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Pier Paolo Pasolini La poesia che dice tutto di Daniele Piccini Giovanni Giovannetti / Effigie

Pasolini La poesia che dice tutto

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La lucidità e l’impressionanteprecisione delle analisi o meglio delle profezie di Pier Paolo Pasolini sullo stato dele cose italiane sono riconosciute, oggi, più o meno da tutti.

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Pier Paolo PasoliniLa poesia che dice tutto

di Daniele Piccini

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La lucidità e l’impressionanteprecisione delle analisi o me-glio delle profezie di PierPaolo Pasolini sullo stato del-le cose italiane sono ricono-

sciute, oggi, più o meno da tutti. L’av-vento di una Nuova Preistoria, lascomparsa della cultura autentica diun popolo sostituita da un immagi-nario omologato, plastificato e televi-sivo (quello che Pasolini definì un“genocidio culturale”) sono oggi,molto più di allora, consumati ed evi-denti sotto gli occhi di tutti. Quelloche non sempre si ha la forza di rico-noscere, a trent’anni da quella nottedi novembre in cui lo scrittore vennetrucidato (è di quest’anno la riapertu-ra dell’inchiesta dopo le nuove di-chiarazioni di Pino Pelosi, condanna-to come esecutore dell’omicidio), èche molto del suo singolare fiuto neldistinguere e riconoscere, nel giudi-care, comprendere, ma anche nel lot-tare, è retaggio e patrimonio prima ditutto del Pasolini poeta.

Sul valore della poesia di Pasolini,che del resto dell’eccesso e della pro-vocazione ha sempre fatto una pro-pria arma, i giudizi sono ancora scre-ziati e diversi. Da parte di alcuni (si ri-corderà la nota di Mengaldo nella suaantologia I poeti italiani del Novecen-to, del 1978) si tende a restringerepoco oltre la produzione in dialetto ilbuono della poesia pasoliniana, con-testando quasi in toto l’operazionesuccessiva, da Le ceneri di Gramsciin particolare, come mescolanza eibrido di letterario e predicatorio, dibasso popolano e di decadente. Ep-pure una tenace, resistente vitalità diquesta poesia, come si è detto esube-rante, esondante, quasi in perenneeccedenza di quantità, è un dato chei recenti due tomi dei “Meridiani”Mondadori di Tutte le poesie, a curadi Walter Siti (2003), non hanno fattoche confermare. Il punto è che Paso-lini si è sempre identificato (e certonon solo in poesia) con una fonda-mentale forma di schizofrenia, dicontraddittorietà, di divisione. Tuttele analisi, più e meno recenti, sullasua opera puntano su questo dato,evidente a livello psichico-tematico

come a quello formale (l’ossimoro èuna delle figure più costanti del ra-gionare pasoliniano).

L’interna lacerazione, innanzi tuttotra rispetto e amore per la Letteraturae suo ideologico e razionale rifiuto osuperamento (su cui richiama l’atten-zione il ricco e corposo saggio di An-tonio Tricomi, Sull’opera mancata diPasolini, Carocci, Roma 2005), è unelemento che da un certo punto inavanti, diciamo dal passaggio allapoesia in lingua, contraddistingue equasi marchia a fuoco tutta l’opera diPasolini, al pari di una ontologicatensione tra vitalismo, fortissimo inlui, e desiderio di morte, cupio dissol-vi (sull’orizzonte e il progetto di mor-te costruisce una complessiva letturadel mondo pasoliniano Stefano Ago-sti, raccogliendo suoi saggi prece-denti nel volumetto La parola fuoridi sé, Manni, Lecce 2004).

Voglio dire che Pasolini ha vissutotutta la sua avventura intellettuale, eprima di tutto poetica, all’insegna diuna irrisolvibile divisione interiore,non sanabile e talmente patita da di-ventare essa stessa fonte di ispirazio-ne, di forza visionaria, di poesia. Unaserie di coordinate storico-letterarieed epocali mise Pasolini in una sco-modissima posizione di poeta in lottacon se stesso, di intellettuale e scritto-re tormentato e, infine, di vittima, co-me se egli volesse con il proprio cor-po ridare consistenza a un mondo fa-tiscente e in dissoluzione e insiemepagare con la sua morte la propriaeresia (per stare a una parola su cuirichiama l’attenzione Gianni D’Elianel suo volume di rilettura integraledell’opera dell’autore L’eresia di Pa-solini, Effigie, Milano 2005).

Pasolini, a guardare in prospettivala sua vicenda e i suoi scritti, si è tro-vato a pagare sulla carne viva unatemperie culturale, un clima colmodi sospetti, di diktat, di obblighi dog-matici. Il suo fuoriuscire da ognichiesa (quella cristiana ma anchequella, sentita in qualche manieracome parallela, del Partito) è una for-ma di libertà che egli si è trovato apagare a carissimo prezzo, conl’esclusione, la solitudine, la coscien-

za del proprio isolamento, il senti-mento di una perenne sconfitta. Ep-pure è questa volontà di forzaturacontinua delle appartenenze e delleformule che ha nutrito di vita e distruggimento l’opera di Pasolini eche l’ha messo al riparo da un rapidosuperamento, da un rispecchiamen-to contingente e limitato, transeunte,del suo tempo.

Pasolini, da isolato e da opposito-re, da contestatore e da ‘senza chiesa’ha potuto sentire sfaldarsi il tessutoculturale della Nazione, venir menolo stesso ruolo rassicurante e ‘sacer-dotale’ della poesia e la necessità peressa di aderire a un nuovo ordine dicose, in cui lo scontro si faceva piùsottile e radicale. Nessuna forma da-ta, nemmeno quella ideologica, ser-viva e bastava a contentare l’aspira-zione vitale, il dramma del Pasoliniartista, in cerca di una prensile, pienapresa sul mondo, di un tentativo diinveramento di tutta l’esperienza,che non era possibile se non a prez-zo di un enorme sacrificio personale.

Pasolini è stato ed è restato sempreprima di tutto un poeta (come è statoda tanti sottolineato), e il suo cinema,la sua narrativa non sono che poesiatrasferita in altre forme, su altri piani,altri linguaggi. La poesia è stata, incerto modo, la sua prima e fonda-mentale eresia, l’arte che lo ha messoin condizione di leggere e percepire esoffrire le contraddizioni e l’assenzadi sbocchi positivi del tempo e insie-me di attraversarle in modi non obli-terabili. Perché se Pasolini, da unaparte, con tutta la sua forza e luciditàintellettuale tendeva verso la presa dicoscienza ideologica, l’impegno el’indicazione di un’opera da compie-re nel quadro della lotta di classe,dall’altra, anche e soprattutto per viapoetica, avvertiva nel buio delle vi-scere (come dice nel capitale poe-metto Le ceneri di Gramsci del 1957)una diversa, arcaica, remota verità,non addomesticabile né riducibile aStoria, a ragione. Una verità consi-stente nella vita al suo stato puro,grezzo, pre-ideologico sentita comebene inalienabile, come struggente epotentissimo eden in via di definitivo

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smarrimento, con cui la stessa analisie prassi marxista confliggeva.

Pasolini inizia la sua vicenda poeti-ca in dialetto, nutrito di letture elettee raffinate, che gli venivano dallagrande cultura romanza, e tra le Poe-sie a Casarsa del 1942 e La megliogioventù del 1954 tenta di ricostituireuna lingua poetica che è tutt’uno conla verità prima, fresca, sorgiva delleorigini insieme romanze e cristiane.Questo ideale, che la storia aveva giàcondannato, non si realizzava, perl’appunto, che nella poesia, nella lin-gua – quasi inventata nella sua vergi-nità e insieme rarefazione – della let-teratura. Da lì in poi Pasolini conti-nuerà a cercare lo scatto prepotentedella vita, la viscerale verità del san-gue in un’opera immane di attraver-samento della realtà sempre più de-gradata, abbassata, corrotta, in untentativo titanico e inevitabilmentesanguinoso di inverare per forza poe-tica, internamente, tutto il reale, con-sumando le scorie della stessa ideo-logia nella folgorante e incontestabi-le evidenza del linguaggio poetico.Ciò significa che Pasolini, come conil dialetto materno di Casarsa (lui cheera nato a Bologna, nel 1922) avevacercato il “regresso lungo i gradi del-l’essere”, a partire dall’Usignolo dellaChiesa Cattolica (1958, ma i testi da-tano al 1943-1949) cerca invece, sce-gliendo l’italiano e come oggetto unarealtà sempre più complessa e con-traddittoria, di risalire quei gradi, ve-nendo verso la luce torbida della Sto-ria ma conservando l’idea cardinedella purezza, della totalità, dell’ade-sione panica al mondo.

Tutto questo mentre la sua posizio-ne di intellettuale di crescente rico-noscibilità gli imponeva, per il coloredei tempi, di assumere la responsabi-lità di un discorso razionale, utile,ideologicamente orientato e risolto.Questo obbligo o costrizione metto-no Pasolini in un dilemma che è, co-me si accennava sopra, il suo tor-mento e insieme, in qualche manie-ra, l’alimento della sua forza poetica.Si trattava di combinare nella crea-zione una serie di preoccupazioni eassilli in realtà non commensurabili,

di tenere insieme un discorso pre-ideologico e uno politico, di tentareuna cucitura tra letteratura e gesto,tra letteratura e suo ripudio.

Questo dramma, vissuto fino alleultime conseguenze, ha indotto Pa-solini a ‘sporcare’ molta della suapoesia matura (almeno dalla Religio-ne del mio tempo, 1961, in poi) di to-ni predicatori, di saggismo versifica-to, di oratoria, ma lo ha anche con-dotto a cercare una via non inerte dilirismo antropologico, di panismo vi-tale, di commistione tra prosa delmondo e della storia e assoluta veritàdel dettato poetico. In effetti, guidatoda questo dèmone, dalla lacerazionee dallo scacco che in ogni tentativogli si riproponevano, egli in un tornodi anni non lunghissimo attraversa esperimenta tutte le forme possibili,non contentandosi di alcuna, spin-gendosi a un corpo a corpo con la let-terarietà per cercare di ridarle ener-gia e sangue: inevitabilmente la pro-pria energia, il proprio sangue.

Probabilmente la dinamica tensivae oppositiva, ossimorica del suo la-voro trovano un momento di compo-sizione, di equilibrio nei testi portan-ti delle Ceneri di Gramsci (il suo li-bro, non a caso, meno tormentato epiù risolto, senza strati ipogei rifiuta-ti o paralleli, come i “Meridiani” di-mostrano) e in quelli della parte ini-ziale (la sezione La ricchezza) dellaReligione del mio tempo. Qui Pasoliniinnesta la sua potente vena lirico-co-noscitiva nell’alveo di una poemati-cità che congloba il linguaggio dellagrande arte del passato (per esempioPiero della Francesca), il brulichio vi-tale dell’“umile Italia”, il paesaggio ela storia, tenendo insieme toni squi-siti da geniale allievo di Longhi esquarci socio-antropologici grazie auna lingua affamata, prensile, estesain tutte le direzioni e d’altra parte di-sciplinata, tenuta a regime da una in-telaiatura metrica non manieristicama efficace nella sua opera di conte-nimento. Le componenti di divarica-zione e scissione ci sono, ma comefatte rifluire in un letto di fiume mae-stoso, capace con i suoi argini di ar-restare la piena.

Più avanti, crescendo l’amarezza elo scoramento, l’autore tornerà a dis-solvere quel miracoloso e fragileequilibrio, insistendo sulla naturaoratoria, raziocinante, analitica dellasua scrittura, quasi azzerando, conrabbia, la pretesa di altezza del verso,dico in Poesia in forma di rosa(1964) e in Trasumanar e organiz-zar (1971). Eppure anche in questeraccolte si dànno momenti di con-temperanza e compresenza del ri-fiuto e dell’amore, quel “troppo gran-de amore, / nel cuore, per il mondo”di cui Pasolini parlava già nell’Usi-gnolo, che permettono ad alcuni testidi respirare, di espandersi, di aderirealla bellezza in modo tormentoso eautentico, in modo innegabilmentepersuasivo. A salvare Pasolini, anchein extremis, dalla disgregazione delsuo linguaggio è quella che egli inPoesia in forma di rosa chiama conformula felicissima (ed esatta) la sua“disperata vitalità”: ancora un ossi-moro, distruttivo e generatore.

L’amarezza e la delusione, quellestesse che portano l’autore a riscrive-re in negativo, ad annerare i traspa-renti e tremanti filami de La megliogioventù nella palinodia funesta del-la Nuova gioventù , non occludonodel tutto i canali della comunicazionee dell’invenzione poetica. Pasolini èstato, come i “Meridiani” dimostrano,un poeta per metà inedito, che hascartato, cassato, direi censurato in-tere porzioni del suo mondo per ne-cessità o dovere intellettuale: bastapensare ai materiali dei “diari” scrittinegli anni Quaranta, che formano unaltro, diverso libro da quello più de-cadente e prezioso dell’Usignolo, undiario appunto lirico-filosofico chesta tra Leopardi, Pascoli e persinoD’Annunzio: una linea purissima, in-tonata e coesa che forse proprio peruna eccessiva confidenza e trepida-zione, per una inerziale ancorché vi-tale propaggine di diarismo bio-grafico in versi non vide se non inmodo molto parziale e disperso la lu-ce. Ebbene, anche mentre con vio-lenza e decisione (ma non senza ra-dure, come detto) Pasolini porta lapoesia oltre la poesia in Trasumanar

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e organizzar e nega e contraddice ilsuo sogno linguistico e panico giova-nile con La nuova gioventù, nel suolaboratorio segreto continua a forza-re i limiti della stessa negazione, del-la stessa fine della poesia, continua apraticare la forma e la confessione, lostruggimento intimo e la disperazio-ne vitale in quel singolarissimo espe-rimento che è L’hobby del sonetto ,tutto dedicato, con dolore viscerale,a Ninetto Davoli.

Questi sonetti ‘sbagliati’ sono ilcorrispettivo della terzina approssi-mativa delle Ceneri, sono il segno di

una continuazione di quel corpo acorpo, di quella irriducibile lotta den-tro e contro i generi e i gerghi dellapoesia alta e bassa che Pasolini nondismette, nemmeno all’ultimo. Tuttonel suo laboratorio rimane possibile,tutto dicibile, anche quando verità ebellezza si allontanano e il cerchiodelle antinomie si stringe, fino quasia soffocare.

Pasolini ha tentato tutto. Se è im-possibile rifarlo, imitarlo meccanica-mente in questa o quella porzione(col rischio di ridursi a inerti epigo-ni), attraversare per intero la sua fu-

rente espressività è necessario, è sa-lutare: non c’è ordine di problema,stilistico, storico, conoscitivo, cheegli non abbia almeno lambito; la-sciando impregiudicato, grazie aquella “disperata vitalità”, a quella ir-risolvibile contraddizione, ogni suc-cessivo sviluppo. Ma insegnandociancora una volta, terribilmente, lamisura del prezzo da pagare, il corri-spettivo dolorante di un’opera capa-ce di aver vita al di là del suo autoree del suo dramma.

Daniele Piccini

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Dedica

Fontana di aga dal me paìs.

A no è aga pì fres-cia che tal me paìs.

Fontana di rustic amòur.

Dedica. Fontana d’acqua del mio paese. Non c’è acqua più fre-sca che nel mio paese. Fontana di rustico amore.

Ploja tai cunfìns

Fantassùt, al plòuf il Sèiltai spolèrs dal to paìs,tal to vis di rosa e mèilpluvisìn al nas il mèis.

Il soreli scur di funsot li branchis dai moràrsal ti brusa e sui cunfìnstu i ti ciantis, sòul, i muàrs.

Fantassùt, al rit il Sèiltai barcòns dal to paìs,tal to vis di sanc e fièlserenàt al mòur il mèis.

Pioggia sui confini. Giovinetto, piove il Cielo sui focolari deltuo paese, sul tuo viso di rosa e miele, nuvoloso nasce il mese.

Il sole scuro di fumo, sotto i rami del gelseto, ti brucia e suiconfini, tu solo, canti i morti.

Giovinetto, ride il Cielo sui balconi del tuo paese, sul tuo visodi sangue e fiele, rasserenato muore il mese.

Da La meglio gioventù

Hymnus ad nocturnum

Ho la calma di un morto:guardo il letto che attendele mie membra e lo specchioche mi riflette assorto.

Non so vincere il gelodell’angoscia, piangendo,come un tempo, nel cuoredella terra e del cielo.

Non so fingermi calme o indifferenze o altregiovanili prodezze,serti di mirto o palme.

O immoto Dio che odiofa che emani ancoravita dalla mia vitanon m’importa più il modo.

Splendore

O gioia, gioia, gioia…C’era ancora gioiain quest’assurda notte preparata per noi?

Da L’Usignolo della Chiesa Cattolica

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L’APPENNINO

I

Teatro di dossi, ebbri, calcinati,muto, è la muta luna che ti vive,tiepida sulla Lucchesia dai prati

troppo umani, cocente sulle rivedella Versilia, così intera sul vuotodel mare – attonita su stive,

carene, vele rattrappite, dopoviaggi di vecchia, popolare pescatra l’Elba, l’Argentario…

La luna, non c’è altra vita che questa.E vi si sbianca l’Italia da Pisasparsa sull’Arno in una morta festa

di luci, a Lucca, pudica nella grigialuce della cattolica, superstitesua perfezione…

Umana la luna da queste pietreraggelate trae un caloredi alte passioni… È, dietro

il loro silenzio, il morto ardoretraspirato dalla muta origine:il marmo, a Lucca o Pisa, il tufo

a Orvieto…

II

Non vi accendela luna che grigiore, dove azzurrigli etruschi dormono, non pende

che a udire voci di fanciullidai selciati di Pienza o di Tarquinia…Sui dossi risuonanti, brulli

ricava in mezzo all’AppenninoOrvieto, stretto sul colle sospesotra campi arati da orefici, minia-

ture, e il cielo. Orvieto illesotra i secoli, pesto di mura e tettisui vicoli di terra, con l’esodo

del mulo tra pesti giovinettiimpastati nel tufo.

Chiusa nei nervi, nel lucido passo,tra sgretolate muraglie e scoscesecase, la bestia sale su dal basso

con ai fianchi le tinozze d’accesa uva, sotto il busto di Bonifacioprossimo a farsi polvere, difeso

da barocca altezza nella medioevalenicchia della muraglia.

III

È assente dal suo gesto Bonifacio,dal reggere la fionda nella grossamano Davide, e Ilaria, solo Ilaria…

Dentro nel claustrale transettocome dentro un acquario, son di marmorassegnato le palpebre, il petto

dove giunge le mani in una calmalontananza. Lì c’è l’aurorae la sera italiana, la sua grama

nascita, la sua morte incolore. Sonno, i secoli vuoti: nessunoscalpello potrà scalzare la mole

tenue di queste palpebre.

Jacopo con Ilaria scolpì l’Italiaperduta nella morte, quandola sua età fu più pura e necessaria.

IV

Sotto le palpebre chiuse ridetra i pidocchi il mammoccio di Cassinocomprato ai genitori; per le rive

furenti dell’Aniene, un assassinoe una puttana lo nutrono, nellecoloniali notti in cui Ciampino

abbagliato sotto sbiadite stellevibra di aeroplani di regnanti,e per i lungoteveri che sentinelle

del sesso battono in spossantiattese intorno a terree latrine,da San Paolo, a San Giovanni, ai canti

più caldi di Roma, si sentono supine

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suonare le ore del millenovecento cinquantuno, e s’incrina

la quiete, tra i tuguri e le basiliche.

Nelle chiuse palpebre d’Ilaria trema l’infetta membrana delle nottiitaliane… molle di brezza, serena

di luci… grida di giovanotticaldi, ironici e sanguinari… odoridi stracci caldi, ora bagnati… motti

di vecchie voci meridionali… coriemiliani leggeri tra borghi e maceri…Dalla provincia viziosa ai cuori

bianchi dei globi dei bar salacidelle periferie cittadine,la carne e la miseria hanno placidi

ariosi suoni. Ma nelle velinee massicce palpebre d’Ilaria, nullache non sia sonno. Forme mattutine

che, precoce, la morte alla fanciullalegò al marmo. All’Italia non restache la sua morte marmorea, la brulla

sua gioventù interrotta…

Sotto le sue palpebre, nel suosonno, incarnata, la terra alla lunaha un vergine orgasmo nell’argenteo buio

che sulla frana dell’Appennino sfumascosceso verso coste dove imperlail Tirreno o l’Adriatico la spuma.

Dentro il rotondo recinto di pellie di metallo, isolato tra le frattein cerchio in una radura d’erba

verdissima sui dossi del Soratte,dorme un umido, annerito gregge,e il pastore con le membra contratte

nel calcare.

V

Sotto le sue palpebre chiuse Luniall’addiaccio, e le trepidecittà dove l’Appennino profuma

più umano nelle cesellate siepi,tra i caldi arativi della Toscana,o dove più selvaggio le vecchie pievi

assorbe nell’etrurio – s’allontananosull’ala dei vergini, chiarisuoni serali. Ed essa si dipana,

la catena, nei solchi secolaridelle vene del Serchio, dell’Ombronee, dietro rudi imbuti e terrei fari

d’albore, il Tevere, nel polveroneappenninico, pagano ancora…Roma, dietro radure di peoni,

ruderi alessandrini e barocchi indoraalla luna, e disfatte borgateirreligiose, dove tutto si ignora

che non sia sesso, grotte abitateda feci e fanciulli; i lungofiumidal Pincio, all’Aventino, alle scarpate

dello spoglio San Paolo dove i lumiingialliscono la calda atmosfera,risuonano dei passi che le umide

pietre macchiano, e la romana seraecheggiandone, come una membranagrattata da un vizioso dito, svela

più acuto l’odore dell’orina.

VI

Un esercito accampato nell’attesadi farsi cristiano nella cristianacittà, occupa una marcita distesa

d’erba sozza nell’accesa campagna:scendere anch’egli dentro la borgheseluce spera aspettando una umana

abitazione, esso, sardo o pugliese,dentro un porcile il fangoso descoin villaggi ciechi tra lucide chiese

novecentesche e grattacieli.

Sotto le sue palpebre chiuse questoassedio di milioni d’animedai crani ingenui, dall’occhio lesto

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all’intesa, tra le infette maranedella borgata.

VII

Si perde verso il bianco Meridione,azzurro, rosso, l’Appennino, assortosotto le chiuse palpebre, all’alone

del mare di Gaeta e di Sperlonga…

Dietro il Massico stende Sparanise candelabri di ulivi, tra festonidi piante rampicanti sulle elisie

radure, dove lucono i lampionia San Nicola… Si spalanca il golfo affricano di Napoli, nazione

nel ventre della nazione…

E non più Jacopo (più recente è il sonnodi Ilaria) sotto le palpebre fondein civile forma il popolare mondo

italiano, e contro gli sfondidel suo paesaggio, non più scarniscein luce di intelletto – che non nasconde

la buia materia – una mano che uniscea Dio il povero rione. Quaggiù tutto è preumano, e umanamente gioisce,

contro il riso del volgare fued è inutile ogni paroladi redenzione: splende nella più

ardente indifferenza dei coloriseicenteschi, quasi che al soleo all’ombra non bastasse che la sola

sfrontata presenza, di stracci, d’ori,con negli occhi l’incallito risodei bassi digiuni d’amore.

Ragazzi romanzi sotto le palpebrechiuse cantano nel cuore della speciedei poveri rimasta sempre barbara

a tempi originari, esclusa alle vicendesegrete della luce cristiana,al succedersi necessario dei secoli:

e fanno dell’Italia un loro possesso,ironici, in un dialettale riso

che non città o provincia ma ossesso

poggio, rione, tiene in sé inciso,se ognuno chiuso nel calore del sesso,sua sola misura, vive tra una gente

abbandonata al cinismo più veroe alla più vera passione; al violentonegarsi e al violento darsi; nel mistero

chiara, perché pura e corrotta…

Se ognuno sa, esperto, l’ingenuo linguaggiodell’incredulità, della insolenza,dell’ironia, nel dialetto più saggio

e vizioso, chiude nell’incoscienzale palpebre, si perde in un popoloil cui clamore non è che silenzio.

1951

Da Le ceneri di Gramsci

La ricchezza (1955-1959)

1

Fa qualche passo, alzando il mento,ma come se una mano gli calcassein basso il capo. E in quell’ingenuoe stento gesto, resta fermo, ammessotra queste pareti, in questa luce,di cui egli ha timore, quasi, indegno,ne avesse turbato la purezza…Si gira, sotto la base scalcinata,col suo minuto cranio, le sue rasemascelle di operaio. E sulle volteardenti sopra la penombra in cui stanatosi muove, lancia sospetti sguardidi animale: poi su noi, umiliatoper il suo ardire, punta un attimo i caldiocchi: poi di nuovo in alto… Il solelungo le volte così puro riardedal non visto orizzonte…Fiati di fiamma dalla vetrata a ponentetingono la parete, che quegli occhiscrutano intimoriti, in mezzo a genteche ne è padrona, e non piega i ginocchi,dentro la chiesa, non china il capo: eppureè così pio il suo ammirare, ai fiotti

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del lume diurno, le figureche un altro lume soffia nello spazio.

Quelle braccia d’indemoniati, quelle scureschiene, quel caos di verdi soldatie cavalli violetti, e quella puraluce che tutto vela di toni di pulviscolo: ed è bufera,è strage. Distingue l’umiliato sguardobriglia da sciarpa, frangia da criniera;il braccio azzurrino che sgozzandosi alza, da quello che marrone ripararipiegato, il cavallo che rincula testardodal cavallo che, supino, sparacalci nella torma dei dissanguati.

Ma di lì già l’occhio cala,sperduto, altrove… Sperduto si fermasul muro in cui, sospesi,come due mondi, scopre due corpi… l’unodi fronte all’altro, in un’asiaticapenombra… Un giovincello bruno,snodato nei massicci panni, e lei,lei, l’ingenua madre, la matrona implume,Maria. Subito la riconoscono queipoveri occhi: ma non si rischiarano, mitinella loro impotenza. E non è, a velarli,il vespro che avvampa nei sopiticolli di Arezzo… È una luce– ah, certo non meno soavedi quella, ma suprema – che si spandeda un sole racchiuso dove fu divinol’Uomo, su quell’umile ora dell’Ave.

Che si spande, più bassa,sull’ora del primo sonno, dellanotte, che acerba e senza stelle Costantinocirconda, sconfinando dalla terrail cui tepore è magico silenzio.Il vento si è calmato, e, vecchio, erraqualche suo soffio, come senzavita, tra macchie di noccioli inerti.Forse, a folate, con scorata veemenza,fiata nel padiglione apertoil beato rantolo degli insetti,tra qualche insonne voce, forse, e incertimottetti di ghitarre…Ma qui, sul latteo tendaggio sollevato,la cuspide, l’interno disadorno,non c’è che il colore ottenebratodel sonno: nella sua cuccetta dorme,come una bianca gobba di collina,l’imperatore dalla cui quieta formadi sognante atterrisce la quiete divina.

[…] Da La religione del mio tempo

Supplica a mia madre

È difficile dire con parole di figliociò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannataalla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un’infinita famed’amore, dell’amore di corpi senza anima.

Perché l’anima è in te, sei tu, ma tusei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

ho passato l’infanzia schiavo di questo sensoalto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l’unico modo per sentire la vita,l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.

Sopravviviamo: ed è la confusionedi una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

Da Poesia in forma di rosa

Versi del testamento

La solitudine: bisogna essere molto fortiper amare la solitudine; bisogna avere buone gambee una resistenza fuori del comune; non si deve rischiareraffreddore, influenza o mal di gola; non si devono temererapinatori o assassini; se tocca camminareper tutto il pomeriggio o magari per tutta la serabisogna saperlo fare senza accorgersene; da sedersi non c’è;specie d’inverno; col vento che tira sull’erba bagnata,e coi pietroni tra l’immondizia umidi e fangosi;non c’è proprio nessun conforto, su ciò non c’è dubbio,oltre a quello di avere davanti tutto un giorno e una nottesenza doveri o limiti di qualsiasi genere.Il sesso è un pretesto. Per quanti siano gli incontri– e anche d’inverno, per le strade abbandonate al vento,tra le distese d’immondizia contro i palazzi lontani,essi sono molti – non sono che momenti della solitudine;più caldo e vivo è il corpo gentile

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Pier Paolo Pasolini / La poesia che dice tutto

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che unge di seme e se ne va,più freddo e mortale è intorno il diletto deserto;è esso che riempie di gioia, come un vento miracoloso,non il sorriso innocente o la torbida prepotenzadi chi poi se ne va; egli si porta dietro una giovinezzaenormemente giovane; e in questo è disumano,perché non lascia tracce, o meglio, lascia una sola tracciache è sempre la stessa in tutte le stagioni.Un ragazzo ai suoi primi amorialtro non è che la fecondità del mondo.È il mondo che così arriva con lui; appare e scompare,come una forma che muta. Restano intatte tutte le cose,e tu potrai percorrere mezza città, non lo ritroverai più;l’atto è compiuto, la sua ripetizione è un rito. Dunquela solitudine è ancora più grande se una folla interaattende il suo turno: cresce infatti il numero

delle sparizioni – l’andarsene è fuggire – e il seguente incombe sul presentecome un dovere, un sacrificio da compiere alla voglia

di morte.Invecchiando, però, la stanchezza comincia a farsi sentire,specie nel momento in cui è appena passata l’ora di cena,e per te non è mutato niente; allora per un soffio

non urli o piangi;e ciò sarebbe enorme se non fosse appunto solo

stanchezza,e forse un po’ di fame. Enorme, perché vorrebbe direche il tuo desiderio di solitudine non potrebbe esser più

soddisfatto,e allora cosa ti aspetta, se ciò che non è considerato

solitudineè la solitudine vera, quella che non puoi accettare?Non c’è cena o pranzo o soddisfazione del mondo,che valga una camminata senza fine per le strade povere,dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani.

Da Trasumanar e organizzar

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Vedo nella notte d’Inghilterrail cui colore è un turchino profondo –per un sentiero erboso, oltre una steccatellavanno un uomo e una donna – affondano

nella notte che avvolge solo le vicinanze dellaloro casa; vanno a piedi, nel giro d’un breve mondo – Vicino alla luna il terrore mi fa scorgere la stellache vedevo da ragazzo – il futuro risponde

a chi sa ormai ogni cosa – da silenzio a silenzio – Quell’uomo e quella donna – quanta provinciae quanta campagna… Troppo terso è il cielo

sopra la casa. Voi siete un uomo – lo sentovedendo quel giovane padre, che vince(così lui crede) la notte – Non datevi pensiero –

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Navigate* in acque oscure e lontane,talvolta visibile, talvolta perso nelle profondità. E sono poche settimaneche ve ne siete andato senza speranza verso

il passato, oltre una strada di puttane.Non vi ho visto sparire. È ancora incertoche le cose siano così come io credo. Ma l’animaci precede. Essa, mentre io vi cerco,

già vi ricorda: il riso di Ninettorisuona, allegro per quanto ne può saperela memoria, e mi fa venir voglia di toccarne

il corpo di padre ragazzetto.Ma questa non è più una di quelle serein cui m’era vicina, come per l’eterno, la sua carne.

* Vi allontanate

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Come se fossi appena giunto a Roma,e trovassi una immensa città sotto la pioggia,con quartieri sconosciuti e inconoscibili,di cui si sanno leggende – o di cui parla

uno dei mille treni o tram che passano lontani,<appena percettibili>, la cui parabolasi perde su soglie quasi ultraterrene,non so immaginare in quali strade,

in quali case, con che gente possastare uno come te; da dove partae dove giunga la tua macchina nel fango;

il forestiero è separato dal tuo mondoda un inverno piovoso, troppo tiepido per lui,e si guarda intorno come se atterrito rinascesse.

Da L’hobby del sonetto

I testi sono tratti da Pier Paolo Pasolini, Tutte le poesie, a cura e conuno scritto di Walter Siti. Saggio introduttivo di Fernando Bandini, Cro-nologia a cura di Nico Naldini, 2 tomi, Mondadori, Milano 2003.

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