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1 A.A. 2014-2015 Letteratura italiana: Le Poesie di Foscolo (1803) Ritratto di Ugo Foscolo (1813) di F. X. Fabre

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A.A. 2014-2015

Letteratura italiana: Le Poesie di Foscolo (1803)

Ritratto di Ugo Foscolo (1813) di F. X. Fabre

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1. Versi giovanili

Dalla “raccolta Naranzi” (1794):

La rosa tarda

Le bionde Grazie schiusero

Al ghirlandato aprile

Le verdi porte, e mancavi

De' fiori il più gentile?

Con le sue mani ambrosie

L'innamorata Aurora

Dal Cielo umor freschissimo

Per lui non sparse ancora?

Tu, fior splendente e semplice

Come la mia vezzosa,

Tu fra le spine floride

Ancor non spunti, o Rosa.

[…]

E a noi sei caro: immagine

Tu delle guance sei

Di Lei che tien l'imperio

Su tutti gli atti miei.

Di Lei che bella e fulgida

In sua bellezza or viene,

Che con un sguardo sforzami

Baciar le mie catene.

Ma sorgi ormai, purpureo

Bel fiorellino, sorgi;

Tu alla mia dolce vergine

Gaja ghirlanda porgi.

[…]

[Ode]

Fra soavissimi fioretti un giorno

Giaceano Amore e Venere,

E mille Genii stavan d'intorno

E mille Grazie tenere.

Io con l'eburnea mia cetra al collo,

Scarco di cure torbide,

Passai con l'alma piena di Apollo

Per quelle sedi morbide.

A sè chiamatomi la gaja Diva,

Con fiamma al labbro e al ciglio,

Disse: Tua cetera canti giuliva

La possa del mio figlio. […]

La partenza

Partita è Cloe: ah! volino

Le Grazie a lei d'intorno,

E lieta l'accompagnino

Al rustico soggiorno.

Or forse è giunta, e tacita

Trascorre il campo aprico:

Deh! fra soavi palpiti

Rammenti il fido amico.

Ruscel che scorri limpido,

Se ascolti il nome mio,

Più dolcemente mormora,

Dille che l'amo anch'io.

Auretta solitaria,

Se intorno a lei t'aggiri,

Con flebil suono annunziale

I mesti miei sospiri.

Vispi augellini teneri,

Ite dov'ella siede,

E con gorgheggio querulo

Le rammentato fede.

Voi pure amate, e il giubilo

È a voi compagno: io solo

Amo, ma spargo lagrime,

Amo, ma in mezzo al duolo.

Pur mi son dolci i gemiti

Per questo amor pudico;

Ah! fra soavi palpiti

Rammenti il fido amico.

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Dalla breve raccolta – 1 canzone e 5 sonetti – scritta nel 1796 “In morte del padre”(avvenuta

nel 1788) e dedicata alla madre:

Oh! qual'orror! un fremito funèbre

Scuote la terra ed apresi la Fossa,

Ove in mezzo a tetrissime tenèbre

Stan biancheggiando del mio padre l'ossa.

Le guato allor con incerte palpebre;

Scendo d'un salto e alla feral percossa

Gemono le profonde alte latebre

Ove ogni parte della tomba è smossa.

E già stendo la man; già il cener santo

Raccolgo.... ahi tremo.... la più cupa notte

Mi casca intorno, e il cor gelo mi stringe:

E par che un suono, un pianto, mi rimbrotte,

Ond'io mi fuggo, e tutto mi dipinge

L' ossa, l'orror, l'oscuritade il pianto.

Sonetto a Venezia

[Scritto nel 1796, fu stampato la prima volta, nell'Anno poetico ossia Raccolta annuale di poesie

inedite di autori viventi, Venezia, 1797]

O di mille tiranni, a cui rapina

Riga il soglio di sangue, imbelle terra!

'Ve mentre civil fama ulula ed erra,

Siede negra Politica reina;

Dimmi: che mai ti val se a te vicina

Compra e vil pace dorme, e se ignea guerra

A te non mai le molli trecce afferra

Onde crollarti in nobile ruina?

Già striscia il popol tuo scarno e fremente,

E strappa bestemmiando ad altri i panni,

Mentre gli strappa i suoi man più potente.

Ma verrà il giorno, e gallico lo affretta

Sublime esempio, ch'ei de' suoi tiranni

Farà col loro scettro alta vendetta.

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‘Sciolti’ pubblicati nel 1797 sull’«Anno poetico»:

AL SOLE

Alfin tu splendi, o Sole, o del creato

Anima e vita, immagine sublime

Di Dio, che sparse la tua faccia immensa

Di sua luce infinita! Ore e Stagioni,

Tinte a vari color, danzano belle

Per l'aureo lume tuo misuratore

De' secoli, e de' secoli scorrenti.

Alfin tu splendi! tempestoso e freddo

Copria nembo la terra; a gran volute

Gravide nubi accavallate il cielo

Empian di negre liste, e brontolando

Per l'ampiezza dell'aere tremendi

Rotolavano i tuoni, e lampi lampi

Rompeano il bujo orribile. - Tacea

Spaventata natura; il ruscelletto

Timido e lamentevole fra l'erbe

Volgeva il corso, né stormian le frondi

Per la foresta, né dall'atre tane

Sporgean le belve l'atterrita fronte.

Ulularono i venti, e ruinando

Fra grandini, fra folgori, fra piove

La bufera lanciosse, e riottoso

Diffuse il fiume le gonfie e spumose

Onde per le campagne, e svelti i tronchi

Striderono volando, e da’ scommossi

Ciglion dell'ondeggianti audaci rupi

Piombàr torrenti, che spiccati massi

Coll'acque strascinarono. Dal fondo

D'una caverna i fremiti e la guerra

Degli elementi udii; Morte su l'antro

Mi s'affacciò gigante; ed io la vidi

Ritta: crollò la testa e di natura

L'esterminio additommi. - In ciel spiegasti,

O Sol, tua fronte, e la procella orrenda

Ti vide e si nascose, e i paurosi

Irti fantasmi sparvero.... ma quanti

Segni di lutto su i vedovi campi,

Oimè, il nembo lasciò! Spogli di frutta,

Aridi, e mesti sono i pria sì vaghi

Alberi gravi, e le acerbette e colme

Promettitrici di liquor giocondo

Uve giacciono al suol; passa 1'armento

E le calpesta; e istupidito e muto

L'agricoltore le contempla e geme.

5

Intanto scompigliata, irta, e piangente,

Te, o Sol, ripriega la Natura, e il tuo

Di pianto asciugator raggio saluta;

E tu la accendi, e si rallegra e nuovi

Promette frutti e fior. Tutto si cangia,

Tutto père quaggiù! Ma tu giammai,

Eterna lampa, non ti cangi? mai?

Pur verrà dì che nell'antiquo vòto

Cadrai del nulla, allor che Dio suo sguardo

Ritirerà da te: non più le nubi

Corteggeranno a sera, i tuoi cadenti

Raggi su l'Oceàno; e non più l'Alba

Cinta di un raggio tuo, verrà su l'Orto

Ad annunziar che sorgi. Intanto godi

Di tua carriera: oimè! ch'io sol non godo

De' miei giovani giorni: io sol rimiro

Gloria e piacere, ma lugubri e muti

Sono per me, che dolorosa ho l'alma.

Sul mattin della vita io non mirai

Pur anco il Sole; e omai son giunto a sera

Affaticato; e sol la notte aspetto

Che mi copra di tenebre e di morte.

Una prima stesura del son. V delle Poesie (1797?):

Quando la terra è d'ombre ricoverta,

E soffia '1 vento, e in su le arene estreme

L'onda va e vien che mormorando geme,

E appar la luna tra le nubi incerta;

Torno dove la spiaggia è più deserta

Solingo a ragionar con la mia speme,

E del mio cor che sanguinando geme

Ad or ad or palpo la piaga aperta.

Lasso! me stesso in me più non discerno,

E languono i miei dì come viola

Nascente ch'abbia tempestata il verno;

Chè va lungi da me colei che sola

Far potea sul mio labbro il riso eterno:

Luce degli occhi miei, chi mi t'invola?

Son. V

Così gl’interi giorni in lungo incerto

sonno gemo! ma poi quando la bruna

notte gli astri nel ciel chiama e la luna,

e il freddo aer di mute ombre è coverto;

dove selvoso è il piano e più deserto

allor lento io vagando, ad una ad una

palpo le piaghe onde la rea fortuna,

e amore, e il mondo hanno il mio core aperto.

Stanco mi appoggio or al troncon d’un pino,

ed or prostrato ove strepitan l’onde,

con le speranze mie parlo e deliro.

Ma per te le mortali ire e il destino

spesso obblïando, a te, donna, io sospiro:

luce degli occhi miei chi mi t’asconde?

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2. Nei dintorni delle Odi ‘neoclassiche’

Antonio Canova (1757-1822): Danzatrici

7

J. M. NATTIER, Maria Adelaide di Francia ritratta nelle vesti di Diana (1745)

POMPEO BATONI, Diana (1761)

8

J. BOUCHER, La toilette di Venere (1751)

ANDREA APPIANI, Ritratto di Giuseppina Beauharnais come Venere (1791)

9

LODOVICO SAVIOLI FONTANA (1729-1804): dagli Amori (1765)

A Venere

O figlia alma d'Egioco,

leggiadro onor dell'acque,

per cui le Grazie apparvero

e 'l riso al mondo nacque;

[…]

Accese a te le tenere

fanciulle alzan la mano:

sole ritrosa invocano

le antiche madri invano.

Te sulle corde eolie

Saffo invitar solea,

quando a quiete i languidi

begli occhi Amor togliea.

E tu richiesta, o Venere,

sovente a lei scendesti,

posta in oblio l'ambrosia,

e i tetti aurei celesti.

[…]

E mentre udir propizia

solevi il flebil canto,

tergean le dita rosee

della fanciulla il pianto.

[…]

Se tu m'assisti, io Pallade

abbia, se vuol, nimica;

teco ella innanzi a Paride

perdé la lite antica.

[…]

All’amica che lascia la città

[…]

Psiche apparia: prostravasi

la turba al suol devota;

e in te le selve onorino

divinitate ignota.

[…]

Casta abitar compiacquesi

Diana ancor le selve:

la pura mano armavano

dardi, terror di belve.

Al cacciator Gargafio,

che osò mirarla al fonte,

ultrici acque cangiarono

la temeraria fronte.

[…]

10

Il passeggio

Già già, sentendo all'auree

briglie allentar la mano,

correan d'Apollo i fervidi

cavalli all'Oceàno;

me i passi incerti trassero

pel noto altrui cammino,

che alla città di Romolo

conduce il pellegrino.

Dall'una parte gli àrbori

al piano suol fann'ombra,

l'altra devoto portico

per lungo tratto ingombra.

La tua, gran padre Ovidio,

scorrea difficil arte,

pascendo i guardi e l'animo

sulle maestre carte,

quando improvviso scossemi

l'avvicinar d'un cocchio,

e ratto addietro volgere

mi fece il cupid'occhio.

Sui piè m'arresto immobile,

e il cocchio aureo trapassa,

che per la densa polvere

orma profonda lassa.

Sola sui drappi serici

con maestà sedea

tal che in quel punto apparvemi

men donna assai che dea.

Più bello il volto amabile,

più bello il sen parere

fean pel color contrario

l'opposte vesti nere.

Tal sul suo carro Venere

forse scorrea Citera,

da poi che Adon le tolsero

denti d'ingorda fera.

La bella intanto i lucidi

percote ampi cristalli,

l'auriga intende, e posano

i docili cavalli.

Tosto m'appresso, e inchinomi

a quel leggiadro viso,

che s'adornò d'un facile

conquistator sorriso.

Amor, di tua vittoria

come vorrei lagnarmi?

Chi mai dovea resistere,

potendo, a tue bell'armi?

In noi t'accrebbe imperio

la destra man cortese,

che mossa dalle Grazie

a' baci miei si stese.

Risvegliator di zefiri

ventaglio avea la manca,

onde solea percotere

lieve la gota bianca.

[…]

O man, che d'Ebe uguagliano

per lor bianchezza il seno,

ove fissando allegrasi

Giove di cure pieno!

forse sì fatte in Caria

Endimion stringea,

quando dal carro argenteo

Diana a lui scendea.

Quei vaghi occhi cerulei

movea frattanto Amore;

rette per lui scendevano

le dolci note al core.

Come potrei ripetere

quel ch'a me udir fu dato?

Dal novo foco insolito

troppo era il cor turbato.

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Il mattino

Già col meriggio accelera

l'ora compagna il piede,

e già l'incalza e stimola

nova, che a lei succede.

Entra la luce e rapida

empie le stanze intorno:

il pigro sonno involisi,

apri i begli occhi al giorno.

Cinese tazza eserciti

beata il suo costume,

e il roseo labbro oscurino

le americane spume.

S'erge segreto un tempio

dell'ampie coltri a lato:

là tue bellezze aspettano

il sacrificio usato.

Vieni. Sia fausta Venere,

gli uffizi Amor comparta,

le Grazie in piedi assistano:

tu sederai la quarta.

Forse, al fissar sollecita

nel chiaro specchio il volto

ti parrà meno amabile

sol perché men fia còlto.

Pur, se dal tuo giudizio

dissento, il porta in pace:

negletto e senza studio

più il viso tuo mi piace.

Tal da' superbi talami

dell'ampia reggia achea,

sciolta dal caro Pelope,

Ippodamìa sorgea;

tal dallo speco emonio,

ove a Peleo soggiacque,

madre tornò del tessalo

l'azzurra dea dell'acque.

Ma già tuo dolce imperio

la fida ancella invita;

ella s'appressa, e all'opera

stende la destra ardita.

Già dal notturno carcere

i crini aurei sprigiona,

ed all'eburneo pettine

gl'indocili abbandona.

Segui, o fra quante furono

illustri ancelle esperta:

felice te! la grazia

della tua donna è certa.

Te nulla turbi, e rigido

guardi silenzio il loco,

solo garrisca l'indico

verde amator del croco.

Oh quante volte il frigio,

caro alla greca altera,

tacque, e con lui di Priamo

tacque la reggia intera!

Ella frattanto ornavasi

pari all'eterne dive,

e il caldo ferro iliaco

torcea le chiome argive.

Arser d'amara invidia

poi le dardanie spose:

arse d'amor Deifobo,

ma 'l foco incesto ascose.

M'inganno? o il sacrifizio

il chiesto fine or tocca,

né ancor il Sol coi fervidi

cavalli in mar trabocca?

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JACOPO VITTORELLI (1749-1835)

Dalle Anacreontiche

A Dori

che prende le acque di Recoaro

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GIUSEPPE PARINI, Odi

La educazione [1764]

Torna a fiorir la rosa 1

Che pur dianzi languìa;

E molle si riposa

Sopra i gigli di pria.

Brillano le pupille

Di vivaci scintille.

La guancia risorgente 7

Tondeggia sul bel viso:

E quasi lampo ardente

Va saltellando il riso

Tra i muscoli del labro

Ove riede il cinabro.

I crin, che in rete accolti 15

Lunga stagione ahi foro,

Su l'omero disciolti

Qual ruscelletto d'oro

Forma attendon novella

D'artificiose anella.

[…]

Il pericolo [1787]

[…]

Parve a mirar nel volto

E ne le membra Pallade,

Quando, l'elmo a sè tolto,

Fin sopra il fianco scorrere

Si lascia il lungo crin: 45

Se non che a lei dintorno

Le volubili grazie

Dannosamente adorno

Rendeano ai guardi cupidi

L'almo aspetto divin. 50

Qual, se parlando, eguale

A gigli e rose il cubito

Molle posava? Quale,

Se improvviso la candida

Mano porgea nel dir? 55

E a le nevi del petto,

Chinandosi da i morbidi

Veli non ben costretto,

Fiero dell'alme incendio!

Permetteva fuggir? 60

In tanto il vago labro,

E di rara facondia

E d'altre insidie fabro,

Gìa modulando i lepidi

Detti nel patrio suon. 65

Che più? Da la vivace

Mente lampi scoppiavano

Di poetica face,

Che tali mai non arsero

L'amica di Faon; 70

[…]

20

Il dono. Per la marchesa Paola Castiglioni

[1790]

Queste, che il fero Allobrogo

Note piene d'affanni

Incise col terribile

Odiator de' tiranni

Pugnale, onde Melpomene 5

Lui fra gl'Itali spirti unico armò;

Come oh come a quest'animo

Giungon soavi e belle,

Or che la stessa Grazia

A me di sua man dielle, 10

Dal labbro sorridendomi,

E dalle luci, onde cotanto può!

Me per l'urto e per l'impeto

De gli affetti tremendi,

Me per lo cieco avvolgere 15

De' casi, e per gli orrendi

Dei gran re precipizii,

Ove il coturno camminando va,

Segue tua dolce immagine,

Amabil donatrice, 20

Grata spirando ambrosia

Su la strada infelice;

E in sen nova eccitandomi

Mista al terrore acuta voluttà:

O sia che a me la fervida 25

Mente ti mostri, quando

In divin modi, e in vario

Sermon, dissimulando,

Versi d'ingegno copia

E saper che lo ingegno almo nodrì: 30

O sia quando spontaneo

Lepor tu mesci a i detti;

E di gentile aculeo

Altrui pungi e diletti

Mal cauto da le insidie, 35

Che de' tuoi vezzi la natura ordì.

Caro dolore, e specie

Gradevol di spavento

È mirar finto in tavola

E squallido, e di lento 40

Sangue rigato il giovane

Che dal crudo cinghiale ucciso fu.

Ma sovra lui se pendere

La madre de gli amori,

Cingendol con le rosee 45

Braccia si vede, i cori

Oh quanto allor si sentono

Da giocondo tumulto agitar più!

Certo maggior, ma simile

Fra le torbide scene 50

Senso in me desta il pingermi

Tue sembianze serene;

E all'atre idee contessere

I bei pregi, onde sol sei pari a te.

Ben porteranno invidia 55

A' miei novi piaceri

Quant'altri a scorrer prendano

I volumi severi.

Che far, se amico genio

Sì amabil donatrice a lor non diè? 60

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3. La tradizione italiana del sonetto in un opuscolo foscoliano (1816)

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1[N.B. Compare nell’opuscolo dopo il son. “di Vittorio Alfieri. Morto nel 1803”. Il testo

presenta alcune varianti, interpuntive e sostanziali, rispetto a quello delle Poesie 1803]

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4. Le Poesie. Intertestualità, varianti testuali, trasformazioni del macrotesto

V. ALFIERI, Rime

(Son. 167, datato 1786)

Sublime specchio di veraci detti,

mostrami in corpo e in anima qual sono:

capelli, or radi in fronte, e rossi pretti;

lunga statura, e capo a terra prono;

sottil persona in su due stinchi schietti;

bianca pelle, occhi azzurri, aspetto buono;

giusto naso, bel labro, e denti eletti;

pallido in volto, più che un re sul trono:

or duro, acerbo, ora pieghevol, mite;

irato sempre, e non maligno mai;

la mente e il cor meco in perpetua lite:

per lo più mesto, e talor lieto assai,

or stimandomi Achille, ed or Tersite:

uom, se' tu grande, o vil? Muori, e il saprai.

FOSCOLO, son. VII (1803) [1824]

Solcata ho fronte, occhi incavatì intenti,

crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto,

labbro tumido acceso, e tersi denti,

capo chino, bel collo e largo petto;

giuste membra, vestir semplice, eletto (1);

ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti;

sobrio, umano, leal, prodigo, schietto ;

avverso al mondo, avversi a me gli eventi:

talor di lingua, e spesso di man prode;

mesto i più giorni e solo, ognor pensoso,

pronto, iracondo, inquïeto, tenace:

di vizi ricco e di virtù, do lode

alla ragion, ma corro ove al cor piace:

morte sol mi darà fama e riposo.

(1) < vestir mondo e negletto

Solcata ho fronte, occhi incavati intenti,

crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto,

tumidi labbri ed al sorriso lenti,

capo chino, bel collo, irsuto petto;

membra esatte; vestir semplice, eletto;

ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti;

sobrio, ostinato, uman, prodigo, schietto,

avverso al mondo, avversi a me gli eventi.

Mesto i più giorni e solo, ognor pensoso;

alle speranze incredulo e al timore,

il pudor mi fa vile e prode l'ira:

cauta in me parla la ragion; ma il cuore,

ricco di vizj e di virtù, delira .

Morte, tu mi darai fama e riposo (1).

(1) < (1808) forse da morte avrò…

28

Poesie, edd. Pisa1 ePisa

2, 1803, son. II:

Che stai? già il secol l'orma ultima lascia;

dove del tempo son le leggi rotte

precipita, portando entro la notte

quattro tuoi lustri e obblio freddo li fascia.

Che se vita è l'error, l'ira, e l'ambascia,

troppo hai del viver tuo l'ore prodotte;

or meglio vivi e con fatiche dotte

a chi diratti antico esempi lascia.

Figlio infelice, e disperato amante,

e senza patria, a tutti aspro e a te stesso,

giovine d'anni e rugoso in sembiante,

che stai? nè siegui omai che t’è concesso

questa ch’ è duce alle incerte tue piante,

larva di gloria '? E già morte t’ è appresso.

Poesie, edd. Milano, Destefanis e Milano, Nobile, 1803, son. XII:

Che stai? già il secol l'orma ultima lascia;

dove del tempo son le leggi rotte

precipita, portando entro la notte

quattro tuoi lustri e obblio freddo li fascia.

Che se vita è l'error, l'ira, e l'ambascia,

troppo hai del viver tuo l'ore prodotte;

or meglio vivi, e con fatiche dotte

a chi diratti antico esempi lascia.

Figlio infelice, e disperato amante,

e senza patria, a tutti aspro e a te stesso,

giovine d'anni e rugoso in sembiante,

che stai? breve è la vita, e lunga è l'arte;

a chi altamente oprar non è concesso

fama tentino almen libere carte.

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Poesie 1803

Ed. Pisa1 ePisa

2, 1803

1) Non son chi fui

2) Che stai?

3) Te nudrice alle Muse

4) E tu ne’ carmi avrai

5) Perché taccia il rumor

6) Così gl’interi giorni

7) Meritamente, però ch’io potei

8) Solcata ho fronte

Ode A Luigia Pallavicini

Ed. Milano, Destefanis, aprile 1803

Ode A Luigia Pallavicini

Ode All’amica risanata

1) Forse perché

2) Non son chi fui

3) Te nudrice alle Muse

4) Perché taccia il rumor

5) Così gl’interi giorni

6) Meritamente, però ch’io potei

7) Solcata ho fronte

8) E tu ne’ carmi avrai

9)Né più mai toccherò

10) Pur tu copia versavi

11) Che stai?

Ed. Milano, Nobili, agosto 1803

Ode A Luigia Pallavicini

Ode All’amica risanata

1) Forse perché

2) Non son chi fui

3) Te nudrice alle Muse

4) Perché taccia il rumor

5) Così gl’interi giorni

6) Meritamente, però ch’io potei

7) Solcata ho fronte

8) E tu ne’ carmi avrai

9)Né più mai toccherò

10) Un dì s’io non andrò

11) Pur tu copia versavi

12) Che stai?

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5. FOSCOLO, Considerazioni sulla poesia lirica [1811]

La definizione che prima i filosofi e poscia i facitori di poetiche diedero della poesia lirica è

forse la più esatta di quante abbiamo in letteratura: la poesia lirica canta con entusiasmo le lodi de’

numi e degli eroi. La religione ed i fasti delle nazioni furono i primi ad ottenere per mezzo della

poesia lirica monumenti perpetui dalla letteratura; da che questa poesia emanò non tanto dalle tarde

istituzioni sociali, quanto dall’entusiasmo naturale alla mente dell’uomo, e non frenabile quasi,

quand'è mosso da forti e perpetue passioni.

Finché gli uomini non avevano se non se il canto, tutta la loro storia e le loro leggi religiose e

politiche dovevano necessariamente trovarsi nella tradizione delle loro canzoni. […]

Come la poesia lirica fu prima a nascere, cosi anche pare che sia stata la prima a degenerare.

L’entusiasmo nelle nazioni si va mortificando a misura che crescono le arti fondate sul raziocinio e

sul calcolo. Quindi la poesia lirica, anzi che sgorgare con impeto dell’animo de’poeti, venne

faticosamente finta con un entusiasmo compassato e fittizio.[……] In sì fatta condizione di tempi

[si riferisce all’età Augustea], l’entusiasmo non può mostrarsi senza essere deriso e punito; si

scrivono satire piene di sale, elegie piene di vezzi e d’amore; ma poche belle odi e pochissime odi

sublimi.

La poesia lirica fu dagli scrittori di poetica e da’ poeti stessi confusa con la amorosa, che

Alessandro Tassoni nelle note al Petrarca [1609-1611], chiama più esattamente col nome di poesia

melica, e con la poesia morale, di cui gli esempi migliori sono ne’ versi d’Orazìo.

Un madrigale, un epigramma e una sentenza filosofica, perché erano scritti in versi lirici, furono

chiamati ode. Si trascurò l’essenza e si badò alla forma esteriore. Nella letteratura italiana questa

confusione di generi andò crescendo ognor più. I canzonieri de' poeti si chiamarono libri di poesia

lirica: i sonetti d’amore e le canzoni propriamente italiane (cosi dette, per distinguerle dalle

Pindariche e dalle altre fatte alla latina e alla greca) non sono se non elegie, e furono collocate nel

genere lirico. Ma a ben considerare le poesie del Petrarca, le canzoni veramente liriche sono quelle

ov’ei tratta delle cose politiche d’ltalia, e le poche ove idoleggia le idee sublimi della filosofia

d’amore. Ma le canzoni : Chiare, fresche, dolci acque; Di pensier in pensier, di monte in monte e le

altre molte di questa specie, sono piuttosto elegie o vanno poste, secondo 1’avviso del Tassoni, nel

genere melico. Gli Amori del Savioli sono chiamati poesia lirica; ma in che mai differiscono

dall’elegie di Properzio e d’Ovidio?

[…] Noi italiani viviamo nell’affanno e nella confusione dell’abbondanza ; ma chi volesse sceverare

dagl’ infiniti nostri canzonieri, da Dante sino all’Alfieri, le poesie veramente liriche, appena ne

ritrarrebbe un mediocre volume.