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Distribuzione gratuita Poste Italiane Spa-Spedizione in a.p. - 70% - DCB Pesaro Prato parla cinese d i Agnes e Fiore tti Storie di vita e di integrazione. Un passo in Toscana che è un viaggio in Oriente 普拉托说中文 il Ducato Periodico dell’Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino Urbino, aprile 2014 dossier

Prato parla cinese

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Lavoro di fine corso di Agnese Fioretti

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Prato parla cinese

di Agnese Fioretti

Storie di vita e di integrazione. Un passo in Toscana che è un viaggio in Oriente

普拉托说中文

il DucatoP e r i o d i c o d e l l ’ I s t i t u t o p e r l a f o r m a z i o n e a l g i o r n a l i s m o d i U r b i n o

Urbino, aprile 2014

dossier

il Ducato

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C’è un filorosso cheunisce i pra-tesi agliimm i g r a t icinesi e che

solo in pochi riescono a ricor-dare. Per scorgerlo è necessa-rio aver vissuto il boom eco-nomico di Prato, quel venten-nio - iniziato negli anni ’60 eterminato con gli ’80 - in cui ilcapoluogo toscano si è impo-sto come uno dei principalidistretti tessili italiani.“Questa città era piena dilavoro e sotto ogni casa c’eraun telaio”. Oliviero Giorgi, unpensionato dal volto pimpan-te, Prato se la ricorda così.“Mentre oggi ci si scandalizzadella presenza dei bambinicinesi negli stanzoni, biso-gnerebbe ricordare che moltibimbi pratesi sono nati neicontenitori del tessuto.Respiravano icché c’era inuno stanzone e i loro box dagioco erano le casse da filato”.Sembra quasi una specie dinemesi storica la vita di que-sta città, un ritornello chepassa attraverso le fabbriche el’irregolarità delle condizionilavorative. Prima erano i filatie oggi il pronto moda, prima ipratesi e oggi i cinesi: Olivieronon ha dimenticato i primi evive quotidianamente a con-tatto con i secondi. Oliviero aveva un negozio difrutta e verdura in via Pistoiese,l’attuale cuore pulsante dellaChinatown pratese, nel quar-tiere di Narnali. Gli odori deisuoi ricordi oggi si mescolano aquelli della comunità cinese eOliviero interpreta tutto que-sto come un’opportunità. Die-ci anni fa ha fondato il gruppoculturale “Narnali Insieme”,dedicato al quartiere ma so-prattutto ai giovanissimi. Equi, tra queste strade, ha sem-pre organizzato feste per bam-bini: “La scuola è il più bel se-gnale, il modo migliore con cuiPrato abbia reagito all’arrivodegli orientali. Il problema,purtroppo, arriva dopo”.Ma anche durante, soprattuttoper quei ragazzi cinesi che ve-dono i loro genitori lavorare innero e fare turni estenuantinelle ditte di pronto moda. Oli-viero lo sa, ma non smette di ri-cordare come a Prato, quandoa lavorare nelle fabbriche era-no solo i pratesi, la situazionenon fosse molto diversa. “Pri-ma di arrivare qui ho frequen-tato l’ambiente sindacale fio-rentino. Ricordo che si parlavadelle famose ‘otto ore’, che era-no un obiettivo importante. APrato, invece, se si lavoravameno di dieci ore era crisi ne-ra”. Mentre Oliviero racconta e ri-vive, Giuseppe Maurizi – vice-presidente di “Narnali Insie-me” – gli dà un ultimo tocco altaglio di capelli, in una piccolastanza disordinata che è la se-de del gruppo. E sovrappone ri-cordi alle parole dell’amico, fa-cendo riferimento a come, inquegli anni, il settore tessileavesse arricchito quasi tutti:

“Quando le mogli degli im-prenditori venivano nel mionegozio non mi chiedevanomai il prezzo dei prodotti. Midicevano ‘il mi marito lavora 12ore al giorno e mi porta a casacerti malloppi, alla mi figliolache le dico a fare di andare ascuola’. In quegli anni Monte-catini e Forte dei Marmi si sonoarricchite grazie ai pratesi”.Giuseppe era anche proprieta-rio del bar Silvana “come il no-me della mi moglie”, ma so-prattutto è stato il barbiere sto-rico del quartiere dopo avercomprato la bottega da Pomo-doro. Perché a Narnali tuttiavevano un soprannome: c’eraad esempio Pastine, il papà(anzi, babbo) del noto ciclistaGiulio Bresci, che possedeva lepompe di benzina in via Pi-stoiese, in quel tratto dellastrada che oggi è vissuto quasiesclusivamente da cinesi.Nel frattempo Narnali conti-nua ad essere lì accanto, con lasede della Misericordia (un’as-sociazione di volontari che ga-rantisce assistenza sociale esanitaria) che era la “ vecchiacasa del fascio, il chiesino dove,dal 1200, si fermavano i vian-danti diretti a Vinci” e il circoloRenzo Grassi: “Qui c’era unasala da ballo che oggi è diven-tata una palestra, dove sonopassati Giorgio Gaber, GianniMorandi e Rita Pavone”. Tanti i ricordi di Oliviero e Giu-seppe, i ricordi di un quartieree di una società in cui era ma-turato un modello di ricchezzaben preciso, dove si spendevasenza sperperare: “I fratelliDante e Tonio Bucciantini ave-vano un’officina in cui costrui-vano i telai. Una volta Tonio an-dò a ballare in un night club diFirenze con altri ragazzi, all’al-ba presero il treno per tornare aPrato ma, arrivati in stazione,l’autobus non passava e piove-va molto. Gli altri gli dissero:prendiamo un taxi, ma lui ri-spose: no, i soldi un si sciupa-no”. Giuseppe riporta questoaneddoto con gli occhi diverti-ti, Oliviero ride ma aggiunge:“Quando a Prato è arrivata lacrisi, verso metà degli anni ’80,la si è sentita doppiamente.Non è stato coinvolto solo ilsettore in sé, ma anche tuttal ’a t t iv i tà de i forn i tor i ”.Poi i ricordi si sfumano e arri-vano a venti anni fa, quando iprimi cinesi si insediarono aPrato. “Se loro andassero via –spiega Oliviero – la crisi attualecrescerebbe molto di più. Dalmercato degli affitti alle tratto-rie, che vendono pasti daasporto soprattutto ai lavora-tori degli stanzoni arrivati dal-la Cina”. Non a caso, i pochi negozi sto-rici sopravvissuti a Narnali so-no proprio quelli con un’im-portante clientela orientale,come la pasticceria Peruzzi e ilfioraio Baldesi. “Perché i cinesiquando inaugurano le loro at-tività ordinano molti fiori”,conclude Giuseppe. I capelli diOliviero ora sono ben pettina-ti. E i ricordi possono tornaread assopirsi.

Narnali, il telaio è sotto casa Il quartiere era sede delle fabbriche di filato. Oggi confina con la Chinatown

Da dieci anni un’associazione culturale della zona organizza feste ed eventi a favore dell’integrazione

I cinesi di Prato, senza luoghi comuniTeresa Moda, via Toscana, Prato. È il 1 dicembre 2013 quando lamorte di sette operai cinesi che lavoravano e vivevano in una dittadi pronto moda riporta l’occhio mediatico sul capoluogo toscano.Sono passati oltre 20 anni dall’insediamento dei primi orientali:oggi alcune strade di Prato hanno cartelli e insegne bilingue e lacomunità cinese della città è la seconda in Italia.I cinesi di Prato appartengono quasi tutti ad uno stesso flussomigratorio: la maggior parte di loro è arrivata negli anni ‘90 dallaregione dello Zhenjiang, soprattutto dalla città di Wenzhou. I primianni hanno lavorato come operai nelle aziende di maglieria: sisono dunque inseriti in un settore che, nell’allora distretto prate-se, era molto marginale. I pratesi avevano costruito la loro famaattorno alla produzione di filati, mentre gli immigrati cinesi stava-no per diventare i protagonisti del mercato di abiti low cost. “Ilsalto di qualità lo hanno fatto alla fine degli anni ‘90 - spiegaSaida Petrelli, addetto stampa dell’Unione industriale pratese -quando si sono sostituiti ai datori di lavoro per diventare lorostessi imprenditori, passando dalla sola maglieria al confeziona-mento dei vestiti”. Hanno preso in affitto da proprietari italiani iprimi capannoni, il business si è progressivamente ingrossato pro-prio come la comunità stessa.Oggi, secondo le stime ufficiali, i cinesi che vivono a Prato sonooltre 13.000 (molti sostengono che siano almeno 20.000). Iragazzi di seconda generazione parlano con accento toscano espesso non hanno mai visto la Cina. Nel frattempo i vizi innatidell’economia orientale a Prato - lavoro in nero, sfruttamento dimanodopera e pessime condizioni igienico-sanitarie - sono statiimpropriamente elevati a tratto distintivo di tutta la comunità. Oggidonne e uomini cinesi chiedono una seconda opportunità. Esoprattutto l’abbattimento dei luoghi comuni.

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IERI&OGGI

Ci sono strade che restanoimpresse nella mente dichi le attraversa per la lo-ro bellezza o, al contrario,per il livello di degrado esporcizia. Ci sono poi

strade che la memoria non getta neldimenticatoio a causa dei loro odori.Via Pistoiese, un serpente che attra-versa la città di Prato per oltre due chi-lometri, è una di queste. Chi la raggiunge, superato l’arco concui finisce via San Vincenzo, ha l’im-pressione di lasciarsi alle spalle moltodi più di una porzione del capoluogotoscano. Ha l’impressione, piuttosto,di lasciarsi alle spalle l’Italia per entra-re in un altro paese, per immergersi inun’altra cultura. Chi arriva in via Pi-stoiese ed ha avuto l’opportunità di vi-vere o visitare la Cina dice spontanea-mente che “in questa strada è cometornare in una città cinese”, molto piùche in altre Chinatown italiane e per-sino europee. Qui i cartelli diventanobilingue e i tratti somatici occidentalisembrano il frutto di una geneticamolto lontana. In farmacia, la scritta“Per maggiore riservatezza la preghia-mo di attendere il suo turno” è in com-pagnia della speculare traduzione inlingua cinese. I supermercati e le pasticcerie nonhanno nulla che un occidentale sap-pia riconoscere o nominare. I dolcihanno nomi difficili e sono confezio-nati quasi tutti in vaschette di plastica.La proprietaria di un piccolo negozioche ne vende di ogni tipo spiega chesono “di produzione propria”, infor-nati e impacchettati nel retrobottega.Uno dei tanti esempi di made in Italyche di nostrano ha solo l’etichetta. Cisono delle tortine al miele e il pan dispagna al dattero; sugli scaffali, posi-zionate le une accanto alle altre, si ac-catastano confezioni di “lao po bing”(focacce dette “della moglie” e ripienedi sesamo nero) e di “lao geng bing” (lafocaccia “del marito” al sesamo bian-co). Alcuni vassoi sono ricoperti di“you shen” (letteralmente, corde all’o-lio): per immaginarli attraverso i sa-pori della cucina italiana, basti pensa-re a dei taralli glassati. Qualche metro oltre la piccola pastic-ceria, una tavola calda ha la televisio-ne sintonizzata su un canale cinese. Iclienti sono quasi tutti orientali, “magli italiani stanno imparando ad ap-prezzare la nostra cucina”. Lo spiegauna donna che lavora in via Pistoieseda quattro anni, che serve ai tavoli del-

la rosticceria assieme ad altre ragazze.Vorrebbe tornare in Cina, anche se or-mai si è abituata alla vita in questa fet-ta di mondo e al “business” del marito.A chi le chiede in cosa consista questoaleatorio “business” preferisce non ri-spondere. Nel frattempo i clienti con-tinuano ad occupare i tavoli e a ordi-nare “lamian” (letteralmente, spa-ghetti tirati a mano). Sono ciotole dipasta lunga cotta in un brodo di carnee verdure, un piatto unico che sazia eriscalda. Perché quello che si respira,si mangia, si beve e si odora in via Pi-stoiese non è cultura cinese correttaall’italiana, ma un vero e proprio an-golo di Cina. I ristoranti non offrono iclassici riso alla cantonese, involtiniprimavera e pollo alle mandorle, mapiuttosto “bao zi” e “bing”. I primi so-no i grandi ravioli di cui si nutrivaKung Fu Panda, ripieni di carne o ver-dure, mentre per “bing” si intendonodelle focacce farcite e saltate sulla pia-stra. I ristoranti di via Pistoiese hannocucine a vista in cui il cuoco, invece diportare il cappello bianco, preferisceaccendersi una sigaretta e fumare ac-canto ai fornelli; hanno grandi bollito-ri rotondi da cui viene estratto il riso ecome bevanda servono acqua calda. A fianco della ristorazione, un brulica-re di attività tutte esclusivamente ci-nesi: agenzie di viaggi, gioiellerie, ne-gozi di abbigliamento e di elettronica,parrucchieri e centri estetici. “Questaè la zona loro, hanno i medici sua, identisti sua, tutto sua”, spiega in unitaliano un po’ dantesco Simona, cheguida la Lam (linea di autobus fre-quenti) arancione e quotidianamentelascia i passeggeri alle fermate dellazona. Salgono e scendono mammecon i passeggini e nonne con i nipoti,ragazzi con lo zaino sulle spalle appe-na usciti da scuola e giovani impren-ditori. Tutti che ritornano nella loropiccola Chinatown, tra odori e suonifamiliari. Passano davanti a una salaslot, ai bar e ai cancelli chiusi deglistanzoni sequestrati, dove alcuni loroconnazionali lavoravano illegalmen-te. Passano davanti ai supermercati incui solo loro sanno riconoscere i pro-dotti: frutti derivati dall’incrocio dimele e pere che nella lingua italiananon hanno un nome, bustine di tè allapatata dolce, biscotti ripieni di cremaai piselli e fili di carne essiccata. Nontutti i pratesi lo hanno ancora accetta-to, ma la loro città custodisce una real-tà che fa dimenticare l’Italia per viverela Cina.

Via Pistoiese che sa di Cina

La strada, cuore della comunità

“È come essere catapultati in una città orientale”

Foto in prima pagina: di Ilaria Costanzo. In alto: due novelli sposi appena uscitidalla chiesa di Santa Maria Assunta aNarnali. A sinistra, invece, la strada chesegnava l’ingresso al paese (Narnali oggiè un quartiere di Prato, ma è stato permolti anni una frazione della città).In basso, nella foto piccola, un edificiodella zona. La foto grande, invece, ritraela classe di una scuola di Narnali: è statascattata il 13 aprile 1967 e tutte questeimmagini sono conservate dal gruppo cul-turale “Narnali Insieme”. A destra, due ragazze passeggiano nellaChinatown, accanto a un muro deturpatoda scritte in italiano e in cinese

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Sono 4.265 le impresecinesi registrate nel-la provincia di Pratodall’ultimo studio Ir-pet (Istituto regiona-le programmazione

economica della Toscana) eappartengono quasi tutte allostesso settore: abbigliamentoe in particolare pronto moda.Negli ultimi dieci anni il loropeso nel territorio è cresciutoin modo esponenziale: dal 5,2per cento del totale delle im-prese presenti nella provincia,oggi le attività cinesi ne costi-tuiscono il 16,6 per cento. Alproliferare di ditte orientali ècorrisposto un parallelo au-mento dei controlli, volti adarginare soprattutto il feno-meno dei “capannoni alvea-re”: gli stanzoni presi in affittodai titolari cinesi per la produ-zione di abiti low cost. Si trattadi un’economia ingestibile,cresciuta a macchia d’olio ecaratterizzata da reati conge-niti come lo sfruttamento del-la manodopera clandestina,l’abusivismo edilizio e l’eva-sione fiscale. “Dal 2009 al 2013abbiamo effettuato 1570 con-trolli a imprese cinesi – spiegal’assessore alla Sicurezza diPrato Aldo Milone – sequestra-to 612 immobili e 27.622 mac-chinari”. E per affrontare que-sto fenomeno la polizia muni-

cipale pratese gode di un orga-no speciale: il nucleo edilizia eantidegrado, composto da 16persone che compiono unamedia di due sequestri alla set-timana. Numeri altrettanto allarmantiemergono dall’attività dellaGuardia di Finanza di Prato:“Nel 2013 abbiamo sequestra-to 49 immobili, 2544 macchi-nari e 900 loculi/dormitorio –afferma il colonnello GinoReolon – e abbiamo individua-to 181 lavoratori in nero”. Loscorso anno le fiamme giallehanno inoltre sottoposto acontrollo 90 capannoni, neiquali coabitavano 118 societàcinesi, e registrato un flusso di10 milioni di euro verso la Ci-na, provenienti dalla contraf-fazione dei prodotti. “Spessoincorriamo in reati legati allaviolazione delle regole del Ma-de in Italy – continua Reolon –ma anche della normativa sa-nitaria”: nel maggio del 2013l’operazione “Skull 2” ha por-tato al sequestro di 500.000 ar-ticoli di bigiotteria, contenen-ti livelli di nichel superiori aquelli consentiti dalla legge. A caratterizzare l’illegalità ci-nese a Prato è anche la volatili-tà delle imprese, che spessoaprono e chiudono nell’arco didue anni. “Le imprese cinesicon profilo industriale sono

Hanno i nomi delle regioni italiane le stra-de che si intersecano nel Macrolotto, lazona industriale di Prato, anche se a re-

gnare sovrana tra le tante aziende del quartiereè una regione molto lontana dai nostri confini.Si chiama Zhenjiang, è situata nel sud-est dellaCina e soprattutto custodisce la città di Wenz-hou, roccaforte della maggioranza dei cinesiapprodati a Prato. Alcuni di loro lavorano irregolarmente nellefabbriche di pronto moda, altri vendono i vesti-ti cuciti dai loro connazionali proprio in questestrade: abiti eleganti, camice e pantaloni sonoappesi su lunghi stand o ammassati in scatolo-ni di cartone. L’esterno dei fabbricati è spessodecorato da coccarde e fili di tessuto, tutti rigo-rosamente rossi. Le storie delle persone che po-polano la scacchiera di strade del Macrolottosono tanto simili quanto divergenti, tanto vici-ne quanto lontane. Sono storie che parlano diabbandono e solitudine, di difficoltà e parente-si di illegalità, per poi concludersi nel riscatto enella stabilità. I cinesi oggi titolari di ditte sonoarrivati quasi tutti da clandestini, hanno fattogli operai nelle fabbriche-dormitorio per poimettersi in proprio. Luca (i nomi sono tutti di fantasia) ricorda di es-

sere arrivato in Italia all’età di sette anni e diaver visto i suoi genitori lavorare dalle 16 alle 18ore al giorno: “Non siamo mica venuti qui conla valigia piena di soldi. Il padrone della ditta glidiceva di andare a dormire, ma loro volevanoguadagnare il più possibile per rendersi auto-nomi”. Con ritmi di questo genere, scindere illuogo di lavoro dalla propria abitazione diven-ta impossibile, a discapito soprattutto dellecondizioni igienico-sanitarie: “Il tessuto gene-ra polvere, ma se cuci tutto il giorno non puoianche pulire. E poi noi cuciniamo con moltopiù olio rispetto a voi italiani, che usate soloquello d’oliva. È normale che diventi tutto ap-piccicoso”. Oggi Luca ha due figli ed è respon-sabile della sua azienda, “anche se per fare i ve-ri affari bisognerebbe tornare in Cina”. Nel 1989 dalla Cina è arrivato invece Andrea,approdato in Italia dopo aver vissuto in varipaesi europei: “All’inizio trovare lavoro non èstato affatto facile, anche a causa delle difficol-tà linguistiche. L’italiano l’ho imparato leggen-do libri e usando il ‘lu yin ji’ (mangianastri,ndr)”. Oggi Andrea ha un’azienda che vendeabiti a livello internazionale e, anche se non ri-corda la parola “mangianastri”, può conside-rarsi un bravo autodidatta.

Abiti low cost,un business da capogiro

A Prato oltre 4.000 imprese

molto poche, la maggior partesono ditte individuali. Inoltre– sottolinea Saida Petrelli, ad-detto stampa dell’Unione in-dustriale pratese – molte diqueste attività sono riluttantiad inserirsi nella businesscommunity locale. Noi ne ab-biamo solo due associate e ba-sti pensare che, delle oltre4.000 attività cinesi presentinel territorio, quelle che fannoparte delle varie associazionidi categoria non sono più di200”. Un aspetto, questo, che oltread avere risvolti economici vaanalizzato anche dal punto divista legale: “I cittadini cinesiche delinquono, e che sonouna minoranza rispetto all’in-tera comunità, sono spesso in-

teressati ad ottenere false resi-denze – spiega il magistratoAntonio Sangermano – equando vengono inseriti nelleliste anagrafiche di Prato di-ventano automaticamente deifantasmi”. Una volta presa laresidenza, gli orientali posso-no diventare titolari di impre-se e aprire la loro partita Iva:“Diventano prestanomi di ti-tolari effettivi che a loro voltasono sconosciuti”, continuaSangermano. Tutto questo circuito d’illega-lità non è nato su una base dicriminalità organizzata, checomunque non si può consi-derare del tutto estranea allacittà di Prato: “Circa otto mesifa ho condotto un procedi-mento contro cinque cinesi

che avevano commesso estor-sioni a dei loro connazionaliproprietari di una pescheria -ricorda il magistrato – e ho ri-scontrato negli aggressori unavera e propria capacità d’inti-midazione: questo vuol direche stanno emergendo feno-meni criminali associativimolto pregnanti, di cui la co-munità sembra aver paura”.Nonostante la paura, i duecommercianti che hanno su-bito violenze fisiche, minacceed estorsioni hanno collabo-rato con la Polizia: “Nelle variequerelle culturali si tende a li-quidare tutto in un unicum, adattribuire a tutti i cinesi le stes-se caratteristiche socio-cultu-rali - conclude Sangermano - equesto è un grave errore”.

Storie di vita dallo Zhenjiang I racconti dei commercianti cinesi nel Macrolotto

In alto, un lavoratore cinese che costruisce accessori di mon-taggio per prodotti di alta moda. In basso, una strada del Macrolotto: il quartiere di Prato in cuisi concentrano le attività del pronto moda cinese

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L’ECONOMIA CINESE

Le pareti tappezzate difoto del loro bambi-no neonato, il letto indisordine e un ap-pendiabiti su cui so-no rimasti solo due

cappotti. Nella fretta dellosgombero sarebbe stato impos-sibile racimolare tutto, recupe-rare la spazzola, i prodotti di co-smesi e i festoni dell’ultimo ca-podanno cinese. Nella frettadello sgombero i due coniugihanno dovuto lasciare la lorocamera ma forse anche tutta laloro vita, perché nel capannonelavoravano, dormivano, cuci-navano e mangiavano. È il 17febbraio quando la polizia mu-nicipale di Prato mette sotto se-questro la sede della ditta dipronto moda che ha dato unimpiego anche a loro: in totaleci sono 11 persone, hanno tutteil permesso di soggiorno ma so-lo una è assunta regolarmente.“Per noi è questa la normalità,facciamo in media due seque-stri alla settimana – spiega unodegli agenti – l’ultimo è statogiovedì scorso, nel portone pro-prio accanto a questo”. I porto-ni sono entrambi molto grandie di metallo, ognuno con unapiccola telecamera appesa incima. Servono a verificare co-stantemente cosa accade fuorie sono collegate a un televisoreinterno. Entrare in quello stanzone ap-pena sequestrato è come aprireuna cantina dopo che è statachiusa per anni. L’umidità e lasporcizia hanno annerito tuttele pareti e la prima cosa che bal-za all’occhio è l’assenza di fine-stre, spiragli di luce e aria fresca.Il pavimento è lercio e tutto siinserisce in un unico grandedisordine. A terra, disseminateun po’ ovunque, ci sono scatoledi cartone e grandi buste blu ri-empite di vestiti e tessuti. Alcu-ni oggetti segnalano la presen-za di bambini: un libro di fiabe,una piccola bicicletta rosa na-scosta in soffitta. Forse le condi-zioni igieniche non sono cosìterribili, forse non è come sem-bra se qui ci stavano anche i piùpiccini. Provi a pensarlo, manon è vero. Gli scaffali sono ri-coperti di sterco di ratto e il mu-ro sopra il lavello della “cucina”di uno strato di unto. Di fronteallo spazio riservato ai pasti, glioperai avevano improvvisatoanche un piccolo salottino: untelevisore (non quello collegatoalla telecamera esterna) e un di-vano di pelle marrone, accantouna tavola da stiro, scatoloni,rocchi di tessuto e modelli degliabiti realizzati su cartone. Pocopiù avanti inizia la zona in cui idipendenti cinesi passavano lamaggior parte del loro tempo,quella in cui sono disposte le lo-ro postazioni, ognuna con lapropria macchina da cucire,con i colori da usare per un ulti-mo abito che non completeran-no mai. I più sfortunati erano si-curamente quelli che lavorava-no accanto al muro, perché neiloro polmoni arrivava tutta l’u-midità che ha tinto le pareti dienormi macchie nere. Ogni og-getto, in questa fetta del capan-

none, è nascosto sotto uno stra-to grigio di polvere e tessuto.Ancora avanti, oltre i macchina-ri, due camere da letto sono se-parate dal resto dell’edificio tra-mite delle tende a fiori. Da unadi queste il letto è già stato ri-mosso e restano solo una pol-trona, un comodino e i pannellidi cartone usati come muri divi-sori. Le altre stanze da letto so-no invece al piano superiore: cisi accede da una fatiscente sca-la a chiocciola subito dopo l’in-gresso. Lì, chissà ancora perquanto tempo, le foto di un neo-nato con gli occhi a mandorla edi due genitori felici resterannoappese alle pareti.

C’è un pregiudizio che a Prato condivido-no in tanti e che è frutto di una banalegeneralizzazione. Dato che molte ditte

cinesi sono state sequestrate, è praticamenteimpossibile imbattersi in un orientale che lavo-ri regolarmente. In realtà, è molto più facile diquanto sembri. Uno di loro si chiama Huan Xiong Lin ed è un uo-mo di 38 anni, arrivato in Italia nel 2003 dal di-stretto cinese che fa capo alla città di Wenzhou.È il titolare di una ditta che si chiama “Xu Jian-jun” e che produce accessori di montaggio per legrandi griffe. “Vendo a Prada, Fendi e Cavalli –spiega Huan – ma gli italiani con cui mi sonoconfrontato non sono tutti uguali: alcuni sonobuoni, altri non nascondono che gli dò noia”. Huan ha assunto sette dipendenti, tutti con uncontratto regolare e di cui mostra con orgogliola busta paga. Guadagnano circa 1.000 euro almese e lavorano otto ore al giorno. “Il mio vec-chio socio mi aveva portato due operai clande-stini – racconta – poi è arrivata la polizia e dal2010 ho deciso di gestire l’azienda da solo”. Nello stabile che Huan ha preso in affitto da unitaliano, l’ambiente è pulito e i dipendenti lavo-rano ordinatamente su antichi tavoli di legno.Nessuno di loro dorme o vive lì e le finestre ci so-no.I pochi snack sui tavoli dimostrano che glioperai mangiano in ditta solo quando capita. Lavita di molti cinesi all’interno delle fabbrichedel pronto moda qui sembra lontana anni luce. Huan è arrivato in Italia da clandestino e senzasoldi: dieci anni fa ha preso un aereo per la Bul-garia, da lì è salito in macchina con dei suoi ami-ci e infine è arrivato a Udine. Ha fatto il came-riere in un ristorante cinese a Roma, ha lavora-to come operaio in una fabbrica a Venezia e nel2006 è approdato a Prato. Oggi ha la sua aziendae la sua autonomia economica, un italiano an-cora maccheronico e una cultura da cui nonvuole staccarsi.

I prigionieri delle fabbriche Viaggio in una ditta di pronto moda, sequestrata dalla Polizia il 17 febbraio

Undici operai lavoravano e dormivano in un unico ambiente senza finestre. Erano tutti in nero, tranne uno

Da cameriere a imprenditore

Il riscatto di Huan

A sinistra una mac-china dacucito nella fab-bricacineseseque-strata loscorso17 feb-braio. In bassonella fotopiccola,altrepostazio-ni lavora-tive deglioperai. Nellafoto gran-de, inve-ce, l’areadelladitta adi-bita a“salotto”

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Xiaoyun ha setosi ca-pelli neri e qualchelentiggine sparsasulla pelle bianca. Ilsuo nome è fruttodell’unione delle

parole che in cinese significano“mattina” e “nuvola”, perché“sono nata all’alba e quando imiei genitori hanno alzato losguardo verso il cielo hanno in-travisto una nube”. Me lo racconta mentre passeg-giamo nel centro di Prato, la cit-tà che l’ha accolta quando avevasei anni. Abbiamo appena la-sciato il caffè “Le logge” in piaz-za del Comune, dove lei scherzacon Simone, il barista egiziano,si fa servire un cappuccino concacao ma poi prende un po’ del-la mia acqua calda. Io l’ho giàtrasformata in tè ai frutti rossi,mentre lei la beve proprio così.In Cina l’acqua del rubinetto sisorseggia spesso riscaldata,perché non essendo potabileviene prima portata a ebollizio-ne. Xiaoyun è nata 22 anni fa nellaregione cinese del Fujian, in unacasa che oggi non esiste più. “Èstata demolita per costruire unatangenziale”. Era una di quellecase in cui l’acqua doveva esse-re riscaldata, una di quelle casein cui a volte mancava la legna.Come quando, nel 1990, nacqueJie, il fratello maggiore. “L’ideo-gramma con cui si scrive il suonome è composto da quello chesimboleggia il legno e da quat-tro punti che ne rappresentanol’assenza”. Ma se un nome o un simbolopossono spiegare la nascita diuna persona, quando la vita sisrotola la faccenda si fa più com-plicata. Xiaoyun si racconta consemplicità ed entusiasmo, entracon fierezza negli angoli più dif-ficili della sua infanzia e sembrache da ognuno di questi abbiaraccolto una lezione. Da vera to-scana aspira ogni “c” e “t” in cuiinciampa, ma la sua storia iniziaa oltre 14 ore di volo dall’Italia.Inizia nella casa che non c’è più,dove il padre la lasciò a soli ottomesi per cercare il lavoro e unavita migliore in un altro conti-nente. “Mio papà l’ho conosciu-to a sei anni, quando sono arri-vata in Italia con mamma e miofratello. Lui non era mai tornatoin Cina e all’inizio non riuscivo achiamarlo ‘papà’ perché per meera già un uomo”. Un uomo arri-vato in Toscana da clandestino,che solo nel 1996 riesce a regola-rizzarsi con una sanatoria e achiedere il ricongiungimentofamiliare. “Prima di trasferirci in una casavera abbiamo vissuto per quasicinque anni nel capannone diuna fabbrica. I miei facevanoturni estenuanti, lavoravanodecine di ore al giorno e aveva-

mo solo una stanzina in cuidormivamo. Io ci stavo male,però vivere in uno stabilimen-to è particolare perché unisciil lavoro, il tempo libero equello per la famiglia. Se i mieigenitori avessero lavoratofuori, avrebbero avuto menotempo per stare con me”.Xiaoyun, nel frattempo, cam-bia cinque scuole in otto anni.“In terza elementare sapevoconiugare perfettamente iverbi, ma non sapevo comeusarli. Non ero capace a inse-rire le parole nel posto giusto”.Con lo scorrere del tempo laconoscenza dell’italiano el’accento pratese crescono infretta, nonostante con mam-ma e papà Xiaoyun abbiasempre parlato cinese. Nelfrattempo i genitori riescono adiventare indipendenti e de-cidono di aprire una ditta cheproduce divani. Compranouna casa a Vaiano e fanno ipendolari, lavorano a Pratootto ore al giorno. “Io e mio fratello ce la siamocavata e a dieci anni ho impa-rato a cucinare”. Le chiedo sepreferisce il cibo italiano aquello cinese e nella sua rispo-sta c’è qualcosa che oltrepassale mura della cucina: “Non esi-ste mai un periodo in cui io misenta solo cinese e poi uno incui io possa definirmi solo ita-liana, devo sempre avere unpo’ e un po’. Voglio gli spaghet-ti e la pizza, ma anche il riso”. Xiaoyun ha un’identità chemescola tutti i suoi ingredien-ti senza fonderli. Odia i pre-giudizi e li combatte sfrontata,senza paura di esprimere lesue opinioni più estreme.“Certe persone non sarebberod’accordo con me, ma se aves-si dei figli li farei vivere in uncapannone. Per molti versi èun’esperienza difficile che tisegna, ma allo stesso tempo tipermette di capire quanto siaimportante avere un tetto sul-la testa”. Ma è ancora troppo presto perdiventare mamma. Ci sonoprima la laurea in infermieri-stica e la cittadinanza italianada ottenere per non dover piùandare ogni due anni in pro-cura a rinnovare il permesso disoggiorno: “Questa è una diquelle cose che mi fanno rab-bia. Io a Prato ci sto bene epensare che la mia vita in Ita-lia sia come una scadenza darinnovare è brutto”. E poi c’è lavoglia di rivedere la Cina, dicui non ha ricordi assieme alsuo papà e dove non è mai tor-nata dopo essere arrivata aPrato. Anche se la casa in cui ènata, in una mattinata nuvo-losa del 1992, potrà solo im-maginarsela sul bordo di unatangenziale.

“I mei figli li fareivivere in fabbrica”

La storia di Xiaoyun, arrivata a Prato a 6 anni

È cresciuta nel capannone in cui lavoravano i genitori

Sopra, Xiaoyun di spal-le. A destra, una classedell’istituto statale diistruzione superioreGramsci-Keynes. Iragazzi sono statiimmortalati da IlariaCostanzo e l’immaginefa parte del progettofotografico Facewall

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I GIOVANI

Tutti in classe, dopo es-sere rientrati dalla gita.Fuori ha iniziato a pio-vere appena i bambinisono scesi dall’auto-bus, la maestra Angela è

riuscita a fatica a mantenere ordi-nata “la fila per due” e a farli cam-minare mano nella mano. Scrollatii cappotti e preso posto tra i banchi,gli alunni della III C dell’istitutocomprensivo Mascagni ripassano,disegnano e chiacchierano in quel-l’ultima ora che li separa dal pran-zo. Quando la maestra chiede di defini-re il lavoro del giornalista, le rispo-ste sono variopinte: “Il giornalista èquello che sta in edicola” (non fisi-camente, ma ci siamo quasi), o me-glio è “colui che va a un evento, fa lefoto, scrive e poi attacca tutto sulgiornale” (magari!). Matteo mettela scarpa da ginnastica ad asciuga-re sul termosifone, perché si è ba-gnata durante il tragitto. Matteo en-tra tutti i giorni nella classe, com-posta da 19 bambini di cui 13 stra-nieri: sette sono di nazionalità cine-se, poi ci sono due gemelle maroc-chine, una bambina di originirusse, un alunno albanese, uno ser-bo e uno bengalese. “Fino al 29 no-vembre c’era anche Lu – racconta lamaestra Angela con il suo accentocatanese – è arrivato a settembre,catapultato in terza elementaresenza saper parlare l’italiano, equando eravamo riusciti ad inte-grarlo quasi completamente i geni-tori lo hanno portato via”. Perché l’istituto Mascagni non è so-

lo una scuola, con i disegni di PeppaPig, Barbie e Braccio di Ferro appesialle pareti. Appena entrati nel gran-de edificio di via Toscanini, sul vetroche circonda la mensa appare uncartellone intitolato “L’arcobalenodei valori”: i bambini hanno asso-ciato un messaggio a ognuno deisette colori, dall’amicizia alla condi-visione passando per l’aiuto reci-proco, il rispetto e la collaborazione.In una scuola che accoglie il 40 percento di alunni stranieri – e che soloall’asilo raggiunge picchi del 60 percento – queste parole risuonano conuna forza particolarmente taglientee reale. Al Mascagni l’integrazionenon è un bene ideale, piuttosto è pa-ne quotidiano. Si pratica ogni giornocon pazienza e perseveranza, alun-no dopo alunno e classe dopo clas-se. “I bambini cinesi spesso traduce-vano per Lu – ricorda Angela – ancheperché tra di loro non parlano quasimai in italiano. Quando litigano siinsultano direttamente in cineseper non farsi capire dagli altri. La lo-ro lingua la parlano benissimo espesso sono iscritti a scuole cinesiche frequentano nel fine settimana”. Ma se nelle scuole pratesi, oltre abravi scolari crescono anche piccoliinterpreti, negli ultimi anni le diffi-coltà si sono attenuate. “Tranne Lu,i miei alunni li ho presi tutti in prima– spiega Angela – sono nati tutti inToscana, non hanno difficoltà lin-guistiche e tra di loro c’è un bellissi-mo rapporto”. La conferma arrivaanche da Laura Papini, dirigentescolastico dell’istituto: “Da quandoi bambini cinesi hanno iniziato a fre-

quentare la scuola dell’infanzia, laloro confidenza con la lingua è no-tevolmente migliorata. Circa setteanni fa, invece, arrivavano spessonelle nostre classi in terza o quartaelementare, perché i genitori li fa-cevano nascere a Prato e poi li ri-mandavano in Cina per qualcheanno. Così l’integrazione diventa-va praticamente impossibile”. Per affrontare il dislivello di com-petenze linguistiche che si crea trai bambini di una stessa classe, lascuola si è rimboccata le maniche.“Organizziamo dei laboratori dialfabetizzazione per stranieri incui i bambini che ancora non co-noscono la nostra lingua studianosolo l’italiano – sottolinea il presi-de Papini – in più il Comune ha isti-tuito delle ore di intercultura, du-rante le quali il docente è un me-diatore assegnato e mandato ascuola dalle istituzioni”. “Ma vienecirca una volta al mese e non ba-sta”, afferma Angela. L’abbattimento delle barriere, lin-guistiche in primis, è un impegnoda portare avanti su tutti i fronti,rovesciando i ruoli e scambiando ipoli. Così anche le maestre sonotornate tra i banchi e, per un’ora emezza alla settimana, lasciano lacattedra a una professoressa cheinsegna loro il cinese. “È una lin-gua difficile, non avrei mai pensa-to di ritrovarmi a studiarla. Ma èmolto bella”. Angela lo dice sorri-dendo, mentre i bambini conti-nuano ad aspettare il suono dellacampanella. E la scarpa di Matteosi è quasi asciugata.

In alto, Luigi eAlessandro men-tre suonano unviolino e unatromba.L’immagine èstata scattatada IlariaCostanzo, lafotografa che harealizzato tuttigli scatti del pro-getto Facewall.Questo è unodei più recenti:è stato pubblica-to il 31 marzo2014 sul sitowww.facewallpra-to.itA destra, undisegno coloratodai bambinidella scuola pri-maria PietroMascagni.L’istituto è traquelli che, aPrato, hannouna delle per-centuali più altedi alunni stranie-ri, in particolarecinesi

Piccoli interpreti crescono,dove le maestre studiano cinese

La III C della scuola Mascagni: 19 bambini, di cui 13 sono stranieri

il Ducato

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L’ARTE

10.000 bandiere per l’integrazioneFacewall è il progetto fotografico dell’associazione culturale Spaziocompost

Ogni foto immortala due persone di nazionalità diverse: sono 100 scatti, di cui 60 con una persona cinese

Chen e Pietro lavorano nellastessa farmacia, si sorrido-no mentre sistemano i me-dicinali tra le file di casset-ti. Malia e Agnese sono se-dute in un set fotografico,

con le luci già accese e le macchine po-sizionate: stanno realizzato un libromultimediale che racconta la vita a Pra-to dei ragazzi cinesi di seconda genera-zione. Sergio e YiSong indossano la di-visa e il cappello bianco, si aiutano da-vanti ai fornelli del ristorante per cui la-vorano. Anthony insegna il cinese adElisabetta, 75 anni e la voglia di impa-rare gli ideogrammi. Sono scene di vitaquotidiana, queste, a Prato. Sono sceneche l’associazione culturale Spazio-compost, in collaborazione con il gior-nale online Pratosfera, ha voluto im-mortalare e spargere per tutta la cittàattraverso il progetto Facewall. La fotografa Ilaria Costanzo ha scattato100 foto: ognuna racconta una storia diintegrazione, un legame tra due perso-ne di origini e nazionalità diverse. Su100 scatti, 60 ritraggono una personacinese. Assieme a un italiano, un alba-nese o un marocchino. Le 100 foto sonopoi diventate 10.000 bandiere, distri-buite gratuitamente da dicembre 2013a tutti i cittadini interessati. Molti lehanno appese alle finestre, ai balconi:passeggiare per Prato con il naso all’in-sù, dalla fine dello scorso anno, non èpiù solo l’occasione per apprezzarne lebellezze architettoniche. È l’occasioneper vedere l’essenza di una città checonvive con gli scandali continui, perosservare quel brulicare di 119 etnieche a Prato si incrociano e si mescola-no. “Facewall è frutto di anni di lavoro –spiega Cristina Pezzoli, presidente diSpaziocompost – e soprattutto di quel-lo che abbiamo raccolto in alcuni in-contri organizzati la scorsa estate. Èemerso che cinesi e italiani, a Prato,hanno parole e obiettivi comuni: vo-gliono cambiare il volto della città”. Fa-cewall è un progetto nato non solo percambiare, ma anche per svelare le verefacce della città: “Abbiamo voluto mo-strare quello che c’è ma che si vedetroppo poco – continua – abbiamo vo-luto rompere la spettacolarizzazionedella realtà offerta dai giornali e con-trastare una fuorviante rappresenta-zione mediatica”. Spaziocompost è un’associazione cul-turale e un laboratorio di ricerca teatra-le nato nel 2009, sulla base di un’inizia-tiva messa a punto già nel 2007: “Assie-me agli altri del gruppo – racconta Cri-stina Pezzoli – volevo seppellire i cada-veri culturali del nostro paese. Siamostati zingari per due anni, ospitati qua elà da altre associazioni. Fino a quandosiamo arrivati a Prato e abbiamo capitoche dovevamo restare, che qui c’era lin-fa in abbondanza per coltivare le nostreidee”. A Prato trovarono una polveriera, una

città incapace di stare al passo con icambiamenti sociali e culturali da cuiera stata travolta. Proprio nelle sue cre-pe, negli interstizi di una realtà che do-veva rinnovare se stessa senza sapereda dove iniziare, i membri di Spazio-compost si sono inseriti. Sono stati irri-verenti cercando di indagare le ragionidel nemico: “Abbiamo voluto usare ilnostro ‘format’ principale, ossia la tra-gedia greca - ricorda Cristina - quelloche gli antichi greci mettevano in scenaè il vero conflitto di opposti, che spessosi rivela tragico proprio come a Prato”. Spaziocompost ha anche provocatoqualche mal di pancia: “Nel giugno del

2009 abbiamo fatto una conferenza, incui alcuni attori si fingevano relatori eportavano sul palco i problemi dellacittà – spiega – poi la situazione ci èsfuggita di mano, è iniziata una vera epropria rissa verbale e molti nel pub-blico sono rimasti a discutere fino alledue di notte”. Alcuni, con il tempo, han-no capito che quella conferenza avevaraccontato una verità, che bisognavaprendere coscienza piuttosto che ar-rabbiarsi. Una di loro è Luisella: “Quan-do ad agosto del 2009 ci siamo trasferi-ti in questa sede – conclude Cristina,che tutti i giorni fa la pendolare da Pi-stoia – lei poco dopo è venuta a viverequi accanto. Ci ha detto che, quandonel corso dello spettacolo i finti disoc-cupati italiani se l’erano presa con i 50cinesi presenti, lei si era molto spaven-tata perché non aveva mai pensato chea Prato la situazione potesse essere co-sì pericolosa e latente ”. L’arte di Spazio-compost, a Luisella, ha fatto aprire gliocchi.

Le immagini, scattate da Ilaria Costanzo,fanno parte del proget-to fotografico Facewall:sono state distribuitegratuitamente, sottoforma di bandiere, intutta Prato. In senso orario: Maliae Agnese, Sergio eYiSong, Anthony ed Eli-sabetta, Jiao jing assie-me a Simona (ostetricadell’ospedale di Prato)mentre tiene in bracciola piccola Miranda