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FABRIZIO CICCONI PORTFOLIO

PORTFOLIO FABRIZIO CICCONI · servizi quali la scuola, ... media percepibile anche nel disegno urbani-stico e nella cura architettonica degli edifici pubblici, ... Guidobono nella

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FABRIZIO CICCONIPORTFOLIO

Stanno scomparendo i luoghi dell’incontro e del dialogo fra culture e religionidiverse. Distrutti dalle semplificazioni dei media, dalla dinamite dei clan o dallebombe intelligenti dei poteri planetari. Ma la realtà non può essere ridotta abianco o nero, come vorrebbero i fondamentalismi e il pensiero unico atlantico

IMMAGINI DAL TRAMONTO DI UN KOLKHOZ UZBEKOdi Giorgio Messori

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I n epoca sovietica il kolkhoz Politotdel (let-teralmente: Sezione politica) era il kolkhoz

più rinomato di tutto l’Uzbekistan. Quandoarrivavano personalità importanti tipo i segre-tari del Pcus da Krusciov in poi, e poi icosmonauti sovietici da Gagarin in giù, alloranella visita ufficiale al Paese s’inseriva di soli-to la visita al Politotdel. Perché era moltovicino alla capitale, Tashkent, e soprattuttoera un buon esempio di economia socialistaparticolarmente produttiva (da molti erasoprannominato “il kolkhoz ricco”).Ovviamente questa gran produttività e ric-chezza, per essere anche un buon esempiodi socialismo, doveva riflettersi pure in ottimiservizi quali la scuola, l’assistenza sanitaria,lo sport, la cultura. Una qualità sopra lamedia percepibile anche nel disegno urbani-stico e nella cura architettonica degli edificipubblici, che davano a questo microcosmo ilcolpo d’occhio da “città ideale”. Quasi che ilkolkhoz fosse stato progettato, immaginato,da un nuovo Piero della Francesca convertitoai soviet.Ora di questo antico splendore non arrivanoche fiochi bagliori. Eppure questo splendoretanto antico non è, ma nelle accelerazionidella Storia è stato inghiottito in un passatoche appare già remoto. Così il teatro nellaCasa della Cultura è chiuso solo da qualcheanno ma potrebbe essere un’eternità, perchénella spietata deriva del tempo è diventatogià rovina, impossibile immaginare di utiliz-

zarlo ancora per qualche spettacolo. Per nonparlare dei volumi della biblioteca che non sisa più dove siano andati a finire…Perciò adesso, della Casa della Cultura si uti-lizzano soltanto, e solo per un paio di mesil’anno, gli spazi adiacenti il teatro e la biblio-teca. Servono da dormitorio per gli studentiche a settembre e ottobre vengono precettatinella raccolta del cotone (alcune usanze“socialiste” permangono). Per il resto dell’an-no c’è un custode che va ad aprire nei giorniferiali come si fa per ogni ufficio, ma di fattoapre soltanto la sua portineria. Si mette lì,dietro un vetro, a impedire che entrino curio-si o ipotetici ladri che però non si sa nean-che più cosa potrebbero trovare.Altri edifici invece funzionano ancora, alme-no in parte. Per esempio l’asilo e scuolamaterna che è un vero e proprio giardinod’infanzia, come si diceva un tempo nellanostra lingua e si dice ancora in tante altre,con un’espressione certo meno burocratica epiù sognante. La facciata dell’edificio è neo-classica, come nella Casa della Cultura chec’è dall’altra parte della piazza, e il giardinosul davanti somiglia già a un piccolo parco. Aun lato del giardino, verso l’ingresso dell’asi-lo, c’è persino una statua per celebrare lafelicità dell’infanzia: semplicemente tre bam-bini che giocano a palla.

La rassegna potrebbe continuare ricordandouno stadio di calcio che non è certo un cam-

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Dell’antico splendore dei kolchoz non arrivano che fiochi bagliori. In disuso il teatro, così come la biblioteca

Il kolkhoz Politotdel era il più rinomato di tutto l’Uzbekistan, esempio di produttività e ricchezza (sopra, un forno portatile per fare il pane)

Dei vecchi edifici funziona ancora la scuola materna, con la facciata neoclassica e un giardino che sembra quasi un piccolo parco

Sotto, l’ingresso per l’asilo-scuola Bucaneve che accoglie i bambini della comunità

La maggior parte degli abitanti del kolkhoz è coreana, così come erano coreani i fondatori della comunità agricola degli anni Venti

La grande scuola funziona ancora e ospita anche un piccolo museo che ricorda le glorie passate. Sopravvivono anche altre tradizioni, come il ping pong

La maggior parte degli abitanti del kolkhoz sono di origine coreana, discendenti di quelli arrivati alla fine degli anni Trenta, deportati da Stalin

Per essere un buon esempio di socialismo, la produttività del kolkhoz doveva riflettersi an-

che in ottimi servizi quali la scuola, l’assistenza sanitaria e la cultura. Priorità che sono ri-

maste anche ai tempi odierni

Gruppo di famiglia contadina uzbeka. In questo microcosmo rimane forte il legame con la famiglia e con la piccola patria del kokhoz

Sopra, un pranzo uzbeko. A destra, la casa di Yulia, brillante studentessa ora trasferitasi in Svezia a cercare un futuro. Da sinistra: la nonna, Yulia e il padre

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petto di periferia (la squadra del kolkhoz eraarrivata a giocare nella serie A uzbeka). E poila chiesa evangelica a fianco della moschea,la stazione di polizia che attualmente è sen-z’altro l’edificio pubblico tenuto meglio (d’al-tronde il potere post-sovietico ha soprattuttoquesto volto).Ma si dovrebbe aggiungere che pure la gran-de scuola funziona ancora, e lì dentro hannopersino allestito un piccolo museo del kol-khoz, per ricordarne le glorie passate. E perrivendicare con orgoglio le proprie radicihanno messo, all’ingresso del museo, un car-tello dove c’è scritto che senza passato nonesiste un vero futuro.Così alcune tradizioni bene o male continua-no, come si può vedere da uno stanzoneenorme, pieno di tavoli da ping pong, dove agiocare vengono spesso anche da fuori. Ericordo che la prima volta che sono stato alPolitotdel ho conosciuto una ragazza, nata e

cresciuta al kolkhoz, che era da poco rientra-ta da Atene dove, per il ping pong, avevarappresentato l’Uzbekistan alle Olimpiadi.Come a voler ricordare che, pur nel tramontodi un’epoca, alcuni livelli di eccellenza ilkokhoz poteva continuare a esibirli.

In fondo anche la mia curiosità iniziale verso ilPolitotdel è nata da una simile constatazione.Perché nei quasi sei anni trascorsi a Tashkent,a insegnare in un paio di università, due fra lemigliori studentesse che ho avuto provenivanoproprio da lì, dal kolkhoz Politotdel. Che fosseuna semplice coincidenza?A ogni modo queste due studentesse eranoparticolarmente volonterose, intelligenti, eanche piacevolmente socievoli (che fosse unrisvolto della sopravvivenza di una vita comu-nitaria al kolkhoz?). E insomma non eranostudentesse che si potevano certo classifica-re come “secchione”, ma simpatiche ragazze

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dotate di un notevole dinamismo mentaleche le favoriva, per esempio, nell’apprendi-mento delle lingue straniere. Tant’è cheentrambe, nel corso dell’università, hannovinto anche borse di studio per trascorrerequalche periodo all’estero.Eppure venivano dalla campagna, non pro-prio dalla grande Tashkent con i suoi duemilioni e passa di abitanti. Da dove venivanoloro, così mi avevano detto, la rete telefonicanon era neppure abilitata per collegarsi aInternet. Dunque vivevano in una condizioneoggettiva d’isolamento: la mattina la corrierale portava in città ma, la sera, l’ultima corrie-ra partiva sempre troppo presto per andareal cinema o a teatro. Eventualmente si dove-vano arrangiare da qualche amica.

Nonostante ciò, sono state fra le studentessepiù curiose e aperte che ho incontrato inquella mia lunga esperienza d’insegnamento.

Yulia, così si chiama una di queste due stu-dentesse, è di origine coreana come la mag-gior parte degli abitanti del kolkhoz. Eranocoreani anche i fondatori della comunità agri-cola, intorno agli anni Venti del secolo scor-so. E tanti altri coreani sono poi arrivati allafine degli anni Trenta, quando Stalin li hadeportati in massa dalle zone più orientalidella Russia perché erano troppo vicini allaCorea per non sospettare spinte secessioni-stiche, e soprattutto li si accusava di spio-naggio per i giapponesi, che allora controlla-vano la penisola coreana. Così, secondo le

Saiyora, giovane neolaureata con le radici nel kolkhoz

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abitudini di quel tiranno che spostava interepopolazioni come fossero pedine su unascacchiera, era senz’altro meglio allontanarliil più possibile e sbatterli in Asia centrale,dove spesso venivano spedite persone opopolazioni che altrimenti avrebbero potutocreare grattacapi. Perché l’Asia centrale eraanche la discarica in cui piazzare chi potevainceppare l’inesorabile costruzione delloStato sovietico: minoranze etniche, dissidentipolitici. O perlomeno veniva mandato lì chinon s’era macchiato di colpe così gravi dameritarsi invece la Siberia.A ogni modo Yulia è russofona, come ormaitutti i coreani “uzbeki”. Il coreano l’ha poianche un po’ imparato e praticato in unbreve soggiorno di studio. Ma senz’altro gli èpiù famigliare l’inglese che ha usato fin dasubito, appena laureata, andando a lavorarein un’organizzazione internazionale. E anchecon l’italiano se la cava bene.Adesso però Yulia se n’è già voluta tornar via,come la maggior parte dei giovani più curiosie intraprendenti. Ha lasciato il kolkhoz,l’Uzbekistan, per cercare un futuro che nelsuo Paese non riusciva più a immaginarsi.Così da qualche mese si è trasferita aUpsala, in Svezia.

Saiyora, l’altra studentessa che ricordavo, èfiglia di un uzbeko e di una madre russo-macedone, pediatra in una piccola clinica cheserve gli abitanti del kolkhoz e delle campa-gne vicine. Anche la madre di Saiyora, puressendo medico, quando arriva l’autunno

deve però chinarsi a raccogliere il cotonecome si faceva un tempo, perché lo Stato hatutto l’interesse a mantenere antiche abitudiniper sfruttare al meglio una delle maggioririsorse del Paese, che è appunto il cotone(l’Uzbekistan è il terzo produttore al mondo diquesto “oro bianco”, come viene chiamatodalla propaganda di regime).Ed è stata comunque Saiyora a introdurmi alPolitotdel, Saiyora che appena laureata hoanche preso come collaboratrice per insegna-re l’italiano all’università, e che nel corso deisuoi studi ha trascorso perfino un anno interoin un’università americana. Ma poi è tornata acasa volentieri, mi ha detto, perché sentivaforte il legame con la famiglia e con la suapiccola patria del kolkhoz.Così, quando l’inverno scorso è arrivato l’ami-co Fabrizio Cicconi per realizzare un serviziofotografico sul Politotdel, è stato grazie aSaiyora che siamo entrati a visitare la scuola,dove lei aveva fatto tutti i suoi studi fino all’u-niversità, e poi la clinica dove lavora suamadre, e poi ancora una casa di contadiniuzbeki, la casa di Yulia prima che facesse levalige per la Svezia.E adesso anche Saiyora ha voluto fare le suevalige. Questa volta per un viaggio che si pre-vede più lungo, visto che farà un master di treanni all’Università di Trento. Nel frattempo si èanche fidanzata con un ragazzo di Roma, cosìpotrebbe succedere che pure lei lasci definiti-vamente la sua piccola patria, quel kolkhozche le foto di Fabrizio Cicconi sanno celebrarecon insolita delicatezza.

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CHI È FABRIZIO CICCONINasce a Reggio Emilia nel 1964 e inizia la professione di fotografo nel 1987. La sua ricerca siorienta da subito sull'immagine dell'uomo, come testimonia la sua prima personale, Padani,del 1991 a Palazzo Ruini a Reggio Emilia. La sua attenzione al tema del ritratto lo porta a colla-borare con istituti culturali e gruppi musicali; riviste di moda e a contribuire alla realizzazione dicampagne pubblicitarie.Nell’aprile 1995 con i registi Davide Ferrario e Guido Chiesa realizza un libro sul 50°Anniversario della fine della Seconda guerra mondiale, documentando l'operazione culturale“Materiale Resistente”. È del 2004 una mostra personale dal titolo “Una città in Movimento” aPalazzo Magnani di Reggio Emilia. Nel 2005 realizza la documentazione di un kolkhoz inUzbekistan. Il lavoro è stato inserito nel circuito della rassegna internazionale di fotografia diRoma, curata da Marco Delogu, con una mostra dal nome “Politotdel” a cura di RaffaellaGuidobono nella galleria A.K.A.