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Anno XII - Numero 137 - Novembre 2012 Periodico di notizie e cultura M io padre ha amato questo giornale fino alla morte. L’ultimo articolo l’ha dettato a mia madre dal letto dell’ospedale, pochi giorni prima di lasciar- ci. Non so ancora come abbia fatto a trovare la lucidità in mezzo a tanta sofferenza. E come sempre, era buona la prima. Non produceva brutte copie, Peppino Giacovazzo. Scriveva di getto, senza biso- gno di correzioni. E a braccio, senza consultare computer. Era un grande giornalista del secolo scorso, l’hard disk ce l’aveva nel cervello. Milioni di file accumulati in decenni di studi, letture ed esperienze che su internet non trovere- mo mai. Il suo segreto era quello di scrivere sempre con il cuo- re di ragazzo. Lo stesso cuore con cui si buttava a capofitto da un lavoro all’altro. Infati- cabile. E non ce ne aveva mai messo tanto di cuore, come in questa sua creatura ‘cur- dunnese’. In nessun altro dei suoi lavori, neanche quelli più importanti e prestigiosi. Mai come in questo piccolo giornale senza padroni, ser- vo soltanto delle notizie e dei cittadini. Paese Vivrai è del Paese, diceva mio padre. Sono stati i ragazzi di Locorotondo a stregare il vecchio direttore, fin dalla prima riunione, in un loca- le angusto e umido, quando soltanto l’idea di una pubbli- cazione comunale sembrava una scommessa impossibile, anche per i più folli. Da al- lora sono trascorsi 13 anni. Paese Vivrai è passato dalla distribuzione manuale da- vanti alle chiese, alle edicole e agli abbonamenti, perfino all’estero. Quei ragazzi han- no vinto. Ponendo i problemi con tenacia, senza fare scon- ti a nessuno, né ai politici, né agli amministratori loca- li. Dando voce a chi non ha voce. Con passione vera per il giornalismo e con il loro senso civico. Guidati dal più giovane e dal più sognatore di tutti: mio padre. Sono andato a rileggere le parole del Direttore, nel numero zero del dicembre 2000: “Noi non taceremo le verità. Troveremo forme civili per raccontarle, non poveri, quelli che non si ve- dono”. Qui c’è tutto l’amore di Giuseppe Giacovazzo per il mestiere di raccontare, l’onestà di un uomo che par- la di verità al plurale, l’amo- re per il suo paese e per un Mezzogiorno che continua a maltrattarsi da solo. Ma c’è anche la speranza di po- «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sape- re che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta ad aspettarti ». (Cesare Pavese “La luna e i falò”) Addio Direttore ci mancherai Il mio legame con Lo- corotondo è profondo, ma vivo e lavoro a Roma. E gli impegni mi portano spesso a viaggiare. Sarei un direttore latitante. Questo giornale e i suoi lettori non se lo merita- no. Comunque, un altro Giu- seppe Giacovazzo non esiste. Paese Vivrai è rimasto or- fano, ma il suo genitore l’ha cresciuto bene. E’ arrivato il momento di camminare con le proprie gambe. Sono con- vinto che mio padre avreb- be affidato la direzione ad uno dei suoi allievi. Nei fatti Valerio e Linuccio lo hanno già preso in mano. E sono le persone giuste. Però ci vuo- le l’aiuto di tutte le ragazze e i ragazzi che sono passati di lì. Sono più di 50. Molti sono entrati poco più che li- ceali. Poi gli studi, il lavoro, la famiglia. E’ la vita che li ha portati lontano. Per mol- ti Locorotondo è diventato quel luogo dove ritornare. Mio padre ha dato e ri- cevuto tanto da tutti questi ragazzi. Quando negli ultimi tempi avvertiva il peso del- l’impegno a volte pensava di lasciare il timone ad uno di loro. “Da me non hanno più nulla da imparare”, diceva mio padre. Ma poi non ave- va il coraggio di smettere: ” Il pensiero di non ritrovarsi con loro – scrisse in un arti- colo per il decennale - ogni sabato sera, a discutere dei problemi, a inventare un’in- chiesta, a fare il punto sulle vicende umane del borgo, a scherzare sui difetti altrui e sui nostri, mi pare quasi un tradimento: di me stesso e di un dovere civico”. A quelle ragazze e a quei ragazzi che hanno avuto il piacere e, credo, il privilegio di quei sabato sera, chiedo il coraggio di impegnarsi per tenere in vita questo giorna- le. Per il loro paese, per loro stessi. E per Peppe Giaco- vazzo. Io ci sarò. se Vivrai, ero in una stanza di ospedale, la sua. Mio pa- dre era in un letto da quattro mesi. Guardavo lui e la sua firma sul giornale. Sapevo che sarebbe stata l’ultima. Poco più di una settimana dopo, il giorno del funerale, Linuccio Giotta mi è venu- to incontro con fare deciso, insieme a Valerio Conver- tini. Doveva proprio dirmi qualcosa, si capiva. Pensa- vo fossero le condoglianze. Invece, dopo un abbraccio sincero ha vuotato il sacco: “Piergiorgio, dal prossimo numero di Paese Vivrai tu firmi da direttore”. Chiuse le virgolette, punto. Così parlò Linuccio. Anzi, decretò. Per- ché non era una domanda. E non me l’aspettavo proprio. Ci ho messo due giorni per convincerlo ad accettare il mio rifiuto. Sia chiaro, amo Locorotondo e questo gior- nale. Le mie radici sono qui. E la proposta mi ha fatto un piacere immenso. Linuccio e Valerio sono le due colon- ne portanti di Paese Vivrai. Peppe Giacovazzo li stimava davvero tanto e gli voleva un gran bene. Che loro due ab- biano pensato di affidarmi la creatura di mio padre, mi riempie di orgoglio, ma non sarebbe giusto. La direzione di un giornale non può essere un diritto ereditario. Il diret- tore deve vivere nel giornale e nel territorio che racconta. A maggior ragione in un gior- nale come questo, che è il mi- racolo editoriale di una picco- la realtà locale. Davide che si afferma contro il gigante. per nasconderle. Parleremo di tutto. Del nostro territo- rio, di chi lo maltratta, di chi permette che si continui a saccheggiarlo. Parleremo dei nuovi ricchi e dei nuovi ter cambiare le cose e risol- levarsi, con le proprie forze. Sentimenti forti. Appunto, sentimenti giovani. Quando ho avuto fra le mani l’ultimo numero di Pae- Piergiorgio GIACOVAZZO Apprendo con commozione la notizia della scomparsa di Giuseppe Giacovazzo, gior- nalista sempre attento alle tematiche del nostro Mezzogiorno, di cui ricordo tanti momenti di incontro nel corso del suo appassionato impegno politico e parlamentare. Partecipo al cordoglio del mondo dell’informazione e al dolore della famiglia. Giorgio Napolitano Il cordoglio del Presidente della Repubblica

Periodico di notizie e cultura Addio Direttore ci mancherailevarsi, con le proprie forze. Sentimenti forti. Appunto, sentimenti giovani. Quando ho avuto fra le mani l’ultimo numero

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Page 1: Periodico di notizie e cultura Addio Direttore ci mancherailevarsi, con le proprie forze. Sentimenti forti. Appunto, sentimenti giovani. Quando ho avuto fra le mani l’ultimo numero

Anno XII - Numero 137 - Novembre 2012

P e r i o d i c o d i n o t i z i e e c u l t u r a

Mio padre ha amato questo giornale fino alla morte. L’ultimo

articolo l’ha dettato a mia madre dal letto dell’ospedale, pochi giorni prima di lasciar-ci. Non so ancora come abbia fatto a trovare la lucidità in mezzo a tanta sofferenza. E come sempre, era buona la prima. Non produceva brutte copie, Peppino Giacovazzo. Scriveva di getto, senza biso-gno di correzioni. E a braccio, senza consultare computer. Era un grande giornalista del secolo scorso, l’hard disk ce l’aveva nel cervello. Milioni di file accumulati in decenni di studi, letture ed esperienze che su internet non trovere-mo mai.

Il suo segreto era quello di scrivere sempre con il cuo-re di ragazzo. Lo stesso cuore con cui si buttava a capofitto da un lavoro all’altro. Infati-cabile. E non ce ne aveva mai messo tanto di cuore, come in questa sua creatura ‘cur-dunnese’. In nessun altro dei suoi lavori, neanche quelli più importanti e prestigiosi. Mai come in questo piccolo giornale senza padroni, ser-vo soltanto delle notizie e dei cittadini. Paese Vivrai è del Paese, diceva mio padre.

Sono stati i ragazzi di Locorotondo a stregare il vecchio direttore, fin dalla prima riunione, in un loca-le angusto e umido, quando soltanto l’idea di una pubbli-cazione comunale sembrava una scommessa impossibile, anche per i più folli. Da al-lora sono trascorsi 13 anni. Paese Vivrai è passato dalla distribuzione manuale da-vanti alle chiese, alle edicole e agli abbonamenti, perfino all’estero. Quei ragazzi han-no vinto. Ponendo i problemi con tenacia, senza fare scon-ti a nessuno, né ai politici, né agli amministratori loca-li. Dando voce a chi non ha voce. Con passione vera per

il giornalismo e con il loro senso civico. Guidati dal più giovane e dal più sognatore di tutti: mio padre.

Sono andato a rileggere le parole del Direttore, nel numero zero del dicembre 2000: “Noi non taceremo le verità. Troveremo forme civili per raccontarle, non

poveri, quelli che non si ve-dono”. Qui c’è tutto l’amore di Giuseppe Giacovazzo per il mestiere di raccontare, l’onestà di un uomo che par-la di verità al plurale, l’amo-re per il suo paese e per un Mezzogiorno che continua a maltrattarsi da solo. Ma c’è anche la speranza di po-

«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sape-re che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».

(Cesare Pavese “La luna e i falò”)

Addio Direttoreci mancherai

Il mio legame con Lo-corotondo è profondo, ma vivo e lavoro a Roma. E gli impegni mi portano spesso a viaggiare. Sarei un direttore latitante. Questo giornale e i suoi lettori non se lo merita-no. Comunque, un altro Giu-seppe Giacovazzo non esiste.

Paese Vivrai è rimasto or-fano, ma il suo genitore l’ha cresciuto bene. E’ arrivato il momento di camminare con le proprie gambe. Sono con-vinto che mio padre avreb-be affidato la direzione ad uno dei suoi allievi. Nei fatti Valerio e Linuccio lo hanno già preso in mano. E sono le persone giuste. Però ci vuo-le l’aiuto di tutte le ragazze e i ragazzi che sono passati di lì. Sono più di 50. Molti sono entrati poco più che li-ceali. Poi gli studi, il lavoro, la famiglia. E’ la vita che li ha portati lontano. Per mol-ti Locorotondo è diventato quel luogo dove ritornare.

Mio padre ha dato e ri-cevuto tanto da tutti questi ragazzi. Quando negli ultimi tempi avvertiva il peso del-l’impegno a volte pensava di lasciare il timone ad uno di loro. “Da me non hanno più nulla da imparare”, diceva mio padre. Ma poi non ave-va il coraggio di smettere: ” Il pensiero di non ritrovarsi con loro – scrisse in un arti-colo per il decennale - ogni sabato sera, a discutere dei problemi, a inventare un’in-chiesta, a fare il punto sulle vicende umane del borgo, a scherzare sui difetti altrui e sui nostri, mi pare quasi un tradimento: di me stesso e di un dovere civico”.

A quelle ragazze e a quei ragazzi che hanno avuto il piacere e, credo, il privilegio di quei sabato sera, chiedo il coraggio di impegnarsi per tenere in vita questo giorna-le. Per il loro paese, per loro stessi. E per Peppe Giaco-vazzo. Io ci sarò.

se Vivrai, ero in una stanza di ospedale, la sua. Mio pa-dre era in un letto da quattro mesi. Guardavo lui e la sua firma sul giornale. Sapevo che sarebbe stata l’ultima.

Poco più di una settimana dopo, il giorno del funerale, Linuccio Giotta mi è venu-to incontro con fare deciso, insieme a Valerio Conver-tini. Doveva proprio dirmi qualcosa, si capiva. Pensa-vo fossero le condoglianze. Invece, dopo un abbraccio sincero ha vuotato il sacco: “Piergiorgio, dal prossimo numero di Paese Vivrai tu firmi da direttore”. Chiuse le virgolette, punto. Così parlò Linuccio. Anzi, decretò. Per-ché non era una domanda. E non me l’aspettavo proprio.

Ci ho messo due giorni per convincerlo ad accettare il mio rifiuto. Sia chiaro, amo Locorotondo e questo gior-nale. Le mie radici sono qui. E la proposta mi ha fatto un piacere immenso. Linuccio e Valerio sono le due colon-ne portanti di Paese Vivrai. Peppe Giacovazzo li stimava davvero tanto e gli voleva un gran bene. Che loro due ab-biano pensato di affidarmi la creatura di mio padre, mi riempie di orgoglio, ma non sarebbe giusto. La direzione di un giornale non può essere un diritto ereditario. Il diret-tore deve vivere nel giornale e nel territorio che racconta. A maggior ragione in un gior-nale come questo, che è il mi-racolo editoriale di una picco-la realtà locale. Davide che si afferma contro il gigante.

per nasconderle. Parleremo di tutto. Del nostro territo-rio, di chi lo maltratta, di chi permette che si continui a saccheggiarlo. Parleremo dei nuovi ricchi e dei nuovi

ter cambiare le cose e risol-levarsi, con le proprie forze. Sentimenti forti. Appunto, sentimenti giovani.

Quando ho avuto fra le mani l’ultimo numero di Pae-

Piergiorgio GIACOVAZZO

Apprendo con commozione la notizia della scomparsa di Giuseppe Giacovazzo, gior-nalista sempre attento alle tematiche del nostro Mezzogiorno, di cui ricordo tanti momenti di incontro nel corso del suo appassionato impegno politico e parlamentare. Partecipo al cordoglio del mondo dell’informazione e al dolore della famiglia.

Giorgio Napolitano

Il cordoglio del Presidente della Repubblica

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� Novembre 2012 numero 137

Viaggio da De Gasperi a Moro

Puglia, il suo cuore“Il Salento è perso-

na”, ripeteva me-ravigliato via via

che concludeva un comizio nella campagna elettorale del giugno 1987. “Qui rive-do le immagini di Moro che nei paesi del Sud Est bare-se ricordava sorprendente-mente i volti delle persone assiepate nella piazze ad ascoltare. Presidente - ricor-dava -, come fa a riconoscere tutti?”. C’era una sapienza nella politica quando anco-ra la televisione non aveva massificato e ridotto a mer-ce tutto, incluso il consen-so. I politici, soprattutto i leader, curavano i rapporti in nome di un realismo vis-suto. Giuseppe Giacovazzo, pur provenendo da espe-rienze culturali intense, non amava essere considerato un intellettuale prestato alla politica, né si riteneva un “esterno” alla Dc, come i professori “illuministi” del-l’epoca di De Mita, negli anni Ottanta del secolo scorso. “Voglio conoscere tutti i paesi e mi raccomando le frazioni - incalzava -, dob-biamo dialogare con ogni persona”. Il collegio sena-toriale di Tricase era molto di più di una realtà politica e amministrativa, oppure di un numero di elettori; era prima di tutto uno spazio vitale abitato da famiglie e comunità: ad ogni volto do-veva corrispondere un nome e cognome con le sue rela-zioni e le reti di fiducia che alimentava. Ciascuno con la sua storia e i suoi tormenti. “Se non parlano con noi - di-ceva a sera, stanco, nell’al-berghetto dove dormiva - a chi potranno confidare i loro

sua dignità. Se la politica di-mentica questo si riduce solo a governo e amministrazione, cioè a potere”. Il suo amore per sant’Agostino e la lettera-tura russa, in particolare Do-stoevskij, lo teneva sempre vigile e pronto ad ascoltare le ragioni e le vicende di ogni individuo. Lo faceva con cu-riosità e spesso con tenerezza. L’esperienza politica di Gia-covazzo non la si può com-

ne per la politica?”. “Quando - fu la risposta - sente il piace-re di risolvere i problemi degli altri”. La politica, insomma, è un atto di generosità. La seconda urgenza è una sor-ta di missione a mantene-re viva la cultura morotea. La morte del leader pugliese per mano delle Brigate rosse aveva stravolto Giacovazzo. “Come si può ammazzare un uomo mite?”. Anniversari,

candidatura, Giacovazzo si domandò quale significato e intelligenza poteva nascon-dersi in una sua risposta po-sitiva. Solo la testimonianza di Moro e la sua esperienza a fianco del leader democri-stiano nelle intense campa-gne elettorali potevano spin-gerlo alla nuova esperienza. Per tre campagne elettorali - 1987, 1992 e 1994, l’ulti-ma con il Patto per l’Italia,

passaggio travagliato tra la prima e la seconda repub-blica -, il nome di Moro e la sua lezione politica furono sempre presenti e rappresen-tarono il legame vitale tra il suo impegno e la realtà uma-na del Salento e della Puglia. Giacovazzo nel 1987 portò la Dc nel collegio di Tricase a superare il 50 per cento, dopo la protesta popolare contro la candidatura di Claudio Vita-lone, un ex magistrato chiac-chierato, nelle elezioni del 1983. È sempre piaciuto nei quarantasei paesi e nelle de-cine di frazioni il senatore che si presentava mite e sempli-ce. Anche da sottosegretario mai è arrivato con la scorta e le auto al seguito. Aveva pre-so casa a Tricase, nella piaz-za centrale, e tutti potevano avvicinarlo senza problemi. Ancora oggi Giacovazzo è considerato, da Tricase a Ca-sarano e fino alle più piccole comunità, l’ultimo politico che ha onorato questa terra. Difficile, se non impossibile, oggi coniugare nella stessa persona, sensibilità e tenerez-za umana, cultura e passione politica. “Il nostro senatore ” si continua a raccontare. “Dobbiamo aiutare i ragazzi a formarsi”, insisteva. Se-minari, convegni, incontri con intellettuali, economisti, esperti nei diversi campi del sapere. Centinaia di persone ricordano di averlo conosciu-to e di avere appreso qualco-sa. Moltissimi hanno letto i suoi articoli e i suoi libri, su Sturzo, Moro, De Gasperi, ma anche sul salentino Sigi-smondo Castromediano, il duca bianco e patriota risor-gimentale innamorato della giovane Adele.

di Tonio Tondo

Un uomo non comu-ne, un maestro, un cristiano. Senza ca-

dere in descrizioni agiogra-fiche (che, tra l’altro, non saprei neppure fare!), non trovo altre parole per rias-sumere la ricca personalità del caro Peppino. Più volte ci siamo confrontati sulla fede e sulla Chiesa, sulle scelte fatte e su quelle da fare. Grandi aperture e se-

reno senso critico. Sì, perché il nostro Peppino non era arrab-biato con la vita o con la Chie-sa che avvertiva come madre e maestra e, proprio per l’af-fetto che lo legava profonda-mente, ne riconosceva anche le lentezze.

Quante pagine non scritte di vissuto ecclesiale sapeva tirar fuori con una facilità di parola che appartiene solo ai grandi, quanto colore sapeva

esprimere nel risuscitare pa-gine del passato raccontate con passione e con quell’iro-nia che si matura nel corso della vita.

Ricordo ancora quando evocava, davanti ad una calda pietanza, le mille peripezie che da giovane cattolico militante aveva dovuto affrontare nelle diverse regioni italiane, in cui era stato inviato dai suoi su-periori per parlare delle scelte

Un credente in piedipolitiche che un credente era chiamato a fare. La sua paro-la mi affascinava anche per la semplicità con cui offriva se stesso nei suoi racconti; ho ap-preso, da quest’arte narrativa, una sapienza di vita che cela, in poche battute, la dignità di una sofferenza che non è più necessario descrivere in tutta la sua crudezza: bastava una pennellata di grigio…e chi vo-leva capire... capiva.

La discrezione, la volon-tà di non ostentare troppo se stessi, l’essere schivo e portatore di una fede libera e allo stesso tempo rispet-tosa: il feeling con una per-sona non si sceglie, accade. Per tutto ciò e per tanto altro che resta non detto, profonda è la gratitudine al caro Peppino e al buon Dio che lo inviato sulla mia strada.

di Don Sebastiano Pinto

problemi?”.Giacovazzo era lontanissi-

mo dagli storicismi crociano e marxista, non accettava che ogni singola persona restasse disorientata nei grandi movi-menti di massa, di destra o si-nistra, nazionalisti e populisti o di classe. “Ciascuno porta la sua pena - sosteneva -, e cia-scuno deve essere riconosciuto nella sua individualità e nella

prendere se non si saldano due urgenze: la prima è quella rivelata da Alcide De Gaspe-ri a un giovane Giacovazzo che lo intervistava a Matera nel 1951, davanti ai Sassi. De Gasperi era commosso di fronte all’umanità povera e dignitosa che brulicava nella gravina. “Presidente - fu la domanda -, quando un giova-ne può dire di avere la passio-

convegni, ricordi, libri, me-morie, tutto era utile e im-portante per impedire l’oblio, destino di tutti, anche degli uomini importanti. Quando De Mita, nella primavera del 1987, dopo la delusione del-la mancata direzione di “Il Giorno” a Milano - malgrado il via libera della direzione - a causa del veto di Craxi, gli chiese la disponibilità a una

2007 - Riunione nella redazione di Paese Vivrai

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numero 137 �Novembre 2012

Era un fuoriclasse. Il suo ultimo articolo sulla Gazzetta era

uscito il 7 settembre scorso, giorno d’inaugurazione della Fiera del Levante. Giusep-pe Giacovazzo cominciava a non stare bene, ma non aveva voluto mancare al-l’appuntamento settimanale con i suoi numerosi lettori. Ci inviò un amarcord, de-lizioso come al solito, sulla Fiera della sua infanzia, in cui la vena nostalgica era mitigata da quelle tracce di ironia e autoironia che han-no costituito il comune deno-minatore di ogni suo scritto. Era così, Giacovazzo. Anche quando scriveva di politica estera o di fatti internazio-nali, di sport o di spettacolo, non voltava mai le spalle alla sua storia, al suo mondo, al suo passato, al suo trullo. Un caso originale e irripe-tibile di narratore glocale. Pensava sicuramente a que-sto l’inglese Lord Warwick, storico dell’età normanna, quando presentando a Lon-dra l’edizione inglese di un bellissimo libro di Giacovaz-zo, intitolato “Puglia, il suo cuore”, concluse la recensione con un’immagine inarrivabi-le: “Non è lui che scrive, ma il suo trullo”. Una frase che inorgogliva Giacovazzo più di un premio alla carriera. Mai unione tra uno scrittore e la sua casa, tra un giornalista e il suo paese d’origine (Lo-corotondo), fu così assoluta, totalizzante, indissolubile. Tanto che, per completare il flash di Lord Warwick, non si è mai capito se sia stato il trullo a scrivere per la penna di Giacovazzo o se sia stato Giacovazzo a scrivere grazie alla magia del trullo.

Chi legge questo giorna-le sa tutto di Giacovazzo. Sa che qui, alla Gazzetta, ha percorso la sua carriera fino al ruolo direttoriale. Sa anche che alla Rai è sta-to fra i pochi editorialisti a privilegiare il fattore cul-tura nella ricostruzione di tutte le vicende politiche di quegli anni (poco) formi-dabili. Sa che il suo sbarco

solco di Aldo Moro), non ha mai confuso militanza e giornalismo, né fatto preva-lere l’ideologia sui princìpi, la tessera sui fatti. Sa, so-prattutto, che lui, maestro nel nostro mestiere, era un innamorato perso del Mez-zogiorno, della Puglia e di Locorotondo in particolare, che amava con l’intensità di un ginnasiale. Ne conosceva le storie più segrete e altre ancora ne avrebbe scovate. L’Elogio del trullo, il volu-me partorito qualche mese fa, è stato il naturale tribu-to, purtroppo l’ultimo, di Giacovazzo alla sua terra. Un libro a tratti struggente, in cui fatti vicini e lontani si intrecciano in un’unica tra-ma degna di una rappresen-tazione teatrale. Giacovaz-zo era un fuoriclasse perché ogni conversazione con lui

Maestro di scrittura

Un grande narratorenella magia del trullo

di Giuseppe De Tomaso*

losofia. Se trattavi questio-ni economiche, potevi ritro-varti a discettare di calcio e Juventus, altra grande passione di Giacovazzo. In ogni caso, imparavi sempre. Imparavi anche quando ti raccontava i segreti della pietra e della nostra archi-tettura, quando discorreva sui suoi cari cipressi o delle sue remote battute di cac-cia.

Era un intellettuale ver-satile, a tutto tondo e a tut-to campo, lontano anni luce dal clich é del meridionale ringhioso o del meridiona-lista singhiozzante. Il suo Sud era quello di don Luigi Sturzo (1871-1959) e Aldo Moro (1916-1978). Chi scrive

invito a leggerla - ci disse -, troverai intuizioni e interpre-tazioni straordinarie. Oltre a Sturzo, leggi l’eccezionale saggio di Luigi Einaudi sulla borghesia del Sud, bisogne-rebbe impararlo a memoria”. Sono pochi i giornalisti-nar-ratori, quelli che sanno rac-contare alternando fatti e introspezione psicologica. Giacovazzo era tra questi. I suoi libri sono un incrocio fra il saggio e il romanzo. I suoi articoli erano un con-centrato di cronaca e analisi, piuttosto che un cocktail di ricostruzioni e opinioni. Doti rare in una nazione dove ab-bondano gli opinionisti, che partono dai pregiudizi per farsi un’idea; e dove scar-seggiano gli analisti, quelli cioè che partono dai fatti per cercare di scavare la verità. ll suo Paese vivrai, il periodico

di Locorotondo, era ed è una lezione continua di giornali-smo. A iniziare dalla grafica elegante per finire alla scelta dei temi trattati. A parti-re dai toni (mai gridati) per approdare ai contenuti (mai banali). E poi, la vocazione a fare scuola, a fare squadra, a allenare e forgiare le giova-nili dell’informazione. Indro Montanelli (1909-2001) scri-veva che i direttori di giorna-le si dividono in due specie: quelli che vogliono volare da soli e quelli che vogliono far volare anche gli altri, soprat-tutto i più giovani.

Giacovazzo apparteneva a questa seconda categoria. La sua gioia più grande era discutere con i colleghi più giovani, sia dal timone del-la Gazzetta sia dalla guida di Paese vivrai. Era, nello stesso tempo, un esteta e un pignolo, non soltanto nel giornalismo. I suoi articoli restano lezioni di scrittu-ra (soggetto, verbo, com-plemento oggetto). Il suo buongusto nello stile, la sua maniacalità per la scelta del-l’aggettivo appropriato ri-mangono sempre di più una rarità in un mondo che oltre alle notizie divora la sintassi con la velocità travolgente di un Boeing. La sua prosa, sempre tersa e mai barocca, era un paradigma di moder-nità. Scrittore, giornalista, animatore culturale e tea-trale. Ma anche politico, nel nome di Moro, cui dedicò un libro-pamphlet che, svilup-pando la tesi di Leonardo Sciascia (1921-1989) - lo sta-tista fu abbandonato al suo destino -, sbertuccerà quei talebani della linea anti-trattativa che favoriranno il tragico epilogo in via Fani. Ma chi scrive vuole ricordare Giacovazzo soprattutto per il suo esempio. E l’esempio, si sa, è la più alta forma di autorità. Addio, caro Diret-tore. In cielo continuerai a scrivere e leggere con uno sguardo al tuo dolce trullo, alla tua bella Puglia, alla tua amata Gazzetta.

*Direttore de La Gazzetta del Mezzogiorno

al Parlamento e al governo (due volte sottosegreta-rio agli esteri, con Amato e Ciampi), non ha mai co-stituito una rottura, uno iato rispetto alla stagione professionale precedente. Sa che, pur non avendo mai celato il suo credo politico (cattolico democratico nel

somigliava a un viaggio di Ulisse (eroe cui lui avvici-nava i pugliesi per sete di conoscenza). Non sapevi dove arrivavi. Se parlavi di politica, ti ritrovavi, poco dopo, a discutere di teatro (suo grande amore). Se par-lavi di giornali ti ritrovavi, poco dopo, a dialogare di fi-

ricorda il suo entusiasmo da esploratore giunto alla meta, quando dopo aver curato un’antologia su scritti meri-dionalistici risalenti al 1912, chiamò al giornale con la sod-disfazione di chi ha appena sfatato miti e luoghi comuni (ragione e obiettivo di ogni autentico intellettuale). “Ti

La Gazzetta

Il Sud

I Giovani

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� Novembre 2012 numero 137

Convincere avvincendo

Lavoravo da quattro anni per il “Quotidia-no” di Taranto Lecce

e Brindisi, avevo già inizia-to a collaborare anche con il Satyricon de “La Repub-blica”. Era il Febbraio1983, mi arriva una telefonata da Gianni Rotondo capore-dattore della redazione ta-rentina de “La Gazzetta de Mezzogiorno”. Mi riferisce che c’è Giuseppe Giacovaz-zo, direttore della testata barese, che è interessato alle

mie vignette. Incontro fissato per la sera successiva. Me lo ri-cordo come fosse ieri. Peppino era seduto in penombra in una poltrona dietro una scrivania, alle sue spalle un grande qua-dro con paesaggio molto bello. Quello che ci dicemmo non lo rammento, ricordo che mi ero recato all’incontro non molto disponibile ma ne uscii entu-siasta. Mi presi una settimana di vacanza per il passaggio da una testata all’altra. Peppino però voleva che iniziassi su-

bito. Bene, la cosa grandiosa fu che pubblicava le mie vi-gnette in prima pagina. La Gazzetta del Mezzogiorno fu il primo giornale a pubblicare le vignette in prima a livello nazionale.

La prima vignetta pubbli-cata in assoluto è datata 10 febbraio 1983. Un Fanfani che ottiene il voto sul caso Eni. Insomma tra me e il Diret-tore si sviluppò un bellissimo rapporto di lavoro, di rispetto e affettivo. Era felice quando

Quelle vignette in prima paginail presidente della Repubblica Sandro Pertini richiedeva gli originali delle mie vignette. Ancora di più quando seppe che Pertini mi aveva invitato al Quirinale dopo che lui gli aveva inviato copia del mio libro “Impertinenze”, editore Dedalo di Bari. Ho tantissimi ricordi, anche personali che non basterebbe tutto il gior-nale per elencarli. Passarono gli anni. Lui divenne Sena-tore dopo aver lasciato “La Gazzetta”. Le nostre vite si

divisero professionalmen-te ma restammo sempre in contatto. I nostri rapporti si riannodarono tramite la collaborazione con Pae-se Vivrai per il quale ogni anno disegnavo il poster na-talizio, che Giuseppe aspet-tava con la stessa gioia di un bimbo che aspetta il regalo di natale. Mi telefonava a ridosso delle feste natalizie per chiedermi il disegno. Quest’anno la sua telefona-ta non arriverà…

Veniva da Roma, era l’uomo della televi-sione: una ventata dei

tempi anche in redazione. Per anni aveva mandato a nanna l’Italia con la dolcezza delle buone notizie e la leggerezza dei sogni. E con lo stesso trat-to misto fra umanità e mito si presentava a chi non lo cono-sceva e a chi lo aveva salutato quando se ne era andato da redattore capo. Quella sera del commiato disse: ho appena fatto l’ultimo titolo. E passò al mondo delle immagini che anche con lui accompagna-rono quei formidabili anni. Erano gli anni dopo il ’68, gli anni della Luna, gli anni del Vietnam e gli anni dei Beatles. Secondo alcuni formidabili danni più che anni, ma certo circondati da una febbre di novità. Non fosse che per que-sto, come tale fu visto e ac-colto. Diciamoci la verità: un mezzo choc. Anche perché lui, che di stanze del potere ben si intendeva, e dello sfuggente potere democristiano, pareva l’em - blema dell’antipotere. Un amicone, se così si può dire, benché possa sembrare stridente per un direttore. Ma Peppino, che era Peppino per tutti, era troppo intriso della sua civiltà contadina di Loco-rotondo, era troppo un figlio dei trulli, era troppo imbevu-to dell’antica umiltà della sua terra di formiche perché po-tesse assumere panni diversi.

E mentre tutto intorno si spazzavano vecchi tabù e odio-se incrostazioni, quando c’era sempre il pericolo di una risata che seppellisse i duri a capire. E poi, non c’era fatto che con lui non avesse un retroscena di narrazione di vita vissuta e di colte ma non spocchiose fre-quentazioni e citazioni. Per-ché in fondo animale di teatro

primattore ma non fino al punto, per dire, di voler fare il bambino a un battesimo o la sposa a un matrimonio. E poi, juventino, aggettivo che basterebbe a sintetizza-re tutto lo sproloquio fin qui elargito su di lui. Sempre con Boniperti e allora Trapatto-ni ogni volta che la squadra giocava a Bari. E sempre quella sorprendente familia-rità con tutti, perché Peppi-no era uomo di rapporti di primissimo livello, sia ben chiaro, quel personaggio na-zionale che aveva saputo di-ventare senza sgomitare, lui che era partito dalle scarpe piene di terra.

Poi ci fu un’altra sera del commiato in redazione, quando la politica irruppe in lui dopo la televisione e il giornalismo. Ma di pane e politica si era sempre nu-trito, soprattutto nel nome di Aldo Moro. E però chi lo ha vissuto da più vicino, può garantire che di tutto dava l’idea tranne che del mam-masantissima, di quelli che il potere logora chi non ce l’ha. Anche da senatore prima e da sottosegretario dopo, Peppino era Peppino, e il trullo sempre lì ad attender-lo. Certo, nessuna ipocrisia da ultimo arrivato, ne sapeva più di tanti, perché conosce-va molto più di tanti. Ma è sempre rimasto quella botta di giovinezza di sempre, ci si chiedeva sempre quanti anni potesse avere. Da vecchio uomo di Puglia, Peppino era la dimostrazione che ci sono più cose in cielo e in terra che su tutti i libri di filosofia pur a lui notissimi. Ora che ci ha lasciato, la gente della cam-pagna potrebbe dire di lui ciò che disse del suo amico Di Vittorio: “lo voleva bene pure le pietre, non saccio come ha fatto a morì”.

che nei momenti della Storia trovava il risvolto delle storie che intercettavano sempre il comune sentire popolare. Il fatto è che il primo ad amare in modo voluttuoso la vita era lui. Con una capacità conta-giosa di trasmetterla, compre-si i corridoi della redazione, compreso il companatico del

arrabbiato, tutto il contrario di chi ha sempre l’aria di avere addosso l’u n ive r s o. Ma poi, non ne aveva mica bisogno. Peppino era uno di quelli che convinceva senza imporre, che incantava senza plagiare, che con una battuta nel suo amatissimo latino era capace di irridere ogni guerra piccola

di Lino Patruno era rimasto, quel teatro che da giovane aveva calcato, e che lo aveva messo a contatto con i più grandi interpreti, a cominciare da Eduardo. Così lievi erano le giornate con lui. Non meno della sua mano che non scriveva ma pennellava, che non sanciva ma stimola-va, che aveva sempre le let-ture giuste alle spalle, che an-

dopolavoro oltre il lavoro.Così la pizza che con lui ir-

rompeva nei nottambuli ritmi dei giornalisti era non solo un ’68, appunto, non solo un’oc-casione di stare insieme lonta-no dagli inevitabili veleni del-l’aria, ma anche un modo di sdrammatizzare a modo suo. Si può tranquillamente giu-rare di non averlo visto mai

o grande. Lo sentivi superiore senza che lui se ne sforzasse. Lo sentivi superiore proprio perché non lo faceva. Gigio-ne un po’ lo era, i suoi tacchi sempre un po’ più alti denun-ciavano una piccola sindrome da prima donna, il suo modo di prendere la scena avrebbe fatto invidia a un Albertazzi o a un Gassman, il microfono

di Nico Pillinini

per lui era una flebo. Magari egocentrico come tutti quelli che meritano il centro.

Però la sua voce era un flauto, e tanto magico da perdonargli tutto, anche perché il suo stile era ben lontano dai tempi sbracati che l’Italia e non solo l’Ita-lia avrebbe subìto. Insomma

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numero 137 �Novembre 2012

È difficile scrivere un ricordo: la me-moria dissolve,

confonde, cela, tradisce e i sipari, lasciandoci smar-riti, calano sempre troppo presto su ricordi teatrali, ombre nelle ombre svani-te delle rappresentazioni. Del teatro meridionale Giuseppe Giacovazzo è stato un protagonista. La politica, prima passione nata nella sua Locoroton-do, era ben altro per lui che racconto paesano, di-vagazione elettorale tra i trulli silenziosi ed ignari.

A Bari, negli anni ‘50, città inquieta dove c’è posto per gli entusiasmi,

Giacovazzo si occupò di cul-tura come trascinamento del politico, del sociale in una dimensione aperta, capace di svelare ragioni ed emozioni profonde dell’animo umano e tradurre una acuta passione civile in azione. Giacovazzo si impegnò all’Università con iniziative di rilievo: un premio nazionale di pittura, gli “In-contri con i poeti della Ter-za Generazione” che videro a Bari illustri esponenti (un giovanissimo Pasolini tra gli altri).

Poi il teatro lo chiamò. Bari, città sempre con la te-sta alta sopra le sue effettive possibilità, voleva un Teatro Stabile ad imitazione del Pic-

colo di Milano. E nel 1954 ne aveva avviato la costituzione, con alterne fortune. Allora nel 1956 la direzione artisti-ca venne affidata a Giaco-vazzo che comprese, però, le difficoltà di operare a Bari: il teatro era fenomeno di élite; i giovani erano assenti; i pur numerosi filodrammatici non facevano pressione sociale. Giacovazzo volle perciò allar-gare gli spazi operativi. Crea il Teatro Regionale Pugliese (prima iniziativa in Italia) promosso dalla Provincia di Bari e dalla Unione delle Pro-vince che debutta, a Natale 1957, con Assassinio nella Cattedrale di Eliot, regia di Orazio Costa, protagonista

Teatro, la sua passioneSalvo Randone, con Andrea Checchi, Alessandro Ninchi, Carlo Alighiero. Uno spetta-colo indimenticabile nato nel-la prospettiva di un progetto regionale di cui non si com-prese la lungimirante visione, anche se incerta è stata poi la capacità di tradurre in con-tinuità il progetto sognato, perché mancarono i supporti tecnici-amministrativi.

Dopo la chiusura del-l’esperienza, Giacovazzo non abbandonò la sua passione per il teatro e fu al CUT Bari partecipando alle peregrina-zioni in Puglia con dibattiti in piccoli e grandi centri cul-turali. Ricordo, con rimpian-to incancellabile, la bellezza

serena di quegli incontri, la nostra sorniona allegria, la semplicità del suo dire, il rapporto creativo con la gente, la tensione dei senti-menti, specie su Pirandello (suo autore preferito), sul meridionalismo.

In Puglia ha sempre se-guito le evoluzioni della cul-tura teatrale e si è battuto per valide iniziative come il Festival della Valle d’Itria. E la cultura, oltre la politi-ca, oltre il giornalismo, gli è restata sempre dentro come un tormento chiaro, come una luna accesa sui trulli ad illuminare per sempre infiniti paesaggi: misteriosi, segreti, straordinari.

Moroteo e anarchicoUna morbida cravatta

Lavallière, il fiocco nero degli anarchici,

al collo dell’erede moroteo per eccellenza. Giuseppe Gia-covazzo riservava di queste «sorprese». Un dettaglio ri-velatore non solo del modo di vestirsi, da non definire look, per carità. Si era nella secon-da metà degli anni Ottanta e un anglicismo poteva farti licenziare il giorno stesso del-l’assunzione. Imperava nelle redazioni il burbero «Lepri», un manuale del direttore del-l’agenzia Ansa e i direttori dei quotidiani erano ciò che sono rimasti nel dettato del con-tratto e nella prassi: gli ultimi monarchi, più o meno illumi-nati, in un mondo altrimenti democratico; almeno in appa-renza, democratico.

Nella «stanza del diretto-re» della «Gazzetta» il pri-mo incontro con Giacovazzo scompaginò nel praticante giornalista l’immagine del democristiano notabilare e seduto sui successi. «Non moriremo democristiani» aveva scritto festosamente Luigi Pintor sul «Manifesto» in occasione di una sconfitta elettorale della «Balena bian-ca», peccando una tantum di ottimismo, perché abbiamo rischiato e rischiamo di molto peggio. Vent’anni dopo il ba-rese Raimondo Coga, primo editore degli eretici ingraiani del «Manifesto» espulsi dal Pci, raccontò che la fortuna popolare della rivista si doveva all’amico Giacovazzo, il quale quasi ogni sera trovava modo di citarla conducendo il Tg1.

litica, le amicizie con Paolo Grassi, Salvo Randone, Pier Paolo Pasolini, la frequenta-zione di Padre Pio e natural-mente di Aldo Moro. Il tutto è ricostruito con lo sguar-do della figlia americana di Laura, ventenne inquieta e candida che approda nella Puglia di fine Novecento di-versissima dalla patria ma-terna, eppure fedele al peg-gio e al meglio di allora (per certi versi, il romanzo ricor-da le struggenti atmosfere di I ponti di Madison County).

Battersi per il riscatto del Sud, «sporcarsi le mani» con la realtà secondo il monito di Vittorini è la benedetta maledizione di Giacovazzo, costretto per ciò a temperare sia l’incanto della fede sia un disincanto invece laico e «tea-trale», un’eleganza balzachia-na nello stare al mondo che era parte del suo charme.

L’ultimo libro, apparso solo qualche mese fa per i tipi della Dedalo di Coga, è Elo-gio del trullo, con una pre-messa affettuosa di Andrea Camilleri e gli echi dei soda-lizi dell’autore con Eduardo De Filippo, Luciano Bian-ciardi e il giovane Leonardo Sciascia che a Bari, grazie a Giacovazzo, collaborò con la «Gazzetta» e trovò in Vito Laterza il primo editore (Le parrocchie di Regalpetra). I trulli come esperienza an-tropologica e paesaggio del-l’anima: monadi costitutive del reale, solitarie eppure solidali. Pietre secolari, mu-retti a secco, ulivi enigmatici e un popolo di cattolici anar-chici. Laggiù all’orizzonte, il mare.

contro lo Stato ingrato. Era-no - e rimangono - altrettante «convergenze parallele», se-condo la formula metafisica e a suo modo poetica, degna degli ispanismi di Bodini, co-niata da Aldo Moro. Orfano di Moro, Giacovazzo non ne disarmò l’anelito a conciliare l’inconciliabile, ad accordare le note stonate di un Paese perennemente minacciato dalla prova d’orchestra felli-

che avrebbe dato alle stam-pe, fino a due volumi del 2003 entrambi editi da Palomar: Moro 25 anni dopo. Misteri e Puglia. Il suo cuore.

Intanto, però, c’era stata la svolta narrativa con Sto-ria di noi dispersa (Marsilio, 1998). In quelle pagine Gia-covazzo si mette in gioco, celandosi appena dietro un alter ego letterario, con un afflato collettivo evidente fin

le coscienze di un’intera ge-nerazione post-bellica, sep-pur divisa fra i cattolici come Giovanni e i comunisti nelle cui fila milita l’amatissima Laura, prima di andarsene in America per sposare uno dei liberatori a stelle e strisce.

Le strade per affrancarsi in Storia di noi dispersa sono in fondo le stesse percorse dal giovane Giacovazzo: l’in-segnamento, il teatro, la po-

di Oscar Iarussi Erano tempi così. Quel fiocco «francese» sulla camicia, in-dolente eppure pugnace, an-nodava mondi distanti che in Giacovazzo convivevano con rara eleganza e con la sprez-zatura propria della sua scrit-tura: il potere e la cultura, il Palazzo e la terra, la politica e la fede, la necessità dello Sta-to nel Sud sempre tentato dal-la Vandea e le ragioni del Sud

niana, cioè in bilico sul caos. Dietro la rabbia s’intitola uno dei suoi primi libri (SEI ed.), una trascrizione di interviste televisive trasmesse nel 1977, anno di rivolta giovanile tra «indiani metropolitani» bolo-gnesi e «autonomi operai» che all’università di Roma con-testarono il segretario della Cgil Luciano Lama. Un libro giornalistico, al pari di altri

dal titolo. Un flashback nella nostra storia, o, meglio, «una processione a ritroso» verso la natia Locorotondo all’indo-mani dell’8 settembre 1943, là dove un soldato america-no ucciso viene vendicato da un commilitone. È il doppio omicidio cui assiste Giovanni, il protagonista. Sullo sfondo c’è il Sud «immobile » che finalmente si risveglia come

di Egidio Pani

Filodrammatica di Azione Cattolica: La casa sotto il nembo. Al centro, in piedi, vestito da prete, Giuseppe Giacovazzo.

(Tratto da Una decina di scalmanati, Levante editori-Bari, 2008)

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Il cordoglio della politica

Un grande MeridionalistaCarlo Azeglio Ciampi

“Apprendo con tristezza la notizia della scomparsa del se-natore Giuseppe Giacovazzo, figura esemplare di intellet-tuale e di politico del quale ho potuto apprezzare rettitudine morale, l’alto senso delle isti-tuzioni e il profondo, convin-to impegno meridionalista. In questo difficile momen-to desidero esprimere ai fa-migliari tutti il sentimento del mio cordoglio e della mia commossa partecipazione al loro lutto”.

Gianfranco Fini“Appresa la notizia del-

la scomparsa del deputato Giuseppe Giacovazzo, com-ponente della Camera dei Deputati nella dodicesima legislatura e senatore nella decima e undicesima legi-slatura, desidero esprimere la mia più sentita parteci-pazione al vostro dolore. Con Giuseppe Giacovazzo, autorevole personaggio della vita politica italiana, scom-pare un valente giornalista e uno scrittore di elevato pro-filo culturale”.

Nichi VendolaCon Giuseppe Giacovaz-

zo scompare una certa idea, cara anche ad Aldo Moro, di un Meridione dialogante, che rifiuta i facili vittimismi, mai rassegnato, piagnone e demagogico, ma sempre pronto a misurarsi sulle sfide più importanti del futuro.

Un Sud che Giacovazzo ha raccontato continuamen-te nella sua lunga carriera di uomo delle istituzioni, di poli-tico e di giornalista, di fine in-tellettuale. Ci mancherà il suo sguardo lungo, appassionato, colto e profondo, il suo essere

testimone e narratore dei tem-pi moderni. Vorrei esprimere tutto il mio cordoglio e la mia vicinanza alla famiglia di que-sto amico davvero speciale.

Tommaso Scatigna“E’ una grave perdita

dal punto di vista cultu-rale. Persona dal grande spessore umano e politico, dotato di grande intelligen-za critica e capace di elar-gire insegnamenti a diverse generazioni.

Giuseppe Giacovazzo. “Ai sentimenti dell’intera Assem-blea e dell’Ufficio di Presiden-za, unisco la mia commossa partecipazione personale”, dichiara il presidente Onofrio Introna. “Ci addolora pro-fondamente la perdita di un uomo di specchiate virtù e di un professionista di qualità superiori, giornalista e Mae-stro di giornalismo, scrittore ispirato, politico intelligente, fino a qualche mese fa inap-puntabile e attivo presidente del Corecom Puglia. Nel ri-

il piacere di conoscerlo per-sonalmente e di sostenere attivamente la sua campa-gna elettorale per il Senato con la Democrazia Cristia-na nel mio collegio, quello di Tricase, e sono orgoglio-so di averlo fatto. Col tem-po abbiamo instaurato un rapporto personale di sti-ma reciproca frutto di valo-ri umani e cristiani comuni. Ho apprezzato, condiviso e sostenuto le sue battaglie politiche e culturali sempre al servizio ed in difesa del

Giuseppe Giacovazzo. Con lui, il nostro Paese, il Mez-zogiorno, la Puglia e molti attori culturali e politici, perdono un faro ed un ami-co col quale poter parlare di ogni argomento. Ricordo sempre le sue osservazioni politico-culturali acute e sincere sul mio lavoro e sul ruolo della Valle d’Itria e sull sue bellezze”.

Francesco Boccia“La scomparsa di Giu-

seppe Giacovazzo è un pro-fondo dolore personale e una grande perdita per la politica e la società meridio-nale. Per me Peppino è stato un secondo padre che mi ha consentito di avvicinarmi alla vita politica, ho passa-to con lui tantissimo tempo, tante serate durante le qua-li, ospite nella sua casa, par-lavamo ore ed ore. Lui mi ha insegnato la passione per la politica che intendeva come azione per migliorare la vita dei cittadini.

Grande giornalista, stret-to collaboratore di Aldo Moro, ha veicolato la lezione dello statista democristiano nelle nostre terre e ha sem-pre praticato il giornalismo e la politica come strumenti al servizio dell’interesse ge-nerale, principio che lo ha ispirato nella sua azione di parlamentare e di governo. Lascia un vuoto enorme”. Così Francesco Boccia, che esprime cordoglio alla fami-glia di Giuseppe Giacovazzo a nome dell’Ufficio di Presi-denza del Gruppo del Pd del-la Camera.

Agnese e Giovanni MoroVi siamo vicini con grande affetto in questo triste mo-mento. Ci mancherà tanto.

“Con Giuseppe G i a c o v a z z o scompare una

firma storica del giornali-smo italiano, una delle fi-gure più rappresentative di quel Sud operoso e intelli-gente capace di portare un contributo significativo alla crescita del nostro Paese. Maestro di giornalismo per generazioni di giovani in-tellettuali, egli ha saputo

Resterà il suo esempioconiugare grandi visioni ad un impegno quotidiano in-stancabile, accompagnando la nostra terra in un percor-so di emancipazione sociale, politica e culturale attraver-so la conoscenza dei fatti, l’analisi della realtà, la co-struzione di un patrimonio ideale e culturale comune. Nel corso della sua lunga car-riera, prima al Tg1 e poi alla direzione della Gazzetta del

Mezzogiorno, Giacovazzo ha incarnato una voce libera e in-dipendente, attenta alla verità e determinata a far valere le ragioni del Sud nel più ampio panorama dell’informazione nazionale.

L’amore per la sua terra si è sempre manifestato, con straordinaria autenticità, nel corso della sua attività parlamentare e di governo, negli anni in cui il rapporto

stretto che legava il popolo pugliese ai propri rappresen-tanti a Roma passava attra-verso la conoscenza persona-le e diretta. Legami costruiti nel corso di riunioni di parti-to durante le quali fiorivano idee e progetti, nei comizi che animavano paesi piccoli e grandi, nelle tante occa-sioni di incontro e confronto con i cittadini che vedevano in lui un riferimento certo.

Ho avuto la fortuna di conoscere Giuseppe Gia-covazzo, di esserne amico, di ricevere da lui consigli e suggerimenti che porterò per sempre con me. Il suo esempio resterà una traccia nitida in chi lo ha seguito e gli ha voluto bene e nell’in-tera comunità barese e pu-gliese alla quale ha dedicato la passione di una vita”.

*Sindaco di Bari

Locorotondo, a partire dalla Casa municipale, ricor-da con rispetto un suo gran-de concittadino, consapevole di aver perso un protagoni-sta della storia di gran parte del secolo scorso”.

Introna e il Consiglio regionale

Il Consiglio regionale esprime il più sentito cordo-glio per la scomparsa del sen.

cordo di un amico indimenti-cabile, ci stringiamo alla sua famiglia”.

Rocco Palese“Profonda tristezza per

la scomparsa di Giuseppe Giacovazzo” viene espres-sa dal capogruppo del Pdl alla Regione, Rocco Palese. “Con lui la Puglia ed il Mez-zogiorno perdono un uomo di grande valore umano, politico e morale. Ho avuto

Mezzogiorno. Ha dato tan-to alla nostra Puglia e al nostro Sud in tutte le sfide in cui si è cimentato, dalla politica alla cultura al gior-nalismo”.

Donato Pentassuglia“Esprimo il mio profon-

do cordoglio – dichiara il consigliere regionale del Pd - per la scomparsa di un fi-glio eccellente e fine della Valle d’Itria, quale il Sen.

Giuseppe Petrelli, Giuseppe Giacovazzo, Albano Carrisi e Lino Carparelli in una conferenza sul vino all’Auditorium Comunale

diMichele Emiliano*

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numero 137 �Novembre 2012

Da parolaio a paroliere

Le parole tra noi leggereNon ricordo esatta-

mente chi mi fece conoscere Peppino

Giacovazzo, ma alla luce della nostra amicizia, pos-so solo dire che fu un se-gno della Provvidenza.

Io avevo sempre letto tutto, o quasi, di lui. Lo consideravo il Montanelli di Puglia per quel piglio deciso nel diffondere idee ed ideali e la chiarezza nell’espressione. Lo segui-vo con simpatia ed am-mirazione sin da quando conduceva il telegiornale, orgoglioso del fatto che un pugliese – come me – era il giornalista che “racconta-va” l’Italia agli italiani.

Passeggiando con lui nel bosco delle mie tenu-te, riuscivo a respirare non solo il profumo degli alberi ma anche l’aria di quella pugliesità che Peppino mi aveva insegnato ad ama-re ancor più di quanto io l’amassi da sempre. Mi aveva raccontato la storia di questa regione e dei suoi figli più illustri. Non per-devo occasione di sentirlo raccontare episodi e aned-doti che hanno fatto gran-de la Puglia ed ero sempre affascinato dai suoi rac-conti, come gli allievi dei grandi filosofi greci che erano sempre pronti a di-spensare pillole di saggez-za ai discenti.

Con lui ogni incontro era un tuffo nella cultu-ra. I suoi libri sulla Puglia

dovrebbero essere come la Bibbia per noi pugliesi: dovrebbero stare in tutte le case.

ventare un... paroliere”. Sta di fatto che le “sue” canzoni hanno lasciato il segno: tutte intrise di

Ricordo con un sorriso i nostri viaggi, in Russia e in altre parti del mondo. Aveva sempre qualcosa da

ai particolari che rischiava spesso di sfuggirmi.

Le sue condizioni di salute non gli hanno per-messo di essere con noi nell’ultima edizione del “Mea Puglia Festival”, del quale è stato l’ideale animatore negli anni pre-cedenti. Insieme abbiamo sempre scritto il canovac-cio di questo Festival che poi è diventato lo spetta-colo della musica con la Puglia sempre al centro di tutto.

Da quando stava male, sono andato più volte a trovarlo. Qualche volta a casa, altre volte in ospe-dale ad Acquaviva. Sono riuscito a farlo sorridere, perché aveva perso quel-l’allegria che lo aveva sem-pre contraddistinto nei rapporti con gli altri. Sono perfino riuscito a convin-cerlo a lavorare ancora una volta. Insieme avevamo un progetto: “Puglia Madre Mia”. Gliel’ho ricordato in ospedale, quando ormai si era lasciato andare. Qual-che giorno dopo ha chiesto al figlio di portargli il com-puter e ha scritto: come aveva sempre fatto, magi-stralmente, nella sua vita.

Mi ha chiamato il fi-glio, qui in Canada dove mi trovo adesso per lavoro, per dirmi che Peppino non c’era più. Invece Peppino c’è ancora. Lo sento. Lo sento io, lo sentono i pu-gliesi. Lo sentono tutti.

Con la morte di Giu-seppe Giacovazzo abbiamo perso una

presenza umana sensibile, animatrice e coinvolgente ma sopratutto un esempio di vita. La Sua dipartita lascia un vuoto incolmabile non solo a Locorotondo, ma nel mondo della comunicazione, dello spettacolo dal vivo, nel-le Istituzioni, nella cultura. A me piace ricordare la Sua lealtà e la Sua amicizia au-tentica. Mi chiamava, in senso affettuoso “Fran-chino” sin dagli anni ‘70

L’impegno per il Festivalquando, con Paolo Grassi e Lorenzo D’Arcangelo, accom-pagnava critici e giornalisti a visitare il Centro Storico di Martina per far ammirare il Barocco e la Valle d’Itria. Negli anni ‘80, dopo la morte di Paolo Grassi, mi restò vici-no pronto ad incoraggiarmi nell’affrontare le difficoltà, le insidie ed i rischi del Festival della Valle d’Itria. Ogni anno, il giorno dell’inaugurazione del Festival, di buon’ora, mi piace-va leggere nella prima pagina della Gazzetta del Mezzogior-no il Suo editoriale puntuale

ed esaustivo. Per me rappre-sentava un augurio. Quando veniva agli spettacoli avverti-vo la Sua presenza autorevole e l’amabilità del Suo cuore che batteva anche per noi.

Nel 1995 il Festival della Valle d’Itria istituì il premio “Lorenzo D’Arcangelo” con-sistente nel riconoscimento ad un critico che, nell’anno prece-dente, aveva curato in modo particolare l’edizione della manifestazione. A Giacovazzo fu affidata la presidenza della giuria e lui, con entusiasmo, accettò anche questo impe-

gno. Peppino è stato un gran-de, infaticabile organizzatore culturale e, come tale, aveva il senso dell’ordine, dell’iniziati-va, della precisione e della cor-rettezza. Come amministrato-re pubblico aveva una qualità che oggi è ancora più rara delle altre “il senso delle Istituzioni” accompagnato dal senso delle persone e delle cose di cui si oc-cupava. In ogni Suo “fare” o “dire” c’era competenza, intel-ligenza, entusiasmo e profondo amore per la cultura. Fino al settembre scorso, atten-devo il sabato per leggere le

sue riflessioni profonde su-gli eventi della settimana per poi discuterne insieme. Duro come la roccia della Murgia, ma dotato di pro-fonda umanità il saggio Giacovazzo mi ha insegnato ad amministrare il pubblico come il privato, ad amare il Teatro di De Filippo come la musica di Verdi, a scegliere il messaggio Evangelico come guida della propria esistenza. Ciao Peppino, amico mio.

*Presidente Festival della Valle d’Itria

Non è stato facile con-vincerlo a scrivere per me qualche canzone: “Io sono un parolaio – diceva sem-pre – e tu mi hai fatto di-

una profonda pugliesità, canzoni che profumano di storia o che raccontano del nostro mare e della nostra terra.

raccontarmi, qualcosa che mi arricchiva e mi faceva vivere una città in modo di-verso da come ero abituato e viverle: con un’attenzione

diFranco Punzi*

di Albano Carrisi Il legame di amicizia con Albano

Giuseppe Giacovazzo con Mimmo Guglielmi e Albano Carrisi

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Uno sguardo acuto sulla realtà

Testimone del suo coraggio“Mentre l’amico

caro attraver-sava / l’ultimo

viale (filare di nodosi / ad-dii) – più grandi degli sguar-di / erano gli occhi. […] più grandi delle mani / erano i gesti […] / lottava con la lingua / la parola, il palmo con le dita . / […] le lacri-me erano più enormi di oc-chi umani…” . Questi sono alcuni versi di una poesia di Marina I. Cvetaeva, poetes-sa russa, le cui liriche spesso hanno fatto capolino dalle pagine di Paese Vivrai di qualche anno fa e che tanto care erano al nostro diret-tore. Sono versi scritti pro-prio per esprimere il dolore per la perdita di qualcuno e l’impossibilità di esternare pienamente l’ultimo saluto. Sì, perché è difficile trova-re le parole giuste, quando nella mente si accavallano ricordi fervidi, immagini ni-tide delle esperienze vissute insieme, nella redazione di questo giornale. Quattro anni intensi, i primi, in cui questa creatura è nata ed è cresciuta, fino a divenire pa-trimonio del nostro paese. E penso di essere stata davve-ro fortunata, per tanti moti-vi, ma per uno in particola-re. Sono stata testimone del coraggio e dell’entusiasmo con cui un intellettuale del calibro di Giuseppe Gia-covazzo si è messo a capo di una “banda di ragazzi” inesperti ma appassionati, condividendo con loro mo-menti di lavoro e di allegria. Ricordo quando, a bordo della mia Fiat 126, abbia-mo trasportato i libri per la

Sala Lettura, prima sede del giornale, inaugurata niente-meno che da Sergio Zavoli. O di quando, sempre con lo stesso mezzo di trasporto, abbiamo setacciato le cam-pagne tra Locorotondo e Martina Franca, per trovare la residenza estiva di un noto professore universitario di Bari, semplicemente per

E mi mancherà proprio il suo sguardo acuto sulla real-tà, la sua capacità critica di andare oltre l’apparenza dei fatti, il suo modo di scrivere diretto e scorrevole, sempli-ce e pungente. Era bello “co-struire” di volta in volta il numero del giornale, perché si imparava sul campo, ma più semplicemente perché

Ho incontrato Giu-seppe Giacovazzo qualche settima-

na prima del suo ricove-ro in ospedale, per una di quelle malattie che s’av-ventano con ferocia sulla preda, devastandone il corpo ma, anche, l’animo, riducendo in brandelli bar-lumi di speranza e voglia di sostenere l’aggressione.

Forse anche di vivere giorni d’attesa della fine. Cambiano allora i colori turchini e tersi del cielo

Quell’ultimo incontroche, d’improvviso, si am-manta di nere gramaglie che lo mostrano tale; persino i fiori perdono il profumo che emanano e il garrire gioioso delle rondini si trasforma in fastidioso stridìo, quasi un coltello che si rigira nella fe-rita tanto è brutale, cinico, il contrasto tra la vita che va spegnendosi e la vita che, d’intorno, continua indiffe-rente al dramma personale.

Si era fatto accompagna-re a Bari da un mio coetaneo che conoscevo e che, negli

ultimi tempi, gli faceva da autista, per sbrigare alcune faccende da un notaio, così mi parve di capire. Lì, in Piazza Moro, ci siamo scam-biati qualche parola. Alcune le tengo per me.

Non ho avuto un legame particolare con Giuseppe Giacovazzo e il rapporto ha avuto, anche, qualche spi-golosità ma ciò non ha dimi-nuito l’apprezzamento per l’uomo di cultura, una cul-tura che nello scrivere e nel dialogare, affabula, coinvol-

ge, emoziona.Non sapevo della sua

malattia, ma mi bastò guar-darlo per capire che non mi ritrovavo di fronte a una persona integra nel fisico, malgrado la grande lucidità per niente scalfita.

Mi salutò con una stret-ta di mano e con un “Addio, fratello!”. “Compagno!”, precisai con tono umori-stico. Sorrise. Non colsi in quel saluto, un messaggio di congedo, un addio per sempre.

chiedergli una collaborazio-ne. E come dimenticare la mattina in cui, alle quattro, muniti di macchina fotogra-fica, siamo partiti alla volta di Torre Canne, per vedere se fosse ancora salda la tra-dizione, tutta locorotonde-se, di fare il bagno all’alba del primo settembre.

Ma, al di là di tutto, abbia-mo ricevuto un grande dono: quello di imparare a credere nella forza delle parole che, qualche volta, possono con-tribuire a cambiare la realtà.

era l’occasione per cono-scere dalla sua voce storie e momenti di vita vissuta. E che vita! Mi sono sempre chiesta come sia stato pos-sibile concentrare in una sola persona un bagaglio di esperienze, di avventure e di conoscenze così variegato. Non mi sarei mai stancata di ascoltare il racconto di vicende riguardanti Aldo Moro, Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia, solo per dirne alcuni. Sono stata fe-lice quando alcuni di questi

racconti sono approdati nel libro “Puglia, il suo cuore”. In punta di piedi, ho visto nascere questo progetto edi-toriale, in cui il proposito di interpretare le mille sfac-cettature della Puglia e dei Pugliesi, diventa l’occasione per dichiarare il suo amore per questa terra e per il suo paese, perché “un paese vuol

di Mario Gianfrate

di Erminia Ruggiero

Come nacque Paese Vivrai

Nell’autunno del 2000, per coinvolgerli concreta-mente alla vita sociale politi-ca e amministrativa del pae-se, convinsi alcuni studenti a dar vita ad un giornale lo-cale. Su suggerimento di un amico, andai, poi, a trovare Peppe Giacovazzo. Peppe, allora 75enne, si era ormai ritirato nel suo bel trullo che fa capolino, tra fronde di lec-ci, su un’altura panoramica della valle d’Itria. Gli dissi che mi serviva un “giocatto-lo”, ovvero un giornale che appassionasse soprattutto i giovani. “Il giornale non è un giocattolo, – mi rispose in tono secco – ma sono curioso di conoscere questi giovani”.

Alla riunione che seguì si capì subito che Peppe aveva già deciso di dare una mano. Propose perfino la testata “Paese Vivrai”, che fu ac-cettata immediatamente. A Natale del 2000, sull’onda dell’entusiasmo ed in attesa di registrazione, il periodico “Paese Vivrai” cominciò ad apparire in edicola. Occor-reva un editore. Lo trovai grazie a Gero Grassi, oggi deputato Pd. “Tempo addie-tro – scriverà più tardi Gero Grassi – quel geniale inven-tore della politica-cultura e del giornalismo che risponde al nome di Peppe Giacovaz-zo insieme a Linuccio Giotta mi chiesero di poter servirsi della Cooperativa Culturale RTS di Terlizzi per editare un giornale. Accettai l’idea e condividendone spirito positivo e bontà, addirittu-ra assunsi la Direzione del giornale “Paese Vivrai”, il migliore prodotto giornali-stico della stampa locale nel-la nostra Provincia. Nessun merito mio, tutto merito di Peppe e dei suoi collaborato-ri”. Gero Grassi resta diret-tore responsabile di “Paese Vivrai” fino all’ottobre del 2011, cioè fino al passaggio della proprietà della testa-ta del giornale dalla RTS di Terlizzi all’Associazione di Promozione Sociale “Paese Vivrai” di Locorotondo, ap-positamente costituita. Pep-pe Giacovazzo, già direttore editoriale, diventa il nuovo direttore responsabile.

Angelo Giotta

Giuseppe Giacovazzo con gli amici del Partito Popolare

dire non essere soli”. Non a caso le parole di Pavese dominano le prime pagine di “Paese Vivrai”. Leggere i suoi scritti sarà il modo per sentire sempre viva la sua presenza. Ma, a dire il vero, non posso fare a meno di pensare che sia ancora lì, nella nicchia del suo trullo, accanto al camino, davanti alla sua macchina da scrive-re, in un silenzio rotto solo dal rumore dei tasti che si confondono col crepitio del fuoco. Ciao Peppe.

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numero 137 �Novembre 2012

Era uno degli scalmanatiGiugno 2007. Mi recai

presso la sua casa per intervistarlo. Mi pro-

ponevo di conoscere il ruolo avuto nella nascita dell’Azione Cattolica a Locorotondo. Sape-vo che ad un minimo input lo scrigno della sua memoria si sarebbe aperto. Fu quello che puntualmente accadde anche in quella circostanza. Fui in-vestito, infatti, ben presto, da una pioggia di ricordi, dove si venivano intrecciando piccoli e grandi fatti di un tempo. Par-lando di sé e della sua esperien-za, Giacovazzo apriva scenari di vita comunitaria dove spic-cavano personaggi con forti passioni, emozioni e senso iden-titario di appartenenza.

Almeno tre, le doti di rilievo. Il fascino della comunicazione scritta e parlata che superava quello del comune professioni-smo giornalistico. La curiosità intellettuale nei campi più sva-riati del sapere. La ferrea me-moria, sostenuta dall’intensità dei vissuti.

E la memoria era la sua vera forza. Era il suo cavallo di battaglia. Dai ricordi del pas-sato al senso del presente, alla prefigurazione del futuro. Que-sto lo schema classico per dialo-gare, interpretare gli eventi ed elaborare proposte. Ma anche per costruire un protagonismo di ricaduta sulle più importanti scelte politico-sociali, specie per il Mezzogiorno.

Nella fede, la sintesi del-l’azione. La vicinanza ad al-

cune figure sacerdotali chiave nella sua formazione, infatti, fu decisiva per l’impegno socio-po-litico. Così Giacovazzo si espri-meva nel ricostruire alcuni mo-menti iniziali di tale impegno attorno alla metà degli anni ‘40: […] ebbi la spinta ad entrare in politica […] ad opera di don Luigi Semeraro e di don Orazio Scatigna che ben presto mi chia-

politica, avendo modo, in Bari, che frequentavo come studente, di addentrarmi nella lettura dei primi fogli politici quali “De-mocrazia Proletaria” del Partito Comunista, “Italia Libera” de-gli Azionisti e “La Rassegna” del Partito Liberale, a cui colla-borava Aldo Moro. […] Resta il fatto che il contributo dell’Azione Cattolica alla costituzione del na-

sofferta, la sua appartenenza. E per sua stessa ammissione: Io inizialmente ero solo un laico cristiano incuriosito. Non sono stato mai un chierichetto, né un aspirante di AC. Anzi –siamo ai primi degli anni ’40- ricordo che quasi provocatoriamente fa-cevo qualche critica tra i compa-gni di Azione Cattolica, come se fossi un po’ diffidente di questa

disdegnava di partecipare alla crescita spirituale e culturale di quella “banda”. Secondo, perché la contestava, spin-gendo, però, in avanti la rifles-sione, come sempre. Verso un oltre. Verso quell’oltre su cui poi ha costruito la sua noto-rietà, il suo mestiere di uomo, il suo professionismo di clas-se, la sua attenzione sistema-tica al suo paese e alle tante e varie situazioni di degrado. Ovunque si annidassero.

Resterà un esempio raro di dedizione e di illuminante impegno in ogni ambito del-l’agire sociale. Ha contribuito a rigenerare il territorio e a esaltarne le radici di pugliesi-tà con la parola vibrante, con lo sguardo vigile, con la grin-ta giovanilistica.

Integro, sino al termine, nelle sue facoltà elaborative, ebbe il vezzo di distendere un tipo particolare di sguardo sulla sua terra e la sua gente. Certo la nostra piccola comu-nità locale, e non solo, è oggi più povera. D’altra parte, chi fa cultura, quando scompare, lascia un vuoto. E Giacovazzo non sfugge a questa legge.

A quanti, poi, hanno avu-to modo di apprezzare anche la sua coraggiosa e irresistibile tentazione, mai venuta meno, di compromettersi con “le cose della storia”, mancherà anche la sua appassionata apertura alla vita. Alla vita come dono e offerta di infinite opportunità da spendere per l’uomo. Nella quotidianità.

di Donato Bagnardi

Il ruolo nell’Azione Cattolica

La quinta edizione del Premio Locoro-tondo fu un partico-

lare e suggestivo trionfo del-la intelligenza paesana.

Correva l'anno 1976 e la città si godeva la chiusura dei festeggiamenti in onore di San Rocco. La sala consiliare del Comune gremita di con-cittadini residenti fuori della propria terra natia, rientrati per trascorrere il tradizionale periodo di vacanze. Visibil-mente commosso, al tavolo delle autorità intervenute, il “Premiato”, Giuseppe Gia-covazzo. Nell'invito, con in copertina la riproduzione di una tela di Bianca De Tullio, a firma del Presidente del CESM, ing. Angelo Pinto, la motivazione della Commis-sione preposta alla designa-

Nel 1976 fu Premio Locorotondozione del significativo ricono-scimento, presieduta dal prof. Franco Basile: “per gli alti me-riti acquisiti nel campo della cultura e del giornalismo”

In prima fila la Commis-sione:univ. Margherita Boffo-lo, Martino Cardone, Carmelo Cito, Martino Colucci, Martino Fumarola, Luigi Petrosino, l’univ. Mariarosa Gianfrate, l’univ. Nunzia Smaltini.

Inizio della cerimonia con il saluto del Sindaco e del Pre-sidente del CESM; lettura del curriculum: “Giuseppe Giaco-vazzo è nato a Locorotondo il 6 settembre 1925. Ha comin-ciato nel giornalismo a “La Gazzetta del Mezzogiorno”, dopo una esperienza in cam-po teatrale come direttore del Teatro Stabile della Regione pugliese. Nello stesso giornale

è stato prima critico teatrale e poi capo redattore. In televisio-ne ha curato diverse rubriche e servizi speciali (Controcampo; incontri e dibattiti; Stasera G7; Bianconero): Attualmen-te dirige i servizi culturali del TG1 e l’ultima edizione del Telegiornale. Per la sua atti-vità giornalistica televisiva ha conseguito, negli ultimi cinque anni, i seguenti premi: Premio Saint Vincent; Premio Salso-maggiore per due edizioni; Pre-mio Chianciano. Quest’anno gli è stato assegnato il Premio “Città di Campione”, presiedu-to da Eugeniuo Montale.” Con-clusione della cerimonia, con la consegna della pergamena e la medaglia d’oro-ricordo, da parte dell’on Natale Pisicchio ed dell’Arcivescovo di Brindisi Mons. Settimio Todisco, inter-

vento del premiato. Giacovazzo, riporta la

“Gazzetta” del 22 agosto 1976, “ha ricordato alcuni episodi giovanili, le prime esperien-ze nel campo giornalistico. In particolare si è soffermato a parlare dell’importanza di na-scere in un paese come Locoro-tondo, profondamente umano, legato alle tradizioni, dove tutti si sentono uniti da uno stretto vincolo di familiarità. Interes-sante – continua la Gazzetta – è stata la sintesi del carattere dei locorotondesi e dell’ansia continua per chi è costretto a vivere fuori della propria terra, di ritornare a respirare l’aria nostrana nei momenti più dif-ficili della vita.”

Eravamo alla quinta edi-zione del “Premio Locoroton-do”, già conferito, nei prece-

denti quattro anni, ai proff. Luigi Musajo, Vittorio Apri-le e Carlo Conti; al Maestro d’Arte Vito Basile. L’Albo d’oro del “Premio” riporta ormai 41 illustri concittadini e va detto, con soddisfazione, che, per Locorotondo, rima-ne l’unica iniziativa cultura-le che può vantare un così lungo percorso. Il merito va a tutti coloro che hanno cre-duto e collaborato per la con-tinuità della manifestazione, la quale risulta essere ancora un momento di riconoscenza dell’intera città verso quanti danno e continua a dare lu-stro alla propria terra d’ori-gine. Peppino Giacovazzo, da sempre ha amato Loco-rotondo, spesso in silenzio e molte volte nel buio dell’in-comprensione.

di GiuseppeCampanella

marono per mettermi al corrente degli eventi e indurmi a formare una Dc riconosciuta dagli organi provinciali. Questi due sacerdoti coglievano in me ciò che io non ero in grado di presentire, e cioè una vocazione laicamente impe-gnata nel mondo politico. D’altra parte -don Orazio Scatigna ne era avvertito- io andavo acqui-sendo una prima formazione

scente partito della DC fu notevo-le. Si trattò di un vero e proprio travaso, come fu anche per gli avvenimenti successivi.

Proveniva, dunque, da una decina di scalmanati, ovvero da quello sparuto gruppo di vivaci ragazzi con i pantaloncini cor-ti da cui prese avvio la prima sezione locale di Azione Catto-lica. Alquanto problematica e

loro aggregazione. Ciononostante mi invitavano a parlarne. E qui in associazione trovai una comu-nità di persone che discutevano di problemi seri e importanti, laicamente culturali. Soprattutto qui trovai e conobbi meglio don Orazio che fu per me un direttore spirituale naturale.

Scalmanato due volte, dunque. Primo, perché non

Ostuni, 1947. Mons. don Orazio Semeraro e Giuseppe Giacovazzo.(foto tratta da Una decina di scalmanati, Levante editori-Bari, 2008)

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numero 137 11Novembre 2012

Il legame con Padre PioIl legame fra Peppino Gia-

covazzo e Padre Pio risale agli anni Sessanta, quan-

do il futuro direttore de La Gazzetta del Mezzogiorno fa-ceva parte dello staff dell’on. Aldo Moro. Fu Giacovazzo a organizzare un incontro privato tra lo statista demo-cristiano, che all’epoca era presidente del Consiglio dei Ministri, e Padre Pio. Chiese al superiore del Convento di far scattare solo qualche foto a un fotografo che faceva par-te del seguito di Moro da una porta socchiusa. Ma dietro il fotografo c’era una ressa che premeva e che irruppe nella veranda, facendo alterare il Cappuccino. L’episodio è nar-rato nel libro autobiografico, scritto da Peppino Giacovaz-zo sotto forma di romanzo: Storia di noi dispersa. Negli anni di Aldo Moro, il racconto di un percorso politico e senti-mentale.

Ma Giacovazzo, negli anni in cui era direttore de La Gazzetta del Mezzogiorno, fu anche colui che, il 17 mag-gio 1981, quattro giorni dopo l’attentato a Giovanni Paolo II, pubblicò sulla prima pagi-na del quotidiano pugliese un suo articolo di fondo intitola-to «Sarai Papa nel sangue gli disse Padre Pio». L’occhiello, sopra il titolo, era in forma dubitativa: «Una profezia su Wojtyla?». Giacovazzo ripor-tava, virgolettate, le parole che avrebbe pronunciato il Cappuccino: «Tu sarai Papa ma per breve tempo, perché il tuo regno sarà spezzato dalla violenza e dal sangue». Una

frase poco attendibile o che, comunque, non può essere definita profetica, visto che le cose sono andate diversamen-te: l’attentato non ha «spez-zato» il pontificato, che è sta-to tutt’altro che breve. Anzi è stato il terzo, per durata, nella storia della Chiesa.

Il direttore de La Gaz-zetta del Mezzogiorno era,

del “Times”, Peter Nichols: “Vengo a stare un po’ di gior-ni in Puglia, sul Gargano. Sto scrivendo un libro sul Papa, devo raccogliere notizie su un certo suo rapporto con Padre Pio”. E mi accennò al “profe-tico” incontro. Ieri ho ripar-lato con Nichols. Il suo libro sta per apparire in edizione inglese col titolo “The Pope’s

in Italia. Posso darti il suo nome. È lui che ha saputo tutto da un confratello che fu testimone quel giorno a San Giovanni Rotondo, quando vide uscire sconvolto il giova-ne prete polacco dal colloquio con Padre Pio».

La notizia, il 17 maggio, non comparve solo su La Gazzetta del Mezzogiorno. Il

tato a Wojtyla);Il Giorno di Milano (Padre Pio a Wojty-la: “Sarai papa ma per bre-ve tempo”); Il Corriere del Giorno di Taranto (“Sarai Papa e il tuo regno sarà bre-ve” disse padre Pio); Il Gaz-zettino di Venezia-Mestre (Padre Pio predisse a Karol Wojtyla un breve pontifi-cato?); Libertà di Piacenza (Padre Pio aveva previsto il ferimento di Wojtyla?); Gazzetta del Popolo di To-rino (Padre Pio “vide” la fine di Wojtyla?);La Nuova Sardegna di Sassari (Padre Pio da Pietrelcina gliel’ave-va predetto?). L’argomento venne tenuto vivo per oltre un mese dalla stampa.

Il libro di Nichols uscì puntualmente nel 1981, ma non c’era nessun accenno né a Padre Pio, né alla presun-ta profezia. Il giornalista inglese, infatti, durante una breve vacanza si era recato in Gran Bretagna, anche per cercare la sua fonte, il bene-dettino, e farsi raccontare con precisione quanto aveva ascoltato frettolosamente in precedenza. Ma quando tor-nò da quel viaggio richiamò il suo amico Direttore de La Gazzetta del Mezzogiorno per riferirgli «che del mo-naco non aveva trovato più traccia». Da qui la decisione di annullare la sua program-mata visita a San Giovanni Rotondo e di stralciare l’ar-gomento dalla bozza del suo “The Pope’s divisions”. Questo è quanto Peppino Giacovazzo mi raccontò nel suo trullo di Locorotondo primo agosto 2005.

di Stefano Campanella

Un incontro al suo trullo

Il Sindaco Avv. Michele Lombardi, il Vice Sin-daco e Assessore alla

Cultura On. Avv. Gaetano Gorgoni e la Civica Ammi-nistrazione esprimono il più profondo cordoglio per la ferale notizia della morte del Dottor Giuseppe Gia-covazzo, Senatore della Re-pubblica, Decano dei Gior-nalisti di Puglia, studioso e ricercatore da sempre vicino alla Comunità di Cavallino.

La sua intima passione verso la nobile figura di Si-gismondo Castromediano, quale promotore di cultura e di patriota risorgimentale

Adele, una storia d’amorecui Cavallino diede in natali, mosse la sua ispirazione a raccogliere nella pubblicazio-ne di successo “Adele” l’incre-dibile e sofferta storia d’amo-re del “Bianco Duca” con la bella nobildonna piemonte-se Adele Savio di Bernstiel e per la cui presentazione Giacovazzo scelse proprio la sfarzosa Galleria del Palazzo Ducale di Cavallino, “La casa del Duca”, come Egli stesso amava definirla.

Una passione, quella per la storia d’amore tra il Ca-stromediano e Adele, che nel recente gennaio 2012 ispirò l’idea alSenatore Giorgio De

Giuseppe di ricordare, nel-l’ambito delle celebrazioni del bicentenario della nasci-ta del Patriota, anche la Sua tormentata vicenda amoro-sa con la giovane Baronessa attraverso la collocazione di una lapide sul prospetto del castello di Cavallino, racco-gliendo l’accorato appello con cui lo stesso Giacovazzo chiude il suo libro e col qua-le si auspica di vedere “...un’epigrafe: quella che Adele avrebbe meritato accanto al monumento del Duca. Nel marmo come nel cuore di tanti italiani e pugliesi, che purtroppo non conoscono il

dono che Ella fece della vita intera a un uomo del Sud tra i più eletti e degni di storia”.

La proposta di realizzare una lapide fu condivisa e ap-prezzata dall’Onorevole Gae-tano Gorgoni e concretizzata dall’Amministrazione Comu-nale attraverso una cerimo-nia di scoprimento.

Nella convinzione che Cavallino fosse uno scrigno di storia che potesse destare notevoli interessi culturali, il Senatore Giuseppe Giaco-vazzo promosse e organizzò, circa due mesi addietro, una visita al castello dei Castro-mediano di una delegazione

di Locorotondo, Sua città natale.

Cavallino, riconoscente per l’interesse e l’affetto che il Senatore Giuseppe Giacovazzo ha da sempre riservato per la storia della Città e per la stima e l’ap-prezzamento verso l’Am-ministrazione Comunale per i suoi sforzi nella cresci-ta culturale, ne ricorda la figura e l’opera, piangendo la perdita di un uomo di elevato sapere e di indi-scutibile saggezza, vanto per la Puglia e per l’Italia intera.*Sindaco di Cavallino (Le)

di Michele Lombardi

comunque, in buona fede. Nell’articolo dichiarava di non amare «il giornalismo degli “scoop”», di provare «una istintiva diffidenza ver-so chi insegue casi e notizie sensazionali» e, per rendere le sue affermazioni più credibi-li, citò la sua fonte. «L’anno scorso – scriveva – mi telefo-nò da Roma il corrispondente

divisions”. Per ottobre sarà pronta la traduzione italiana (“Le divisioni del Papa”). Vi è anche un capitolo dedicato a quel fatidico incontro con Padre Pio. Ma quali sono le tue fonti?, ho chiesto a Ni-chols. Ne ho una che ho potu-to riscontrare personalmente – dice Nichols – è un bene-dettino che è vissuto anche

giorno precedente «il sunto» dell’articolo venne anticipa-to con un comunicato, diffu-so anche dall’agenzia Ansa. Così, contemporaneamente alla Gazzetta, “rivelarono” la profezia attribuita al san-to Cappuccino anche altri quotidiani:Il Giornale Nuo-vo di Milano (Una “profe-zia” di Padre Pio sull’atten-

Il rito funebre celebrato il 30 ottobre 2012, nella chiesa San Giorgio Martire

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1� Novembre 2012 numero 137

Il ricordo della redazionedi Angelo Giotta

Chi vuol fare giornali-smo e, in redazione, si trova accanto un

grande giornalista, scrittore e politico, che parla pure il tuo stesso dialetto, può mai desi-derare di più?

Una fortuna del genere è capitata al sottoscritto e ai tanti giovani redattori di Pae-se Vivrai. Accanto a Peppe Giacovazzo fare giornalismo è stata la più bella esperienza.

Mi spiace dirlo, all’inizio della pubblicazione di Paese Vivrai, in questo nostro pic-colo paese, non mancarono i soliti noti saputoni che, con sfacciataggine, già ne annun-ciarono il suo imminente de profundis. Per loro acredine, diedero però poca importanza al fatto che a dirigerlo era Pep-pe Giacovazzo e finirono col re-stare con un palmo di naso. A ricredersi. Peppe non ci lasciò mai soli. Era entusiasta del-l’idea di fare a Locorotondo e per Locorotondo un giornale. Un giornale che potesse essere alla portata di tutti. Sopra le parti. Un giornale omnibus, amava dire. Peppe ci ha messo l’anima fin dal primo momen-to. L’ha perfezionato sotto l’aspetto grafico, con pazienza certosina. Un giornale, ripete-va spesso, deve essere soprat-

tutto bello. Gli articoli di ogni redattore, soprattutto quelli dei principianti, li visionava tutti. A volte, li correggeva. Spronava a scrivere frasi brevi per rendere concetti e notizie più efficaci. Ricordo ancora il giorno in cui in tipografia si passò alla correzione delle bozze. Lui correggeva quelle della cronaca da me redatta. Ad un tratto si mise a contare le righe di una colonna. “Ho contato 15 righe”. - Sbottò quasi urlando. – “Se tu fossi con me alla Gazzetta ti terrei

3 mesi senza stipendio”. Non aveva gradito quel mio perio-do di 15 righe. Lo divise in due con un punto, rendendo la no-tizia più scorrevole.

In 12 anni di attività Pae-se Vivrai ha organizzato pa-recchi eventi culturali. Peppe per le sue tante amicizie ha portato a Locorotondo mu-sicisti cantanti scrittori, tut-ti di alto livello. Lui stesso si improvvisava conduttore e, spesso, perfetto istrione. Sul palcoscenico l’abbiamo visto recitare brani della Divina

Commedia a memoria. Come faceva da giovane, non di-sdegnò di esibirsi nel suo pur sempre amatissimo paese.

Col passar del tempo ci ha travolti con la sua smisu-rata bravura, la sua immen-sa cultura, la sua autentica umanità. In redazione e in tipografia ci ha insegnato un mestiere tanto delicato e difficile quanto gratificante ed entusiasmante. Donatel-la, Valerio, Mariagrazia, don Sebastiano, grazie a Pae-se Vivrai e, quindi a Peppe Giacovazzo, hanno ottenu-to l’iscrizione all’Ordine dei Pubblicisti, e continuano a fare giornalismo.

Ricordare ora che Pep-pino Giacovazzo non è più fra noi è difficile. Presto co-minceremo a tracciare una biografia dei suoi ultimi 12 anni, quelli trascorsi felice-mente insieme a noi. Lo fa-remo per due motivi. Primo. Perché gli abbiamo voluto un sacco di bene, da lui sem-pre ricambiato e centuplica-to. Secondo. Per continuare la pubblicazione di Paese Vivrai, perla e vanto della sua inesauribile creatività. Non faremo cadere il ricordo del grande amico e maestro di vita. Lo promettiamo an-che al figlio Piergiorgio e alla consorte Anna.

Ero adolescente quando ti ho cono-sciuto, adesso ho i

capelli bianchi. E’ passata una vita da quando ti ve-devo salutare papà nella bottega di fronte alla Chie-sa Madre. Dovevi passare proprio davanti al suo uscio ogni volta che venendo da Bari andavi dai tuoi e si sentiva sempre il solito epiteto familiare, gridato: cugin.

Poi da universitario a Bari la frequenza assidua della tua casa di via Gori-zia, dove vivevi con Ange-lo e Maria, ha rafforzato il mio legame d’affetto che ri-cambiavi nell’incoraggiar-mi a studiare ed a guarda-re avanti. Ricordo ancora la famosa tessera omaggio della Gazzetta del Mezzo-giorno, ove eri responsabile della terza pagina cultura-

Ci hai preceduto nella veritàle, concessa per goderci, io ed Angelo, in seconda fila al Pe-truzzelli, le riviste e gli spet-tacoli importanti in seconda serata.

Come le tante serate tra-scorse passeggiando, quando capo redattore alla RAI a Roma, tornavi nei giorni libe-ri a Locorotondo. Si discute-va di tutto e, con battute fra il serio ed il faceto, si trascor-reva la serata facendo le ore piccole.

Ho sempre vivo il tuo commento compiaciuto da locorotondese vero quando il-luminarono il lungomare (via Nardelli), la sottile ironia co-perta da un accenno di sorriso con cui dicesti “Ve lo figurate come rimarranno i martinesi di fronte a questo spettaco-lo?”. Fosti proprio Tu a con-sigliarci il titolo da dare ad un foglio locale di futura pubbli-cazione. Alla nostra doman-

da rispondesti che il migliore sarebbe stato “Cummerse” e così fu.

Penso a quando ti chie-si che ne pensassi della città di Bologna, ove sarei andato per motivi di lavoro, mi dice-sti che era incantevole se non fosse per il clima padano. Mi raccontasti di scene dei mi-lanesi che la mattina presto, infreddoliti, si recavano con-tenti al lavoro come se an-dassero a divertirsi, cosa che contrastava con l’apatia tutta nostra meridionale.

Sei stato sempre attento al nostro paese nutrendo un rap-porto particolare, non di amo-re-odio ma di amore velato. Come avviene per le cose a cui si è tanto legati e per pudore si tengono chiusi nell’io. Non a caso sul Tuo mensile Paese Vivrai campeggia la frase di Cesare Pavese, tratta da “La luna e i falò”, che descrive fe-

delmente i sentimenti verso la tua terra dove dappertutto vedi qualcosa di Tuo.

Conoscevi le contrade me-glio di un contadino, la loro storia e le loro tradizioni, il dialetto locale e la cultura artigiana: le cose belle che il nostro paese possiede le hai raccontate e trasfigurate nei tuoi racconti.

Qualche dispiacere te l’ha riservato il nostro borgo, diciamo in forma di dispet-to, forse in risposta alla tua supposta alterigia o alterità. Il tuo affetto invece s’è rive-lato talmente grande da far-ti prendere totalmente nella fondazione e pubblicazione del foglio locale, dedicato al tuo paese con intestazione augurale.

Sei riuscito a far leggere un giornale a tanti concittadini, facendo scoprire in loro il gu-sto di leggere e di apprezzare

di LuigiDe Michele

articoli ben scritti, e di farli appassionare ai fatti locali. Il solo contributo che hai chiesto era l’apprezzamen-to del giornale e la collabo-razione di tanti giovani e di qualche anziano.

Dopo tante iniziative di-scusse in redazione su come migliorare e proiettare ver-so il futuro Paese Vivrai, siamo costretti a guardare indietro per ricordarti e an-dare avanti nel rispetto de-gli intenti iniziali.

Adesso Ti sei dato una risposta definitiva alle do-mande che ti ponevi fin da studente di filosofia, nel col-mare la distanza infinita che c’è fra l’Essere e l’assoluta-mente nulla, che Tu hai de-clinato nel passaggio “Verso un’alba nuova”, come scrit-to sulla tua tomba. Ci hai preceduto, come al solito, nella verità.

Hai deciso di andarema cosa credi di trovarelaggiùlontano dalla città?Quale mito rincorridell’infanzia remota?Natale non è più Nataleil paese non più paese.Ombre tu cerchiombre vane del passato.Forse hai ragioneso già che mi vedrai tornaredelusoe mi leggerai negli occhistanchezza, silenzi.Ma devo andarenon puoi fermarmi.Andrò nei boschi al mattino,e la notte, solo la nottenelle antiche strade chiaredi pietra.Vedrò spuntare le casedal buio e nel vento la scalele porte e i nomi perdutie le facce che avevamo.Ombre, si ombredi compagni, donne alle fontanedietro finestre gelosespiando chitarre e maschere.Fingerò giochi all’angolo

Il ritorno

foto Antonio Angelini

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Il ricordo della redazioneAppuntamento il vener-

dì mattina, intorno a mezzogiorno. “Dove ci

vediamo?”. “Sono in redazione – rispondevo io – ti aspetto”. Mi consegnava l’articolo per la Gazzetta del giorno dopo. Battuto a macchina, con la sua mitica Olivetti Lettera 22. Col tempo quei tasti duri e consunti gli avevano forgiato le dita a martelletto. “Ma non datemi il computer, sarebbe la mia fine”.

La memoria. L’aveva con-servata integra fino alla fine. Un giorno mi stupì oltremodo. Stavamo lavorando insieme al suo ultimo libro, “Elogio del trullo”. Si parlava del dopo-guerra e spuntò fra i rivoli lim-pidi dei ricordi una data: 14 dicembre 1947. “Quel giorno a Bari si giocò Italia-Cecoslo-vacchia, vincemmo tre a uno e segnò pure Carapellese, che era nato a Cerignola”. Mi sta prendendo in giro, pensai, non può ricordare una partita di 65 anni fa. “Controlla, controlla, vedi su internet”, mi incal-zò. Tre a uno, Cecoslovacchia schiantata, gol di Carapellese. “Che grande partita fu”, disse sornione, contento di aver bat-tuto il computer.

Quel libro, Elogio del trul-lo, è stato il suo ultimo lasci-

ze lo avevano abbandonato. “Parlami del giornale”. Era il suo vanto e il suo pensiero ostinato. Guardava sempre al futuro: “L’anno prossimo, appena completata la circon-vallazione, chiamerò la federa-zione ciclistica, dobbiamo or-ganizzare una gara nazionale a Locorotondo”.

Nei suoi discorsi, durante le riunioni di redazione, tor-nava sempre la figura di Aldo Moro. Gli brillavano gli occhi quando citava le ultime parole scritte dalla prigionia: “Vorrei

Che curiosità. Che de-siderio di ascoltarti ancora. Sapere quali

sono le tue impressioni da quel luogo a cui tante volte mi hai confidato di pensa-re. Sicuramente anche lì, in quella nuova dimensione, qualunque essa sia, reste-rai testimone profondo dei fatti e delle cause. Den-tro il tempo, sempre. Non riuscivi a non aprire il tuo pensiero su quello che ac-cadeva, rapito da quel tuo amore incondizionato per la conoscenza e la parola. E’ duro accettare che le nostre chiacchierate davan-ti al tuo camino, “la cosa più importante”, come lo definivi tu, non ci saranno più. Possedevi una carica e un’energia vitale sbalordi-tiva. Prendendo in prestito il titolo del documentario dedicato al regista Giulia-

no Montaldo, appena presen-tato al Festival Internaziona-le del film di Roma, tu avevi “Quattro Volte Vent’anni”. Lavorare, creare, andare al cinema con te era come farlo con un mio coetaneo. Amavo trascorrere il mio tempo con la tua sorprendente memo-ria. Su quante cose mi hai illuminato. Nel tuo amatis-simo trullo, nella tua nicchia preferita, davanti al camino, abbiamo trascorso un tempo fantastico insieme. D’inverno al caldo, d’estate al fresco, cir-condati dai libri e dalle parole che imprimevamo sulla carta, rigorosamente bianca e tanta, come piaceva a te. Appena ar-rivavo mi recitavi sempre una poesia, quasi sempre era del grande Vittorio Bodini. E poi il via alla lettura di passi e ar-ticoli per riscaldare la mente. Ricordo, come se fosse acca-duto un istante fa, quel gior-

no freddissimo quando fuori c’era la neve ed io arrivai con un berretto alla moscovita, appena mi vedesti esclama-sti: “Sembri Lara del Dottor Živago!” e mi leggesti, come recitando, quello che a tuo avviso era uno dei passi più intensi e capaci di esprimere il sentimento d’amore per la vita, il momento in cui Lara è davanti alla bara del suo Jurij Živago. “Il mistero della vita, il mistero della morte, il fasci-no del genio, il fascino della rivelazione, questo, sì, questo noi avevamo capito”, scrive Pasternak e quello che, secon-do me, anche tu avevi capito. Poco più di due pagine che sei riuscito a far passare sotto la mia pelle. Eh sì, perché eri anche un grande attore Pep-pino. Hai fondato e diretto a lungo il Teatro Stabile di Bari e quanti aneddoti mi hai rive-lato. Il mondo dell’arte è duro

capire, con i miei occhi morta-li, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo”. Da cristiani ci piace pensare che ora sia insieme a Maya a godere di quella luce, con Scia-scia, Eduardo e Paolo Grassi a recitare insieme i copioni di una vita.

Ci mancherà il nostro Di-rettore, ci mancherà un amico caro. “Il giornale deve andare avanti, anche quando un gior-no non ci sarò più”, ripeteva negli ultimi anni. Un’eredità che oggi facciamo nostra.

to. Ci pensavamo da due anni. Abbiamo raccolto vecchi testi e altri ne ha scritti per colma-re pagine di vero amore per la nostra terra. La sua scompar-sa per Locorotondo è irrepara-bile. La sua rettitudine, il ri-gore morale, l’intelligenza e la vastissima cultura resteranno scolpite nel Pantheon dei figli migliori del nostro paese. Nella sua prosa, di rara chiarezza, vi era una sincera partecipazione per il destino di Locorotondo.

Sono andato a trovarlo in ospedale, quando già le for-

mi ripetevi sempre, a propo-sito della mia attività, ma è anche tanto divertente se non ti arrendi e tenti il tutto e per tutto finché non ci riesci. Mi hai insegnato che bisogna in-sistere, che non bisogna mai arrendersi, anche quando tutto sembra volgere verso il peggio. Così come fanno i bambini, bisogna smontare e rimontare, senza vergogna, usando testa e pancia. Come quando sei riuscito ad intervi-stare il celeberrimo Jean-Paul Sartre a Capri, inavvicinabile e restio ai contatti con i gior-nalisti. Eri riuscito a scoprire che aveva accompagnato la moglie dal parrucchiere ed era in piazzetta a bere quella birra che tanto gli piaceva, allora tu ti sei seduto accanto a lui, hai fatto un commento sulle signore chez le coiffeur e gli hai offerto un paio di birre. Risultato? Intervista esclusi-

va guadagnata. Sei stato un grande mae-

stro per me e lo sarai fino a quando resterò su que-sta terra. Abbiamo scritto e condotto insieme eventi, ma soprattutto ci siamo di-vertiti. Quando c’era qual-cosa che non andava, anche solo nel mio umore, sapevo di poterti chiamare, sapevo che c’eri sempre per me. Es-sere al tuo fianco creativa-mente è stato uno stimolo , un perenne porsi domande e trovare spiegazioni.

Sai quel senso di pia-cere, libertà e appaga-mento che provavi una volta dettato l’articolo al telefono ed eri da qualche parte nel mondo pron-to ad esplorare il nuovo e l’inaspettato, pieno di energia e felicità? E’ così che mi piace immaginarti ora. Ovunque tu sia.

della tempesta, nascondiglinei vicoligiardini di frutti rubatisotto le mura.Lasciami andaredove le campane hannoun suonoe le madri cantanonenie di santipellegrini.Sentirò quella notteil passo pesante dei contadinisalire da Portanuovacon i panni neri della festa.Scoprirò nel fresco voltodei figli le sembianze amichedei padri.Mi nasconderò tra pastorie cammellie sciami d’angeli volantitra coro e battisterodal Rosario al nudo marmodel Montanaro.E proverò a non piangere.Proverò con i bambinia pregare. Giuseppe GiacovazzoRoma – 1970

Il ritorno

La fortuna di averti incontratodi Alessandra Recchia

di Valerio Convertini

numero 137 Novembre 2012 1�

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numero 137 1�Novembre 2012

Ti ho conosciuto per poco tempo ma so che, se anche ti avessi

incontrato prima, non sa-rebbe mai stato abbastanza! Mi hai invitato a scrivere su Paese Vivrai, mi hai chie-sto subito di darti del tu e ogni venerdì pomeriggio ero felice di essere presente al-l’incontro redazionale. Tu parlavi del giornale e parlavi del mondo, regalando ogni volta perle dei tuoi incontri passati, di avventure vissu-te, di emozioni cavalcate. Lo facevi con la leggerezza del tuo dire e la profondità del tuo cuore… sentivo sulla pelle ogni frammento della tua vita. La passione che ti animava è stata energia po-sitiva per me e per chiunque abbia avuto il dono di te. Ho avuto la fortuna e l’onore di accompagnarti insieme alla mia famiglia a Cavalli-no per il viaggio dei locoro-tondesi sulla scia di Adele e del duca Castromediano… un amore grande che tu hai

Il piacere di stare insiemedi Antonella Girolamo

Ho conosciuto Pep-pe Giacovazzo più di un decennio fa;

prima, le rispettive ideolo-gie, ci avevano inchiodati su sponde opposte e con-trapposte.

Mi colpì molto, subito, la sua straordinaria facilità di attingere ad un archivio personale pieno di avveni-menti e di storie vissute; qualità che gli consentiva, conversando, di spaziare con agilità su tutto. La sua memoria sempre viva e la capacità, rara, di mettere insieme frammenti di sto-rie in sequenza pacata in-cominciavano a piacermi. Mi colpì molto, altresì, sco-prire come fossimo rimasti entrambi, profondamen-te, lui democristiano ed io “psiuppino”, e che sola-mente uno strano scherzo della storia ci aveva, ca-sualmente, fatti incontrare ed obbligati ad un recipro-co rispetto, chissà!

Penso abbia amato mol-to il suo paese (“…un paese ci vuole,..un paese vuol dire

Quanto restadelle parole

non essere soli….” ossessi-vamente riproposto in alto a destra, sotto la foto del borgo sulla prima pagina di “Paese Vivrai” per dieci anni – una sorta di litania laica, monito per sé e per gli altri), poco i locorotondesi, che lo hanno ripagato – da vivo quanto da morto – con la stessa moneta. La sua lo-corotondesità, invece, respi-rava immancabilmente nei suoi lunghi e frequenti rac-conti, ammiccanti a episodi lontani nel tempo e nei qua-li svolazzavano eroi e com-parse dell’epica prosaica dei nostri borghi meridionali. C’era del romantico nel suo raccontare e certamente ve-niva fuori, per dirla alla Ga-ber, la vera e profonda “ap-partenenza” al suo paese.

Non ho mai cercato di inquadrare un suo certo egocentrismo; che si trat-tasse di approdo senile o altro, poco importa: con lui parlavo volentieri, con-traddicendolo poche volte, perché il suo raccontare i passaggi più significativi

e drammatici della nostra storia recente si snodava talmente intensamente, a volte anche con accenti e pause volutamente teatrali, da costituire testimonianza autentica di una passione per la polis e questo mi ob-bligava al rispetto. Rispetto a rilevare le sue omissioni e i suoi silenzi quanto ai grandi buchi neri del potere demo-cristiano – da Portella della Ginestra e le collusioni con la mafia, dalla dura e san-guinosa repressione scelbia-na dei moti contadini della sua Puglia fino agli “omis-sis” di Moro – prevaleva in me una sorta di Brechtiana “indulgenza” e soprattutto il fascino della sua affabu-lazione.

Non avevo proprio messo in conto che la sua dipartita mi avrebbe rattristato così profondamente e con quella tenerezza che, nel mio ricor-do, accompagna il vecchio nonno di ‘Amarcord’ a sva-nire nella nebbia di un nord lontano.

Antonio Angelini

saputo portare alla luce con la maestria del giornalista, il rigore dello storico e la pas-sione dell’uomo. Mio figlio ha pensato fossi tu il duca

bianco e ti ha chiesto di ve-dere le catene tanto odiate e tanto amate dal patriota e tu, su due piedi, hai detto: “Andiamo al museo di Lec-

ce!” Ancora ho nelle orec-chie la voce fastidiosa dei custodi che affermavano il falso e la tua certezza che ciò che cercavamo fosse lì. Quanta rabbia ho visto nel tuo sguardo appena abbia-mo scoperto che le catene e i vestiti del duca erano stati nascosti in un anfratto se-mibuio del Museo Castrome-diano per dar spazio ad una mostra. Non vedevi l’ora di denunciare l’accaduto da ot-timo giornalista qual eri, ma soprattutto perché tu avevi versato lacrime amare già quando ritrovasti e toccasti quelle catene. Non potevi accettare che fossero trat-tate in quel modo sia per il valore storico che per quello umano. Fortunatamente, ad alleviare il senso di inquietu-dine che turbò la tua natu-rale delicatezza giunse l’ot-timo pranzo a casa del tuo grande amico Albano che ci volesti presentare e al cui fianco mi facesti accomodare quasi quale ospite d’onore. Eri contento di stare lì con noi e noi ci sentivamo qua-si frastornati per le tante

gradevoli sorprese. Abbia-mo trascorso una splendida giornata insieme e al ritorno a casa ci hai portato nei tuoi amati trulli e nel tuo bosco, oasi di pace e serenità per i tuoi pensieri.

E’ stato vicendevole il piacere della conversazione, ma ero io che bevevo alla tua fonte, assetata della tua cultura. Accarezzavi luoghi, persone e pensieri. Mai eri le-zioso, mai ombra di arrogan-za ha attraversato il tuo fare elegante. Tanti parlano, per-ché sanno; tanti sanno poco, ma parlano comunque. Tu parlavi sempre con mente e cuore aperti: chi ti ascoltava non poteva non apprezzarlo! Grazie per quello che hai re-galato a me e a tutti coloro che hanno avuto il piacere di incontrarti. Io mi guardo intorno e ti cerco. Per fortu-na l’eredità che hai lasciato è grande e io ho alcuni dei tuoi libri che hai avuto la bontà di donarmi. Li sfoglio e ti rivedo! Grazie infinite per avermi dato un po’ di spazio nella tua vita. Tu lo avrai sempre nel mio cuore!

Paese Vivrai è nato e cresciuto qui. Era l’appunta-

mento fisso della terza settimana di ogni mese; Peppino, con Linuccio e Valerio al seguito, aveva deciso di dare una voce al paese e far viaggiare quella carta stampata che, per un maestro as-soluto del giornalismo italiano, rappresenta una testimonianza continua della vita, del fare, della quotidianità.

Aveva scelto “Angelini e Pace”, l’antica stamperia di Locorotondo, perché ne conosceva storia e persone. Le macchine da stampa, il piombo, i caratteri mobili, le pellicole e poi le lastre di alluminio: tutto l’immagi-nario di Peppino era intri-so di un inchiostro nobile e antico e diventava ora un articolo, ora un saggio o una poesia.

Qui si impaginava e si stampava. Ma soprattutto si faceva salotto. Nell’or-dine gli argomenti erano:

L’appuntamento in tipografia

Juve / Napoli / Campio-nato, Berlusconi, sindaci, storia, politica, arte, filo-sofia e così via, fino alla gastronomia e al vino.

E Peppino, ovunque fosse nei suoi giri per il mondo, ritagliava ogni mese i tre giorni da dedi-care a quel rito dell’impa-ginazione. E leggeva ogni pezzo, ogni rigo, smon-tandone titoli e didasca-lie, tutto. “Ci serve una nuova rubrica”, “una foto più grande”, “la piantate voi due?”. Sorrideva su ogni cosa, anche al cen-tro dei momenti isterici e delle comuni irritazioni di una redazione.

Lui, Peppino, aveva ancora in mente Guten-berg quando si stampa-va. Questo giornale era la pratica artigiana e solen-ne della scrittura. Ma lo aveva chiamato col verbo al futuro. “VIVRAI”. Ed è un’eredità di cui tutti quanti siamo fieri.

Grafica Meridionale

Illustrazione di Nica Basile

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ImpIantIfotovoltaIcI

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numero 137 1�Novembre 2012

La sua voce incline al racconto

Il cantore della Murgia dei trulli

L’ultimo cantore della Murgia dei trulli. Con Peppino Giacovazzo se

ne va anche il mito. E il genio del luogo lascia il posto vuoto. Nessuno saprà più parlare di albe e primavere fra le coniche costruzioni, nessuno potrà far intendere al mondo intero che qui, in questa “enclave” di Puglia, l’uomo è testimone, suddito e signore della vicen-da antropologica più singola-re che sia stata mai descritta, in letteratura come in agri-coltura, in politica come nella cultura.

A Noci ci tornava di rado ormai, ma si interessava ai racconti che mi chiedeva sugli amici di Noci, sui vecchi com-pagni di viaggio e delle stagio-ni politiche. Si stupiva della mia conoscenza quasi perfetta delle sue amicizie nocesi, degli aneddoti che, in quanto no-cesi, ci riguardavano, e delle battute di caccia coordinate dal “re della Murgia”, tale Sciancamacchia, arguto co-noscitore di volpi e di lepri, di passi del tordo e dei venti sull’altopiano di cui costui era incontrastato dominatore. Mi raccontava della Sud-Est, la ferrovia che, al pari di una metropolitana di campagna, caricava e scaricava pendola-ri, studenti ed operai lungo il tragitto punteggiato di trulli e di centri storici, di campanili e di piazze di paese, di lento struscio e di baruffe chiozzot-te fra fazioni contrapposte. In tutti i paesi murgiani c’erano le fazioni ad animare i giorni e gli anni sempre uguali.

Quando alla stazione di Noci saliva una studentessa da-gli occhi che ghermivano, Gia-covazzo conobbe i suoi primi

turbamenti. Me ne parlò fidu-cioso nella mia discrezione. Se ne fece scappare la confidenza in alcuni suoi scritti, compreso l’ultimo libro, quell’ Elogio del Trullo che è diventato quasi un testamento spirituale. Il diret-tore Giacovazzo è stato il testi-mone del mutamento. Ne sof-friva, se ne doleva; ma mai si è dato per vinto. Quanta distan-

vole ombra. L’assassinio per mano brigatista lo segnò in-timamente. Non ne parlava volentieri. Una sorta di gelo-sia dei sentimenti lo assaliva. Viveva la professione con lo stesso gusto dell’avventura. Da redattore capo del mag-giore quotidiano pugliese (all’epoca, il secondo per im-portanza del Mezzogiorno

sulla prima Rete Rai. C’era ancora il bianco e nero in Tv. Eravamo in pieno centrosini-stra e la Democrazia cristiana fronteggiava l’egemonia cul-turale del Pci (non era stata ancora istituita la terza Rete) con un’informazione rispetto-sa delle posizioni: Giacovazzo chiudeva l’edizione con illu-minanti cronache culturali

zetta di quotidiani e chiese a me se avessi visto passare Felice Laforgia. Fu così che lo conobbi. E m’impegnai a seguirne la lezione.

Se leggete la piccola raccol-ta del periodico “Nocistam-pa” (1973-1975, è consultabi-le presso la civica Biblioteca), capirete perché noi giovani apprendisti comunicatori se-guivamo i suoi stilemi, le sue buone pratiche. Sono convin-to che il suo esempio di pun-tuale scrittura, assolutamente corretta e rispondente all’esi-genza di farsi capire in corret-to italiano, sia sempre attuale. Nel torrido luglio scorso chiesi ed ottenni di parlargli andan-do a fargli visita in ospedale, a Monopoli. Non riceveva volentieri, la malattia lo sta-va fiaccando; “ma per te - mi confidò la moglie - ha voluto fare un’eccezione”. Parlammo di progetti culturali da effet-tuare nel nostro comprenso-rio, di presentazione del libro edito da Dedalo nell’ambito di Nociestate. Volle che la data fosse fissata alla vigilia della nostra maggiore festa patronale e che a parlarne fos-se l’abate Ogliari; lui avrebbe restituito la cortesia presen-tando in pubblico il testo del benedettino “Tempo e spazio alla scuola di San Benedetto”, recentemente edito per i tipi de La Scala.

La salute gli è mancata fa-cendo mancare a noi la carezza della sua naturale raucedine, una voce incline al racconto, il racconto di una vita spesa nel-la rappresentazione dell’uma-nità affaticata della Murgia e dei suoi incantati trulli.

* Sindaco di Noci da www.noci24.it

Peppe ha scoperto la mia passione. Dopo il mio ritorno

dall’esperienza lavorativa a Cinecittà, è stato lui il primo intellettuale locale a coinvolgermi in attività culturali che avessero in-cidenza sul territorio. E’ stato lui ad invitarmi a scrivere recensioni su “Pae-se Vivrai”, il giornale locale da lui appassionatamente diretto ed è stato sempre

Amici per il cinemalui a spingermi a organizzare rassegne di film nella piccola e bellissima sala cinemato-grafica di Locorotondo, da lui fortemente desiderata. La nostra amicizia è diventata autentica e intensa. Con il suo sguardo lucido e acuto mi ha affettuosamente rac-contata in un capitolo del suo libro dedicato alla Puglia omaggiando, assieme a me, la magia dimenticata dei ci-neclub.

Mi ha ospitato varie volte in Valle d’Itria per sognare insieme un futuro culturale per questa terra desolata che riesce a inaridire anche le più sapide ambizioni. Lui era così: parlava delle picco-le cose, davanti al camino acceso, sorseggiando il roso-lio preparato da sua sorella, tra la foto di Eduardo ospite del suo trullo e uno schizzo regalatogli da Guttuso.

Abbiamo fatto insieme

tante cose e molte altre era-no in cantiere. In questi mesi eravamo coinvolti nell’or-ganizzazione di un premio di poesie di cui, purtroppo, non conoscerà mai l’esito. A malincuore selezionerò quei versi che di certo lo avrebbero allietato, perché cantano le trame di un ter-ritorio a cui è sempre stato legato. Dopo una vita densa e appagante, è tornato alla terra natia, in cui regrediva

piacevolmente come Pa-solini nella sua Casarsa, e in quell’accogliente utero materno si è spento.

Come tutti i pugliesi curiosi del nuovo e conser-vatori dell’antico, aveva scritto che “si può lasciar morire una patria…”; ma certamente avrebbe con-diviso con me che non po-tranno mai morire i suoi cantori.

www.noci24.it

za siderale fra i vecchi canoni della politica e dell’informa-zione con gli odierni strumenti della comunicazione politica e sociale.

Cattolico progressista, in-timamente moroteo, propu-gnatore della dottrina sociale della Chiesa. Dello statista scomparso è stato l’amiche-

continentale), quindi da au-torevole direttore, soppesa-va con sapienza i settori del giornale, dando spazio all’in-formazione centrale, alla cro-nache cittadine, alla periferia dei corrispondenti. Ma l’estro professionale si manifestò nella singolare conduzione af-fabulatoria del Tg della notte

in sintonia con la magistrale lezione di Sergio Zavoli, suo grande amico ed estimatore. Era piacevole attardarsi la sera per seguire il suo tele-giornale; verso mezzodì del giorno successivo, una volta, giunse a Largo Garibaldi con la sua Bmw bianca, accostò, comprò da Lelluccio la maz-

di Angela Bianca Saponari

di Piero Liuzzi*

Giuseppe Giacovazzo con Giuseppe De Tomaso e Nico Pillinini

In viaggio con la ferrovia Sud-Est

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numero 137 1�Novembre 2012

“Il regno di Dio… è simile a un granel-lo di senape che un

uomo prese e gettò nel suo giar-dino: crebbe, divenne un albe-ro e gli uccelli del cielo vennero a fare il nido fra i suoi rami” (Lc 13,19).

Che bello il Vangelo. Canta la vita che inizia, che cresce, matura e da frutti. E cosi ci fa contemplare il re-gno di Dio, il suo amore, nel mistero meraviglioso e in-cantevole della vita. Un mo-vimento vitale che esprime forza, energia, amore. Beati quegli occhi capaci di vede-re tutto e tutti nella novità quotidiana dell’esistenza e anche aspettando sempre nuove sorprese, per la fi-ducia nella vita e nel buo-no e provvidente Signore. Che bella la lezione del seme.

Senza fretta, paziente-mente fa il suo cammino ver-so la stagione dei frutti ma-turi. Nel suo cammino riceve attenzioni cordiali, subisce vicissitudini, prova inquie-tudini e turbamenti, ma cre-

Che vita la tua, Peppinodi Don Franco Pellegrino

Coltivare i propri so-gni può esser fati-coso, notevoli sono

le difficoltà che nel lungo percorso si incontrano ed ancor di più sono le volte in cui sarebbe molto più facile abbandonare il tutto e de-dicarsi ad altro.

Ma a volte durante la corsa per raggiungere il proprio obiettivo capita di incontrare delle persone che ti colpiscono in modo così profondo che il loro ricordo sembra esser indelebile.

Nell’ottobre 2010, un sa-bato pomeriggio, ero ferma, quasi immobile dinanzi ai pochi gradini che mi separa-vano dalla redazione di Paese Vivrai. Seduto a capo di quel tavolo in legno vi era il diret-tore Giuseppe Giacovazzo. Conoscevo già la grandezza della sua persona, ero altresì al corrente delle sue innume-revoli esperienze nel cam-po giornalistico e politico. L’esser lì davanti a lui quasi mi spaventava. Ma il terro-re durò pochissimi istanti, perché il silenzio tagliente fu rotto dalle sue parole. Ero

Coltivare i sogni

sce e matura insieme ad altri semi, diventa spazio ospitale per gli uccelli che verranno a fare il nido che prepara nuo-va vita e nuovi canti per il mondo.

Vive e fa vivere: una vita diventa feconda di altra vita.

E quando questo albe-ro maturo nel dare, sazio di giorni, di sole, di vento , di acqua e rugiada, di caldo,di brividi china la sua chioma, è deposto nel grembo della terra per un nuovo natale fuori dal tempo nel giardino dell’eternità.

Intanto altri semi sono pronti a germogliare...

Che vita la tua “Peppi-no”: seme, fiore, albero, frut-to di questa terra che palpita come un cuore.

Alla parola hai affidato l’intensità del vivere ma le carezze discrete sul volto e la mano stretta per ore e ore nei giorni del tramonto, a te offerte da chi sempre ti ha voluto bene, hanno svelato la forza dell’amore.

Grazie!

Parroco di Locorotondo

dinanzi non al senatore Gia-covazzo, non al direttore de La Gazzetta del Mezzogiorno, ero dinanzi ad un uomo prove-niente dalla mia stessa terra. Madre che accomunava tutti coloro che sedevano attorno a quel tavolo.

Numerose sono state le oc-casioni di incontro con Peppe, ed altrettanto numerosi sono stati i consigli che quotidia-namente dispensava a chi lo circondava senza rendersene conto. La sua voce tranquil-la, pacata e rassicurante al contempo faceva da sfondo ai racconti di vita personale che permettevano a chi lo ascolta-va di tuffarsi in un passato che sembrava esser ormai molto lontano. Oggi, con il senno di poi mi rendo conto di quanto fossero importanti quei conti-nui confronti con l’uomo che viveva per la cultura e per la sua diffusione.

Nonostante l’età i suoi oc-chi erano vivi, sempre alla ri-cerca di nuovi stimoli, la sua mente non era mai spenta. I suoi occhi erano penetranti, rappresentavano una persona che aveva vissuto appieno la

propria vita. Poi, quella telefonata:

“Peppe non ce l’ha fat-ta”. Una voragine, quasi, si è aperta nella normale giornata di quanti lo cir-condavano. Meno di 24 ore dopo eravamo lì, riuniti, a salutare per l’ultima volta l’uomo che ha tanto do-nato alla sua terra. Quella stessa terra, che a volte gli ha voltato le spalle, indif-ferente e noncurante del patrimonio culturale vi-vente che covava in seno. Come accade spesso per i grandi uomini la loro vita non finisce il giorno del loro funerale. Numerose sono le eredità che ha lasciato alla comunità. In partico-lare quel mensile che circa 12 anni fa è entrato nelle case dei locorotondesi e che ancora oggi non le abban-dona. Quel mensile che mi ha offerto la possibilità di avvicinarmi al giornalismo guidata da un grande mae-stro, quale il nostro diretto-re era. Ed oggi non mi resta che dire “Ciao Direttore”.

Anna Lodeserto

Una porta che si apre, spesso a riu-nione già iniziata,

ed una ragazza non troppo timida si affretta a trovare il suo posto nella redazione di Paese Vivrai, ogni saba-to pomeriggio.

Entrando, basta rivol-gere lo sguardo verso sini-stra: si sa che il direttore è là seduto a capotavola, a dirigere i lavori del suo staff. Attento, ascolta gli argomenti all’ordine del giorno.

Scambia un paio di battute con Linuccio, ot-tiene l’ultima parola dopo un confronto con Luigi, narra divertito qualche suo aneddoto di vita o di viaggio; l’ilarità generale all’epilogo del racconto non manca mai!

Nel frattempo, inco-raggia e si compiace delle nuove leve, di come “pic-coli giornalisti crescano” proprio nel cuore del suo paese (Valerio e Donatel-la, per citare due esempi su tutti).

“Ammiro il nostro di-rettore perché ha girato il

Compagni di viaggiomondo ed ha costruito la sua brillante carriera non dimenticando mai, nean-che per un istante, da dove proveniva. Questo è l’esem-pio che, in un momento di grande disorientamento e incertezza sul futuro per la mia generazione, non mi stancherò mai di citare a modello”, penso tra me e me.

Gli articoli sono impagi-nati da lui stesso ogni volta, carta e penna alla mano, li spedisce poi all’altra estre-mità del tavolo dove c’è Va-lerio che registra il tutto.

La riunione è terminata: si sistema l’immancabile cappello e, deve avere una preferenza per quelli di tin-ta scura, osservo.

Si abbottona per bene la giacca, un rapido saluto a tutti, prima di ritornare tra i suoi pensieri.

Anche questa volta ci congeda il nostro Peppe, si allontana dalla piazza e si dirige verso la sua vecchia e fedele 500.

Buon ritorno a casa, di-rettore!

Maria Bianca Recchia

Padre Pio incontra Aldo Moro. Alle spalle Giuseppe Giacovazzo

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�0 Novembre 2012 numero 137

Trattoria Centro StoricoTradizione e genuinità a Tavola

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numero 137 �1Novembre 2012

Ho conosciuto Pep-pino Giacovazzo quando ancora non

andavo a scuola. Lui seguiva Aldo Moro nei giri elettora-li pugliesi, io in compagnia di mio padre partecipavo, nonostante la giovanissi-ma eta’, ai comizi dell’uomo con il ciuffo bianco in testa che si tenevano a Terlizzi. Erano comizi affollatissimi nelle piazze di Puglia e Peppi-no seguiva Moro come amico e come giornalista. Fu colpito da questo bambino di cinque anni che a Terlizzi ascoltava Moro alle undici di sera. Mi regalo’ una paterna carez-za sulla testa. Anni dopo, quando gliel’ho ricordato, mi disse di averne parlato con Moro che conosceva bene mio padre. Aggiunse che se-condo Moro anziani e bam-bini erano le persone a lui piu’ fedeli. Non aveva torto. Ho rivisto Giacovazzo quan-do all’inizio degli anni ot-tanta, lavorando alla Re-gione Puglia, ero in ufficio con Michela, sua sorella. Da quell’ufficio passavano il pa-dre, la madre, l’altra sorel-la Maria. Pochi mesi prima era scomparso Angelo, suo fratello. Poi muore Michela. I Giacovazzo una famiglia con Locorotondo nel cuore. Dopo gli anni della televisio-ne, della politica, del potere da Sottosegretario, quando Peppino e’ ormai un anzia-no giornalista, iniziamo una lunga frequentazione giran-do la Puglia in lungo e lar-go. A soli scopi culturali e gastronomici. La tavola per Peppino, era i tempi supple-mentari della conferenza, luogo in cui qualche fallo si poteva anche commettere.

di Gero Grassi*

L’orgoglio della pugliesitàNel segno di Aldo Moro

serate bellissime nelle quali parla di tutto e si racconta. Sottovoce come piace a lui, arrabbiandosi solo quando parla del delitto di abbando-no, come lui, ricordando Car-lo Bo, chiama il delitto Moro e quando lo provoco insultan-dolo ‘sporco capitalista iuven-tino’, io sfegatato milanista. In quelle sezioni fa scattare l’orgoglio della pugliesita’ e da’ senso ai tanti nostri sacrifici, protagonisti oscu-ri di una politica di peri-feria che tenta sempre di

quale si respira l’aria di Loco-rotondo con quella profuma-ta del nostro azzurro mare. Agli inizi del duemila la vo-lontà di Linuccio Giotta di produrre un giornale diretto da Peppino, mi consente di diventare suo direttore. Io, giornalista di provincia, di-vento il direttore di Peppino Giacovazzo. Una notizia. Il giornale brillantemente lo fa Peppino, io ‘curo’ la firma. Nasce così ‘Paese vivrai’, ot-timo giornale di Locorotondo cui la Cooperativa Culturale

ricordi di Peppino che cita e racconta dei suoi amici Gut-tuso, Eduardo De Filippo, Sciascia, dell’incontro con De Gasperi, di Zavoli e del-le sue migliaia di interviste. Nel libro ‘Puglia’ parla di me, di Terlizzi e della Fondazione ‘Gaetano Morgese’, giovane poliziotto deceduto nella tra-gedia del Pendolino a Piacen-za. Scrive e poi racconta nella sala consiliare di Terlizzi che a proposito di Gaetano non dob-biamo parlare della sua mor-te, ma della sua vita perché la

fondazione sorta dopo la sua tragica scomparsa da’ vita. Il giorno in cui muore la fi-glia, Peppino mi telefona all’alba e dice, con voce si-lente, ‘Funere mersit acer-bo’. Poi scoppia a piangere. Quando il centrosinistra, nel 2005, per la prima volta vince alle regionali di Puglia con Nichy Vendola presiden-te, rispetto alla nomina del Presidente del Corecom sono onorato, insieme con Nichy, di pensare a Peppi-no. Poi altri ne traggono vantaggi diretti ed indiret-ti, ma questa e’ altra storia. Nel 2009 ho l’onore che Pep-pino ed Agnese Moro presen-tano a Casa Italia, a Zurigo, il mio libro ‘Il Ministro e la briga-tista’, romanzo storico sul ter-rorismo rosso e sull’omicidio di Aldo Moro, che Peppino dice esser stato omicidio di Stato. Ora Peppino ci ha lasciati. In silenzio, sottovoce. Come piace a lui. Ho avuto la fortuna di sa-lutarlo l’ultima volta quando era già ricoverato a Monopoli. Abbiamo parlato del Trul-lo, della Gazzetta del Mezzogiorno e di Aldo Moro, i suoi grandi amori. Ti sia lieve la terra, Pep-pino, come diceva il tuo amico Gianni Brera. Nell’aria del tuo comune, Locorotondo, d’ora in poi, alle orecchia di chi ha udi-to arriveranno le tue dolci e piacevoli parole, quasi come una melodia romantica. In quella bellissima Valle D’Itria si sentira’ sempre la tua voglia di vita ed il tuo messaggio di pace e giustizia. Peppino Giacovazzo e’ mor-to....non per tutti.

* Deputato PD

diMilly Semeraro

I dispiaceri sono faccen-de private. Ho dovuto vincere un feroce at-

tacco di ritrosia per scrive-re queste parole doverose, perché richieste da Paese vivrai, ma certamente ina-deguate.

Ho conosciuto tar-di Peppino Giacovazzo. Quando un’amica preveg-gente mi accompagnò da lui a proporgli di presiedere il Festival dei Sensi venni

Una persona specialeaccolta da un muro di diffi-denza. Il suo trullo era meta di un continuo pellegrinaggio ed eravamo, io e lui, talmen-te spigolosi e diversi che la quarantena risultò partico-larmente lunga. Come spesso accade, l’amicizia fu poi par-ticolarmente sincera, per non parlare del suo attaccamento al festival.

Del molto tempo passato insieme mi piace ricordare le risate, letteralmente a crepa-

pelle, di tante lunghe conver-sazioni spesso bruscamente interrotte, come faceva per i motivi più disparati. Una ci-fra di grande ironia teneva a bada quello che io chiamavo il suo romanticismo cronico. La malizia del politico navi-gato conviveva in modo del tutto naturale con il candore d’infanzia, la vanità con la modestia.

Una volta a Modena an-dammo a vedere una mostra di

foto del grande Ansel Adams. Ne fu talmente rapito che dopo pochi giorni mi chiamò per dirmi che aveva rintrac-ciato una sua vecchia Canon, che ne aveva già parlato con un tecnico e che stava facen-do varie prove nel boschetto dietro al trullo nel tentativo di imparare a fotografare in modo simile. Quando capii che era serio il mio stupore fu totale. Non ebbi il coraggio di fare neppure una battuta.

Incredibilmente il suo rap-portarsi ad Adams –che durò ben una settimana- era frutto non di presunzio-ne, ma di vera infatuazione per la nuova scoperta, pro-prio come capita ai bam-bini. Mantenersi capace di questi entusiasmi è stato uno dei suoi doni migliori, l’innocenza il più grande, per lui e per tutti coloro che hanno avuto il privilegio della sua compagnia.

Erano gli anni del Partito Popolare prima, quelli della Margherita poi. Ho l’intui-zione di fargli girare le nostre povere sezioni per parlare della nostra Puglia sitibon-da ed assolata, di Moro e dei problemi del mondo. Lo vado a prendere al trullo di Locorotondo e poi insieme in viaggio fino al ritorno. Sono

tenere l’uomo al centro. Lo invito a scrivere sul ‘Popo-lo’ e mi accontenta. Gratuita-mente. Lo induco a scrivere ‘Storia di noi dispersa’, con-cepito nei viaggi in auto tra la Murgia barese e la sua Valle d’Itria. Un libro bellissimo nel quale si mischia l’amore per la Puglia al grande affetto verso lo statista Moro. Un libro nel

di Terlizzi fornisce per circa un decennio i supporti giuri-dici ed editoriali fino a quan-do non si rende autonomo.

Per concepire il giorna-le ci riuniamo, io, Peppino e Linuccio, al ristorante ‘Casa mia’, dove cenando ottima-mente con carne ed orecchiet-te diamo avvio all’impresa. Il tutto sempre condito dai

Convegno del Partito Popolare. Da sinistra: Tonino Montanaro, Pierino Pepe, Giuseppe Giacovazzo, Angelo Giotta e Gero Grassi

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�� Novembre 2012 numero 137

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numero 137 ��Novembre 2012

LETTEREQuei trulli dipinti per te

PERSONAGGIOil

di Linuccio Chère na jère cólme!Peppe Giacovazzo ave-

va viaggiato in ogni parte del mondo. Ma non gli era mai capitato di visitare quello che è ritenuto il più antico trullo della Val-le d’Itria. Che si trova in contrada Marziolla a pochi chilometri dal paese. Il suo improvviso desiderio di vi-sitarlo mi spinge a trovare qualche abitante della zona che possa farci da guida. La scelta cade sul fotografo Michele Giacovelli.

E’ il giorno di San Giovanni. Il 24 giugno di qualche anno fa. Pomerig-gio. Nessuna nuvola in cie-lo. L’aria piacevole. Non un filo di vento. Giunti sul piazzale di Marziolla, decidiamo di proseguire, sempre in auto, nonostan-te il tratturo stretto e

sconquassato che si palesa innanzi ce lo sconsigliasse. Sballottati, infatti, come scatoloni raggiungiamo un campo al lato del quale si erge il vetusto e mezzo di-roccato trullo di Marziolla. Un fragno, che cresce da anni appoggiandosi al trul-lo, affonda le radici fin sotto le sue fondamenta. Peppe ammira con venerazione il trullo. Gli gira attorno più volte. A causa di alcune pie-tre pericolanti, con molta cautela, dà una sbirciatina, anche al suo interno.

Il sole continua a scivolare sulla sua parabola discenden-te. Le ombre ad allungarsi. La campagna intorno a farsi più bella. Attratto dal profu-mo che emanano e scambian-dole per origano, mi metto a cogliere piantine con fiorellini

cerulei quasi appassiti.Peppe, incuriosito, mi

chiede: Ce stè fésce?Pé, treminte quanta còl-

me stè ‘ddò! – rispondo sor-ridendo.

Peppe si piega. Si met-te pure lui a cogliere quelle piantine.

Michele ci tiene per un po’ a bada. Ci lascia tran-quillamente cogliere quel-le piantine che profumano tanto di origano. Alla fine, divertito e sorridendo, ci interpella con quella sua cadenza naturale: Ce stè fa-scìte? Chère na jè còlme!

Peppe si sente ingannato. Travolto da un moto di stiz-za, mi lancia addosso il maz-zo di piantine da lui appena raccolto, dicendomi ad alta voce: Ije te l’ére ditte ca nà jère còlme!

La notizia che Pep-pino Giacovazzo non c’è più ci ha colto all’im-provviso in una giornata di melanconia autunnale che accresce la tristez-za di non avere più tra noi non solo un amico, di un’amicizia che risale alla nostra prima giovi-nezza, ma il sodale cul-turale con cui eravamo abituati ad avere esal-tanti colloqui di storia, di arte, di musica, di vita quotidiana.

Peppino, l’abbiamo sempre chiamato così, per l’affetto reciproco che ci legava, rimane sempre per noi uno dei ricordi più intimi ed ac-corati.

Direttore ResponsabileGiuseppe

Valerio

EttoreGeppyLuigiAngelo AndreaRobertoVanessaAnnaSebastianoErmelindaAlessandraMaria BiancaMariagrazia

GIACOVAZZO

CONVERTINI

CARNEADECONTEDE MICHELEGIOTTALACARBONARALIUZZILODESERTOPINTOPRETERECCHIARECCHIASEMERARO

Caporedattore

Società editriceAssociazione di Promoizione Sociale

Paese VivraiPiazza Vittorio Emanuele, 26

70010 Locorotondo (Ba)[email protected]: Angelo Andrea GiottaAutorizzazione N.1506 del 5-2-2001

del Tribunale di BariImpaginazione: Valerio Convertini

Stampa: Grafica MeridionaleVia Martiri della Libertà, 670010 Locorotondo (Ba)

A b b o n a m e n t o

Ordinario 40 euroSostenitore 50 euroBenemerito 100 euroEstero 80 euro

Redazione

Avrei voluto rivedere il senatore Peppino Gia-covazzo dopo aver dipinto i trulli per il suo ultimo libro “Elogio del trullo”. Nel volume è riportato un suo giudizio sulla interpre-tazione pittorica delle bel-le architetture della Valle d’Itria: “Nella pittura pugliese il trullo è sempre stato un rischio. Soggetto fin troppo allettante per

non cadere nell’ovvio. Pochi l’hanno saputo riscattare dal facile vedutismo. Depalma su tutti”.

Gli telefonai per ringra-ziarlo dell’apprezzamento e mi disse che appena guarito, ci saremmo incontrati.

Convinto che il mio caro amico Peppino avesse forte tempra e dovesse avere vita lunghissima, come gli ulivi della sua terra, la sua morte

mi ha sorpreso e addolorato.Nella vicenda umana,

culturale e politica, Pep-pino ha condensato tutti i suoi percorsi intellettuali, emotivi e religiosi. Negli ul-timi anni dell’attività, rea-lizzando il sogno del ritorno in Puglia, nella sua Locoro-tondo, continuò a percorrere il mondo delle lettere, della ricerca storica, nella neces-sità di raccontare anche la

Caro Direttore,le sembrerà strano che

mi rivolga ancora a lei, ma, ora più che mai, sento il bisogno di ringraziarla per tutte le volte che ho chiesto ascolto e lei ha dato voce a chi non ha voce, ha dato attenzione a chi non sa gridare, non sa scalpitare, non usa l’ar-roganza, tanto di moda in questi tempi.

Quante volte nella sua vita ha nominato questo nome, “Locorotondo”... in quanti modi, in quante forme, in quanti contesti, con quanti significati, ora nostalgici, ora amareggia-ti, a volte con toni arrab-biati, quando non è stato pienamente valorizzato... ma sempre con tanto amore e passione. In tut-te le stagioni, dal Natale

sua giovinezza. Era arrivato, forse, il momento decisivo di parlare di un mondo più in-timo e delle molte esperienze che l’avevano sostenuto.

Un addio al mio caro ami-co. Forse tutto quello che ho scritto è poco. Peppino meri-ta un biografo “grande come una piramide”.

Michele DePalmaMonopoli

alla primavera, all’estate con San Rocco, all’autunno con il vino, il paesaggio cangian-te ma sempre per lei affasci-nante. E i trulli? La Valle d’Itria? Quanto orgoglio e quanta devozione ai conta-dini, appassionati come lei a questa terra, che nella terra hanno lasciato salute e sudo-re... che bellezza però!

Locorotondo intanto con-tinua a muoversi, continua la sua battaglia quotidiana, così sembra. Per molti però (anche per me) non sarà più lo stesso, ora che non vedrò più tra le strade del centro storico un signore distinto, vestito di nero, con i capel-li bianchi, raramente solo, quasi sempre accompagnato da giovani, sua linfa, che lo tenevano al corrente dei fat-ti del borgo. Sugli scalini di “Paese Vivrai” vedo Valerio

Convertini aspettare qualcu-no che non arriverà...

Locorotondo ora è un po’ più solo. Si, è vero, ma è anche vero che lei ha la-sciato tanto, con la sua vita, lei ha lasciato tanto perché lo scopo dell’uomo e della vita terrena è quello di evolvere, di realizzare la scintilla divina che dimo-ra nel profondo del nostro essere per svolgere un “cer-to compito”. I suoi sogni li ha realizzati, ha saputo adoperare le proprie ener-gie in modo armonico e creativo. Questa alchimia è il potere di Dio in azio-ne, eterno e immutabile. Grazie Direttore Giacovazzo.

Iolanda Sumerano

E lo vediamo, lo pen-siamo ancora mentre, nel suo verdeggiante trullo, ci mostrava felice le te-stimonianze di arte e le rarità librarie di cui si era circondato.

Ancora il nostro affet-to per lui.

Marialuisa HermannAngelo e Raffaele Semeraro

Con rammarico porgo le mie più sentite condoglian-ze a tutta la redazione per la perdita del fondatore di Paese Vivrai e nostro illu-stre concittadino.

Mariada D’Onofrio

Ricordo di un amico Grazie Direttore

Foto Giacovelli

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