti adatte alla modellistica industriale. Si prevede il suo impiego anche per la

tele-dislocazione delle linee di produzione della componentistica industriale, medica e della

oggettistica rispetto alle sedi di progettazione.

Questa tecnologia, per la maggior parte, è derivata dalle macchine da scrivere elettriche.

Essenzialmente alcuni punzoni riportano in rilievo la forma del carattere, che per mezzo di

un elettromagnete viene battuto sulla carta con l'interposizione di un nastro inchiostrato. I

caratteri possono essere portati su leve, sulla superficie di cilindri, sul bordo di un disco

(margherita), su un nastro metallico (catena), o su una sfera. I limiti di questo sistema consistono

nella limitatezza di ciò che può essere stampato (font fissi, niente grafica) e nella lentezza, ad

eccezione delle stampanti a catena che riuscivano a stampare a velocità paragonabili ad una

moderna laser.

Stampanti di linea [modifica | modifica wikitesto]

Appartengono sempre alla categoria delle stampanti ad impatto, ma sono molto più veloci

riuscendo a stampare un'intera linea di testo alla volta. Nel corso degli anni sono state sviluppate

tre diverse tipologie.

Nelle stampanti a tamburo, un tamburo porta l'intera serie di caratteri stampabili ripetuto

in ogni colonna della riga che deve essere stampata.

Nelle stampanti a catena (chiamate anche stampanti a martelli o a nastro), la serie di

caratteri è disposta in sequenze multiple attorno ad una catena o su di un nastro metallico

che viaggia orizzontalmente di fronte alla linea di stampa.

In entrambi i casi per stampare una linea, dei piccoli martelli accuratamente temporizzati

colpiscono la parte posteriore della carta nel momento esatto in cui il carattere corretto da

stampare sta passando davanti alla giusta colonna carta. La carta viene spinta avanti contro un

nastro di tessuto inchiostrato che a sua volta preme contro la forma del carattere e questo viene

impresso sulla carta.

Le stampanti a matrice di riga rappresentano l'ultima tipologia di stampanti di linea e sono tuttora

in commercio. Queste stampanti sono un ibrido tra le stampanti a matrice di aghi e la stampante di

linea a martelli. In queste stampanti, un pettine di piccoli martelli puntiformi stampa

contemporaneamente una riga delle colonne dei pixel per volta. Facendo muovere leggermente il

pettine avanti e indietro è possibile stampare l'intera fila di pixel. La carta viene alzata e viene

stampata la fila successiva di pixel, fino al completamento della riga di caratteri. Poiché con questa

tecnica si aumenta notevolmente il numero di aghi che stampano in contemporanea rispetto ai 9 o

24 della stampanti con matrice di aghi convenzionale, queste stampanti sono molto più veloci

rispetto alle stampanti con matrice di aghi e sono competitive nella velocità rispetto alle stampanti

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di linea, avendo in più l'enorme vantaggio di poter stampare grafica a matrice di punti, es. i Codici

a Barre.

Dato elevati costi, gli ingombri e la rumorosità, le stampanti di linea erano impiegate per quei

gravosissimi lavori di stampa dentro ai centri di calcolo dove, collegati a potentissimi mainframe,

venivano impiegate per la stampa di bollette da inoltrare alle utenze nazionali di acqua luce

telefono.

Nelle stampanti di linea la velocità di stampa viene espressa in LPM ovvero Linee Per Minuto,

diversamente dalle altre stampanti ad impatto dove viene espressa in Caratteri Per Minuto (CPM)

L'eredità delle stampanti di linea si trova anche oggi dentro a molti sistemi operativi dei computer,

che tuttora usano le abbreviazioni; lp" , " lpr" , o " LPT" .

Testine di stampa, generalmente con standard di 9, 18, 24 oppure 36 aghi, mossi da elettromagneti azionati da

driver appositi, battono sulla carta attraverso un nastro inchiostrato mentre si spostano lateralmente sul foglio.

La sequenza dei colpi è generata da un circuito elettronico per comporre i pixel che costituiscono i caratteri o

parte di una immagine. La risoluzione in queste stampanti è misurata in CPI (caratteri per pollice), ovvero il

numero di caratteri che potevano essere contenuti in senso orizzontale in un pollice (2,54 cm).

La stampa può avvenire in entrambi i sensi di spostamento della testina, con un aumento della velocità

complessiva (stampa bidirezionale). Alcuni modelli di stampanti ad aghi possono riprodurre il colore, impiegando

oltre al nero anche tre bande colorate secondo lo standard CMYK. La tecnologia di stampa a matrice è ancora

richiesta in alcuni settori poiché permette di imprimere anche modulistica a più copie.

GETTO DI INCHIOSTRO

È la tecnologia che ha avuto il maggiore successo presso l'utenza privata ed i piccoli uffici, principalmente a causa

del basso costo di produzione, della silenziosità e buona resa dei colori. Una schiera di centinaia di microscopici

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ugelli spruzzano minuscole gocce di inchiostro a base di acqua sulla carta durante lo spostamento del carrello. Il

movimento dell'inchiostro è ottenuto per mezzo di due distinte tecnologie:

pompe piezoelettriche che comprimono il liquido in una minuscola camera,

resistenze elettriche che scaldano bruscamente il fluido all'interno della camera di compressione

aumentandone il volume e quindi facendolo schizzare dall'ugello (Jet_Plate).

Entrambi veri prodigi di fluidodinamica sono realizzate con tecnologie di fotoincisione simili a quelle per la produzione di massa dei circuiti integrati, che consentono costi per quantità molto contenuti. La risoluzione e la qualità di stampa di queste testine raggiunge livelli paragonabili alla fotografia tradizionale, ma solamente utilizzando carta la cui superficie sia stata opportunamente trattata per ricevere l'inchiostro. Il problema più grave di questa tecnica è l'essiccamento dell'inchiostro nelle testine, che è frequente causa di malfunzionamenti. Un altro svantaggio è dato dall'elevato costo per copia stampata se confrontato con le altre tecnologie. Queste stampanti impiegano circa 5-15 secondi per pagina, e hanno una risoluzione che varia dai 300x300 dpi (dot per inches) ai 4200x1200 dpi.

Inchiostro solido (Sublimazione d'inchiostro) [modifica | modifica wikitesto]

Tecnologia simile alla precedente, ma che offre anche su carta comune immagini dall'aspetto fotografico, grazie alla lucidità della cera. L'impiego di queste stampanti si sta espandendo sempre più. Originariamente creata da Tektronix nel 1986. Dopo l'acquisto da parte di Xerox della divisione Color Printing and Imaging di Tektronix nel 2000, la tecnologia "solid ink" (inchiostro solido) divenne parte della linea di stampa da ufficio di Xerox.

La tecnologia solid ink utilizza degli stick di inchiostro solido al posto dell'inchiostro fluido o delle cartucce di toner abitualmente utilizzate nelle stampanti. Dopo che lo stick di inchiostro viene caricato nella stampante, viene sciolto ed utilizzato per produrre immagini sulla carta in un processo molto simile alla stampa offset. Xerox sostiene che la stampa con gli inchiostri solidi abbia colori più vibranti rispetto agli altri metodi di stampa, sia più facile da usare, possa essere fatta su una varietà di mezzi molto ampia e sia maggiormente eco-compatibile dal momento che riduce la produzione di sostanze di scarto. Gli stick non sono tossici e si possono maneggiare senza alcuna conseguenza nociva. A metà degli anni novanta, il Presidente della Tektronix mangiò parte di uno stick di inchiostro solido, allo scopo di dimostrare che erano completamente sicuri da usare e maneggiare... e potenzialmente mangiare! La sostanza degli stick è composta da oli vegetali.

Stampanti a inchiostro solido sono per esempio la Xerox Phaser 8560 e la Xerox Phaser 8560MFP.

LASER

Questa tecnologia deriva direttamente dalla xerografia comunemente implementata nelle fotocopiatrici

analogiche. In sintesi, un raggio laser infrarosso viene modulato secondo la sequenza di pixel che deve essere

impressa sul foglio. Viene poi deflesso da uno specchio rotante su un tamburo fotosensibile elettrizzato che si

scarica dove colpito dalla luce. L'elettricità statica attira una fine polvere di materiali sintetici e pigmenti, il toner,

che viene trasferito sulla carta (sviluppo). Il foglio passa poi sotto un rullo fusore riscaldato ad elevata

temperatura, che fonde il toner facendolo aderire alla carta (fissaggio). Per ottenere la stampa a colori si

impiegano quattro toner: nero, ciano, magenta e giallo, trasferiti da un unico tamburo oppure da quattro distinti.

Per semplificare la gestione dei consumabili, nelle stampanti laser monocromatiche moderne il toner e il tamburo

fotosensibile sono incluse in un'unica cartuccia. Questo tipo di stampante ha una velocità di circa 70 ppm (pagine

per minuto) ed una risoluzione che supera i 1200 dpi.

Le stampanti laser sono state connesse a diversi rischi per la salute.

Come conseguenza del processo di stampa la stampante produce azoto e ossigeno ionizzati che formano ozono e

ossidi di azoto. Per questo alcuni modelli è installato un filtro al carbonio che intercetta il flusso d'aria riducendo

tali ossidi.

Quando una stampante laser viene usata per un lungo periodo in uno spazio ridotto e non ventilato il livello

d'ozono può raggiungere livelli tali da divenire irritante.

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Da diversi anni la maggior parte delle stampanti laser hanno modificato la componentistica eliminando il filo

corona che era la causa di produzione di ozono, Si può affermare che la maggior parte delle stampanti laser

vengano considerate ad emissione di ozono quasi nullo. Secondo uno studio condotto in Queensland, Australia,

alcune stampanti emettono un particolato che può causare disturbi respiratori. Gli autori hanno segnalato come

l'emissione di polveri sottili variasse significativamente anche fra macchine dello stesso modello. Secondo il

professor Morawska dell'Università del Queensland una stampante emette tante polveri sottili quante una

sigaretta.

Le conseguenze dell'inalazione di tali polveri dipendono dalla loro composizione spaziando dall'irritazione delle

vie respiratorie a malattie più serie come problemi cardiovascolari o cancro.

Uno studio giapponese del 2006 ha scoperto che le stampanti laser aumentano le concentrazioni di sostanze

cancerogene come benzolo e stirene, o nocive come lo xilene e l'ozono, mentre le stampanti a getto d'inchiostro

emettono 1-pentanolo.

Muhle et al. (1991) hanno riportato che la conseguenza dell'inalazione cronica di toner (una polvere plastica

pigmentata con carbone, diossido di titanio e silica) è simile qualitativamente al biossido di titanio e agli scarichi

di un motore diesel.

LED

Tecnologia molto simile alla precedente, impiega al posto del laser una barra di LED disposti per tutta la

larghezza di una pagina e in numero uguale al numero di pixel da stampare. Le ultime tecnologie consentono una

risoluzione di stampa pari o superiore al laser.

La tecnologia LED, necessitando di una minore quantità di parti mobili, viene considerata più affidabile ed

efficiente rispetto al laser tradizionale, mantenendo inoltre un costo di produzione più basso.

CARTA TERMICA

Impiega un rotolo di carta speciale, trattata chimicamente in modo da annerirsi se scaldata. Una testina larga

quanto la pagina, costituita da una schiera di resistenze elettriche che si scaldano per effetto Joule, impressiona

l'immagine sul foglio mentre questo vi scorre sotto. Era impiegata nei primi apparecchi telefax, ma i documenti

stampati tendevano ad ingiallire e diventare illeggibili in breve tempo. La tecnica è largamente impiegata nelle

stampanti di registratori di cassa, bilance, parchimetri ecc. Era impiegata nella stampante integrata con funzioni

di plotter nel personal computer Olivetti P6060, avente una testina ceramica costituita da una fila di 5 punti

resistivi, equivalenti alle 5 colonne standard dei caratteri alfanumerici.

TRASFERIMENTO TERMICO

Questa tecnologia (detta anche a sublimazione) deriva direttamente dalla precedente, ma invece di impiegare

carta speciale, utilizza una pellicola di plastica rivestita da un pigmento che viene trasferito su carta comune o

plastica dal calore. Esistono anche modelli a colori, impieganti quattro pellicole con i colori fondamentali. La

risoluzione è più bassa rispetto alle stampanti inkjet (non supera in genere i 300 dpi), tuttavia tale risoluzione è

sufficiente per ottenere stampe fotografiche di alta qualità: l'inchiostro, infatti, raggiungendo la carta in forma

gassosa, si mescola perfettamente permettendo di ottenere qualunque sfumatura di colore in ogni pixel, mentre

le stampanti inkjet, per ottenere alcune sfumature, devono ricorrere al dithering (utilizzando più punti per

realizzare un solo pixel); una stampa fotografica raramente supera la risoluzione di 300 ppi (pixel per pollice), dal

momento che ad occhio nudo è praticamente impossibile apprezzare dettagli ad una risoluzione superiore: sulla

stampa a sublimazione, la risoluzione in ppi corrisponde a quella in dpi (punti per pollice), mentre su una stampa

inkjet, utilizzando il dithering, ogni pixel è formato da più punti ed occorrono anche 1200 dpi per una risoluzione

di 300 ppi. Le stampe a sublimazione sono inoltre più durature rispetto alle stampe inkjet, tendendo meno al

viraggio verso il verde.

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Braille

Queste macchine non impiegano inchiostri ma imprimono nella carta i simboli caratteristici

dell'alfabeto braille per non vedenti. Dispongono di una serie di punzoni mossi da elettromagneti che perforano o

imbutiscono la carta creando dei puntini in posizioni opportune grazie ai quali è possibile leggere il testo

impresso utilizzando il senso del tatto anziché quello della vista.

Per permettere una comoda lettura i puntini sono posizionati tra di essi sempre alla stessa distanza o comunque

distanze di poco differenti da quelle standard, quindi non ha senso parlare di risoluzione di stampa.

Con questo tipo di stampante è possibile stampare soltanto le 64 combinazioni permesse dai 6 puntini del braille,

e non è quindi possibile stampare immagini o grafiche elaborate. Si possono creare delle semplici geometrie

decorative giocando con combinazioni di caratteri, tecnica utilizzata per frontespizi o per evidenziare l'inizio di un

nuovo capitolo.

LA ROBOTICA ‘Robot’ è una parola coniata dal drammaturgo ceco Karel Capek per indicare il lavoro non volontario. La parola è stata introdotta nella sua opera teatrale “R.U.R. (Rossum’s Universal Robots)” messa in scena nel Gennaio 1921. Tuttavia, a differenza del concetto moderno, i robot di Capek erano dei servitori creati mediante procedimenti chimico/biologici e non erano meccanici. L’etimologia della parola ‘Robot’ è comunque da ricondursi al ceco robota che significa che significa ‘lavoro pesante’ o ‘lavoro forzato’. Altri termini a cui ricondurre il significato di ‘Robotica’ sono: ‘androide’ (dal greco anèr, andròs, ‘uomo’ che quindi può essere tradotto ‘a forma d’uomo’), ‘cyborg’ (‘organismo cibernetico’ o ‘uomo bionico’) che indica una creatura che combina parti organiche e meccaniche, infine ‘automa’ dal greco autòmaton significa ‘che si muove da sé’. Oggi, con il termine ‘Robotica’ ci si riferisce allo studio e all’uso dei robot intesi come dispositivi elettromeccanici il cui comportamento viene controllato da opportuni comandi impartiti dall’uomo. Il termine ‘Robot’, nella sua accezione moderna, è stato utilizzato per la prima volta dallo scienziato e scrittore Isaac Asimov nella pubblicazione Runaround, una storia pubblicata nel 1942, in cui Asimov riportò per la prima volta le ormai famose Leggi della Robotica. La storia fu poi ripresa nel successivo romanzo ‘Io, Robot’.

Le leggi della robotica Le leggi della robotica sono state successivamente rielaborate e codificate dallo scrittore, quindi pubblicate nel testo Handbook of Robotics. Le leggi, inizialmente tre, sono poi state completate con l’aggiunta di una legge 0. Esse codificano le norme etico/comportamentali che un qualsiasi robot deve rispettare. L’organizzazione delle leggi, piuttosto che identificare compiti specifici, si limita a definire il ruolo che i robot possono assumere all’interno della società, vincolandone l’autonomia di comportamento alla sicurezza dell’uomo e dell’umanità:

0. Un robot non deve provocare danno all’umanità sia tramite la sua azione che tramite un comportamento passivo. 1. Un robot non deve ferire esseri umani o tramite la sua non azione consentire un danno agli stessi. 2. Un robot deve obbedire agli ordini degli esseri umani eccetto quando questi siano in contrasto con la prima legge. 3. Un robot deve agire per proteggere la sua stessa esistenza fintanto che tali azioni non siano in contrasto con le prime due leggi. Un Robot è «un manipolatore riprogrammabile e multifunzionale progettato per spostare materiali, componenti, attrezzi o dispositivi specializzati attraverso vari movimenti programmati

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per la realizzazione di vari compiti» (Robot Institute of America, 1979). Il dizionario Garzanti invece riporta il termine ‘Robot’ come una «macchina automatica capace di svolgere, con opportuni comandi, alcune funzioni o attività proprie dell’uomo; automa meccanico». In entrambi i casi ci si rende conto che la definizione di robot che possiamo trovare sulle fonti ufficiali, non risulta al passo con i tempi. In molti casi, mentre la visione di Isaac Asimov era oltremodo futuristica, queste definizioni si limitano ad un concetto di sistema robotico, limitato agli aspetti di automazione industriale tipici degli anni settanta. Gli sviluppi delle tecnologie robotiche avuti a partire dagli anni ottanta hanno tuttavia rivoluzionato il concetto di robot, trasformandolo da strumento di servizio in ambienti industriali di tipo strutturato, in sistema di utilità e collaboratore dell’uomo nel suo stesso ambiente. Ad oggi potremo definire ‘Robot’ un sistema elettromeccanico riprogrammabile, dotato di capacità di percezione e di un intelligenza propria, predisposto per compiere un ampio numero di compiti diversi. I Robot si differenziano per applicazione, e struttura in diverse categorie: da robot mobili, manipolatori industriali, robot chirurgici … L’idea di realizzare dei sistemi meccanici autonomi ed intelligenti è abbastanza antica e rappresenta la sintesi tra il sogno di imitare la Natura e il bisogno di costruire macchine utili alla vita e al lavoro. La presenza di automi, cioè di esseri artificiali, rappresenta una costante che attraversa uniformemente tempi e culture diverse. Ovunque se ne trovano tracce: basti pensare al Golem del folclore ebraico (statua di argilla creata dai fedeli e animata dalle danze e dalle preghiere) o al Tupilak delle leggende di Canadesi (un’entità soprannaturale creata da uno stregone e “programmata” per combattere dei nemici). Gli automi sono presenti già nella mitologia: ai tempi di Omero il primo creatore di “macchine” fu Efesto, dio del fuoco, a cui era attribuita la costruzione di macchine semoventi, servi meccanici e tavoli che si muovevano di propria volontà. Tra il mito e la storia è Dedalo, padre di Icaro, a cui la mitologia attribuisce la capacità di “infondere” il movimento agli oggetti che creava. Dedalo segna l’origine della lavorazione dei metalli, delle regole dell’architettura e delle prime statue lignee che, secondo la tradizione, muovevano automaticamente occhi, braccia e gambe.

Tra il V e il IV sec. a.C. il mondo del mito lasciò progressivamente il passo alla scienza e anche gli automi divennero prodotti dell’uomo. In età ellenistica, intelletti del calibro di Archimede ed Erone fornirono un grande contributo alla rivoluzione scientifica e tecnologica: molti dei principi di fisica, matematica, meccanica e astronomia cui diedero vita sono validi ancora oggi. L’eolipila o sfera di Eolo di Erone, per esempio, è un interessante strumento che mostra come l’energia termica possa essere trasformata in energia meccanica. Essa è il precursore delle macchine a vapore: sfrutta infatti la pressione derivante dal riscaldamento dell’acqua all’interno di una sfera metallica per generare un movimento.

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Anche gli autori arabi concepirono dispositivi complessi. Tra il 1204 e il 1206 Al-Jazari, il celebre scienziato arabo cui si deve il Libro della conoscenza dei meccanismi ingegnosi, oggi considerato il culmine della meccanica araba, elaborò numerosi progetti di carattere “robotico”. In Giappone, i Karakuri risalgono alla cosiddetta “Era di Edo”, il “Rinascimento” giapponese, collocata fra il 1600 e il 1867: non è certo un caso che oggi la patria della robotica sia il Giappone. La stesura dei manuali necessari alla costruzione di queste bambole, create per divertire sia i nobili sia la popolazione, rappresenta ancora il fondamento dell’odierna cultura ingegneristica del Giappone.

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Redattore Gino Mariano Mazzotta

Per inquinamento s’intende la

contaminazione dell’ambiente. Esso

può avvenire per causa dell’uomo o

per causa delle fabbriche/industrie.

E non solo inquina l’ambiente, ma

anche gli esseri viventi che lo

popolano.

I VARI TIPI D’INQUINAMENTO

- L’inquinamento atmosferico;

- L’inquinamento radioattivo;

- L’inquinamento del suolo;

- L’inquinamento idrico;

- L’inquinamento acustico;

- L’inquinamento luminoso;

- L’inquinamento termico;

- L’inquinamento elettromagnetico.

L’inquinamento

atmosferico

Per inquinamento atmosferico

s’intende il miscuglio di gas dato

dell’espulsione di sostanze dannose

dalle fabbriche. Esso tende a rovinare

anche gli esseri viventi che respirano

l’aria contaminata.

L’inquinamento radioattivo

L’inquinamento radioattivo è generato

dalle centrali nucleari che tendono a

deformare gli esseri viventi a causa

delle radiazioni.

L’inquinamento del suolo

L’inquinamento del suolo invece è

dovuto prevalentemente per colpa

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dell’uomo che tende a disperdere

l’immondizia e ad accumularla sul

suolo.

L’inquinamento idrico

L’inquinamento idrico è dovuto alla

contaminazione dell’acqua per colpa

degli scarichi che tendono a gettarsi

nel mare.

L’inquinamento acustico

L’inquinamento acustico nasce con i

suoni dovuti alle auto o ad altri mezzi

artificiali che possono dar molto

fastidio al nostro sistema auricolare.

L’inquinamento luminoso

L’inquinamento luminoso è

un’alterazione dei livelli di luce

durante i periodi notturni, quindi la

troppa presenza di luce artificiale

durante la notte.

L’inquinamento termico

Per inquinamento termico s’intende lo

sbalzo di temperature sul nostro

pianeta. Esso può essere dannoso per

la salute degli esseri viventi.

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L’inquinamento

elettromagnetico

Per inquinamento elettromagnetico si

intende la distribuzione di onde

elettromagnetiche irradiate da

trasmittenti.

Io personalmente penso che bisognerebbe prendersi più cura del nostro pianeta che

tutt’oggi dopo tutte queste lacune riesce ancora a reggere.

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CONCLUSIONI

RESPONSABILE del PROGETTO

Prof. Francesco Treccozzi

LA REDAZIONE ALUNNI

CLASSI II A e II

Daniele Sinopoli

Valerio Diaco

Chiara Rosano

Iemmello Noemi

Iannelli Irene

Simona Concolino

Maria Grazia Squillacioti

Giorgia Esposito

Arianna Mancuso

Francesco Sciumbata

Francesco Pio Voci

Giulia Fiorentino

Valeria Comis

Alice De Giorgio

Pugliano Andrea

Gino Mariano Mazzotta

Mark Migliarese

Lorenzo Iannelli

Michele Reverso

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Il giornalino di scuola rientra nella consuetudine della didattica di ogni ordine e grado: nasce dalla voglia di comunicare degli studenti, e dalla necessità di avere uno strumento rappresentativo che possa far conoscere il proprio pensiero agli altri. In quest'ottica il giornalino scolastico è un elemento forte di comunicazione ed un ambiente in cui si sperimentano vari tipi di scrittura. In questo contesto storico in cui il ruolo della scuola è quanto mai centrale, gli alunni e i docenti devono sentirsi impegnati in un laboratorio di cultura che deve andare oltre quelli che sono i reali doveri istituzionali dell’istruzione e della formazione. Il progetto del giornalino scolastico consente ai ragazzi di confrontarsi con altre realtà e allargare il loro campo di esperienze

per migliorare la propria formazione culturale e spirituale.

Il progetto ha visto protagonisti i ragazzi delle classi II che si sono entusiasmati a costruire le pagine del giornalino entrando vivamente con passione negli argomenti trattati ; Il loro entusiasmo ha coinvolto, nella preparazione del materiale sui vari argomenti trattati, anche ragazzi di altre classi

dell’ Istituto nonché i docenti di classe. Questa attività però non ha solo consentito la costruzione di un giornalino, ma anche la realizzazione di un buon prodotto di socialità. Insomma un lavoro “completo” la cui efficacia può essere gustata dal lettore. La valutazione finale vede il progetto come un’iniziativa di formazione, ma anche come un’autentica esperienza divertente e gratificante. La produzione del giornalino scolastico continuerà anche nel successivo anno scolastico; cercando di migliorarlo e renderlo interattivo. Montepaone lido 29.05.2017

Il Referente del progetto Prof. Francesco Treccozzi

Pertanto, la realizzazione del giornalino scolastico è stata un’esperienza positiva che mi ha senz’altro arricchito professionalmente, poichè mi ha permesso di approfondire competenze tecniche e mi ha dato l’opportunità di interagire con gli alunni, sperimentando attività a classi aperte in un’ottica didattica altamente socializzata e collaborativa.