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Patrizia Corti UN GIORNO DIVERSO Racconto

Patrizia Corti Un Giorno Diverso

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Patrizia Corti

UN GIORNO DIVERSO

Racconto

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Un giorno diverso

Per Alberto

Rifugio sicuro! mi avvolgi di dolcezza

pazienza che calma non pudore

germoglio d’amore ! Patrizia

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27 maggio 2011 ore 6,30

Finalmente ritorno a casa! Dolce! Fresca casa!Non più l’afa della stanza d’ospedale che mi stringe la gola. Non più il sudore che invade il corpo molle, ma l’aria del mio giardino, intrisa di profumi primaverili, quelli dolci della robinia che permangono nel naso e si confondono con quelli più agri del gelsomino. Già m’immagino aprire il portone in una di quelle mattine d’inizio estate. Una fievole brezza mi attraversa. L’occhio cade sulla rugiada che ancora irrora l’erba. Sono avvolta dal silenzio. Saluto il giorno. Mi siedo e sorseggio il mio caffè. Fra qualche giorno apriremo la piscina. Il quadro naturale prende forma. L’acqua limpida, leggermente scorre, e riflette il sole in mille anelli incatenati. Io, immobile, sarò lì, sotto il portico, in quell’incanto, a leggere o a scrivere il copione del mio prossimo lavoro teatrale. Un musical sulla fisica quantistica! Quanto mi piace mettere in scena la scienza! Non so quando e come è nata questa passione, so che mi dà ossigeno, mi fa vivere, mi emoziona e mi viene naturale! Le cose che nascono dal profondo, talvolta, non te le spieghi, ci sono e basta. È la musica che fa uscire le parole dei miei testi, è la mia musa ispiratrice, mentre le scene, le azioni, la coreografia, le immagino solitamente quando viaggio, quando guido o prima di prendere sonno.

Sono tutta in fermento, alle sette e mezzo arriva il podologo con un tutore che il primario ha voluto fare sulla mia misura, per tenere i muscoli ischio-crurali, in posizione di riposo. Sono passati quattro giorni dall’operazione, la mia gamba immobilizzata da una steccatura, poggia inerte su quel letto di ospedale super attrezzato. La morfina continua a entrare nelle mie vene e non sento dolore. Il braccio destro è pronto a ricevere ogni tipo di farmaco. Non sento dolore

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fatta eccezione per quello posturale che spesso mi fa lentamente cambiare posizione.

Mi trattano proprio bene qui in ospedale. Il personale svolge con cura il lavoro che gli compete, nulla di più nulla di meno. Ognuno ha il suo compito, lavorano sempre in coppia. Le mani esperte delle fisioterapiste danno fiducia e rassicurano. Nessun movimento brusco o errato. Agiscono con cauta fermezza. Sono in buone mani! Le infermiere pensano ai farmaci, che m’iniettano a flaconi tre quattro volte al giorno. Di notte spesso dimenticano di toglierli. Mi alzo di soprassalto e schiaccio il pulsante della chiamata. Non vengono subito. Passano alcuni minuti e poi sono da me. Paola, la mia vicina di letto è stata operata ieri al braccio. Aveva paura di non recuperare al cento per cento l’attività motoria. << Caspita, come farò con il mio lavoro? Io uso le braccia nella terapia riabilitativa con i bambini!>>. Paola è una psicoterapeuta infantile, non può perdere l’uso del braccio. Suo marito è stato tutto il giorno in ospedale, nonostante i dolori post incidente. Quell’incidente che lui stesso ha causato. Un tamponamento in Sicilia, dopo una bella giornata trascorsa a Mazara del Vallo e che ha causato una brutta frattura all’omero di Paola. Chissà perché accadono le cose. Chissà perché proprio in quell’uscita con la classe, organizzata in piena sicurezza con gli Amici della Bici e in collaborazione col Comune della mia città, sono riuscita a lesionarmi i muscoli della coscia sinistra! Se il SUV non si fosse mosso dal suo passo carrabile, non avrei…, non avrei urlato << occhio!>>. Giulia non avrebbe frenato. Io non avrei inchiodato. E ora non sarei qui a scrivere queste pagine, chiedendomi se…, se…, se…! Le cose accadono senza un perché. A volte, tuttavia, la mia visione deterministica del mondo, mi fa pensare il contrario. Le cose accadono perché devono accadere. Perché ogni azione avrà una conseguenza e il susseguirsi delle conseguenze forma la nostra vita. Così com’è stata disegnata. Da Qualcuno forse. La nostra esperienza ce la mostra attimo dopo attimo. La nostra vita è già scritta. Noi la scopriamo di volta in volta, vivendo. Chissà se è davvero così o se

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siamo in balia del caso? Spesso mi ritrovo a pensare che un giorno o l’altro riuscirò a trovare il perché! Un giorno un’amica mi disse che la vita è come una lunga scena di teatro, dove ognuno di noi recita la propria parte, e come tutte le rappresentazioni che si rispettano, accadono imprevisti che fanno ridere ma anche piangere. Poi finiscono. Terminano con liete fini o in tragedia. Dipende dalla scelta del regista. E chi sarebbe il Regista della nostra vita? Quando spiego fisica ai miei alunni, spesso mi ritrovo a farli riflettere sulla bellezza e sulla spettacolarità della natura. La natura ha le sue leggi, alcune sono così perfette e le capiamo così bene che, ai nostri occhi sembrano indicarci che essa si è lasciata leggere e, in questa lettura, spesso ci mettiamo anche gli eventi della nostra vita, quelli che sappiamo interpretare. Tuttavia l’uomo non è riuscito a spiegare tutto, vi sono alcuni campi che s’insinuano nel mondo dell’infinitamente piccolo, in cui l’essenza stessa delle cose cambia, quando noi le osserviamo. La natura in questo caso gioca brutti scherzi. Non si lascia leggere. Più la guardi, più la osservi e più s’infastidisce e ci tradisce. Ecco che allora anche chi nella scienza ha sempre avuto una fede incondizionata, si affida al caso! E non sa dare risposte!

Non ho ancora fatto colazione e puntualmente compare sulla porta della stanza il podologo, bello, alto, zoppica, una distorsione alla caviglia. << Un podologo zoppo!>>. Sogghigno tra me e me. Scopro che è un grande atleta. Gli atleti, si sa, spesso si rompono. Ne conosco uno che scia con due tutori. L’uomo bionico. Un grande uomo, bionico o no, è un grande uomo. Un grande amico. Con un cuore d’oro. Che scia con due tutori.

La stanza improvvisamente si riempie di gente, tutti sono curiosi di vedere il mio tutore, deve proprio essere una novità ! <<chiamate il primario, chiamate il primario!>>. C’è una strana fretta nell’aria, dopo tutti quei giorni di calma e rilassamento d’un tratto c’è fretta. Il podologo inizia a montare il tutore, un infermiere mi taglia la

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steccatura di gesso, un’ausiliaria mi mette le calze, qualcuno prende le ciabattine infradito, poi capisce che con le calze è un po’ difficile infilare le infradito. Un’altra infermiera è lì pronta con le scarpe da jogging. <<Due? Che me ne faccio di due? Oggi per la prova ne basta una >>. Mi mettono la destra, mi alzano, mi tengono, il podologo mi avvolge un cinturone in vita che ha una corda elastica saldata con il velcro e che penzola dietro. La aggancia alla caviglia malata, piegandomi così il ginocchio. È soddisfatto. Sono tenuta da tre persone, qualcuno mi passa le stampelle. Il primario non c’è. Faccio presente che la gamba “sana” in realtà, non è molto stabile, sciando ho lesionato il legamento crociato anteriore, nel 93. Gli atleti si sa, si rompono sempre! Faccio un passo, traballo, il tirante mi sbilancia indietro, mi fermo, mi gira la testa, dico al podologo di tenermi perché ho paura e non ho forza nella gamba sana. Mi dice di non preoccuparmi… cado, appoggiata al lettino e tenuta dal podologo, attenuo la caduta. Le fisioterapiste sbiancano, in un attimo mi rialzano, non è successo nulla si ripetono, poi una, ci viene incontro con un girello. Che meraviglia il girello! Tutto il peso grava sulle braccia e le mani sono ben salde ai maniglioni. Ho sempre avuto forza nelle braccia. Ecco il primario. Nessuno gli ha detto nulla, appoggia la spalla allo stipite della porta con le mani conserte e le gambe leggermente incrociate. Osserva il mio tutore e con aria soddisfatta, mi ripete che quella è la posizione corretta della gamba, tutte le volte che vorrò camminare. Torno nel letto aggrappandomi al girello. La novità ha cessato di aleggiare nella stanza, se ne sono andati tutti. Paola si è appisolata, è ancora intontita dall’anestesia. Il podologo chiude la sua borsa, ripone il mio tutore nell’armadio e mi saluta. Lo saluto e lo ringrazio, non devo nulla, manderà la fattura direttamente all’INAIL. Sono nel letto, cerco di rilassarmi, guardo il comodino e mi accorgo che, coperta dal piatto, c’è la tazza con il caffè. Non ho ancora fatto colazione, tutto questo trambusto mi ha distolto da un rito. Penso di averlo ereditato da mia madre. Appena alzata dal letto, a piedi nudi si recava in cucina, preparava una moka di caffè e sola, indisturbata, iniziava la giornata facendo una lauta prima colazione.

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Quello era il suo momento. Ed è sempre stato così anche per me. C’è gente che la mattina si alza all’ultimo minuto, è infreddolita, si lava a mala pena e ha lo stomaco chiuso. Io no, io mi alzo presto, prima delle sei, riattivo il corpo con una doccia bollente, poi con appetito, in accappatoio e con un asciugamano sulla testa, me ne vado in cucina e, sola e indisturbata faccio colazione, un’abbondante colazione! La domenica e nei giorni di vacanza, invece, questo rito lo condivido con Alberto, mio marito.

Da tre giorni, bevo il caffè dell’ospedale, il suo gusto mi piace, non ha particolare aroma, ma appena scivola nel palato, risveglia in me la sensazione del piacere, della gratificazione, quella stessa che provai dopo il mio primo parto e che adesso ritorna dopo l’intervento. Sì, io adoro il caffè d’orzo dell’ospedale che assaporo con del pane fresco o con biscotti. Ancora adesso Paola, non la mia vicina di letto ma una grande amica, compagna di studi universitari e collega, compagna di viaggi e da sempre, la voce della mia coscienza, ama ricordare con gli amici, di quanta invidia provò tre giorni dopo il suo parto gemellare con taglio cesareo, quando mi vide fiorente, dopo un’abbondante colazione, a poche ore dal mio parto, naturale. Io, già in piedi con tre fusetti nello stomaco, e lei povera topina, gracile di costituzione, distesa nel letto, a digiuno da tre giorni, era nutrita solamente con sterili flebo idratanti. I nostri figli possono dirsi gemelli i suoi, veri gemelli, nati l’8 novembre 1990, il mio tre giorni dopo.

La colazione, s’è freddata, io amo il caffè bollente, specialmente quello del mattino. Non ho più fame. In me c’è ancora spavento per la caduta, mi appisolo, ogni tanto mi sveglio e dall’enorme finestra della stanza, osservo la cupola verde del duomo. Tra i rami dei faggi della parallela di via Duca degli Abruzzi, intravedo la mia vecchia scuola. Ventidue anni ho insegnato in quel liceo scientifico. Penso che se l’incidente mi fosse capitato qualche anno fa, avrei seguito tutta la prassi del ricovero al pronto soccorso, anche solo per un graffio, pur di riuscire ad avere un po’ di giorni di malattia. Quei quattro giorni di

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ferie che di diritto spettano a noi lavoratori della scuola, non erano mai dati durante l’anno scolastico, o quantomeno, non a tutti. Avevamo persino rinunciato a chiederli, per non avere risposte negative. Gli unici giorni che ci venivano concessi, erano quelli di malattia, certificati, in ogni circostanza, da un medico fiscale. Questo è ciò che ricordo del mio preside. Un uomo che per i primi anni ho stimato, ma, col passare del tempo, è riuscito a trasformare la mia stima in disdegno, la sua iniziale capacità gestionale in fredda, arida, algida competenza burocratica, dove le decisioni erano il frutto di documentazioni, leggi e articoli e mai di un sentimento di umanità e di sensibilità. Sempre rinchiuso nella sua presidenza, aveva persino messo un campanello fuori dalla porta, e la maggior parte delle volte che si suonava, usciva la scritta non riceve, o attendere. Non ricordo un avanti comparso al primo suono. Arrivava a scuola quando tutti eravamo già in classe, in questo modo sottilmente ci evitava. Nelle aule compariva solo per elargire sanzioni disciplinari agli studenti e, in sala professori, non ha mai sostato per più di qualche minuto. Sarebbe bello che i presidi, oltre alle competenze dirigenziali, avessero anche modi garbati e generosi di cordialità. Ne conosco uno che ogni mattina aspetta alunni e insegnanti all’ingresso della scuola, per ognuno ha un saluto, un sorriso, una parola d’incoraggiamento e, pubblicamente, ne apprezza ed elogia il lavoro con enfasi. Ma c’è anche chi, con discrezione, galanteria e pacatezza sa infondere fiducia, sa ascoltare e sa capire e, per la festa della donna, dona un fresco garofano giallo!

Invece mi sono alzata da terra, uno strappo mi sono detta, <<se mi tirate la gamba passa tutto, domani andrò a farmi manipolare e sarò a posto>>. E via ancora sulla bicicletta, per dieci chilometri, a consegnare i miei amati alunni ai loro genitori. Carico la bici in macchina, e guido dolorante verso casa, tutta storta, per non sentire dolore quando cambio marcia e schiaccio la frizione. << Domani prenderò la macchina di mio marito che ha il cambio automatico! Devo andare a scuola! Domani avrò la prova Invalsi, sabato organizzo

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e modero un incontro sul benessere! No, non posso fermarmi!>>. Poi il mio pensiero va alla vacanza nel Salento. Quel giro da fare tutto in bicicletta alla scoperta della Puglia, in quel tratto di costa caraibica, intriso dei profumi della macchia mediterranea, dove ci si lascia tentare dai sapori della sua terra. No, non può saltare per uno strappo! È la vacanza dei miei sogni, all’insegna dell’essenzialità, della libertà, organizzata con una anzi due grandi donne, Marina e Ornella, ognuna con una bellezza e purezza interiore, con la trasparenza di chi non sa mentire e che si dona agli altri così com’è! Ornella, è lei che paragona la vita al teatro. L’ho conosciuta quest’anno, mi è stata presentata da un’amica, perché mi aiutasse nella regia della rappresentazione teatrale. Fin dal primo incontro, mentre le illustravo il mio lavoro con cauto entusiasmo, via via coglievo nei suoi occhi e nei suoi modi, la condivisione. Sapevo che era un’esperta di teatro, mentre io ero solo al mio secondo lavoro. Cercavo di comunicarle il significato fisico del testo, mescolando entusiasmo con quello spirito di cattedra che contraddistingue noi insegnanti, e lei mi seguiva. Mi domandavo, se capiva realmente la termodinamica, o se fosse più interessata alle dettagliate descrizioni delle coreografie. Capivo che il mio entusiasmo si era intrecciato con il suo. Quanto è bella l’amicizia! Mia madre mi diceva che gli amici veri non esistono e che c’è sempre un interesse in un’amicizia. Mi sono sempre opposta a questa idea. Molte, fra le persone incontrate sul mio cammino, sono state speciali e poche quelle che mi hanno profondamente deluso. Franca è speciale. Compagna di studi dalle medie alle superiori è stata un po’ come il mio angelo custode. L’ho incontrata in un momento dell’adolescenza in cui ero fragile e vulnerabile. È stata un modello di vita, da lei ho appreso il significato della responsabilità. Oggi siamo ancora vicine. Anna mi deluse, ma tanti anni fa. Talvolta mentiva su piccole cose, inutili. Poi un giorno disse a mia madre che non voleva più frequentarmi perché provava invidia, perché la infastidiva il mio carattere sempre allegro, spensierato, ma soprattutto, per la fortuna che regnava attorno a me. Penso si riferisse all’amore immenso, incondizionato e ricambiato che provavo

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per Alberto. Fu con grande amarezza che accettai quel distacco. Oggi, a distanza di anni, la rivedo sempre volentieri. So che è felice sentimentalmente e, nella scuola, è molto stimata e apprezzata. Spero diventi preside. C’è una donna che invece, da poco ho conosciuto, e che è entrata nella mia vita con serenità, pacatezza e amicizia incondizionata. Marinella, la segretaria della scuola in cui adesso insegno. Quanto ho desiderato negli anni scorsi un trasferimento proprio in quel liceo classico prestigioso del centro città! A dire il vero non sapevo che attorno ad esso regnasse tutta questa fama, solo vivendoci mi sono resa conto di quanto fosse prestigioso! Non ho mai prestato attenzione a queste cose. Non sono un’arrivista, sono contenta di quello che ho, consapevole di essere privilegiata e molto fortunata. Da tre anni la mia vita è letteralmente cambiata. Certe volte mi chiedo come sia stato possibile che un nuovo, semplice posto di lavoro l’abbia trasformata, rendendola gremita di emozioni, quelle vere, quelle che ti fanno cantare di prima mattina, che ti fanno salutare il giorno con gioia, quelle che ti agitano come quando eri bambina, quelle che ti fanno essere te stessa, perché senti che è questo che apprezzano di te, e ne sei consapevole! Ho cinquantatré anni e sono felice! Quando mi congedai dalla vecchia scuola, scrissi due righe di commiato, dissi che stavo lasciando il certo per l’incerto, ma che avrei trovato nuovi colleghi nuovi amici e, forte delle vecchie amicizie, avrei saputo costruire un nuovo capitolo della mia vita . E fu così. Qui al classico, in un ambiente più raccolto e circoscritto, è stato facile rapportarsi con i colleghi, tutti presi dai loro molteplici problemi ma con grande disponibilità ad ascoltare e a incoraggiarmi. Primo fra tutti il mio preside, discreto, galante e pacato, un uomo che da subito si è mostrato carico di umanità e di sensibilità, era quello di cui avevo bisogno. Sapevo che avrei dato il massimo. Ognuno di noi dà il massimo se è preso in considerazione, se è incoraggiato. Sono anche gli altri che indirizzano le nostre scelte, e che ci guidano nei nostri successi. Con gli allievi funziona allo stesso modo, se li mortifichi, non ottieni risultati ma, se li sproni a far del loro meglio, li incoraggi, allora il successo è matematico. Io sono

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ringiovanita in questa scuola. Mi sono sentita come una scolaretta, arrivata con un bagaglio culturale letterario non troppo solido, ancora adesso ignoro fatti e vocaboli che a molti sono familiari. Tuttavia sono consapevole di possedere buone competenze nelle materie che insegno, matematica e fisica, e di saperle trasmettere con entusiasmo. Amo la mia professione. Ho sempre avuto un senso di disagio nei rapporti con i colleghi di storia e di filosofia della mia vecchia scuola, temevo il confronto. Mentre qui, con Paolo e Pietro, ad esempio, mi accorgevo che era tutto diverso, tuttora mi ritrovo a parlare di calcio, di vacanze, ma anche di filosofia, di scienza, e sono sempre a mio agio. Poi ho conosciuto meglio Antonio, un collega, ora in pensione, un altro filosofo, psicoterapeuta, un uomo di fede, di tanta fede, con il quale spesso mi ritrovavo a parlare di gioia, di amore. I sui consigli erano sempre d’incoraggiamento <<devi dire le cose con gioia, cercala dentro di te, e vedrai che usciranno a fiumi!>>. Fu lui che mi spronò a scrivere il copione della mia prima rappresentazione teatrale scientifica. Così furono proprio i filosofi a darmi una mano, inconsapevolmente mi aiutarono ad accrescere l’autostima, e tutto iniziava a diventare facile. Amavo seguire le conferenze in S. Giovanni tenute da Antonio, accompagnavo spesso i ragazzi agli incontri culturali, insomma, in questo liceo, così come ha detto l’uomo dai due tutori, stavo respirando il sapere, qui, dove la cultura traspira per osmosi, dai suoi muri affrescati, muri che hanno un passato. Qui ho liberato la mia vena artistica, ho scoperto di avere la passione per il teatro, faccio scienza e teatro. Qui ho scoperto la bellezza di insegnare in una scuola piccola, dove i volti si riconoscono, dove puoi andare per le classi a reclutare attori, musicisti o ballerine e convincerli che lo spettacolo sarà una bella occasione per stare insieme. Qui dove lo spirito di appartenenza sta dilagando anche tra gli adulti. Qui ho conosciuto Marinella. Era tutto pronto per partire con le classi per la settimana bianca, organizzata dall’uomo dei due tutori, ma all’ultimo minuto, un insegnante si ammala e deve essere sostituito. Non tutti amano la neve, il freddo, il bagnaticcio umido che s’insinua nel corpo e ci rimane per ore. Marinella, la segretaria, si

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offre. Una siciliana che non sa sciare, si offre. Rimango stupita. Sono al classico da tre mesi, non ho confidenza con il personale della segreteria. È però vero che in quella segreteria percepisco subito qualcosa di diverso. C’è un’aria familiare, c’è il sorriso, c’è disponibilità ad aiutarci in quelle procedure burocratiche, che noi insegnanti odiamo tanto. In albergo pranza al tavolo con me e con alcuni colleghi. Il suo viso è sempre solare, sorridente. È pacata, e quando parla dei suoi figli, le si illuminano gli occhi. Quando parla del marito, capisco quanto sia innamorata. Scia i primi giorni, con il sole, poi le nevicate copiose di quel gennaio del 2008 la fanno desistere, ma è comunque contenta. Ha imparato lo spazzaneve, e le basta. Nonostante la neve abbondante è sempre sulle piste ad aspettarci, a scattare fotografie e a tenere compagnia alle donzelle, che in ogni viaggio scolastico che si rispetti, non se la sentono di affrontare le piste, di sudare e faticare, ma preferiscono stare in albergo al caldo, escogitando improvvisi malesseri. Noi siamo tranquilli, le ragazze sono con Marinella. La settimana trascorre con piacevoli chiacchierate, quelle in cui vorresti raccontare la tua vita in poco tempo per fare in modo che gli altri possano conoscerti prima, possano capire come sei, quale carattere hai. Ma vuoi anche ascoltare quello che gli altri hanno da dirti, e scopri che c’è un’intesa perfetta con tutti, scopri persone con sinceri entusiasmi per la vita, scopri che puoi confidarti ed inizi a ringiovanire dentro! Il viaggio di ritorno l’abbiamo fatto sullo stesso pullman. Quelle due ore hanno consolidato un’amicizia e un reciproco rispetto che, ancora oggi, degustando un caffè da Elisabetta o semplicemente alla fine della mattinata, in segreteria, ci fa raccontare di noi. La bella siciliana due volte è venuta in ospedale, due volte con un presente.

Mi dimettono alle nove. Entrano i miei figli, Francesca e Alessandro. Non hanno lo stesso sguardo del giorno prima, sono incupiti. Ale ha sonno, forse è indispettito. È stato tirato fuori dal letto da sua sorella su invito del papà. <<Oggi dovete andare a prendere la mamma in ospedale>>. Già me lo immagino che impreca e si rivolta nel letto, e

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chissà come avrà risposto male a Francesca. Di mattina presto è meglio non parlargli, risponderebbe solo <<non rompere>>. Allora non gli parliamo. Lui sente di potere agire così, ci tiene sottilmente in pugno! Noi rispettiamo i suoi umori ballerini. Sa essere dolcissimo di pomeriggio, e a quell’ora, quando beviamo un the caldo, mi scioglie con i suoi discorsi filosofici o scientifici, mi ascolta quando parlo, ed io so ascoltarlo. E me lo godo! Se mettesse in pratica tutto quello che dice in quei frangenti, avrebbe già preso la laurea ad honorem! So che è molto intelligente e prima o poi capirà l’importanza dello studio. Oggi la sua passione è la musica, ha amato la pittura. È un artista, e mi assomiglia.

Francesca ha una strana fretta di portarmi via. Svogliatamente raggruppa la mia roba, sparsa sopra e dentro il freddo comodino di ferro. La caccia con trascuratezza nella borsa che ancora contiene ben piegati e stirati gli indumenti, meticolosamente preparati per l’ingresso in ospedale. Tutto un programma, il pre-ricovero! Aspetto già dal lunedì la telefonata. Mi è stato detto che forse sarei entrata nel pomeriggio. Preparo con calma la valigia, non so che pantofole prendere, preferisco le infradito. Alle cinque non mi hanno ancora chiamato. Entro il martedì. Francesca mi accompagna alle 7,30 all’accettazione. Si aspetta poco. Ha fame. Io sono digiuna dalle venti della sera prima. Ho fame. So che non mangerò per tutto il giorno. Qualche anno fa, la mancanza di cibo per così lungo tempo, mi avrebbe indispettito. Oggi considero il cibo come un farmaco. So dosarlo senza troppa fatica. Posso dire di avere finalmente trovato il giusto equilibrio tra la mente e il corpo. Mentre faccio gli esami del sangue, Francesca va a fare la colazione. Non sopporta la vista dell’ago nella vena. È svenuta l’ultima volta che ha fatto l’esame del sangue. Torna soddisfatta con un’aria da grande, bella, cicciotta ma bella. È sempre solare, forse l’ho vista piangere un paio di volte, è una roccia e mi da forza. I suoi occhi marroni parlano, capisco sempre se ha qualche turbamento. Quando era piccola, erano accesi e sorridenti, furbetti, e gioiosi. Solo quando nacque Alessandro, ho

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visto quegli occhi oscurarsi. A soli due anni e mezzo riuscì a comunicarmi la sua sofferenza, o forse solo la sua gelosia, con gli occhi. Capii subito che soffriva. Era passata poco più di una settimana dalla nascita di Alessandro. La presi sulle ginocchia e piangendo, le feci capire con il cuore aperto, che non era cambiato nulla. Le dissi che il mio amore per lei non era diminuito, c’era solo un rompiscatolino che ogni tanto richiedeva le attenzioni della mamma, perché aveva fame, ma fra non molto, sarebbe stato un compagno di giochi molto divertente. E così fu. Sono sempre andati molto d’accordo e, a parte il periodo della scuola media, in cui le differenti età si facevano più marcate, la loro complicità è tuttora ben salda.

Devo fare l’elettrocardiogramma e mentre aspetto, mando lei in coda a prenotare il ricovero. Arriva. Sono ancora in attesa di entrare. Viene il mio turno e lei chiede di entrare con me. Entra anche quando faccio il colloquio con l’anestesista che mi propone l’anestesia generale. L’interesse di Francesca per la medicina, sta affiorando proprio in questi giorni, da quando si è rimessa a studiare per il test di odontoiatria. La sua decisione di abbandonare definitivamente, dopo tre anni, la Facoltà di Lingue per il Commercio Internazionale, è stata un fulmine a ciel sereno! Non so se è questo ciò che voglio! Davanti a lei si apre uno scenario incognito, dovrà mettersi nuovamente in gioco con altri numerosi candidati per superare il test di ammissione. Avrei preferito vederla finire il percorso di studi che lei stessa, con tanta determinazione, tre anni fa scelse di intraprendere.

Abbiamo finito, sono le undici, e possiamo salire in reparto. Finalmente nel letto ad attendere l’intervento! Un’infermiera ci fa entrare in una stanza, qualche domanda, mi mettono le cannule nelle vene, quelle per le flebo, e poi ci dicono di andare nella stanza n 3. La camera è ampia e molto luminosa, una grande finestra occupa tutta la parete, i due letti sono intatti. Sarò sola! Non faccio in tempo a mettere la valigia nell’armadio che un’infermiera è già sulla porta e

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m’invita a spogliarmi. Mi prepara per l’intervento. Cuffia e camice, gocce e puntura. Saluto Francesca. Mi bacia. Quanta fretta, non ho avuto nemmeno il tempo di rilassarmi su quel comodo letto attrezzato di ospedale. Sono stranamente calma. Ho già subito un intervento di colecistectomia in video laparoscopia. Ho già provato l’anestesia totale e penso che mi farò una bella dormita, quelle senza tempo, senza la percezione del tempo. Ti addormenti e subito ti svegli, magari tossirò un po’. No questa volta non tossirò, ho smesso di fumare da sei anni. Non tossirò al risveglio ne ho la certezza. Mi trasportano attraverso un rullo di gomma nella sala pre-operatoria e mi abbandonano in fila dietro altri due lettini sterili. Che strana sensazione! Gente che va e viene, i loro passi sono decisi, i colori dei camici diversi. Tutti hanno cuffie, guanti e copri scarpe. Parlano ad alta voce. Nessuno sembra fare caso a noi. Aspetto il mio turno e associo quell’attesa a quella degli aerei sulle piste prima del decollo. Mi vedo in quella scena. Dall’alto, con il naso schiacciato contro il vetro di un’immensa vetrata di un aeroporto, vedo uno dopo l'altro gli aerei che prendono lentamente posizione sulla pista del decollo. Ma ho meno paura. Io ho paura di volare. Ogni tanto mi appisolo, non vedo più una barella. Meno una. Sono ancora calma, poi una voce: <<Diego, svegliati, svegliati Diego>>. Sento il tocco di qualche schiaffetto e penso che Diego si stia svegliando ed è già pronto per salire in reparto. Lui ha già finito! Anche l’altra barella è stata portata via. Fra poco tocca a me. Una voce dolce, calma, mi parla. È rassicurante, è l’anestesista. Mi fa qualche domanda, poi mi spiazza. << Preferirei farle un’anestesia spinale>>. Mi agito. Chiedo perché. Ho paura di star male, di capire di star male. Se avessi un calo di pressione, ne sarei conscia, sentirei l’elettrocardiografo cambiare il suo rassicurante ritmo, bip, bip, bip. No, non so se reggerei! Non ho avuto il tempo di abituarmi all’idea di una diversa anestesia. Chiedo la totale. La dottoressa si assenta un attimo, poi torna. <<L’operazione va eseguita da prona, la totale prevede l’intubazione, potrebbe arrecarle dei fastidi in gola. Stia tranquilla le facciamo la spinale>>. Accetto. Per forza accetto. Chiedo di farmi dormire un po’

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durante l’operazione. Mi portano in una stanzetta stretta, mi spiegano tutto. Sono calma. Le gocce hanno fatto il loro effetto. La puntura è eseguita nella spina dorsale, non so a quale altezza, ma direttamente nel midollo osseo. Un leggero fastidio, poi piano piano un formicolio alle gambe e poi più nulla. Non sento più nulla. Paralisi. Quando entro in sala operatoria mi coricano su un altro lettino. Chissà perché me lo aspettavo di acciaio, invece no. Sento freddo. Chiedo di essere coperta. Mi rassicurano. Sono in tanti in quella sala. La loro tranquillità, mi rasserena, è la tranquillità della routine. È la stessa tranquillità che ho visto sui volti delle hostess. Forse li addestrano. Sono prona. Mi coprono con una coperta termica tutta rialzata dietro di me, sono come in una gabbia, una calda accogliente gabbietta. E sono calma. Arriva il primario, mi saluta, lo saluto. L’anestesista mi accarezza la testa: <<tranquilla>>. Davanti a me solo una persona intenta a far qualcosa che non capisco, avrà il suo ruolo. Il primario invita i presenti a chiamare gli altri, penso ai tirocinanti, ma non li vedo. Penso che la mia debba essere un’operazione singolare, forse usa una tecnica nuova. Sono nelle sue mani, lui è il migliore. Che uomini i chirurghi! Ha ragione Franca, i chirurghi dovrebbero essere pagati, ma che dire, super pagati! E non solo in denaro, dovrebbero essere venerati, protetti, rispettati. Sono loro i veri, unici, grandi uomini della storia. Non si fanno grandi con le parole, ma con i fatti, e i fatti sono tangibili, sono concreti. Noi siamo nelle loro mani, mani che vanno super assicurate! Non hanno prezzo le loro mani! La salute non ha un prezzo! Sono calma. Sento un leggero movimento sulla gamba destra. << Dottore, sa che è la coscia sinistra, vero?>>. Tutti ridono. Lui dice che per non dimenticarsi l’aveva segnata con il pennarello e ride. Grande uomo il mio primario. Ha pure un grande senso dello humour. Sono calma. Giro la testa e mi appisolo. Forse è stato più di un semplice pisolino. Mi sveglio perché sento martellare sul mio bacino, per quattro volte. Non so ancora che sono le quattro ancorette che rinsaldano i muscoli all’osso. Da quel momento sono sveglia e non chiudo più gli occhi. Metto i pugni sotto il mento e sono contenta, le loro voci sono basse,

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ferme, concentrate. <<Taglia piano, piaaaano, ho detto piano>>. Stanno suturando. Non è lui ma un suo assistente che chiude l’operazione. O almeno così credo. Sono tranquilla. È come essere nella serie del dott. House, ho visto, a grandi linee, la sala operatoria e le persone, ho sentito qualche parola e, come nelle scene del film, è tutto già finito. Mi riportano nella piccola stanzetta e m’ingessano. Sono rilassata e felice. La prima parte è andata. Ora sono pronta per affrontare tutto.

Francesca è scocciata, brusca. Ho bisogno di un aiuto per vestirmi. Sento distacco e svogliatezza. Avrò bisogno di loro, ma non li voglio così distaccati. C’è sempre un pensiero nella mia mente, quello di non avere dato abbastanza affetto e amore ai miei figli. Di non essere stata una mamma chioccia. Mi sento affranta all’idea dell’egoismo. Chissà forse ho pensato troppo a me stessa, e ora raccolgo ciò che ho seminato. Quando erano piccoli, ho avuto la fortuna di gestire la mia, la nostra vita, quella di coppia, con molta disinvoltura. Ho fatto in modo di non rinunciare a nulla. I bimbi dormivano di notte, non erano capricciosi, Alberto ed io proseguivamo, senza interruzioni, il nostro rapporto di coppia e di vita sociale. Ci sentivamo proprio fortunati. I nostri amici si ritrovavano a dormire in letti separati. Programmavano i turni di notte. L’avvento dei figli, insomma, aveva in qualche modo rivoluzionato le loro vite. Ciò che già allora mi sorprendeva, è che essi avevano la consapevolezza che la rivoluzione fosse inevitabile. Ricordo che nella mia casa non ho dovuto apporre grandi cambiamenti. Non c’erano pericoli. I bimbi potevano gattonare liberi per le stanze senza che io dovessi incessantemente essere lì, a evitare loro i pericoli. Pensavo che avrebbero così sviluppato autonomamente la percezione spazio temporale. Se ci veniva voglia di andare al ristorante, sceglievamo posti all’aperto, o sale per non fumatori. Li portavamo sempre con noi. Non facevamo di certo tarde ore. Ho anche avuto la fortuna di potere contare su ragazze capaci, amanti dei bambini. Luciana, era una psicologa, o meglio studiava psicologia. È stata la tata migliore che ho avuto.

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Francesca se la ricorda, io la ringrazio ancora adesso. Quando nacque Alessandro, non erano passati neppure due giorni dal ritorno dall’ospedale, che già Alberto ed io uscivamo a cena con amici. Non lo allattavo, non avevo latte. I pianti di Alessandro me lo fecero capire subito. Non come successe con Francesca! Lei mangiava e si addormentava al seno. Anche durante quel terzo mese dell’ottantotto! Lontana dalla bilancia della casa, assaporavo una bella vacanza a Lodrino con Marina e le sue splendide figlie. Francesca dormiva la maggior parte del tempo, mangiava e dormiva. Alla visita pediatrica di metà mese mi dissero che la bambina non era cresciuta. Il mio latte era solo siero senza nutrimento! No, con Alessandro da subito passai al latte artificiale. C’era un unico inconveniente: i suoi ruttini con vomito. Sento ancora l’odore del latte cagliato sul mio collo. Nonostante girassi con una bavaglia sulla spalla, quell’odore era diventato parte di me. Le mamme profumano di bimbo io puzzavo di latte cagliato. Riuscivo a cambiarmi tre o quattro volte prima di uscire. Ero sempre in ritardo. Che bei ricordi! Sono stata una mamma felice. Avevo tutto! Anche un cane! Un bovaro del bernese di una bellezza strabiliante, era perfetto! Alberto me lo regalò per il mio trentacinquesimo compleanno. Era un batuffolo dal muso nero marrone e bianco, e bianca era la stella che si formava sul suo petto. Lo prese con i bambini in un allevamento a Saviore dell’Adamello. Il suo pedigree era all’altezza della sua bellezza. Il suo carattere lo rendeva un babysitter per eccellenza. Alessandro crebbe con lui, vivevano praticamente in simbiosi. I suoi biscotti li divideva con Honeyr e purtroppo talvolta anche il suo gelato e il suo biberon! Morì per un emangiosarcoma addominale a soli cinque anni. Fu straziante. Lo seppellimmo Alberto ed io, tornati dal mare con urgenza, nel nostro giardino, davanti alla camera dei bambini.

Finalmente siamo pronti, la sedia a rotelle è già in camera, il personale ospedaliero ci raccomanda di non abbandonarla nel piazzale. Noi rassicuriamo. Mi aiutano a sedermi. Do alcune

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indicazioni su come devono sistemarmi. Probabilmente il mio tono di voce si fa più alto. <<Si vede che lei è un’insegnante, abituata a dare ordini!>>. I miei figli ridono e annuiscono. Siedo tutta storta. La gamba steccata è allungata in avanti, sento precarietà. Ho paura che qualcuno mi urti. Sulle ginocchia mi mettono alcuni sacchetti e infilano tra il mio seno e i sacchi, la cartella clinica. Vedo a mala pena davanti a me. Fortunatamente non ho il borsone degli indumenti. Alessandro fa il facchino, porta stampelle e borsone. Francesca mi spinge. Corre, ride, io ho paura. Mi sento invalida, mi fanno andare a zig zag, e corrono. Continuo a ricordarle che la mia gamba sporge, e non deve urtare. La sollecito ad andare piano. La mia voce si fa secca e alta. Do ordini. Francesca mi tratta male, mi dice di non rompere, o forse anche qualcosa di più offensivo. Non mi piacciono quei figli che rispondono sgarbatamente ai genitori. I miei, talvolta lo fanno per scherzo, e mi arrabbio. Ma quando sono loro gli adirati, e non lesinano parole irripetibili, sono inerme. Accuso il colpo. Soffro e sto zitta.

Mi sento invalida e ferita. Arriviamo all’ingresso, dove dobbiamo prenotare la prima visita di controllo per la medicazione. Mi parcheggiano a fianco di una colonna, davanti alla porta principale. Accanto a me depositano le stampelle e il borsone. Non ho la visuale di chi viene da destra. La mia gamba sporge dalla colonna ed io istintivamente, faccio segno a tutti quelli che passano, di stare attenti. Mi tiro indietro col corpo. Inutile. La mia gamba non si muove. La gente mi guarda stranita, incuriosita. I loro occhi osservano la mia gamba con aria compassionevole. Vanno troppo veloci. Ho paura che mi urtino. Prendo una stampella e la metto davanti alla carrozzella, un po’ più in fuori della gamba tesa, così mi vedono, penso. Ma io non vedo loro. Quella posizione non mi piace. L’attesa si fa lunga. Ogni tanto i ragazzi si girano a guardarmi. Alzano gli occhi al cielo, sbuffano. Chiamo Alessandro e gli chiedo di tirarmi un po’ indietro, in modo che la gamba non sporga dalla colonna. Ora sono più sicura, ma ho il terrore che qualcuno giri l’angolo bruscamente e non mi

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veda, allora prendo le stampelle e le butto in terra, più avanti della colonna. Spero che la gente guardi anche in terra quando cammina. Ora sono più tranquilla e aspetto. È passata mezz’ora e finalmente mi raggiungono. Hanno prenotato tutte le visite. L’ultima sarà l’8 luglio. Il giorno in cui potrò mettere il piede in terra e tastare l’appoggio. Usciamo dalla clinica e faccio un profondo respiro. L’aria fresca mi avvolge, qualche piccola goccia di pioggia mi bagna il viso. Mi domando perché siamo nel piazzale principale della clinica. Alberto mi aveva detto che avrebbero parcheggiato giù al pronto soccorso per rendere più agibile il mio trasporto. Invece attraversiamo il piazzale. Usciamo sulla strada. Oso chiedere dove hanno parcheggiato la macchina, poi la vedo cento metri più in là. Mi agito. I miei figli spingono la carrozzella in mezzo alla strada. Li esorto ad andare sul marciapiede, non mi piace essere affiancata dalle macchine. <<Non rompere >>. Attraversiamo la strada, cercando di evitare le zone fresche di tintura bianca della segnaletica. Do ordini. Mi trattano male, mi prendendo in giro e giocano a farmi i dispetti. Minacciano di abbandonarmi in mezzo alla strada. Ridono. Questo è solo l’inizio di un lungo periodo in cui avrò inesorabilmente bisogno di loro. Io ho sempre pensato a tutto. Ho chiesto favori solo quando era strettamente necessario. La gestione delle cose ordinarie, quelle della casa, dei figli, è sempre stata nelle mie mani e, a parte qualche momento di sconforto che anch’io ho sperimentato, sentivo di avere la mia vita e quella dei miei figli sotto controllo. Quando erano piccoli, passavano la maggior parte del tempo con me. Ero energica, ma non li sgridavo di continuo, non ricordo che fossero particolarmente capricciosi. Forse, mi sbaglio, forse li accontentavo in molte cose. Forse le mie energie le spiegavo solo nelle cose più futili. Volevo ad esempio che imparassero a nuotare senza avere paura dell’acqua. Ricordando mio padre, lo emulavo, staccavo le loro manine dalle mie e li lasciavo sbracciare da soli. Non stavano a galla. Allora io li prendevo sicura, così come mio padre faceva con me. Ma i miei figli non avevano la stessa fiducia che lui riusciva a darmi, loro avevano paura dei miei modi un po’ bruschi. Loro volevano solo Alberto. Lui sì

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incuteva sicurezza! Alberto dimostrava una dolcezza e una delicatezza con i suoi figli che, ancora oggi, sa far vedere. Delicatezza e fermezza, due qualità che io non ho mai avuto. Anni fa lessi un libro che parlava di Yin e Yang. Lo Yin è la nostra componente femminile e lo Yang è quella maschile. Ognuno di noi le possiede entrambe, ma in rapporti diversi. Ecco io penso di possedere più Yang, mentre Alberto più Yin, e i bambini l’hanno sempre percepito. Lui è stato un papà chioccia! Il suo lavoro l’ha sempre assorbito molto, talvolta aveva pazienti fino a sera inoltrata, e spesso, quando tornava, i bambini erano già a letto. Tuttavia il poco tempo che passava con noi, ci sembrava interminabile e qualitativamente perfetto. Alberto aveva e ha, tuttora, la capacità di non portare in casa i problemi di lavoro, e si dedicava pienamente alla famiglia. Ha giocato molto con i ragazzi e li ha viziati. Vizi di gola, fatti di gelati, di Coca Cola, di ovetti Kinder, ma anche di giochi, di tantissimi giochi! Vizi di coccole, tenere, sorridenti coccole!

La macchina è parcheggiata storta tra due carreggiate. Decidono che starò più comoda dietro. Ma come entrarvi? Sono debole, non ho la forza di fare alcun passo con la gamba sana. Mi aggrappo ad Alessandro. Grido a Francesca di tenermi il gambone di gesso. Pesa e non posso appoggiarlo. La sedia a rotelle è troppo distanziata dalla macchina, mi sgridano, mi dicono di fare un balzo indietro, ma non posso. Piango. Sono cattivi. Mi trattano male. Perché non capiscono che sono in difficoltà? Hanno fretta di portarmi a casa. Vogliono riprendere la loro vita fatta di comodità. Quelle comodità sempre avute. Perché non ho più potere su di loro? Entrambi hanno frequentato un anno di studio in America, erano in quarta superiore quando sono partiti. Un anno cambia le abitudini. In un anno si dimenticano le regole. Non ne avevano molte prima della partenza, ma alcune erano ferree. Sono tornati cambiati. Sono tornati un po’ più spavaldi, cittadini del mondo, un po’ più scaltri ma soprattutto con poca voglia di studiare. Dopo un anno fuori casa, come rifiutargli qualche uscita serale con gli amici? Ora che sono all’università escono

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sistematicamente tutte le sere e rientrano anche tardi. La mattina dormono fino a tarda ora se non hanno lezione. Perché non assomigliano a me? Quanto adoro svegliarmi presto la mattina! Loro no, loro dormono e non si svegliano prima di mezzogiorno. Certe volte mi chiedo se i giovani di oggi sono tutti uguali, se è un tarlo generazionale, o se sono solo i miei figli a comportarsi in questo modo. Mi chiedo anche, se io sono responsabile. Paola e Donatella non hanno i miei sensi di colpa. I loro figli le ascoltano. Quando è no, è assolutamente no. Loro sono due donne energiche. Hanno saputo impostare la vita familiare con regole ferme. Hanno saputo affrontare lo scontro. Io no. Io non amo lo scontro. Amo l’armonia. Ho scelto la strada più facile. Quella dei si!

Mi ritrovo sul sedile posteriore dell’auto appoggiata alla portiera. Francesca fuma una sigaretta. Alessandro sta riportando in reparto la sedia a rotelle. Gli operatori della segnaletica stradale passano vicino alla macchina, incuriositi dai nostri schiamazzi. Pochi chilometri mi separano dal mio letto. A casa sarà tutto più facile. A casa anch’io ritroverò le mie abitudini. So muovermi. Mi sbaglio. Arrivati a casa, parcheggiamo a ridosso del portico. Come scendere e come trasportarmi in casa? Francesca sceglie un lettino della piscina. È un po’ sporco. Mi trascinano fuori piano e mi adagiano sul lettino. Non mi trattano male. Siamo a casa. Mi spingono all’indietro, tenendomi alzata da una parte, per far meglio leva sulle uniche due rotelle del lettino. Ridono e sono più rilassati. Sono a casa. A un tratto si fermano. Il lettino non passa dalla porta che separa la zona giorno da quella notte. Francesca va a prendere una coperta, un cuscino e, piano, mi adagia in terra. Mi sento trascinare sul parquet come un sacco. Ridono. Intravedo una certa preoccupazione. Non sarà facile. La mamma non è autosufficiente. Il loro comportamento cambia. Mi portano a letto ma ho un bisogno. Devo andare in bagno. Io non sono autosufficiente. Mi aiutano. Mi aggrappo con tutte le forze alle loro spalle possenti. Sono felice di avere due ragazzoni grandi e in forza. Alessandro esce dalla stanza. Con me rimane solo Francesca. Quella è

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stata la prima e l’ultima volta che mi hanno accompagnato. Poi di me si è sempre occupato Alberto. Piango. Sei settimane in queste condizioni. Non so se ce la farò. Il telefono squilla. È Alberto. Gli spiego la situazione, mi sente affranta. La sera rientra con un girello e con una sedia a rotelle. Sono arrivati i mezzi di trasporto della mamma. Siamo tutti in camera. C’è la stessa fretta che ho percepito stamattina in ospedale. Alberto monta il girello. Alessandro è alle prese con la carrozzella a rotelle. Francesca lo aiuta. Appena è montata, si siedono e fanno un giro per la casa divertiti. Scherzano con il girello. Sono felici. La mia famiglia è con me. Sono felice. Mi fanno sedere sulla carrozzella, mi aiutano, ma non so dove appoggiare la gamba. Sono tutta storta. Appoggio solo su un gluteo, posso stare solo ferma. Abbandoniamo l’idea che possa usare la sedia a rotelle. Almeno per il momento. Per utilizzare il girello devono togliermi la steccatura, imbracarmi la vita, legarmi il piede, e poi via, non mi sembra vero. Spingo con la gamba “sana”. La maggior parte del peso è sulle mie braccia. La forza delle mie braccia! Le mani tengono ben salde le maniglie del girello, non mi sembra vero. Corro. Ho sempre corso nella vita. Fin da piccola. Ero la classica bambina disdegnata da tutti i parenti perché ero molto vivace. Non stavo mai ferma. Avevo le ginocchia sempre rovinate. Correvo in modo scoordinato e cadevo. Ero scoordinata in tutto. Alle medie, la mia insegnante di educazione fisica tremava tutte le volte che mi attorcigliavo sul quadrato svedese. Oggi ho visto tremare le infermiere quando mi sono alzata. Ero sempre in cerca di pericoli. A quattordici anni facevo escursioni in alta montagna con semplici scarpe da ginnastica, anche sui sentieri abbastanza impegnativi. Le mie Superga hanno calpestato le ferrate Oliva Detassis, i Dodici Apostoli e le Bocchette Superiori del gruppo del Brenta. Passavo attraverso i camini con disinvoltura, non soffrivo di vertigini. Non mi spaventava nulla! Chissà quale meccanismo ha messo in atto il mio io, nel momento in cui di colpo mi sono fermata. E ho iniziato ad avere paura. Ho sviluppato alcune fobie che ancora oggi mi assillano. Soffro di vertigini. Evito di prendere le funivie, gli aerei e gli ascensori. Ecco,

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tutto ciò che non controllo autonomamente mi crea disagio. Amo avere i piedi sulla terra ferma!

Oggi in terra ne ho solo uno perché l’altro è trattenuto dal tutore. Pochi passi e sono già stremata. Alberto mi riporta nel letto, mi rimette la steccatura e sta un po’ con me. La cena è quasi pronta. Francesca cucina bene ed è lei che se ne occupa. Prepara una pasta, il piatto più versatile, più economico, più spiccio, più gustoso e caspita, quello che da un po’ di anni, ho eliminato dalla mia alimentazione. È quello che mi fa aumentare di peso. A dire il vero, non ho proprio eliminato la pasta, talvolta la mangio ma a un orario singolare. A colazione. In bianco, con olio, peperoncino e rigorosamente senza sale. Seguo da un paio d’anni un regime alimentare a basso indice glicemico. Il mio è uno stile di vita, una filosofia. I risultati sono sorprendenti. Ho scoperto che i grassi non fanno aumentare e non mi alzano il colesterolo. I veri killer sono il sale e l’insulina in eccesso! I miei alunni si accorgono quando mangio pasta a colazione, dicono che ho energia da vendere e corro come un treno quando spiego. Stasera la mangerò per cena. Stasera e questo fine settimana, non guarderò tabelle glicemiche. Mi coccolerò. Mi coccoleranno con pranzetti succulenti. Poi da lunedì mi rimetterò a stecchetto. Questa giornata volge al termine. È solo la prima di quarantadue. Quarantadue giorni in cui la mia mente sarà libera di volare, di riflettere su ciò che nel passato ho giudicato troppo in fretta, libera di gustare questa calma fisica che rilassa le membra. Quarantadue giorni in cui potrò dipingere, scrivere, leggere. Chissà, forse gli atomi del mio corpo si sono fatti sentire. Questo è stato un anno movimentato, ricco di novità, di impegni di super lavoro, di responsabilità, di eccitazioni, di gratificazioni, di felicità, di momenti commoventi. Forse ho chiesto troppo! No. Mi sono solo fermata. Spengo la luce. Chiudo gli occhi. Penso.

Domani potrò gustare il lento trascorrere del tempo!

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