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7/29/2019 Piccola Storia Italia Artistica Nel Primo 900 http://slidepdf.com/reader/full/piccola-storia-italia-artistica-nel-primo-900 1/23  1 Piccola storia dell’Italia artistica nel primo ’900.  Dal Futurismo all’Astrazione attraverso i realismi di novecento.  Qualche passo all’indietro: i primi segni del cambiamento Per raccontare la storia dell’arte italiana dei primi cinquant’anni del XX secolo si potrebbe prendere spunto da una frase lapidaria ma pregna di significato di Robert Hughes 1 a proposito del Futurismo, il primo grande movimento italiano d’avanguardia, che nel nostro Paese inaugurò l’avvento del Ventesimo secolo. Scrive Hughes, con la sua acuta penna:  Probabilmente i futuristi non avrebbero amato tanto il futuro se non fossero venuti da un  paese tecnologicamente arretrato come l’Italia”, e, si potrebbe completare la frase, da un paese che da soli trent’anni aveva raggiunto una stabilità nazionale e indipendente (1870), dunque da un Paese che aveva intrapreso la propria gara con la modernità quasi a ridosso del secolo XX. Con una parte del proprio territorio, quella situata a sud di Roma, in uno stato d’endemica arretratezza, governato dalle più inique leggi del latifondo, e una parte invece, quella a Nord, più vitale e intraprendente, pronta alla riconversione della propria economia rurale in un sistema produttivo industriale, l’Italia post-unitaria manifesta anche attraverso l’arte e l’impegno degli artisti, la sua forte volontà di cambiamento. Ma se ciò avverrà primariamente con il Futurismo, a partire dunque dal 1909, segnali largamente positivi si avvertirono già sul finire del secolo precedente. Per comprendere il significato della poetica futurista, degli strumenti e delle azioni che i suoi protagonisti misero in campo nel loro riuscitissimo tentativo di svecchiamento dell’arte italiana, è necessario dunque fare qualche passo all’indietro nel tempo per spiegare i forti legami che unirono i futuristi alla tradizione artistica italiana della fine Ottocento e, in senso più ampio, alle novità che anche nel nostro Paese arrivarono dalle imprese più significative della pittura europea, francese (impressionismo, pointillisme, simbolismo) e tedesca (Jugendtil e Sezession) in particolare. Infatti, fu proprio nel corso del secolo diciannovesimo, oggi ricordato dalla critica come il secolo della luce degli impressionisti- ma si dovrebbe aggiungere, cosa assai più importante per l’evoluzione dell’arte italiana, anche secolo del romanticismo e del simbolismo- che in Italia si crearono le condizioni per l’avvento della rivoluzione futurista. Il futurismo nacque in continuità e non in rottura con l’arte del passato, del movimento Divisionista in particolare, un movimento pittorico che cronologicamente di poco lo precedette e che, a sua volta, fu pacifica continuazione delle esperienze della Scapigliatura

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Piccola storia dell’Italia artistica nel primo ’900.  Dal Futurismo all’Astrazione attraverso i realismi di novecento. 

Qualche passo all’indietro: i primi segni del cambiamento

Per raccontare la storia dell’arte italiana dei primi cinquant’anni del XX secolo si potrebbe

prendere spunto da una frase lapidaria ma pregna di significato di Robert Hughes 1 a

proposito del Futurismo, il primo grande movimento italiano d’avanguardia, che nel nostro

Paese inaugurò l’avvento del Ventesimo secolo. Scrive Hughes, con la sua acuta penna:

” Probabilmente i futuristi non avrebbero amato tanto il futuro se non fossero venuti da un

 paese tecnologicamente arretrato come l’Italia”, e, si potrebbe completare la frase, da unpaese che da soli trent’anni aveva raggiunto una stabilità nazionale e indipendente (1870),

dunque da un Paese che aveva intrapreso la propria gara con la modernità quasi a ridosso del

secolo XX.

Con una parte del proprio territorio, quella situata a sud di Roma, in uno stato d’endemica

arretratezza, governato dalle più inique leggi del latifondo, e una parte invece, quella a Nord,

più vitale e intraprendente, pronta alla riconversione della propria economia rurale in un

sistema produttivo industriale, l’Italia post-unitaria manifesta anche attraverso l’arte e

l’impegno degli artisti, la sua forte volontà di cambiamento. Ma se ciò avverrà primariamente

con il Futurismo, a partire dunque dal 1909, segnali largamente positivi si avvertirono già sul

finire del secolo precedente.

Per comprendere il significato della poetica futurista, degli strumenti e delle azioni che i suoi

protagonisti misero in campo nel loro riuscitissimo tentativo di svecchiamento dell’arte

italiana, è necessario dunque fare qualche passo all’indietro nel tempo per spiegare i forti

legami che unirono i futuristi alla tradizione artistica italiana della fine Ottocento e, in senso

più ampio, alle novità che anche nel nostro Paese arrivarono dalle imprese più significative

della pittura europea, francese (impressionismo, pointillisme, simbolismo) e tedesca

(Jugendtil e Sezession) in particolare.

Infatti, fu proprio nel corso del secolo diciannovesimo, oggi ricordato dalla critica come il

secolo della luce degli impressionisti- ma si dovrebbe aggiungere, cosa assai più importante

per l’evoluzione dell’arte italiana, anche secolo del romanticismo e del simbolismo- che in

Italia si crearono le condizioni per l’avvento della rivoluzione futurista.

Il futurismo nacque in continuità e non in rottura con l’arte del passato, del movimento

Divisionista in particolare, un movimento pittorico che cronologicamente di poco lo

precedette e che, a sua volta, fu pacifica continuazione delle esperienze della Scapigliatura

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lombarda, di autori come Tranquillo Cremona e Daniele Ranzoni (fig. 1,2) e delle forse più

note ricerche dei pittori Macchiaioli toscani, capeggiati da Giovanni Fattori (fig.³) e dalle idee

di Diego Martelli, che faceva la spola tra Francia e Italia, assolvendo al grato compito di

mettere in contatto gli artisti italiani con le più avanzate ricerche sulla percezione luministica

francesi.

Due esperienze, quella della scapigliatura e dei macchiaioli, che videro la luce nel pieno del

XIX secolo, maturate indicativamente nell’arco cronologico compres tra il 1855 e il 1870,

entrambe fuoriuscite dal grembo del romanticismo e che per prime avviarono nel campo

della pittura italiana la ricerca “del vero”, aprendo lo spazio del quadro alla rappresentazione

di una nuova concezione del paesaggio, inteso nella sua “naturalezza” luministica ed

atmosferica, ma anche sensibili a soggetti più impegnativi dal punto di vista del loro

contenuto di reportage sociale. E sarà proprio l’attitudine all’indagine socio-umanitaria, in

linea con le teorie anarchico-socialiste diffuse in Italia da molta letteratura politica alla fine

del XIX secolo, frammiste alla rilettura delle idee di Ruskin, proposte dal mentore delDivisionismo, il pittore Vittore Grubicy de Dragon, mercante e teorico del movimento, a

diventare uno degli aspetti più fortemente distintivi del divisionismo italiano, in questo assai

diverso rispetto al neoimpressionismo francese2, che per sua stessa natura sembra essere

stato un movimento più predisposto all’indagine analitica, “scientifica“ della visione che a

questioni di natura interpretativa in chiave esistenziale della realtà. Ed anche quando l’uso

della tecnica “divisa”, per filamenti sottili e ravvicinati di colore puro, di primari e

complementari, tecnica ampiamente sperimentata dai pittori italiani, da Pellizza a Morbelli,

da Previati a Segantini, farà sembrare più vicina l’Italia alla Francia, sarà solo un

fraintendimento o un vizio di lettura critica di due fenomeni radicalmente differenti.3 

Infatti, la ricerca del  pointillisme francese fu espressione di quella natura meditativa e

razionale di concepire l’arte come esercizio continuo sulle potenzialità stesse del fare pittura,

dunque di riflessione per così dire “interna” alla pittura stessa, sugli strumenti che le erano

propri come colore, spazio, luce, materia, atmosfera, percezione. Per il divisionismo italiano,

diversamente, si deve parlare di una ricerca artistica intesa anche e soprattutto come mezzo

d’indagine sulla natura stessa delle cose, aperta alla rappresentazione sociale della realtà,

capace di raccontare la storia del disagio quotidiano delle classi meno abbienti, dalla giovane

classe operaia a quella dei lavoratori della terra, che divennero soggetti tra i più rappresentati

nella pittura italiana fine Ottocento. Una pittura in grado anche di partecipare al sentimento

cosmico della Natura, che, soprattutto nell’opera di Giovanni Segantini, si materializza nelle

sembianze più umili della vita quotidiana, affermando così il potere evocativo e simbolico

delle “cose semplici”, fonte di verità e di bellezza.

Lo spirito nuovo del futurismo italiano nascerà direttamente dalle ceneri ancora accese

dell’esperienza divisionista. E’ dato innegabile, infatti, che le figure di maggior spicco del

gruppo storico del Futurismo, da Boccioni a Carrà, da Balla a Severini, da Russolo a Sironi,

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proprio nei fondamenti scientifici della sperimentazione divisionista, nel suo linguaggio

aperto alla più completa rivoluzione della tecnica, nella nuova sensibilità per la storia,

trovassero la base teorica di quello spirito di modernità, che fu la fonte viva della prima

avanguardia italiana del ‘900. Il passaggio di testimone tra divisionismo e futurismo avvenne

in una data, il 1909, in cui la parabola del divisionismo italiano era entrata già da tempo in

fase calante, ma i nomi di pittori come Pellizza, Morbelli, e Segantini, con alcuni dei loro

capolavori, Fiumana,  Il Natale dei rimasti ,  La raccolta del fieno (fig. 4,5,6), non possono

essere tralasciati quando si parli della forza rinnovatrice della pittura futurista.

 Intermezzo prefuturista

Il forte legame con il passato si avverte con evidenza nelle opere dipinte dai giovani Boccioni,

Carrà e Severini all’esordio della loro carriera artistica, all’incirca tra il 1903 e il 1908.

E’, su tutti, buon esempio di questo legame il bellissimo quadro dipinto in Russia da Boccioni

nel 1906, intitolato Ritratto di Sophie Popoff (fig. 7)

Un quadro che rappresenta il passaggio tra la tradizione e il nuovo, nuovo che prende avvio

dagli strumenti propri dei pittori divisionisti, in particolare l’uso della pittura “divisa” e, più

in generale, dalla comune propensione per la ricerca luministica, vista come possibile fonte

dinamica della rappresentazione. Un quadro assai significativo anche perché racconta

dell’anima cosmopolita dei giovani artisti italiani dell’epoca, che maturarono i propri

convincimenti teorici attraverso i lunghi e continui viaggi all’estero e i preziosi contatti

internazionali.La storia del ritratto di Sophie Popoff inizia nel 1906, quando Boccioni si reca a Parigi. Il 17

aprile scrive alla madre: “  Sono in una città addirittura straordinaria. Qualche cosa di 

mostruoso, di strano, di meraviglioso” . Ricorda le migliaia di carrozze e le centinaia di

omnibus, tramvai a cavalli, elettrici a vapore, i grandi sotterranei illuminati a luce elettrica

della metropolitana, i cabaret, i caffè brulicanti , le insegne, le réclames, gente che corre, ride,

donne tutte dipinte con colori vivissimi. “Vorrei portar via un quadro di tale spettacolo” è la

conclusione della sua lettera, nella quale già si avverte l’ansia di modernità del Boccioni

futurista. Ma la sua pittura non è ancora al passo con le sue idee e le sue sensazioni.4 Più

propenso ad una ricerca di solide volumetrie, rese secondo la tecnica divisionista, ma con

nella memoria ancora viva l’influenza dell’opera di Gaetano Previati, tra tutti i pittori

divisionisti italiani quello decisamente più simbolista, Boccioni a Parigi è fortemente attratto

dalle poetiche impressioniste e post-impressioniste, con i cui principi teorici si confronterà

apertamente per lungo tempo, almeno fino alla redazione del Manifesto Tecnico della Pittura

Futurista del 1910. Ed è in questo clima di grande fermento e di grande curiosità che a Parigi

conosce e frequenta Augusta Petrovna Popoff, una colta signora russa, sposata Berdnicoff.

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Invitato dai Berdnicoff, Boccioni intraprende un lungo viaggio in Russia. Lascia Parigi alla

fine dell’estate del 1906 e visita le città di Mosca e San Pietroburgo. Al suo rientro passerà

anche da Varsavia. Soggiorna a Tzaritzin (poi Stalingrado?) in casa Popoff, come si apprende

da una fotografia che lo ritrae insieme ai suoi ospiti sulla veranda della casa. Sulla fotografia

si legge la scritta “Russia-Tzaritzin Casa Popoff 1906”. Proprio a Tzaritzin dunque egli

dipinge la grande tela con il ritratto della signora Popoff, raffigurata intenta a cucire, seduta

davanti ad una finestra. La luce filtra attraverso i vetri e si riverbera sulle mani della donna,

illuminando il suo operoso lavoro. L’uso della tecnica divisa, congiunto alla ricerca

luministica, fanno di questo quadro un dipinto “di passaggio”, di grande interesse per la

storia personale di Boccioni, nel quale si può cogliere la complessità straordinaria della sua

formazione, che si misura con quanto di meglio in Europa si era realizzato nell’ambito della

pittura. La sua preparazione artistica è uno straordinario miscuglio di simbolismo,

espressionismo e divisionismo, e gli accenti più forti anche in quest’opera sembrano ancora

derivargli da un lato dalle cupe atmosfere delle composizioni di Munch, conosciute attraversoPreviati, e dall’altro dalle teorie sulle forze dinamiche dell’azione e della visione, che aveva

 visto praticare a Parigi da Seurat, ma di cui sicuramente Carrà per primo gli aveva parlato.

Il primo contatto tra artisti italiani e ambiente russo dell’epoca contemporanea avviene

dunque, quasi silenziosamente, attraverso il pennello del più geniale pittore italiano del

Futurismo, con alcuni anni d’anticipo rispetto al viaggio di Filippo Tommaso Marinetti.

 Futurismo

Se è vero che il tratto distintivo del Divisionismo rispetto alle coeve poetiche europee,

francesi in particolare, va ricercato in una concezione della pittura marcatamente socio-

umanitaria e spiritualistica, fu altrettanto vero il fatto che il futurismo, erede naturale delle

“nuove idee” di questo movimento, seppe portare a legittima conclusione il processo di

cambiamento avviato in seno al divisionismo, con un intervento radicale e definitivo per

quanto riguarda sia la questione fondamentale della rappresentazione del mondo attraverso

il medium della pittura “divisa”, sia quella altrettanto importante che atteneva al ruolo

dell’artista nella società italiana del primo ‘900, sia, infine, a quella relativa al senso e alla

funzione stessa dell’arte in una società passatista e conservatrice come quella in cui maturò

ed esplose, come uno dei primi fenomeni di massa, l’avanguardia futurista.

Il futurismo fu l’invenzione di Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), che raccolse e

 valorizzò istanze di rinnovamento già in atto nel gruppo dei giovani artisti italiani, milanesi,

romani e fiorentini in particolare.

Poeta e letterato geniale nato ad Alessandria d’Egitto nel 1876, vissuto a lungo tra Parigi e

Milano, città dove non a caso erano sorte le prime industrie e dove il progresso era apparso

come un risultato facile e raggiungibile, Marinetti visse e disseminò il “credo” futurista in

tutta Europa, condividendo con moltissimi artisti, assetati di novità e di voglia di

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cambiamento, le idee rivoluzionarie contenute nei vari manifesti teorici, sottoscritti a partire

dal 1910 dai protagonisti principali del movimento, in primis dal gruppo così detto storico,

della “prima ora”, Boccioni, Russolo, Carrà, Severini, Balla e, successivamente, anche da

 Antonio Sant’Elia, Fortunato Depero, Enrico Prampolini, Ardengo Soffici e molti altri ancora

come i giovanissimi Tullio Crali, Renato Bertelli e Ernesto Thayath, che al futurismo

aderiranno nella stagione estrema degli anni Trenta.

Dotato di rara intelligenza, sposata ad una spericolata e indomita voglia di vivere e ad un

egocentrismo difficile da imitare, Marinetti fu senz’ombra di dubbio l’artefice di uno dei più

interessanti casi di partecipazione di massa ad un progetto culturale, il futurismo appunto,

generato dalla sua mente febbricitante in una serata parigina, il 20 febbraio del 1909, e

promulgato come un editto dalle pagine del quotidiano francese “Le Figaro”. A lui accorsero

da subito tutti i pittori italiani della più giovane generazione -se si esclude il caso di Balla, che

all’epoca della sua adesione al futurismo aveva quasi quarant’anni ed era già stato maestro di

Boccioni e Severini- quella che aveva pur genericamente imboccato la strada dellasperimentazione divisionista e che proprio nella poetica sovversiva del futurismo trovò libero

campo d’azione per la propria voglia, anche utopistica, di cambiamento dell’arte e della

società tutta. A lui accorse anche gran parte dell’opinione pubblica italiana, che lui stesso

seppe coinvolgere grazie ad un’attività indefessa di “marketing culturale”, che trovò risposta

alternativamente nel disprezzo dei passatisti e nell’orgoglio di chi nel futurismo vide il

riscatto dell’arte italiana sulla egemonia francese del secolo appena passato.

Marinetti, per sua stessa affermazione l’uomo più moderno d’Italia, era nato da una cultura

che faceva nello stesso tempo capo al dandismo decadente del poeta Gabriele D’Annunzio e

all’amore adorante per la tecnologia, vera medicina del mondo. Marinetti, soprannominatosi

“caffeina d’Europa”, intraprese un’attività frenetica di pubbliche relazioni con i gruppi

dell’avanguardia internazionale interessati alle teorie del futurismo. Oltre a Parigi, dove

partecipò a confronti incandescenti con letterati e poeti, Marinetti, si recò in Russia, dove

soggiornò dal 26 gennaio al 15 febbraio del 1914, invitato da Genrich Tasteven, delegato russo

della Società delle grandi Conferenze di Parigi, per stringere rapporti amichevoli e fare del

proselitismo a favore delle teorie futuriste italiane5. In Russia, cosa ben nota, il futurismo

aveva avuto già da alcuni anni una buona e del tutto autonoma affermazione grazie all’opera

di alcuni gruppi attivi nelle grandi città, capeggiati da artisti come Sersevenic (Mosca),

Severjanin, Ignat’ev (Pietroburgo). L’arrivo di Marinetti, fu per alcuni entusiasmante, per

altri, come per il giovane Larionov, fu degno di un “tiro di uova marce”. I cubo-futuristi

Majakovskij, Burljuk e Kamenskij molto diplomaticamente scelsero di rimanere lontani da

Mosca, impegnati in una tournée già intrapresa. A Pietroburgo, pur in serate conviviali, non

mancarono, e furono anzi molto vivaci, gli scontri sul valore della poesia futurista italiana

declamata da Marinetti, considerata dai russi assai poco convincente rispetto alla loro più

avanzata sperimentazione in campo poetico e letterario. Questo viaggio favorì ciò nonostante

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la nascita di nuove relazioni internazionali e di nuovi rapporti tra gli artisti. Primo

importante risultato del viaggio in Russia di Marinetti, fu infatti la partecipazione di

 Archipenko, Kulbin, Exter e Rozanova all’Esposizione Libera Futurista Internazionale

organizzata nell’aprile maggio del 1914 a Roma, nella Galleria futurista di Giuseppe Sprovieri.

Con i russi esponevano, tra gli altri, Fortunato Depero, lo stesso Marinetti, Giorgio Morandi

(pittore che partecipò per un tempo brevissimo al futurismo), Enrico Prampolini, Mario

Sironi. Questo primo incontro aprì la strada a nuovi importanti rapporti e scambi 6 tra i

futuristi italiani e l’avanguardia russa ed in particolare tra Alexandra Exter ed Ardengo

Soffici, la cui opera rappresenterà l’esempio più interessante di contiguità culturale tra i due

futurismi. (fig. 8,9).

 Altrettanto importanti per l’affermazione delle idee futuriste furono i contatti avuti da

Marinetti con la più vicina Svizzera, forieri d’importanti novità per le teorie del costituendo

gruppo Dada, che nel 1916 accolse e rielaborò molti spunti della poetica futurista italiana,

dalla poesia sintetica al verso libero, dalla sintassi all’uso “politico” della polemica.Il grande nemico di Marinetti, come di tutti i pittori aderenti al futurismo, fu il passato, la

storia, la memoria. Sotto la scure dei suoi pamphlet e dei molti manifesti teorici caddero via

 via veri e propri oggetti “di culto” della tradizione passata. Condannò l’arte del Rinascimento

tanto quanto il tango, la musica di Wagner e gli spaghetti così come la Venezia romantica e

nostalgica e l’amore per il chiaro di luna.

Il nome dato al movimento fu anch’esso una sua invenzione: un nome che felicemente si

adattava ad indicare, pur genericamente ma per questo ancora più efficacemente, quella fede

assoluta per le nuove tecnologie, per la macchina in particolare, che in tutta la concezione

estetica futurista risulterà come il vero motore del cambiamento, la leva per l’avvento della

rivoluzione sociale e culturale nell’intera Europa (cosa che di fatto avvenne, ma non nel senso

sperato dai futuristi).

I pittori futuristi della prima ora, quelli firmatari del Manifesto del 1910 e del successivo

Manifesto Tecnico, Boccioni, Carrà, Russolo, Severini, Balla furono animati, in violenta

polemica con il passatismo culturale borghese, da una concezione vitalistica, che faceva capo

alla filosofia di Bergson ma anche a quella di Nietzsche, in un’alternanza di slanci vitali verso

il futuro e di frenate nell’eroismo ancora romantico del superuomo, che alla fine decretò la

morte (solo apparente) dell’ideale classico, delle accademie, delle scuole di nudo e di

quant’altro aveva prodotto la misura di Apollo nel corso dei secoli precedenti.

Si rinnovarono i temi e i soggetti dei quadri, che diventarono il teatro ideale per la

rappresentazione dei nuovi miti contemporanei: la città industriale innanzitutto, con la sua

folla brulicante, i cantieri rumoreggianti e i tram in continuo movimento, con i suoni, le luci, i

rumori e la velocità, che bene rappresentava il ritmo frenetico della vita moderna, della città

che sale, dello sferragliare dei tram lungo i binari incandescenti, delle luci di strada e del

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movimento del chiaro di luna, del ticchettio dei ballerini sul palco del cabaret, perfino del

 profumo e degli stati d’animo, che tanto audacemente essi vollero raffigurare.

Per dipingere questi nuovi temi, i futuristi presero in prestito dal divisionismo la tecnica della

scomposizione del colore, tecnica che aveva il vantaggio di cogliere, grazie alla velocità dei

tocchi, il senso dinamico della vita in movimento, la frenesia e il sovrapporsi delle forme e

delle luci nella nuova percezione e visione del mondo moderno.

L’uso della tecnica divisionista- definita “complementarismo congenito” per la presenza

appunto dei colori complementari- fu per tutti i pittori futuristi un valore espressivo

irrinunciabile, che permetteva di innalzare “alle più radiose visioni di luce”, anche le più cupe

ombre del quadro.

E il pubblico? Secondo quanto scrivono gli stessi futuristi nei cataloghi delle prime

esposizioni (1912)7 “il pubblico deve convincersi che per comprendere delle sensazioni

estetiche alle quali non è abituato, deve dimenticare completamente la propria cultura

intellettuale, non per impadronirsi dell’opera d’arte, ma per abbandonarsi ad essa”: unadichiarazione d’intenti davvero all’avanguardia, che troverà consenso e piena condivisione in

epoca a noi più recente, ma che già in quel tempo produsse un radicale cambiamento nel

concetto apparentemente immutabile del “vedere l’arte”.

 Agli spettatori si presenta infatti la possibilità di fare grazie all’arte un’esperienza del tutto

nuova, che li pone, come scrisse Boccioni, al centro del quadro, ovvero al centro di una

rappresentazione nella quale, grazie alla simultaneità spazio-temporale, è possibile cogliere la

sintesi di ciò che si ricorda e di ciò che si vede, vivere lo stato d’animo psicologico, che si

coglie nel continuum di scene esterne ed emozioni interne, ed infine percepire la nuova realtà

del tempo moderno, che si mostra non più come un insieme ordinato e sequenziale di oggetti,

ma piuttosto come un assemblage frammentario di forme, di luci e di colori, governato dal

dinamismo delle linee-forza, moltiplicatrici straordinarie delle ombre e delle luci, dei pieni e

dei vuoti, delle pause e dei rumori, che caratterizzano appunto la visione futurista del mondo.

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 Epilogo futurista

Boccioni, il più grande interprete del futurismo, arruolatosi nel 1915, morì tragicamente

cadendo da cavallo il 16 agosto del 1916. Con la sua morte sembrò che il futurismo fosse

giunto alla stazione finale. Diversamente, oggi sappiamo che già nel corso della prima

stagione futurista, quella che va dal 1909 alla metà del 1916, si preparò un’agguerrita

successione, a conferma del grido di Marinetti “ I vivi, i vivi soltanto sono sacri. Il Futurismo

malgrado l’immensa spaventosa scomparsa del povero Boccioni e di tanti altri è più vivo

che mai!”  

Poco più di sei anni separavano il tragico 16 agosto del 1916, segnato dal lutto della morte

accidentale di Boccioni, dalla redazione del Manifesto dei pittori futuristi (11 febbraio 1910) e

dal più corposo  La Pittura futurista,   Manifesto tecnico (11 aprile 1910), scritti che

contribuirono a dare una organica definizione a quel getto continuo di pensieri, idee,

proponimenti, abbozzi di teoria che era stato felicemente cantato da Marinetti nella fatidicanotte dell’11 febbraio 1909 e poi surriscaldato fino ad alte temperature nelle discussioni degli

attori principali di questo primo atto della storia del futurismo, di Boccioni, Carrà, Russolo,

Balla e Severini in particolare.

In quei sei anni molti però erano stati i cambiamenti, le virate e perfino le abiure di artisti,

che associati al movimento avevano poi intrapreso strade diverse. Pensiamo per esempio a

Romolo Romani e Aroldo Bonzagni, futuristi della prima ora, tra i firmatari del manifesto

dell’11 febbraio del ‘10, subito scomparsi dalla vita attiva del movimento, o alla brevissima

parentesi futurista dell’allora poco più che ventenne Giorgio Morandi, del cui sperimentare

conosciamo oggi solo pochissime e rare testimonianze, o, pensiamo ancora alle “parole in

libertà” pubblicate nel 1914 su Lacerba con lo pseudonimo  Massimo Campigli dal berlinese

Max Hielenfeld, che nel 1915 veniva incluso da Papini e Soffici tra i seguaci del futurismo, ma

che, dopo il lungo periodo di guerra e la prigionia, nel 1919, alla ripresa del suo lavoro di

pittore già rivolge altrove la sua ricerca. Ricordiamo anche il caso di Carrà, Sironi, Soffici,

tutti e tre già sul finire del secondo decennio impegnati in ricerche di segno opposto,

nell’ambito di quel rappel a l’ordre che condizionerà la vita artistica italiana ed europea degli

anni Venti e Trenta.

Ma il futurismo faticherà a morire e molte stagioni ancora ricche d’invenzioni seguirono la

morte di Boccioni. Diversamente da altre avanguardie europee, esso aveva infatti prodotto

degli antidoti potenti per contrastare la propria fine e questi antidoti innanzi tutto furono il

 vitalismo febbrile e incessante di Marinetti e poi, ma non in second’ordine, l’impegno teorico

contenuto nelle dichiarazioni di poetica dei vari manifesti e in particolare in quello della

 Ricostruzione futurista dell’Universo, scritto nel 1915 da Giacomo Balla e Fortunato Depero

con la supervisione di Marinetti. Il Manifesto della  Ricostruzione conteneva la prima

teorizzazione in epoca contemporanea del binomio arte/vita, un binomio che se aveva avuto

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illustri precedenti soprattutto nella cultura mitteleuropea dell’opera d’arte totale e delle

 Wienerwerkstatte, appariva del tutto nuovo nella cultura italiana d’avanguardia del tempo.

“Noi futuristi Balla e Depero”- si legge nel Manifesto- “vogliamo realizzare questa fusione

totale (di arte e vita) per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente”.

Il manifesto fu in sostanza espressione di un’utopistica volontà di far agire massicciamente lanuova estetica futurista dentro la vita quotidiana, traducendo gli ideali dell’avanguardia in

tutte le discipline. Dall’arte alla decorazione d’interni, dall’architettura al design, dalla cucina

alla letteratura, dalla grafica pubblicitaria alla moda, dalla poesia al teatro, ogni attimo e luogo

della vita dell’uomo moderno avrebbe dovuto rispondere ai canoni estetici del futurismo. Il

tentativo di invadere la  vita d’ogni giorno, con una volontà eversiva di rinnovamento radicale

delle forme e dei contenuti, si fece forte di un repertorio immaginario fantastico a larghissimo

spettro, dove ogni artista coniugò la propria individualità, le più disparate tradizioni culturali

e linguistiche, le più diverse origini culturali. Enrico Prampolini, con i già ricordati Balla e

Depero, fu senza dubbio l'artefice di questo nuovo corso dell'estetica futurista, che negli anni

 Venti trovò espressione in molteplici esperienze, da quelle più propriamente meccanicistiche,

rivolte alla ricognizione di oggetti e di congegni meccanici appunto, rappresentati con un

linguaggio quasi funzionale, si pensi alle esperienze largamente costruttiviste di Nicolaj

Diulgheroff, a quelle più apertamente fantastiche di Depero, che con la sua fantasia invase la

sfera del magico, dello psicologico, del metafisico, a quelle, infine, dell’aeropittura, che

soprattutto con Tullio Crali, fece scoprire la vertigine del volo come manifestazione estrema

dello spirito indomito del futurismo, nuove visioni, nuove percezioni della realtà, nuove

sensazioni del mondo visto dall’alto.La declinazione del futurismo in arte meccanica e aeropittura fu a tutti gli effetti il risultato

più interessante di questa volontà d’interazione di arte e vita, che perpetuerà, almeno fino

alla morte di Marinetti, avvenuta nel 1944, lo sforzo di molti pittori italiani verso un’ideale di

rinnovamento della pittura che, pur superato dagli eventi del Ventennio fascista dominato in

pittura dal ritorno alla figurazione classica, concederà comunque ai proprio autori ancora

largo spazio e grande visibilità nell’ambito delle esposizioni italiane del tempo, dalle mostre

sindacali regionali alle grandi manifestazioni nazionali e internazionali come la Triennale di

Milano, la Quadriennale di Roma, la Biennale di Venezia.

Oltre l’avanguardia

 Alla metà del secondo decennio del XX secolo in tutta Europa, quasi in coincidenza

cronologica con alcuni dei più trasgressivi movimenti dell’avanguardia, e per mano di artisti

che di questi movimenti erano stati parte attiva, dal cubismo al dadaismo,

dall’espressionismo al futurismo, soffiò il vento di un nuovo classicismo, annunciato da opere

diventate simbolo di quell’inversione di linguaggio, o, meglio sarebbe dire, di quella

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conversione “al concreto, al semplice, al definitivo” di cui parlerà alcuni anni più tardi

Margherita Sarfatti, la teorica del Novecento italiano.8 

Come non ricordare il “ritorno a Ingres“  di Picasso, con la serie dei piccoli disegni

naturalistici e dei ritratti di Ambroise Vollard e di Max Jacob, dipinti dal pittore spagnolo

 verso il 1915, testimonianza di uno dei “ritorni” più celebri della storia dell’arte del ‘900, o

quello altrettanto significativo del pittore italiano Gino Severini, che nel 1916 dipinse “in una

forma semplice che rammenta i nostri primitivi toscani” il Ritratto di Jeanne e la Maternità? 

Ma quale fu la pittura che deviò il suo corso nel nuovo classico del ’900?

Secondo Franz Roh, il teorico tedesco del realismo magico, tutta la migliore pittura europea,

dal cubismo al futurismo, all’espressionismo, fu interessata da questo “ritorno all’ordine” e la

maggior parte degli autori che avevano propugnato le tesi dell’avanguardia si ritrovarono

 verso la fine del secondo decennio del secolo a ripassare la lezione degli antichi maestri.

Nell’elenco delle tendenze realiste comparse tra la fine dei secondi anni Dieci e i primi anni

 Venti, Roh cita il naturalismo di Derain, il purismo di Ozenfant e Janneret, il classicismo di Valori Plastici, la scuola di Rousseau, il verismo di Dix e Grosz, il nuovo linearismo di

Beckmann e Hofer.9 

 All’origine di questa sorta di diktat neo figurativo, che attribuiva alla pittura una funzione

ermeneutica della realtà profonda attraverso lo studio delle apparenze, stava l’idea del ritorno

inteso non come reazione all’avanguardia, bensì come richiamo dell’antico e del classico alla

contemporaneità.

Scriveva nel 1988 a questo proposito Jean Clair, in un importante saggio dedicato al realismo

magico, che il ritorno della pittura a schemi saldamente legati alla tradizione antica era da

considerare “insito nella vita stessa delle forme”: “[...]non il ritorno automatico, passivo e

nostalgico ai valori sicuri del passato, bensì l’espressione ansiosa, dopo il decennio frenetico

che la storia dell’arte aveva attraversato fra il 1905 e il 1915 [...], del bisogno di fondare l’arte

del dipingere su basi più solide e più stabili”10. 

Che non si fosse trattato di un “ritorno” inteso come restaurazione di uno stile antico,

contrapposto al linguaggio delle avanguardie del primo novecento, lo dimostra l’ampio

dibattito critico, vivacissimo soprattutto in Italia e in Germania, attorno alla definizione della

parola classico, da non intendersi, come spiegava il letterato italiano Massimo Bontempelli,

come una determinazione di tempo, bensì come una categoria spirituale: “classica- scriveva

infatti Bontempelli, profeta della “fine dell’avanguardia” - è ogni opera d’arte che riesca ad

uscire dal proprio e da ogni tempo”.

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Una breve lezione di primitivismo

Metafisica, primitivismo, arcaismo, realismo magico, nuova oggettività, novecento: quante

furono dunque le strade che la figurazione classica percorse tra i secondi anni Dieci e il terzo

decennio del secolo scorso?

Quanti dipinti si potrebbero considerare dei veri e propri tableau drapeau di quel

rinnovamento che, in opposizione ai linguaggi delle avanguardie, allo scorcio del secondo

decennio del secolo tornarono a parlare l’antica lingua dei grandi maestri primitivi italiani, di

Giotto, di Piero della Francesca e di Paolo Uccello, alcuni addirittura ritrovando nuove

suggestioni nel mito delle culture arcaiche e primitive, così come magistralmente rilette da

Picasso- il volto più dionisiaco dell’arte contemporanea- in alcuni tra i suoi più incredibili

dipinti degli anni Dieci, primo fra tutti Les Demoiselle d’Avignon?

Un sintetismo primitivo, che aveva appassionato anche il giovane Amedeo Modigliani,

quando giunse a Parigi nel 1906, e che aveva messo alla prova, suppergiù negli stessi anni, unpo’ tutti i pittori dell’avanguardia, da Apollinaire a Marie Laurencin, da Delaunay a Vlaminck,

da Brancusi a Max Jacob, da Picasso a Max Weber, che nel culto delle antiche civiltà nere, ma

soprattutto nell’opera incorrotta e profondamente ingenua del Doganiere Rousseau, colsero

l’esempio più alto del realizzarsi, nell’attualità della storia contemporanea, di una nuova,

perfetta congiunzione di forma, verità e simbolo.

E proprio a Rousseau va dato merito se rimase accesa nell’arte europea del XX secolo una

fiamma di naivitè arcaica ed innocente, capace di alimentare il cuore di molti artisti moderni,

dai già citati Picasso, Derain, Max Weber, all’italiano Carlo Carrà, che per questa via, spenta

la passione futurista e non ancora domata quella metafisica, ritroverà, verso il 1915, i caratteri

distintivi di una “pittura dell’origine” sua propria, animata da suggestioni e motivi che

richiameranno a nuova vita non solo la tradizione arcaica dei pittori primitivi del Trecento e

Quattrocento ma anche la forza perduta del simbolo.

In Carlo Carrà il ricordo della figurazione primitiva di Rousseau diventerà l’allegoria del

 Fanciullo prodigio, un dipinto del 1915, in cui si è voluto acutamente ravvisare una sorta di

ritratto dell’Artista11, di colui che attraverso la sofferenza dell’età adulta ha ritrovato la

fanciullezza e nella fanciullezza ha riabbracciato il prodigio della Meraviglia, lo sguardo

incontaminato della purezza. Nello spazio senza tempo, dove viaggia  La carrozzella, dipinta

da Carrà nel 1916 o nel primitivismo scarnificato ed enigmatico di  I Romantici, sempre del

1916, si compie la brevissima ma intensa stagione del primitivismo italiano, che volgerà da

queste premesse, verso l’affermazione di quella che il grande critico e storico dell’arte tedesca

Wilhelm Worringer, proprio riferendosi all’opera di Carrà, nel 1921 definì “la misura classica

dell’arte europea”.

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 La misura classica

Se per la maggior parte degli artisti europei il ritorno alla figurazione coincise con un atto di

rinuncia dei postulati teorici e formali delle dottrine dell’avanguardia, ci fu anche chi, come il

grande pittore italiano di origine greca Giorgio de Chirico, sulla strada del classico aveva da

sempre indirizzato la propria ricerca. Il pittore greco dal volto d’Apollo, padre della

Metafisica, aveva fatto la sua scelta fin dai tempi della giovinezza, quando, negli anni di

Monaco, aveva adottato come suoi maestri ideali Bocklin e Klinger, e aveva trovato conferma

alla sua idea di moderno nella scultura antica e nelle regole dell’arte italiana del

Rinascimento.

Fedele ai propri convincimenti, che gli fecero abbracciare da subito la strada di una

figurazione classica, de Chirico fin dall’inizio attese alla vita segreta delle cose e tentò di

rappresentarla nelle sue prime composizioni metafisiche, all’incirca a partire dal 1910,

sebbene l’anno ufficiale di nascita della Metafisica va ricondotto al 1917, quando nella città diFerrara, lì giunti per diverse ragioni, si incontrarono e ne condivisero le formulazioni di

poetica Carlo Carrà, il più giovane Filippo de Pisis,  Alberto Savinio, fratello di de

Chirico e lo stesso de Chirico, che alla metafisica aveva da tempo dedicato il suo cuore e la

mente.

 Et quid amabo nisi quod aenigma est ? era stato infatti il titolo da lui dato molti anni prima

ad un famosissimo autoritratto, opera nella quale il suo volto appare segnato da una

profonda inquietudine, quasi che la capacità di vedere oltre le apparenze, gli rivelasse tutte le

pene della solitudine e della malinconia, proprie dell’uomo contemporaneo. Ogni sua Piazza

d’Italia del resto sarà, nello stesso tempo, luce accecante e ombre inquietanti, visibile e

invisibile che si rincorrono, presente e passato che si congiungono. Se per i futuristi la

relazione tra lo spazio e gli oggetti fu azione allo stato puro, per i pittori metafisici divenne

luogo della rivelazione magica della vita nascosta delle cose: gli oggetti, pur rimanendo

riconoscibili, persero ogni legame di contiguità e di logica concatenazione con lo spazio che li

circondava o con gli altri oggetti disposti nello stesso spazio. Ne furono prove superbe le

rarissime nature morte metafisiche di Giorgio Morandi- che alla metafisica giunse più tardi,

accompagnato oltre che dalla lezione di Carrà, da un ripensamento in guisa di una assoluta

rarefazione delle cose nello spazio della lezione di Cézanne- e la serie più nota delle Piazze

d’Italia di de Chirico appunto, come la celebre Matinée angoissante, dipinta nel 1912, che ci

rivela lo spettro dell’enigma in una Torino assolata, con il lungo porticato in ombra che corre

a perdita d’occhio sulla sinistra e che incrocia in primo piano la sagoma cupa di un treno che

passa, ricordo improvviso del padre e della terra natale. “La pittura di de Chirico – scrisse

Soffici sulla rivista Lacerba nel 1914 – non è pittura nel senso che si dà oggi a questa parola.

Si potrebbe definire una scrittura di sogni. Per mezzo di fughe quasi infinite d’archi e di

facciate, di grandi linee dirette, di masse immani di colori semplici, di chiari e di scuri quasi

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funerei, egli arriva ad esprimere, infatti, quel senso di vastità, di solitudine, d’immobilità di

stasi, che producono talvolta alcuni spettacoli riflessi allo stato di ricordo della nostra anima

quasi addormentata. Giorgio de Chirico esprime come nessuno l’ha mai fatto la melanconia

patetica di una fine di bella giornata in qualche antica città italiana, dove in fondo a una

piazza solitaria, oltre lo scenario delle logge, dei porticati e dei monumenti del passato, si

muove sbuffando un treno, staziona il camion di un grande magazzino, o fuma una ciminiera

altissima nel cielo senza nuvole “.

 Alla Metafisica successe il tempo del mito e dell’allegoria: negli anni Venti, la pittura di de

Chirico, con la quale ebbe interessanti assonanze quella dell’amatissimo fratello Alberto

Savinio, più interessato però alla rappresentazione onirica e surreale della realtà che

all’indecifrabilità dell’enigma, si volgerà alla rilettura dei grandi Maestri del passato. La

perfezione tecnica e la misura di Raffello, Tiziano, Dosso Dossi, Poussin (e negli anni Trenta

soprattutto Rubens, Fragonard, Delacroix) gli fecero comprendere come raggiungere il folle

sogno dell’immortalità, senza per questo rinunciare alla seduzione dell’enigma, cui siconfacevano le sembianze dei manichini gladiatori, copia dei dioscuri omerici che compaiono

nei suoi quadri verso il 1926, o gli archeologi ermafroditi, con il torace e il ventre ingombro di

colonne, templi, alberi e quanto d’altro la sua fervida fantasia e lo stato di sogno gli

suggerivano.

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 Dal candore arcaico ai “realismi” degli anni Venti 

Gino Severini anticipa tutti. Già nel 1916 aveva affermato la propria indipendenza dal

futurismo, approdando alle sue prime composizioni classiche, una scelta che troverà

fondamento teorico nel testo pubblicato a Parigi nel 1921  Du cubisme au classicisme.

 Esthetique du compas et du nombre.

E’ in anticipo anche sulle scelte d’altri grandi pittori del tempo, come per esempio Pablo

Picasso, che solo nel 1917 porterà a conclusione, grazie anche al viaggio in Italia, quel

processo pur iniziato nel ’15 di trasformazione della sua pittura in direzione neoclassica.

Con Severini è forse Carlo Carrà l’artista italiano che meglio rappresenta il passaggio del

guado tra avanguardia, Realismo magico, Novecento e per certi aspetti antinovecento. La sua

pittura attraversò e fu protagonista di tutte le principali tappe dell’arte italiana del primo

‘900, dal futurismo al primitivismo, all’avventura metafisica, all’approdo alle poetiche della

nuova figurazione di Novecento, alla sublimazione dell’opposizione al regime nelle sequenze

dei paesaggi dipinti negli anni estremi della dittatura. “Mutare una direzione in arte –ebbe a

scrivere a questo proposito in  La mia vita12- “non significa rinnegare tutto il passato, bensì

allargarlo fino a compenetrarlo con un altro concetto estetico. Scoprire nuovi rapporti ignoti,

aprire meglio gli occhi per comprendere una somma maggiore di realtà”.

Passata brillantemente la prova metafisica, in cui realizzò quadri dominati dall’inquietudine

ma anche opere di più complessa ambiguità come TA Natura morta metafisica, superò la

fase critica del passaggio tra il sogno visionario metafisico e la concretezza del realismo di

Novecento, tra il ‘19 e il ‘21, dipingendo alcune delle più radiose rappresentazioni della storia

dell’arte europea del ‘900. I dipinti  Le figlie di Loth,  L’attesa,  Il Pino sul mare, esercizi di

umiltà e grandezza insieme, mostrarono nella restaurazione del candore arcaico ispirato dalla

pittura dei grandi Primitivi italiani, la continuità della tradizione, che allo spirito del tempo

presente portava dal passato i doni della Meraviglia, della Scoperta e dello Stupore, di una

pittura, insomma, che era nello stesso tempo etica ed estetica.

Negli anni successivi Carrà riportò la sua pittura dentro un alveo di più forte naturalismo,

dando vita ad una serie di mirabili paesaggi con figure o semplici marine raffiguranti il

litorale toscano, che rappresentarono anche in età tarda, tra la fine degli anni Venti e i

Trenta, il permanere nella sua ricerca di caratteri di magico realismo, coniugati non più alla

rarefazione narrativa del suo antico primitivismo o della parentesi metafisica, ma piuttosto

alla riscoperta di una nuova mitologia del quotidiano, ancora ricca d’incanto e di sorpresa,

nella quale azioni e cose, nel permanere nell’atmosfera di un misterioso incanto, assurgevano

al ruolo di nuovi riti.

La ricomparsa in epoca tarda di una riflessione sulla pittura di paesaggio, impegnò Carrà

nell’esecuzione quasi ossessiva di opere in cui luce e atmosfera davano spazio a quella voce

antinovecentista, che fu di molti artisti contrari al regime, che proprio nella rinascita di temi

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molto ortodossi della pittura, in primis il paesaggio, seppero attendere negli anni più bui del

fascismo all’esercizio etico del mestiere.

 Realismo magico e Novecento

La Metafisica rappresentò un episodio straordinario dell’arte italiana, ma limitato nel tempo.

I suoi protagonisti, in primo luogo de Chirico, ma è il caso anche di Carrà, de Pisis, Morandi,

Savinio, alle soglie degli anni Venti erano già consapevoli che questo capitolo intenso ma

 breve della loro ricerca stava volgendo alla fine e la loro pittura era già in ascolto di nuove

suggestioni, attratta più fortemente e più compiutamente da un esercizio formale e di

composizione che superava, in direzione di una ritrovata classicità, la separazione

dell’enigma metafisico.

Peraltro la pittura metafisica contribuì con la sua poetica di rarefazione formale, di visionaria

percezione della realtà, di straniante relazione tra i luoghi e le cose, a preparare un fertile

terreno per quegli artisti che alla pittura dell’avanguardia avevano dato poca retta, o per

 brevissimo tempo ne avevano condiviso la poetica come Mario Sironi, Achille Funi, Ubaldo

Oppi, Felice Casorati, Virgilio Guidi, Antonio Donghi, Piero Marussig, Arturo Martini, artisti

tutti già attivi sulla scena dell’arte nazionale nei secondi anni Dieci.

Costoro, ignorando il clamore futurista in quel torno di tempo ancora acceso nei toni, e certo

più interessati al richiamo della storia, erano pronti a scrivere il nuovo capitolo della pittura

italiana postbellica, che dalla storia e dalla riflessione sul passato voleva trarre originale

energia creativa. Il loro intento fu quello di far rivivere la tradizione antica nell’attualità del

tempo presente, di ridare fiato alla ricerca dell’origine e dell’identità, di promuovere in un

clima culturale dove la tendenza neopurista vinceva le ultime resistenze dell’avanguardia,

una ricognizione sui repertori antichi per farne nuova fonte d’ispirazione.

Tra gli interpreti più originali della traduzione metafisica in testi di puro arcaismo magico fu

senza dubbio il piemontese Felice Casorati, autore di alcune tra le più toccanti e misteriose

composizioni di quegli anni “di mezzo”, tra il ’20 e il ’23, anni sospesi tra la vocazione

all’incanto del realismo magico e la più solida partita di Novecento. Casorati non visse il

travaglio dei molti cambiamenti di stile, che aveva accompagnato la maturazione per esempio

dell’opera di Carrà: il suo abbandono alla figurazione composta e tradizionale fu una scelta di

antica data e risaliva ancora ai primi anni Dieci, quando nel 1907 fu accettato tra gli

espositori della Biennale di Venezia e poi, tra il 1913 e il 1920, fatta salva la parentesi della

guerra, partecipò sempre a Venezia alle rassegne di Ca’ Pesaro. Dunque non di ritorno ma

piuttosto di continuità nella cifra classica si deve parlare per questo grande autore, che nella

casa-studio di via Mazzini 52 a Torino, accoglieva come discepoli giovani artisti come Gigi

Chessa, Francesco Menzio, Carlo Levi, tutti protagonisti di quel momento d’oro della vita

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torinese, all’incirca verso il 1923, in cui le aspettative di un’arte nuova vennero a coincidere

con la poetica del realismo magico.

Ma quale antico, quale classico fu invocato da questi artisti 13 sopravissuti alla tragica, lunga

parentesi della prima guerra mondiale, che cambiò le sorti e il volto del vecchio continente,

aprendo la strada a nuovi nefasti destini, nei primi anni Venti, anni ancora innocenti, celati

sotto le spoglie dell’utopia socialista?

Non bastò all’inizio richiamare a nuova vita la gloriosa storia che aveva fatto grande l’Italia

artistica del Rinascimento: i più, Carlo Carrà in testa, vollero spingersi ancora oltre, fino alle

nude pendici rocciose del Monte sacro dipinto da Giotto, per recuperare all’arte

contemporanea l’essenzialità narrativa della lezione esemplare di verità ed etica dei Primitivi

italiani, da Giotto a Masaccio a Paolo Uccello. Modelli che divennero esempi di riflessione per

la nuova poetica del realismo magico, dove proprio il silenzio magico di Giotto fu la parola

d’ordine che non fece perdere la rotta nella notte buia dell’ideologia, il silenzio delle parole

mute, dei luoghi senza tempo, di vite immobili e sospese, l’unica vita possibile per chi non volle misurarsi o confondersi con la retorica di Stato. La magica e immota segretezza che

pervase di sé gli oggetti della pittura italiana ed europea degli anni Venti, fu espressione di

una  Stimmung di valori contrari a quelli delle avanguardie, sia nell’ambito pittorico che in

quello afferente il significato dell’opera d’arte, che rispose a una nuova Weltanschauung dove

l’oggetto acquistava il valore assoluto di “simbolo profondo per contrastare l’eterno flusso

mediante qualche cosa che persiste”14. E’ questa una definizione di poetica che attribuiva alle

cose animate e inanimate della pittura una funzione escatologica, vicina al pensiero di

Nietzsche e Schopenhauer e in evidente contrapposizione con la filosofia bergsoniana dello

slancio vitale15.

Lo spirito del realismo magico, cresciuto e nutrito tra il 1918 e il 1922 grazie al dibattito

teorico aperto dalle pagine della rivista “Valori Plastici” diretta da Mario Broglio16- rivista cui

contribuirono le intelligenze più vive dell’arte del tempo, da de Chirico, a Carrà, a Savinio-

all’incirca verso il 1923 confluì e per certi aspetti si saldò con i caratteri più austeri e composti

di Novecento, che non fu un vero e proprio movimento, come del resto non lo era stato il

realismo magico, ma più semplicemente una tendenza di stile. L’eterogeneità del lavoro dei

pittori, che oggi si indicano come novecentisti, non consentì infatti di elaborare una poetica

comune, anche se furono condivisi alcuni caratteri distintivi di uno stile che fece ricorso alla

figurazione, alla fedeltà ai canoni di un naturalismo idealizzante, ad una composizione

sommaria, non descrittiva, ma vigorosa nella ritrovata plastica dei volumi, ad atmosfere

sospese che accoglievano forti suggestioni del realismo magico.

Iconografia e caratteri stilistici di questa nuova figurazione traevano esempio da modelli del

mondo classico per eccellenza, ma anche da quello già ricordato dei Primitivi italiani e

soprattutto dalla lunga stagione rinascimentale e dalla sua rinascita in età neoclassica, da

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artisti della tempra di Ingres, ma anche dalla pittura dei fiamminghi e degli etruschi, un

soggetto quest’ultimo che trovò compiuta celebrazione nell’opera di Massimo Campigli.

I temi più diffusi furono il ritratto, la natura morta e l’allegoria, porta aperta tra la realtà

apparente e la verità profonda delle cose. L’allegoria apparve nelle sue molteplici sembianze,

da quella mitica a quella biblica, da quella implicita, celata dietro l’apparente realismo delle

cose rappresentate, a quella esplicita rivolta alla poesia sommessa e raccolta del quotidiano, a

quella, infine, allusiva legata ad un repertorio iconografico di simboli che riflettevano le

grandi problematiche della vita e della morte, del tempo, del sacro 17.

Novecento nacque nel 1922 da un raggruppamento di sette artisti, Bucci, Dudreville, Funi,

Malerba, Marussig, Oppi, Sironi, che si presentarono riuniti sotto quest’etichetta nel 1923

alla Mostra tenutasi nella Galleria Pesaro di Milano, con gli auspici di Mussolini e la

presentazione della giornalista, critica d’arte Margherita Sarfatti. Nel 1924 il gruppo “Sei

pittori del Novecento” (Oppi si era isolato) si presenta alla Biennale di Venezia con un testo

della Sarfatti in catalogo: scopo della mostra, così come delle esposizioni che seguiranno,alcune di grande rilievo come quelle del 192618 e del 1929, fu quello di ridare alla pittura

italiana, un primato nell’ambito della ricerca artistica europea. Margherita Sarfatti, teorica

del gruppo, lavorò con fede e passione per ricondurre ad unità di stile e d’intenti il lavoro dei

migliori artisti italiani dell’epoca, anche allo scopo di rifondare una tradizione pittorica

italiana moderna.

Tenace e volitiva Margherita Sarfatti difese i caratteri di “italianità” dell’arte contemporanea,

cui però non pose mai veti né vincoli, accogliendo nel suo gruppo le più disparate

inclinazioni, purchè rivolte all’identico progetto di sostegno e valorizzazione dell’arte

nazionale. E proprio in quella direzione, di un’arte profondamente italiana, capace di

rappresentare il nuovo sentimento degli artisti, attenti ad un’interpretazione in chiave

contemporanea della tradizione passata, ma anche di un’arte coincidente con i nuovi valori

dettati dal regime si pose la delicatissima questione del rapporto arte e politica. Delicatissimo

è infatti il compito di valutare criticamente, alla luce della storia tragica del Ventennio

fascista, il significato di quella affinità tra l’interesse degli artisti per i Maestri Antichi e

quell’identica passione espressa dalla dittatura, che in Italia proprio sulla pittura degli

 Antichi costruì gran parte del proprio repertorio di simboli e vaneggiamenti, di glorie e d’eroi,

mostrando nella retorica della citazione il limite della propria politica conservatrice.

I rapporti tra la poetica di Novecento e il regime di Mussolini, che a Novecento diede il

proprio appoggio ufficiale nel 1923 in occasione della prima mostra del movimento alla

Galleria Pesaro di Milano e nel 1926 alla mostra Il Novecento Italiano sempre a Milano, è un

capitolo complesso della storia artistica dell’Italia fascista tra gli anni Venti e i Trenta 19. E la

complessità derivò proprio dall’ambiguità della relazione tra l’immaginario dell’ideologia

fascista, che nella sua febbrile attività di propaganda rispolverò molti dei vecchi miti

dell’Italia antica, attualizzandoli in una veste retorica e conservatrice, e la poetica

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autenticamente originale di quel ritorno all’ordine, che dopo l’euforia dell’avanguardia, aveva

ristabilito il valore dello stile come idea, della regola come metodo di conoscenza, del classico

come origine e attualità.

Negli anni Trenta il disperdersi all’interno della poetica di Novecento del silenzio e dell’aura

incantata del realismo magico, che lasciò il posto ad un realismo sempre più concreto e

assertore di valori ideologici funzionali al fascismo, fu manifesta espressione della fine

dell’autonomia dell’arte. La perdita del sogno e del principio di verità favorirono l’avvento di

un nuovo corso della pittura italiana, forzatamente epico e monumentale, per molti aspetti

anche glorioso nei risultati, soprattutto là dove si misurò con le grandi dimensioni degli

affreschi murali di propaganda. Mario Sironi fu tra i molti che si ritrovarono a dover fare i

conti con le grandi committenze pubbliche, destinate a celebrare i sogni di gloria del regime, i

suoi luoghi comuni, le sue virtù. Avvezzo ad una straordinaria e colta frequentazione dei

repertori classici, frammista ad una pressochè unica capacità di governare con il suo gesto

creativo la tettonica degli spazi delle grandi composizioni, il suo contributo emerse perqualità e altezza dei risultati pittorici, certo non secondi a quell’autentica vocazione magico-

realista, che nel corso degli anni Venti, nelle sue misteriose composizioni, come per esempio

nel superbo dipinto del 1924  L’allieva, aveva offerto uno dei più significativi contributi del

XX secolo alla rappresentazione della tragica melanconia dell’uomo contemporaneo. Per

molti altri, invece, la concessione ad una pericolosa adulazione, trasformò il gesto creativo in

una pedissequa propaganda, di segno dunque contrario ai principi di un’arte realmente

libera.

 La contrapposizione a Novecento

Non fu sempre facile nel tourbillon degli eventi dell’arte del Ventennio riconoscere e

distinguere la moralità dell’esercizio autentico dell’arte dall’acquiescenza al potere. Ciò

avvenne principalmente per due motivi: da un lato per il fatto che in Italia la questione

culturale non diventò mai una bandiera in prima linea della propaganda politica, a tutto

 vantaggio della circolazione delle idee dell’arte, anche di quelle non propriamente in linea

con il gusto del regime, dall’altro lato perché anche là dove, come in Novecento, i temi della

pittura coincisero con i nuovi miti del potere politico, questo fatto, come sopra si è

ampiamente scritto, non fu se non in casi eccezionali tacciabile di consapevole connivenza

ideologica. Va peraltro rilevato che l’organizzazione delle attività culturali sul territorio

nazionale aveva creato nel settore artistico uno strumento molto avanzato di controllo,

costituito da una rete capillare di premi e di mostre “sindacali” provinciali e regionali, i cui

migliori esponenti confluivano nelle grandi manifestazioni nazionali20. A queste mostre, è

inutile dire, posizioni contrarie al regime non furono naturalmente ammesse, mentre furono

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ammesse, forse perché non riconosciute come antitetiche alla politica culturale del fascismo,

molte opere che oggi si possono definire “di resistenza”, opere nelle quali gli artisti, contrari

al gusto dominante di Novecento, e contrari soprattutto all’idea di un’arte di regime,

manifestarono il loro disagio con una fuga nelle più svariate direzioni, dal facile ripristino

della poetica del paesaggio post-impressionista, all’espressionismo di toni accesi della Scuola

romana, all’astrazione geometrica dei pittori milanesi attivi attorno alla galleria del Milione

di Milano, al chiarismo promosso dal critico Edoardo Persico, al Gruppo dei Sei di Torino

sostenuto dal critico Lionello Venturi. In questo modo si assicurò alla vita culturale del Paese

un passaggio sufficientemente ampio attraverso le more del fascismo, che solo alla fine degli

anni Trenta, poco prima dello scoppio della guerra, rafforzò le proprie difese contro

l’opposizione culturale, che inconsapevolmente era stata nutrita e cresciuta al suo stesso

interno nel corso degli anni precedenti. Negli anni Trenta, nel clima di generale dispersione

delle regole e degli indirizzi di stile, che avevano governato il fronte dell’arte novecentista,

emerse dunque alla superficie, pur celata da un’apparente, innocua diversità, la fronda di chinon era stato solidale all’idea del ritorno all’ordine e aveva battuto altre strade. Molti di

questi artisti trovarono ragioni comuni in una pittura calata in una sorta d’esistenzialismo

ante litteram21, capace di slanci lirici della materia e del colore, inimmaginabili per la sobria

plastica di Novecento, o, ancora, sospinti verso il racconto di una visione tragica e angosciosa

della realtà, cosa anche questa severamente bandita dalle serene, placide composizioni del

 vigoroso classicismo di Novecento. Tra i molti artisti impegnati nella battaglia per la

sopravvivenza di quella voce antiformalista e anticlassica, Mario Mafai e Renato Guttuso

rappresentano gli estremi di una ricerca, che per vie diverse coltivò l’identica tensione di

ansia e di verità. Da un lato ci fu l’avventura della scuola di via Cavour a Roma, culla della

cosiddetta Scuola romana22, che ebbe come principali protagonisti tra il 1927 e il 1930 Mario

Mafai, la moglie Antonietta Raphäel, e l’amico intimo Scipione. La loro storia, che iniziò con

il comune apprendistato presso la Scuola libera di nudo a Roma nel 1925, si intrecciò

naturalmente con quella “ufficiale”, scandagliò le possibilità dell’arcaismo, della metafisica,

del classicismo, per approdare infine, in dialettica con Novecento e non come radicale

opposizione, ad una pittura del tutto originale, intrisa di emozionalità dove il colore

riconquistò una forte carica espressiva, aiutato dal ricorso ad un tonalismo romantico che

soprattutto in Scipione e Mafai corroborava la forma di una nuova capacità evocativa, non

più descrittiva e analitica ma sommaria ed enunciativa. La fine precoce di Scipione, morto nel

1933, e l’allontanamento dall’Italia di Mafai e della moglie Antonietta Raphäel, chiuse un

capitolo brevissimo ma intenso dell’arte italiana, la cui eredità fu accolta e interpretata da

altri artisti romani impegnati in percorsi alternativi alle strettoie del classicismo, come Cagli,

Capogrossi, Melli, Ziveri.

Protagonista del gruppo milanese “Corrente”, costituito da oltre una decina di artisti riunitisi

nel 1938 attorno alla rivista “Vita giovanile”, fondata dal pittore Ernesto Treccani, fu invece

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il giovane Renato Guttuso, un’artista che salirà agli onori delle cronache internazionali

dell’arte nell’immediato dopoguerra, per il suo rigoroso impegno culturale nella vita politica

dell’Italia post-fascista. Già sul finire degli anni Trenta Gututso aveva fatto la sua scelta,

 proprio nella direzione anticlassica battuta da “Corrente”, che alla tradizione mediterranea e

rinascimentale oppose una visione tutta europea, sorretta da una riflessione critica su quanto

la pittura d’oltralpe aveva prodotto nella scia dell’anticlassicismo, dunque basata sul riesame

dell’opera di Van Gogh, Ensor, Munch, gli espressionisti tedeschi e soprattutto di Picasso,

sulla cui lezione si imposterà il lavoro di gran parte della pittura italiana alla fine della

seconda guerra mondiale. Nel gruppo di “Corrente” Guttuso rappresentò l’anima anti-lirica

 per eccellenza, che si opponeva a quel filone più incline all’espressività del colore che della

forma, bene interpretato da Renato Birolli. La pittura di Guttuso fu inizialmente orientata in

senso fortemente espressionista, sfuggendo ad ogni sospetto di classicità: il suo tragitto

 partiva da rappresentazioni nelle quali forma e colore, nell’esasperazione delle linee e dei

toni, si mescolavano sulla tela come parti indistinguibili di una realtà nella quale, forse solo in

misura pari alle visionarie tele di Scipione, si coagulava la ribellione alle regole e alla misura

di Novecento. Agli inizi degli anni Quaranta- già dal 1937 Guttuso risiede stabilmente a

Roma dove è vicino anche all’ambiente della cosiddetta Scuola romana- il suo espressionismo

cede gli accenti più forti ad una più sobria figurazione, come nel caso di  Figura, tavolo e

balcone (1942) e Donna alla finestra (1942), opere nelle quali già si misura la sua vocazione

 per un realismo capace di accendere “una nuova sensibilità estetica, che andava di pari passo

con una nuova coscienza sociale, che da un generico ribellismo antiborghese arrivava alla

 progressiva consapevolezza antifascista”23.

Una stanza tutta per sè

Negli stessi anni, nel silenzio di un’impresa quasi impossibile, giorno dopo giorno, ci fu chi

giocò una partita assolutamente solitaria. E’ il caso del pittore bolognese Giorgio Morandi che

rinunciò a partecipare a qualunque manifestazione pubblica e collettiva, dove l’arte fosse

stata protagonista. Fu il suo un distacco dalla vita attiva, un prendere le distanze dallapolitica, la dichiarazione di una propria diversità, così come diversa da ciò che si andava

ricercando in Italia in quel torno di tempo, fu la sua opera, quotidianamente e quasi

ossessivamente attesa allo studio e alla catalogazione delle poche, piccole cose del suo

ristretto mondo domestico. Bottiglie, tazze, brocche e qualche barattolo vuoto, rimasto a

decantare sul tavolo di casa divennero la ragione stessa della sua poetica, forma e contenuto

della sua ricerca, tutta risolta nell’amore di un unico genere, la natura morta appunto, con

qualche rara eccezione per il paesaggio. “Nel ’31- scrive il critico Arcangeli nella monografia

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dedicata al grande bolognese- Morandi, torna a colare a picco, in silenzio. Modestamente,

senza importunare nessuno, senza che nessuno intenda davvero, dipinge i quadri e lavora

all’incisione ch’io ritengo le opere più ardite e nuove dell’Europa di quel momento. Sono i

suoi soliti oggetti, ma adesso egli riprende l’indagine, tentata in profondità verso la fine del

’29 e proseguita saltuariamente nel ’30, con anche più dura, triste, accanita sapienza…Ogni

opera, testimonia di un’ossessione allucinata, potente, quasi folle. Davvero, come testimonia

Brandi, si potrebbe ora parlare d’attacco dissolvente all’oggetto…ma l’oggetto non cede

mai…Sono i suoi ostaggi, questi oggetti di cui egli è, tuttavia, prigioniero; sono ostaggi e,

sicuramente, houtes pates”24 

Tabula rasa

Solo un cenno ma ne vale la pena: la fine della seconda guerra mondiale azzera in Italia, comenel resto d’Europa, ogni certezza e riapre conflitti radicali tra gli artisti, tra chi è chiamato

traditore e chi invece sa di non aver tradito. Ogni guerra vuole le sue vittime anche dopo la

fine reale dei conflitti. In questo la cultura con le sue abiure e le sue licitazioni, con i suoi

compromessi e le sue sconfessioni, sembra essere un terreno molto fertile dove si accalcano i

morti, chi non ha reagito, chi non ha capito, chi non ha voluto capire, chi infine ha fortemente

creduto. I vivi riannodano i fili della storia e per lo più ripercorrono il passato per ritrovare la

strada. In Italia la Biennale del ’48 è un’occasione straordinaria per riprendere i contatti con

il mondo artistico internazionale, che nell’Italia fascista si credeva a portata di mano ma che

invece si scopre essere stato assai lontano. Picasso è il nuovo mito del dopoguerra, con la sua

meritata fama antifascista: la sua opera entra con forza nella riflessione della prima

generazione di pittori astratti italiani. La prima sfida, democratica, pone sul tappeto la

querelle tra arte figurativa e arte astratta. Entrambe sono rappresentate da artisti che non

hanno avuto paura di essere contro il regime, Renato Guttuso ed Emilio Vedova, ma la

questione si surriscalda per alcuni anni, infuocando il dibattito artistico italiano. La funzione

sociale e democratica dell’arte può essere interpretata dalla pittura non figurativa o meglio

sarebbe affidare il suo potere didascalico ed educativo alla figurazione, sicuramente più facile

da intendere e interpretare? Sono ferite che stenteranno a rimarginare, ma sono passaggi

obbligati nella maturazione di una nuova identità della giovane arte italiana contemporanea.

Il compito di fare tabula rasa di queste querelles è affidato a tre grandi artisti, un argentino

che vivrà in Italia stabilmente dal 1928 Lucio Fontana, un medico Alberto Burri che alla

pittura giunge nel 1946, dopo la lunga prigionia a Hereford in Texas, e un sognatore Piero

Manzoni, che rifiuterà d’essere tale e vivrà per il poco tempo che gli fu lasciato (morirà a soli

anni trent’anni nel 1963 ) nella negazione sistematica di qualunque possibilità di redenzione

dell’arte.

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Fontana, Burri e Manzoni negli anni Cinquanta sono in prima fila a combattere per la

collocazione dell’arte italiana nel panorama internazionale, pronti a ridefinire l’oggetto stesso

della pittura. Nel 1966 Burri e Fontana espongono insieme al Museum of Modern Art di New 

 York. E’ già una affermazione, dopo anni di duro lavoro. Burri come si è detto sopra arriva

alla pittura più tardi di Fontana, solo nel 1946, ma già nel 1948 ha preso la via dell’astrazione

e nel 1952 ha imboccato con i grandi sacchi una strada alternativa alla pittura, dove faranno

la loro comparsa i materiali più diversi, dalle plastiche ai ferri, dai legni ai cretti di terra,

questi ultimi, anche se cronologicamente più tardi, ma alcuni bellissimi già eseguiti nel 1958,

sono come superfici martoriate da ferite non rimarginate della materia, che assecondano la

sua posizione nichilista degli anni del primissimo dopoguerra. I Concetti Spaziali  di Lucio

Fontana sono superfici violate da tagli netti o da punte perforanti, che incidono la

compattezza della materia per rivelare accessi nascosti all’intimità: come nei coaguli del

Concetto spaziale del 1956 o meglio ancora nei buchi slabbrati della stupenda Fine di Dio del

1963, l’artista argentino percorre una strada tutta personale per ridefinire il rapporto spazio-superficie-materia, è la strada della totale invenzione, della creazione assoluta, “per Fontana

–scrive il critico Zeno Birolli- lo spazio ha un corpo. Con questa semplice certezza che gli

 viene da quello che vede, Fontana riesce a confondere davanti ai nostri occhi di ogni giorno,

qualunque nozione di luogo, di tempo e di stato delle cose”25. Anche Manzoni ha un sogno,

che lo porta alla creazione dei suoi  Achrome, tele bianche di caolino, strizzate, cucite,

addensate. Il suo sogno è negare ogni possibilità alla vita di esistere, oltre la fattualità

quotidiana. Nella concezione materialistica di Manzoni il fare dell’artista non evade verso lo

spirituale, il misticismo. Per lui oltre la dimensione dei bisogni e delle necessità non esiste

nulla e solo assecondando questi bisogni l’essere esiste ““non c’è nulla da dire, c’è solo da

essere, c’è solo da vivere” 26: così inizierà il capitolo dell’arte italiana del secondo dopoguerra.

1

R. Hughes, The shock of the New, Ed. British Broadcasting Corporation, London 1980, p. 422 G. Belli,  Neo-impressionisme francais et divisionisme italien. Brève histoire d’une convergenze culturelle,

in “La revue du Musée d’Orsay”, n. 12, Paris 2001, pp. 90-95 3

  A.P.Quinsac, Il Divisionismo italiano: trent’anni di vita culturale tra radici nazionali e fermenti europei ,in Divisionismo Italiano, catalogo della mostra ,Trento, Mart, Palazzo delle Albere, aprile- luglio 1990, Ed.Electa, Milano, 1990, pp18-26. 4

 M. Calvesi, E. Coen, Boccioni. L’opera completa, Ed. Electa, Milano, 1983, p.2015

 C. Salaris, Filippo Tommaso Marinetti, Ed. La Nuova Italia, Scandicci (Firenze), 1988, p.119 6

Un capitolo molto interessante della relazione tra Italia e Russia, per il quale si rimanda alla ricca bibliografia sul teatro futurista e le molte pubblicazioni dedicate al lavoro di Sergej Diaghielv, fu quello dellarelazione tra Diaghilev e il gruppo dei futuristi romani, Balla e Depero, Prampolini. Come è noto nel 1917 lapresenza dell’impresario russo a Roma, circondato dal suo entourage di artisti, tra cui Larionov,Goncharova, Massine, fu determinante per lo sviluppo del lavoro di Depero e Balla, e, di riflesso, fu assaiimportante anche per gli artisti russi che nella relazione con questi artisti aprirono il loro repertorio a molteidee futuriste. Vale come esempio curioso di questa relazione la lite scoppiata tra Depero e Larionov,accusato quest’ultimo da Depero di aver rubato dal suo studio alcuni progetti di costumi di scena e di averlisuccessivamente venduti con la firma Larionov.

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7

  Les peintres futuristes italiens, catalogo della mostra, Paris, Galerie Bernheim- Jeune, febbraio 1912, p. 10 8

M. Sarfatti,  Alcune considerazioni intorno all prima mostra del Novecento Italiano, in “Il popolo d’Italia”,12 febbraio 19269

F. Roh. Nach-Expressionismus- Magischer Realismus- Probleme der neusten europäischen Malerei ,Leipzig, 192510

J. Clair, Sul realismo magico, in Realismo magico, catalogo della mostra a cura di M. Fagiolo dell’Arco,

 Verona, Galleria dello Scudo, novembre 1988-gennaio 1989, Ed. Mazzotta, Milano, 1988, p. 2311

 P. Fossati, Storie di figure e di immagini. Da Boccioni a Licini , Ed. Einaudi, Torino 1995, p. 60-62 12

C. Carrà, La mia vita, in Tutti gli scritti , a cura di Massimo Carrà, Ed. Feltrinelli, Milano, 1979, p.75213

Scrive Carlo Carrà a questo proposito in un testo del 1918, intitolato L’Arte di domani : ”questa terribileguerra mi ha parlato con la sua voce potente. Mi ha chiarito il compito destinatomi dalla natura. Mi hailluminato la strada che devo percorrere. Quanti benefici spirituali ci ha di già portato questa guerra. Ormaiso che il mio dovere e la mia azione sono quelli di cantare: cantare tragicamente, cantare finchè si spezzerà ilcuore”14

F. Roh. Nach-Expressionismus…op. cit. Leipzig, 1925, p.3315

Scriveva a questo proposito Franz Roh: “Tutto questo [ la funzione dell’oggetto nella poetica delpostespressionsimo] non nasce da un segreto sfinimento ma piuttosto dall’assunto che lo slancio vitale ( lafilosofia della generazione precedente) non può salvarci”, F. Roh, op. cit. 1925, p.3316

 Per una trattazione esaustiva sull’argomento cfr. P. Fossati, “Valori Plastici” 1918-22, Ed. Einuadi, Torino,1981 17

M. Fagiolo dell’Arco, Realismo magico. Ragioni di una idea e di una mostra, in Realismo magico, catalogodella mostra, op.cit. Milano, 1988, p. 21-2218

La mostra del 1926 si tenne a Milano nel Palazzo della Permanente. Vi parteciparono 110 artisti dei 130invitati. Tra i clamorosi rifiuti ci fu quello di Gino Severini e di Antonio Donghi.19

Il movimento di Novecento si disperse nel 1933. Da questa data, fino allo scoppio della guerra, gli artistiproseguiranno autonomamente le loro ricerche. Margherita Sarfatti, d’origine ebrea, già amante diMussolini, nel 1938 fu costretta ad espatriare perseguitata dalle leggi razziali.20

Sull’argomento cfr. E. Crispolti, Una rilettura non inopportuna in Arte e Stato. Le esposizioni sindacali nelle Tre Venezie (1927-1944), catalogo della mostra, Trieste, Civico Museo Rivoltella, marzo- giugno 1997,Ed. Skira, Milano, 1997, pp. 13- 2021

E.Pontiggia, Corrente: una collezione, in  Artisti di Corrente 1930-1990, catalogo della mostra, Busto Arsizio, Palazzo Bandera, Ed. Vangelista, Milano,1991, p. 722

Sull’identità artistica e culturale della cosiddetta Scuola Romana e della sua antitesi con Novecento si vedail breve, illuminante saggio di E. Braun, Sul Novecento e sulla scuola romana, in Scuola romana, catalogodella mostra, Milano, Palazzo Reale, aprile-giugno 1988, Ed. Mazzetta, Milano, 1988, p. 209-21423 F. Poli, Renato Guttuso: di fronte alla storia e alla storia dell’arte, in Renato Guttuso a dieci anni dalla

scomparsa, catalogo della mostra, Savigliano ottobre-dicembre 1997, Ed. Bianca&Volta, Savigliano, 1997, p.11-12. Il testo è ripreso dall’introduzione al Catalogo ragionato generale dei dipinti di Renato Guttuso, acura di Enrico Crispolti., Ed. Mondadori, Milano, 1983. 24

F. Arcangeli, Giorgio Morandi , Torino, 1980, p. 18525

Z. Birolli, Lucio Fontana, in  Fontana Donazione al Museo d’arte contemporanea di Milano, catalogomostra, Milano 1978, p. 1426 P. Manzoni, Libera dimensione, in “Azimuth”, n.2, Milano, 1960