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UN BARITONO AI TROPICI
Il sogno d’America
Quale remota ma potente seduzione ancora esercita, sul lettore contemporaneo, l’America
vista o sognata da viaggiatori ed emigranti dei tempi in cui, per raggiungerla, ci voleva più d’un
mese di navigazione transatlantica? Certo è che diari, lettere e memorie di viaggio saltati fuori dai
vecchi bauli, di qua e di là dell’oceano, per restituirci intatto il profumo della vita nell’altro tempo e
luogo, non finiscono mai d’alimentare l’archivio immaginario sul viaggio come metafora
dell’esistenza – metafora che pare resistere ad anacronismi. Forse, che il tono sia eroico come
nell’epopea delle lussuose traversate narrate da viaggianti illustri, grandi attori o divi dell’opera;
oppure che sia il tono minore e quasi involontario delle testimonianze buttate giù in un italiano
spesso precario dai viaggiatori della terza classe, è in queste microstorie che il lettore più percepisce
la Storia come esperienza di vita, come vicissitudine.
Nel mare di numeri in cui la Storia dell’Emigrazione spesso è obbligata a traghettare il
lettore su zattere statistiche, archivi come l’Archivio Ligure della Scrittura Popolare, istituito dal
Dipartimento di Storia Moderna e Contemporanea dell’Università di Genova, emergono come arche
di Noè in cui sono confluite testimonianze, immagini e reliquie tramandate da nonno a nipote;
ricordi rimasti impigliati nella tradizione dei racconti. Ciascuno di questi frammenti di memoria
salvati al naufragio ha il valore di una tessera in un mosaico che si svela a poco a poco come
viluppo di vite avventurose, mentre apre scorci caratteristici su un dato momento storico e convalida
legami specifici tra territori apparentemente sconnessi. Il tragitto alla rovescia compiuto dal lettore,
rimontando il puzzle della memoria dei viaggiatori, spesso svela sullo sfondo la città di Genova.
Prima di costituire un porto d’approdo per tanti documenti e memorie di viaggio, la città fu durante
un secolo il principale porto di partenza verso nuovi mondi dove cercare fortuna. Per gli emigranti
che arrivavano da tutta Italia, Genova significava l’America.
Era come se, ridotto l’oceano al primo colpo d’occhio sul mare avvistato dalla Stazione
Marittima, l’America apparisse agli emigranti già all’orizzonte del porto della Superba.
Nell’eccitazione della partenza imminente, annullata per un attimo l’immensa distanza dal
traguardo, la luce di una speranza schiariva la scena tragica dell’addio: la speranza di sopravvivere e
forse risorgere ad una seconda vita, più fortunata. Di modo che, nelle lettere e nei diari, la città
appare più spesso come sinonimo di un destino, che di una destinazione. Genova: ovvero, il sogno
d’America. Non a caso fu proprio da qui che, manipolando ambizioni, speranze e disperazione,
oculati impresari di compagnie di navigazione misero a frutto il gigantesco business del trasporto di
emigranti. L’emigrazione era stata una scommessa precoce tra i naviganti genovesi e intorno al
1850 già coinvolgeva altre classi sociali, allettando masse di contadini dall’entroterra ligure e dalle
pianure di là dei monti con la vaga promessa delle sterminate terre argentine e dell’inesauribile oro
californiano. Suggestioni messe in circolo dagli armatori liguri per corroborare l’immenso
potenziale d’attrazione del “magnete America”: quella capacità “di suscitare aspettative senza
deluderle mai tutte”.1 E chi, potendo far fortuna oltreoceano, si sarebbe accontentato di guadagnarsi
il pane in qualche nazione europea o sarebbe rimasto a morir di fame e di colera al paese? La
scommessa era abilmente gonfiata in una sfida per i migliori, lasciando il ruolo di vili per coloro che
vi rinunciassero.
A partire dalla metà del secolo, con l’inaugurazione delle prime linee a vapore da Genova
verso i principali porti latino-americani, il viaggio transatlantico in prima classe campeggiò sui
giornali come prodotto di lusso; mentre agenti sguinzagliati in tutto il Nord Italia arruolavano
lavoratori a contratto, garantendo condizioni da sogno, però nell’altro emisfero. Il viaggio poteva
durare anche 60 giorni e non era privo di rischi; ma né le condizioni d’estremo disagio della
traversata in terza classe né l’incertezza del futuro in un “altrove” tanto distante quanto ignoto
sembravano poter scoraggiare chi si trovava a dover pagare lo scotto di un quinquennio di cattivi
raccolti e di continue insurrezioni represse da eserciti di conquista. Nel Regno Sabaudo, meno
sconvolto dalle sommosse, si fuggiva alla leva ed alle crescenti tasse imposte dal governo per
riscattarsi da due guerre d’indipendenza. Una sorta di fanatismo migratorio contagiava non solo gli
intraprendenti commercianti liguri ma anche gli stanziali contadini lombardi, emiliani e veneti, fino
ai montanari dell’Appennino e delle rive del Garda, spingendo intere famiglie a richiedere il
passaporto per andarsene, appunto, “all’altro mondo”.
L’emigrazione temporanea della forza-lavoro eccedente, prima verso paesi europei come
Francia e Belgio e poi verso gli Stati Uniti e l’America Latina, era impresa supportata dall’accordo
familiare e pianificata collettivamente sulla base di una efficiente rete informativa: chi trovava
occasioni, le segnalava agli altri. L’obiettivo, a principio, era il rientro al paese, una volta
capitalizzati fondi sufficienti ad acquistare terre o ad avviare piccole imprese nei luoghi d’origine.
Ma mentre dal porto di Napoli salpavano per lo più piccoli proprietari gravati dalle tasse o artigiani
1 Marco Porcella, La fatica e la Merica, Sagep, Genova 1986
estromessi dal mercato, diretti ai porti dell’America del Nord dove trovavano lavoro nelle industrie
come manodopera non specializzata; da Genova invece confluivano sui bastimenti soprattutto
contadini depauperati e mossi dalla speranza di trovare, in America Latina, terre in cui stabilirsi e
sopravvivere. Non a caso, dopo il fallimento di pochi tentativi pionieri, gli oculati armatori genovesi
continuarono ad investire sulle rotte latinoamericane, che garantivano grossi numeri consentendo di
mantenere al minimo le condizioni di vivibilità del viaggio; e lasciarono le destinazioni
nordamericane alla concorrenza francese in partenza da Marsiglia e da Le Havre. Uno dei primi
intraprendenti che sostenne l’opportunità di avviare un servizio di linea per il trasporto merci e
passeggeri da Genova sulla rotta per New York fu nientemeno che il capitano Giuseppe Garibaldi,
sul finire del 1849, appena rientrato dall’America Latina e dopo la fallita Repubblica Romana. Il
progetto, che poi (letteralmente) non andò in porto, prevedeva la costruzione all’uopo, nei cantieri
nordamericani, di una nave da 500 tonnellate che non avrebbe battuto bandiera italiana perché
“certe considerazioni speculative lo vietano ed io – ammette l’eroe dei due mondi che ne veniva da
scorribande contro le navi austriache e francesi sulle coste brasiliane, con un brigantino che
sbandierava il futuro tricolore – mercantile, ora! mi conformo”.2
A più riprese, in quel decennio, si tentò di fondare a Genova una Compagnia Transatlantica
che operasse la traversata con moderni vapori di modello americano (i potenti clipper: dei bestioni
di ferro da 1500 o 2000 tonnellate, spinti a propulsione meccanica) che potevano esser prodotti nei
cantieri genovesi. Osteggiata dalla prudente burocrazia del Governo piemontese, la Compagnia
ottenne infine parere favorevole da Nino Bixio; in un solo anno (1857)3 fu fondata ed affondata. Si
annunciò che la linea diretta Genova - New York non reggeva per esiguità di traffico. Insomma, gli
armatori preferivano tenersi “al vento” coi loro fidati brigantini a vela (detti scune) stipati di
poveracci, sulle rotte consuete (Montevideo, Buenos Aires, Valparaiso, Lima). Il Sud America fu
anche un miraggio pubblicitario grazie a cui per anni i pochi irriducibili che controllavano la rotta
verso quella destinazione lucrarono sul gigantesco mercato nero dei contadini messi in viaggio dalla
fame. Sembra suggerirlo, fra l’altro, il trattamento ottimistico delle informazioni da parte della
stampa ligure che finì per andare a vantaggio degli agenti delle compagnie di navigazione legati agli
interessi dei fazendeiros. In quel decennio, i titoli più neri riguardano le crisi d’occupazione in Nord
America, culminando in quella del 1860 a New York; mentre si sorvola sulle condizioni
2 Lettera a Lorenzo Valerio, direttore de La Concordia, giugno 1850. Vedi anche “Proposta di una società commerciale
per le linee transatlantiche periodiche tra New York e Genova”, Museo Centrale del Risorgimento, Roma, Archivio
Garibaldi. 3 Il Corriere Mercantile, Genova, 20.8.1857
schiavistiche di lavoro cui erano ridotti i contadini veneti finiti nel Rio Grande. Rosee descrizioni
sono riservate ai benefici effetti della “legge della terra” che nel 1850 abolì in Brasile le antiche
sesmarie ereditarie,4 trascendendo fino all’immagine idilliaca di una terra promessa ove insieme ai
lotti fertili vengono distribuiti cavalli, buoi e pane bianco. Insomma, per l’esercito degli illusi,
l’Eldorado era ai tropici. Per i più smaliziati, laggiù almeno non si moriva di fame.
Ad imbarcarsi volontariamente, senz’essere contrattati né richiamati da un famigliare, erano
individui di tutte le classi sociali ed atti a mille mestieri: impiegato, calzolaio, ortolano, vinaio,
fabbricatore di strumenti, attore. In verità, pur dichiarando all’imbarco una professione che
conoscevano appena o affatto, molti di questi avventurieri s’arrangiavano poi come ciarlatani,
musici ambulanti, lustrascarpe e con le mille arti girovaghe al confine con la mendicità – anch’essa,
in ogni caso, intesa come mestiere. Questa collocazione “vergognosa” delle frange più avventate
alimentò un perdurante stereotipo anti-italiano, è vero, anche se spesso corroborato dal
riconoscimento di un’abile tradizione del “saper fare”. L’italiano, all’estero, fu per molto tempo ed
ancor oggi, per presupposto, ritenuto abile ad ogni mestiere o capace di trarre profitto da qualsiasi
sapere pratico, reale o millantato; ed in più dotato di vocazione artistica, in specie canora. E
l’America era il mondo nuovo, ove occasioni certo non mancavano per chi volesse investire talento
e competenze; per questo, dietro al miraggio dell’Eldorado, molti emigranti trovavano il tesoro delle
molte opportunità. Nella definizione di Antonio Gibelli,5 l’America costituiva una “risorsa
integrativa”, ovvero la spinta fondamentale per intraprendere una “seconda vita” di maggior
successo.6
Sicché i talenti tradizionali ed i mestieri imparati a bottega, invece di perdersi, si
consolidarono, piazzando delle vere e proprie lobby d’influenza in fette di mercato specifiche, come
quella dei cantanti lirici a Rio de Janeiro nella seconda metà del secolo, ove gli italiani per parecchie
4 In realtà, tra i grandi possidenti perdeva la terra solo chi non poteva dimostrare il diritto alla proprietà neanche con
documenti privati, che era facile falsificare (all’uopo esistevano i grileiros). L’immigrazione dunque non scardinò
affatto il sistema del latifondo. Le grandi fazendas rimasero intatte nelle mani degli antichi occupanti, mentre i
lavoratori erano trattenuti dalla continua promessa di liberalizzazione del mercato. Vedi: Chiara Vangelista, Dal vecchio
al nuovo continente. L’immigrazione in America Latina, Paravia, Torino 1997 e Emilio Franzina, Merica! Merica! Emigrazione e colonizzazione nelle lettere dei contadini veneti in America Latina, Feltrinelli, Milano 1979. Sul tema
dell’emigrazione italiana in Brasile vedi: Angelo Trento, La dov’è la raccolta del caffè. L’emigrazione italiana in
Brasile, Antenore, Padova 1984 ed il saggio “In Brasile” in P.Bevilacqua, A.De Clementi e E.Franzina (a cura di),
Storia dell’emigrazione italiana, II. Arrivi, Donzelli, Roma 2002, pp. 3-23 5 “La risorsa America”, in Storia d'Italia. Le Regioni dall’Unità ad oggi, Einaudi, Torino 1994 6 L’estesissima bibliografia italo-brasiliana lo prova con storie di vita, vedi: Franco Cenni, Italianos no Brasil, Edusp,
São Paulo 2004; Rovílio Costa e L.Alberto de Boni La presenza italiana nella storia e nella cultura del Brasile (org.
Angelo Trento), Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1987 e N. Santoro de Constantino, Italianos na cidade. A
imigração italica nas cidades brasileiras, UPS, Passo Fundo 2000
stagioni ebbero da affrontare appena una timida concorrenza locale. Pur essendo questo il caso
storico che indagheremo, il sorprendente viaggio di Giuseppe Banfi – sbarcato muratore nel 1856,
improvvisato corista nella capitale e poi mercante di “bigiotteria d’oro” nelle favolose lande del
Paranà – mostra ancora che la duttilità del viaggiatore nello scambio interculturale rendeva possibili
percorsi d’adattamento anche molto singolari, acquisendo via via i necessari strumenti
d’osservazione e di radicamento al territorio. Ne risulta che, pur quando approfittasse delle catene
d’appartenenza etnica o delle lobby d’influenza precostituite; pur quando da buon patriota
auspicasse l’Unità d’Italia e anche dopo che fu proclamata, l’italiano in America non intendeva la
propria nazionalità come un’identità obbligatoria o un certificato da cui attendersi privilegi. Al
contrario, come nota Gramsci rispetto al tipo intellettuale dell’italiano emigrante,7 la vocazione
pioniera lo spingeva piuttosto ad agire nel contesto sociale ampio, senza fare ghetto seppur tornando
sempre ad alimentarsi al patrimonio culturale d’origine.
La Parigi dei tropici
Il Brasile, come l’Argentina e l’Uruguay, fin dall’inizio del Risorgimento aveva accolto
insieme a naviganti, missionari e sedicenti imprenditori o artisti, molti veri esuli italiani: dalla
Toscana, dal Piemonte, dal Veneto e dalla stessa Genova – per tutti, porto di partenza – fuggirono
patrioti anche illustri quali Garibaldi e Giovan Battista Cuneo che svolsero dall’America Latina la
propria missione di fiancheggiamento ai moti rivoluzionari.8 Il breve periodo del Regno d'Italia
istituito da Napoleone rafforzava nei patrioti italiani l'aspirazione all’Indipendenza; la repentina
dichiarazione d’Indipendenza del Brasile, proclamata il 7 settembre del 1822 da Dom Pedro I sulle
sponde del fiume Ipiranga e poi a Rio de Janeiro, nel Campo che perciò fu detto “da Aclamação”,
mostrava agli esuli italiani la possibile realizzazione del sogno rimasto frustrato in patria. Mentre il
secolo avanzava, le centinaia di viaggiatori diventavano migliaia di emigranti, talvolta istruiti ma,
come gli altri, spinti ad attraversare l’oceano dal miraggio di una vita nuova in un paese giovane,
generoso e lanciato in una febbrile corsa al progresso.
Nel 1843, il matrimonio dell’Imperatore Dom Pedro II con la principessa napoletana Teresa
Cristina Maria di Borbone contribuì a propagare l’ammirazione imperiale per la cultura italiana
7 Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Einaudi, Torino 1950 8 Per le attività dei carbonari esuli in Brasile vedi M. Pace Chiavari, “Nel paesaggio di Rio de Janeiro il tricolore della
Giovine Italia”, in Il Risorgimento Italiano in America Latina, Atti del Convegno Internazionale, Affinità Elettive,
Genova-Ancona 2006
come un entusiasmo alla moda ed indispensabile al transito sociale, il che ovviamente facilitava
l’inserimento di immigrati dal Bel Paese, a maggior ragione se artisti. Per gli altri, una scia di buoni-
a-tutto che a finire il secolo prese le forme di un inarrestabile esodo, provvedeva anche la patriottica
solidarietà dell’Imperatrice, dal 1856 patrona dell’articolatissima Società Italiana di Beneficenza e
Mutuo Soccorso di Rio che per prima cosa costruì l’imponente Ospedale della Misericordia.
Annunciando la fondazione della Società a Massimo d’Azeglio, il console sardo Fé d’Ostiani
includeva il nome dell’Imperatrice Teresa Cristina tra altri “compatrioti notabili” che in pochi anni,
fattisi una posizione, si disponevano a realizzare un progetto collettivo che poteva dirsi modello
d’unità nazionale prima ancora che si facesse l’Unità d’Italia. D’altronde fondare circoli,
associazioni ricreative benefiche e clubs era una mania a Rio de Janeiro dove ogni comunità di
immigrati, pur’anche esigua come quella inglese, ne vantava almeno uno, con splendidi saloni ove
ospitare eventuali viaggiatori illustri e celebrare date della storia del paese d’origine. Oppure,
incontrarsi per scambiar facezie e sfoggiare notizie, come molti italiani, per lo più intellettuali (quali
Luigi Persiani, presidente della Società di Mutuo Soccorso; Luigi Vincenzo de’ Simoni, medico
personale nonché consigliere di letture dell’Imperatrice), talvolta esuli (Luigi Bompiani, Arcangelo
Fiorito, Carlo Negri, Carlo Rossetti) usavano fare ogni pomeriggio nella libreria-tipografia di
Francisco de Paula Brito al Largo do Rossio (attuale Praça Tiradentes). La libreria, che fungeva
anche da sala da tè, era frequentata dal fior fiore dell’elite brasiliana: ci passavano i pomeriggi
l’attore João Caetano, il poeta Gonçalves Dias ed il romanziere Machado de Assis.9 Il circolo
costituiva “una specie di campo neutro dove lo scrittore al debutto chiacchierava col consigliere di
Stato e il cantante italiano se la rideva con l’ex-ministro. L’ultima novità del Parlamento? Il titolo
della prossima opera italiana? Insomma, le notizie che tutti volevano sapere? Bastava andare là”.10
La moda cosmopolita imperversava a Corte e gli stranieri prosperavano. Il barbiere parigino
Teyssier era tanto apprezzato che, quando tornò in Francia, il suo garzone adottò il nome insieme al
negozio. Sarte e modiste francesi spopolavano. Un certo signor J.Joly annunciava periodicamente
sul Jornal do Commercio l’arrivo di “un vasto assortimento di alberi da frutto e da fioritura europei,
i più belli e moderni”. I tedeschi aprirono una tipografia e vari ristoranti, uno dei quali serviva con
successo un vino ungherese. I portoghesi controllavano il commercio al minuto e gli italiani
generalmente si adattavano ai lavori più umili: conducevano le carrozze o suonavano l’organetto
9 Sulla passione di Machado per l’opera lirica e per la lingua italiana, appresa da autodidatta, vedi Edoardo Bizzarri,
Machado de Assis e a Italia,, Instituto Cultural Italo-Brasileiro, cad. 1, São Paulo 1961 10 Wilson Martins, História da inteligência brasileira, São Paulo 1978 (vol. II), p. 498
agli angoli delle strade.11
La musica li riscattava. Se il francese era indispensabile nelle
conversazioni eleganti, era però l’italiano la lingua d’obbligo nell’istruzione musicale delle
fanciulle. Per stanare talenti e diffondere l’arte del bel canto anche tra le classi meno abbienti,
l’Imperatore aveva sovvenzionato la fondazione, nel 1841, del Conservatório Dramático e Musical
Brasileiro e finanziava le stagioni d’opera integralmente, tramite lotterie oppure stimolando la
fondazione di società ad hoc tra i dilettanti più abbienti. Il gusto per la lirica corroborava il progetto
imperiale di rifondare l’identità del giovane Stato emancipandolo dall’arretrato passato coloniale ed
avviandolo ad un futuro di progresso, perché, “oltre al pubblico diletto e all’orgoglio nazionale, pure
la tranquillità, la pace, i buoni costumi richiedono la protezione del governo per le compagnie
italiane”.12
Dom Pedro II sognava un Brasile civile e moderno, capace di conquistare i conquistatori
europei sfoggiando precoci risultati nelle più avanzate espressioni di modernità, senza però mai
perdere il senso dell’eredità umanista. Tale progetto, alimentato dalla raffinata cultura
dell’Imperatore che prediligeva l’Italia come patria del bello e culla delle arti, promuoveva
nell’immaginario di italiani e brasiliani una sorta di consanguineità elettiva che facilitava la
convivenza.
Allo straniero a passeggio per i viali della capitale, arredati come quelli di Parigi, poteva
sembrare d’essersi adattato fin da subito agli agî tropicali e cortigiani della borghesia locale, nel
caso riuscisse a dimenticare l’insalubrità del clima e delle acque nere che scorrevano a cielo aperto
giù per i declivi e nei campi adiacenti le vie pubbliche. La futura Parigi dei tropici però si mostrava
decisa a venire alla luce, divincolandosi dalle spoglie di capoluogo di una colonia tanto esotica
quanto primitiva. Nel giro di pochi decenni, tra la metà del secolo ed il 1870, la città che già contava
400.000 abitanti si dotò di acquedotti, pavimentò le strade del centro e le illuminò, tracciò le prime
linee di tramvai. Il governo imperiale fu all’avanguardia tra le grandi nazioni nella sperimentazione
di telegrafo e telefono, anche se con linee ridottissime; e fece fronte con inedita solerzia alla funesta
sequela di incendi che sbriciolarono per ben tre volte in dieci anni (1851, 1856 e 1859) l’unico palco
della Corte adatto all’Opera, il Teatro S. Pedro de Alcântara (já Real Teatro Dom João VI). La
superstizione popolare attribuì la cosa al fatto che l’edificio era stato costruito con pietre sottratte ad
un’antica chiesa. La prima volta si rimediò allestendo in tre mesi un palco provvisorio, detto
11 Notizie riportate da Luis G. de Escragnolle Doria, Cousas do passado, Rio de Janeiro 1909 e Fréderic Mauro, O
Brasil no tempo de Dom Pedro II, Cia. das Letras, São Paulo 1991. Cfr. anche Delso Renault, A vida da cidade refletida
nos jornais, MEC, Rio de Janeiro 1978 12 Relazione del 22.7.1835 del Ministero dell’Impero, apud Marco Lucchesi, Mitologia das platéias: a ópera e a casa de
ópera na corte (1840-1889), rivista Setembro, n.1, Rio de Janeiro 1986, p.13
appunto Teatro Provisório e inaugurato con quattro balli pubblici nel Carnevale del 1852, appena in
tempo per accogliere la compagnia lirica italiana sbarcata prima di Capodanno. Col corpo di ballo
viaggiava Marietta Baderna, giovanissima étoile della Scala ed esule da Milano con il padre
carbonaro.13
Il teatro, che doveva servire per tre anni, ne durò ventitré, finché fu pronto per sostituirlo un
nuovo gigantesco teatro in muratura (l’Imperial Teatro Dom Pedro II) per la costruzione del quale
fu necessario indire tre lotterie. Nel Campo da Aclamação, appena decentrato dal centro (attuale
Campo de Santana, all’angolo tra Rua do Hospício e Rua dos Ciganos, attuali Buenos Aires e
Constituição) dove era stato sistemato il Teatro Provisório, migrò anche, nel 1854, il Museu
Nacional: una specie di enorme archivio etnografico che ospitava, tra altre curiosità, anche gli
studenti del Conservatório Dramático e Musical. Dirimpetto, nel 1858, fu inaugurata in pompa
magna la Estação Central (poi dai repubblicani ribattezzata Central do Brasil) nonché il primo tratto
di strada ferrata dell’America Latina: progetto pioniere che intendeva emulare il grandioso modello
nordamericano14
pur limitandosi ad un unico collegamento, dalla capitale alla vicina freguesia di
Queimados. Sulla locomotiva sbuffante, meraviglia del progresso, salirono per primi, dopo il taglio
del nastro, l’Imperatore e l’Imperatrice, con gran concorso di ministri e pubblico plaudente. Oltre il
Campo da Aclamação e la ferrovia, oltre la Rua da Valla, cioè del fossato, si stendeva a macchia
d’olio la Cidade Nova: senza fontane, senza vialetti, carrozze o tramvai, senza illuminazione a gas,
senza negozi né teatri e, ovviamente, senza fognature.
Da laggiù, senza scampo, arrivava il contagio. Fu di febbre gialla quello del 1851 in cui ci
rimisero la pelle i due terzi della compagnia lirica italiana, compreso il padre della Baderna. Colpiva
i bianchi e disseminava le strade di carcasse di animali. Il Municipio incaricava dell’eliminazione
dei rifiuti e della pulizia delle strade appositi Intendenti di Polizia, muniti di carrozze e di schiavi
neri che si caricavano sulle spalle i cadaveri e sulla testa barili di feci come fossero ceste d’arance.
Come se niente fosse, l’opera italiana debuttò il 25 marzo 1852, alla data prevista, col Macbeth di
Verdi, alla presenza delle Auguste Maestà Imperiali. Smentire il terrore che i giornali facevano
echeggiare dall’altra parte dell’oceano fu compito, fra altri, del console brasiliano a Genova
13 Per quanto riguarda l’affascinante destino brasiliano della Baderna, vedi Silverio Corvisieri, Badernão, la ballerina
dei due mondi, Odradek, Roma 1998 14 Già nel 1857 il Nord America disponeva di 43.549 km di ferrovia su 340 linee che sezionavano il paese in tutte le
direzioni. La ferrovia brasiliana, progettata dall’ingegnere inglese Edward Price per fungere da spina dorsale del paese
(doveva collegare Rio a Belém con ramificazioni in tutti gli stati) si limitò invece ai collegamenti tra Rio, Belo
Horizonte e São Paulo. Nel secolo XX, il progetto fu abbandonato.
(Ernesto de Souza Le Conte) che negò ufficialmente l’epidemia.15
A metà di quell’anno, ancora in
pieno contagio, sbarcò in città la soprano Rosina Stoltz e fece furore; guadagnò in otto mesi quattro
volte lo stipendio di un ministro dell’Impero; poi fuggì in incognito, in piena crisi d’ipocondria.16
Il 1853 segnò l’apice della febbre di balli, esibizioni, concerti e feste con cui la Corte
rinnegava l’emergenza sanitaria e contrapponeva lo sfoggio delle ultime mode europee allo stato
d’arretratezza vigente nel resto del paese. Perfettamente accomodata nella Baia di Guanabara ma
priva di un movimento industriale che la rifornisse di prodotti, la capitale, pur avendo le carte in
regola per diventare in breve il maggior porto latinoamericano sull’Atlantico, si accontentava di far
commercio di lussi e vanità. Ogni genere di velleità era offerta in affitto sulla pagina d’inserzioni
dei giornali locali, compresi i servizi più comuni degli africani che erano doppiamente sfruttati dai
loro sfaccendati e spesso squattrinati proprietari. Nessuno degli aristocratici politici brasiliani osava
denunciare il traffico clandestino di schiavi, tanto meno si prendeva l’imbarazzo di rivendicare
l’abolizione della schiavitù, pur mostrando una nobile indignazione dinanzi a scene di ordinaria
amministrazione cui assistessero anche eventuali visitatori europei. E, noblesse oblige, nessun
aristocratico mancava alle occasioni mondane cui si faceva condurre in carrozza, lusso che a Rio de
Janeiro costava il triplo che a Londra. Sua Maestà apprezzava i valzer e apriva con stile le danze;
ma i suoi compositori preferiti – dunque i più gettonati nelle riunioni artistiche cui si degnava di
comparire – erano Verdi, Rossini e Donizetti.17
Nel 1854 l’epidemia fu di colera che, al contrario della febbre gialla, colpiva più facilmente i
neri e in un anno e mezzo fece 5.228 vittime dichiarate.18
Nel frattempo sbarcarono le dive Mme. de
la Grange e Mme. La Grua con una sfilza di bassi e tenori ed un esercito di coristi, tutti reclutati in
Europa. Il Teatro Provisório era sgraziato fin dal progetto: un capannone con 124 palchetti disposti
su quattro ordini sovrastati dalla galleria e una platea arrotondata (per ospitare, alla bisogna, anche il
circo) decorata con ritratti di Bellini, Verdi, Donizetti, Auber, Schiller, Catalani, Meyerbeer e
15 Bollettino Storico Commerciale Marittimo, Genova, 26.6.1851
16 Quando l’Imperatore la invitò a tornare nel 1857, la Stoltz chiese ed ottenne 320.000 franchi per sei mesi a patto di
cantare al massimo due volte la settimana, un beneficio di 50.000 franchi, viaggio e alloggio pagati, otto servitori due
carrozze e dodici cavalli a sua disposizione. Vedi: Vincenzo Cernicchiaro, Storia della musica nel Brasile dai tempi
coloniali fino ai giorni nostri, Riccioni, Milano 1926, p.220 17 I diari di viaggio dell’epoca registrano ogni genere di curiosità, vedi: Charles Expilly, Le Bresil tel qu’il est, Paris
1862 e i diari femminili citati da Miriam Moreira Leite, Livros de viagem (1803-1900), UFRJ, Rio de Janeiro 1997 18Josè Pereira Rego, Memória histórica das Epidemias da febre amarela e cholera,
morbus que têm reinado no Brasil, Rio de Janeiro 1873 (apud Corvisieri, op.cit).
Rossini su un fondo rosa acceso, pare di pessimo gusto.19
Ma, pur brutto com’era, il teatro aveva
rivelato un’insospettabile qualità acustica, colta a tempo dall’orecchio degli impresari che ne fecero
il tempio della passione operistica.20
A maggio, in pieno contagio, fu reinaugurato in gran gala, con
l’Ernani sui manifesti ed una scintillante targa sul frontespizio: Teatro Lyrico Fluminense.
Fra tutti i palchi urbani ove i borghesi si osservavano e tentavano la scalata sociale,
disputando campionati d’etichetta, scambiandosi cortesie e combinando matrimoni, il Lyrico
Fluminense divenne quello più adatto all’esibizione di sé. Nei suoi quasi mille posti tra palchi,
galleria, balconata, prima e seconda platea, gli spettatori si distribuivano ciascuno secondo la
propria classe, come in un microcosmo ordinato da una gerarchia di potere visibile e concretamente
riflessa dal divario tra i prezzi delle poltrone. La sintassi dello spazio di un teatro è sempre
direttamente proporzionale al prestigio assicurato da ciascuna postazione, nella gamma dei valori di
visibilità (del vedere e dell’esser visto). Una gerarchia di potere al cui apice, nel caso del Lyrico,
troneggiava Sua Maestà nella tribuna imperiale appesa sul palcoscenico. Ben lo sapevano i gestori
della sala i quali, a partire dal 1854, condizionarono la vendita dei biglietti all’affitto stagionale
oppure all’acquisto definitivo della poltrona numerata, in alcuni casi contrassegnata con il nome dei
proprietari. Lo stesso Imperatore in quegli anni non si negava a presenziare le serate di gala,
facendosi annunciare sulle locandine. Dom Pedro II riconosceva nel teatro il topos del suo progetto
di nazione, accogliente ed ordinata secondo precise ambizioni politiche e culturali; tanto che molti
anni dopo – a partire dal 1888 quando, nei rientri tra un viaggio internazionale e l’altro, si trasferì
sulle alture di Petrópolis per sfuggire al collasso sanitario della capitale – la sua assenza della
tribuna imperiale significherà anche, agli occhi dell’opinione pubblica, una tragica diserzione dal
progetto di nazione.
Agli spettatori si vendeva, con il biglietto, l’artificiale e momentanea immunità da qualsiasi
pericolo, di cui solo il mondo dello spettacolo è capace. Più che la difesa dell’orgoglio patrio o
l’esibizione di qualità artistiche, si auspicava che gli artisti producessero occasioni di pubblico
divertimento e di evasione dalle strade infestate dai contagi. The show must go on. Gli artisti –
ignari o sprezzanti del pericolo, oppure messi alle strette dalla fame – arrivavano a sciami
dall’Europa, attratti come mosche al miele da vaghe ma generosissime promesse contrattuali.
19 All’inaugurazione, il Jornal do Commercio (29.3.1852) rimproverò il costruttore Vicente Rodriguez per la scarsa
eleganza del nuovo teatro. Altre informazioni sul Teatro Provisório sono fornite da Vivaldo Coaracy, Memórias da
cidade do Rio de Janeiro, Rio de Janeiro 1965 e Augusto Mauricio, Meu velho Rio, Rio de Janeiro, s/d, p.128. 20 L’informazione è fornita da Gyorgj Miklos Bohm, Enrico Caruso na América do Sul: o mito que atravessa o milênio,
Cultura Editorial, São Paulo 2000
Nell’aprile del 1855 aprì un nuovo teatro per la prosa, il Gynásio Dramático, gestito da portoghesi
nella vicina Praça São Francisco; subito dopo, approfittando della stagione di riposo in Europa,
sbarcarono le prime compagnie francesi di operetta e vaudeville. Il business dell’opera buffa mostrò
d’esser così promettente che in pochi anni s’inaugurò un salone apposito per il café chantant, a
nome Pavillon du Paradis (omonimo alla sala aperta da Offenbach a Parigi qualche mese prima),
proprio di fronte al Teatro Lyrico Fluminense. Nel 1859 il salone si dotò di séparés, denudò le cosce
delle soubrettes e prese il nome di Alcazar Lyrique. Le francesi circolavano liberamente per la città,
vestite alla moda parigina (con una stagione di ritardo) e sfoggiando carrozze, domestici e brillanti
enormi, dono d’incauti fazendeiros. Erano loro che occupavano le poltrone più in vista nei teatri;
mentre le dame brasiliane maritate si tappavano in case prive di libri e in severi abiti neri, le rare
volte che uscivano da sole, magari per andare alla messa. Accompagnavano i mariti all’opera, ma
con l’obbligo di restare invisibili, retrocesse al second’ordine di sedie nei palchetti di proprietà della
famiglia. Quello delle francesi era il contagio che più preoccupava la borghesia benpensante della
capitale: “l’influenza epidemica, perniciosa, palustre dell’Alcazar, tale che perfino Rossi e Salvini
ebbero a Rio qualche notte pressoché senza pubblico e ci volle tutto il prestigio della Ristori e
l’inesauribile tesoro del suo straordinario genio e profonda maestria artistica, perché non Le
accadesse la stessa cosa”.21
Rossi, Salvini, Ristori. Stelle peninsulari che brillarono nel firmamento tropicale e imposero
sui palcoscenici della Corte una moda italiana egemonica, una passione di massa prima per l’opera
lirica e solo poi per l’arte drammatica, a partire dal 1869, quando sbarcò a Rio de Janeiro Adelaide
Ristori. Pioniera, tra gli attori, ad intraprendere l’avventura dei viaggi intercontinentali, la Ristori
dopo la consacrazione nelle capitali europee (principalmente Parigi) aveva deciso di battere le rotte
trionfali dell’opera lirica ed era partita alla conquista di più ampli orizzonti. In Sud America, la
Ristori divenne un fenomeno di consumo ed inaugurò il mercato delle tournée transoceaniche,
lanciando mode come il debutto mondiale di un nuovo titolo in una capitale estera, l’attivazione
anticipata delle campagne promozionali tramite stampa, pre-vendita di abbonamenti, pubblicazione
di biografie encomiastiche e distribuzione sul mercato al dettaglio di gadgets legati al nome
dell’artista. La “moda Ristori”, proiettando nell’empireo dell’arte il nome della primadonna mentre
lo rendeva accessibile ai fans tramite redditizie pratiche di compra-vendita, decretò il suo successo a
Corte. Nel 1874, la Parigi dei tropici fece da trampolino di lancio del viaggio della Ristori intorno al
21 Joaquim M. de Macedo, Memórias da rua do Ouvidor, Rio de Janeiro 1887, pp. 111-112
mondo, coperto in dettaglio per quasi due anni dalla stampa mondiale.22
Sulla rotta trionfale Rio –
Buenos Aires – Montevideo la seguirono quasi tutti i grandi nomi italiani (Salvini, Rossi, Emanuel,
Novelli, Pasta, Maggi, Giacinta Pezzana, Celestina Paladini e fino alla Duse) e anche francesi
(Coquelin, Sarah Bernhardt) con rispettivi mattatori e primedonne, spartendosi le cabine dei
transatlantici con i cantanti lirici, mentre nelle stive s’accalcavano le famiglie degli emigranti con le
loro miserabili carabattole.
Per riscattarsi dalle ristrettezze del mercato peninsulare, gli artisti italiani si facevano
concorrenza in America, però su ben altra scala di profitti e con la provinciale certezza che un
eventuale trionfo all’estero aumentasse il proprio potere di trattativa con gli agenti in patria.23
Diversamente dagli artisti inglesi e francesi, la cui presenza in America Latina era saltuaria, e dagli
spagnoli e portoghesi i quali, in virtù dell’affinità linguistica, facilmente fissavano residenza, i
teatranti italiani – tradizionalmente nomadi e con poche pretese – si lanciarono in massa nel
business delle tournées transatlantiche, allora chiamate “giri” che diventavano vere e proprie
trasferte della classe artistica durante la bella stagione europea, quando le condizioni climatiche
nell’emisfero sud apparivano meno minacciose. A temperatura appena tollerabile (diciamo sotto i
trenta gradi) qualsiasi città latinoamericana dotata del più precario palcoscenico poteva sembrare
l’Eldorado. Perfino Manaus, allora floridissima grazie all’estrazione della gomma dalla foresta, si
dotò di un teatro rosa che spiccava come un confetto tra le anse limacciose del Rio delle Amazzoni e
diventò tappa obbligatoria dei circuiti lirici e drammatici. L’eterna sfida tra l’estro degli italiani e
l’universale “scuola francese” divenne, a Rio come a Montevideo e Buenos Aires, materia di
pubbliche dispute che vedevano schierata la compatta tifoseria della locale comunità immigrata a
favore del celebre compatriota di turno. Poi, nei decenni a finire il secolo, mentre il Brasile, da
Corte di un Imperatore illuminato, scivolava di collasso in collasso (sanitario, finanziario, politico)
verso la slavata Repubblica che traghetterà il paese nel Novecento, il prestigio di quelle capitali
decadde ed evaporò anche per gli artisti europei il mito dell’Eldorado latinoamericano.
Delirio lirico
22 Sui favolosi viaggi della Ristori vedi innanzitutto Eugenio Buonaccorsi, “Adelaide Ristori in America”, in L’arte
della recita e la bottega. Indagini sul grande attore dell’800, Bozzi, Genova 2001. Per lo specifico dei viaggi brasiliani
vedi A. Vannucci, “La regina delle scene alla corte dell’Imperatore”, Studi Portoghesi e Brasiliani n.23, Roma 2003;
Uma amizade revelada. Epistolário entre o Imperador Dom Pedro II e Adelaide Ristori, Fundação Biblioteca Nacional,
Rio de Janeiro 2004 23 Su questo tema vedi A. Vannucci, “Gli attori viaggianti”, Letterature d’America, n. 97, Roma 2003
Fu solo a partire dalla metà del secolo, dopo i primi vent’anni di un governo che Dom Pedro II
aveva assunto bambino, che la temperie cosmopolita della Corte corrispose pienamente alla
predilezione della famiglia imperiale per l’arte italiana. Gli immigrati italiani più in vista – in specie
se intellettuali o con ambizione di divenirlo, come quelli che si davano appuntamento alla libreria di
Paula Brito – s’impegnarono a lato dei brasiliani nella campagna per il finanziamento delle stagioni
d’opera italiana e per la ricostruzione del Teatro S.Pedro, oltre che nell’organizzare patriottiche
manifestazioni d’accoglienza per cantanti, mattatori e muse italiche di passaggio. La libreria
funzionava anche da box-office del Teatro Lyrico: vi si stampavano e vendevano abbonamenti,
libretti bilingui per le opere in programma e foglietti con le arie più celebri. Durante i
festeggiamenti per il compleanno dell’Imperatrice Teresa Cristina, il 18.3.1855, lo scrittore José de
Alencar, frequentatore assiduo, ebbe modo di ricordare ai suoi lettori quanto la cultura brasiliana
fosse debitrice alla “buona terra d’Italia”, e questo sia per le “belle notti in teatro che dobbiamo alla
scuola italiana ed ai suoi genî musicali; e sia perché è là, in mezzo a quelle rovine secolari, nel suolo
dove visse il popolo-re, nella terra in cui nacque Virgilio, che un poeta brasiliano può trarre la più
profonda ispirazione per imprimere nel suo poema nazionale quel carattere di grandezza e di
sublimità che il tempo ha lasciato nella storia di quel popolo. Tutto questo deve il Brasile
all'Italia”.24
Proseguiva annunciando lo sbarco di nuove celebrità provenienti dalla “terra classica
delle arti e del bello” con la certezza che “i buoni spettacoli, l’esempio e le lezioni degli artisti di
talento sicuramente favoriranno lo studio della musica italiana tra noi, contribuendo alla crescita di
talenti nazionali”.
La predilezione di Alencar per l’Italia non era una passione solitaria. Colleghi scrittori come
Machado de Assis, Martins Pena, Muniz Barreto e Gonçalves Dias, nonché giornalisti, attori e
spettatori da anni sognavano il gemellaggio culturale con la penisola, tanto che in quel 1855 un
gruppo di foliões rivendicò un carnevale ad imitazione di quello che allora si svolgeva a Roma.
Annunciando l’uscita, per i tipi di Paula Brito, del libretto bilingue degli Arabi nelle Gallie con
“nuovo sistema interlineare” di traduzione ad opera dello stimato prof. Galleano-Ravera (che era
anche autore del Metodo prático para aprender a língua italiana pubblicato proprio quell’anno) il
Diario do Rio de Janeiro si augurava “di fare presto dell’italiano una lingua famigliare a tutti in
24 Ao correr da pena, cronache pubblicate sul Correio Mercantil (1855), São Paulo 1874. 4a ed. a cura di João R.Faria,
Martins Fontes, São Paulo 2004. Il suggerimento fu preso alla lettera: l’Imperatrice Teresa Cristina indisse borse di
studio per l’Italia a favore di artisti brasiliani particolarmente dotati, come il compositore Carlos Gomes che grazie al
suo sostegno fece una carriera fulminante (debutta al Lyrico Provisório nel 1861 con A noite do Castelo, nel 1864 è già
a Milano, nel 1866 riceve il titolo di maestro al Conservatorio e nel 1870 debutta alla Scala con Il guaranì).
Brasile. Tutti i dilettanti devono saperlo per forza. È incontestabile: per poter apprezzare l’opera,
bisogna saper l’italiano” (28.1.1855). Fra tutti gli amori italici, però, quello che più dilagava era il
gusto per il bel canto: un delirio lirico che in quel decennio non fece che crescere. Erano “i tempi
omerici del Teatro Lirico”, descrive Machado de Assis che, all’epoca diciassettenne, dedicò la sua
prima poesia “ad una italiana”:25
ovviamente una cantante. Era la favolosa Augusta Candiani, un
viso ed una voce che popolarono per molti anni i suoi ricordi di spettatore, come poi quelli della
Ristori, di Rossi e di Salvini. Del superiore talento drammatico italiano e del suo trionfo sui
palcoscenici della Corte, Machado fu uno dei più appassionati promotori: la sua passione teatrale
era però condizionata all’arte della declamazione ed all’uso della voce, di cui i grandi attori italiani
erano virtuosi. Quando, nel 1867, la Ristori debuttò con Medea di Legouvé proprio al Teatro Lyrico,
Machado annunciò la resurrezione della “musa tragica”, attribuendo la sua superlativa qualità
drammatica alla magia lirica della voce capace di sintetizzare diversi effetti sonori nel medesimo
contesto armonico ed allo straordinario strumento della lingua italiana, “tra tutte la più armoniosa:
uno dei più intonati strumenti della sonorità umana”.26
Invece non l’infiammarono affatto, anni
dopo, l’arte intimista e la voce naturale della Duse, perché – ammise – “io capisco solo l’italiano
cantato e la Duse non canta” (Gazeta de Notícias, 25.7.1885). Ebbene, la favolosa Candiani “non
solo cantava: metteva il cielo in bocca […] Quando sussurrava i versi della Norma c’era di che
rimanere tramortiti. Il pubblico carioca, che impazzisce per la melodia come le scimmie per le
banane, viveva allora la sua aurora lirica” (Ilustração Brasileira, 15.7.1877).
La soprano milanese che meritò il primo poema di Machado fu anche una delle prime che
sbarcò a Rio nel 1844 e diventò un mito in una sola notte, cantando la Norma di Bellini. Ventenne,
s’era imbarcata a Genova per un viaggio lungo e rischioso senza alcuna promessa d’ingaggio:
fidandosi delle promesse di un marinaio e della fama di melomani attribuita ai cittadini di Rio.27
La
moda fomentava il mercato ed attraeva frotte di cantanti d’opera, italiani – a volte pure italiani e
25 Pubblicata sulla Marmota Fluminense (15.7.1855), “giornale di moda e varietà” il cui redattore era lo stesso Paula
Brito. 26 A ciò attribuì “l’equivoco di presentare la Ristori come una cantante, quando in verità la sua declamazione rivela una
traduzione lirica e musicale degli intimi sentimenti dell’animo con tale arte che ricorda i cori della tragedia greca”.
Folhetim do “Diário do Rio de Janeiro”, s/d, in Homenagem a Adelaide Ristori, Dupont&Mendonça, Rio de Janeiro 1869, p. 55. Per l’opinione di Machado sugli altri artisti vedi Vannucci, “Gli attori viaggianti”, cit. 27 Sulla Candiani vedi Silverio Corvisieri, “Musica danza e belcanto. Il mito dell’Italia nel Brasile dell’Ottocento”, in
Letterature d’America, n. 97, 2003. All’arrivo, così giustificò l’impresa: “Noi sottoscritti, artisti di canto, dichiariamo
che il signor Pietro Pittaluga capitano del brigantino sardo Empireo, conoscendo la propensione e il desiderio degli
abitanti di questa capitale nei confronti della musica vocale italiana, di sua spontanea volontà ci ha proposto di unirci in
una società, dopo averci scelti in mezzo a molti altri e ha poi firmato con noi un contratto, che abbiamo accettato di
comune accordo”, secondo Ayres de Andrade, Francisco Manuel da Silva e seu tempo, Rio de Janeiro 1967 (vol. I), p.
196.
basta, per privilegio di nazionalità subito acquisiti a ruolo di specialisti – e francesi o tedeschi,
dedicati all’arte del bel canto. “I brasiliani amano quell’arte! Qui non si canta altro che arie d’opera
persino nelle feste religiose. Bellini e Donizetti all’assalto dei pulpiti!”. È la scherzosa opinione di
un osservatore non sospetto come il pittore francese Charles Ribeyrolles, esule a Rio nel 1858-59
dopo aver partecipato al Quarantotto parigino. Quindici anni sono passati ma il vero divertimento
carioca “nonostante il caldo che fa” è ancora il teatro; ed il più ricco, il più affollato, il miglior teatro
di Rio è “il teatro lirico italiano”. Il Ginásio Dramático e il São Januário, “pur essendo degni di
molte piccole sale di Londra e Parigi, gli sono senz’altro inferiori” mentre perfino il circo equestre è
“meglio frequentato” del francese Alcazar Lyrique. “La direzione (del Lyrico Fluminense),
generosamente sovvenzionata, fa concorrenza alle più prestigiose accademie europee di musica e, se
non sempre voci fresche, riesce talvolta ad accaparrarsi qualche bel nome nella sua compagnia
franco-italiana”.28
Ecco il problema: nonostante la presenza costante dell’Imperatore e i suoi sforzi
pedagogici, quali le borse di studio e la sovvenzione pubblica al Conservatorio, l’arte italiana
restava indotto di artisti italiani o al massimo francesi...
Nel 1857, l’Imperatore raddoppiò la posta in gioco, sovvenzionando la fondazione
dell’Imperial Academia de Música e dell’annessa compagnia dell’Ópera Nacional (tenuta a
scritturare almeno metà del suo organico tra artisti brasiliani di nascita) perché facesse concorrenza
alla Compagnia Lirica Italiana, inamovibile carrozzone che aveva cambiato impresari, soprani e
coristi senza mai perdere il monopolio del gusto. Nessuno si stupì del fatto che della direzione
dell’Opera Nacional fosse incaricato il maestro italiano Gioachino Giannini, insegnante di Carlos
Gomes al Conservatório Dramático prima che questi partisse per Milano. Giannini, radicato in
Brasile da molti decenni, portava avanti con entusiasmo l’idea di una futura produzione operistica in
lingua portoghese.29
Uno dei più decisi sostenitori dell’idea era Paula Brito, che dalle colonne della
sua Marmota Fluminense affermò l’eccellenza dell’impresa nazionale ancor prima del debutto e
prese a pubblicare libretti con l’opera annunciata già bell’e tradotta in portoghese. Il momento clou
della querelle fu a metà ottobre, quando due Norme (una in portoghese, l’altra in italiano)
debuttarono contemporaneamente al Teatro S. Pedro de Alcântara (appena ricostruito dopo il
secondo incendio e diretto dall’attore João Caetano) e al Lyrico Fluminense. L’anno seguente, il
28 Brasil pictoresco. Álbum de vistas, panoramas, monumentos e costumes, Paris, 1861. Vedi anche João R.Faria,
Teatro realista no Brasil (1855-1865), Perspectiva, São Paulo 1993 e L.Hessel e G.Raeders, O teatro no Brasil sob D.
Pedro II, EDURGS, Porto Alegre 1979/1986 (2 voll.) 29 Cfr. Guimarães JR., Perfil biográfico, Rio de Janeiro, 1870 e Lafayette Silva, Artistas de outra era, Revista do
Instituto Histórico e Geografico Brasileiro, vol. 169, Rio de Janeiro 1939, pp. 1-196
terzo incendio dell’unico altro palco adatto all’opera fece traballare le speranze di chi s’azzardava a
far concorrenza agli italiani quando si trattava di cantare. Morto il maestro Giannini nel luglio del
1860, l’Opera Nacional fu estinta, dopo due sole stagioni di vita finanziata.
L’episodio è uno spiraglio che rivela un particolare percorso di civilizzazione. La ricerca
dell’identità nazionale brasiliana, intrapresa con l’Indipendenza e quindi nella fase di distacco dal
Portogallo, si affermava a metà del secolo nell’imperativo di una nuova “europeizzazione” culturale
che, paradossalmente, partiva dalla squalifica delle potenziali qualità autoctone. La volontà di
potenza della giovane e gigantesca nazione guidava la marcia della civiltà, fomentando la
sensazione euforica del progresso ad ogni costo e negando la percezione del ritardo catastrofico,
dovuto alla distanza geografica e temporale della ex-colonia dall’ex-centro. Il vecchio mondo era
sempre, comunque, davanti al nuovo come un modello; per superarlo era necessario comprenderlo
ed acquisirlo se non profondamente, almeno letteralmente. L’apertura dei porti aveva accelerato il
processo. Dall’Europa s’importavano vini e acque minerali, spezie, profumi, cuochi e pasticcieri,
stoffe, cappelli, bastoni, gioielli, modiste e mode “da primo mondo” così come cantanti più brave e
prostitute più raffinate. Perfino il profumo della lavanda francese pareva insostituibile: e i nobili
mandavano le camicie in lavanderia a Parigi. Un’inserzione sul Jornal do Commercio (8.11.1858)
mostra bene l’assurda esterofilia che caratterizza in quegli anni il processo di emancipazione del
Brasile, Impero nuovo che pende dall’antico come da un sole intorno a cui, al più, potrà orbitare. Al
rispettabile pubblico di “dilettanti” della Corte, notasi una città incastonata nella foresta atlantica e
zeppa di specî canore, “offresi un gran numero di canarini, merli, usignuoli e altri passeri, eccelsi
cantanti, con grande assortimento di gabbie del più squisito buon gusto, tutto importato
dall’Europa”. Fenomenali opere del progresso quale “la canalizzazione del fiume Maracanã, il
telegrafo elettrico, l’illuminazione a gas o la costruzione della ferrovia perdono totalmente interesse
agli occhi dell’opinione pubblica dinanzi al fulgore di Mme. Stoltz” (Jornal do Commercio,
25.6.1852). La più sublime delle voci canterine, appunto.
Ben più che la causa dell’opera nazionale, la passione dei dilettanti animava risse tra opposte
tifoserie a favore di questa o di quella cantante italiana (o francese o tedesca) arrivata fresca fresca
da Vienna, Trieste, Parigi o Milano. In assenza di campi sportivi e di un parlamento democratico,
studenti, artisti ed intellettuali frequentavano i teatri con la smania di difendere la bandiera prediletta
ed attaccare gli avversari: il partito della Candiani contro quello della Stoltz, lagruisti contro
lagrangisti, i devoti della Baderna contro i suoi nemici. Quest’ultima, come racconta benissimo
Silverio Corvisieri in Badernão (op.cit.) portava sul palco carioca, che fin’allora aveva offerto poco
più che un sonnolento rifugio alla borghesia cortigiana locale, il marchio di un passato sovversivo:
durante la sua ultima recita alla Scala, come étoile, aveva sputato sulla prima fila di ufficiali
austriaci. Le scorribande dei baderneiros, giovani repubblicani che onoravano il culto della loro
beniamina con manifestazioni d’incandescente ammirazione, cominciarono a costituire una
preoccupazione per l’ordine pubblico. Ad un certo punto Marietta, una silfide di neanche vent’anni
che viveva da sola e non rinunciava alle feste notturne coi suoi ammiratori sulle spiagge di Rio
(allora selvaggie), inserì nel programma ufficiale del balletto una umbigada, danza femminile di
origine africana. Intendeva fare omaggio alla sensualità delle donne nere con una danza a ventre
scoperto, giudicata oscena e censurata dalla società brasiliana schiavista; con evidente
provocazione, additava il re nudo e lo faceva dal palcoscenico più chic della Corte. Era il 1854. Lo
scandalo inebriò gli studenti e terrorizzò i borghesi, impose il nome della Baderna per mesi su
giornali, locandine e riviste prima che la direzione del teatro silurasse l’incauta ballerina. Fu così
che il balletto fu declassato dalla più sublime delle arti importate dall’Europa a divertissement
infilato negli intervalli delle opere italiane e bollato come scuola di prostituzione al pari delle
disdicevoli danze dell’Alcazar Lyrique.
Oltre a mostrare a quale livello di censura poteva giungere il complesso di sudditanza post-
coloniale, il subisso della Baderna e, con lei, delle sorti del balletto a Corte fa emergere la mancanza
di scrupoli di un personaggio che prenderà molto spazio nella nostra storia: l’influente impresario
José Manoel de Araújo, che aveva strappato la gestione del Lyrico Fluminense, con relativo
finanziamento, all’attore ed impresario João Caetano. Uno dei patti in convenzione era, appunto, la
creazione di un corpo di ballo; nonostante ciò, per i motivi sopradetti e con l’alibi di un necessario
aggiustamento di bilancio, Araújo dopo la Baderna falciò ballerini e coreografi, quasi tutti italiani e
senza rivali sulla piazza, perciò difficilmente sostituibili. L’aprile seguente, per rimpiazzare il
balletto negli intervalli del Don Pasquale, Araújo convocò la banda della fregata francese
Poursuivante ormeggiata in porto. I baderneiros insorsero in difesa dell’arte della loro eroina, ma le
contemporanee vicissitudini della soprano Arsène Charton-Demeur, scritturata da Araújo a Parigi
alla favolosa cifra di 120.000 franchi francesi per una sola stagione e già sbarcata con la sua corte di
accompagnatori, distrassero l’opinione pubblica. Solo il Jornal do Commercio ebbe a lamentare la
mossa di Araújo che decretava la decadenza del genere e la morte artistica di una stella. Un anno
dopo, un anonimo corrispondente da Rio informò i lettori del periodico milanese La Fama
(13.6.1856) che la Baderna si trovava ancora in città “ma inoperosa” mentre la febbre gialla aveva
fatto fuori un altro cantante a Salvador, Bahia.30
Il 1856 fu un anno pieno di aspettative e colpi di scena, con il Teatro S.Pedro in cenere e il
Lyrico Fluminense sconquassato da battaglie campali a base di lancio di ortaggi, di versi e di fuochi
d’artificio tra bande di spettatori fanatici. “Una sera (racconta Machado) lo scontro fu di tale
violenza che sembrava di assistere all’Iliade. Stavolta fu Venere a rimanere ferita: un botto esplose
in faccia alla Charton-Demeur. Il furore fu incredibile e la patata bollente passò ai giornali:
vergogna eterna ai cavalieri che hanno sputato in faccia ad una dama! Diceva uno, e l’altro
replicava: se sarà il caso sfideremo a duello i vigliacchi che nell’atrio giurarono vendetta!
Miserabili! Birbanti!”.31
Queste “guerre tra rosmarino e maggiorana” avrebbero richiesto,
suggerisce Machado con il suo abituale understatement, una valutazione improntata alla “serenità e
qualche lezione di buon gusto”. Invece (secondo un altro cronista) erano “risse, risse e ancora risse.
Non si discute neanche più del merito degli artisti, né del modo con cui la direzione amministra il
teatro, cosa cui il pubblico avrebbe doppiamente diritto perché vi contribuisce con il proprio
denaro”. Un incendio subito domato, forse doloso ma poi attribuito ad una cenere di sigaro, bastava
per incutere il panico nella popolazione e infiltrare “il disgusto ed il sospetto tra gli artisti a scapito
dei giusti diritti altrui, specialmente dei dilettanti” (A palestra, 20.8.1855). Il fanatismo provocava
reazioni distorte e forse ingenue “così nei plausi come nei biasimi: non è raro il caso di veder
passare gli spettatori dall’uno all’altro partito senza ragione o, piuttosto, per istigazione di coloro
che pescano nel torbido” (La Fama, 24.3.1856).
Ma chi mai poteva desiderare di “pescar nel torbido”? Benché vigesse il divieto al pubblico di
eccedere negli applausi ed agli artisti di secondare le ripetute chiamate alla ribalta (in casi del
genere, interveniva la polizia e procedeva all’arresto degli spettatori più vivaci), l’acquisto del
biglietto dava il diritto inalienabile di patear. Ovvero, il pubblico poteva pestare i piedi
sull’impiantito, caso disapprovasse l’esecuzione che in tal modo veniva disturbata e talvolta
interrotta. L’ingenuità dei dilettanti finiva per fornire un ottimo alibi alla furberia dell’impresario,
che facilmente giustificava mancati pagamenti e dimissioni sommarie con la scusa della scarsa
qualità dell’artista che era stata pateada. Era stata questa la strategia con cui Araújo aveva
squalificato ed espulso il balletto dal palcoscenico del Lyrico: una perentoria pateada (da lui stesso
organizzata, si disse). Non sorprende che le cantanti meno amate dal pubblico arrivassero ad offrire
30 Corvisieri, op.cit. (cap. V). 31 A mão e a luva, Cultrix, São Paulo 1919 (cap. II).
balli in maschera per promuovere il proprio partito di sostenitori, come quello dato per carnevale del
1855 al Teatro S. Januário da una (non meglio precisata) soprano italiana.
Una sventura simile accadde proprio alla celebre Charton-Demeur la quale, pochi giorni dopo
il suo arrivo, a detta dell’impresario già “faceva i capricci” in quanto pateada durante la
Semiramide. La Charton godeva di un’ottima reputazione da soprano oltre che di una paga notevole,
il che fa credere che preferisse risparmiarsi il confronto con la seconda voce femminile, la contralto
Annetta Casaloni (così suggerisce il settimanale l’Iride italiana, diretto dal prof. Galleano-Ravara,
genovese nonché dilettante sfegatato, che tentava di infilarsi tra Araújo e gli artisti come agente
intermediario). Colpita da una “febbre ai bronchi”, la Charton aveva fatto saltare tre repliche,
scatenando l’ira degli abbonati, la vendetta dell’impresario ma anche l’indignata reazione degli
intellettuali contro l’inciviltà del pubblico carioca. “Signori artisti, insorse il prof. Galleano-Ravara,
vittime innocenti delle ire donchisciottesche dei dilettanti: tenetevi di buon animo e state col
pubblico”(Iride italiana, 8.1.1855). Il 30.1.1855, rientrando in scena nella Semiramide, Mme.
Charton era stata nuovamente pateada “senza che la sua esecuzione desse motivo a tanto rigore” –
rimproverò il Diario do Rio de Janeiro – e provocando un tumulto cui seguì l’arresto di due
spettatori facinorosi. Un fiume di chiacchiere e disquisizioni sui limiti di urbanità da imporre
all’espressione delle passioni teatrali dilagò sulle pagine dei giornali. Il 6.2, una pubblicazione a
pagamento sul Diario, firmata “la civiltà” e indirizzata “all’esimio capo della polizia”, invitava a
riflettere sulla necessità di obbligare la platea allo stesso severo comportamento vigente nei
palchetti, giacché, mentre “anticamente si frequentava il teatro solo per rider e far rumore, oggi il
teatro è un luogo serio, soprattutto il Lyrico dove andiamo a sentir cantare e goderci lo spettacolo
del convivio di persone distinte e belle donne in un grande salone illuminato in modo da far
conversazione negli intervalli; tutte queste emozioni si confanno ad una Corte distinta mentre la
confusione creata dalle gallerie è sconveniente, a maggior ragione in presenza delle Loro Maestà
Imperiali”. La settimana seguente, nello stesso spazio, un cronista faceva notare che, seppur l’atto di
patear fosse usanza antica e quasi un diritto in passato, nello stato di civiltà attuale esso sconfinava
nella maleducazione. Il 19.3 Mme. Charton diede nuovamente forfait facendo saltare il debutto del
Trovatore, sostituito quella sera con gli Arabi nelle Gallie. Alla terza replica del Trovatore (27.3) il
tenore si diede per malato ma non trovò chi lo sostituisse per cui, piuttosto che doversi esporre
all’umiliazione della pateada proprio sul titolo che godeva della preferenza dei dilettanti, si scusò
avvisando che avrebbe cantato male. Per assistere al Trovatore senza intoppi, la platea dovette
attendere il 7 di settembre, commemorazione dell’Indipendenza, mentre nel Campo da Aclamação,
antistante il teatro, impazzava il torneo romano con corse a cavallo, salti mortali, gare di cani, di
carrozze e lancio di palloni aerostatici. Il braccio di ferro finì per definire le sorti della cantante
francese che, avvilita dal trattamento poco cavalleresco ricevuto a Rio, se ne tornò in Francia non
senza raccogliere melanconici applausi all’addio (il 13.11 con la Fidanzata corsa). In attesa
dell’imbarco diede ancora, in dicembre, quattro trionfali repliche della Traviata, titolo in cui fu
giudicata “insuperabile”.
Nelle locandine dell’imminente stagione operistica (1856), sparita l’incompresa Mme.
Charton, brillano i nomi di Mme. Emy La Grua (mezzo-soprano) e Mme. Anna de la Grange
(soprano), mentre all’appello dei tenori rispondono Camolli, Devoto, Gentili e Ballestra-Galli: tutti
nomi nuovi. L’impresario s’era messo a battere le piazze europee a caccia di nuovi talenti da attrarre
oltreoceano con favolose promesse contrattuali. In quel momento, con il teatro S. Pedro in
ricostruzione, a Corte non esistevano che due palchi per l’opera lirica: il Lyrico Fluminense e il
piccolo Teatro Santa Teresa, a Niterói (cittadina situata dirimpetto a Rio, sull’altra riva della Baia di
Guanabara), gestiti dal medesimo impresario con identica programmazione. Ai cantanti che si
lasciavano irretire da Araújo appariva ben presto evidente, una volta sbarcati, di non avere
alternative, caso la realtà non rispettasse le promesse e l’impresario tradisse i termini della scrittura.
Fuori dal teatro, dal Campo da Aclamação alla Praça Tiradentes, la notte carioca era popolata
da vadios e capoeiras (cioè vagabondi e bande di africani, lottatori di capoeira) oltre che da solitari
spettatori dell’Alcazar Lyrique che vagavano a caccia di prostitute. Per la serie delle correzioni
morali, il Correio Mercantil nel luglio 1856 fece una campagna contro le proprietarie di pensioni
del centro perché, con quel viavai di clienti fino all’alba, fomentavano disordini. E, per la serie delle
peggiori figuracce sulla stampa internazionale, nell’ottobre del 1858 il Moniteur Universal sbatté in
prima pagina l’avviso di un viaggiatore inglese: “lo stato della città di Rio de Janeiro è una
vergogna per un paese civilizzato: in quasi tutta la città, immondizie d’ogni genere, animali morti e
porcherie da dar la nausea”. Un “indignato” firmò un pezzo a titolo “Teatro versus immondizia” in
cui metteva in ridicolo Araújo che da Parigi, ad ogni inizio di stagione, annunziava per il Lyrico
Fluminense un programma ancor più megalomane del precedente: “cose da primo mondo”. “Se non
abbiamo nient’altro di decoroso da mostrare agli stranieri, mostreremo loro le massime celebrità
europee sulla nostra scena lirica! Come? Scritturando un numero spaventoso di artisti che vengono
qui a vivere a sbafo del teatro, incassando paghe da favola senza cantare” (Jornal do Commercio,
7.11.1858). Due giorni dopo la Marmota fluminense pubblicò una corrispondenza del
fantasmagorico Araújo da Torino: “Ho trovato qui assai screditato il nostro Teatro Lyrico e ho
temuto di far fiasco. Poi, valutate bene le forze dei miei nemici a Rio i quali hanno inondato
l’Europa di lettere a giornalisti ed artisti, ho deciso di affrontare la missione; e me la cavo
eccellentemente. Ho scritturato 59 artisti, tra i migliori qui in Europa, e non ebbi a scegliere tra
coloro che vollero venire, perché nessuno ricusò di firmare; insomma, ho trionfato sui miei nemici.
Nel 1859 il nostro Teatro Lyrico sarà il primo al mondo”. Le condizioni che Araújo affermava
d’aver ottenuto nelle nuove scritture corroboravano il suo trionfo: paghe più basse che in Europa e
riposo estivo (da dicembre a marzo) non retribuito, divieto di repertorio esclusivo (ovvero obbligo
di accettare nuovi ruoli) e compenso per notte cantata, sia a Rio che a Niterói.32
“I nemici –
concludeva – mi hanno reso famoso: tutti mi vogliono conoscere. Tornerò, se avrò deciso di non
accettare la direzione dei principali teatri che qui mi offrono”. Paula Brito sostenne l’impresario –
ne andava dell’onore dell’Impero, ma era anche un suo amico personale – garantendo ai lettori della
Marmota che giornali internazionali tenevano in gran conto il paese e il suo teatro lirico,
ufficialmente rappresentato da Araújo, perché “è noto che le nazioni civilizzate intendono il teatro
come un mezzo di governo”. Per scagionare il suo influente amico, il redattore della Marmota
intervistò le cantanti francesi passate per le sue grinfie. Sul numero successivo (17.12.1858) saltò
fuori che Mme. de la Grange, primadonna in carica che si era affermata nella Favorita, era felice a
Rio de Janeiro ove passava di festa in festa e di successo in successo; mentre la reietta Mme.
Charton-Demeur, da Parigi, spiegò di non aver mai sofferto a Rio di febbri né di mancati pagamenti
né, colmo dei colmi, d’esser giammai stata pateada; anzi, giustificò il diritto del pubblico a farlo,
caso la cantante non lo aggradi.
Nel frattempo, però, la guerra tra l’agente plenipotenziario ed i suoi “nemici” era rimbalzata in
teatro: il 21.11, senza alcun riguardo per l’eccezionale presenza in platea della soprano Sofia Lorini,
di passaggio a Rio, il pubblico carioca pateou il tenore Carlo Balestra-Galli durante il 2° Atto della
Traviata e questi per vendetta saltò la celebre “cavatina”. In galleria scoppiò il finimondo e la
polizia arrestò sei spettatori, fatto che il Jornal do Commercio (23.11.1858) commentò con
desolazione: “Così i dilettanti diserteranno sempre più quel disgraziato teatro: i cantanti sono di fatti
scadenti o magari insoddisfatti perché mal pagati”. Di fatto, Galli era in piena vertenza con la
direzione del Lyrico: era stato licenziato senza preavviso due giorni prima. Si disse che aveva fatto a
botte con un corista e, rimproverato dal maestro, aveva reagito da italiano: “gesticolando con
violenza e gettando a terra il cappello: una scena scandalosa alla quale assistettero diversi artisti”
32 Si tratta di clausole abbastanza anomale rispetto al modello vigente all’epoca in Italia, vedi: John Rosselli,
L’impresario d’opera. Arte e affari nel teatro musicale italiano dell’Ottocento, EDT, Torino 1984
(secondo la versione di Dionysio Vega, amministratore del Lyrico sul Jornal do Commercio,
20.11.1858). Il tenore si difese in una pubblicazione a pagamento in cui non negava il
comportamento (evidentemente c’erano troppi testimoni) ma controbatteva, accusando
l’amministrazione di mancato pagamento. Aveva ricevuto solo due mesi di paga su quattro (dalla
firma della scrittura) pur avendo onorato i termini della scrittura e finanche le richieste cui non era
tenuto, come cantare a Niterói. La direzione del teatro invece mancava al dovere – denunciava il
tenore – e lui avrebbe fatto pubblicare proteste sempre più veementi finché il debito non fosse
saldato. L’amministratore ribatté d’aver anticipato a Balestra-Galli 18.000 franchi, corrispondenti a
sei mesi di paga, di cui solo due erano stati onorati finora; e inaspettatamente contrattaccò,
ingiungendo al tenore la restituzione del rimanente. Furibondo, Balestra-Galli reclamò d’aver
sostenuto spese per la rescissione del contratto con il San Carlo di Napoli superiori all’anticipo
ricevuto da Araújo, che di per sé non sarebbe bastato neanche a coprire il biglietto della nave.
Rivelò (il 21.11.1858) che la favolosa somma promessa da Araújo all’atto della scrittura era di
106.000 franchi annui e non di miseri 3.000 mensili; esigeva quindi che gli fosse corrisposta una
percentuale come compenso per la rescissione del contratto e per non “mettere in imbarazzo
l’agente plenipotenziario ancora in Europa”. Insomma venne fuori la bugna delle mezze promesse di
Araújo che Banfi avrebbe facilmente messo in imbarazzo in quel preciso momento, se avesse
pensato di inviare ai giornali europei la lettera controfirmata dagli artisti del Lyrico nelle sue stesse
condizioni. Invece la mandò solo ai giornali locali che nicchiarono perché subodorarono che, con il
buon nome di Araújo, se ne sarebbe andata in frantumi anche la reputazione nazionale. Solo il
Jornal do Commercio (20.11.1858) protestò: “Che insulto all’arte della musica! L’agente inganna la
direzione, mentre il pubblico paga per avere in cambio sarcasmo e prese in giro”.
Il 16.12.1858, mentre il giudice rifletteva sul caso, il Jornal do Commercio pubblicò una
lettera spedita da Milano due mesi prima (12.10) in cui G.B. Lampugnani, critico della Gazzetta dei
teatri, fustigava Araújo senza scampo. Accusava l’agente carioca di tentata corruzione: 200 franchi
perché “io non pubblicassi neanche una riga in favore o contro gli artisti del teatro di Rio, senza che
ne venisse l’ordine esplicita da lui”; e di altre “basse manovre per comprare il giornalismo europeo”.
Lo apostrofava (“voi che dall’esotico Brasile vi siete degnato di attraversare l’Atlantico per venire,
messaggero di civiltà, ad insegnar l’urbanità a noi, figli degenerati di questa vecchia Europa”)
perché chiarisse la questione che premeva a tutti: i contratti firmati in Europa erano garantiti in
Brasile, paga inclusa, oppure no? Testimoni d’accusa, secondo lui, non mancavano: i tenori Salviani
e Ciaffei, le primedonne Steffanone, Stella, Candiani, Laborde. Oltre a ciò, s’interrogava
Lampugnani, “cosa mai sarà una sovvenzione di 300.000 franchi annui, più il fondo societario,
dinanzi alle paghe da favola che voi promettete agli artisti? Esaurito il fondo sociale, cosa che può
accadere in un batter d’occhio, buona notte a tutti! Chi garantirà per un artista che si trova già a Rio?
Nessuno! Quindi: buona biglietteria, si paga; biglietteria scarsa, si sospendono i pagamenti”. E
concludeva: “ficcatevi bene in mente che nelle scritture giammai si trova espressa la clausola che
l’artista debba esser d’aggrado al pubblico; è un problema dell’impresario se non sa scegliersi artisti
adatti alle sue scene”.
Nonostante il polverone provocato dalla lettera milanese ed i testimoni presentati dalla
presunta vittima Balestra-Galli, il Teatro vinse la causa di licenziamento e mise a tacere le pretese
del tenore con una sentenza seccamente sfavorevole: Balestra-Galli pagò i danni e uno dei tre
testimoni fu licenziato. In assenza di sindacati, il tenore provò ad esacerbare il contenzioso in un
caso nazionale. Fece appello a “chi di dovere” (intendeva dire l’Imperatore?) perché “valutasse
seriamente la situazione del Teatro Lyrico per prevenire casi ancor più disastrosi e meno onorevoli
al buon nome di questa nazione di cavalieri”. Cercò, ahimé tardi, di acchiappare il treno dello
scandalo internazionale con lo spauracchio della vergogna dinanzi alle superiori nazioni civilizzate:
tutta l’Europa ormai sapeva della morosità e dell’imprudenza di un’amministrazione “che permette
ad un agente screditato in patria di andare a sedurre grandi artisti perché vengano quaggiù ad esporsi
agl’imbarazzi pecuniari del Teatro Lyrico” (Jornal do Commercio, 30.12.1858).
Quella dello sguardo degli stranieri, vale a dire degli europei, era un’ossessione. Nel tentativo
di comporre il puzzle della propria identità (tra matrice portoghese, indigena, africana e modelli
importati dagli immigrati europei) il Brasile alimentava speranze di riconoscersi allo specchio della
civiltà occidentale. Il tropico appariva inattuale ed imbarazzante ai brasiliani ancor più che ai
viaggiatori stranieri i quali, osservando uno stile di vita così bizzarramente europeo per quel clima e
vegetazione, traevano un’impressione di anacronismo più che di distanza spaziale. Il viaggio in
Brasile era un viaggio all’indietro nel tempo che però non sembrava dar accesso alla primitiva
purezza idealizzata dai romantici – in cui natura e popoli del Nuovo Mondo apparissero liberi delle
perverse degenerazioni del Vecchio – bensì ad una società altrettanto se non ancor più
irreparabilmente corrotta da vizi e contagi. Una società meno esotica che démodé (come ebbe a dire
Claude Lévi-Strauss cinquant’anni più tardi).33
Quindi, più dello sguardo nostalgico dei romantici,
era lo sguardo perplesso dei viaggiatori moderni a fungere da paradigma ermeneutico, in quanto
33 Tristi tropici, Il Saggiatore, Milano 1960. Vedi anche Carl von Koseritz, Imagens do Brasil, Martins, São Paulo, 1943
esaltava le rivendicazioni di diversità del Sud America dal vecchio continente. Senza lo sguardo
europeo, che in un primo momento l’aveva esaltato a eldorado dei cuori più arditi e successivamente
lo declassava a selva selvaggia, periferica e pestifera, il Brasile non sapeva di esistere; mentre in
questo sguardo dell’altro finiva per riconoscere se stesso.
Per tornare alla vertenza degli artisti contro il Teatro Lyrico, la prossima ad abbandonare
l’osso fu Mme. de la Grange, che rientrò in Italia (a fine 1859, dopo un giro a Montevideo e Buenos
Aires) con la broncopolmonite e dicendosi vittima degli imbrogli dell’amministrazione. Il caso
suscitò in Europa qualche acido commento sull’insalubrità della nazione: “quanto sforzo per
dissuadere Mme. de la Grange, e con lei Medori, Graziosi, Michele Tosi e Borghi Vietti dall’intento
di andare nell’orrida capitale del Brasile. Tutto inutile! Se proprio il fato li spingeva a partire, che
imparassero prima il portoghese! Perché poi saranno obbligati a firmare un’infinità di carte di cui
non capiranno un’acca ed i dollari da brillanti si trasformeranno in carboni. Disgrazie!” La tosse di
Mme. de la Grange, tanto applaudita dal pubblico brasiliano nella Traviata (che pubblico cinico! era
tosse vera!) fece addirittura sospettare al giornalista italiano che l’impresario del Lyrico avesse
concepito “l’infernale progetto di scritturare i più noti artisti europei ed attrarli al loro funerale,
promettendo loro paghe da favola per infine sterminarli”.
Il baule del viaggiatore
Quest’ultimo ritaglio, in italiano e senza indicazione di testata, mi è saltato fuori dall’archivio
di Giuseppe Banfi, viaggiatore lombardo (nato a Varese il 29.3.1830) che all’età di ventiquattro anni
lasciò l’Italia, senza motivi riconducibili ad un’improvvisa miseria (era discretamente istruito e
lavorava) ma piuttosto ad una sopravvenuta libertà. Il giovane non era sposato né aveva parenti a
carico: aveva perso da otto anni il padre Baldassarre e la madre Maria Bianchi da cinque; in seguito
aveva lavorato per alcuni anni a Busalla, dove i cantieri di perforazione delle gallerie dei Giovi
(1850-54) offrivano un indotto occupazionale capace di attrarre dal lombardo-veneto una discreta
migrazione stagionale anche non specializzata. Finiti i lavori, Banfi scese (forse in comitiva con altri
muratori ormai disoccupati) a cercare opportunità a Genova. Era il 6 settembre del 1854 quando
salpò per Rio de Janeiro a bordo del bastimento Bricche Rosa. Portava con sé una piccola pistola e
un paio di vestiti buoni. Partiva per far miglior fortuna, forse trascinato dall’entusiasmo di qualche
compagno o forse dal sogno di una libertà politica che non gli era concessa in patria. Certo non era
disposto a tornare nella sua natale Varese, sottomessa al dominio asburgico, in età d’esser coscritto.
Partiva per far l’America: non solo inseguendo un miraggio di successo e ricchezza ma anche
convinto di poter meglio investire la propria energia in un paese giovane, libero e lanciato in una
febbrile corsa al progresso. Come il Brasile.
Sbarcato alla Corte di Dom Pedro, Banfi s’impiegò subito come corista al Teatro Lyrico.
Non abbiamo notizie della sue competenze canore; solo che, forse perché non si sentiva all’altezza
dell’incarico, si iscrisse al corso di solfeggio del Conservatorio Dramático e Musical, che da
quell’anno aveva sede nel Museu Nacional, adiacente il teatro. Il suo nome non risulta sulle
locandine della Compagnia Lirica Italiana dell’epoca, mentre invece consta il nome di Gioachino
Giannini come maestro, di Marietta Baderna come prima ballerina, di Giuseppina Zecchini come
primadonna lirica, di Domenico Laboccetta e Giacomo Sicuro come primo e secondo tenore, di
Anselmo Brondi e Caterina Castelli come capi del coro di 24 elementi. La direzione del teatro spetta
a Dionysio Vega e il fatidico José Manoel de Araújo risponde al ruolo di direttore di scena. Il fatto
che non siano menzionati i coristi ci lascia supporre che tra essi ci fosse davvero Giuseppe Banfi;
ma è anche possibile che fosse stato preso solo in prova, sprovvisto com’era di credenziali salva la
presupposta dote nazionale. Un italiano, per natura, non poteva certamente essere stonato.
Il suo percorso in Brasile fu breve ma intenso. Indizi saltati fuori dal suo archivio gli
attribuiscono un inatteso ruolo da protagonista delle vicende fin qui narrate e ne fanno un prezioso
testimone di quel mondo. Un quaderno enciclopedico datato Rio de Janeiro, 15.1.1856, sul cui
frontespizio l’autore traccia il proprio nome con un carattere elaborato che non domina
perfettamente,34
registra la volontà di riscattare le radici del proprio sapere e fissarle sulla carta
come ancore a salvaguardia dell’identità e del senso della vita nell’altro luogo. La trascrizione di
alcuni canti della Commedia (primo, secondo e terzo canto dell’Inferno, inizio del primo canto del
Purgatorio e del primo del Paradiso) in bella calligrafia e pressoché esatta, senza vuoti di memoria
né strafalcioni, farebbe supporre una copiatura da volume reperito a Rio – se non seguissero alcuni
versi dell’Ernani, un sonetto dell’Ariosto, l’incipit dell’Orlando Furioso e due arie d’opera
(L’Amante Tradito e il Bel Zerbino) difficilmente reperibili all’epoca in Brasile. Probabilmente
aveva buona memoria che manteneva in allenamento con esercizi di calligrafia. Nelle pagine
successive, sotto il titolo “Storia Italiana”, una dettagliata cronaca della Congiura de’ Pazzi e una
scheda (“Annali degli Imperatori Romani dall’epoca di Cristo” con relativi commenti: buono, assai
pessimo, usurpatore, mezzo, scrupoloso) rivelano l’urgenza di riepilogare i fondamenti della propria
34 Sulla copertina, rifasciata di carta marrone con disegni rossi e neri, è scritto [Banfi giusepp] mancando spazio per la
[e] finale. Misura 23 x 33 cm. L’interno conta 19 fogli a righe quasi tutti utilizzati.
cultura. Tra queste pagine e le cinque successive, dedicate ad argomenti geografici (in cui Banfi
descrive schematicamente Italia, Portogallo, Spagna, Francia, Svizzera, Germania, Austria, Prussia,
Ungheria, gli Imperi Ottomano, Russo e Cinese, Grecia, Asia Minore, i possedimenti della
Compagnia delle Indie, l’Africa e l’America) emergono alcune righe di “Memorie”:
Il Padre mio morì nell’anno 1845, il dì 18 Novembre. La Madre mia morì nell’anno 1849, il dì 22
Marzo, entrambi a Varese io parti di detto luogo dell’anno 1850, li 5 Marzo, per Genova onde
Busalla, per mio domiciglio per quattro anni. Il dì 6 Settembre 1854, salpava dal porto di Genova a bordo del Bricche Rosa per Rio Janeiro ove in
breve fui impiegato come corista all’Imperiale Teatro e nel medesimo tempo era studente al
Conservatorio di Musica. Dal 1856 cominciai a fare funzioni di Chiesa ed dì 7 aprile sono stato
derubato di tutta la Robba che possedeva. 1858 a dì 18 Gennaio parti per l’interno del Brasile Come Negoziante di bijoteria. D’ivi abbiamo fatto 200, e più leghe a Cavallo. Le fatiche soferte in detto
viaggio sono molto estese in tutti i ponti. Provincia Paranà e S.Paolo. Il viaggio fu di tre mesi e mezzo
e poi di nuovo venni impiegato al Teatro il 21 Agosto detto guadagnai 920 milreis [920.000 reis] ciò fu di grande sollievo e dal medesimo giorno risolvetti la partenza dal Brasile a dì 23 Dicembre detto
salpava dal Porto di Rio al Bordo del Clipper Corriere alla volta di New York. Il 28 Gennaio abbiamo
avuto burrascha il 29 arrivammo. Il nolo fu da 750 fhi [franchi francesi].
Le lacune ortografiche, in un quadro di discreta dimestichezza con la scrittura, non
impediscono di cogliere l’accuratezza con cui sono riportate date e nomi: si tratta di un archivio
della memoria che ha come primo interlocutore colui che lo compila. Nella traiettoria di
un’esistenza, la decisione di archiviare fatti, date ed immagini in un virtuale “baule” autobiografico
risponde innanzitutto ad un’esigenza tutta privata di aggiustamento tra progetto di vita e frammenti
di vissuto. Nel caso di un viaggiatore, la rottura biografica della partenza induce ad una maggior
cura, talvolta ossessiva, nella compilazione e conservazione di questo baule di ricordi che, come
un’eclettica collezione di objets divers, sono testimoni unici della vita nell’altro luogo –
specialmente quando, come nel caso di Banfi, si tratta anche di un’altra vita: quella del cantante
d’opera, professione mai esercitata in patria né prima né poi. Segue infatti, in una pagina fitta fitta
sul cui primo rigo campeggia il titolo: “opere fate nel Teatro Lirico di Rio janeiro dal 1855, 26
genajo”, un elenco di titoli numerati (da 1 a 48, con tratto a matita forse segnale di un conteggio
successivo) e qua e là completati (a riprova dello sforzo di memoria) dal nome del compositore o
almeno della nazionalità.
Trovatore 1 L’ebreo 30 Verdi
Arabi nel gallie 2 L’elisir d’amore 31 Puccini Linda di sciamoni [Chamonix] 3 La Regina di Cipro
D. pasquale 4 Lucrezia Borgia 33
Semiramide 5 La Favorita 34 Luisa miller 6 Maria padilha 35 Verdi
Puritani 7 Il giuramento 36
Sonabula Suonambula [sic] 8
Anna bollena 9 I martiri 37 Donizetti
Figlia del regimento 10 Fiorina 38
Maria rohan 11 Marco Visconti 39 Donizetti Otello 12 Mosé 40 Rossini
Nabucodonosor 13 Buondelmonte 41 Verdi
Norma 14 Don Giovanni 42 Bellini
Macbeth 15 Fausto Traggico 43 Verdi Foschari 16 Roberto il Diavolo 44 Verdi
Capuleti [e] Montecchi 17 Ugonotti 45 L’ebreo Apolloni
Fidanzata Corsa 18 Frai schinz 46 Traviata 19 Vespri siciliani 47 Verdi
Rigoletto 20 Medea 48 Verdi
Orazi [e] Curiazi 21 Marta Mercadante
La Saffo 22 Fra Diavolo Puccini Il Barbiere di Siviglia 23 Crespino Rossini
Ernani 24 Fausto Verdi
Attila 25 Giulietta [e] Romeo Verdi Poliuto 26 Donizetti
Domino Nero 27 francese
Damabiancha 28 francese Cenerentola 29
La precisione dell’elenco ci permette di comprovare la verità dei fatti.35
L’intraprendente
Banfi, giunto a Rio da pochi mesi, cantò come basso baritono nel Coro del Teatro Lyrico
Fluminense già nella Semiramide e nel Trovatore del gennaio del 1855, quando Mme. Charton-
Demeur, contestata dal pubblico, fece i capricci e si rifiutò di andare in scena; nonché negli Arabi
nelle Gallie di febbraio, quando la soprano fu sostituita da Giuseppina Zecchini; e nel Don Pasquale
del 14.3.1855, rappresentazione in gran gala per l’anniversario dell’Imperatrice, quando la banda
della fregata francese Poursuivante intonò l’Inno Nazionale brasiliano, insieme alla Marsigliese e,
probabilmente, alla Marcia Reale sabauda. Una rapida indagine comparativa conferma tutti i titoli
listati da Banfi come effettivamente realizzati al Lyrico nella stagione 1855-56 e seguenti, con un
discreto elenco di prime voci – come il basso profondo La Bouché (detto, all’italiana, Laboccetta) e
i tenori Sicuro e Dufrène – ad accompagnare, prima Mme. Charton (I Puritani di Bellini in aprile e
Anna Bolena di Donizetti a giugno; Dominò noir, opera comica di Scribe, nel febbraio del 1856) e
la Sra. Zecchini (Luiza Muller di Verdi a maggio del 1856), poi Mme. Déjane (L’ebreo di Giuseppe
Apolloni a luglio del 1856); poi Mme. La Grua (Ernani di Verdi nell’agosto del 1856) e infine
Mme. de la Grange (Rigoletto di Verdi nell’ottobre del 1857).
35 Un elenco completo degli spettacoli dati nei teatri di Rio in J. Galante de Souza, Teatro no Brasil, MEC, Rio de
Janeiro 1960
Nella sua seconda stagione a Rio, Banfi registra anche un gran numero di lavori in chiesa, con
dettagli in cifre romane e arabe che forse corrispondono al ricavato.36
Solo ogni tanto compare
l’indicazione della parte sostenuta: funzione di Pasqua, Novena, Libera Me, Te Deum ma anche
“solo” e “duo” che comprovano la scherzosa testimonianza di Ribeyrolles: “Verdi, Rossini e
Donizetti all’assalto dei pulpiti!”. Le numerosissime chiese di Rio, quasi sempre a pianta centrale e
con la facciata decorata, in stile Borromini, ospitavano programmi musicali non religiosi;
naturalmente l’opera la faceva da padrona. Banfi cantò in chiesa sei volte nel 1856 (Candelaria, S.
Rosario, S. Ritta, N.S. Parto, S. Cristofano e S. Antonio di p. [Padova]); e ben cinquantadue volte
nel 1857: quasi una la settimana, di cui almeno otto come solista.
Praina [Prainha]
S. Bento duo
Funzione delle Ceneri alla Misericordia Carmo pascua
Candelaria
S. Giuseppe A la Lapa
S. Ritta solo
Candelaria solo S. Pietro
S. Cruce [Santa Cruz]
S. Anna solo
Ospizio alla Lapa 2° solo
S. Antonio della Cav.
S. Antonio della Cav. S. Cruce
S. Cruce solo
Arsenale di marina solo N. S. Rosario duo
N. S. Rosario solo
Cappella della M.S. del Carmo nel 1857: Li 1 Marzo, Li 4 Aprile, Li 15 Maggio, Li 6 Giugno, Li 7 Luglio, Li
1 Agosto, Li 6 Settembre, Li 3 Ottobre, Li 7 Novembre, Li 12 Dicembre. S. Croce Libera me
S. Croce Funzione
S. Croce Funz. S. Cruce Settimanale
Rosario Novena
N.S. Carmo Teatro Lirico
N.S. Lampados impresa N.S. della Lapa Te Deum
S. Giuseppe
S. da Candelaria Libera me
36 Non riportiamo le cifre in quanto non codificabili.
N. S. della Praina
S. Antonio
Praja Grande Libera me
Sagramento Piccola Cosa S. Ritta solo
S. Bento
S. Antonio
N.S. do Ospizio Concezione
Trasordinario
S. Cristofano [São Cristovão]
Le cifre indecifrabili potrebbero rivelarci quale piccola fortuna Banfi riuscì ad accumulare in
due stagioni grazie al suo rivelato talento musicale che non gli fece certamente mancare opportunità,
vista l’estrema mobilità del mercato dei cantanti lirici a Rio in quegli anni. Se non che l’ultima riga
del quaderno enciclopedico ci riserva un bel colpo di scena. E d’altri benefici – scrive Banfi in
fondo alla lista di chiese – fui derubato a li 7 Aprile 1857 a ore 2. E sotto: Beneficio di 36 mila, un
bel gruzzolo se si considera che era di 3.000 la paga mensile in franchi rivendicata e mai corrisposta
al tenore Balestra-Galli l’anno successivo. Un furto di tale entità deve aver avuto conseguenze
traumatiche e difatti, dal “baule” di Banfi che attualmente ha le forme di una cartellina rossa,
emergono indizi di un repentino cambio di ambiente. Per un periodo s’impiegò in una fabbrica di
vetro; poi, il 3.12.1857, decise in società con l’amico Buzzone di investire i risparmi nell’acquisto di
una paccottiglia di bigiotteria d’oro e di andarla a vendere nell’interior del Brasile. Si tratta di una
nuova partenza: un ulteriore e ancor più ardito sogno d’America.
Misero in atto il proposito un mese dopo (il 15.1.1858) quando, pagata all’erario la tassa
dovuta per entrare e uscire per mare dal porto di Rio, i due amici s’imbarcarono alla volta di
Antonina nello Stato del Paranà, da pochi anni separato dallo Stato di São Paulo. Là furono accolti,
dodici giorni più tardi, da un sedicente Console Italiano che però non sapeva dirci di quale parte
d’Italia ne fusse il rappresentante. Seguirono via terra, con due cavalli per mezzo di trasporto
(registrati il 18.3.1858 dal pagamento di una tassa di settemila réis)37
e qualche lettera di
raccomandazione per viatico, raggiungendo Curitiba e Campo Largo, oltrepassando l’infido Passo
dos Garapatos e guadando i tre fiumi della Serra da Ribeira per giungere a Ponta Grossa e da lì a
37 Moneta coniata dalla monarchia brasiliana, il cui nome perdura fino ad oggi: real, pl. reais o réis.
Castro, sulla divisa ideale dei monti che dividono il Paranà dallo Stato di São Paulo.38
Rientrarono a
Rio dopo tre mesi e mezzo e più di duecento leghe di strada nelle gambe.
Neanche stavolta era toccata ai due amici la sorte grande. Banfi, immediatamente dopo il
rientro, tornò a proporsi come basso-baritono e riebbe l’impiego al Teatro Lyrico, grazie alla
pressione di vecchi colleghi. Da maggio a dicembre del 1858 cantò spesso anche in chiesa,39
mentre
in città esplodeva la bomba contro il plenipotenziario Araújo ed i giornali pubblicavano le vane
rivendicazioni del tenore Balestra-Galli. Banfi s’inserì nella vicenda e riuscì in qualche modo a
38 Tutte le notizie geografiche sul Paranà tratte da Il Brasile e gli italiani, Bemporad, Firenze/Genova 1906 (pubblicazione a cura del Fanfulla, quotidiano italiano di São Paulo). 39
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cavarne il gruzzolo che gli era necessario per fare il terzo salto di qualità che sognava: partire di
nuovo, lasciando Rio per New York, ove forse avrebbe trovato la vera “Merica”. Il 27 Agosto
guadagnai 920 milreis e ciò fu di grande sollievo poiché dal medesimo giorno risolvetti la partenza
dal Brasile, si segnò nelle “Memorie”. Evidentemente, dopo le fatiche dell’improduttivo viaggio al
Paranà, il rientro a Rio non faceva sperare oltre. Perciò, in vista della partenza, Banfi non si lasciò
allettare da nessun futuro progetto in loco. Il Brasile non valeva il sogno americano con cui
seduceva gli emigranti: al contrario, lì si rischiava di vedere i dollari da brillanti trasformarsi in
carboni.
Come riuscì a guadagnare la somma in così breve tempo? Piantò una grana (oggi si direbbe)
sindacale. O la pensò fin dal principio oppure le cose in teatro non andarono come previsto: sta di
fatto che a metà novembre, dopo l’Ernani, Banfi fu licenziato in tronco dall’Amministratore,
insieme a Ballestra Galli. La giusta causa fu d’aver polemizzato, rivendicando l’applicazione del
contratto ed il pagamento degli arretrati, non solo per sé, ma per tutti i colleghi che si trovavano
nelle stesse condizioni. Il Jornal do Commercio (23.11.1858) riporta la replica dell’Amministratore
con un riassunto dei fatti che riguardano il caso Banfi:
“[…] che egli entrò in teatro l’anno scorso senza contratto; che per tre volte fu allontanato per aver
fatto sorgere problemi e reclami in termini poco rispettosi. S’impiegò per qualche tempo all’Opera Nazionale che lasciò per rientrare nell’organico del Teatro Lyrico, promettendo di correggersi. Quando
mi si presentò esigendo d’esser pagato, con modi scontrollati, non gli era dovuto niente del suo salario
ma solo una gratificazione che io gli avevo promesso nel caso cantasse più di dieci volte in un mese. In
qualità di gerente e maestro di canto del Teatro Lyrico, non potevo tollerare, né sono tenuto a farlo ora, che qualsivoglia artista mi manchi di rispetto nell’esercizio delle mie funzioni. Questa è la ragione per
cui ho licenziato il corista Giuseppe Banfi e come lui licenzierò qualsiasi altro artista che voglia
imitarlo” [traduzione mia]
Banfi si buttò a capofitto nella polemica:
“In risposta al Sr.Amministratore del Teatro […] dichiaro francamente che quello si è inventato una
sfilza di falsità com’è facile provare: è falso che io fossi già stato altre volte licenziato dalla direzione del teatro, ma al contrario io stesso mi dimisi per fare un viaggio all’interno del paese; è falso che sia
andato a cercarlo per rientrare nel coro, promettendo che avrei corretto il mio comportamento, in
quanto non avevo nulla da rimproverarmi a maggior ragione poiché fu lui che mi cercò al ritorno da
sopraddetto viaggio, aumentandomi lo stipendio perché rientrassi nell’organico del Teatro. È falso che io abbia mai cantato nell’Opera Nazionale. È vero, invece, ciò che il Sr.Amministratore annunzia nella
sua lettera, cioè d’esser disposto a licenziare tutti quelli che volessero imitare il mio comportamento e
in ciò non si ravvede altro che una minaccia rivolta ai colleghi perché non osino reclamare il denaro che è loro dovuto da un mese e mezzo; denaro che appartiene loro per diritto e non in quanto
gratificazione; denaro che ancora non è stato loro pagato”.
Nella risposta del 24.11, il tartassato Amministratore cambia tono e comincia a giustificarsi. In
realtà Banfi
“non mi parlò mai di un viaggio all’interno del paese, ed è ben vero che l’ho licenziato perché creava
problemi in termini irrispettosi. Quando ultimamente tornò a lavorare in teatro, fu per sua spontanea
volontà e di altre persone, quale Anselmo Brondi, capo dei coristi, che può confermare. Il sr. Banfi
deve prender atto di non essere ancora un corista abile al punto che io fossi tenuto ad aumentargli la paga. È anzi un principiante, tanto che prendeva lezioni di solfeggio nella classe del Conservatorio
quando entrò in teatro per la prima volta per un compenso bassissimo; e se ora ha il coraggio di
affermare che non cantava come corista nell’Opera Nazionale, andate a chiedere a tutti i suoi compagni coristi per verificare che mente. Infine io non minacciai nessuno per evitare che esigessero il
pagamento, giacché pago puntualmente e solo domani (25.11) è la scadenza del corrente mese”
L’ultima replica di Banfi, del 28.11, è tassativa. Specifica
“che non avevo nessun obbligo di illustrare i motivi del mio viaggio al Sr. Amministratore, essendo un
affare privato; il mio silenzio non lo assolve dal mancato pagamento. Che non ho insistito con nessuno
per rientrare in Teatro ma che fu per bontà dei colleghi o perché sanno riconoscere le mie capacità, quando qualcuno mi elogia ed io ne sono gratissimo! Che non fu il ritardo nel pagamento, nonostante
già siano passati venticinque giorni dalla scadenza del mese dovuto, il fatto che mi spinse a dimettermi
dal teatro, bensì le recite in soprannumero che non vengono pagate né a me né ad alcun compagno. Infine, che non ho mai fatto parte dell’Opera Nazionale”
Le accuse di Banfi amplificano la lamentela di Ballestra Galli, facendo di un caso individuale
una vertenza collettiva. Emerge la vessazione cui la compagnia era sottoposta: l’obbligo di repliche
gratuite al Teatro Santa Teresa di Niterói, non previste a contratto, che avrebbero dovuto essere
saldate a parte con una “gratificazione” che l’Amministratore tirava a non corrispondere. È evidente
che al Teatro fece più paura l’arrabbiato corista Banfi che l’offeso divo Balestra-Galli. Tutto ciò fa
supporre che l’Amministratore gli elargì una consistente buona-uscita la quale, aggiunta al gruzzolo
ricavato dalla vendita delle gioie in Paranà, permise a Banfi l’acquisto del biglietto per New York. Il
viaggio gli costò 120$, una cifra considerevole.40
S’imbarcò il 23.12.1858 su un piccolo clipper
americano (677 tonnellate spinte dalla macchina a vapore) che dichiarava alla dogana di trasportare,
oltre al “sardo” Giuseppe Banfi ed al “nordamericano” Theodor Whising, anche 6.080 sacche di
“caffè brasiliano”. Il clipper Courier salpò all’alba del 24 dicembre e giunse negli Stati Uniti ai
primi di febbraio. Qualche rudimento d’inglese Banfi l’aveva appreso a Rio. Aveva con sé un
indirizzo ove riparare allo sbarco (scritto e riscritto sul suo quaderno: U.S.A. Mr. Moretti, n.116
3°Av., New York). Forse lo accompagnava anche una crescente malinconia, un senso di lutto per la
distanza dalla patria e dagli affetti che sembrava aumentare sempre. Una nota in un canto del
40 Fino al 1862, il dollaro fu moneta bimetallica (oro e argento) di valore equivalente al peso. Ricevuta in inglese del
biglietto, datata “Rio de J decb 23/58” e firmata “J. Bensée”.
quaderno registra l’ansia del viaggiatore che non prevede ritorno: Lì 14 aprile 1859 sognai di avere
accompagnato un morto alla sepoltura e li ultimi passi averlo io medesimo cantato. Il mio dubio è
che sia morta Isabella. Fuse mintira.
Si arrangiò in America facendo commerci per tre anni, prima di rimpatriare, nel 1861, con il
necessario per sposarsi (il 3.2.1862, a Busalla, con la giovanissima Caterina Rugo) e metter su casa
a Bolzaneto. Aprì un’attività di pizzicagnolo; nacquero due figli maschi: Achille (1863) ed Enrico
(1866). L’acquisita stabilità famigliare però non compensava l’ambizione del viaggiatore, ormai
contagiato dal virus dell’avventura americana. Come indica Gibelli per molti altri emigranti,
soprattutto liguri,41
Banfi trovò negli Stati Uniti quella “risorsa integrativa” che il Brasile gli aveva
negato: un luogo ove tentare la sorte, incontrare occasioni, investire il proprio talento e forse
approdare ad una “seconda vita” di successi. Periodicamente, per poi rientrare nella propria vita
“normale”. Già perché, nel suo eccezionale caso, il pendolarismo transatlantico significava la
possibilità di condurre anche una vita completamente diversa: una vita d’artista.
Pendolarismo transatlantico. Sono anni in cui il movimento migratorio esplode in un traffico
di manodopera semi-specializzata, lucrosissimo per gli armatori. La concorrenza impazzava sulle
linee in partenza da Genova, ove finalmente operavano (dal 1864) i veloci clipper a elica costruiti
dal capitano Giobatta Lavarello nei cantieri navali di Sestri Ponente. In due settimane, con le
correnti a favore, s’avvistava il Pan di Zucchero; qualche giorno in più per vedere le prime torri di
Manhattan. L’Eldorado non era più così lontano. Nel 1869 Banfi tornò a New York da solo per
correr dietro al suo sogno: fare il cantante. La prima ricevuta, del dicembre dello stesso anno,
registra modici 25$ per un mese di funzioni alla St.James Church. Nel frattempo, mise su un giro di
clienti cui smerciare prodotti alimentari e articoli di lusso provenienti dall’Europa.42
Cominciò a
rimettere alla famiglia cifre più consistenti, insieme ai ritagli di giornale su cui era stampato il suo
nome nei cartelloni dei teatri di Boston, Cincinnati, St.Luis, Chicago. Era uscito dal coro: gli
venivano affidati secondi ruoli di basso, con diritto al nome completo in locandina, paga e spese
rimborsate.
Tanto fece che al ritorno in patria, nel 1875, acquistò ad Acqui Terme una pensione (l’Albergo
Fiorito) e vi si trasferì con la famiglia. Non doveva più allontanarsene. Nascite, lutti ed altre
partenze marcano la sua maturità. I due figli maggiori morirono prematuramente, nel 1896; mentre
il figlio diciottenne Cesare nello stesso anno emigrò in Germania. Giuseppe Banfi morì ad Acqui il
41 Tra due sponde. L'emigrazione ligure tra evento e racconto, Sagep, Genova 1989 42 Ricevuta di spedizione del 26.11.1869 di un pacco di seta da Le Havre a New York, per Banfi.
9 gennaio 1904. Il necrologio lo descrive come un “uomo onesto, stimato ed apprezzato da quanti lo
conoscevano per il suo carattere franco e leale” (Gazzetta d’Acqui, 10.1.1904). Lasciò la casa alla
moglie ed i beni suddivisi tra i due figli sopravvissuti (Adele e Cesare), i nipoti e un ospizio per
poveri. Il suo spirito d’avventura e l’intraprendenza li ereditarono quasi tutti i discendenti: chi
emigrò in Argentina, chi a New York, chi anche solo a Genova. A molte generazioni di Banfi il
“fuori” sembrò più promettente, per quanto selvaggio e oscuro, della tranquilla familiarità del “qui”.
“Poter levarsi dal morire d’invidia in questa città” è un destino fortunato agli occhi del
secondogenito Enrico che, da Acqui, scrive il 17.5.1896 al fratello Cesare partito da pochi mesi:
“Qui molti mi domandano di te e fanno la faccia lunga quando sentono che sei sempre in Germania, ti
assicuro che questi diventano sempre più annoiati, a tutti dico che siamo fortunati di poter levarsi dal
morire d’invidia in questa città. Sai, fuori ci saranno peripezie, lavoro, attività, tutto quello che vuoi, ma c’è il buio, si conosce almeno d’essere al mondo, qui invece conoscono di essere in mezzo a
quattro colline e che non cambia mai”
Selvaggio Eldorado
Abbiamo appreso dai documenti che Banfi decise di partire per l’interno del Brasile dopo
esser stato derubato di tutti i suoi risparmi. Con l’amico italiano Buzzone conosciuto nella fabbrica
del vetro e una cassetta piena di gioielli d’oro s’avventurò per mare fino ad Antonina e poi a cavallo
per 200 leghe passando per Curitiba nell’attuale stato del Paranà, attraversando le lussureggianti
foreste della Ribeira ed i pantani della serra di Paranapiacaba. Da lì, rientrarono a Rio de Janeiro
attraverso lo Stato di São Paulo, tre mesi e mezzo più tardi. Le fatiche soferte in detto viaggio sono
molto estese, rammenta nell’epigrafica “Memoria” scritta dopo il ritorno. Aveva conosciuto un
selvaggio Eldorado. Quanto l’aveva affaticato e talvolta terrorizzato l’avventura tra cespugli
giganteschi, piogge torrenziali, nebbiosi sottoboschi e vallate fangose, tanto ora lo seduceva il
resoconto del suo viaggio tra la più insolita, varia e difforme umanità. Brasileri veementi, apatici
indigeni, donne procaci, frati perduti nella selva e i soliti italiani all’arrembaggio: la memoria gli
restituiva un susseguirsi di colpi di scena, rivelazioni e apparizioni quasi magiche in quegli infernali
panorami. Insomma, nell’isolamento del viaggio al cuore del paese, molto più che nella sua
cosmopolita capitale, l’incontro tra culture produceva un bagaglio di sorprese, equivoci, reciproche
diffidenze, grate scoperte ed invenzioni comunicative che sarebbero andate sprecate se il viaggiatore
non se ne fosse fatto testimone. Così, come s’era improvvisato cantante e gioielliere, Banfi
s’improvvisò cronista ed inaugurò, retrodatandolo al 3 dicembre 1857 (giorno in cui decise
d’intraprendere il viaggio e di fatto partì) un diario che si estende per tre quaderni numerati, sul
primo dei quali vergò in bella grafia il titolo: “Storia ed avventura di Giuseppe Banfi”.
Tra “storia” ed “avventura” i registri narrativi s’incrociano, ostentando fin dal titolo la scelta
di una dimensione pubblica che si conferma, più avanti, negli inviti al dialogo rivolti all’eventuale
lettore e nella definizione di un’incipiente organizzazione interna per capitoli. Strutturando ricordi e
riflessioni di viaggio in una “versione pubblica”, la memoria riaggiusta i frammenti di vissuto in
racconto autobiografico: ne emerge una regia, una visione del mondo, un progetto d’identità morale
senza il quale il senso dell’esperienza rischia di andar perduto. L’uso del passato remoto e la totale
assenza di disturbi grafici (quali macchie o pieghe nel manoscritto) conferma che il luogo della
scrittura è successivo al rientro, forse addirittura già in Italia quando, da un punto di vista stabile e
distante dal luogo narrato, è plausibile che il viaggiatore si metta a redigere in bella copia appunti
raccolti durante il viaggio. La distanza nel tempo e nello spazio tra questo punto di vista stabile del
narratore e lo spazio nomade delle vicende narrate produce una rappresentazione della memoria
molto riflessiva e quasi ritualistica. Le emozioni emergenti ed i margini frastagliati dell’esperienza
sono come raffreddati e smussati, nel tentativo di tradurli in tappe culturali e luoghi di stile
riconoscibili. Nel corso del racconto, il narratore Banfi sembra condurre il viaggiatore Banfi da un
Mondo totalmente sconosciuto ed incomprensibile ad un Mondo che si fa via via più familiare,
consentendo di applicare termini comparativi (anche se ibridi e talvolta paradossali) e di creare
miraggi di prossimità con il luogo in cui avviene la scrittura. È sintomatico che i pochi disegni
conservati (peraltro non databili) illustrino il viaggio attraverso tratti nient’affatto esotici: un cavallo
che trascina un carretto, una montagen (ovvero disegno inventato) con torri e castelli assai consoni
al panorama del basso Piemonte, un fiore, un viso di donna, un viso d’uomo con cappello da
gaucho, un caprone e finalmente un panorama tropicale di cui l’autore non rammenta il nome
(“Baragua o Maragoa”); oltre ad altri soggetti certamente ascrivibili al periodo trascorso negli Stati
Uniti. Il tutto riassunto dal titolo vergato su una pagina di carta velina: “Reminescenze americane”.
All’inizio del racconto, il primo impatto con la dimensione “altra” delle foreste del Paranà
(un luogo identificato sulle mappe dell’epoca da rilievi approssimativi e poco rassicuranti grovigli
di fiumi) produce una strana sorpresa che per giorni dà i brividi a Banfi. Tuttavia, riflette il
narratore eroico in procinto di tuffarsi in quella nuova cariera, era d’uopo di superar tutto e di
armarsi di quel coraggio che tante volte ognuno non sa d’averlo. Già la prima notte all’addiaccio
sottopone i due viandanti ad un crescendo di eventi ambigui ed inquietanti rumori fino al climax di
un colpo di pistola che poi si scopre sparato per errore dalla guida; già la prima alba s’impone con
una densità letteraria quasi da manuale di stile romantico: una Vista che maraviliava l'occhio e nel
fratempo includeva Spavento. Il canone avventuroso del viaggio di scoperta s’impone da subito
sull’obiettività della cronaca: all’occhio dello straniero, immaginario e reale si sovrappongono
nell’eccitante ignoranza dell’entità del pericolo e qualsiasi evento richiede al protagonista decisioni
eroiche; ogni situazione è impregnata di destino. Come suggerisce Walter Benjamin, il codice
estetico s’impossessa della geografia ed i luoghi del viaggio si convertono in spettacolo, sempre
orrido o sublime o pittoresco o meraviglioso, per il viaggiatore-narratore: il percorso geografico
ospita un inventario di emozioni.43
Il gusto del narrare gli eventi come vicissitudini enfatizza col
tocco del fantastico situazioni descritte come ineluttabili e poi risolte dai più imprevedibili colpi di
scena, dall’intervento di personaggi alleati e dalla pronta audacia del protagonista che smaschera a
tempo i possibili antagonisti. Vediamo.
L’ospitalità pelosa di un patetico vecchio, tormentato dalla prepotenza e dalle scappatelle
della già matura moglie, non finisce in una tragedia di gelosia grazie alla provvidenziale soffiata di
un timido schiavo. La partenza è turbata dalle bizze del cavallo, barattato per un pugno di gioie
dall’indomabile matrona. La bestia si rivela altrettanto infedele; ma ecco che il nuovo padrone
subito lo doma facendogli sentire due grossi speroni nella pancia cosiche l’inteligente Cavallo
comprese che il suo unico mezzo era l’ubidienza. L’incontro con un iracondo italiano, un po’ sordo e
sedicente dottore svergognato dai pessimi risultati delle sue cure e dal sarcasmo della giovane
moglie, mostra l’assurda pretesa di superiorità della cosiddetta civiltà nella selva, dove i suoi valori
sono screditati proprio da coloro che dovrebbero esaltarli. Il racconta prende un piglio comico:
[…] rispondeva [il dottore], di questa matteria non sono molto cognitus in verus, io nel sentire
questo latino mi cominciava a venire da ridere, ma l’intrepido Dottore rivolgendosi a me diceva: e voi?
io, li rispondeva, canto ll Basso Baritono. ha? ha? facceva con riso piutosto stupido, voi un Maritimo [?] é imposibile [!] di questo poi m’intendo, che voi non potete mai essere stato maritimo. chiedo scusa,
ma io non dissi Maritimo; come? rippeteva l’indomabile Dottore rizzandosi in piedi, in Casa mia
smentire quello che avete detto [?] e con chi credete di parlare [?], io stava per rispondergli: con un imbecille, ma mi arestai nel vedere accomparire una bella fanciulla dicendo: non gritate cosi, Rondello,
sembrate un pazzo. a tale vista, lo sposo di fresco cercò di comporsi la bocca e si vedde ch’egli credeva
di fare un sorisetto e si atteggiava le gambe in modo singolare, il bello è che non si accorgeva che nella rabbia
li era sortito due bave dalla bocca e quindi li sciendevano penzoloni uniti al soriso, e tutto in strana caricatura si mise a camminare in contro a piccoli passi e dicendogli: Angelo mio, ha? quando ti vedo mi
sento tutto il sangue a correre per le vene. io nel vedere questo nuovo Apollo mi diedi a ridere e il mio
Compagno in tanto non faccieva altro che mettere prese di tabacco nel naso, di quando in quando rideva pure; la ragazza volgeva lo sguardo verso noi, nel mentre essa rideva pure, quando fu vicino prese la
fanciulla per la mano e rivolgendosi a noi sempre con le bave alla bocca, disse: vedete la mia sposa solo
può calmare il mio furrore, lei tiene il mio talismano. la Ragazza rideva sempre ed io mi teneva la pancia fra
le mani, il mio Compagno mi stava faccenda segni di far silenzio ma tutto era vano, io rideva sempre più
43 Angelus novus, Einaudi, Torino 1962
forte, cessai soltanto quando vidi la Ragazza che per sbarazzarsi delle mani del Marito gli diede una spinta
talmente forte che poco li mancò al povero Marito di andare a battere sotto alla Tavola; hi? come é forte,
diceva il vecchio ribambito, in tanto che noi si ajutava ad alzarlo da terra, egli brontolava, […] ha, miei
cari, io so bene quello che ci vuole al Mondo...
In questo Mondo equivoco ed eccessivo, per comportamenti parole gesti e colori, non è tanto
l’ignoranza quanto la civiltà che si fa comica. Assurde esibizioni d’etichetta (l’ombrello in piena
selva; le posate d’argento a pranzo in un paese dove neanche la chiesa sopravvive alle erbacce; il
“latinorum” del dottore fanfarone) e preconcetta superiorità per titoli di merito (il dottore) o di
provenienza (italiano) son patacche che subito mostrano il loro fondo falso. È con sottile ironia che
Banfi descrive la supponenza del giovane che diceva essere il Console Italiano e non sapeva dirci
di qual parte d'Italia ne fusse il rapresentante. Ugualmente affronta con civile understatement la
volgarità del maestro di musica napoletano che millanta una improbabile ricchezza e disprezza
l’evidente generosità del suo ospite indigeno:
Non ci voglio più stare a istruire questi selvaggi, un signore della mia cualità. ma non sai, continuò a dire
che a Napoli, a casa mia, il governo mi confischiò per due miglioni di beni ma con tutto ciò mama mia
tiene due altri miglioni sul Banco d'Inghilterra cosichè come vedi questa gente non posono comprendere l’altezza della mia famiglia. allora li feci conoscere in atto amichevole che gli abbitanti di quel paese erano
in più altezza di Napoli. ha? mio caro tu prendi la cosa in ridere ma io ti posso dire che passa una grande
deferenza da noi signori a questi mamaluchi. risposi: in quanto a me ti posso dire di non avere nemeno numero della porta di casa al Mondo e tutto quanto poseggo sta in questa piccola Cassetta di
Biggiotteria in societtà con il mio amico.
L’adozione dell’io narrante e, quindi, la presa di distanza letteraria fa emergere, nel viaggio di
scoperta dell’altro, un percorso di conoscenza di sé stesso; e nell’incontro con la cultura altra, la
riscoperta della propria. L’ampliamento dello sguardo alla confluenza delle culture illumina aporie
ed audaci inversioni di valori in una visione ancor più europea, in quanto capace di giudicarsi come
europea. È proprio allontanandosi dalla civiltà ed avanzando nel selvaggio matto (ovvero nella
foresta intrecciata di migliaja o si potrebbe anche dire Milioni d’alberi di gran dimensione fino a la
Gran Montagna) che lo sguardo di Banfi si fa più cosmopolita. Il suo sentirsi “cittadino del mondo”
si traduce nella sensazione d’essere ovunque straniero: l’osservatore si osserva in quella situazione
ed acquisisce una distanza criticA che gli permette di smontare schemi comportamentali e giudizi
inibitori dettati dall’appartenenza ad una civiltà. Sa di non appartenere definitivamente al luogo che
visita – giacché il suo nomadismo esclude una sosta definitiva – ma al tempo stesso di non
appartenere più completamente a luogo alcuno. A rischio di smarrire la strada del ritorno, trasforma
le sue ansie in un fuoco di resistenza e cerca complici, anche se istintivamente sente di non esser
d’accordo con niente e con nessuno. È un viaggiatore “spaesato” cioè, secondo la definizione di
Todorov, uno straniero che sente di non appartenere più a territorio alcuno44
e per questo vive
l’adattamento in modo particolarmente intenso. “Essere straniero”, intuisce Georg Simmel,45
“è una
forma specifica di interazione”, determinata dalle speciali condizioni – clima, percorso, incontri
dettati dalla fortuna o dall’istinto, cibi, bevande e contagi contratti o evitati, denaro – che rendono
concreto e quotidiano il viaggio.
Il viaggiatore romantico che veleggiava solitario verso lontane colonie pativa le tremende
fatiche ed i pericoli delle traversate ma godeva, nell’incontro con l’altro, dei privilegiati effetti del
colonialismo imperialista. Il suo “essere straniero” poggiava su una visione etnocentrica del mondo
conosciuto e misurato su valori e comportamenti referenziali all’identità culturale dell’osservatore:
ovvero valori da lui considerati normali, familiari ed accettabili, mentre quelli dell’osservato gli
parevano appunto “strani”, primitivi o esotici. Per quanto curioso ed adattabile fosse, il viaggiatore
europeo godeva comunque del vantaggio di appartenere all’unica civiltà che poteva permettersi di
viaggiare;46
mentre l’altro era quasi sempre recluso nei confini storici e geografici di una civiltà
locale e limitato ai contatti stabiliti dai viaggiatori stranieri. Non è rara, nei diari di viaggiatori
illustri e borghesi fino a tutto l’Ottocento47
la rappresentazione di sé e della propria cultura come
modello sovrano di identità e civiltà che tende ad oggettivare l’altro e la cultura dell’altro: a vederla
e descriverla dal proprio punto di vista privilegiato e implicitamente “superiore”.
Analizzando qualche altro resoconto di viaggio in Sud America, anche più tardo del nostro,
come L’Europa alla conquista dell’America Latina di NOME Macola (Venezia 1897), si ha
l’impressione che il disgusto ispirato dal destino degli emigranti in Brasile sia misurato “su una
scala di valori in cui gli italiani sono definiti discendenti dai dominatori del mondo”.48
Dall’ansia
per la condizione miserabile degli emigranti si passa alla sorpresa per i risultati ottenuti con il
lavoro, di modo che l’interferenza della “civiltà” viene esaltata in modo iperbolico (“L’Argentina
44 L’homme dépaysé, Ed. du Seuil , Paris 1996 45 “Excursus sullo straniero” in Sociologia, Comunità, Torino 1998, p. 580. 46 “La nozione che definisce certe categorie di persone cosmopolite (nomadi) mentre tutte le altre sono locali (nativi)
sembra essere prodotto ideologico di una potente cultura viaggiatrice”. James Clifford, Roots. Travel and translation in
the late twentieth century, Harvard University Press, London 1997 (trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 1999) 47
I tre relati di viaggio più vicini a Banfi per data sono femminili e di classe elevata (viaggiatrici al seguito del marito): Baronesa E. Langsdorff, Journal relatant son voyage au Brésil à l’occasion du mariage de S.A.R. le prince e Joinville
(1842), Les amis de Musée de la Marine, Paris 1954; Virginie Leontine, Lettres inedite sur Rio de Janeiro et diverses
esquisses litteraires, Imprimerie de Monnier, Evreux 1872 (il viaggio risale al 1856-57) ed Elizabeth C.Agassiz, Viagem
ao Brasil (1865-66), Companhia Editora Nacional, Rio de Janeiro 1938. 48 Vanni Blengino, La Babele nella pampa. L’emigrante italiano nell’immaginario argentino, Diabasis, Reggio Emilia
2005. Analizza anche tre diari di viaggio al Paranà: Alberto Manzi, Quello che ho veduto al Paranà, Bellini, Milano
1899; Giuseppe Bove, Note di viaggio nelle missioni ed Alto Paranà, Istituto Sordo-Muti, Genova 1885 e Adriano
Lucchesi, Nel Sud America. Alto Paranà e Chaco, Bemporad, Firenze 1936.
senza l’emigrazione, specialmente italiana, sarebbe ancora incolta pampa alla balia degli indii”)49
e
produce euforiche profezie di terre promesse (“Che diventerebbe questo paese in mano di centomila
italiani, pensavo dall’alto del mio osservatorio. Chi lo riconoscerebbe da qui a cinquant’anni! I
villaggi si toccherebbero, nei fianchi delle colline ora sepolte da una impenetrabile boscaglia
crescerebbero i filari di vigneti […], le aspre vallate sarebbero rallegrate dagli ulivi, gli estuari dei
fiumi irrigherebbero le immense risaie”).50
L’Ottocento è anche il secolo delle grandi migrazioni, quando il viaggio transatlantico
diventa un gigantesco business di trasporto di manodopera a basso costo che gli agenti delle
compagnie di navigazione pubblicizzano come sogno di consumo. L’avventura romantica è ormai
alla portata di tutti. Eppure è vero, come nota Vanni Blengino, che ciò che scarseggia in questi diari
è proprio la dimensione dell’avventura. Eppure a scriverli sono esploratori, naturalisti, sacerdoti,
ingegneri che affrontano “esperienze insolite e paesaggi suggestivi con cornice di indios, deserti e
foreste […] I coloni che questi viaggiatori ritrovano nella pampa, per il solo fatto di essersi stabiliti
in quei luoghi deserti circondati da una natura esuberante, sono già di per sé protagonisti di una
storia che, vista dall’Europa, offre aspetti avventurosi”.51
Non manca lo strumento (sono
alfabetizzati e spesso colti) né i modelli di stile, invocati ma poi non raccolti: “Robinson, Cook,
Saint Pierre e altri capolavori della letteratura amena che sostituiscono i classici e decidono
dell’avvenire”.52
Forse, suggerisce Blengino (ibidem), è proprio l’esigenza analitica di quelle
intelligenze istruite al positivismo che impedisce maggiori risultati sul piano narrativo: “si privilegia
il fatto, l’avvenimento come dato sociologico, la ricerca dell’obiettività con un metodo che s’ispira a
quello scientifico” piuttosto che a quello letterario.
Inoltre, l’ingannevole propaganda dell’Eldorado non realizza le sue promesse d’integrazione
e successo se non per pochissimi; i ceti più bassi, di per sé meno predisposti all’acquisizione di una
nuova lingua e di nuovi costumi, spesso non possiedono neanche gli strumenti indispensabili
all’inserimento, quali la geografia del paese in cui sbarca ed il funzionamento della burocrazia
locale. “A differenza di altri popoli – del tedesco grande migratore – per ogni italiano un paese
[straniero] è sempre un’incognita: egli deve rifare colà il noviziato. E la ragione di ciò è da ricercare
nella trascuratezza del Governo verso i sudditi lontani e nella indolenza propria degli italiani e nel
balordo funzionamento dei Consolati e nella mancanza di diffusione di notizie riferentesi ai
49 G. Boschi, Dall’uno all’altro mondo, Fratelli Bianco, Pinerolo 1872, p. 5, apud Blengino, op. cit. 50 Bove, op. cit., p. 37 51 Blengino, La Babele nella pampa, cit., p. 108 52 Lucchesi, op. cit., p. I, apud Blengino, p. 108
commerci ed alle emigrazioni”.53
Le condizioni di vita molto spesso insostenibili degli emigranti
sono descritte con indignato stupore da viaggiatori istruiti che, denunciando lo scandalo
dell’analfabetismo e della miseria che riguarda gli italiani all’estero, tendono a rimuovere la realtà
altrettanto desolata del proprio paese.54
Per altro verso, chi è emigrato nelle peggiori condizioni e
sopravvive alla deriva catastrofica del sogno americano difficilmente dispone degli strumenti
(l’istruzione o i modelli letterari) necessari ad ottenere visibilità e testimoniare la propria storia. Di
questo sguardo “minore” restano, in molti casi, solo indizi precari e testimonianze involontarie.
Lo sguardo di Banfi – un emigrante senza mezzi economici ma minimamente istruito, che
decide di amplificare i suoi appunti di viaggio in una versione pubblica – può aprire una prospettiva
antropologica interessante: uno sguardo “minore” che si fa testimonianza volontaria. La sua “storia
ed avventura” è il racconto autobiografico del viaggio tra due mondi di un emigrante – viaggiatore
che si fa volontariamente cronista. Raccontata come un romanzo, la spedizione al Paranà diventa un
viaggio d’iniziazione. Ne emerge un messaggio a sfondo morale diretto al lettore europeo. Lo
sguardo “minore” di Banfi illumina le fratture tra il business post-coloniale del sogno americano –
allettante come una nuova Conquista – ed il dramma dell’emigrazione ma, a sorpresa, inverte i
termini della retorica etnocentrica e spiazza il moralismo dell’elite istruita. Nel suo racconto, che
sembra una favola per gli europei se non per quelli che hanno viaggiato nell’interno dell’Africa e
delle Americhe, i quali per certo non troverebbero alcun punto di esagerazione, prende corpo un
libello di tolleranza in cui l’autore mostra l’incontro tra i barbari europei (avventurieri quasi sempre
brutali) e gli ospitali, leali e civili (benché spesso ingenui) indigeni. L’immaginario esotico del
viaggiatore romantico si colora così con i toni violenti dell’occupazione a scopo di lucro di una
landa primitiva ma nient’affatto vergine; ove, al contrario, prosperano vizi e miserie piantate
dall’arroganza dei più sbrindellati e famelici conquistatori spintisi all’estremo margine del Mondo
conosciuto.
Affondando in questa selva selvaggia dove l’umanità sembra smarrita, Banfi percorre una
specifica forma d’interazione, in quanto “straniero” dotato di uno sguardo “minore”. Stabilizza il
suo vagare in tappe di un romanzo di formazione, determinate da incontri significativi e sintomatici
riti di ospitalità; definisce il suo ruolo tra alleati ed antagonisti; rimodella la propria identità morale
53 Manzi, op.cit .p. 6 54 Per esempio, nota ancora Blengino, l’unanime condanna, da parte dei viaggiatori istruiti, del regionalismo e della
persistenza dei dialetti a discapito dell’italiano ribadisce la preoccupazione per il decoro dell’Italia, un valore che
accomuna tutti, soprattutto dopo l’Unità: “però si tratta pur sempre di un valore elitario. Il regionalismo ed il dialetto
non sono deviazioni, fanno parte della cultura popolare” (p. 102)
e stilistica. Affranca le sue opinioni dal consenso della sua classe, istruzione ed origine quando, al di
là dell’esotico, riconosce valori positivi nel margine estremo e quasi nel rovescio della civiltà, dove
l’essere umano sembra esser tanto più “gentile” quanto più differente e “barbaro”. Trova
irriguardoso il comportamento dell’amico Buzzone che respinge il rancio a base di fagioli a
colazione e pappagalli a cena, giacché il rifiuto offende i generosi mulattieri che lo preparano,
invece, con enorme riguardo. Ha un’impressione strana quando assiste alla Messa insieme agli
indigeni seduti per terra in uno stanzone buio che gli pare un covo di scimmiotti accovacciati, ma
inverte subito i termini della metafora quando afferma che a suo parere veri scimmiotti sono i
cittadini della Capitale:
che, non sapete come me che questi Cittadini Brasileri quando un Europeo si presenta senza titolo di nobiltà viene in pochi giorni considerato come un Nero schiavo overosia credono che nei nostri paesi
siano come tanti Orsi affamati e vestiamo male e speccialmente noi Italiani ci dicono accatoni e più
come ben sapete ci chiamano col nome di calcamano. il mio compagno volle sostenere che ciò veniva dalla bassa plebbe di Citta come pure quelli della campagna. ho no, li dissi: voi ne siete in errore. la
prova è che questa gente del Campo ci parlano materialmente, se volete, ma con franchezza e i suoi visi
esprimono sincerità e un non so che di allegrezza nel udire la nostra Conversazione. il Cittadino poi
della Capitale ci guarda con indiferenza osia disprezzo con quel soghigno beffardo da veri scimiotti come lo sono e questo è il mio parere.
Come il binomio città / campagna, allo stesso modo i termini geografici Europa / America
sono metonimici di due mondi e modi di vivere la cui gerarchia valoriale può essere capovolta. Le
grandi distanze fanno emergere prospettive alternative, ravvisabili solo da chi esce dal proprio
guscio di abitudini e preconcetti – che non è sempre il caso del viaggiatore – e sofferma la sua
attenzione su particolari a prima vista banali, che si caricano di significato solo quando enfatizzati
dalla luce del vissuto individuale. Il maestro napoletano che si dice laureato (e che Banfi conosce fin
da Rio de Janeiro) dimostra d’esser assai più ignorante del suo ospite, leale e cortese, benché
indigeno e analfabeta. A salvare i due viandanti dall’atroce insensibilità del Dottore Francese – che
non li ospita pur avendone lo spazio ed il conforto, in una notte buia e tempestosa in cui la foresta
sembra ululare in balia delle fiere – è un umile boscaiolo:
bisogna che vi accomodate uno in questa Panca e l'altro in Terra perche nella Camera ove vi sono due letti
è ocupata da altri ospiti che sono venuti qui avanti notte, che quel maledetto Dottore Francese non gli a voluto dare Ospitalità, non importa […] alla mattina, doppo aver mangiato, durai gran fattica per fare
prendere qualche moneta al padrone de serviggi prestati, ma tutto fu invano. egli rispondeva continuamente
che è di dovere il soccorrere in caso dì bisogno quindi nula poteva accettare, io non potevo a meno di pensare quanta diferenza che passa dal Civilizzato Europeo, al si suol dire Selvaggio Americano, ossia
Brasilero.
Questo sguardo “minore” di viaggiatore non privilegiato mette in crisi lo sguardo auto-
affermativo del viaggiatore romantico. Banfi coglie il caratteristico dei luoghi senza affidarsi a
oggettivazioni semplicistiche, quale potrebbe essere una percezione primitivista di aspetti evidenti
della cultura che visita. Ridurre gli indigeni a scimmie spensierate (negando la profonda civiltà di
quell’essere ospitali, benché oppressi) convaliderebbe un principio di modello unico molto
confortevole per il viaggiatore: ovvero, tradurrebbe la distanza spaziale in una distanza temporale.
La civiltà inferiore ed oppressa non sarebbe altro che una tappa nel nostro passato: una tappa più
infantile, arretrata, sottosviluppata e quindi bisognosa di un’evoluzione “guidata” che le permetta di
raggiungere i migliori risultati del modello occidentale. Così giustificato, l’oppressore farebbe il
bene dell’oppresso imponendogli i propri paradigmi culturali.
Al contrario Banfi, straniero “spaesato” e narratore autobiografico, esalta l’adattamento alla
cultura altra come prima necessità del viaggio e arte di sopravvivenza (non solo materiale) del
viaggiatore nell’era moderna. Che volete, ammette nella prima facciata del diario, ora incomincia il
doversi adattare a tutto. Non a caso, il valore che più lo radica al territorio è l’onesta disponibilità al
lavoro, come già a Rio de Janeiro quando, sbarcato apprendista muratore, s’era improvvisato
corista. Onesto in quanto limitato dalla consapevolezza delle proprie reali competenze, Banfi è
nondimeno sempre adattabile e disposto al compromesso: come nel caso esilarante dell’organo
rotto, che prima rifiuta di riparare perché non è il nostro mestiere e poi promette il contrario, per
evitar le conseguenze della cocente delusione del proprietario:
come? rispose foribondo il proprietario, ricusate[?] io so per avere inteso a dire che voialtri Europei sapete far tutto, io li tornai a dire: é imposibile, sappiate che ognuno di noi sa che un sol mestiere, e
per ciò questo non è nostro affare. Ed io vi dico di rangiarlo in qualche modo; allora vedendo
quest'uomo che li cominciava a sortirci gli'occhi dalla testa, comincia a dirgli: veramente lo potrei accomodare un poco ma ci manca i ferri, fra due mesi noi saremo di ritorno ed allora porteremo con
noi tutto l’occorente per accomodarlo come meglio potremo, in questo modo ne fu in parte
sodisfatto.
Quando, giunto a metà del percorso senza risorse per avanzare né per ritirarsi, è costretto a
privarsi del suo fedele orologio – un po’ guasto – si fa scrupolo di spiegarne per bene il
funzionamento e l’eventuale riparazione all’acquirente, che non ne ha mai visto uno. Non fa
diversamente altrove, dopo aver cenato con ospiti che portano devozione ad una statua in gesso di
Napoleone che scambiano per San Pietro perché la portò lì uno che viene dal Paese del S.Padre.
Commenta Banfi: compresi di dovere pure noi fare altrettanto, pasiensa, e ci voleva anche questa;
e s’inginocchia davanti al santo ammiraglio calzato di stivaloni. La curiosità e l’atteggiamento
dialogico (proprio dell’emigrante) lo predispongono positivamente ad equivoci interculturali che
non sono altro che effetti collaterali di un incontro avvenuto, sintomi di una crescita. Così,
tormentoni da repertorio narrativo inizialmente portati ad enfasi della distanza tra il luogo da cui si
proviene e l’altro sconosciuto, come poli opposti (la città e la selva, l’abitato e l’inabitabile, lo
spazio civilizzato e quello incommensurabile), vengono poi anche usati in senso auto-ironico:
vedasi il terrore delle tigri, che – ripete con ossessione scaramantica – si diceva infestassero le
paludi del Paranà. Terrore che fa tremare il nostro eroe dalla testa ai piedi per un pomeriggio, al
crescente rumore di frasche smosse: non saprei dire se quel fremito fusse stato per paura che un Tigre
avesse mangiato il mio Compagno o pure che temese d’essere mangiato io. Alle ore di panico segue la
scoperta d’esser stato oggetto dei dispetti d’amore di un essere feminile che tenendo con ambo le mani il
grembiale al viso, più si avicinava e più crescieva un ridere stupido. La bellissima Negretta con la
ridarella è talmente contenta di incontrare uno straniero che insiste per ospitarlo, cosa che a Banfi fa
passar all’istante la paura:
montai a Cavallo e partii alla gran Carriera che in meno di mezz'ora ebbi ragionto il Compagno […] or bene,
li dissi è mestier di far Correre un poco i Cavalli che qui a pochi passi vi è una Casa onde potremo ricoverarsi dal temporale, ma come voi potete sapere che qui vicino vi sia una Casa, mi diceva il
Compagno, intanto cominciava a saltelare sul Cavallo ch'io perquotteva di dietro e li dicevo: coraggio
Buzzone non abbiate paura ch'io sono qui vicino, ma il povero uomo saltava d'un palmo sulla Sella e si mise a gritare: per l’amor del cielo? mi volete fare amazzare[?] ferma ferma…
Il cavallo del compagno diventa qui, come più avanti il proprio, un mezzo magico capace di
attraversare in un salto la frontiera tra la dimensione dello sconosciuto (bosco senza varco,
temporale, notte che avanza e tigri) ed il familiare (rifugio, focolare ed una ragazza calda,
disponibile ed allegra). La paura della frontiera vista come un luogo di non ritorno si dissolve
nell’istante in cui appaiono queste figure ibride tra realtà e immaginario (la donna velata o, altrove,
una madre che allatta o un canto femminile) che vengono riconosciute e normalizzate dal desiderio
del viaggiatore di trovarsi a proprio agio e come “in casa”. Ciò significa che, per quanto attraversi la
frontiera e penetri nello spaventoso “altro mondo”, il viaggiatore non disarticola completamente il
legame con il proprio mondo d’origine. Come nelle favole, il percorso è disseminato di segnali di
riconoscimento della via e da tappe di radicamento domestico in cui il viaggiatore riflette: io qui mi
ci conosco.
In generale, se è vero che gli emigranti rimpatriati sembrano scrollarsi di dosso la vita vissuta
nell’altro luogo e fanno una vita simile ai compaesani che non si sono mai mossi da casa (come poi
Banfi che tornerà a fare il pizzicagnolo a Busalla); è pur vero che quelli che invece non tornano
sembrano “radicalizzare la nostalgia” e fanno di tutto per ricostruire una parvenza di paese dall’altra
parte del mondo, come mostra magistralmente Emilio Franzina ne L’immaginario degli emigranti.55
55 Miti e raffigurazioni dell’esperienza italiana all’estero tra i due secoli, Pagus, Treviso 1992
Il Frate genovese, ultimo e più emozionante ospite di cui Banfi racconta, si fa portare dall’Italia un
vino rosso che tien più caro dell’olio santo. Ha vissuto avventure inenarrabili che l’hanno portato al
cuore della selva, ove (come Kurz di Cuore di tenebra) regna – da malato qual è – su una piccola
comunità indigena perduta tra pantani inguadabili e tartassata da diluvi perpetui; eppure spera
ancora, se il Ciel vorrà, di vedere la mia bella Genova.
La necessità di riconoscersi, seppur a stento, in un luogo estraneo potrebbe esser collegato al
termine freudiano che definisce la tensione racchiusa nell’arte come unheimlich, cioé perturbante:
“quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”.56
La parola tedesca ha la sua radice nell’antitetico heimlich (da heim, casa) che indica ciò che ci è più
familiare ed abituale, lo spazio-tempo al quale si appartiene, il luogo popolato da persone amate,
dove ci si sente protetti e verso il quale tornare, il vissuto cui si partecipa pienamente. È perturbante
(unheimlich) un luogo oppure un’esperienza percettiva che somiglia oppure avviene nel nostro
ambiente domestico ma cela in sé l’angosciosa minaccia dell’ignoto. La partenza dell’emigrante,
giacché comporta lo sradicamento dall’ambiente d’origine e l’adattamento obbligato alla nuova
realtà, può produrre un trauma perturbante: una ferita insanabile, una dissociazione della memoria
che esplode l’identità biografica in versioni inconciliabili. Scrisse Prezzolini che, più che la somma
di due interi, la psiche dei trapiantati è risultato di due sottrazioni.57
Strappata alla radice, l’identità
galleggia e si ancora con disperazione a qualsiasi dettaglio familiare del nuovo territorio. Spaesato,
chi è partito senza ritorno si aggrappa ad un pezzettino qualsiasi del suo paese per esser se stesso
dall’altra parte del mondo. Neanche il rimpatrio annulla il conto dell’espatrio, perché nel frattempo
la vita trascorre e ridisegna l’identità del viaggiatore. La nostalgia estremizza l’entità della perdita e
produce spostamenti patologici di significati: il “mal di paese” per chi non fa mai più ritorno ed il
disadattamento per chi invece torna e non si sente mai più a casa. Essere stato un tano, un gringo, un
carcamano significa essere per sempre l’americano. Pur nella più estrema e favolosa avventura
oltreoceano, il valore delle radici si rivela nella profonda impossibilità di sradicarsi e si trasmette,
magari in modo involontario, nel racconto ai posteri. Il trauma trasferisce la sua patologia: quella
rottura che l’emigrato rientrato vuole dimenticare, il figlio la vuole nonostante tutto conoscere. Sai,
fuori ci saranno peripezie, lavoro, attività, tutto quello che vuoi, ma c’è il buio, però si conosce
almeno d’essere al mondo: è l’inquieta riflessione che il figlio secondogenito di Banfi indirizza al
56 Siegmunt Freud, “Il perturbante” in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1980
(vol.1) 57 Sulle cause e conseguenze del trauma dell’emigrazione vedi Piero Brunello, Pionieri. Gli italiani al Brasile e il mito
della frontiera, Donzelli, Roma 1994 e Augusta Molinari, Le navi di Lazzaro, ed. Franco Angeli, Milano 1988
fratello minore quando questi emigra in Germania, forse perché é lui (già prossimo alla morte) che
legge in quella partenza un destino vero e diverso. Il padre Giuseppe invece morirà anziano, a casa e
forse sereno: a settantaquattro anni, godendosi gli agi accumulati in tre decenni di tranquillo tran-
tran d’albergatore ad Acqui. Le sue due vite sembrano separate dall’Oceano come due vicende
esistenziali e due identità lucidamente scisse: in America artista ed intrepido avventuriero; in Italia
piccolo-borghese e quieto padre di famiglia. Il suo trauma, se ci fu, si manifestò con altri sintomi:
forse – spesso accade a coloro che subiscono dislocamenti violenti, come l’emigrazione o la
deportazione – proprio nell’ansia di raccontare e lasciare registri della memoria, per se stesso e per
altri (i parenti, i compaesani, i futuri lettori).
È proprio nel racconto che Banfi trova il suo rimedio. Sorgendo in una dimensione
essenzialmente privata, la narrazione autobiografica ricompone i frammenti di vita vissuta in un
nuovo progetto di vita ed è perciò passaggio essenziale allo sviluppo della capacità progettuale. Nel
nostro caso, la disponibilità alla rielaborazione creativa della memoria in opera di finzione (“storia
ed avventura di Giuseppe Banfi”) proietta l’identità ricostruita dell’emigrante in una dimensione
pubblica, quasi una versione “per la fama”. Nel baule che torna al paese ha conservato le prove di
un destino compiuto altrove e che non sarebbe altrimenti condivisibile se non attraverso il racconto.
Per questo, gli oggetti si caricano di significato simbolico ed il baule coincide con l’archivio dei
testimoni che danno valore ad una vita.
Conservare l’intensità morale e l’eccezionale significato della sua irripetibile esperienza – che
la scrittura sintetizza in una serie di epifanie fugaci ed apparizioni simboliche – è ciò che stimola
l’emigrante Banfi a farsi narratore. Cercando di trarre un senso da ogni incontro e da ogni passaggio
traumatico, Banfi fa della quotidiana lotta contro l’annichilimento morale e fisico, in un panorama
sempre primitivo e minaccioso, un percorso di formazione e crescita dell’io dal punto di vista
(posteriore) del narratore. La perdita di sè e l’esercizio di ritrovarsi all’altro mondo, di fronte o forse
già dentro la morte, sono temi classici dei viaggi d’iniziazione: l’anima, temprata a resistere alla
paura attraverso successive prove, compie un’ascesi spirituale. Il canone della Commedia – come
abbiamo visto, un solido riferimento nella memoria enciclopedica di Banfi – ispira a Banfi la
progressiva caratterizzazione del viaggio in Paranà come un viaggio al cuore delle tenebre. Il timore di
sparire nella “selva selvaggia” senza lasciar traccia della straordinaria esperienza vissuta fa
emergere, in questo racconto a metà tra diario di un viaggiatore romantico e registro precario della
sopravvivenza di un povero cristo perduto nella foresta brasiliana, una preoccupazione simbolica
che trascende la cronaca: una pulsione poetica. Ciò che mette in tensione la scrittura, pur mascherata
dall’ironico trattamento degli equivoci che il dialogo interculturale produce, è lo sconforto della
solitudine al di là di ogni comunicazione possibile. Lo sguardo dell’uomo smarrito nella selva è
colmo di destino: riconosce la valenza simbolica delle vicende come gestae di un’anima, il pericolo
di una metaforica morte in ogni tremito, crisi o fallimento e l’epifania mistica della Provvidenza in
ogni incontro salvifico – spesso, non a caso, con una figura femminile. Insomma, nel viaggio del
viaggiatore si cela l’altro viaggio: quello dell’anima intrepida al centro del mistero ineffabile.
Io devo pure confessare la mia paura che più volte pensava l’ essere imposibile di sortire da quello orrìbile
luogo. ma però non osava osia temeva il manifestarlo, e in me sentiva forza e Coraggio, non saprei come svolgere questo tema d’avere paura e coraggio nel medesimo tempo, già non c’era molto tempo di fare
riflessioni perche bisognava continuatamente curvarsi e sdraiarsi sul Cavallo per potere passare sotto i
rami e folti Cespugli e di sofrire continue graffiature […] e pure vi era un non so che di Ente Supremo [che] trasformava la cruda posizione in liberi e grandiosi pensieri e sentiva una gioja in me veramente
insolita il che non sapeva a cosa ne doveva atribuire.
Visto in questa luce vagamente dantesca, è carico di derive filosofiche anche il finale del diario,
sospeso dall’interruzione improvvisa della scrittura. Lasciando il compagno sulla riva di un pantano,
Banfi si avventura da solo, affonda per due volte e si salva solo grazie alla premonizione del magico
cavallo che si rifiuta di proseguire e poi, d’istinto, trova il passaggio in terra ferma. Avanzando ancora
nel girone infernale, il pantano si fa più infido e si presenta con apparenza di prato su cui il leale cavallo
ancora una volta rifiuta di poggiar lo zoccolo. Senza intravedere altra uscita, il cavaliere decide di
spingercelo a forza, invocando come estremo alleato il destino; ed ecco che…
sentendo che li mancava il tereno di sotto io guardava la foresta ed il cielo con animo costernato e nel mio
pensiero balenavasi un pensiero che diceva: posibile che io abbia di morire in queste foreste? ma in questo istante sentii una voce che sembrava di donna. oh quale consolazione che provai in quel momento [!] mi è
sembrata una voce del cielo che venisse in nostro socorso e fermo come una statua stava fermo sul mio
cavallo in aspettativa, ed ecco di nuovo la voce che diceva: fermi fermi [!] ed in pochi minuti ho potuto
distinguere una donna che ci diceva: venite qui in questa parte, d’altronde vi somergerete nel fango, quando fummo vicini ad essa, e che ci diceva: questo è il solo luogo di passare, quantunque che il passo
non fusse che di pochi metri, i nostri cavalli sono entrati nel fango che li arivava più alto dello stomaco ma
siamo pasati
Alessandra Vannucci
Genova, gennaio 2007