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Prima settimana Tirocinio Mirato MOT DM 10.12.2015 e 18.01.2016 Requirente penale PARTE PRIMA: Reati edilizi e urbanistici Materiale di studio Bozza Raccolta di Relazioni tenute presso la Scuola Superiore della Magistratura nel CORSO P. 14011 di formazione permanente in materia di diritto penale dell’edilizia, urbanistica e paesaggio di: Renato Nitti, Gianni Reynaud, Aldo Fiale, Luca Ramacci, già reperibili singolarmente sulla piattaforma della SSM . Villa Castel Pulci –Scandicci –FI- 20- 24 marzo 2017 Versione A/1

PARTE PRIMA: Reati edilizi e urbanistici · nel CORSO P. 14011 di formazione permanente in materia di diritto penale dell’edilizia, urbanistica e paesaggio di: Renato Nitti, Gianni

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Prima settimana Tirocinio Mirato MOT DM 10.12.2015 e 18.01.2016

Requirente penale

PARTE PRIMA: Reati edilizi e urbanistici Materiale di studio

Bozza Raccolta di Relazioni tenute presso la Scuola Superiore della Magistratura nel CORSO P. 14011 di formazione permanente in materia di diritto penale dell’edilizia, urbanistica e paesaggio di: Renato Nitti, Gianni Reynaud, Aldo Fiale, Luca Ramacci, già reperibili singolarmente sulla

piattaforma della SSM .

Villa Castel Pulci –Scandicci –FI- 20- 24 marzo 2017 Versione A/1 

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1 INTRODUZIONE AI REATI EDILIZI ED URBANISTICI. UNA CHIAVE DI LETTURA DELL’ART. 44 E DALL’ART. 44 DEL TESTO UNICO EDILIZIA.Di Renato Nitti

L’art. 44 del DPR 380/01 [di seguito art. 44] nel prevedere e sanzionare i reati edilizi ed

urbanistici è stato – non a torto- oggetto di riflessioni critiche per diverse ragioni ed, in particolare, per la peculiare tecnica di descrizione della fattispecie.

1.1 La condotta: ciò che la lettera dell’art. 44 non dice Il primo comma dell’art. 44, articolato in tre lettere, condensa in poche parole le previsioni di

diverse e numerose ipotesi incriminatrici. Se le dovessi rapidamente schematizzare, direi che si tratta delle seguenti: Ad elencare sommariamente le diverse ipotesi previste dovremmo citare:

1. lett.a: intervento in contrasto a. in contrasto con la pianificazione, b. in contrasto con il regolamento, c. in contrasto con le altre fonti della disciplina della edificazione, d. in parziale difformità dal permesso di costruire

2. lett.b: intervento a. in totale difformità dal permesso di costruire, b. in assenza di permesso, c. in violazione dell’ordine di sospensione

3. lett.c: a. lottizzazione abusiva; b. intervento in zona vincolata in parziale o totale difformità ovvero in assenza di

permesso di costruire. La realtà è che nelle previsioni incriminatrici di cui all’art. 44 la condotta non è neppure

esplicitata se non nella lett.c), ove è appena accennata. Tuttavia il comune denominatore delle diverse previsioni risulterà essere proprio la condotta:

l’intervento di mutamento edilizio o urbanistico del territorio comunale, attuato con opere o, almeno nella lett.c), con atti di rilevanza giuridica.

Non tutti gli interventi, soltanto quelli penalmente rilevanti. Già questa laconica precisazione [soltanto quelli penalmente rilevanti] rivela l’arresto di un

percorso esegetico non sempre chiarissimo in giurisprudenza, difficilmente affrontato in dottrina. Comunque: l’intervento di mutamento edilizio o urbanistico del territorio comunale, attuato con

opere o con atti, penalmente rilevante è l’oggetto comune delle previsioni incriminatrici di cui all’art. 44. Di qui in avanti per semplicità, lo chiamerò “l’intervento rilevante”.

Durante il corso pomeridiano del programma di tirocinio mirato analizzeremo le diverse

fattispecie.

1.2 Lo schema di analisi: ciò che la lettera dell’art. 44 dice In via preliminare, mi preme tuttavia evidenziare una peculiarità dell’art. 44. Certamente a nessuna norma incriminatrice si richiede di fissare un protocollo di analisi delle

fattispecie. Eppure l’art. 44 sembra riuscire a farlo. Quasi invoca una chiara, netta e certamente utile distinzione di quattro piani diversi

dell’accertamento:

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la lett. a) chiede che si dica se l’intervento “penalmente rilevante” –assentito o meno non interessa- sia conforme alle previsioni delle fonti generali o particolari della edificazione ovvero –nel caso in cui sia stato rilasciato un permesso di costruire- se sia conforme alle previsione del citato permesso;

la lett. b) chiede che si dica se l’intervento “penalmente rilevante” sia assentito o addirittura sia impedito da uno specifico ordine di sospensione e , assentito, sia in toto riconducibile al permesso di costruire;

la lett c) prima parte chiede che si dica se l’intervento è idoneo a determinare una alterazione del carico insediativo sul piano urbanistico

la lett. c) seconda parte chiede che si dica se l’intervento avvenga in area vincolata, poiché in tal caso diversa rilevanza assume .

Tenere -in prima battuta- distinti i quattro piani a mio avviso – ad avviso di chi per propri limiti

avverte l’esigenza di semplificare per capire- aiuta a meglio governare la materia. Una semplificazione della lettura del primo comma dell’art. 44 può, infatti, agevolare l’approccio

di chi è chiamato ad applicare dette disposizioni: in qualche modo, esso esprime una opportuna e chiara distinzione dei piani dell’accertamento.

Riepilogando, è come se il primo comma dell’art. 44 incaricasse di fare le seguenti verifiche: a) individuare lo statuto delle norme applicabili alla edificazione nello specifico luogo in cui

l’intervento è posto in essere; quindi verificare se l’intervento è conforme a quelle norme, prescindendo in questa analisi dalla circostanza che quell’intervento abbia o non abbia un titolo. Se c’è, non lo si sta disapplicando;

b) verificare se l’intervento rilevante sia assistito dal permesso di costruire o sia ostacolato da un ordine di sospensione, prescindendo in questa analisi dalla circostanza che quell’intervento sia conforme alla disciplina di settore;

c) verificare se vi siano vincoli nello specifico luogo in cui l’intervento è posto in essere; in caso affermativo la violazione della disciplina edilizia [limitatamente alla sussistenza del permesso ed all’osservanza dello stesso] sarà diversamente valutata nell’ambito dello stesso art. 44 comma primo. La violazione della disciplina del vincolo sarà invece rilevante in altro ambito;

d) verificare se l’intervento sia idoneo a determinare una alterazione del carico urbanistico dell’area: se così fosse si porre in sostanza il problema della ravvisabilità di una lottizzazione abusiva .

In concreto, invece, non sempre vengono tenuti distinti i piani indicati. La analisi della applicazione pratica delle diverse previsione rivela una impropria centralità dell’

intervento in assenza di permesso di costruire, a discapito delle altre ipotesi di cui alla stessa lett.b) ed anche di quelle di alle lett.a) e c) dello stesso comma.

Ovviamente non è sempre così.

1.3 Poiché questa netta distinzione in quattro piani è, dichiaratamente, una semplificazione, essa può

essere di utilità, come si è detto, soltanto in prima battuta. Analizzati distintamente i temi, ci si avvede poi - in seconda battuta – che le correlazioni tra i diversi piani sono diverse, talora complesse e, comunque, non accantonabili.

Si consideri l’ipotesi di avvio dell’iter della sanatoria ordinaria ex art. 36 tu edil rispetto ad un illecito ex art. 44 lett.b)

Se sarà stata condotta precedentemente la verifica di cui alla lett.a) dell’art. 44, sarà possibile più agevolmente verificare se l’abuso è sanabile, ovvero più correttamente affermare se vi è la doppia conformità, presupposto perché l’art. 36 trovi applicazione.

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In altri termini, se per un intervento rilevante è contestata sia la lett.a), p.es. per contrasto con la pianificazione, sia la lett.b), già nella imputazione potranno essere rilevati gli elementi che impediscono di ravvisare i presupposti per la sanatoria. 

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2 IL REATO DI CUI ALL’ART. 44 LETT. A) T.U. EDILIZIA: l’intervento sul territorio e le fonti normative1.

Di Gianni Reynaud -Giudice del Tribunale di Torino

2.1 Una norma penale in bianco a tutela residuale del territorio (e non solo).

In conformità ad una tradizione che risale alla l. 1150/1942, il testo unico in materia edilizia (d.p.r.

6.6.2001, n. 380, d’ora in avanti TUE) considera, quale ipotesi meno grave di contravvenzione urbanistica, l’inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dal presente titolo, in quanto applicabili, nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire (art. 44, 1° co., lett. a, TUE).

In giurisprudenza si è spesso posto in evidenza - con notazione nella quale alla concessione edilizia occorre ora sostituire il riferimento al permesso di costruire – che si tratta di una norma penale in bianco: mentre la sanzione è determinata, il precetto ha un carattere generico, stante il rinvio ad un dato esterno (concessione, regolamento edilizio, ecc.) (Cass. S.U.29.5.1992, Aramini, FI, 1993, II, 8. Il principio è richiamato da Cass. S.U., 12.11.1993, Borgia, CP, 1994, 905; più di recente, v. Cass. Sez. III, 8.4.1997, Pallagrosi, RP, 1997, 704; RGE, 1998, I, 775; Cass. Sez. III, 4.6.2013, Stroppini e a., C.E.D., Rv. 255836).

E’ parimenti ricorrente il rilievo - condiviso anche in dottrina – che riconosce quale diretto oggetto di tutela della fattispecie penale in parola l’interesse sostanziale della tutela del territorio, anche se, in limitati casi, la norma penale si presta pure alla tutela di beni di natura diversa che possono essere coinvolti nelle attività di trasformazione del suolo (v., in particolare, quanto si dirà infra con riguardo alla violazione dei regolamenti edilizi). Questa convinzione è maturata negli anni successivi all’approvazione della legge n. 47/1985 rispetto alle modifiche apportate alla legislazione urbanistica, non tanto con riferimento alla formulazione della norma incriminatrice – il cui precetto, pur essendo parzialmente mutato dal 1942 ad oggi, in particolare con la c.d. legge Bucalossi, n. 10/1977, ha sempre avuto la stessa sostanziale impostazione - quanto con riguardo alla cornice normativa nella quale essa è destinata ad operare. La conclusione è stata ben argomentata in una sentenza resa dalla Suprema Corte a sezioni unite, la cui motivazione, riferita all’art. 20 l. 47/1985, vale la pena di richiamare: l’art. 20 lett. a) cit. trova il proprio precedente normativo nell’art. 41 lett. a) l. 17 agosto 1942, n. 1150, il quale prevedeva la pena dell’ammenda <<...per l’inosservanza delle norme, prescrizioni, e modalità esecutive previste nell’art. 32 comma 1>>; e all’art. 32 comma 1 disponeva che <<il sindaco esercita la vigilanza sulle costruzioni...per assicurarne la rispondenza alle norme della presente legge e dei regolamenti, alle

1 La relazione riproduce, con i necessari aggiornamenti e le opportune integrazioni, il capitolo V del volume G.

REYNAUD, La disciplina dei reati urbanistici, UTET, Torino, 2007, pp. 802, al quale si permetterà di fare talora rinvio nel corso delle trattazione per l’approfondimento di temi connessi che non è possibile affrontare in questa sede.

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prescrizioni del piano regolatore ed alle modalità esecutive fissate nella licenza di costruzione...>>. Dal coordinamento delle due disposizioni della legge n. 1150 del 1942 - nell’ambito dell’organico quadro di tale disciplina urbanistica - appariva evidente che l’oggetto della tutela penale s’identificasse nel <<bene strumentale>> del controllo della disciplina degli usi del territorio. Tale configurazione normativa dell’interesse tutelato - la cui esatta identificazione è oppurtuna ai fini interpretativi della norma in esame - è venuta a mutare nel tempo: dall’entrata in vigore della legge 6 agosto 1967, n. 765 introduttiva tra l’altro degli standard urbanistici e della salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio, all’art. 80 d.P.R. 24 luglio ed alla successiva normativa (fra le altre: l. 8 agosto 1985, n. 431) - secondo la quale l’urbanistica non può farsi solo consistere nella disciplina dell’attività edilizia, dovendosi la relativa nozione estendere alla disciplina degli usi del territorio in senso sociale, economico e culturale, ivi compresa la valorizzazione delle risorse ambientali, nonché alle relazioni che devono instaurarsi tra gli elementi del territorio e non soltanto dell’abitato - , fino a giungere alla svolta costituita dalla legge del 1985, n. 47 (Cass. S.U., 12.11.1993, Borgia, CP, 1994, 905).

Dalle esame delle disposizioni contenute nella legge sul condono edilizio che la Corte ritiene al proposito più significative (gli artt. 6, 13 e 22), essa giunge quindi alla conclusione che se l’urbanistica disciplina l’attività pubblica di governo degli usi e delle trasformazioni del territorio, lo stesso territorio costituisce il bene oggetto della relativa tutela, bene esposto a pregiudizio da ogni condotta che produca alterazioni in danno del benessere complessivo della collettività e delle sue attività, ed il cui parametro di legalità è dato dalla disciplina degli strumenti urbanistici e dalla normativa vigente (Cass. S.U., 12.11.1993, Borgia, CP, 1994, 905).

Pur muovendo dall’interpretazione dell’ipotesi di reato di cui alla lett. a della norma incriminatrice (oggi contenute nell’art. 44, co. 1, TUE), nell’importante decisione appena citata la Corte ha ritenuto che l’oggetto delle tutela penale da essa individuato valga per tutte le fattispecie criminose in materia urbanistica, osservando che mentre nelle lettere b) e c), con una gradualità crescente delle pene edittali in rapporto al grado di lesione dell’interesse stesso, la suddetta norma sanziona le opere di trasformazione urbanistca del territorio (...) in assenza di concessione, in totale difformità o con variazioni essenziali a quest’ultima equiparate, la previsione della lettera a) comprende le trasgressioni residuali, sempreché apprezzabili penalmente, cioè non depenalizzate (Cass. S.U., 12.11.1993, Borgia, CP, 1994, 905).

2.2 La residualità della contravvenzione prevista dalla lett. a tra fattispecie criminose speciali e fatti penalmente irrilevanti.

La sintetica proposizione da ultimo riportata è densa di importanti

implicazioni, poiché, per un verso, essa pone in luce la natura “residuale” della fattispecie criminosa in esame (che la giurisprudenza anche recente non manca di sottolineare: v. Cass. Sez. III, 4.6.2013, Stroppini e a., C.E.D., Rv. 255836) e, per altro verso, ne circoscrive l’operatività con riguardo a due ben precisi punti di riferimento: a “monte”, per così dire, ci sono le altre ipotesi di reato urbanistico (compresa la lottizzazione abusiva, oggi, peraltro, disciplinata nella medesima sedes materiae); a “valle” ci sono le condotte vietate, ed illecite dal punto di vista amministrativo, che non rilevano però sul piano penale.

Quanto ai rapporti con le altre figure criminose, in via di prima approssimazione può dirsi che il concetto di residualità implica che debbono tendenzialmente ascriversi alla fattispecie in esame quelle condotte di

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aggressione del territorio che non rientrano nelle più gravi fattispecie previste dall’art. 44 TUE. La cautela con cui si afferma il postulato si spiega con l’ovvia necessità di misurarsi sempre con il principio di tassatività, ciò che impone in ogni caso di escludere dall’ambito di operatività della contravvenzione “inosservanze” diverse da quelle che il tenore letterale della norma (pur genericamente) indica. Tornando al rapporto con le altre ipotesi di reato urbanistico, talvolta esso è stato descritto in termini di genus ad species: l’ipotesi di reato di cui alla lett. b) dell’art. 20 l. 28.2.1985 n. 47 (costruzione senza concessione o in totale difformità della concessione) è speciale rispetto a quella di cui alla lett. a) dell’art. 20 stessa legge (Cass. Sez. III, 28.10.1988, Lonardo, CP, 1990, 1581).

In altre occasioni, per spiegare tale rapporto si è fatto ricorso al principio dell’assorbimento (o “consunzione”) della fattispecie meno grave in quella più grave e si è quindi sostenuto che non è configurabile il concorso formale di reati tra le contravvenzioni edilizie contestate ai sensi dell’art. 20 lett. c), della legge n. 47 del 1985 e quelle di cui all’art. 20, lett. a) (…) previsione legislativa, quest’ultima, che introduce una ipotesi di norma penale in bianco configurante sostanzialmente una categoria residuale di condotte penalmente rilevanti (vedi Cass. Sez. III, 30.1.1988, ric. Ferrari): nel caso di realizzazione di opere in assenza o in totale difformità della concessione edilizia, pertanto, il reato più grave ricomprende ed assorbe quello riferito all’inosservanza delle regole fissate (dagli strumenti normativi urbanistici, ed in particolar modo dalle norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale, dal regolamento edilizio e dalla concessione edilizia medesima) per l’attività costruttiva (Cass. Sez. III, 29.1.2001, Matarrese e a., RGE, 2001, I, 748. In termini, Cass. Sez. III, 18.3.1988, Furlan, CP, 1989, 1824).

Se questa conclusione, al di là del richiamo all’assorbimento, è certamente corretta, non può invece condividersi - e appare, anzi, arbitraria - quella secondo cui, ricostruendo in termini di specialità le interrelazioni tra le diverse fattispecie criminose previste dalla legislazione urbanistica, si ricaverebbe che qualora una costruzione venga ritenuta penalmente lecita in quanto realizzata con concessione edilizia, non possono autonomamente rivivere le violazioni di legge o di regolamenti edilizi, che siano il presupposto della concessione stessa (Cass. Sez. III, 28.10.1988, Lonardo, CP, 1990, 1581).

Non soltanto un limite del genere non è previsto dalla legge e la (formalistica) conclusione tradisce palesemente la ratio di sostanziale tutela del territorio più sopra rilevata, ma, pur esaminando il sillogismo (apparentemente) utilizzato, si comprende come esso si fondi su una premessa evidentemente errata. Non può dirsi, di fatti, che se due norme si trovano in rapporto di specialità e un caso concreto non è riconducibile all’una...ergo non può ricondursi nemmeno all’altra! Anzi, nel caso tipico del rapporto di specialità – vale a dire, non quello c.d. di specialità bilaterale, o reciproca, che ricorre quando due norme penali condividano uno o più elementi di fattispecie e si differenzino l’una dall’altra per uno o più elementi speciali che ciascuna di esse ha – l’insussistenza dell’elemento specializzante che contraddistingue la lex specialis comporta che il fatto ricada nella diposizione generale.

A nostro avviso, il particolare rapporto esistente tra l’ipotesi di cui alla lett. a dell’art. 44, 1° co., TUE e le ipotesi di cui alle successive lett. b e c è spiegabile talvolta in termini di specialità tra astratte previsioni incriminatrici – ciò che in particolare vale con riguardo alle violazioni del permesso di costruire

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– e, più spesso (sostanzialmente, negli altri casi) con il c.d. principio di “sussidiarietà”. Secondo la communis opinio questo trova applicazione quando diverse disposizioni penali tutelano lo stesso bene in differenti gradi di offesa, ciò che accade nel caso di specie, come insegna la Cassazione a sezioni unite nella sentenza Borgia (v. citazione in fine del paragrafo precedente). La sussidiarietà comporta, da un lato, che la sanzione comminata per l’aggressione di maggior rilievo esaurisce in sé anche il disvalore penale connesso alla violazione meno grave, d’altro lato che laddove l’aggressione al bene tutelato non rientra nella fattispecie più grave, perché il precetto non vieta la condotta, ed essa è riconducibile alla descrizione della norma residuale, certamente questa è applicabile. Si osservi, d’altronde, che la conclusione trova un preciso fondamento normativo nell’incipit della disposizione incriminatrice, secondo cui ciascuna delle tre figure criminose di seguito descritte trova applicazione <<salvo che il fatto costituisca più grave reato>> (art. 44, 1° co., TUE). Si tratta di una clausola di riserva che recepisce espressamente il principio di sussidiarietà e che, non trovando applicazione quando viene in rilievo un illecito avente diversa oggettività giuridica, spiega i propri effetti principalmente (se non esclusivamente) nei rapporti tra le diverse fattispecie previste nello stesso articolo. La considerazione dovrebbe secondo noi condurre – su un piano più generale, e salva la peculiarità di specifiche situazioni o di specifiche ipotesi di reato (ad es., quella di prosecuzione di lavori sospesi di cui all’art. 44, 1° co., lett. b, TUE, che pacificamente può concorrere con altre ipotesi) – a negare tendenzialmente il concorso di reati tra le diverse fattispecie penali in materia urbanistica (la giurisprudenza, soprattutto con riguardo alla possibilità del concorso tra il reato di lottizzazione abusiva e le altre fattispecie, è invece per lo più di contrario avviso: v., di recente, Cass. Sez. III, 24.2.2011, Silvestro e a., C.E.D. Rv. 249763).

Quanto al limite che la residualità della fattispecie criminosa incontra “verso il basso”, esso discende da una valutazione di ordine sistematico, che poggia sul discrimine per cui certi interventi (e le violazioni normative e urbanistiche che li disciplinano), per il maggior grado di potenziale aggressione al territorio che ne deriva, sono assoggettati al regime di tutela penale, mentre per altri interventi, che meno incidono sull’assetto urbanistico, si reputa sufficiente la sola repressione sul piano amministrativo. Ci riferiamo, com’è evidente, alla fondamentale distinzione tra opere di trasformazione urbanistico-edilizia del territorio che richiedono il permesso di costruire (o la d.i.a. ad esso equipollente) e opere assoggettate invece al regime della s.c.i.a. o ad altri iter semplificati (come la comunicazione di inizio lavori di cui all’art. 6, comma 2, TUE). Nel prevedere che le violazioni delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dal testo unico in materia edilizia sono punite dall’art. 44, 1° co., lett. a, TUE “in quanto applicabili” – inciso di per sé indubbiamente equivoco – la norma incriminatrice sottintende proprio la dimensione d’irrilevanza penale che contraddistingue la violazione di disposizioni relative ad interventi assoggettati dalla legge statale al regime

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della s.c.i.a. Come non si dubitava, un tempo, dell’irrilevanza penale delle condotte abusive commesse per mancata richiesta della (o per lavori eseguiti in difformità dalla) autorizzazione edilizia o altri titoli abilitativi speciali, come l’asseverazione per le opere interne, così è oggi pacifico che gli illeciti previsti dall’art. 37 TUE (interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla denuncia di inizio attività, oggi denominata s.c.i.a. anche in materia edilizia) rilevano esclusivamente sul piano amministrativo, ciò che, a scanso di equivoci, espressamente sancisce l’ultimo comma di tale disposizione. In mancanza di questa norma, e della specificazione che ad essa fa da contraltare nell’art. 44, 1° co., lett. a, TUE sull’applicabilità della relativa disciplina – tenendo anche conto che nella nostra materia, per espressa previsione contenuta nell’incipit della norma incriminatrice (<<ferme le sanzioni amministrative>>), si deroga al generale principio sancito dall’art. 9, 1° co., l. 689/1981 e opera il concorso tra illeciti (e sanzioni) penali e amministrativi - si sarebbe infatti dovuto concludere che le condotte di abuso edilizio punite dalla lett. b quando riferite ad interventi eseguiti in assenza o totale difformità dal permesso di costruire, sarebbero rientrate nella fattispecie residuale di cui alla lett. a se commesse in relazione ad interventi soggetti al regime della s.c.i.a.

2.3 Le quattro categorie di illeciti considerate dalla norma e il problema delle condotte sanzionate: le attività di trasformazione urbanistico-edilizia del territorio.

Trattandosi di una norma penale in bianco, è primario compito

dell’interprete quello di selezionare le ipotesi di inosservanza che integrano il precetto. Questo - osservano ancora le sezioni unite nella sentenza Borgia - fa rinvio a dati prescrittivi, tecnici e provvedimentali, di fonte extrapenale. Difatti, oltre alle parziali difformità delle opere eseguite, il precetto comprende la violazione degli strumenti urbanistici e del regolamento edilizio, l’inosservanza delle prescrizioni della concessione edilizia, l’inosservanza delle modalità esecutive dell’opera risultanti dai suddetti strumenti e dalla concessione edilizia stessa, oltre che dalla legge. Pertanto, l’accertamento attribuito al giudice penale, nella materia in esame (art. 20 lett. a, l.c.) consiste nel procedere ad esatta e concreta verifica tra opera in corso di esecuzione o realizzata (con riguardo anche alla sua funzione, oltre che alle caratteristiche fisiche, strutturali, planivolumetriche e tipologiche) e fattispecie legale, quale descrittivamente risulta dagli indicati elementi extrapenali, cioè di natura amministrativa. Sicché gli strumenti normativi urbanistici (ed in particolar modo le norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale), nonché il regolamento edilizio, la concessione edilizia, costituiscono l’organico parametro per l’accertamento della liceità o meno dell’opera edilizia (Cass. S.U., 12.11.1993, Borgia, CP, 1994, 905 s.).

Sulla base della formulazione della vigente norma incriminatrice possiamo dunque distinguere in quattro gruppi le tipologie di norme la cui inosservanza determina responsabilità penale ai sensi dell’art. 44, 1° co., lett. a, TUE, a seconda che si abbia riguardo alle disposizioni di legge, al regolamento edilizio, agli strumenti urbanistici, al titolo abilitativo edilizio.

Prima di passare alla disamina delle singole categorie, occorre ancora osservare, sul piano generale, che, in conformità alle indicazioni provenienti

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dalla più accreditata dottrina, una parte della giurisprudenza suole dare un’interpretazione restrittiva delle regole – definite “norme, prescrizioni e modalità esecutive” – la cui inosservanza integra gli estremi del reato in parola. Muovendo dalla ricostruzione delle attività incriminate in analogia a quelle (più precisamente) descritte nelle lettere b e c della disposizione penale – che si riferiscono alla “esecuzione di lavori” – e avendo a mente la tradizionale formulazione che la norma incriminatrice aveva prima delle modifiche apportate con la legge Bucalossi (quale derivante dal combinato disposto degli artt. 41, 1° co., lett. a, e 31, 1° co., l. 1150/1942), la Cassazione ha rilevato che anche il reato contenuto nella lettera a della disposizione nella sua “rinnovata” veste quale vigente dal 1977 sanziona soltanto attività materiali urbanistiche od edilizie e non quelle meramente amministrative (Cass. Sez. III, 28.10.1988, Lonardo, CP, 1990, 1581. Nello stesso senso, Cass. Sez. III, 11.4.1989, Nicoletti, CP, 1991, 298).

In altra, precedente, occasione facendo applicazione del medesimo principio (poi ribadito, per altra fattispecie, da Cass. Sez. III, 6.10.1987, Arcella, CP, 1989, 1555) , il giudice di legittimità ha ritenuto che l’inosservanza dell’ordine di demolizione di un manufatto abusivo non costituisce reato ai sensi dell’art. 17 lett. a) della l. 28.1.1977 n. 10, sulla edificabilità dei suoli, sia per la mancanza di una espressa previsione normativa, sia perché lo spirito della legge urbanistica mira a criminalizzare soltanto la illecita attività costruttiva e non anche l’inerzia dell’autore dell’illecito nel ripristinare lo stato dei luoghi; infatti a tale inerzia la legge pone riparo con sanzioni amministrative, quali la demolizione e, in mancanza, la confisca (Cass. Sez. III, 26.10.1983, Conditi, CP, 1985, 184).

In senso contrario si sono invece espresse altre sentenze. In un’occasione, ad esempio, un giudice di merito ha ricondotto all’ipotesi di reato in parola la violazione dell’art. 41-bis l. 1150/1942, che vieta ai professionisti incaricati della redazione del piano regolatore generale o del programma di fabbricazione, sino a che lo strumento urbanistico sia approvato, di assumere incarichi professionali conferiti da privati nell’ambito del territorio comunale interessato (Pret. Messina 28.1.1985, Cutrufelli, GM, 1986, III, 723). Sul versante della giurisprudenza di legittimità deve segnalarsi la pronuncia che ha confermato la condanna inflitta alla proprietaria di un immobile che non aveva provveduto ad adempiere l’obbligo di manutenzione straordinaria imposto dal regolamento edilizio per eliminare gli inconvenienti statici dell’edificio (Cass. Sez. III, 8.5.1987, Fasolo, CP, 1987, 2206). In altra fattispecie, giudicata più di recente, la Cassazione ha statuito che la costruzione di un immobile per cui sia prescritto il parere dell’autorità di bacino integra il reato di cui all’art. 44, lett. a), del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), in assenza di tale parere, anche quando sia stata rilasciata la relativa concessione edilizia (Cass. Sez. VI, 20.9.2004, Scacchi, GP, 2005, II, 600; RP, 2005, 1233).

In quest’ultimo caso, per la verità, l’inosservanza – sia pur afferente ad un adempimento finalizzato alla tutela del rischio idrogeologico (e a meno che non si voglia interpretare la massima come espressione dell’orientamento secondo cui ricade nella fattispecie in parola l’edificazione avvenuta in forza di titolo abilitativo illegittimo) – riguarda pur sempre la condotta di trasformazione del territorio.

In anni ancora più recenti l’interpretazione restrittiva è stata poi decisamente abbracciata dalla Corte di legittimità:

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non rientra tra le prescrizioni, la cui inosservanza integra il reato di cui all'art. 44, comma primo lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, la presentazione, da parte del committente o del responsabile dei lavori appaltati, del documento unico di regolarità contributiva delle imprese o dei lavoratori autonomi (cosiddetto D.U.R.C.), prima che abbiano inizio i lavori oggetto del permesso di costruire o della denuncia di inizio attività (In motivazione la Corte ha precisato che le inosservanze penalmente sanzionate devono riguardare la condotta di trasformazione urbanistica o edilizia del territorio, non potendosi estendere il campo di applicazione della norma sanzionatoria a violazioni, come quella in esame, afferenti ad adempimenti amministrativi)

(Cass. Sez. III, 27.4.2011, Ceccanti e a., C.E.D. Rv. 250390).

Sulla stessa scia si è collocata altra pronuncia, che pure sembra dilatare la “connessione” della violazione ritenuta penalmente sanzionabile con l’attività di trasformazione del territorio:

integra il reato previsto dall'art. 44, comma primo, lett. a), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, anche l'inosservanza dell'obbligo di comunicazione della data di inizio dei lavori e del nominativo dell'impresa costruttrice

(Cass. Sez. III, 7.2.2012, Aliprandi, C.E.D. Rv. 251994) In particolare, nella motivazione della decisione si afferma che pur nel ristretto ambito di operatività delineato dalla attuale formulazione del D.P.R. n. 380 del 2001,

art. 44, lett. a) la specifica prescrizione contenuta nel titolo abilitativo che obbligava a comunicare con congruo anticipo la data di inizio lavori e la ditta assuntrice degli stessi aveva certamente attinenza con l'attività edilizia. Infatti del tutto correttamente il giudice di prime cure ha richiamato l'attenzione sulla circostanza che il fine della comunicazione imposta dal titolo abilitativo è quello di agevolare la verifica, da parte dell'amministrazione comunale, dell'inizio dell'intervento nei termini e consentire una tempestiva verifica sull'attività edilizia posta in essere. Non si tratta, pertanto, di una semplice formalità amministrativa, bensì di un adempimento strettamente connesso ai contenuti ed alle finalità del permesso di costruire ed agli obblighi di vigilanza imposto dall'art. 27 e segg. del Testo Unico al dirigente e al responsabile del competente ufficio comunale, cosicché la correlazione con l'attività edilizia autorizzata risulta del tutto evidente.

(Cass. Sez. III, 7.2.2012, Aliprandi, C.E.D. Rv. 251994)

Come espressamente affermato nella decisione Ceccanti sopra richiamata, le condotte sanzionate non solo però soltanto quelle consistenti in attività edilizie (le uniche menzionate nelle più risalenti decisioni), ma – in omaggio all’oggetto di tutela penale dei reati in esame – anche quelle di mera “trasformazione urbanistica” del territorio. Alla luce di questa impostazione, muovendo dalla premessa secondo cui <<le violazioni degli strumenti urbanistici possono essere commesse anche senza attività materiali ma mediante attività giuridica in senso stretto>> (A. ALBAMONTE, L’inosservanza delle disposizioni degli strumenti normativi urbanistici e delle prescrizioni della concessione edilizia, Cass. Pen.,1987, 2207), si è allora osservato che la concessione edilizia identifica lo <<stato civile>> edilizio ed urbanistico di ciascuna unità, definendo lo statuto o il modo di essere dell’immobile sulla base della normativa degli strumenti urbanistici nonché delle prescrizioni in essa contenute che quella richiamano implicitamente od esplicitamente. Le trasformazioni urbanistiche che incidono sullo statuto dell’unità immobiliare possono consistere in modifiche della res in senso fisico e/o in modifiche giuridiche in senso stretto. Appare indubitabile, ad esempio, che le convenzioni e gli atti d’obbligo con i quali il titolare della concessione s’impegna ad osservare taluni vincoli od a porre in essere attività giuridica di un determinato contenuto, ed a seguito dei quali il comune rilascia al richiedente la concessione edilizia, sono integrativi del contenuto del provvedimento stesso, costituendo del medesimo prescrizioni inderogabili a tutela dell’interesse pubblico (A. ALBAMONTE, cit., 2207).

La citata dottrina ne fa quindi discendere la responsabilità penale di chi, una volta terminati i lavori oggetto del titolo abilitativo edilizio, anche nel caso in cui si tratti di avente causa dal titolare del permesso, ponga in essere atti negoziali in violazione delle prescrizioni in esso contenuto,

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ad esempio, nel caso di vendita di un terreno posto a servizio di un edificio con atto d’obbligo stipulato all’atto del rilascio della concessione edilizia; oppure in caso di contratto stipulato in violazione dell’obbligo assunto nei modi predetti di applicare prezzi di vendita e canoni di locazione determinati dal comune (art. 7 l. n. 10 del 1977). Il reato in esame è configurato anche in caso di contratto stipulato in violazione del vincolo imposto sugli spazi per parcheggio a servizio degli edifici, ai sensi dell’art. 18 l. 765 del 1967 (A. ALBAMONTE, cit., 2207).

Con riguardo a queste sue estreme conseguenze, la tesi – che pure si sforza di mantenere un aggancio (per la verità, formale) al concetto di “condotta di trasformazione urbanistica del territorio” - non ha trovato riscontri (ma nemmeno esplicite smentite) in giurisprudenza. Sul punto si tornerà in chiusura della relazione (§. 14), anticipando sin d’ora che, a nostro avviso, indipendentemente dall’ambito di oggettiva operatività che si voglia assegnare alla norma incriminatrice, non pare possibile estenderne l’efficacia precettiva temporale una volta che l’intervento di trasformazione del territorio cui si è (legittimamente o meno) posto mano si sia definitivamente concluso.

IN SINTESI – La fattispecie di reato contenuta nell’art. 44, 1° co., lett. a,

TUE è norma penale in bianco volta alla tutela sostanziale del territorio. Essa ha natura residuale rispetto alle ipotesi di reato contenute nelle lett. b e c, nei cui confronti opera come lex generalis o norma sussidiaria, sicché, di regola, i reati non concorrono. L’ambito di operatività della fattispecie si ritaglia tra quello delle ipotesi di reato più gravi e quello in cui le violazioni costituiscono invece soltanto illecito amministrativo. Il precetto, indubbiamente ampio, contiene quattro tipologie di illecito a seconda del parametro di legalità extrapenale che viene in rilievo e il campo di applicazione è di regola circoscritto a violazioni afferenti a condotte di trasformazione urbanistica o edilizia del territorio.

2.4 Violazione della legge urbanistica: un’illegittima depenalizzazione.

La prima categoria di “norme, prescrizioni e modalità esecutive” la cui violazione integra il reato in esame appare chiara e ben circoscritta, sicché potrebbe pensarsi, di primo acchito, che essa non sollevi soverchi problemi interpretativi. L’art. 44, 1° co., lett. a, TUE si riferisce infatti alle disposizioni di legge “previste nel presente titolo”, vale a dire il IV, della prima parte, del testo unico in materia edilizia, rubricato vigilanza sull’attività urbanistico edilizia, responsabilità e sanzioni e comprendente gli articoli da 27 a 51. Per chi abbia a mente la diversa formulazione della corrispondente fattispecie incriminatrice previgente – che puniva <<l’inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dalla presente legge, dalla legge 17 agosto 1942, n. 1150 e successive modificazioni>> (art. 20, lett. a, l. 47/1985) – l’ambito di applicazione del precetto contenuto nel testo unico appare ictu oculi ben più circoscritto. Si passa, in sostanza, da un rinvio “aperto” a tutta la legislazione urbanistico-edilizia - comprensiva, secondo parte della giurisprudenza, delle norme di fonte regionale (<<le leggi regionali

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integrano o modificano la disciplina urbanistico-edilizia e la loro violazione trova sanzione nella previsione dell’art. 20, lett. a), L. n. 47 del 1985>>: Cass. Sez. III, 7.3.1993, Gorraz, RP, 1995, 393; nello stesso senso, Cass. Sez. III, 7.3.1995, Garofalo, RGE, 1996, I, 814) - ad un rinvio “chiuso”, operato a poco più di una ventina di disposizioni, sicché è evidente come nella redazione del testo unico sia stata operata, almeno in astratto, una consistente depenalizzazione di illeciti urbanistici minori. La soluzione prescelta dal legislatore delegato – affatto spiegata nella relazione al testo unico, ove, disinvoltamente, si sottolinea invece che l’art. 44 <<riproduce l’art. 20 della legge 28 febbraio 1985 n. 47>> (Rel. ill. T.U.E., RGE, 2001, III, 353) – è viepiù incomprensibile se la si confronta con l’obbligo imposto al titolare del permesso di costruire, al committente e al costruttore di assicurare la conformità delle opere alla normativa urbanistica tutta (cfr. art. 29, 1° co., TUE). Al di là del fatto che, in concreto, tenendo conto della ridotta sfera d’applicazione che in passato la norma ha avuto, l’effetto depenalizzante non appare massiccio e che il vigente precetto realizza più compiutamente il principio di tassatività della fattispecie penale rispetto alla maggiore indeterminatezza che contraddistingueva la previgente formulazione, non si può negare che l’attuale previsione sollevi un problema di legittimità costituzionale, alla luce della natura meramente compilativa del testo unico in materia edilizia e della mancata attribuzione al legislatore delegato di sostanziali poteri d’innovazione rispetto al tessuto normativo esistente, se non nei limiti necessari per realizzare il coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti e garantire la coerenza logica e sistematica della disciplina (v. art. 7, 2° co., l. 8.3.1999, n. 50, come modificato dall’art. 1, comma 6, l. 24.11.2000, n. 340). Nel caso di specie, dunque, nulla autorizzava il legislatore delegato a ridurre l’ambito del penalmente rilevante con riguardo alla fattispecie incriminatrice in parola, che, pertanto, appare viziata da illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 76 e 77 Cost. Tenendo anche conto dei limiti che il giudizio incidentale di legittimità costituzionale incontra quando la soluzione costituzionalmente corretta imporrebbe di ampliare il campo di applicazione di una norma penale e del tempo trascorso dall’entrata in vigore del testo unico senza che il problema in parola si sia concretamente posto in giurisprudenza, il restringimento dell’area del penalmente rilevante sembra tuttavia un dato oramai definitivo (si limita a prenderne atto, ad es., Cass. Sez. III, 4.6.2013, Stroppini e a., C.E.D., Rv. 255836).

2.4.1 Le condotte illecite configurabili: prosecuzione di lavori sospesi non punita ai sensi della lett. b…

Tra le possibili violazioni delle disposizioni contenute nel titolo IV,

parte prima, del testo unico, riconducibili alla fattispecie incriminatrice residuale vi sono, a nostro avviso (e ben consapevoli di dissentire, al proposito, dalla communis opinio), quelle concernenti la prosecuzione

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dei lavori edili sospesi per ragioni diverse dall’assenza del titolo (permesso di costruire o d.i.a. equipollente) o dall’esecuzione di opere in totale difformità dallo stesso. I lavori, di fatti, possono essere sospesi con provvedimento amministrativo adottato dal dirigente o dal responsabile del competente ufficio comunale (cfr. art. 27, 3° co., TUE) per qualsiasi ragione di difformità, anche minima, dal regolamento edilizio, dallo strumento urbanistico, o da un titolo abilitativo (compresi quelli la cui mancata richiesta non dà di regola luogo all’applicazione di sanzioni penali), ovvero da norme di legge la cui violazione parimenti non origina responsabilità sul piano criminale. Secondo l’opinione prevalente, la violazione dell’ordine di sospensione dei lavori integrerebbe sempre gli estremi del reato di cui all’art. 44, 1° co., lett. b, TUE anche se la loro esecuzione – pur incompatibile con la disciplina sostanziale delle trasformazioni o dello sfruttamento del territorio – non sia penalmente sanzionata, o lo sia, ma solo ai sensi della residuale, e meno grave, fattispecie di cui alla lett. a, della citata disposizione. Secondo questa tesi, la ratio della fattispecie criminosa in esame non si rinverrebbe tanto nella necessità di assicurare protezione all’assetto del territorio, quanto nell’esigenza di proteggere l’autotutela della p.a. rispetto a condotte di mera disobbedienza all’ordine impartito (così, Cass., sez. III, 9-2-1984, Pepe, CP, 1985, 1450; Cass., sez. III, 11-3-1988, Metta, CP, 1990, 1154; ancora di recente, Cass., sez. III, 7-4-2005, Tomassetti, RP, 2006, 748; sostanzialmente nello stesso senso è la dottrina maggioritaria, secondo cui si tratta << di un reato formale che trova la sua giustificazione nel potere di autotutela dell’amministrazione>>: M. BRESCIANO – A. PADALINO MORICHINI, I reati urbanistici, Milano, 2000, 107; conformi, P. MENDOZA - E. QUARTO, Edilizia e urbanistica, in M. PADOVANI, Leggi penali complementari, Milano, 2007, 227). Così inquadrata, tuttavia, la figura di reato di prosecuzione di lavori sospesi non convince sul piano della legittimità costituzionale, per diverse ragioni.

Innanzitutto, il legislatore avrebbe equiparato nel trattamento sanzionatorio fattispecie di oggettiva, diversa, gravità: le prime due (costruzione senza titolo o in difformità dallo stesso) aventi riguardo alla diretta tutela del territorio contro aggressioni ritenute di particolare insidiosità; la terza, invece, quasi esclusivamente mirata alla protezione delle prerogative della p.a. pur se la violazione di queste non si traduca – e non si possa nemmeno astrattamente tradurre, anche nell’ottica di un’anticipazione della tutela – in un apprezzabile pregiudizio dell’assetto urbanistico. In secondo luogo, mentre con riguardo alle prime due ipotesi contenute nell’art. 44, 1° co., lett. b, TUE, attività di trasformazione del territorio compiute in spregio dei poteri di controllo della p.a. (perché eseguite sine titulo o in totale difformità dallo stesso) potrebbero andare esenti da sanzione penale se ritenute comunque conformi alla disciplina urbanistica sostanziale a seguito dell’ordinario procedimento di sanatoria (art. 36 TUE), resterebbero inesorabilmente assoggettate alla sanzione penale condotte di prosecuzione di lavori sospesi in casi in cui il permesso di costruire era stato rilasciato ovvero non era necessario

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trattandosi di interventi non assoggettati a tale regime (sicché non potrebbe ottenersi l’accertamento di conformità, con la conseguente estinzione del reato urbanistico). In terzo luogo, suscita perplessità assicurare tutela penale – peraltro con una sanzione di apprezzabile gravità - ad un ordine avente chiara natura cautelare rispetto all’esigenza di consentire alla p.a. di effettuare più approfondite valutazioni sulla reale sussistenza dell’ipotizzato illecito e sulle conseguenti misure da adottarsi, quando l’illecito stesso, nell’ipotesi in cui sia davvero accertato, comporti l’applicazione di mere sanzioni di carattere amministrativo. Da ultimo, si consideri che il pesante trattamento sanzionatorio previsto per la violazione dell’art. 44, 1° co., lett. b, TUE appare irragionevole rispetto a quello contemplato da analoghe ipotesi di reato di “disobbedienza formale” ad ordini della p.a. e, quale pertinente tertium comparationis, basti richiamare la contravvenzione di cui all’art. 650 c.p. (non si può certo dire, invero, che le ragioni di tutela del territorio, nel senso ampio ed indiretto che sorregge l’ordine di sospensione lavori, giustifichino una tutela penale strumentale più intensa delle ragioni a cui rispondono gli ordini contemplati dalla disposizione codicistica).

Sulla base di tali considerazioni, apparirebbe ben fondato il dubbio di legittimità costituzionale della previsione che incrimina la violazione dell’ordine di sospensione dei lavori qualora la si interpretasse, in conformità alla communis opinio, come applicabile, ad esempio, al caso di un ordine impartito con riguardo ad opere di manutenzione straordinaria per le quali sia ravvisabile una difformità rispetto alla s.c.i.a. Si tratta, tuttavia, di un’opzione interpretativa non obbligata e la necessità di operare una lettura delle norme in senso costituzionalmente orientato porta a ritenere maggiormente soddisfacente un’applicazione restrittiva del precetto penale di cui alla lettera b della fattispecie incriminatrice. Molti degli inconvenienti che più sopra si sono rilevati esaminando l’orientamento interpretativo tradizionale potrebbero infatti essere evitati se si limitasse la rilevanza penale della prosecuzione dei lavori in violazione dell’ordine di sospensione ai soli interventi eseguiti in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire. Il tenore letterale della disposizione, del resto, supporta questa lettura, poiché, nel vietare la <<esecuzione dei lavori in totale difformità o in assenza del permesso o di prosecuzione degli stessi nonostante l’ordine di sospensione>>(art. 44, 1° co., lett. b, TUE) la norma penale ben può essere riferita, anche nell’ultima parte, soltanto ai medesimi casi di interventi sine titulo o in totale difformità. Ferma restando, sul piano amministrativo, la possibilità per l’amministrazione di sospendere i lavori nei più ampi termini di cui si è dato conto, le uniche ipotesi riconducibili alla fattispecie di reato in questione sarebbero quelle in cui il provvedimento sospensivo tragga origine dalla constatazione delle più gravi fattispecie di abuso (compresa la lottizzazione abusiva, per la quale l’art. 30, 7° co., TUE prevede espressamente il potere-dovere del dirigente o responsabile del competente ufficio comunale di ordinare, tra l’altro, la sospensione dei lavori).

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Seguendo quest’impostazione si recupera, innanzitutto, quel collegamento “forte” con l’interesse sostanziale protetto che contraddistingue anche le altre due figure criminose contemplate dalla medesima norma: si sospendono cautelativamente le attività di trasformazione del territorio in corso, rafforzando l’ordine amministrativo con la minaccia della sanzione penale, allo scopo di arrestare con immediatezza un’attività che viene considerata quale sostanziale aggressione del bene protetto. Si instaura, in secondo luogo, un coerente nesso tra un certo tipo di condotta abusiva – l’unica che viene ritenuta meritevole della sanzione prevista dalla norma – e l’ulteriore violazione dell’ordine amministrativo adottato quale reazione a quella specifica condotta abusiva. Non più, dunque, soltanto un precetto penale “formale”, che tutela il potere amministrativo cautelare in sé a prescindere dalle ragioni per cui vi si fa ricorso, ma un precetto strumentale rispetto alla tutela di interesse “sostanziale”, il quale assicura l’effetto deterrente onde evitare la prosecuzione delle condotte di ritenuta aggressione al bene protetto. Inoltre, qualora si accertasse, ex post, che tali condotte non si sono in realtà tradotte nella violazione della disciplina urbanistica, la possibilità di ottenere il permesso in sanatoria consentirebbe di evitare l’applicazione della sanzione penale a chi – con gli interventi abusivi originari e con quelli realizzati successivamente all’ordine di sospensione violato – non ha arrecato pregiudizio al bene protetto. La maggiore pregnanza che la norma così interpretata finisce con l’assumere sul piano dell’offensività rende poi ragione del più grave trattamento sanzionatorio che la violazione dell’ordine di sospensione lavori merita rispetto alle generiche ipotesi di disobbedienza punite dall’art. 650 c.p. Quanto osservato vale – ovviamente - anche in relazione alle ipotesi di prosecuzione dei lavori che siano stati sospesi per difformità totale dalla d.i.a. presentata ex art. 22, 3° co., TUE (o ai sensi delle previsioni regionali di cui all’art. 22, 4° co., TUE). In relazione a tale ipotesi, quando l’art. 44, comma 2-bis, TUE estende le disposizioni penali di cui ai commi precedenti agli interventi edilizi eseguiti con d.i.a., o in totale difformità dalla stessa, il riferimento va infatti inteso anche all’ipotesi di reato del proseguimento dei lavori sospesi. Tutti gli altri casi di violazione dell’ordine di sospensione dei lavori – traducendosi nell’inosservanza di “prescrizioni” previste da norme contenute nel titolo IV del testo unico in materia edilizia – origineranno invece responsabilità penale ai sensi dell’art. 44, 1° co., lett. a, TUE. Optando per questa tesi interpretativa, per un verso non si lasciano i precetti sforniti di sanzione e si tiene nel debito conto il carattere plurioffensivo della norma che punisce la violazione dell’ordine di sospensione tutelando anche il pregiudizio arrecato alle potestà della p.a., ma, per altro verso, si riconduce la violazione entro una cornice edittale di pena che appare più adeguata al minore vulnus arrecato all’assetto del territorio e maggiormente in linea con le sanzioni previste in analoghi casi di disobbedienza ai comandi della p.a.

Accogliendo la tesi interpretativa qui sostenuta, si dovrà quindi concludere che rientrano nella residuale fattispecie di cui alla lett. a della

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disposizione incriminatrice i casi di “disobbedienza” ad ordini di sospensione lavori adottati, ad esempio, per riscontro di difformità parziali o variazioni essenziali rispetto al progetto approvato con permesso di costruire, per violazioni ravvisate con riferimento ad interventi assoggettati alla semplice s.c.i.a., ai sensi dell’art. 22, commi 1 e 2, TUE., per violazioni di norme del regolamento edilizio o degli strumenti urbanistici (a meno che ci si trovi di fronte ad titolo abilitativo illecito, nel qual caso sarebbe applicabile l’ipotesi della lett. b), o per qualsiasi altra ragione riconducibile all’ampio potere di vigilanza urbanistico-edilizia del territorio che si riconosce ai competenti organi degli enti locali. Tenendo conto del fatto che la contravvenzione, nella sua ampia e residuale area di applicazione di cui si è detto, può efficacemente rispondere anche alla tutela di beni diversi da quello dell’assetto del territorio strettamente inteso – e, dunque, anche all’autotutela della p.a., interesse protetto, peraltro, pure dall’art. 44, 1° co., lett. b, ult. parte, TUE – non varrebbe osservare che, sul piano teleologico, sarebbe paradossale punire con sanzione penale chi, violando l’ordine impartito, prosegua un’attività che è illecita soltanto sul piano amministrativo. Il quid pluris insito nella condotta di disobbedienza giustifica in questo caso l’adozione della sanzione penale, sia pur nell’ambito della meno grave fattispecie criminosa prevista in materia urbanistica. Del resto, la norma che esclude la rilevanza penale delle condotte illecite in materia di d.i.a. non equipollente al permesso di costruire – l’art. 37, 6° co., TUE, che, come abbiamo già osservato, vale a riempire di significato la clausola di salvezza che, per l’art. 44, 1° co., lett. a, TUE, reputa penalmente sanzionate le violazioni delle disposizioni di legge “in quanto applicabili” – si riferisce soltanto ai casi di mancanza della denuncia di inizio attività (e, a fortiori, di difformità dalla medesima) e non già ad altre violazioni della legge urbanistica originate da interventi oggi assoggettabili a semplice s.c.i.a.

2.4.2 …e mancata esibizione in cantiere del titolo abilitativo o del cartello.

Un’ipotesi di violazione della legge urbanistica che la giurisprudenza, non senza oscillazioni, aveva invece ricondotto alla fattispecie in esame e che tutt’oggi, a nostro avviso, resta reato, è quella relativa all’inottemperanza agli obblighi di apporre in cantiere il cartello edilizio e di esibire il permesso di costruire a richiesta degli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria. Se prima dell’approvazione della legge sul condono edilizio la legislazione urbanistica nulla prevedeva al proposito – sicché poteva farsi riferimento soltanto all’eventuale prescrizione in tal senso contenuta nel regolamento edilizio o nella concessione – la successiva legislazione ha dettato una specifica previsione: gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, ove nei luoghi in cui vengono realizzate le opere non sia esibito il permesso di costruire, ovvero non sia apposto il prescritto cartello, ovvero in tutti gli altri casi di presunta violazione urbanistico-edilizia, ne danno immediata comunicazioneall’autorità giudiziaria, al competente organo regionale e al dirigente del competente ufficio comunale, il quale verifica entro trenta giorni la regolarità delle opere e dispone gli atti conseguenti

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(art. 27, 4° co., TUE, che, salva la diversa indicazione degli organi regionali e comunali destinatari della comunicazione, riproduce testualmente l’art. 4, 4° co., l. 47/1985).

Esaminando la disposizione di cui all’art. 4, 4° co., l. 47/1985, la Cassazione ritenne che tale norma ha inserito nella legislazione edilizia due nuovi obblighi a carico di coloro che costruiscono: la tenuta in cantiere della concessione edilizia e la esposizione di una tabella contenente gli estremi indispensabili della concessione e dei responsabili. Quest’ultima previsione era già contenuta in taluni strumenti urbanistici e la giurisprudenza, anche recente di questa sezione, aveva escluso che la sua violazione potesse dar luogo all’applicazione delle sanzioni di cui alla lett. a) dell’art. 17 l. n. 10 del 28.1.1977, sotto il profilo della inosservanza dei regolamenti edilizi e strumenti urbanistici. Al riguardo si osservava che non ogni mancato rispetto degli stessi potesse essere sanzionato, ma soltanto quello che fosse attinente a rilevanti parametri costrutttivi. Nel solco di questa interpretazione ritiene il collegio che il legislatore abbia voluto apportare una significativa innovazione, diretta a facilitare il delicato compito di controllo sull’attività urbanistico-edilizia. E’ evidente infatti che la sistemazione del menzionato cartello consente una vigilanza rapida (senza cioè necessità di lunghe fermate in loco per individuare i responsabili, ricercarli ed ottenere l’esibizione della concezzione), precisa ed efficiente. In tal modo la polizia, qualora voglia limitarsi ad un controllo per così dire formale, eseguirà un sopralluogo delle località prescelte ed avrà la possibilità di effettuare un sollecito riscontro anche semplicemente visivo. Nell’ipotesi in cui voglia poi accertare la rispondenza tra l’opera realizzata e quella di cui al progetto approvato eseguirà le opportune indagini in cantiere, ove dovrà essere conservata la concessione. Trattasi quindi di un precetto di carattere generale e non più affidato alle regolamentazioni locali. Né può lasciar condurre a diversa soluzione l’espressione “ne danno immediata comunicazione…”, di cui al citato comma ult. dell’art. 4. Correttamente il legislatore ha usato la parola “comunicazione” e non “denunzia”, poiché essendo previsto che la notizia dovesse essere data anche ad autorità amministrative, ha preferito avvalersi di un termine di significato generico ed onnicomprensivo. Si noti poi che la “comunicazione” della mancata apposizione del cartello va inviata anche quando nel successivo espletamento delle indagini la polizia accerti che la concessione esista [Cass. Sez. III, 21.5.1990, Autero e a., CP, 1991, 293 s. Contra, Cass. Sez. III, 17.7.1987, Carraro Bruno, CP, 1989, 143, che si limita ad osservare come l’art. 4, u.c., l. 47/1985 abbia <<natura di norma procedurale, la cui inosservanza costituisce mero indizio di eventuale violazione di altra norma (di legge, di regolamento, dell’atto di concessione)>>].

La decisione, puntualmente motivata, è del tutto condivisibile e non sembra violare nemmeno quel generale limite secondo cui la norma penale non sarebbe applicabile a violazioni che non riguardino l’attività costruttiva. Questa, invero, non potrebbe certo essere intesa in senso stretto e comprenderebbe quindi tutte le prescrizioni accessorie e strumentali allo svolgimento dei lavori in conformità alla disciplina normativa, quali certamente sono l’apposizione del cartello e l’esibizione del permesso di costruire a richiesta degli organi di vigilanza. La conclusione fu però respinta da una successiva decisione della Cassazione, che ebbe a confermare la diversa opzione interpretativa già espressa nella sentenza Carraro Bruno: l’omessa esposizione del cartello con l’indicazione dei dati della concessione edilizia non ha rilevanza penale ai sensi dell’art. 20 l. 28.2.1985, n. 47, che contempla prescrizioni di carattere urbanistico. Detto cartello infatti è volto a facilitare le ricerche della p.a., rientra solo indirettamente nelle prescrizioni dettate al momento della concessione, costituisce un adempimento successivo che non attiene alla perfezione dell’atto amministrativo, e la sua omissione è un inadempimento formale costituente violazione amministrativa, ma non rientrante nella disposizione penale indicata (Cass. Sez. III, 8.1.1992, Bazzi, CP, 1993, 1524).

A fronte della perdurante oscillazione giurisprudenziale, della questione furono investite le Sezioni Unite, che disattesero quest’ultimo orientamento con una decisione la cui motivazione, da un lato, contiene aspetti di notevole importanza circa i criteri d’interpretazione da utilizzarsi per applicare l’ipotesi di cui reato di cui alla lett. a della norma incriminatrice, ma, d’altro lato, non è

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scevra da ambiguità. Quanto alle rilevanti affermazioni di principio, condotte alla luce del criterio interpretativo teleologico, la Suprema Corte osservò che le norme del capo I l. 47/85 mirano tutte alla tutela del territorio, attribuendo al sindaco un compito più incisivo rispetto a quello più ristretto di <<vigilanza sulle costruzioni>>, di cui parlava l’art. 32 l. 1150/42. Infatti, il citato art. 4 non solo individua i fini e l’ambito della vigilanza, ma determina nell’ultimo comma una specifica vigilanza da esercitarsi <<nei luoghi in cui le opere vengono realizzate>> da parte degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria. Risulta, quindi, evidente come sia stata considerata dal legislatore di grande interesse, ai fini della salvaguardia del territorio, questa attività di vigilanza, sì da prevedere nella citata norma l’obbligo per detti ufficiali ed agenti di dare immediata comunicazione all’autorità giudiziaria, al presidente della giunta regionale ed al sindaco, non soltanto degli abusi accertati, ma anche dei casi di omessa esibizione della concessione o della mancata apposizione del cartello prescritto o, comunque, di <<tutti gli altri casi di presunta violazione urbanistico-edilizia>>. Se così è, vuole dire che entrambe le ipotesi anzidette sono state considerate dal legislatore come casi di presunta violazione urbanistico-edilizia, e come tali di particolare rilevanza ai suindicati fini (Cass. S.U. 29.5.1992, Aramini e a., CP, 1992, 2989; FI, 1993, II, 8).

Dopo aver confermato i rilievi contenuti nella sentenza Autero circa l’importanza di tali norme per consentire una vigilanza rapida ed efficiente agli organi preposti – oltre che, con riguardo all’affissione del cartello, di consentire ad ogni cittadino di verificare se i lavori siano stati autorizzati – la Corte osservò che il precetto contenuto nell’art. 4, ultimo comma, cit. non può essere ritenuto di natura procedurale, perché diretto ai suddetti agenti ed ufficiali, avendo anche natura di diritto sostanziale per esser rivolto soprattutto ai costruttori per regolamentare la loro condotta durante l’esecuzione dei lavori edilizi (Cass. S.U. 29.5.1992, Aramini e a., CP, 1992, 2989 s.; FI, 1993, II, 8).

Affermata la natura sostanziale e immediatamente precettiva degli obblighi contenuti nell’art. 4, u.c., l. 47/1985, la conclusione circa la penale rilevanza delle omissioni sembrava dunque scontata, sicché appare sorprendente la successiva, e non meglio argomentata, asserzione secondo cui si ritiene che possa trovare applicazione il disposto dell’art. 20, lett. a), l. 47/85, qualora i regolamenti edilizi o le concessioni lo prescrivano espressamente (Cass. S.U. 29.5.1992, Aramini e a., CP, 1992, 2990; FI, 1993, II, 8).

Non volendo credersi che la motivazione sia affetta da una così lampante contraddizione, deve ritenersi che la proposizione da ultimo riportata – per vero non felice - fosse condizionata dalla concreta situazione sub iudice, in cui, come si osserva nella sentenza, la concessione edilizia al punto n. 9 impone <<l’esposizione della tabella>>, recante l’oggetto dei lavori, l’intestazione della ditta e le generalità del progettista e del direttore dei lavori <<e l’esibizione>>, ad ogni richiesta, della concessione e della copia dei disegni (Cass. S.U. 29.5.1992, Aramini, FI, 1993, II, 8).

Così svelata la cennata “ambiguità” contenuta nella motivazione della decisione delle Sezioni Unite – che, peraltro, espressamente dichiarò di voler condividere l’orientamento della sentenza Autero – non dovrebbe quindi attribuirsi autonomo rilievo all’apparente principio secondo cui la responsabilità penale conseguirebbe all’espressa ripetizione, nel regolamento o nel titolo edilizio, degli obblighi che invece discendono già direttamente dalla legge. Sembra dunque figlia di una non attenta lettura della sentenza delle Sezioni Unite la massima - che nel caso di specie ha condotto ad una pronuncia assolutoria, non essendo stata prodotta in giudizio copia della concessione edilizia - secondo cui

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la violazione dell’obbligo di esposizione, sul luogo di una costruzione, del cartello indicante gli estremi della concessione edilizia integra il reato di cui all’art. 20, lettera a), l. 28.2.1985, n. 47, qualora il regolamento edilizio o la concessione lo prescrivano espressamente

(Cass. Sez. III, 28.6.1994, Gotti, RP, 1995, 1493; CP, 1996, 1591). Questo principio di diritto – in modo un po’ tralaticio – è stato poi

riproposto in successive decisioni della Corte che, a differenza dell’ultima citata, hanno però in concreto confermato il giudizio di responsabilità penale perché l’obbligo di esposizione del cartello era contenuto nel titolo edilizio e/o nel regolamento, precisando altresì che destinatario dello stesso è da ritenersi non soltanto il titolare del permesso di costruire ma, ai sensi della previsione di cui all’art. 29, 1° co., TUE, anche chiunque altro rivesta le qualità ivi indicate:

<<la violazione dell'obbligo di esposizione del cartello indicante gli estremi del permesso di costruire, qualora prescritto dal regolamento edilizio o dal provvedimento sindacale, configura una ipotesi di reato anche dopo la entrata in vigore del d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, ex artt. 27, comma quarto, e 44 lett. a) del citato d.P.R. n. 380, a carico del titolare del permesso, del direttore dei lavori e dell'esecutore>>

(Cass. Sez. III, 7.4.2006, Bianco, C.E.D. Rv. 234330; nello stesso senso, Cass. Sez. III, 4.6.2013, Stroppini e a, C.E.D. Rv. 255836; v. anche Cass. Sez. III, 22.5.2012, Zago e a., C.E.D. Rv. 253673, secondo cui, attesa l’ovvia ratio della previsione, il cartello dev’essere visibile, sicché <<integra il reato previsto dall'art. 44 lett. a) d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, anche l'esposizione, in maniera non visibile, del cartello indicante il titolo abilitativo e i nominativi dei responsabili, ancorché esso risulti presente all'interno del cantiere>>).

Per le ragioni esposte, sembra a noi auspicabile una revisione del “diritto vivente” secondo cui la fonte dell’obbligo di esposizione del cartello edilizio sarebbe non già la legislazione urbanistica, bensì (se del caso) il permesso di costruire o il regolamento edilizio, pena lo svuotamento di significato della previsione di cui all’art. 27, 4° co., TUE. Per quanto detto deve parimenti ritenersi previsto dall’art. 27, 4° co., TUE – e dunque, in caso di violazione, sanzionato dall’art. 44, 1° co., lett. a, TUE - l’obbligo di esibire il permesso di costruire a richiesta di ufficiali o agenti di polizia giudiziaria. Poiché la disposizione fa esclusivo riferimento al menzionato titolo edilizio, l’omessa esibizione in cantiere, agli organi di vigilanza, della s.c.i.a. potrà essere sanzionata ai sensi dell’art. 44, 1° co., lett. a, TUE soltanto se il regolamento edilizio preveda tale obbligo. A nostro avviso, il legislatore bene avrebbe fatto a “rimodulare” il precetto della legge urbanistica tenendo conto anche del nuovo titolo edilizio, ma, non essendo ciò accaduto, non è possibile estendere la previsione in via analogica per farne derivare conseguenze penali. Ci sembra invece sin d’ora legittima un’interpretazione della norma (non analogica, ma meramente estensiva) che abbracci anche il caso in cui alle opere si sia proceduto con d.i.a. alternativa al permesso di costruire: se un intervento è subordinato al rilascio di questo titolo non potrà andare esente da pena chi, a richiesta degli organi di vigilanza, abbia omesso di esibire l’equipollente denuncia d’inizio attività ovvero (come più oltre meglio si dirà: v. §. 13) il provvedimento di autorizzazione che, in taluni casi, tiene luogo del permesso.

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2.4.3 Ipotesi depenalizzate: la violazione delle fasce di rispetto stradali fuori del perimetro dei centri abitati e l’inosservanza delle norme di legge che disciplinano l’attività edilizia in assenza di pianificazione.

Tra i casi che la giurisprudenza formatasi nel vigore dell’abrogata disciplina

aveva ricondotto alla fattispecie penale in parola, vi è quello della violazione della distanze da osservarsi nella edificazione effettuata fuori dal perimetro dei centri abitati, a protezione dei nastri stradali. Una disposizione della legge urbanistica fondamentale, introdotta dalla legge ponte e tuttora in vigore, sancisce infatti che fuori del perimetro dei centri abitati debbono osservarsi nella edificazione distanze minime a protezione del nastro stradale, misurate a partire dal ciglio della strada (art. 41-septies, comma 1, l. 1150/1942).

La disposizione, al comma 2, rimetteva l’individuazione delle distanze minime ad un successivo decreto ministeriale da emanarsi entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge ponte (v. d.m. 1.4.1968, n. 1404) e, al terzo comma, dettava anche una specifica disciplina transitoria. Come ha rilevato la Corte di cassazione in una non recente pronuncia, la situazione normativa è mutata in seguito alla entrata in vigore dell’ultimo codice della strada (D.L.vo 30.4.1992, n. 285), vigente dal 1° gennaio 1993, che ha regolato compiutamente ex novo le distanze dalle strade da osservarsi fuori dei centri abitati (artt. 16 e 17), imponendo altresì <<fasce di rispetto ed aree di visibilità>> nei centri abitati (art. 18) (…) In base a tale nuova disciplina le distanze dal confine stradale, fuori dei centri abitati, da rispettare nella costruzione o ricostruzione di muri di cinta di qualsiasi natura e consistenza, lateralmente alle strade, non possono essere inferiori a tre metri per le strade extraurbane secondarie e per le strade locali (ad eccezione di quelle vicinali) ed a cinque metri per le autostrade e le strade extraurbane principali (Cass. Sez. III, 8.4.1997, Pallagrosi, RP, 1997, 705; RGE, 1998, I, 776).

Sulla base di questa premessa, la Corte – confermando la sentenza di condanna per il reato di cui all’art. 20, lett. a, l. 47/1985 in un caso di violazione delle fasce di rispetto stradali - ha ritenuto che nell’anzidetta successione di norme il comma 1 dell’art. 41 septies della legge urbanistica sicuramente non può considerarsi abrogato dalle disposizioni dell’ultimo codice della strada e dalle relative disposizioni di attuazione, ma viene da queste specificato, considerato anche che lo stesso art. 41 septies si innestava appunto nella discplina del T.U. n. 1740 del 1933 e che tale disciplina parzialmente modificava unitamente al decreto del Ministro dei lavori pubblici n. 1404/1968 (Cass. Sez. III, 8.4.1997, Pallagrosi, RP, 1997, 705; RGE, 1998, I, 776 s; per un’ulteriore ipotesi, v. Cass. Sez. III, 18.3.1988, Furlan, CP, 1989, 1824).

Nel titolo IV della prima parte del testo unico in materia edilizia non vi è però alcuna disposizione che regoli le fasce di rispetto stradale al di fuori dei centri abitati sicché, sulla base della formulazione del vigente precetto penale, una simile situazione andrebbe oggi esente da pena.

Identica conclusione s’impone per la violazione delle disposizioni di legge destinate a regolare l’attività edilizia nei comuni privi di strumenti urbanistici, situazione, questa, verosimilmente marginale sul piano quantitativo se riferita agli strumenti pianificatori generali - P.R.G.C. o programma di fabbricazione – ma più frequente con riguardo alla mancanza dei piani d’attuazione. Il testo unico in materia edilizia – sostituendo la previgente disciplina, che era contenuta nell’art. 4 u.c., l. 10/1977 – ha regolamentato le due ipotesi, rispettivamente, al 1° e 2° co. dell’art. 9, in tal modo prevedendo le condizioni e i limiti delle attività di trasformazione del

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suolo consentite in mancanza di pianificazione. Si aggiunga che tale disciplina si considera applicabile anche nelle c.d. “zone bianche” del piano regolatore, quelle rimaste prive di qualificazione dopo la scadenza dei vincoli urbanistici. Le disposizioni dell’art. 9 TUE, in sostanza, tengono luogo delle previsioni urbanistiche in difetto di pianificazione comunale e <<salvi i più restrittivi limiti fissati dalle leggi regionali>> (così, l’incipit dell’art. 9, 1° co., TUE). Trattandosi di una disposizione non compresa nel titolo IV della prima parte del testo unico, la violazione delle prescrizioni ivi contenute – così come di quelle più restrittive eventualmente dettate dalla legislazione regionale – non sarà più suscettibile d’integrare il reato di cui all’art. 44, 1° co., lett. a, TUE (per un caso in cui era invece stato ritenuto il reato di cui all’art. 20, lett. a, l. 47/1985 a fronte della violazione dei parametri fissati dall’art. 4, u.c., l. 10/1977 in un comune privo di valido strumento urbanistico, v. Pret. Frosinone – sez. Anagni, 15.7.1993, Miaci e a., CP, 1994, 1097).

IN SINTESI – Il testo unico in materia edilizia riduce l’ambito di operatività

della norma penale residuale in relazione alla violazione della legge urbanistica, limitandolo alle sole norme in esso contenute nel titolo IV della prima parte, così operando una sostanziale depenalizzazione non prevista dalla legge-delega e quindi viziata da illegittimità costituzionale. Tra le fattispecie che tuttora integrano reato rientrano la violazione dell’ordine di sospendere i lavori adottato per ragioni diverse dalla mancanza di permesso o dalla totale difformità dal medesimo, la non affissione in cantiere del cartello edilizio e la mancata esibizione del permesso di costruire alla polizia giudiziaria. A causa della “depenalizzazione”, invece, non sono più riconducibili al reato in esame la violazione delle fasce di rispetto stradale fuori dai centri abitati e l’inosservanza delle disposizioni di legge che disciplinano l’attività edilizia in mancanza di pianificazione comunale.

2.5 Inosservanza dei regolamenti edilizi…

La seconda categoria di inosservanze che può dare origine alla contravvenzione in parola è quella che riguarda le norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dai regolamenti edilizi. Questi atti di normazione secondaria risalgono al r.d. 8.6.1865, n. 2321 (regolamento alla legge comunale e provinciale) e, nel tempo, hanno subito molte variazioni, quasi un moto pendolare, a seconda dello <<spazio>>, ampio o ridotto, che essi hanno avuto (V. ITALIA, Commento all’art. 4, in ITALIA V., a cura di, Commento al D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, modificato ed integrato con D.Lgs. 27 dicembre 2002, n. 301, 2^ ed., Milano, 2003, 50).

La disciplina del regolamento edilizio comunale è oggi contenuta nel testo unico in materia edilizia, ove, da un lato, si prevede che i Comuni, nell’ambito della propria autonomia statutaria e normativa di cui all’articolo 3 del D.lg. 18 agosto 2000 n. 267, disciplinano l’attività edilizia (art. 2, 4° co., TUE)

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e, d’altro lato, si specifica che il regolamento che i Comuni adottano ai sensi dell’articolo 2, comma 4, deve contenere la disciplina delle modalità costruttive, con particolare riguardo al rispetto delle normative tecnico-estetiche, igienico-sanitarie, di sicurezza, di vivibilità degli immobili e delle pertinenze degli stessi (art. 4, 1° co., TUE).

Nel caso in cui i Comuni intendano istituire la Commissione edilizia – che il testo unico ha, in via generale, soppresso – la citata disposizione aggiunge che <<il regolamento indica gli interventi sottoposti al preventivo parere di tale organo consultivo>> (art. 4, 2° co., TUE). Nell’ambito di una legislazione incentivante dell’uso di veicoli a ridotto impatto ambientale (d.l. 22.6.2012, n. 83, conv., con modiff., in l. 7.8.2012 n. 134, nell’art. 4 TUE sono poi state inserite disposizioni (gli attuali commi 1-ter, 1-quater e 1-quinquies) che, entro il prossimo 1.6.2014, vincolano i comune a subordinare il perfezionamento del titolo abilitativo edilizio per la nuova costruzione di edifici ad uso non residenziale aventi superficie utile superiore a 500 mq. all’installazione di infrastrutture idonee alla ricarica dei veicoli elettrici.

Come si vede, il contenuto del regolamento edilizio comunale quale dalla legge indicato ha proprio riguardo ad uno degli specifici ambiti di prescrizioni la cui inosservanza costituisce reato ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. a, TUE: le “modalità costruttive” (che nella fattispecie incriminatrice sono evocate come “modalità esecutive”). Si noterà che la tipologia degli interessi sottesi alle normative richiamate va però al di là del tradizionale settore dell’urbanistica e pure, per certi versi, di quello dell’edilizia (si pensi all’ampiezza della nozione di “sicurezza”, che si presta ad essere intesa – e di fatto lo è da dottrina e giurisprudenza – anche in relazione alla sicurezza pubblica e a quella del lavoro nei cantieri edili, ovvero alla recente “novella” adottata per ridurre le emissioni in atmosfera). In questa parte, dunque – e salvo che si voglia dare un’interpretazione restrittiva - l’oggetto di tutela della norma penale sembrerebbe più ampio di quello che di regola contraddistingue la norma in esame (v. §. 3) e la liaison con il bene giuridico delle contravvenzioni urbanistiche sta nel fatto che l’occasione di aggressione (o di tutela) di quegli ulteriori beni è rappresentata dall’esecuzione di lavori di trasformazione del suolo. Si consideri, ad es., la pronuncia secondo cui la norma incriminatrice che ci occupa sanziona penalmente l’inosservanza di norme e prescrizioni stabilite dal regolamento edilizio, senza distinguere tra norme di controllo dell’attività a fini urbanistico-edilizi ed altre norme, le cui finalità sono connesse alla tutela di diversi interessi pubblici e privati. Pertanto, in mancanza di tale distinzione limitativa, tutte le inosservanze alle prescrizioni dei regolamenti edilizi integrano l’indicata contravvenzione di cui all’art. 17, lett. a) l. n. 10 del 1977 (Nella specie, relativa a ritenuta sussistenza della contravvenzione, l’imputato aveva omesso di provvedere alla recinzione del cantiere di lavoro ed apporre la segnalzione prescritta a norma del regolamento edilizio) (Cass. Sez. III, 12.7.1988, Fontanella, CP, 1990, 145).

Le disposizioni violate nel caso citato, invero, attengono ad una materia che, sebbene non direttamente connessa all’interesse dell’assetto del territorio – bensì alla “sicurezza” dell’attività costruttiva – è certamente compresa tra quelle che l’art. 4 TUE (così come la previgente disciplina: cfr. art. 33, 1° co., n. 13, l. 1150/1942) demanda alla potestà regolamentare edilizia del Comune.

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Le questioni problematiche – di natura tipicamente amministrativa - connesse al regolamento edilizio, al suo contenuto e ai suoi rapporti con le altre fonti normative, di diverso livello, statali e regionali sono piuttosto complesse e controvertibili e in questa sede non possono essere approfondite (per riferimenti v. V. ITALIA, cit., 53 ss.). Nella particolare ottica dell’operatore del diritto penale occorre fare, tuttavia, almeno due notazioni.

Deve innanzitutto osservarsi, che l’art. 4, 1° co., TUE vincola i Comuni che si accingano ad adottare il regolamento edilizio al “rispetto delle normative” esistenti in particolari materie, tra cui quelle tecnico-estetiche, igienico-sanitarie e di sicurezza. Ebbene – al di là del giudizio sull’opportunità o meno, e sulla stessa legittimità, di una così forte compressione dell’autonomia regolamentare dell’ente locale – deve notarsi che alcune di queste discipline normative di fonte statale prevedono l’applicazione di sanzioni penali in caso di loro violazione. Laddove il regolamento edilizio le richiami e le stesse siano violate, per il rispetto della regola, immanente al sistema, del ne bis in idem sostanziale – espressa dal principio di specialità o da quello di consunzione - non si potrà fare applicazione dell’istituto del concorso di reati e la contravvenzione urbanistica cederà il passo al reato previsto dalla normativa specifica. Si pensi, in materia “tecnica” (ma viene qui in rilievo anche la pubblica incolumità), all’inosservanza delle prescrizioni dettate dai decreti interministeriali sulle opere strutturali (art. 52 TUE) e sulle edificazioni in zone sismiche (art. 83 TUE), la cui violazione è specificamente sanzionata dall’art. 95 TUE, ovvero, in materia di sicurezza intesa in senso ampio, ai reati previsti dalla legislazione sugli infortuni e igiene sul lavoro, quando tali norme (o alcune di esse) siano richiamate nel regolamento per disciplinare le modalità costruttive. Laddove, invece, siano richiamate normative che prevedono soltanto sanzioni amministrative, giusta il principio generale – consacrato nell’incipit dell’art 44, 1° co., TUE - del concorso tra reati urbanistici e illeciti amministrativi, non potrà essere invocato il principio di specialità e, in aggiunta a quelle, troverà applicazione anche la norma penale in esame.

2.5.1 …e necessità di un’interpretazione adeguatrice restrittiva.

Da altro punto di vista, è bene segnalare che dall’ambito del contenuto che il regolamento edilizio può avere rispetto a previsioni normative che sul punto vincolano la potestà regolamentare del Comune dipende l’esito del giudizio sulla legittimità delle relative previsioni. Nel caso in cui ad essere violata sia una norma regolamentare ritenuta illegittima, l’interpretazione finalistica e costituzionalmente orientata della norma penale porta di fatti a ritenere che la responsabilità non sussista. Al contrario, fatta salva la verifica circa la sussistenza dell’elemento soggettivo, come anche di recente ha riconosciuto la Corte di cassazione, sussisterà responsabilità penale laddove il

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privato, conformandosi ad una previsione di regolamento edilizio contrastante con una norma sovraordinata, abbia violato norme urbanistiche penalmente sanzionate:

in materia edilizia, è configurabile il reato di costruzione abusiva nel caso di realizzazione di un manufatto in forza di un titolo abilitativo "provvisorio" atipico previsto dalla normativa secondaria che consenta l'esecuzione di opere edilizie in contrasto con la normativa urbanistica. (Fattispecie relativa a manufatto qualificato da regolamento edilizio comunale come precario esclusivamente sulla base dei materiali utilizzati) (Cass. Sez. III, 24.3.2010, Verrengia e a., C.E.D. Rv. 247691)

Per altro verso, le norme penali in bianco che sanzionano l’inosservanza di previsioni contenute in atti di normazione secondaria, ciò che già appare (appena, appena) ai limiti dell’accettabilità costituzionale, devono ricevere un’interpretazione restrittiva e quanto più possibile ancorata al rispetto del principio di legalità. A fronte di un’opzione minimalista del contenuto del regolamento edilizio quale quella effettuata (almeno nella sua versione originaria) dal testo unico in materia edilizia – sia rispetto alla previsione precedentemente contenuta nell’art. 33 l. 1150/1942, sia rispetto all’ambito della potestà regolamentare che normalmente spetta ai Comuni ai sensi del testo unico sugli enti locali - e salvo che prevalga un’interpretazione estensiva dell’art. 4 TUE, magari ritenuta necessaria alla luce del rilievo costituzionale che l’autonomia normativa degli enti locali ha in forza del nuovo art. 117, 6° co., Cost., anche sotto questo profilo appare oggi ridotto il campo di operatività della fattispecie incriminatrice in esame.

Ci si può chiedere, ad esempio, se sia oggi ancora possibile ritenere la penale responsabilità per il reato di cui all’art. 44, 1° co., lett. a, TUE per chi, violando una prescrizione contenuta nel regolamento edilizio, non abbia provveduto ad eliminare gli inconvenienti statici di un edificio di sua proprietà (…) avendo trascurato, quale proprietaria dell’immobile,di adempiere l’obbligo di manutenzione straordinaria cui era tenuta

(Cass. Sez. III, 8.5.1987, Fasolo, CP, 1987, 2208). Di fatti, un obbligo di manutenzione straordinaria degli edifici esistenti

non attiene alle “modalità costruttive” di immobili e loro pertinenze, anche se – a ben vedere – potrebbe invece rientrare nella nozione di “sicurezza” con riferimento alla pubblica incolumità. Più problematico è il caso dello smantellamento di una struttura regolarmente costruita (come sembrerebbe ritenere, sia pur in via potenziale, Cass. Sez. III, 11.2.2002, Miceli e a., GP, 2004, II, 54). Con ciò, beninteso, non si vuol negare al Comune, nella sua autonomia normativa e statutaria – oggi garantita in modo più incisivo dalla Costituzione - di dettare norme al proposito, ma lo si dovrebbe fare con strumenti diversi dal regolamento edilizio e con la conseguenza, non di poco conto, che in caso di inosservanza delle prescrizioni non potrebbe trovare applicazione la contravvenzione in esame. La conclusione, però, è tutt’altro che scontata.

La relazione governativa al testo unico, nella parte in cui esamina l’art. 4, osserva che, rispetto alla previgente disposizione, che risaliva al 1942, la nuova norma è stata coordinata con le disposizioni che, a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione, riconoscono un’autonomia normativa al Comune (art. 5 e 128 Cost.), e in particolare con l’art. 3, del d. lg. 18 agosto 2000 n. 267, recante <<Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali>>. In virtù di tale coordinamento, il

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presente articolo stabilisce soltanto quale deve essere il contenuto necessario dei regolamenti edilizi, rinviando per il resto all’autonomia normativa comunale (Rel. ill. T.U.E., RGE, 2003, II, 348).

Guardando alla mens legislatoris, sembrerebbe che quello indicato nell’art. 4 T.U.E. sia il “contenuto minimo” del regolamento edilizio, ben potendo il Comune inserire nello stesso ulteriori previsioni e disciplinare ulteriori materie con l’unico limite connesso al rispetto dei principi cui è subordinata la sua ordinaria potestà normativa. Dal punto di vista dell’operatore di diritto penale occorre invece considerare che, a fronte della generale depenalizzazione delle violazioni dei regolamenti locali (cfr. art. 1, lett. d, l. 3.5.1967, n. 317), il mantenimento della sanzione penale con riguardo ai regolamenti edilizi appare essere situazione eccezionale. Tenendo anche conto della necessità di interpretare le norme alla luce del principio costituzionale della riserva di legge che vige in materia penale, con particolare riguardo ad una tecnica di incriminazione che da sempre pone problemi di rispetto di quel principio, sembra a noi preferibile riferire il precetto di cui all’art. 44, 1° co., lett. a, TUE all’inossservanza di quelle sole previsioni regolamentari che trovino fondamento in una previsione di legge ad hoc sul “regolamento edilizio”, vale a dire, in sostanza, nell’art. 4 TUE (ed invero, le norme del codice civile che si riferiscono al regolamento edilizio – l’art. 871, l’art. 873 e alcune delle successive disposizioni dettate in tema di distanze tra le costruzioni - disciplinano materie già comprese nell’art. 4 TUE). E’ ben vero che l’interpretazione qui sostenuta ricollega al riordino delle disposizioni nel testo unico in materia edilizia un effetto sostanzialmente depenalizzante senza che – come più volte osservato – esistesse al proposito una specifica delega, ma, tenendo conto dei valori costituzionali che vengono in gioco, questa lettura restrittiva ci pare senz’altro preferibile rispetto a quella, pan-incriminatrice, che potrebbe darsi in alternativa. Quando ci si trovi di fronte all’inosservanza di una norma contenuta in quel particolare atto normativo locale denominato “regolamento edilizio”, dunque, si dovrà ricondurre la condotta all’ipotesi criminosa in esame soltanto dopo aver verificato che si tratti di una “norma tipica” di quel regolamento secondo una previsione del legislatore nazionale. Se, poi, si vuole aderire quella lettura ancor più restrittiva che sembra connotare la più recente giurisprudenza di legittimità in materia (v. supra, sub §. 3), si dovrà affermare che sono in ogni caso suscettibili di sanzione soltanto le inosservanze a prescrizioni che siano in qualche modo connesse alla tutela del territorio rispetto ad attività di trasformazione urbanistico-edilizie. Ad esempio, integra certamente il reato in esame l’edificazione in <<violazione delle distanze dai confini>> (Cass. Sez. III, 28.1.2003, Pedrazzini e a., GP, 2004, II, 172; RP, 2005, 101).

2.6 Violazione degli strumenti urbanistici.

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L’integrazione del precetto penale con riguardo all’inosservanza delle prescrizioni contenute negli strumenti urbanistici postula, in primo luogo, l’individuazione degli atti cui la norma fa rinvio. Trattandosi di un rinvio generico – e, dunque, ampio – e tenendo conto che in questo senso depone anche l’interpretazione teleologica della norma penale si dovrà avere riguardo a tutti i provvedimenti con cui si attua la pianificazione urbanistica, indipendentemente dal livello (comunale o sovraordinato) e dal contenuto (generale o di attuazione). A livello di programmazione comunale, vengono innanzitutto in rilievo il piano regolatore generale comunale (art. 7, l. 1150/1942), o, in mancanza, il programma di fabbricazione contenuto nel regolamento edilizio (art. 34 l. 1150/1942), nonché gli strumenti di attuazione variamente denominati e disciplinati da una normativa succedutasi per stratificazione e non interessata dal riordino operato dal testo unico in materia edilizia (cfr. artt. 136 e 137 TUE): il programma pluriennale di attuazione (art. 13, l. 10/1977), il piano particolareggiato (art. 13, l. 1150/1942), il piano di zona (art. 1, l. 167/1962), il piano di recupero (artt. 27 ss., l. 5.8.1978, n. 457), il programma integrato di recupero (art. 16, l. 179/1992), il programma di recupero urbano (art. 11, l. 493/1993). Nel concetto di strumento urbanistico rientra anche la pianificazione comunale ad oggetto speciale, come il piano per gli insediamenti produttivi (art. 27, l. 22.10.1971, n. 865) e il programma urbano dei parcheggi (art. 3 l. 24.3.1989, n. 122). Quanto alla pianificazione sovracomunale – che, di regola, vincola i comuni nelle loro scelte urbanistiche, ma che può anche dettare norme immediatamente operative che si impongono rispetto a quelle, eventualmente diverse, della pianificazione sottoordinata – possono ricordarsi il piano territoriale di coordinamento regionale (art. 5 l. 1150/1942) e provinciale (artt. 14 s. l. 142/1990), il piano paesaggistico (art. 143 d.lg. 42/2004), il piano pluriennale di opere delle comunità montane (art. 28 l. 142/1990), il piano territoriale dell’area metropolitana (art. 19, l. 142/1990), il piano regolatore intercomunale (art. 12 l. 1150/1942), il piano di assetto idrogeologico regionale o, se del caso, di bacino interregionale (l. 183/1989 e d.l. 180/1998 conv. in l. 267/1998)

Del resto, nel caso di Comuni che non siano dotati di strumento urbanistico generale – p.r.g.c. o programma di fabbricazione – le uniche norme urbanistiche concretamente operanti potrebbero essere quelle, immediatamente operative, degli strumenti sovraordinati. E soltanto le inosservanze a questi strumenti urbanistici potrebbero essere sanzionate penalmente, posto che, come si è detto (§. 4.3), la violazione delle disposizioni di legge che disciplinano l’attività edilizia nei Comuni privi di strumenti (art. 9 TUE) non rientra nel campo di applicazione dell’art. 44, 1° co., lett. a, TUE.

Talvolta in giurisprudenza i titoli abilitativi edilizi – autorizzazione o concessione – sono definiti strumenti urbanistici “particolari” o “speciali” (Cass. Sez. III, 21.12.1993, Rovai, CP, 1995, 1036; Cass. Sez. III, 24.5.1994, Bartolucci, CP, 1995, 1966 s.). Al di là della discutibilità di tale espressione è però chiaro – alla stessa giurisprudenza – che quando la legge menziona questa categoria di atti, dalla disciplina normativa generale

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(così come dal contesto della norma di cui all’art. 20 l. 28.2.1985, n. 47, in cui gli strumenti urbanistici sono addirittura espressamente distinti dalla concessione) si ricava logicamente che gli strumenti urbanistici (…) sono quelli generali (piani generali, piani particolareggiati o attuativi ecc.) ma non quelli speciali, come una concessione edilizia (Cass. Sez. III, 7.7.1995, Imerito, RP, 1996, 896).

Si consideri, inoltre, che il reato in esame potrà ritenersi configurato soltanto nel caso in cui lo strumento urbanistico della cui inosservanza si discute sia valido ed efficace. Al proposito, un giudice di merito ha ritenuto che non potesse considerarsi tale quello del Comune di Trevi nel Lazio, in quanto solo adottato dall’ente locale, ma, come già detto, mai approvato dalla Regione – quantomeno ai fini urbanistici – ed apparendo ininfluenti i motivi di tale mancata approvazione (Pret. Frosinone – sez. Anagni, 15.7.1993, Miaci e a., CP, 1994, 1101).

Occorre considerare, tuttavia, che a seguito dell’adozione dei piani urbanistici, overo dal momento in cui l’organo amministrativo competente delibera formalmente il piano e lo pubblicizza, onde consentire la presentazione delle osservazioni da parte dei soggetti interessati, entrano in vigore le misure di salvaguardia, con lo scopo di impedire che antecedentemente all’approvazione del piano vengano eseguiti interventi che compromettano gli assetti territoriali previsti dal piano stesso, così che integrano la violazione dell’art. 20 della l. 28.2.1985, n. 47 (ora art. 44 del D.P.R.. 6.6.2001 n. 380, testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) gli interventi posti in essere dopo l’adozione ed antecedentemente all’approvazione del piano ed eseguiti in contrasto con le misure di salvaguardia (Cass. Sez. III, 10.6.2003, Soluri e a., GP, 2004, II, 441, con riferimento alla violazione del P.A.I.)

Al di là dell’efficacia, si diceva, lo strumento urbanistico dev’essere anche valido, cioè, ragionando con categorie amministrativistiche, legittimo. Esso, invero, ha di regola natura di provvedimento amministrativo discrezionale (cfr., per tutti, G. PAGLIARI, Corso di diritto urbanistico, 3^ ed., Milano, 2002, 33 s.), salve le particolari ipotesi dei <<piani la cui iniziativa può essere assunta da soggetti privati, e che assumono la natura di un atto negoziale (convenzione) fa i privati e l’autorità pubblica>> (A. FIALE, Diritto urbanistico, 9^ ed., Napoli, 2000, 47). In ogni caso, tenendo conto dell’interpretazione finalistica e al pari di quanto si osservato con riguardo ai regolamenti edilizi (v. §. 5.1) si dovrà escludere la rilevanza penale di violazioni di prescrizioni contenute in strumenti urbanistici che, anche in sede penale, siano ritenuti illegittimi (o comunque invalidi), senza, tuttavia, che il giudice possa sindacare le scelte di merito effettuate dalla p.a.: da questo punto di vista, e tenendo conto del carattere discrezionale dell’attività pianificatoria, il ruolo del giudice penale dovrà essere limitato ad una rigorosa valutazione dei soli profili di legittimità formale degli atti de quibus.

IN SINTESI - La sanzionabilità penale delle violazioni del regolamento edilizio comunale costituisce eccezione rispetto alla depenalizzazione, da tempo avvenuta, delle inosservanze ai regolamenti locali. Occorre, pertanto, distinguere bene le norme che si riferiscono all’esercizio della potestà normativa comunale nella materia de qua – quale circoscritta dall’art. 4 TUE, in termini più ridotti che nel passato - da quelle che traggono origine dall’ordinaria autonomia regolamentare dell’ente locale. Alcune norme tutelano interessi che vanno al di là dell’urbanistica e che vengono in rilievo soltanto perché connessi all’attività di trasformazione del suolo. Quanto all’inosservanza delle previsioni contenute negli strumenti urbanistici, viene in rilievo tutta la pianificazione, generale e di attuazione, fatta a livello comunale o sovraordinato. Il reato sussisterà soltanto se gli strumenti – come pure i regolamenti edilizi – siano validi ed efficaci.

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2.6.1 Coltivazione di cave in aree non consentite. Tra i casi che la giurisprudenza ha ricondotto alla violazione degli

strumenti urbanistici vi è la coltivazione di cava in zone del territorio comunale ove tale attività non sia consentita. Deve rammentarsi che l’orientamento consolidato della Cassazione, a seguito di una decisione delle sezione unite che non ha tuttavia dissolto i dubbi (Cass. S.U., 18.6.1993, Antonelli, CP, 1994, 274; per approfondimenti sia consentito rinviare a G. REYNAUD, cit., 130 ss.), è nel senso che l’attività estrattiva (miniere, cave e torbiere), pur incidente in modo rilevante sull’assetto territoriale (soprattutto negli ultimi due casi), non è soggetta al rilascio del permesso di costruire, ma soltanto alle autorizzazioni minerarie, oggi attribuite, quanto alle cave e torbiere, alla competenza regionale. Se, dunque, non è in alcun modo ipotizzabile il reato di cui cui all’art. 44, 1° co., lett. b, TUE (per una recente riaffermazione del principio v. Cass. Sez. III, 26.2.2013, D’alessandro e a., C.E.D. Rv. 255960), vi è però spazio per l’applicazione dell’ipotesi residuale della lett. a, perché la pianificazione urbanistica può considerare l’assetto territoriale nel suo complesso, compresi gli insediamenti produttivi. La giurisprudenza ha infatti ritenuto che lo svolgimento dell’attività estrattiva debba comunque conformarsi alle scelte di pianificazione compiute dalle competenti autorità, sicché è apparso naturale valutare la liceità di tali condotte alla luce delle previsioni contenute negli strumenti urbanistici. In una decisione di legittimità, di fatti, si legge che detto orientamento giurisprudenziale non contrasta con le decisioni delle Sezioni unite, in base alle quali si è sostenuta la tesi della non sottoposizione a concessione edilizia dell’attività di coltivazione di cava, giacché detta conclusione non esclude la sussistenza del reato di cui all’art. 20 lett. a) l. n. 47 del 1985, basata sulle violazioni delle prescrizioni e quindi dei vincoli di piano, in quanto la norma punisce ogni inosservanza di norme previste da uno strumento urbanistico quale è il piano regolatore generale anche qualora non riguardi opere edilizie (Cass. Sez. III, 13.7.1995, Rognini, CP, 1997, 186).

Questa strada era apparsa percorribile già nei primi anni ’80, quando, a seguito dell’approvazione della legge Bucalossi, si pose il problema della liceità urbanistica dell’attività estrattiva. Nella prime pronunce, tuttavia, il problema non fu messo bene a fuoco. Una lontana decisione, ad es., ritenne applicabile il reato di cui all’art. 17, lett. a, l. 10/1977 sul rilievo che la legge regionale - si trattava della l.r. Toscana 30.4.1980, n. 36 - <<ha regolato l’ambiente territoriale ed in contesto ha imposto per gli operatori siffatti nella coltivazione di cave, l’autorizzazione del sindaco competente. Una simile normativa>> - statuì lapidariamente, ma discutibilmente, la Corte - <<non può che equivalere a strumento urbanistico>> (Cass. Sez. III, 3.6.1985, Barsotti, CP, 1987, 635). In realtà, un conto è la legge regionale, e un conto sono le previsioni degli strumenti urbanistici, anche se, come si vedrà, per la fattispecie in esame le due prospettive sono inscindibilmente connesse. In una successiva pronuncia, emessa sempre in relazione alla subordinazione a concessione edilizia dell’attività di cava da parte di una legge regionale – la l.r. Calabria 23/1990 – la Cassazione fece allora riferimento all’inosservanza di leggi e sostenne che la violazione <<configura un’inosservanza della

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normativa urbanistica sanzionabile ex art. 20 lett. a>> (Cass. Sez. III, 7.3.1995, RGE, 1996, I, 837). La successiva giurisprudenza, si mosse invece nel senso – che appare più corretto - di verificare la compatibilità degli insediamenti estrattivi con le previsioni di piano. Emersero, tuttavia, diverse tendenze.

Pronunciandosi sempre con riferimento alla citata l.r. Toscana n. 36/1980 e confermando, nella sostanza, l’orientamento affermato nella sentenze Barsotti, in altre decisioni la Corte rilevò che lo specifico quadro normativo è ispirato al principio secondo cui la coltivazione di cave nel territorio regionale è ammessa soltanto nelle zone appositamente previste negli strumenti urbanistici, con la conseguenza della inammissibilità in aree diverse. In tale regione l’autorizzazione alla coltivazione di cave è affidata al sindaco con logica coerenza, in quanto lo strumento urbanistico particolare (autorizzazione) deve verificare preventivamente la corrispondenza con le specifiche prescrizioni e destinazioni degli strumenti urbanistici generali (piano regolatore, piano di fabbricazione) (Cass. Sez. III, 21.12.1993, Rovai, CP, 1995, 1036. Esattamente in termini, Cass. Sez. III, 24.5.1994, Bartolucci, CP, 1995, 1966 s.).

A parte la discutibile qualificazione dell’autorizzazione sindacale come “strumento urbanistico particolare” – di cui si è detto al paragrafo precedente - la ratio decidendi sembra riposare sul rilievo per cui, quanto meno in Toscana, la coltivazione delle cave appare consentita soltanto nelle zone che abbiano una tale destinazione nello strumento urbanistico: l’insediamento altrove è punito ai sensi della lett. a della norma incriminatrice (il principio sembra ribadito, senza specifico riferimento alla regione Toscana, da Cass. Sez. IIII, 2.7.1995, Salesi, GP, 1996, II, 432).

Secondo una posizione meno rigorosa, il reato sussisterebbe invece solo quando l’attività sia svolta in una zona del territorio comunale che abbia una destinazione con essa incompatibile: è ipotizzabile il reato previsto dall’art. 20, lett. a) l. 28.2.1985, n. 47 qualora la coltivazione di una cava sia stata svolta in zona ove la predetta attività non sia consentita dalle norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale. Difatti, il reato di cui all’art. 20 lett. a) cit. rimane integrato (…) anche dalle violazioni delle norme degli strumenti urbanistici, comprese quelle che prevedono la destinazione urbanistica delle varie zone di piano regolatore. (Nella specie, la coltivazione della cava veniva esercitata in zona con destinazione agricola) (Cass. Sez. III, 11.10.1991, Di Rauso, CP, 1993, 161. Per analoga fattispecie, v.: Cass. Sez. III, 1.6.1994, Cinotti, RP, 1996, 72; Cass. Sez. III, 4.7.1995, Trotta e a., RP, 1996, 509).

Una terza posizione – all’apparenza più liberale –ritiene invece integrato il reato in parola solo quando il piano regolatore comunale vieti espressamente (e non già con una generica destinazione) l’apertura di cave in una determinata zona (Cass. Sez. III, 4.5.1994, Moscato e a., GP, 1995, II, 286; RP, 1995, 813).

Probabilmente, il contrasto di giurisprudenza che emerge dalla lettura delle massime di legittimità riportate non è così netto come appare. Se, infatti, si leggono le decisioni pubblicate per esteso, dalla motivazione si comprende che il giudizio varia in relazione al quadro normativo regionale di riferimento. Una chiara pronuncia, dopo aver correttamente enunciato i termini generali del problema circa la sicura applicabilità, in astratto, della contravvenzione in parola – ciò che costituisce ius receptum – effettua la valutazione di liceità alla luce della disciplina regionale applicabile. Quanto all’inquadramento generale della questione, la Corte osserva:

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in via di principio l’esercizio dell’attività di cava non può prescindere dall’assetto del territorio come definito dagli strumenti urbanistici generali (Piano Regolatore Comunale) e particolari (Piani Attuativi del P.R.C.), in quanto l’urbanistica non può ridursi alla semplice edilizia, comprendendo l’equilibrata disciplina di bisogni collettivi complementari a quello fondamentale abitativo (es. le aree destinate ad attività agricole, le aree destinate alla conservazione di beni naturali, le aree destinate alla conservazione di valori culturali, le aree per i servizi, le aree destinate all’attività produttiva, compreso l’esercizio di impresa consistente nell’esercizio di escavazioni per il recupero di risorse). A prescindere dal distinto problema della necessità o meno della concessione comunale, quando l’esercizio di una cava contrasti con le previsioni degli strumenti urbanistici deve trovare applicazione l’articolo 20 lettera a della legge 47/85, che sanziona comportamenti anche diversi da quelli tipici consistenti in lottizzazione, costruzioni senza concessione o in difformità. Una cosa, infatti, è il controllo comunale dell’attività edilizia, altra cosa è la disciplina complessiva del territorio affidato anche alla competenza sopracomunale della Regione, nella quale certamente rientra anche l’esercizio dell’attività di impresa consistente nella cava (Cass. Sez. III, 10.4.1995, Falcione e a., GP, 1996, II, 495).

Passando ad esaminare il quadro normativo di riferimento locale, la Cassazione precisa che, nel caso di specie, nella Regione Lazio deve trovare applicazione la nuova legge in materia di cava n. 27 del 1993 la quale ne vieta espressamente l’esercizio <<sino a che non sia stato approvato lo strumento urbanistico comunale che recepisce il piano regionale delle attività estrattive>>, stabilendosi un legame indissolubile con l’assetto del territorio quale sancito negli strumenti urbanistici comunali (…) Poiché nel caso di specie il P.R.C. del Comune di Roma non prevede espressamente per l’area in oggetto la possibilità di esercizio dell’attività di cava (e tale previsione è necessaria positivamente in base alla citata legge regionale n. 13/93) gli imputati si trovano in una situazione di illegittimità, aggravata dalla mancanza di una autorizzazione. L’esercizio delle attività di cava nella Regione Lazio non può svolgersi nel periodo transitorio ex art. 39 L. 13/93 se non siano <<legittimamente in atto>> e tale condizione non sussisteva oggettivamente per le aree di P.R.G. aventi diversa destinazione, a prescindere dalla adozione di piani attuativi da parte del comune (Cass. Sez. III, 10.4.1995, Falcione e a., GP, 1996, II, 495).

Per valutare se l’attività di coltivazione di cava contrasti o meno con lo strumento urbanistico, occorre dunque, per un verso, esaminarne il contenuto e, per altro verso, considerare la legislazione regionale di riferimento. Questa, peraltro, prevede sovente la redazione di un “piano cave” su base regionale, che vincola la pianificazione urbanistica locale (cfr., pure per riferimenti, N. CENTOFANTI, La legislazione urbanistica, 2^ ed., Padova, 2000, 80 ss.), sicché anche per tale ragione è imprescindibile una valutazione congiunta della disciplina regionale (normativa o pianificatoria) e degli strumenti urbanistici comunali. La giurisprudenza penale se ne mostra consapevole. Si consideri, con riguardo alla Regione Toscana nella vigenza della l.r. 3.11.1998, n. 78, la seguente decisione di merito, che conferma il provvedimento di reiezione di misura cautelare emesso dal g.i.p. sul presupposto della non configurabilità del reato: nel caso di specie si tratta della prosecuzione della coltivazione di una cava già in precedenza autorizzata e in una zona dove vi sono altre cave che svolgono attività estrattiva per cui fino a prova contraria deve fondatamente ritenersi che la zona di Miseglia di Carrara non sia stata presa in considerazione del Piano regolatore generale del Comune di Carrara cui il P.M. fa un generico riferimento (…) La L.R. Toscana 3.11.1998, n. 78, invocata dal P.M., disciplina l’attività estrattiva nelle cave, torbiere e miniere nonché il recupero di aree escavate e il riutilizzo di residui recuperabile e all’art. 10 stabilisce che il comune nella fase di adeguamento del proprio strumento urbanistico generale al Paerp, nei termini dallo stesso stabiliti, individua i casi in cui il rilascio dell’autorizzazione per l’attività estrattiva nei nuovi bacini estrattivi è subordinato all’approvazione di un piano urbanistico attuativo di iniziativa pubblica o privata, precisando gli elaborati necessari. Nel caso di specie non si tratta di un bacino estrattivo nuovo e anche a volerlo considerare tale non risulta che il Comune di Carrara abbia subordinato l’autorizzazione per l’attività estrattiva al suddetto piano urbanistico (Trib. Massa Carrara 8.4.1999, Dell’Amico e a., RP, 1999, 687).

La decisione, in questa parte, è condivisibile. Se il giudice avesse però avuto a disposizione il piano regolatore comunale avrebbe dovuto verificare

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quale destinazione era stata data alla zona in questione, poiché, se questa fosse stata incompatibile con l’attività estrattiva, a nostro avviso si sarebbe dovuto ritenere la sussistenza del reato di cui all’art. 20 lett. a, l. 47/1985. Non è condivisibile, invero, l’ulteriore passaggio della motivazione in cui si afferma che per l’integrazione della suddetta contravvenzione è necessario che la legislazione regionale abbia inquadrato l’attività di cava anche nella disciplina urbanistica e nella pianificazione complessiva dell’assetto urbanistico territoriale, conferendo al comune interessato il potere di emanare appositi atti (Trib. Massa Carrara 8.4.1999, Dell’Amico e a., RP, 1999, 687).

Questo potere, invero, deriva dalla legislazione nazionale, sicché, in assenza di disciplina regionale contraria (o più specifica), vale il principio per cui l’attività di apertura e coltivazione di cava deve svolgersi nel rispetto della pianificazione territoriale comunale, configurandosi, in difetto, ovvero in caso di svolgimento della stessa in zona non consentita, la violazione dell’art. 20 lett. a) l. 28.2.1985, n. 47 (Cass. Sez. III, 21.3.2002, Guida, CP, 2003, 3157; RP, 2003, 359).

E’ ben vero, peraltro,che quando la legislazione regionale disciplina l’attività di cava inquadrandola anche nella disciplina urbanistica e nella pianificazione complessiva dell’assetto urbanistico territoriale conferendo al comune interessato il potere di emanare appositi atti (es. attestato di conformità agli strumenti urbanistici, approvazione studio di fattibilità, approvazione piani di recupero), la mancanza di tali atti è sufficiente ad integrare la più lieve contravvenzione di cui all’art. 20 lett. a) l. 28.2.1985, n. 47, in quanto la norma regionale ed i correlati strumenti urbanistici comunali integrano il precetto della predetta norma penale in bianco, avente funzione complessiva urbanistica e non solo edilizia in senso stretto (Cass. Sez. III, 16.11.1994, Agati, CP, 1996, 2354).

L’orientamento in questione è stato altresì confermato, più di recente, dalla Corte di legittimità pronunciatasi a sezioni unite per comporre un contrasto di giurisprudenza insorto circa la portata delle disposizioni transitorie dettate dall’art. 36 l.r. Campania 13.12.1985, n. 54 in relazione ai profili urbanistici ed ambientali delle cave in esercizio. Al di là della specifica questione interpretativa esaminata, la Corte, ponendosi nel solco della giurisprudenza delle sezioni semplici più sopra richiamata, ribadisce alcuni importanti principi. In primo luogo, la Cassazione osserva che la giurisprudenza amministrativa riconosce ormai agli strumenti urbanistici (piano regolatore generale e piano di fabbricazione) il potere di definire <<zone a cave>>, dettando disposizioni in merito all’attività di coltivazione delle cave. Se è vero infatti che questa non è attività propriamente urbanistica (riservata alla compentenza del sindaco), in quanto lo sfruttamento del sottosuolo per fini estrattivi è di competenza delle regioni (ex artt. 50 e 62 d.P.R. n. 616/77), è anche vero però che la coltivazione delle cave può interessare gli strumenti urbanistici sotto il profilo della tutela del paesaggio (Cass. S.U. 31.12.2001, De Marinis, CP, 2002, 1326).

In secondo luogo, dopo aver escluso, nel caso sub iudice, la sussistenza dei presupposti per ritenere l’attività di cava legittima ai sensi della disciplina regionale transitoria, la Corte ha fatto applicazione della ordinaria legislazione statale confermando la condanna inflitta con la sentenza impugnata sul rilievo che correttamente i giudici di merito hanno ritenuto il contrasto con la destinazione urbanistica della zona (quanto meno con la sua destinazione boschiva). Si è già osservato più sopra che – contrariamente alla tesi accennata nel ricorso – lo strumento urbanistico può anche prevedere una zona specificamente destinata a cave. Come già rilevato, risulta quindi integrato il reato di cui all’art. 20 let. a) l. n. 47/85 (ora art. 44 comma 1 lett. a) del testo unico approvato con d.P.R. 6.6.2001, n. 380) (Cass. S.U. 31.12.2001, De Marinis, CP, 2002, 1332).

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Può dunque considerarsi ormai ius receptum il principio, anche di recente riaffermato, secondo cui

l'attività di apertura e coltivazione di cava, pur non essendo subordinata al potere di controllo edilizio comunale, deve comunque svolgersi nel rispetto della pianificazione territoriale comunale, potendosi configurare, in difetto, la contravvenzione di cui all'art. 44 lett. a) d.P.R. n. 380 del 2001

(Cass. Sez. III, 26.8.2008, Iuliano, C.E.D. Rv. 241268).

Deve ricordarsi, da ultimo, che va certamente applicata l’ordinaria disciplina che prevede il rilascio del permesso di costruire (sicché, in mancanza, si perfeziona il reato di cui all’art. 44, 1° co., lett. b, TUE) nel caso di edificazione di manufatti all’interno degli impianti minerari :

le opere edili realizzate all'interno di una cava in cui si svolgono attività estrattive autorizzate necessitano del permesso di costruire, ove non precarie, anche se connesse al ciclo produttivo, configurandosi, in difetto, il reato di cui all'art. 44, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Cass. Sez. III, 7.4.2010, Borra, C.E.D. Rv. 247157)

2.6.2 Difformità “parziale” dal piano di lottizzazione. Com’è noto, il reato di lottizzazione abusiva c.d. “materiale” – sul quale

non ci si può qui intrattenere – è reato a condotta alternativa che si perfeziona quando le opere di trasformazione urbanistica od edilizia che integrano il concetto di lottizzazione siano commesse

in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione

(art. 30, 1° co., TUE) L’autorizzazione comunale in questione, che - integrata dalla

convenzione urbanistica che privato e p.a. debbono siglare – costituisce il piano di lottizzazione, è senz’altro da qualificarsi come strumento urbanistico (v. Cass. S.U. 28.11.2001, Salvini, CP, 2002, 2017). I punti degni di nota a proposito dell’applicazione del reato di cui all’art. 44, 1° co., lett. a, TUE sono due.

Innanzitutto, trattandosi di uno strumento attuativo – espressamente definito come alternativo al p.p.a. – il piano di lottizzazione deve rispettare la programmazione sovraordinata, sicché, laddove sia stato rilasciato in difformità dalla medesima, il parametro di legalità della condotta resterà pur sempre la normativa urbanistica di rango superiore. Per la particolare formulazione della fattispecie di reato della lottizzazione abusiva quale sopra richiamata – e la natura residuale dell’art. 44, 1° co., lett. a, TUE - queste ipotesi rientrano però nell’ambito di operatività del reato di lottizzazione abusiva, perché essa, appunto, abbraccia anche i casi in cui la condotta lottizzatoria (pur se autorizzata) si ponga in contrasto con gli strumenti urbanistici. Nell’ottica dell’interpretazione finalistica di tale più grave fattispecie, appare tuttavia preferibile limitare questa conseguenza ai casi in cui la difformità valga a “compromettere l’assetto pianificatorio” (l’argomento si trae

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da Cass. S.U. 28.11.2001, Salvini, CP, 2002, 2017, citata immediatamente infra), sicché se la difformità del piano di lottizzazione dagli strumenti urbanistici sovraordinati sia veramente marginale – e quindi inidonea a realizzare questa compromissione – l’attività di trasformazione del territorio compiuta in conformità a quel piano (pur formalmente illegittimo, e salvo che sia illecito) potrebbe essere ricondotta, a livello oggettivo, alla fattispecie della lettera a (impregiudicata, ben inteso, la valutazione dell’elemento soggettivo).

Al di là di questa marginale applicazione, una seconda, più ampia, possibilità d’impiego della fattispecie incriminatrice in parola nell’ambito delle opere di lottizzazione si ha con riguardo a quelle condotte che violino il piano di lottizzazione legittimamente approvato. In questi casi, non espressamente disciplinati dalla norma che punisce la lottizzazione abusiva, la giurisprudenza equipara alla mancanza dell’autorizzazione a lottizzare l’esecuzione di opere che, con locuzione efficace, potrebbero definirsi “in totale difformità” da essa. L’ipotesi della lottizzazione illecita per violazione delle prescrizioni autorizzatorie – precisa la già menzionata sentenza delle sezioni unite – è configurabile poiché: qualora siano idonee a compromettere l’assetto pianificatorio, costituiscono anch’esse <<difformità da uno strumento urbanistico>>; qualora implichino difformità tipologiche, volumetriche, strutturali e di destinazione, tanto rilevanti e diffuse su tutta l’area, rispetto al progetto approvato dall’autorità amministrativa, comportano che l’opera non è più riferibile a quella pianificata e deve considerarsi pertanto <<senza autorizzazione>> (Cass. S.U. 28.11.2001, Salvini, CP, 2002, 2026).

In via residuale rispetto alle caratteristiche che deve avere questa “ipotesi pretoria di totale difformità”, è quindi possibile individuare un’area (che potremmo definire di “parziale difformità”) nella quale la minor rilevanza delle violazioni del piano di lottizzazione non giustifica la loro riconducibilità al reato di lottizzazione abusiva, poiché, pur non corrispondendo il realizzato a quanto pianificato, non si tratta propriamente di un aliud pro alio. In tal caso, come osservava un’attenta dottrina già qualche anno prima dell’intervento delle sezioni unite, le singole minime violazioni, derivanti dall’iter procedurale, o le piccole difformità (…) troveranno la loro eventuale sanzione nell’art. 20 lett. a) legge n. 47 del 1985 (F. NOVARESE, La lottizzazione abusiva: forme e modalità di accertamento, in RGE 1994, II, 130).

2.7 Ulteriori ipotesi d’inosservanza delle prescrizioni urbanistiche o regolamentari: mutamenti di destinazione d’uso funzionali.

Un’altra ipotesi che, in taluni casi, può essere ricondotta alla norma incriminatrice residuale in esame è quella relativa alla modifica della destinazione d’uso di un immobile attuata senza opere (c.d. modifica formale o funzionale), cui si può parificare anche il caso del mutamento materiale realizzato con semplici opere di manutenzione ordinaria o con altra attività edilizia c.d. libera, posto che, per il loro pressoché nullo impatto sul tessuto urbanistico ed edilizio, queste sono escluse da qualsiasi forma di controllo

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amministrativo (cfr. art. 6, 1° co., lett. a, TUE). L’economia del presente scritto non consente di approfondire il concetto di mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante e, soprattutto, la complessa problematica della necessità o meno del permesso di costruire per poter procedere a modifiche, materiali o formali, della destinazione d’uso di edifici (ci si permette di rinviare, sul punto, a G. REYNAUD, cit., 141 ss.). Premesso che a nostro avviso è preferibile la tesi – peraltro prevalente in giurisprudenza, quanto meno per le modifiche materiali (v., di recente: Cass. Sez. III, 30.8.2012, Moscatelli, C.E.D. Rv. 253585; Cass. Sez. III, 19.1.2012, Tedesco, C.E.D. Rv. 252341) – secondo cui per la legge statale è necessario il permesso di costruire per gli interventi su immobili preesistenti che ne determinano la modificazione della destinazione d’uso giuridicamente rilevante (vale a dire, detto in sintesi, quella che avviene tra categorie non omogenee di manufatti), deve tuttavia osservarsi che, quand’anche si accogliesse la tesi interpretativa alternativa (che guarda alle scelte dei singoli legislatori regionali effettuate ai sensi dell’art. 10, 2° co., TUE), nel caso di modifiche meramente funzionali non potrebbe mai ipotizzarsi il reato di costruzione sine titulo. A differenza delle modifiche di destinazione d’uso c.d. strutturali, invero, quelle funzionali non possono essere ricondotte alla contravvenzione di cui all’art. 44, 1° co., lett. b, TUE proprio per la mancanza dell’elemento costitutivo della fattispecie, che postula la “esecuzione di lavori”. Per contro, dette condotte possono integrare gli estremi del reato di cui all’art. 44, 1° co., lett. a, TUE, innanzitutto sotto il profilo dell’inosservanza delle disposizioni contenute negli strumenti urbanistici (o, in taluni casi, del piano regolatore).

Il precedente giurisprudenziale più autorevole in questo senso è rappresentato dalla decisione con cui, vigente la legge Bucalossi, le sezioni unite della Cassazione presero posizione sui diversi orientamenti espressi dalla sezioni semplici, che, in alcune decisioni, avevano escluso la rilevanza penale del mutamento funzionale (v. Cass. Sez. III, 6.4.1981, Carli e a., FI, 1982, II, 28 e GI, 1982, II, 49; Cass. Sez. III, 17.2.1981, Buccino, FI, 1982, II, 28 e GI, 1982, II, 50; Cass. Sez. III, 10.2.1981, Gangemi e a., GI, 1982, II, 59), e, in altri casi, l’avevano invece affermata, riconducendo le condotte alla fattispecie di cui all’art. 17, lett. a, l. 10/1977 (Cass. Sez. V, 10.11.1980, Venturi e a., FI, 1982, II, 28 e GI, 1982, II, 60) ovvero al reato di cui all’art. 17, lett. b, l. 10./1977 (Cass. Sez. III, 23.4.1981, Conci, FI, 1982, II, 27 e GI, 1982, II, 49). Pur osservando come <<la scarsa chiarezza della disciplina positiva potrebbe offrire qualche appiglio per giustificare le opposte soluzioni>> (Cass. Sez. U., 29.5.1982, Querqui Guetta, GP, 1982, II, 691), il supremo organo della Corte di legittimità avallò la tesi della punibilità ai sensi dell’art. 17, lett. a, l. 10/1977, richiamando le argomentazioni svolte nelle precedenti sentenze conformi. Alcune di queste – mutatis mutandis, laddove si fa riferimento a disposizioni incriminatrici della legge Bucalossi che sono state sostanzialmente ribadite nella l. 47/1985 e nel testo unico in materia edilizia – possono essere riproposte ancora oggi:

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A) L'art. 17 lett. a della legge n.10 del 1977 garantirebbe la conformità dell'opera non soltanto nel corso dell'esecuzione dei lavori, ma in modo continuo nel tempo, con la conseguenza che il mutamento di destinazione d'uso si configurerebbe come un'attività comportante <<trasformazione urbanistica>> (ex art. 1 di detta legge) e lesiva quindi dell'interesse tutelato dalla legge stessa, dalle previsioni del piano regolatore, e dalla concessione rilasciata per diversa destinazione; B) il già citato art. 17 avrebbe una portata più ampia dell'art. 41 lett. a della legge urbanistica del 1942 (modificato dall'art.13 della legge n.765 del 1967) e non ne riproporrebbe sic et sempliciter lo stesso contenuto sanzionatorio, con la sola modificazione letterale, se viene interpretato (come deve essere interpretato) nel contesto complessivo in cui detto articolo 17 è contenuto e, sopratutto in relazione alla mutata concezione dell'urbanistica, intesa non come mera attività edilizia, e al suo stretto rapporto con l'assetto dell'intero territorio comunale e del suo equilibrato sviluppo (…) F) Infine, sotto un profilo di carattere generale, la destinazione d'uso in senso urbanistico dovrebbe essere riferita, alle cosiddette <<destinazioni di zona>> previste dagli strumenti programmatori, come il piano regolatore generale , il piano di fabbricazione, o il contenuto specifico della singola concessione (…) è stato fatto richiamo anche agli artt.17 comma ottavo della legge 6 agosto 1967, n. 765, e 41 quinquies della legge urbanistica, i quali dispongono che, nella ripartizione del territorio comunale (la cosiddetta <<zonizzazione>>) debbono essere osservati rapporti massimi fra spazi destinati agli insediamenti residenziali e spazi riservati alle attività collettive, a verde pubblico, a parcheggio. A sua volta, il Decreto Ministeriale del 2 aprile 1968, n.1444 ha provveduto a determinare in concreto la destinazione d'uso delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale con la conseguenza che il mutamento di detta destinazione, modificando arbitrariamente il predisposto piano di distribuzione degli insediamenti e dei servizi, violerebbe interessi tutelati anche penalmente, perché ricompresi nel più volte citato art. 17, lett. a della legge n.10 del 1977 (Cass. Sez. U., 29.5.1982, Querqui Guetta, GP, 1982, II, 690 s.).

La Corte, inoltre, notò come la dottrina avesse posto in evidenza tutti quei riflessi negativi che potrebbero derivare all'aspetto del territorio con la violazione del criterio fondamentale relativo alla predisposta programmazione per zone del territorio stesso, osservando al riguardo che da tutto il complesso della legislazione urbanistica ed edilizia, entrata in vigore nell'ultimo quarantennio, si può ricavare la regola di carattere generale anche se non assoluto, che è lo strumento normativo urbanistico quello che decide, fra tutte quelle possibili, la destinazione d'uso dei suoli e degli edifici, in funzione della quale trova attuazione il contenuto delle scelte del piano di gestione di tutto il territorio comunale (Cass. Sez. U., 29.5.1982, Querqui Guetta, GP, 1982, II, 691).

Confermando la condanna inflitta dal giudice di merito per il reato di cui all’art. 17 lett. a, l. 10/1977, la Cassazione osservò che nel caso di specie, trasformando l’unità immobiliare da abitazione privata ad uso ufficio, l’imputata aveva violato gli indici di utilizzo dei fabbricati previsti, per quella zona, dal regolamento edilizio, ove si stabiliva che ciascun fabbricato dovesse essere destinato per l’80% ad uso abitativo e per il 20% ad usi diversi, di cui non più del 10% ad uffici.

La giurisprudenza penale formatasi successivamente alla pronuncia delle Sezioni Unite si adeguò sostanzialmente all’autorevole insegnamento (per tutte, v.: Cass. Sez. III, 12.1.1984, Pirri, CP, 1985, 985; Cass. Sez. III, 2.4.1984, Bernardi, CP, 1985, 1658; Cass. Sez. III, 29.2.1984, Metelli, RP, 1985, 539. Contra, Cass. Sez. III, 20.2.1985, Sciacca, CP, 1986, 992). Con la previsione di cui all’art. 25, 4° co., l. 47/1985 il legislatore assoggettò però ad autorizzazione del sindaco, da ritenersi necessaria nei casi previsti dallo strumento urbanistico e in relazione alle prescrizioni ivi contenute, i mutamenti di destinazione d’uso soltanto formali, stabilendo che in mancanza del titolo sarebbero state applicabili soltanto sanzioni amministrative. La giurisprudenza successiva, dunque, escluse che le violazioni potessero continuare ad essere ricondotte alla fattispecie incriminatrice residuale (Cass. 25.6.1986, Crippa, CP, 1987, 2016 s.; Cass. Sez. III, 1.10.1985, Sachdeva, CP, 1986, 2022; Cass. Sez. III, 3.3.1987, Deffenu e Mereu, CP, 1987, 2205; Cass. Sez. III,

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15.7.1988, Mielli, CP, 1991, 1795. Contra, Cass. Sez. III, 20.11.1991, Coccia, CP, 1993, 1525).

Con una “novella” del 1993 – lievemente modificata nel 1996 - l’art. 25, u.c., l. 47/1985 è stato però sostituito con una disposizione analoga (salvo il riferimento alla d.i.a. in luogo dell’autorizzazione) a quella oggi contenuta nell’art. 10, 2° co., TUE. Questa previsione riguarda soltanto l’individuazione del titolo abilitativo – e rimette la scelta alla legislazione regionale – ma non prevede più che in caso di irregolarità debbano trovare applicazione soltanto le sanzioni amministrative. Ferma restando l’impossibilità di configurare l’ipotesi di lavori eseguiti sine titulo per mancanza della condotta materiale richiesta dalla norma – ciò che rende irrilevante, ai fini penali, l’assoggettamento al permesso di costruire piuttosto che alla d.i.a. – non appare dunque più preclusa, oggi, la riconducibilità di mutamenti d’uso funzionali all’ipotesi di reato residuale, secondo le regole generali. Tornano dunque validi i principi affermati dalla Cassazione a Sezioni Unite nel 1982.

Sulla scorta di quell’insegnamento, occorre ritenere che se il mutamento di destinazione d’uso funzionale contrasta con le previsioni degli strumenti urbanistici (ad es. perché dà ad un edificio un utilizzo incompatibile con la zona in cui esso è ubicato: si pensi ad un insediamento produttivo installato in un edificio prima adibito ad abitazione e ubicato in zona residenziale), ovvero se si violano degli indici di destinazione previsti dal regolamento edilizio (come nel caso deciso con la sentenza Querqui Guetta) – quale che sia il titolo abilitativo previsto dalle leggi regionali e, addirittura, quand’anche esso fosse stato in ipotesi (illegittimamente) rilasciato - ricorrerà il reato di cui all’art. 44, 1° co., lett. a, TUE. Per i mutamenti d’uso senza opere, in sostanza, il parametro di legalità penale non sono le norme che disciplinano il controllo della p.a. sulla trasformazione del territorio richiedendo il permesso di costruire piuttosto che la d.i.a., bensì la normativa urbanistica sostanziale che, se violata, lascia sussistere gli estremi della contravvenzione residuale. Né la disposizione incriminatrice appare indebitamente utilizzata oltre i confini che, nell’ottica di un’interpretazione costituzionalmente orientata, anche noi condividiamo, vale a dire per sanzionare condotte che non abbiano riguardo all’attività di trasformazione edilizia o urbanistica del territorio: anche in questo caso, infatti, la violazione attiene ad una attività che, dall’approvazione della legge Bucalossi in poi, certamente rileva ai fini del controllo pubblico sulle trasformazioni del suolo e, dunque, nei limiti consentiti dal rispetto del principio di tassatività della fattispecie, anche sul piano del controllo e della tutela penale.

Certamente condivisibile, dunque, appare l’affermazione del principio, anche di recente riproposta, secondo cui

integra il reato di cui all'art. 44, comma primo, lett. a), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 il mutamento della destinazione d'uso di un immobile, pur senza la realizzazione di opere edilizie, qualora la trasformazione comporti funzioni e utilità contrarie alle previsioni dello strumento urbanistico, fatta comunque salva l'ipotesi di modificazioni poste in essere tra categorie omogenee

(Cass. Sez. III, 17.1.2012, C.E.D. Rv. 251984)

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Sempre in tema è interessante anche una successiva sentenza in cui la Corte – confermando la condanna emessa nel giudizio di merito in relazione al reato di cui all’art. 44, 1° co., lett a, TUE - ha affermato che

la destinazione d’uso è un elemento che qualifica la connotazione dell’immobile e risponde agli scopi di interesse pubblico perseguiti dalla pianificazione. Essa, infatti, individua il bene sotto l’aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona. Soltanto gli strumenti di pianificazione, generali ed attuativi, possono decidere, fra tutte quelle possibili, la destinazione d’uso dei suoli e degli edifici, poiché alle varie e diverse destinazioni, in tutte le loro possibili relazioni, devono essere assegnate - proprio in sede pianificatoria - determinate qualità e quantità di servizi. L’organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull’organizzazione dei servizi, alterando appunto la possibilità di una gestione ottimale del territorio

(Cass., Sez. III, 16.5.2013, Farieri, in Lexambiente)

2.8 Segue. Illegittimità del titolo abilitativo e problematica sussistenza del reato urbanistico: dalla disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo alla valorizzazione dell’oggetto della tutela penale.

Un’altra serie di casi che potrebbe essere ricondotta alla norma

incriminatrice residuale - secondo una plausibile interpretazione anche da noi in passato fortemente sostenuta - è quella che riguarda l’accertata violazione degli strumenti urbanistici (o, in qualche caso, del regolamento edilizio) pur quando le opere sono state eseguite in conformità al titolo abilitativo rilasciato dal comune (ieri la concessione edilizia, oggi il permesso di costruire ovvero la d.i.a. ad esso alternativa). Il tema, dunque, è quello dell’illegittimità del provvedimento abilitativo edilizio, che deve essere rilasciato <<in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente>> (art. 12, 1° co., TUE; per il generale principio secondo cui pure gli interventi eseguiti con denuncia di inizio attività postulano la conformità delle opere agli stessi parametri di piano e regolamento, v. artt. 22, 1° co, e 23, 1° co., TUE).

Se la giurisprudenza non ha mai avuto dubbi nel ritenere il reato di costruzione sine titulo punito ai sensi della lettera b della fattispecie incriminatrice (o della lettera c, se l’abuso ricada in zone vincolate) quando vi sia un titolo abilitativo inefficace (ad es., quando siano decorsi i termini di efficacia del permesso di costruire), da oltre trent’anni si discute invece quale sorte riservi il diritto penale a chi costruisca in base ad un provvedimento amministrativo illegittimo. Secondo la dogmatica amministrativistica, il provvedimento illegittimo – perché affetto da uno dei tradizionali vizi dell’atto (incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere) – è infatti efficace sino a che l’atto sia annullato ovvero disapplicato dal giudice ordinario. Nulla quaestio in ordine alla situazione di chi inizi o prosegua i lavori a seguito dell’annullamento del provvedimento, poiché costui incorre certamente nel reato di costruzione senza permesso al pari di chi effettui le

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medesime attività in forza di un titolo non più efficace (v. Cass., Sez. III, 20-2-1995, Scalia, RGE, 1996, I, 237). Diverso, invece, è il problema della disapplicazione dell’atto – e, più in generale, della sindacabilità del titolo ritenuto illegittimo - da parte del giudice penale e delle conseguenze ai fini dell’integrazione dei reati urbanistici, questione attorno alla quale si è sviluppato uno dei più controversi dibattiti dottrinari e giurisprudenziali che abbiano mai riguardato la materia oggetto della nostra trattazione. Pur a distanza di decenni, e nonostante due interventi della Corte di cassazione a sezioni unite, la querelle non appare del tutto risolta, e, in mancanza di espresse direttive impartite al legislatore delegato, neanche il testo unico prende posizione sull’annosa questione, che resta dunque rimessa alla valutazione dell’interprete.

Com’è noto, la questione che sin da subito si pose riguardò l’equiparabilità tra assenza di concessione edilizia e illegittimità della stessa e la più risalente giurisprudenza l’affrontò – risolvendola, per lo più, in senso affermativo – facendo ricorso al potere di disapplicazione del provvedimento illegittimo attribuito al giudice ordinario dall’ art. 5 l. 22-3-1865, n. 2248, All. E, c.d. legge sull’abolizione del contenzioso amministrativo (v., ex multis: Cass., sez. III, 23-3-1981, Volpicelli, CP, 1982, 1624; Cass., sez. III, 13-11-1984, Del Favero, CP, 1986, 357). Non sembrando conforme ad equità ritenere responsabili del reato di costruzione abusiva coloro che avessero in buona fede richiesto ed ottenuto la concessione edilizia confidando nella legittimità dell’operato degli organi comunali e tenendo anche conto delle critiche mosse dalla maggioritaria dottrina, che vi ravvisava una violazione del principio di tassatività della legge penale (R. BETTIOL, La tutela penale dell’assetto territoriale nelle norme per l’edificabilità dei suoli, Padova, 1978, 78; R. BAJNO, La tutela penale del governo del territorio, Milano, 1980, 92 ss.; G. FORNASARI, Costruzione edilizia in base a concessione illegittima e ambito di rilevanza della <<buona fede>>, in GM 1986, IV, 238 s.; L. DE LIGUORI, Riflessi penali della concessione edilizia illegittima, in GM, III, 1255 ss; B. CARAVITA DI TORRITTO, La <<disapplicazione>> dell’atto amministrativo da parte del giudice penale, in QCSM, 53, che parla di <<giurisprudenza tecnicamente aberrante>>), a tale rigoroso orientamento fu tuttavia ben presto apportato un importante correttivo:

l’equazione: concessione illegittima = assenza di concessione può considerarsi conforme al canone inviolabile di tassatività della fattispecie punitiva soltanto allorché l’illegittimità dell’atto amministrativo sia tale da eliminare radicalmente la sua attitudine a conseguire l’effetto per il quale è data all’autorità competente la potestà di emetterlo, sì che esso, quantunque esistente nella sua materialità, debba considerarsi giuridicamente tamquam non esset (…) Di “sostanziale inesistenza” del titolo si può parlare solo quando la concessione sia frutto di attività criminosa del soggetto pubblico che la rilasci o del soggetto privato che la consegua o del concorso di entrambi

(Cass., sez. III, 10-1-1984, Tortorella, CP, 1985, 1448). Si arrivò così a distinguere l’ipotesi della mera illegittimità da

quella della illiceità della concessione, affermandosi che soltanto in quest’ultimo caso sussiste responsabilità penale per il reato di costruzione senza titolo (Cass., sez. III, 16-12-1985, Furlan, CP, 1987, 389). I più recenti approdi della Corte di legittimità, tuttavia, lasciavano (volutamente)

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in ombra l’impostazione teorica dalla quale la giurisprudenza aveva preso le mosse, vale a dire la disapplicazione dell’atto amministrativo, giacché in questa prospettiva sarebbe stato piuttosto arduo distinguere tra concessione illegittima e concessione illecita. Di qui l’affermarsi dell’orientamento secondo cui il giudice penale non può disapplicare l’atto amministrativo ai sensi dell’art. 5 l. abol. cont. amm., trattandosi di potere che l’autorità giudiziaria ordinaria potrebbe esercitare soltanto nel caso di atti che incidano negativamente su diritti soggettivi ai sensi del precedente art. 4 della stessa legge(Cass., sez. III, 13-3-1985, Meraviglia e a., CP, 1985, 1197). Nell’avallare tale opinione, le sezioni unite della Suprema corte confermarono l’orientamento secondo cui, comunque, nell’indagine sulla sussistenza del reato di costruzione in mancanza di concessione

deve parlarsi di assenza dell’atto non solo qualora l’atto in questione sia stato emesso da organo assolutamente privo del potere di provvedere, ma anche qualora il provvedimento sia frutto di attività criminosa del soggetto pubblico che lo rilascia o del soggetto privato che lo consegue e, quindi, non sia riferibile oggettivamente alla sfera del lecito giuridico, oltre la quale non è dato operare ai pubblici poteri

(Cass. S.U., 31-1-1987, Giordano e a., CP, 1987, 881) Negli anni immediatamente successivi alla pronuncia della Corte a

sezioni unite, la giurisprudenza per lo più ne recepì le conclusioni, sia quanto all’impossibilità per il giudice penale di utilizzare il meccanismo di disapplicazione degli atti amministrativi previsto dalla legge sull’abolizione del contenzioso amministrativo (Cass., sez. III, 31-5-1988, Patroni, CP, 1989, 1833; Cass. sez. III, 13-6-1990, Di Felice, CP, 1992, 1579. La conclusione, con particolare riguardo alla questione interpretativa in parola, è condivisa dalla prevalente dottrina: R. BAJNO, La tutela, cit., 98 ss.; G. FORNASARI, Costruzione edilizia, cit., 234; A. ALBAMONTE, Rilevanza penale dell’illegittimità della concessione edilizia alla luce della l. 28 febbraio 1985 n. 47, in CP, 1987, 2098; P. MICHELI, Giudice penale e concessione edilizia illegittima: la definitiva affermazione della portata sostanziale del <<sindacato>> sull’atto amministrativo, in CP, 1997, 3149; C. ROSSI, La concessione edilizia fra interpretazione teleologica e legalità penale, in DPP, 1998, 1160. Contra, con diffusa motivazione, Cass., sez. III, 9-1-1989, Bisceglia, CP, 1990, 135) sia, soprattutto, quanto all’equiparazione della concessione illecita all’ipotesi di assenza del titolo (Cass., sez. III, 20-9-1988, Dalla Negra, CP, 1990, 1576; Cass., sez. III, 8-11-1988, Borgogno, CP, 1990, 661). Su un punto, tuttavia, la decisione delle sezioni unite non apparve convincente e suscitò le immediate reazioni della dottrina e della giurisprudenza, vale a dire con riguardo all’individuazione dell’oggetto della tutela penale delle disposizioni che prevedono i reati urbanistici, ricostruito come meramente “formale”. Secondo la Corte, cioè, l’interesse tutelato dall’incriminazione di costruzione abusiva è quello pubblico di sottoporre l’attività edilizia al preventivo controllo della pubblica amministrazione, con conseguente imposizione, a chi voglia edificare, dell’obbligo di richiedere l’apposita autorizzazione amministrativa (Cass. S.U., 31-1-1987, Giordano e a., CP, 1987, 881). Nell’economia del ragionamento svolto dalla Corte ai fini di cui ora si discute, il rilievo è importante, perché - secondo le sezioni unite - pur non

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potendo ricorrere alla disapplicazione, in determinati casi il giudice penale potrebbe comunque conoscere della legittimità dell’atto amministrativo se tale potere trovi fondamento e giustificazione o in una esplicita previsione legislativa (come, ad esempio, avviene con il disposto dell’art. 650 c.p.), ovvero, nell’ambito della interpretazione ermeneutica della norma penale, qualora la illegittimità dell’atto amministrativo si presenti, essa stessa, come elemento essenziale della fattispecie criminosa. Ne deriva, pertanto, che nel caso in esame, in tanto potrebbe ritenersi valida la (effettuata) equiparazione tra “mancanza di concessione” e “concessione illegittimamente rilasciata”, in quanto fosse possibile ritenere che la disposizione di cui al citato art. 17, lett. b), l. 28.1.1977 n. 10 (ora art. 20, lett. b l. 28.2.1985 n. 47) sia funzionale alla tutela dell’interesse all’osservanza delle norme di diritto sostanziale che disciplinano l’attività edilizia. Ma una simile opinione certamente non può essere condivisa (Cass. S.U., 31-1-1987, Giordano e a., CP, 1987, 881).

Ebbene, proprio quest’ultima, radicale, negazione apparve subito insostenibile alla luce del nuovo quadro normativo delineato dalla l. 28-2-1985, n. 47(in giurisprudenza, v: P. Agropoli, 31-10-1987, Russo, GM, 1988, III, 636; P. Gragnano, 10-3-1988, Peccerillo e a., GM, 1990, III, 419; P. Lamezia Terme, 26-1-1990, Lucia, GM, 1993, III, 208; P. Alcamo, 6-2-1991, Cavataio e a., CP, 1991, 1133. In dottrina: A. ALBAMONTE, Rilevanza penale, cit., 2097 s.; S. BENINI, L’oggetto dei reati urbanistici: un nodo ancora da sciogliere, in GM, 1989, III, 446 ss.; P. MENDOZA, Giudice penale e pubblica amministrazione tra gli orientamenti della Cassazione penale e i principi della Corte costituzionale, in CP, 1990, 1145 s.; F. NOVARESE, Disapplicazione e sindacabilità della concessione edilizia con particolare riferimento a quella in sanatoria ex art. 13 e 22 l. 28 febbraio 1985 n. 47, in GM, 1993, III, 215 ss.; P. MICHELI, Giudice penale, cit., 3148; G. MARINI, Urbanistica (reati in materia di), in Dig.Pen. 1999, Torino, XV, 100.) e il suggello alla “concezione sostanziale” dell’interesse protetto dai reati urbanistici fu poi posto da una successiva decisione delle sezioni unite della Corte, che, pur esaminando la fattispecie di cui all’art. 20, 1° co., lett. a, l. 47/1985, spese argomentazioni – e raggiunse conclusioni – valide per tutte le ipotesi di reato contenute nella disposizione incriminatrice e che conservano tutt’oggi la loro indubbia attualità. In particolare, la Cassazione notò che se l’impianto risultante dalla legge urbanistica fondamentale, la l. 17.8.1942, n. 1150, consentiva d’individuare l’oggetto della tutela penale nel “bene strumentale” del controllo e della disciplina degli usi del territorio, la configurazione normativa dell’interesse tutelato era venuta a mutare nel tempo e aveva segnato una vera e propria svolta con la c.d. legge sul condono edilizio, la l. 28.2.1985, n. 47. L’analisi dell’evoluzione normativa - concluse la Corte, facendo un’affermazione che ancora oggi costituisce un imprescindibile principio-guida per l’interprete del diritto penale urbanistico – rende

evidente che, se l’urbanistica disciplina l’attività pubblica di governo degli usi e delle trasformazioni del territorio, lo stesso territorio costituisce il bene oggetto della relativa tutela, bene esposto a pregiudizio da ogni condotta che produca alterazioni in danno del benessere complessivo della collettività e delle sue attività, ed il cui parametro di legalità è dato dalla disciplina degli strumenti urbanistici e dalla normativa vigente

(Cass. S.U., 12.11.1993, Borgia, CP, 1994, 905).

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2.8.1 Il problema resta aperto: la difficile ricerca di una soluzione interpretativa tra tutela sostanziale del territorio, rispetto del principio di tassatività e indebolimento delle forme di controllo della p.a.

A seguito della sentenza Borgia può oggi dirsi comunemente accettato

che il bene tutelato dalle norme incriminatrici è (anche, diciamo noi) la tutela sostanziale del territorio. Questa considerazione – unita alla premessa contenuta nella sentenza Giordano circa l’interpretazione teleologica che deve attribuirsi alle norme penali tra i cui elementi costitutivi figuri la mancanza di un provvedimento amministrativo idoneo a rendere lecita un’attività – ha mosso parte della successiva giurisprudenza a ritenere sussistente il reato di cui all’art. 20, 1° co., lett. b, l. 47/1985 (oggi art. 44, comma 1, lett. b, TUE) quando l’atto abilitativo sia (non solo inesistente o frutto di conclamata attività illecita, ma) anche soltanto macroscopicamente illegittimo.

Secondo questa giurisprudenza, si legge in alcune decisioni che richiamano testualmente un passaggio della sentenza Borgia,

nell’ipotesi in cui si edifichi con concessione edilizia illegittima, non si discute più di disapplicazione di un atto amministrativo illegittimo e dei relativi poteri del giudice penale, ma di potere accertativo di detto magistrato dinanzi ad un atto amministrativo che costituisce presupposto o elemento costitutivo di un reato. In tale ipotesi l’esame deve riguardare non l’esistenza ontologica dello stesso, ma l’integrazione o meno della fattispecie penale “in vista dell’interesse sostanziale che tale fattispecie assume a tutela (nella specie l’interesse sostanziale alla tutela del territorio), nella quale gli elementi di natura extrapenale…convergono organicamente, assumendo un significato descrittivo” (Sez. un., 21 dicembre 1993)

(Cass., sez. III, 12-5-1995, Di Pasquale, CP, 1997, 3146; Cass., sez. III, 4-4-1995, Marano, FI, 1996, II, 505 s.; nello stesso senso: Cass., sez. III, 13-1-1995, Antonilli, CP, 1996, 3455; Cass., sez. VI, 2-3-1998, Calisse e a., RGE, 1999, I, 194; Cass., sez. III, 28-9-2001, Diana e a., RP, 2003, 72; Cass., sez. III, 22-4-2004, Verdelocco, GP, 2006, II, 174)

Anche a seguito della parziale declaratoria d’illegittimità costituzionale che ha interessato l’art. 5 c.p., è sul terreno della verifica della colpevolezza che l’interpretazione in parola può trovare un equo contemperamento, sicché, come si precisa in altra pronuncia

la concessione integra un elemento normativo materiale e deve essere sottoposta ad accertamento di legalità, pur se nell’ambito della rilevanza psicologica, che limita alla sola macroscopicità dell’illecito la sua punibilità. In parole povere il giudice può eseguire la verifica della legittimità dell’atto, restringendo il magistero repressivo al solo caso in cui questa illegittimità risulti in modo eclatante e sia tale da non sfuggire ad un soggetto normalmente informato a livelli minimi di conoscenza normativa>>

(Cass., sez. III, 28-10-1997, Controzzi e a., DPP, 1998, 1545). Pur dopo la sentenza Borgia, l’orientamento di cui si è dato conto è stato

tuttavia contrastato da coeve pronunce di opposto segno, che, da un lato, hanno rilevato come la tesi che esclude rilevanza ad un atto amministrativo macroscopicamente illegittimo desti forti perplessità - <<considerata la indeterminatezza del concetto di macroscopicità, che confligge col principio di legalità e tassatività dei reati>>( Cass., sez. III, 11-1-1996, Ciaburri, CP, 1996, 3454.) – e, d’altro lato, in maniera ancor più radicale, hanno osservato che

resta tuttora non apprezzabilmente contraddetto, e va pertanto seguito, il principio affermato dalle Sezioni unite con sentenza 31 gennaio 1987, ric. Giordano, secondo cui il reato di costruzione in assenza di concessione non è configurabile quando, come nella specie ritenuto, la concessione rilasciata prima dell’inizio dei lavori sia soltanto illegittima e, beninteso, non illecita

(Cass., sez. III, 23-12-1994, De Nobili, RP, 1996, 203. Nello stesso senso, sia pure in relazione a meri vizi del procedimento, Cass., sez. III, 27-6-1995, Barillaro, CP, 1996, 3103).

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L’analisi della giurisprudenza di legittimità mostra peraltro come tra le due opposte tesi di cui si è dato conto ne sia stata elaborata una in qualche modo “intermedia”, nel senso che, per un verso, mira a rispettare il principio di tassatività nell’applicazione del reato di costruzione in assenza di titolo e, per altro verso, realizza comunque l’obiettivo di interpretare le fattispecie incriminatrici urbanistiche nell’ottica della tutela dell’interesse sostanziale protetto. Ferma restando la punibilità ai sensi dell’ipotesi di cui all’art. 20, 1° co., lett. b, l. 47/1985 (ora art. 44, 1° co., lett. b, TUE) delle condotte di edificazione in presenza di titolo giuridicamente inesistente o illecito - ciò che, a ben vedere, costituisce l’unica conclusione veramente condivisa nella materia de qua (cfr., più di recente: Cass., sez. VI, 8-7-2002, Marra, CP, 2004, 4201; Cass., sez. III, 13-11-2002, Pezzella, GP, 2003, II, 501; Cass., sez. IV, 15-1-2004, Polito, RGE, I, 353; Cass., sez. III, 22-4-2004, Verdelocco, GP, 2006, II, 174; Cass., sez. III, 20-9-2004, Scacchi, GP, 2005, II, 648) - e salva la valutazione della sussistenza, in concreto, dell’elemento soggettivo, anche in relazione alla “macroscopicità” del vizio, nel caso di lavori effettuati in forza di un provvedimento affetto da mera illegittimità per contrasto con la normativa urbanistica s’incorrerebbe nel reato previsto dalla lett. a della citata disposizione incriminatrice. L’orientamento - inaugurato da Cass., sez. III, 15-3-1982, Basso, in CP, 1983, 1856 e poi ribadito, in particolare, da Cass., sez. III, 10-1-1984, Tortorella, CP, 1985, 1446 - è stato particolarmente approfondito da Cass., sez. III, 24-6-1992, Palmieri, CP, 1993, 2078 e ha trovato nuova linfa nella decisione presa dalle sezioni unite nel caso Borgia, la quale, pur non approfondendo ex professo il tema della fattispecie incriminatrice applicabile, ha tuttavia legittimato, nel giudizio sottoposto al suo esame, la configurabilità dell’ipotesi prevista nell’art. 20, 1° co., lett. a, l. 4/1985. Non a caso tale autorevole decisione è richiamata come precedente in successive pronunce che, in situazioni simili, hanno ritenuto la sussistenza della meno grave ipotesi di reato (v. Cass., sez. III, 12-6-1996, Vené, CP, 1997, 1858; Cass., sez. III, 28-11-1997, Bortoluzzi, RGE, 1999, I, 182).

Il problema, come si vede, è tutt’altro che risolto e la dottrina resta spaccata (per la configurabilità del reato di costruzione sine titulo v.: A. ALBAMONTE, Responsabilità del costruttore e concessione illegittima alla luce della l. n. 47 del 28 febbraio 1985, in CP, 1986, 570 ss.; F. NOVARESE, Orientamenti in tema di disapplicazione di concessione edilizia illegittima secondo la l. 28 febbraio 1985 n. 47, in GM, 1987, IV, 289 ss.; A. ALBAMONTE, Rilevanza penale, cit., 2097 s.; S. BENINI, L’oggetto, cit., 446 ss.; P. MENDOZA, Giudice penale, cit., 1145 s.; F. NOVARESE, Disapplicazione, cit., 215 ss.; P. MICHELI, Giudice penale, cit., 3148; G. MARINI, Urbanistica, cit., 100; M. PETRONE, Attività amministrativa e controllo penale, Milano, 2000, 118 ss. Propendono invece per la configurabilità del reato residuale di cui alla lett. a della fattispecie incriminatrice: R. BETTIOL, La tutela, cit., 79, nt. 27; R. BAJNO, La tutela, cit., 103 s.; G. FORNASARI, Costruzione edilizia, cit., 240 s.; G. DE LUCA, L’art. 20 lett. a) l. 28 febbraio 1985 n. 47: l’ultima spiaggia del pretore penale, in CP,

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1989, 1072 ss.; G. CONTENTO, Il sindacato del giudice penale sugli atti amministrativi, con particolare riferimento agli atti discrezionali, in QCSM, 1989, 36; C. ROSSI, La concessione, cit., 1164. Perplessa, sul punto, L. VIGNALE, Concessione illegittima e contravvenzioni urbanistiche: un cerchio sempre difficile da quadrare, in CP, 1987, 1714 s. Pure perplesso, ma nel senso di ritenere preferibile la tesi dell’assoluta irrilevanza penale, BARBUTO, Reati edilizi e urbanistici, Torino, 1995, 329. Deve ricordarsi, da ultimo, che, sullo sfondo di questa spaccatura circa il reato configurabile, v’è sempre stata la questione – che non si pone in termini sostanzialmente diversi, quale che sia l’ipotesi criminosa ritenuta configurabile – della rilevanza della buona fede di chi abbia edificato sulla base di un titolo illegittimo, ignorando che lo stesso fosse viziato: cfr., con diversi accenti e anche per riferimenti: G. FORNASARI, Costruzione edilizia, cit., 242 ss.; F. NOVARESE, Orientamenti, cit. 295 s.; G. MARINI, Urbanistica, cit., 100; P. MICHELI, Giudice penale, cit., 3158 s.). Dal canto suo, neppure la più recente giurisprudenza di legittimità ha preso chiara posizione sul punto (emblematica la decisione cautelare, pur diffusamente motivata, con cui la Corte, affermando l’illiceità della costruzione avvenuta in forza di permesso illegittimo, non prende posizione sulla fattispecie di reato integrata: Cass., sez. III, 21-3-2006, Tantillo, CP, 2007, 2982). Chi scrive non si era sottratto all’impegnativa ricerca della soluzione interpretativa preferibile e lo aveva fatto – nel solco della strada tracciata dalla Cassazione a sezioni unite nei due interventi più volte richiamati e poi percorsa dalla successiva giurisprudenza – muovendo dall’individuazione del bene oggetto di tutela penale della norma incriminatrice che prevede il reato di lavori eseguiti in assenza di permesso. In quest’ottica avevamo ritenuto che una lettura della norma incriminatrice scevra da pregiudizi e condotta avendo a mente l’intero sistema delle disposizioni di legge portasse a ritenere – in parziale accordo, peraltro, con entrambe le affermazioni di principio contenute delle due decisioni delle Sezioni unite della Corte, opportunamente contemperate - che il reato di lavori eseguiti in assenza di permesso, sia pure secondo una precisa gerarchia interna o, se si vuole, secondo un certo criterio di funzionalizzazione, tutelasse sia la funzione di controllo riservata alla p.a., sia l’esigenza di impedire trasformazioni del territorio in contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia. In particolare, ci era sembrato di poter affermare che si punisce chi costruisce senza aver previamente ottenuto il permesso perché in questo modo non è stato consentito all’autorità pubblica preposta di effettuare i necessari controlli finalizzati ad evitare che le attività di trasformazione effettuate dai privati possano ledere l’ordinato sviluppo del territorio, quale pianificato dall’amministrazione nel rispetto delle previsioni di legge. Detto in altre parole ancora, la tutela (immediata) del controllo pubblico sulle condotte lato sensu edificatorie dei privati assicurata dalla previsione del reato di costruzione sine titulo non sarebbe fine a sé stessa, ma consentirebbe di realizzare un’efficace (e mediata) tutela del bene sostanziale avuto di mira, con l’utilizzo di una tecnica di protezione

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anticipata frequentemente utilizzata per beni collettivi analoghi a quello dell’assetto del territorio (si pensi, ad es., al paesaggio). Criticando le teorie che ricostruiscono la fattispecie de qua come reato di danno – avendo riguardo vuoi alla lesione del controllo pubblico sull’attività edificatoria, vuoi al vulnus sostanziale al territorio – avevamo allora proposto di ricostruire la fattispecie come reato di pericolo in relazione al bene “tutela del territorio”. Nel punire chi proceda a significative trasformazoni del territorio (quelle che, appunto, necessitano del rilascio del permesso di costruire) senza conseguire il relativo titolo, il legislatore sembrava aver ritenuto che la sottoposizione del progetto di trasformazione del suolo al vaglio della competente autorità amministrativa fosse garanzia idonea a conseguire l’obiettivo di un ordinato sviluppo urbanistico e che tale valore fosse invece messo in pericolo dall’esecuzione di opere non assoggettate alle prescritte forme di controllo. La complessiva razionalità del sistema, del resto, sarebbe assicurata dalla speciale causa di estinzione del reato per sanatoria: se si accerta, attraverso una verifica ex post, che la condotta illecita tenuta non ha arrecato danno all’interesse protetto (conformità ex ante allo strumento urbanistico) e che essa sarebbe assentibile anche sulla base della pianificazione successivamente approvata (cd. doppia conformità), previo pagamento di una somma a titolo di oblazione (ciò che appare sufficiente a sanzionare la violazione formale illo tempore commessa), non si fa luogo all’applicazione della sanzione penale.

Sulla base di questi principi avevamo quindi affrontato il problema delle conseguenze che si verificano quando il meccanismo di controllo amministrativo non abbia funzionato affermando che

se ciò è dipeso dalla mancata attuazione della funzione di controllo – solo apparentemente espletata da chi non aveva il potere di farlo (atto inesistente per incompetenza assoluta), ovvero impedita ab origine da una condotta fraudolenta del privato (concretizzatasi in reati di falso o nella c.d. truffa edilizia) o da un’attività criminosa del soggetto pubblico, di regola in concorso con l’interessato beneficiario (permesso illecito per collusione) - l’interpretazione teleologica della norma incriminatrice porta ad equiparare l’ipotesi a quella dell’assenza di permesso (conclusione, come si è detto, oggi sostanzialmente pacifica in dottrina e giurisprudenza, sia pur variamente argomentata). Se, invece, senza dolo di alcuno, la procedura di controllo non si è svolta in conformità alle regole che la disciplinano – per violazione di leggi, regolamenti o per eccesso di potere – e alla richiesta del privato abbia fatto seguito il rilascio di un permesso illegittimo (anche se macroscopicamente tale) la fattispecie di cui all’art. 44, 1° co., lett. b, TUE non potrà dirsi integrata. A causa di condotte degli organi pubblici preposti che saranno di regola riconducibili al paradigma della colpa (negligenza, imperizia) dei funzionari intervenuti nel procedimento, il controllo non è stato efficace e, tuttavia, è avvenuto (o sarebbe potuto avvenire), sicché, essendo stata rispettata la finalità della norma precettiva, non può farsi ricorso all’interpretazione teleologica per ritenere comunque integrato il reato, tanto meno se per far ciò occorra violare il principio di tassatività della legge penale. Detto in altre parole, nella struttura della fattispecie la tutela dell’interesse finale che sottostà all’illecito (l’assetto territorio) passa necessariamente attraverso al meccanismo di controllo della competente pubblica amministrazione e se questo è avvenuto (pur se in modo errato o inadeguato) non v’è spazio per ritenere applicabile la norma…Ciò non significa, tuttavia, che l’esecuzione di lavori in forza di un permesso illegittimo non integri gli estremi di (altro) reato, perché, per le ragioni già esposte dando conto della giurisprudenza che ha sostenuto questa tesi, potrà residuare la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 44, 1° co., lett. a, TUE

(G. REYNAUD, cit., 193). Si è voluto ricordare il passo saliente del ragionamento conclusivo

cui eravamo pervenuti – scusandoci per l’inelegante autocitazione – perché ci rendiamo conto che essa appare più difficilmente sostenibile alla luce della recenti “novelle” che hanno interessato il procedimento per rilascio del

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permesso di costruire delineato dall’art. 20 TUE (il cui testo originario è stato sostituito dall’art. 5, 2° co., lett. a, n. 2, d.l. 13.5.2001, n. 70, conv., con modiff., in l. 12.7.2011 n. 106 e poi ulteriormente modificato dall’art. 13 d.l. 22.6.2012, n. 83, conv., con modiff., in l. 7.8.2012, n. 134). Ed invero, in un sistema come quello attuale, che codifica il principio secondo cui (salvo che nelle zone vincolate) l’inerzia dell’amministrazione sull’istanza di rilascio del permesso di costruire – inerzia magari giustificata dall’inefficienza, dovuta anche all’endemica carenza di personale, degli apparati comunali – equivale a rilascio del provvedimento “tacito”, il perfezionamento dell’iter amministrativo non assicura che vi sia effettivamente stata (né, forse, che vi sarebbe potuta essere, tenendo conto delle condizioni disastrate in cui versano molti uffici pubblici) quell’attività di controllo funzionale alla tutela dell’interesse sostanziale protetto che aveva costituito la ratio dell’interpretazione da noi ritenuta preferibile. E’ ben vero che, diversamente dall’originaria disciplina dell’iter procedurale, è stata rafforzata (anche con la previsione del nuovo delitto di falso ideologico di cui all’art. 20, 13° co., TUE) l’autoresponsabilità del privato, richiedendosi che l’istanza sia corredata dall’attestazione, da parte di un soggetto professionalmente abilitato, di conformità del progetto (tra l’altro) <<agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi, e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia>> (art. 20, 1° co., TUE), ma, tenendo anche conto del fatto che il nuovo reato presuppone, ovviamente, il dolo e che l’interpretazione della disciplina urbanistica non è sempre agevole, il conseguimento tacito del necessario titolo giuridico non vale a far ritenere accertata la conformità dell’opera alla normativa urbanistico-edilizia sostanziale.

La recente riforma alla quale si è fatto cenno, dunque, da un lato pone problemi inediti rispetto alla soluzione del quesito da cui abbiamo preso le mosse nel caso in cui l’intervento soggetto a permesso perfezionatosi con silenzio-assenso contrasti con la disciplina urbanistico-edilizia e, d’altro lato, modifica la cornice sistematica all’interno della quale deve muoversi l’interprete per tentare di dare risposte adeguate a problemi che si fanno sempre più complessi. La considerazione spinge altresì a domandarsi, de iure condendo, se quella che è stata sinora la principale fattispecie penale in materia urbanistica – fondata esclusivamente sull’omesso rilascio di un provvedimento che oggi può formarsi tacitamente, che in alcuni casi, ad iniziativa del privato, può essere surrogato da una semplice d.i.a., che in particolari settori è sostituito da adempimenti di diverso genere (si pensi alle opere pubbliche disciplinate dall’art. 7 TUE, ovvero all’installazione di impianti di telecomunicazione o alla costruzione di impianti di energia da fonti rinnovabili di cui più oltre si tratterà) – non debba essere ripensata. Del resto, un buon modello di fattispecie a cui ispirarsi - da tempo presente all’interno della legislazione penale urbanistica e che ha mostrato di ben funzionare e di evitare tutti i problemi interpretativi di cui si è sin qui discusso - è quello del reato di lottizzazione abusiva, che, secondo la condotta alternativa descritta nell’art. 30, 1° co., TUE, sussiste tanto se l’intervento sia stato realizzato in

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assenza della prescritta autorizzazione, quanto se esso si ponga comunque in contrasto con gli strumenti urbanistici o, più in generale, con la disciplina urbanistico-edilizia.

2.9 Interventi eseguiti con s.c.i.a. (o comunque non assoggettati a permesso di costruire) in contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia.

Il testo unico in materia edilizia pone il principio secondo cui sono

realizzabili mediante d.i.a. (oggi s.c.i.a.) gli interventi diversi da quelli assoggetti a permesso di costruire ai sensi dell’art. 10 TUE e dalle attività libere di cui all’art. 6 TUE <<che siano conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente>> (art. 22, 1° co., TUE). Quest’ultima locuzione – che non compariva nell’originaria stesura della norma – è stata inserita nella nuova formulazione della disposizione quale approvata con l’art. 1, 1° co., lett. f, d.lg. 27.12.2002, n. 301. Giova innanzitutto osservare che di tale specificazione, per un verso, non v’era necessità e, per altro verso, qualora se ne volessero far derivare effetti sostanziali al fine di stabilire le conseguenze sanzionatorie della non conformità, la disposizione sarebbe gravata da sospetta illegittimità costituzionale. Ma procediamo con ordine.

La previgente disciplina sulla d.i.a., contenuta nell’art. 4, 11° co., d.l. 398/1993, conv. in l. 493/1993, da ultimo sostituito dall’art. 2, 60° co., l. 662/1996, all’art. 8, lett. b, prescriveva la compatibilità degli interventi con i soli gli strumenti adottati e, secondo l’interpretazione preferibile, non si poteva dubitare della necessità di rispettare anche le previsioni dei piani approvati e del regolamento (cfr., anche per riferimenti, A. PADALINO MORICHINI, La denuncia d’inizio attività, CP 2000, 250 ss.). Questo non significava, tuttavia, che in caso di contrasto l’intervento dovesse qualificarsi come assoggettabile al permesso di costruire. Pronunciandosi con riguardo alla normativa da ultimo richiamata, la Cassazione era invece andata in contrario avviso e aveva confermato la sentenza di condanna inflitta per il reato di cui all’art. 20, lett. b, l. 47/1985 in un caso in cui, a seguito di presentazione di d.i.a., si era proceduto alla realizzazione di un muro di recinzione che violava le distanze dalla via pubblica previste dal piano regolatore, osservando quanto segue: qualora un qualsiasi intervento da realizzarsi mediante denuncia di inizio attività riguardi immobili soggetti a norme di tutela, l’effettuazione dello stesso soggiace al rispetto di dette norme, tra cui rientrano, come nella specie, le previsioni degli strumenti urbanistici, sicché, in tali casi, non può essere seguita la procedura semplificata essendo necessario accedere al regime concessorio (…) correttamente è stata ritenuta la configurabilità del reato poiché l’imputato si è avvalso della procedura semplificata che gli era preclusa per l’operatività di norme di tutela urbanistica (la recinzione ricadeva in zona di rispetto stradale dove secondo lo strumento uranistico comunale potevano essere costruite solo recinzioni in rete metallica con assoluto divieto di impiego di muratura) (Cass. Sez. III, 26.6.2002, Perfigli, RP, 2003, 626).

La soluzione non convince. Ed invero, il titolo abilitativo dev’essere individuato in relazione alla tipologia di intervento e non già – ciò che

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costituisce, invece, un passaggio successivo dell’iter procedurale - alla sussistenza o meno di tutte le condizioni di legittimità previste per l’esecuzione dell’opera. Del resto, se un’opera non è conforme alle previsioni di piano o di regolamento (ovvero non ha ottenuto il necessario placet dell’autorità preposta alla tutela del vincolo eventualmente esistente) non è realizzabile, né con permesso di costruire, né con d.i.a. /s.c.i.a. Se, dunque, l’intervento si pone in contrasto con le norme urbanistiche sostanziali, non per questo muta il regime amministrativo del titolo edilizio (che, in ipotesi di non difformità, sarebbe stato) necessario, sicché, trattandosi di interventi soggetti al regime amministrativo della s.c.i.a., non può farsi applicazione delle ipotesi criminose contemplate nelle lett. b e c dell’art. 44, comma 1, TUE.

Si deve aggiungere, con particolare riguardo al caso in esame e in relazione al richiamato disposto contenuto nell’art. 22, 1° co., TUE, in versione “novellata”, come alla norma non possa essere data una tale interpretazione. La c.d. legge-obiettivo aveva addirittura abrogato l’art. 4, 8° co., d.l. 398/1993, così mostrando di ritenerlo, in parte qua, irrilevante: che gli interventi di trasformazione del territorio, quale che sia il titolo abilitativo previsto, debbano rispettare le previsioni urbanistiche e regolamentari è implicito al sistema e non necessita d’essere ribadito. Sulla stessa linea si era mosso il legislatore della riforma del TUE, che, come detto, nulla aveva specificamente previsto al proposito, salvo dettare altre previsioni (come l’art. 23, 1° co., TUE da cui quel principio poteva essere desunto). Soltanto per un “eccesso di zelo”, dunque, il legislatore delegato che ha attuato la legge-obiettivo ha ritenuto di dover introdurre quella specifica previsione (peraltro, collocandola, chissà perché, soltanto nel 1° comma dell’art. 22 TUE e non nei due successivi). Se non si vuole trasformare l’eccesso di zelo in…eccesso di delega, non si può pertanto interpretare la disposizione in questione per farne derivare le conclusioni qui rifiutate, che, appunto, non erano sostenibili nemmeno sulla base della previgente disciplina.

In allora, con riguardo agli interventi soggetti al regime della mera d.i.a. si era detto che resta da accertare se, verificandosi il ricorso a quest’ultima procedura e in caso di opere che, pur rientranti nell’ambito delle categorie subordinate alla sola denuncia, siano state effettuate in contrasto con norme e prescrizioni urbanistiche, prime fra tutte quelle contenute negli strumenti urbanistici e nei regolamenti edilizi, sia ravvisabile la contravvenzione prevista dall’art. 20 lett. a) della l. n. 47 del 1985: la risposta non può che essere affermativa, considerata in primo luogo la natura di norma penale in bianco della violazione in oggetto, la cui sfera di applicazione non è affatto limitata alla sola attività edilizia per la quale è richiesta la concessione ma comprende ogni tipo di intervento, comunque effettuabile, che abbia determinato l’inosservanza delle norme di legge e delle altre disposizioni indicate nel precetto; in secondo luogo perché altro è eseguire opere in assenza o in difformità dalla denuncia di inizio, senza ulteriori infrazioni, con conseguente applicazione della sola sanzione amministrativa prevista dall’art. 4 comma 13 d.l. n. 398 del 1993, altro effettuare interventi che, pure in regola sotto il profilo formale, abbiano leso l’interesse urbanistico sostanziale tutelato dalla fattispecie di reato in questione (A. PADALINO MORICHINI, cit., 258).

Le argomentazioni sono tuttora spendibili per ritenere che l’esecuzione di un intervento soggetto al regime della d.i.a. ai sensi dell’art. 22, 1° o 2° co., TUE che contrasti con le previsioni dello strumento urbanistico o del piano regolatore integra gli estremi della contravvenzione prevista dall’art. 44, 1°

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co., lett. a, TUE, indipendentemente dal fatto che essa sia stata presentata oppure no (per un obiter dictum in questo senso, v. Cass. Sez. III, 26.11.2003, Selva e a, in RGE, 2004, I, 845). La conclusione appare ancor più convincente laddove si ritenga che rientrano nell’ambito di operatività della fattispecie criminosa in esame le trasformazione urbanistichiche o edilizie che, sebbene avallate da un illegittimo permesso di costruire (o effettuate a seguito di presentazione di d.i.a. alternativa), si pongano in contrasto con la disciplina pianificatoria e regolamentare, non essendovi ragione per non giungere ad analoga conclusione se si tratti di interventi esclusivamente soggetti a d.i.a., a prescindere, si ripete, dal fatto che questa sia stata presentata oppure no. Secondo una dottrina che giunge alla medesima conclusione, la tesi troverebbe ulteriore conforto nell’art. 37, 6° co., TUE sul rilievo che esso se da un lato stabilisce che non si applicano le sanzioni penali di cui all’at. 44 per il caso di assenza della denuncia di inizio attività o per il caso di difformità, dall’altro prevede che resta salva l’applicazione delle sanzioni di cui agli artt. 31, 33, 34, 35 e 44 in relazione all’intervento realizzato: dovendosi escludere che la norma si riferisca solo ai casi in cui sia stata presentata la d.i.a., a fronte di un intervento soggetto a permesso di costruire, in quanto si tratterebbe di disposizione superflua, sembra preferibile opinare che il legislatore abbia inteso far salva fra l’altro l’ipotesi di concreto contrasto dell’intervento, pur soggetto a d.i.a., con la normativa di riferimento, il che varrebbe a rendere applicabile, in sintonia con quanto fin qui osservato, la sanzione di cui all’art. 44 lett. a) (M. RICCIARELLI, La denuncia di inizio attività tra legge obiettivo e nuovo testo unico dell’edlizia, CP 2004, 3362).

Deve osservarsi, tuttavia, che, per un verso, l’osservazione non giustifica il richiamo agli artt. 31, 33, 34 e 35 TUE e, per altro verso, le ragioni che hanno determinato l’inserimento della norma sono enunciate dallo stesso legislatore delegato in termini che legittimerebbero l’opposta conclusione: si è provveduto a chiarire che, nel caso sia stato realizzato un intervento edilizio, dietro presentazione di denuncia di inizio attività, in assenza dei presupposti per il ricorso a DIA, l’intervento va considerato quale abuso edilizio, in quanto realizzato in assenza di permesso di costruire, e dunque sottoponibile alle sanzioni penali e ripristinatorie previste per i casi di attività edificatoria in assenza di permesso di costruire (Rel. ill. TUE, RGE, 2001, III, 353).

Nonostante questa presa di posizione del “legislatore storico”, la necessità di ricostruire il sistema normativo in chiave “adeguatrice”, vale a dire in linea di continuità con la previgente disciplina, secondo l’interpretazione più sopra richiamata, e la maggior coerenza complessiva del sistema che comunque ne deriva impongono di preferire la conclusione qui sostenuta.

In ultima analisi – come si è più volte messo in luce – la valutazione delle condotte di abuso deve essere distinta a seconda del tipo di “parametro di legalità” che viene in rilievo: se si tratta di verificare le conseguenze della mancata richiesta del titolo (o dell’esecuzione di opere in difformità) sul piano penale rilevano soltanto quelle soggette al regime del permesso di costruire secondo la legge statale (o della d.i.a. alternativa); se, invece, si tratta di verificare la conformità dell’intervento alla disciplina normativa sostanziale urbanistica o edilizia, non importa quale sia il regime di controllo amministrativo previsto (se il permesso di costruire, la s.c.i.a., altro titolo o, al limite, nessun titolo), né importa se, in concreto, il titolo sia stato conseguito: qualsiasi violazione integra gli estremi della norma incriminatrice residuale.

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Questa conclusione – non sempre chiara e, per la verità, poche volte affermata anche in giurisprudenza – avrebbe dovuto condurre già nel vigore della precedente disciplina all’affermazione della responsabilità penale per l’art. 20, lett. a, l. 47/1985 nel caso di interventi soggetti ad autorizzazione e realizzati in difformità dalla disciplina urbanistica sostanziale. Emblematica – e totalmente condivisibile – è la decisione secondo cui qualora l’opera realizzata, costruzione di un muro di contenimento, sia di natura pertinenziale, essa è assoggettabile al regime dell’autorizzazione gratuita e l’eventuale contrasto della stessa con la prescrizione di edilizia locale disciplinante la distanza di confine integra gli estremi della contravvenzione di cui all’art. 20 lett. a) l. 28.2.1985, n. 47, indipendentemente dal fatto che sia stata o meno autorizzata (Cass. Sez. III, 8.10.2003, Airoldi e a., CP, 2004, 3369).

E’ dunque da salutare con favore la pronuncia che, con riguardo alla vigente fattispecie incriminatrice, ha insegnato:

la esecuzione in assenza o in difformità degli interventi subordinati a denuncia di inizio attività (DIA) ex art. 22, commi 1 e 2, d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, allorché non conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia in vigore, comporta l'applicazione della sanzione penale prevista dall'art. 44 lett. a), del citato d.P.R. n. 380, atteso che soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza o difformità dalla DIA, ma conformi alla citata disciplina, è applicabile la sanzione amministrativa prevista dall'art. 37 dello stesso decreto n. 380 del 2001

(Cass. Sez. III, 22.11.2006, Cariello, C.E.D. Rv. 235413).

Sulla stessa scia si è successivamente affermato il principio secondo cui

in tema di reati edilizi, nel caso in cui la denuncia di inizio attività (DIA) si ponga quale titolo abilitativo esclusivo (art. 22, commi primo e secondo, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380), solo l'esecuzione di interventi edilizi in difformità sostanziale da quanto stabilito dagli strumenti urbanistici e dai regolamenti edilizi integra il reato di cui all'art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001

(Cass., Sez. III, 20.1.2009, Tarallo, C.E.D., Rv. 243099)

Per contro, pur se, per la natura dei manufatti – due piazzali di grandi dimensioni a servizio di un’attività commerciale – l’opera appariva riconducibile al regime del permesso di costruire (sicché, per ciò solo, si giustificava la conferma della pronuncia di condanna per il reato previsto dall’art. 44, 1° co., lett. b, TUE adottata dai giudici di merito), non appare invece condivisibile il principio secondo cui

in materia di reati edilizi, il regime dell'attività edilizia libera, ovvero non soggetta ad alcun titolo abilitativo, di cui all'art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, non è applicabile agli interventi che, pur rientrando nelle tipologie di tale disposizione, siano in contrasto con le prescrizioni degli strumenti urbanistici. (Fattispecie di realizzazione di piazzali, da adibire a parcheggio, in area classificata come zona agricola)

(Cass. Sez. III, 27.4.2011, Ferraro, C.E.D. Rv. 250018) Ed invero, per quanto sopra osservato, se l’intervento, per sua ontologica natura, non sia

riconducibile al regime del permesso di costruire e sia eseguibile con s.c.i.a., con comunicazione di inizio lavori a norma dell’art. 6, 2° co., TUE, ovvero, addirittura, rientri nell’attività libera prevista dall’art. 6, 1° co., TUE, l’eventuale non conformità agli strumenti urbanistici o al regolamento edilizio sarà sanzionabile soltanto ai sensi della previsione incriminatrice residuale.

IN SINTESI – Tra le ipotesi che integrano il reato in esame per violazione degli strumenti

urbanistici (o, talvolta, dei regolamenti edilizi) si può annoverare l’apertura (o la prosecuzione) dell’attività estrattiva in cave o torbiere insediate in zone del territorio comunale che, secondo la

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pianificazione, sono incompatibili con quella destinazione. Altra ipotesi di violazione della disciplina urbanistica o regolamentare può darsi nel caso di mutamento funzionale della destinazione d’uso di un edificio (o di un’unità immobiliare) da cui consegua un utilizzo del manufatto incompatibile con quelle prescrizioni. Ancora, secondo un orientamento interpretativo – per vero posto in crisi dalle recenti riforme legislative sul rilascio del permesso di costruire per silenzio-assenso - potrebbero ricondursi alla fattispecie incriminatrice in parola i casi di violazione della disciplina urbanistica e costruttiva sostanziale attuati sulla base di permesso di costruire (o di d.i.a. ad esso alternativa) illegittimo ma non illecito. Da ultimo, sarà riconducibile al reato in esame la trasformazione del territorio operata con s.c.i.a. (od effettuata a norma dell’art. 6 TUE), in violazione della disciplina urbanistica o regolamentare.

2.10 Violazione del titolo edilizio: la parziale difformità e le variazioni essenziali (in zone non vincolate).

L’ultimo dei quattro parametri di legalità che – in caso di “inosservanza

delle norme, prescrizioni e modalità esecutive” integra gli estremi dell’art. 44, 1° co., lett. a, TUE – è quello del permesso di costruire. Poiché l’efficacia autorizzativa del provvedimento si riferisce innanzitutto al progetto dell’opera, il primo (ed il principale) terreno sul quale debbono essere verificate eventuali inosservanze è proprio quello della conformità di quanto eseguito al progetto approvato. Com’è noto, la legislazione urbanistica (dall’entrata in vigore della l. 47/1985) individua tre ipotesi di difformità dell’opera rispetto al progetto in funzione della loro maggiore o minore gravità, cui corrispondono conseguenze sanzionatorie diverse sul piano amministrativo: la totale difformità; la variazione essenziale; la parziale difformità.

L’unica categoria normativamente definita dalla legge statale è quella della totale difformità, che l’art. 32, 1° co., TUE - riproducendo la corrispondente previsione contenuta nella l. 47/1985, che, in omaggio al principio di tassatività, aveva cercato di “codificare” gli orientamenti emersi in giurisprudenza allorquando l’ipotesi non era in alcun modo definita – distingue a seconda che si tratti di totale difformità c.d. qualitativa (<<la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione>>) ovvero di totale difformità c.d. quantitativa (<<l’esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile>>). Quanto alle variazioni essenziali, la loro concreta individuazione è invece rimessa alla legislazione regionale, la quale deve attenersi ai principi indicati nell’art. 32, commi 1 e 2, TUE. Infine, le ipotesi di parziale difformità – in assenza di definizione normativa (cfr. art. 34, 1° co., TUE) - sono enucleate direttamente dall’interprete, in via residuale, rispetto alle altre due categorie. Si deve ancora osservare che la discrezionalità del legislatore regionale nel definire i casi di variazione essenziale è limitata, oltre che dai principi fondamentali dettati dall’art. 32, 1° e 2° co., TUE, dalla nozione che la legge statale dà della difformità totale, ciò che equivale a dire che, ferma restando tale ultima categoria quale ex lege

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dello Stato determinata, il legislatore regionale potrà scegliere nel residuale novero delle minori difformità, ed in conformità ai principi posti, quelle che, apparendo più insidiose, meritano di essere annoverate nella tipologia di gravità intermedia. Come immediatamente si dirà, tuttavia – salva un’ipotesi del tutto marginale - la “gravità intermedia” delle variazioni essenziali (di cui parla, ad es., Cass. Sez. III, 25.1.2005, Guida e a., RP, 2006, 349) spiega effetti soltanto sul piano delle conseguenze sanzionatorie amministrative, essendo invece irrilevante sul piano penale (e non potrebbe essere diversamente se si pensa all’impossibilità per la legislazione regionale di incidere sulla sfera di applicazione del diritto penale, riservata alla potestà legislativa statale: cfr., volendo, G. REYNAUD, cit., 11 ss.). L’affermazione da ultimo riportata necessita di un approfondimento, poiché sembrerebbe smentita dalla lettura delle fattispecie incriminatrici contenute nell’art. 44, 1° co., TUE. Ed invero, in relazione alle violazioni del titolo abilitativo edilizio, la natura sussidiaria dell’ipotesi contenuta nella lett. a della disposizione incriminatrice rispetto a quelle previste dalle successive lett. b e c, suggerisce che saranno ad essa riconducibili le ipotesi di difformità dell’opera realizzata rispetto a quella in progetto che siano diverse dalla difformità totale (punita ai sensi della lett. b della norma incriminatrice) e, nel caso di lavori in zone vincolate, anche dalla variazione essenziale (ipotesi ricondotta, insieme alla mancanza del titolo ed alla totale difformità dal medesimo, alla più grave fattispecie di cui all’art. 44, 1° co., lett. c, TUE). Conviene analizzare distintamente le due situazioni. Laddove non sussistano vincoli, in campo penale le variazioni essenziali sono parificate alla parziale difformità dal titolo e, unitamente a queste ultime, rilevano soltanto ai fini della meno grave ipotesi di cui alla lettera a della disposizione incriminatrice. In sostanza, in quest’ambito rientrano nell’ipotesi criminosa residuale tutte le difformità dal permesso di costruire che non sono riconducibili al concetto di difformità totale quale delineato nell’art. 31, 1° co., TUE, essendo altrimenti applicabile il più grave reato di cui all’art. 44, 1° co., lett. b, TUE.

Il punto è stato chiarito dalla giurisprudenza subito dopo l’entrata in vigore della l. 47/1985, che, discostandosi dalla previgente legislazione – la quale distingueva soltanto tra difformità totali (equiparate alla mancanza di concessione) e altre difformità (che gli interpreti definivano parziali) – introdusse la tripartizione che il testo unico ha mantenuto. Ebbene, la Cassazione ha ritenuto priva di rilievo la circostanza che la nuova disciplina abbia introdotto la figura della variazione essenziale. Invero, una volta stabilito, in base alla nuova legge, quali siano le opere abusive sanzionate penalmente dalla lettera b) dell’art. 20 della l. n. 47 del 1985 e quali le opere non più rilevanti penalmente, tutte le altre opere (ivi comprese quelle in difformità parziale) debbono essere ricondotte – così come era in base alla l. n. 10 del 1977 – sotto il regime della lett. a) dell’art. 20, sicché, in buona sostanza, la menzionata lett. a) disciplina una categoria residuale (Cass. Sez. III, 7.10.1987, Ferfari, CP, 1989, 274)

In caso di esecuzione di opere non conformi al progetto, dunque, il compito dell’interprete è verificare se l’ipotesi sia riconducibile alla nozione di totale difformità, ciò che accade, ricorda la Cassazione,

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quando l’opera realizzata non sia riferibile a quella progettata sotto il profilo tipologico, planovolumetrico o di utilizzazione, ovvero quando sia stato realizzato un distinto corpo di fabbrica, dotato di autonomia funzionale e di considerevole entità in relazione al progetto approvato. Per accertare se la difformità sia invece parziale – categoria residuale e sanzionata dalla lettera a) dell’art. 20 l. 47/1985 – il giudice deve svolgere un preciso raffronto tra l’opera ipotizzata e quella eseguita. A tal fine nella motivazione della sentenza dovrà dare conto degli accertamenti compiuti e dei risultati conseguiti attraverso il suddetto confronto (Cass. Sez. III, 8.11.1991, Riva e a., CP, 1993, 1527).

Deve essere chiaro, peraltro, che se l’opera eseguita in difformità dal permesso di costruire, considerata in sé e per sé, sarebbe assentibile con mera d.i.a., ciò non elimina la rilevanza penale dell’abuso. Lo ha precisato una più recente decisione di legittimità, chiarendo che alle opere edilizie eseguite in difformità dal progetto assentito con permesso di costruire non si applicano le disposizioni di cui all’art. 4, 7° co., della l. 4.12.1993, n. 493 e all’art. 1, comma 6° lett. a), della l. 21.12.2001, n. 443 (che prevedono la semplice denuncia di inizio attività in alternativa al permesso di costruire), atteso che tali disposizioni si riferiscono a interventi autonomi e non alle difformità, in relazione alle quali viene integrato il reato di cui all’art. 44, 1° co., lett. a) (Cass. Sez. III, 9.12.2004, Iacoponelli, RP, 2006, 103).

Venendo ora agli abusi commessi in zone sottoposte a vincolo, si è visto come l’art. 44, 1° co., lett. c, TUE conferisca alle variazioni essenziali una maggiore gravità anche sul piano delle conseguenze penali, equiparandole alle ipotesi di difformità totale, sicché sembrerebbe qui rilevante individuare i confini anche della categoria “intermedia” guardando alla definizione in concreto fattane nelle legislazioni regionali. A ben vedere, tuttavia, non è così. Di fatti, le classificazioni ordinarie delle ipotesi di difformità dal titolo edilizio subiscono una metamorfosi se applicate agli abusi commessi in zone vincolate, posto che l’art. 32 TUE - dopo aver delineato nei primi due commi i principi fondamentali cui debbono attenersi le Regioni nell’individuare i casi di variazione essenziale - prosegue disponendo che

gli interventi di cui al comma 1, effettuati su immobili sottoposti a vincolo storico, artistico, architettonico, archeologico, paesistico ed ambientale, nonché su immobili ricadenti sui parchi o in aree protette nazionali e regionali, sono considerati in totale difformità dal permesso, ai sensi e per gli effetti degli artt. 31 e 44. Tutti gli altri interventi sui medesimi immobili sono considerati variazioni essenziali

(art. 32, 3° co., TUE) La disposizione, apparentemente contorta – e obiettivamente tale,

quanto al problema di cui tra breve si dirà - ha, in realtà, un significato di estrema semplicità, se letta in funzione dell’applicazione della norma incriminatrice di cui all’art. 44, 1° co., lett. c, TUE. Dal combinato disposto delle due previsioni, in sostanza, si ricava che: le divergenze dal titolo edilizio che formalmente sono da qualificarsi come variazioni essenziali si considerano in realtà quali totali difformità, sicché non rileva distinguerle da quelle di cui all’art. 31, 1° co., TUE; tutte le divergenze dal titolo diverse da queste, vale a dire quelle che normalmente sono semplici difformità parziali, sono considerate ai fini penali come variazioni essenziali. Detto in termini ancora più semplici, poiché integrano gli estremi del reato di abuso edilizio in zone vincolate tutte le divergenze dal titolo che sono (considerate come) difformità totali e tutte quelle che sono (considerate come) variazioni essenziali, ne deriva che qualsiasi difformità dal titolo edilizio è punita ai sensi dell’art. 44, 1° co., lett. c, TUE. Per gli interventi eseguiti in zone vincolate, nel caso in cui l’opera eseguita sia difforme da quella autorizzata con il permesso di costruire (o con la d.i.a. ad esso equipollente), non c’è spazio per

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l’applicazione della meno grave fattispecie di cui alla lettera a della norma incriminatrice: ogni divergenza dal progetto, anche se di minima rilevanza, costituisce abuso punito con la sanzione più elevata che la disciplina dei reati urbanistici contempla (la conclusione è affermata – sia pure come obiter dictum - da Cass., sez. III, 23-5-1997, Ciotti e a., RGE, 1998, 1053. Per qualche applicazione in sede di merito: P. Frosinone – sez. Anagni, 15-7-1993, Miaci e a., CP, 1994, 1097; P. Belluno – sez. Pieve di Cadore, 12-11-1993, Mercuri e a., GM, 1996, 308.).

La disposizione contenuta nell’art. 32, 3° co., TUE, tuttavia, sembra avere un campo di applicazione più ampio di quello proprio dell’art. 44, 1° co., lett. c, TUE. Il rilievo non concerne il fatto che quest’ultima, a differenza della prima, non menziona il vincolo architettonico, poiché – salvo errori o dimenticanze – la locuzione non ha precisi riferimenti normativi a determinate categorie di beni e ben può rientrare, quale species, nel genus del vincolo artistico. Ci si riferisce, invece, alla circostanza che, diversamente da quanto previsto nella norma incriminatrice, la previsione di cui all’art. 32, 3° co., TUE abbraccia anche quei singoli edifici soggetti a vincolo che non si trovino in zone (a loro volta) vincolate. Ciò significa che se un intervento eseguito in variazione essenziale dal titolo su un edificio (vincolato o non vincolato) ubicato in zona soggetta a vincolo sarà riconducibile alla più grave ipotesi criminosa di cui alla lettera c della disposizione incriminatrice, la stessa condotta commessa con riguardo ai soli edifici soggetti a vincolo che non ricadano in zone vincolate sarà punita ai sensi della lettera b. Con riguardo alle variazioni essenziali, dunque, il trattamento sanzionatorio sarà sì aggravato in questi casi, ma solo nel senso che verrà in rilievo la contravvenzione di cui alla lettera b anziché quella di cui alla lettera a dell’art. 44, 1° co., TUE.

2.10.1 Casistica e ulteriori ipotesi di inosservanza delle prescrizioni contenute nel titolo.

Quanto alla (non vasta) casistica edita in relazione alla fattispecie

incriminatrice in parola, può osservarsi che sono state ritenute quali ipotesi di difformità parziale situazioni di <<localizzazione di un fabbricato in luogo diverso da quello indicato nel progetto assentito dall’autorità comunale>> (Cass. Sez. III, 19.9.2003, Casà, CP, 2005, 1377) e variazioni dell’altezza del tetto e del sottotetto quando <<il progetto di ristrutturazione sottoposto all’esame della Commissione edilizia non corrispondeva integralmente con le dimensioni degli interventi edilizi effettivamente realizzati e registrati in sede di sopralluogo, almeno per una quota di 40 centimetri>> (Pret. Rieti, 22.1.1998, Borgia e a., RGE, 1999, I, 1433). Ancora, sono state ricondotte al concetto in esame le opere – effettuate nel corso di una ristrutturazione – consistite nella demolizione e ricostruzione di muri perimetrali con conseguente modifica delle unità immobiliari,nonché di quelle effettuate in violazione delle prescrizioni particolari contenute nella originaria concessione

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(Cass. Sez. III, 18.3.1999, Ferruci e a., RP, 1999, 1016).

Per contro, si è esclusa ogni rilevanza penale a minime difformità, come nel caso in cui <<il muro della costruzione, casa di civile abitazione, era stato posizionato sul terreno non in linea perfettamente parallela rispetto al confine del fondo, sì che ad un’estremità risultava distante dal confine stesso metri 4,95 e non 5 come prescritto nella concessione dell’opera>> (Pret. Abbiategrasso 15.4.1993, Pintonello, GM, 1994, II, 942). Nel caso di specie, il giudice di merito ha ritenuto che il fatto non potesse ritenersi “tipico” perché non lesivo dell’interesse protetto dalla fattispecie incriminatrice. Rileva il pretore che questa ha un contenuto estremamente generico prestandosi ad una pluralità di applicazioni con conseguente necessità di un’interpretazione rigorosa ancorata, oltre al criterio letterale, anche a quello di necessaria offensività dell’illecito penale, se non altro per evitarne un’utilizzazione incostituzionale perché in contrasto con il principio di offensività. Il reato può dirsi integrato da qualsiasi attività di trasformazione urbanistica che abbia comportato lesione dell’interesse protetto mediante violazione nella concessione edilizia. La previsione di tale ipotesi residuale di reato, che raccoglie tutte le condotte che non rientrano nelle fattispecie più gravi di cui alle lettere successive dello stesso articolo, estende al massimo la tutela dell’interesse urbanistico, interesse tutelato che deve sempre esser tenuto presente ai fini dell’individuazione, sia in astratto che in concreto, della condotta punibile. I fatti che rientrano nella formula della legge, presa alla lettera, sono tantissimi e vari ed è fuori dubbio che non tutti meritano di essere assoggettati ad una pena. Solo quelle condotte che si concretano in un danno o in un pericolo di danno per l’oggetto giuridico del reato giustificano l’applicazione di una sanzione punitiva. Da questa considerazione deriva l’impunità per tutte quelle difformità minime ed assolutamente innocue dell’opera realizzata rispetto alle prescrizioni della concessione o degli strumenti urbanistici. Condotte di questo genere, infatti, non sono idonee a ledere né la funzione pubblica di gestione del territorio né soprattutto il bene dell’ordinato assetto del territorio e dell’ambiente (Pret. Abbiategrasso 15.4.1993, Pintonello, GM, 1994, 942).

In linea generale, occorre precisare che compete senza dubbio al giudice penale il potere di verificare, in concreto, se vi sia stata o meno difformità dal progetto, non essendo questi vincolato all’esito degli accertamenti eseguiti in sede amministrativa. Ed invero, ha osservato la Cassazione, il giudice accerta con competenza autonoma tutte le componenti dell’illecito penale previsto dalla legge urbanistica e, quindi, tutti gli elementi di fatto e di diritto che compongono le fattispecie criminose descritte nell’art. 20 legge n. 47 del 1985. Rientra, quindi, nei poteri giurisdizionali la determinazione del criterio di calcolo del livello dell’edificio, se dal livello di strada o di campagna, che riguarda la rilevazione dell’elemento di fatto da confrontare con la fattispecie astratta prevista dalla norma (Cass. Sez. III, 25.5.2000, Petrecca, RGE, 2001, I, 763).

Un’ulteriore ipotesi di reato ascrivibile alla categoria in parola può riguardare le violazioni del permesso di costruire in relazione alla destinazione d’uso di singoli locali dell’organismo edilizio. Se la modifica di destinazione d’uso dell’intero organismo edilizio realizzata mediante opere conferisce all’edificio una diversa utilizzazione che rileva quale difformità totale ai sensi dell’art. 32, 1° co., TUE, le divergenze rispetto al progetto finalizzate a modificare la destinazione di alcune porzioni soltanto dell’edificio – o di talune unità immobiliari di un grande complesso - possono rilevare quali difformità parziali. Si pensi, per fare un esempio che spesso ricorre nella pratica – ma che non sempre viene correttamente inquadrato - alla destinazione abitativa di locali che, in progetto, sono indicati come “di sgombero” o, comunque, non abitabili (soffitte, piani interrati, ripostigli), ovvero alla realizzazione di maggiori volumi, in progetto non contemplati, che non rivestano, per scarsa consistenza e/o difetto di specifica rilevanza, gli estremi della figura della totale difformità

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(si pensi ad una veranda ottenuta con la abusiva chiusura di un balcone o di una terrazza nel contesto di più ampie opere di ristrutturazione o edificazione ex novo). A quest’ultimo proposito, ad es., in un caso in cui, in difformità dalla concessione edilizia, erano state tamponate con strutture in metallo e vetro due terrazze, la Cassazione, dapprima, ha affermato il principio giusta il quale qualora siano realizzate opere oltre i limiti volumetrici (di questi la presente decisione si occupa) previsti in progetto e purché non sia posto in essere un corpo autonomo di notevole rilevanza (altrimenti si ricade nella totale difformità), non trova più applicazione la lett. b) dell’art. 20, ma la lett. a), perché vengono violate le modalità esecutive della concessione (Cass. Sez. III, 19.5.1986, Borgatti, CP, 1987, 1223);

da ciò ha poi tratto la conclusione che la realizzazione abusiva di verande oltre i limiti della concessione non è in totale difformità, quando, pur comportando la creazione di un corpo autonomo non abbia una rilevanza specifica. In tal caso è sempre configurabile una parziale difformità, punibile ai sensi dell’art. 20 lett. a). Nella specie l’imputata dovrà pertanto essere nuovamente giudicata per la contravvenzione della violazione delle modalità esecutive della concessione (Cass. Sez. III, 19.5.1986, Borgatti, CP, 1987, 1223).

Al di là delle difformità rispetto al progetto, l’art. 44, 1° co., lett. a, TUE può trovare applicazione anche in qualche altro, limitato, caso di violazione del permesso di costruire. Potrebbe, ad es., farsi l’ipotesi di opere strutturali realizzate in conformità al progetto ma alle quali sia conseguita una destinazione d’uso del manufatto – o di una unità del medesimo – diversa da quella prevista nel permesso di costruire. Secondo l’interpretazione preferibile dell’art. 32, comma 1, lett. a, TUE, laddove la modificazione implichi variazione degli standards previsti dal d.m. 2.4.1968, n. 1444, l’ipotesi rientra nella categoria delle variazioni essenziali. Ove questa condizione non ricorra, ma vi sia pur sempre modificazione meramente formale di destinazione d’uso (si pensi al caso dell’utilizzo per fini abitativi di locali di sgombero), la condotta potrà comunque rilevare quale parziale difformità. In questi casi deve tuttavia porsi il problema della punibilità di condotte che intervengano a distanza di tempo dall’ultimazione dei lavori assentiti con il permesso di costruire (sul punto si tornerà nel §. 13).

Vi sono, poi, ipotesi di violazione di certe prescrizioni del permesso di costruire non direttamente afferenti al progetto dell’opera. A parte l’omessa esposizione del cartello di cantiere nel caso in cui il permesso eventualmente ribadisca tale obbligo – che parte della giurisprudenza ritiene necessario ai fini dell’integrazione del reato (cfr. Cass. Sez. III, 28.6.1994, Gotti, RP, 1995, 1493; CP, 1996, 1591 e quanto osservato supra, §. 4.2.) ma che, a nostro avviso, già è sanzionabile quale violazione dell’art. 27, 4° co, TUE – in giurisprudenza si sono talvolta esaminati casi relativi alla violazione delle prescrizioni imposte circa le modalità di recinzione del cantiere. Ritenendo che la protezione del territorio coinvolga una molteplicità di interessi giuridicamente rilevanti, quali la diversificazione funzionale delle aree, le comunicazioni interne ed esterne anche con riferimento all’afflusso della popolazione, la conservazione di ambiti determinati, la direzione dello sviluppo urbano, l’armonia delle linee architettoniche, la funzionalità tecnica e la sicurezza, l’igiene, le esigenze paesaggistiche (Pret. Putignano 19.4.1989, Masi e a., GM, 1991, III, 181),

sicché, nel rilasciare il provvedimento abilitativo all’edificazione, il comune dovrebbe tenere conto di tutti gli interessi in questione, il giudice ha ritenuto

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sanzionabile ai sensi della contravvenzione in esame la violazione della prescrizione relativa alla predisposizione attorno al cantiere di una recinzione con le peculiari caratteristiche puntualizzate in rubrica (che) aveva la finalità (data la sua prefissata altezza di m. 2,50) di evitare in modo assoluto l’eventuale introduzione di estranei all’interno del cantiere edile de quo, caratterizzato da uno sbancamento di notevole ampiezza e profondità (Pret. Putignano 19.4.1989, Masi e a., GM, 1991, III, 181). Con riguardo alla violazione di questo tipo di prescrizioni, tuttavia, il problema interpretativo che si pone è quello di verificare se l’interpretazione finalistica della norma incriminatrice residuale rispetto al suo oggetto di tutela penale consenta oppure no di ricondurvi inosservanze che non attengono al profilo della trasformazione del territorio (v. quanto osservato supra, sub §. 3)

2.11 Violazione delle prescrizioni contenute nella d.i.a alternativa al permesso di costruire.

Tra i parametri di legalità dell’attività di trasformazione urbanistica ed

edilizia del suolo, l’art. 44, 1° co., lett. a, TUE non menziona anche le indicazioni contenute nella denuncia di inizio attività. Ciò non desta sorpresa, se si tiene conto, da un lato, della tecnica normativa utilizzata in tutte e tre le disposizioni penali – le quali considerano soltanto gli abusi relativi ad opere assentibili con il permesso di costruire - e, d’altro lato, del principio generale circa l’irrilevanza penale delle violazioni relative ad opere soggette al regime della d.i.a. (sancito dall’art. 37, 6° co., TUE e non riferibile, come si è visto, al caso di difformità dalla disciplina urbanistica e normativa sostanziale). Questo principio, tuttavia, vale soltanto per gli interventi suscettibili d’essere realizzati con il titolo abilitativo semplificato (oggi denominato s.c.i.a.) sulla base delle regole generali poste dalla legge statale, come si ricava, tra l’altro, dal fatto che l’art. 37 TUE delimita il proprio campo di operatività con riguardo agli <<interventi edilizi di cui all’art. 22, commi 1 e 2, in assenza della o in difformità dalla denuncia di inizio attività>> (art. 37, 1° co., TUE). L’inciso da noi riportato in corsivo è stato aggiunto dall’art. 1, 1° co., lett. n, d.lg. 27.12.2002, n. 301, che, in attuazione della delega contenuta nella legge obiettivo, ha adeguato il testo unico alla disciplina sulla c.d. “super-d.i.a.” introdotta da questa legge nell’ordinamento. Com’è noto, in taluni casi – indicati nell’art. 22, 3° co., TUE – è possibile, a scelta dell’interessato, eseguire con d.i.a. alternativa al permesso di costruire taluni interventi di regola assoggettati a quest’ultimo regime. Quest’innovazione (come pure quella che consente alle Regioni di ampliare ulteriormente tale categoria, a norma dell’art. 22, 4° co., TUE) ha effetto soltanto sul piano procedurale, nel senso che si consente l’utilizzo dell’iter amministrativo semplificato, mentre nulla muta sul piano sostanziale, e sanzionatorio in particolare: nel caso di abusi, saranno applicabili le stesse sanzioni amministrative e penali previste per gli interventi assoggettati al permesso di costruire (quali, in ultima analisi, sono e restano quelli in esame).

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Il decreto delegato emanato in attuazione della legge obiettivo, per vero, ha esplicitato in modo chiarissimo e corretto il principio appena affermato quanto alle sanzioni amministrative, ma lo ha malamente espresso nell’art. 44, comma 2-bis, TUE con riguardo alle sanzioni penali. Sul piano amministrativo, mentre il regime dell’irrilevanza penale degli abusi relativi agli interventi effettuati con d.i.a. (oggi s.c.i.a.) è stato limitato ai casi disciplinati nell’art. 22, commi 1 e 2, TUE con la segnalata interpolazione dell’art. 37, 1° co., TUE, nelle disposizioni che prevedono le sanzioni amministrative per gli illeciti connessi ad opere soggette al permesso di costruire è stato aggiunto un ultimo capoverso che estende la relativa disciplina ai casi in cui si sia proceduto con d.i.a. ai sensi dell’art. 22, 3° co., TUE (cfr. artt. 31, comma 9-bis, 33, comma 6-bis, 34, comma 2-bis, 35, comma 3-bis, TUE). Più in generale, il regime dettato per il permesso di costruire è stato esteso alla d.i.a. ad esso alternativa in tutti i settori rilevanti sul piano amministrativo, dall’accertamento di conformità (art. 36, comma 1, TUE), all’annullamento del titolo (artt. 38, comma 2-bis, e 39, comma 5-bis, TUE), all’adozione dei provvedimenti cautelari o ripristinatori (art. 40, comma 4-bis, TUE), e pure con riguardo alle c.d. “sanzioni civili” dettate a contrasto dell’abusivismo edilizio (cfr. artt. 46, comma 5-bis, e 48, comma 3-bis, TUE). A fronte di questa chiara opzione legislativa, appare dunque una mera “svista” del legislatore delegato del 2002 quella compiuta nel dettare la clausola di estensione delle conseguenze sanzionatorie penali previste per gli abusi connessi ad interventi soggetti al permesso di costruire ai casi di abuso realizzati in un contesto di scelta della d.i.a. quale titolo abilitativo alternativo ai sensi dell’art. 22, comma 3, TUE. La formulazione letterale dell’art. 44, comma 2-bis, TUE, infatti, realizza l’estensione soltanto con riguardo ai casi di lavori eseguiti in mancanza o totale difformità dal titolo e non fa menzione delle ipotesi di variazione essenziale o parziale difformità. Non potendo ritenersi che si sia trattato di una scelta intenzionale – ciò che, peraltro, aprirebbe la via ad una ben fondata questione di legittimità costituzionale per violazione della legge-delega e per irrazionalità del sistema (dovendosi evidentemente far discendere le stesse conseguenze nel caso di violazione del progetto, indipendentemente dal titolo abilitativo che l’interessato abbia scelto di adottare) - ed essendo possibile operare una un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata, deve dunque ritenersi che la richiamata disposizione, pur malamente formulata, equipari le situazioni di abuso realizzate con d.i.a. alternativa al permesso a quelle riferite a quest’ultimo anche in relazione alle variazioni essenziali e alla parziale difformità.

In una non recente decisione, tuttavia, la Cassazione è andata in contrario avviso, escludendo la rilevanza penale di opere eseguite in parziale difformità rispetto alla d.i.a. alternativa al permesso di costruire ed affermando il seguente principio di diritto: in caso di ristrutturazione edilizia, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d), D.P.R. 6.6.2001, n. 380, realizzabile con denunzia di inizio attività alternativa al permesso di costruire, ex, art. 22, comma 3, del citato D.P.R.n. 380 del 2001, le sanzioni di cui all’art. 44 dello stesso D.P.R. sono applicabili soltanto in caso di assenza o totale

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difformità dalla d.i.a., atteso che l’esclusione dell’ipotesi di parziale difformità dal regime sanzionatorio opera sia in caso di edificazione con permesso di costruire che nella diversa ipotesi di opzione per la d.i.a. (Cass. Sez. III, 23.9.2004, Croattini, GP 2006, II,56).

Leggendo la stringata motivazione della sentenza – emessa in sede di impugnazione di provvedimento cautelare - se ne comprende meglio la ratio decidendi e se ne può apprezzare la portata letteralmente dirompente. Poiché l’art. 44, comma 2-bis, TUE – osserva la Corte – prevede la tutela penale soltanto per le ipotesi di assenza e totale difformità dalla d.i.a. alternativa al permesso di costruire la previsione deve essere interpretata, per non creare una ingiustificata ed irrazionale disparità di trattamento, nel senso che la limitazione è operante sia nel caso in cui l’agente abbia optato per la denuncia di inizio attività sia ne lcaso in cui abbia scelto di edificare con permesso di costruire (Cass. Sez. III, 23.9.2004, GP 2006, II, 56).

Il ragionamento – il cui unico pregio è di operare un’interpretazione in bonam partem – rompe tuttavia la già segnalata armonia del sistema sanzionatorio che lo stesso legislatore ha evidentemente inteso delineare (si noti, con particolare riguardo ai casi di lavori eseguiti in parziale difformità dalla d.i.a. alternativa al permesso, la previsione di cui all’art. 34, comma 2-bis, TUE). Inoltre, la Corte non si avvede che una sostanziale depenalizzazione come quella che deriva dal principio di diritto da essa affermato non era in alcun modo consentita al legislatore delegato che ha (in questo caso, malamente) attuato i principi indicati nella legge-obiettivo, sicché, se questa interpretazione dovesse prevalere, la disposizione dovrebbe essere sottoposta allo scrutinio di legittimità costituzionale (per entrambi questi rilievi, v. già L. BISORI, La parziale difformità dalla <<superDia>> non integra reato, in UA 2005, 239 s., il quale giustamente osserva come la conclusione determina una lacuna di tutela ancor più ampia e clamorosa con riguardo agli interventi eseguiti in variazione essenziale dal titolo nella aree vincolate). Il principio di diritto circa l’irrilevanza penale delle opere eseguite in parziale difformità dalla d.i.a. alternativa a permesso di costruire è tuttavia stato richiamato – sia pur come obiter dictum – in una più recente decisione

nel caso in cui la DIA si ponga quale titolo abilitativo alternativo al permesso di costruire (cosiddetto superDIA: art. 22, comma terzo, d.P.R. citato) è configurabile il reato di cui all'art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, sia nel caso di assenza del permesso di costruire o della DIA, sia nel caso di difformità totale delle opere eseguite rispetto alla DIA presentata, restando priva di sanzione penale la sola difformità parziale

(Cass., Sez. III, 20.1.1999, Tarallo, C.E.D., Rv. 243099). Per quanto argomentato, appare auspicabile una rivisitazione di questo

indirizzo interpretativo, dal quale la Suprema Corte si era peraltro distaccata in una precedente pronuncia nella quale – in modo del tutto condivisibile – si era osservato che se è vero che le pene sono limitate testualmente dall’art. 44 comma 2-bis T.U.ED., alla sola esecuzione in totale difformità ed in assenza della d.i.a., tralasciando la difformità parziale, le variazioni essenziali e le violazioni alle prescrizioni ed al regolamento edilizio, un’esegesi sistematica della disposizione con riferimento alla richiesta conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente, stabilita per la c.d. d.i.a. semplice induce a ritenere, a parere del collegio, estesa anche alla c.d. super d.i.a. la previsione dell’art. 44 lett. a) T.U.ED. in modo da rendere detta disparità di trattamento apparente, tanto più che tutta la disciplina sanzionatoria amministrativa è equiparata alle ipotesi di esecuzione degli interventi in assenza, in totale e parziale difformità dal permesso di costruire e che l’art. 44 comma 2-bis richiama <<le disposizioni del presente articolo>> (Cass. Sez. III, 26.11.2003, Selva e a., RGE, I, 856 s.).

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E’ dunque preferibile ritenere – anche in omaggio all’interpretazione adeguatrice - che risponderà della contravvenzione prevista dall’art. 44, 1° co., lett. a, TUE, chi, violando le modalità esecutive previste nel progetto allegato alla d.i.a. presentata ai sensi dell’art. 22, 3° co., TUE – ovvero ai sensi delle leggi regionali che estendano l’area dell’alternatività tra permesso e d.i.a., giusta la previsione dell’art. 22, 4° co., TUE, la quale, non distinguendo tra le diverse ipotesi di abuso, ulteriormente conforta la conclusione – esegua opere parzialmente difformi o in variazione essenziale rispetto a quelle formalmente dichiarate. Per contro, non saranno invece penalmente rilevanti analoghe violazioni del progetto approvato con permesso di costruire che le Regioni reputino necessario nei casi in cui la legge statale prevede la sola d.i.a. (oggi s.c.i.a.) o che l’interessato abbia deciso di presentare quale alternativa a quest’ultima ai sensi dell’art. 22, 7° co., TUE: in entrambi i casi l’unico regime sanzionatorio applicabile sarà quello amministrativo previsto dall’art. 37 del testo unico (cfr. art. 10. 3° co., e 22, 7° co., TUE).

Nei casi di denuncia di inizio attività alternativa al permesso di costruire le ipotesi di rilevanza penale sembrano tuttavia ridursi a quelle segnalate. In particolare, non sembrano configurabili ulteriori inosservanze della d.i.a. suscettibili d’essere penalmente sanzionate, anche perché la parificazione di trattamento di situazioni eguali, indipendentemente dall’iter amministrativo prescelto per ottenere il titolo abilitativo, suggerisce di escludere la possibilità di sanzionare violazioni tipiche della d.i.a. e non riscontrabili nel permesso di costruire (si pensi, ad es., all’affidamento dei lavori ad impresa diversa da quella indicata in denuncia). Per contro, essendo la d.i.a. un atto privato, essa non potrà contenere “prescrizioni” della p.a. suscettibili d’essere sanzionate in caso di inosservanza, sicché, da questo angolo visuale, chi opti per l’esecuzione con la denuncia di un intervento di regola assoggettato al permesso di costruire riduce potenzialmente ab origine il rischio di incorrere in sanzione penale per il reato di cui all’art. 44, 1° co., lett. a, TUE.

2.12 Violazione delle prescrizioni (con finalità urbanistica) contenute nei provvedimenti equipollenti al permesso di costruire: l’autorizzazione all’installazione di impianti di comunicazioni elettroniche.

Nell’ottica di semplificazione procedurale che ha connotato l’azione

legislativa dell’ultimo decennio, in alcuni settori, talvolta anche per adeguare la disciplina nazionale a fonti comunitarie, si è assistito allo “inglobamento” del permesso di costruire in un più ampio provvedimento di autorizzazione adottato all’esito di una conferenza di servizi nell’ambito della quale l’intervento viene assentito dopo essere stato valutato, dalle pp.aa. competenti, alla luce delle diverse normative di settore che vengono in rilievo. In siffatti casi, dopo alcune iniziali incertezze, la Corte di cassazione sembra avere oramai assunto un orientamento consolidato nel senso di ritenere che al provvedimento

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delineato dalla normativa speciale non può affiancarsi il permesso di costruire e che il primo “tiene luogo” (anche) del secondo sicché, laddove necessario, la sua mancanza integra gli estremi del reato previsto dall’art. 44, 1° co., lett. b, TUE.

E’ quanto accaduto in materia di installazione di infrastrutture di telecomunicazioni, la cui disciplina – originariamente dettata dal d.lgs. 4.9.2002, n. 198 (c.d. “decreto Gasparri”), emanato in forza della delega inserita nella c.d. legge obiettivo (l. 443/2001) e poi dichiarato costituzionalmente illegittimo per eccesso di delega (Corte cost. 1.10.2003, n. 303, CorG, 2004, 40) - è oggi contenuta nel d.lgs. 1.8.2003, n. 259, c.d. Codice delle comunicazioni elettroniche. La posizione della Cassazione sul punto è stata espressa in due pronunce “gemelle”, emesse alla metà del 2005 nella stessa camera di consiglio, che val la pena qui ricordare anche per l’importanza “metodologica” che il ragionamento assume rispetto alla concreta possibilità di riproporlo in analoghe fattispecie: secondo un orientamento interpretativo (condiviso dal T.A.R. Veneto, sez. II, 8.1.2004, n. 1), anche a fronte delle disposizioni introdotte dal Codice delle comunicazioni elettroniche, persisterebbe la necessità di un distinto ed autonomo titolo abilitativo edilizio e ciò essenzialmente perché:

- l’art. 86 del D.Lgs. n. 259/2003 assimila espressamente (come si è detto dianzi) le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, di cui ai successivi artt. 87 e 88, alle opere di urbanizzazione primaria, alle quali deve applicarsi <<la normativa vigente in materia>>, e, quindi, anche l’art. 3 del T.U. n. 380/2001;

- lo stesso D.Lgs. n. 259/2003 (a differenza del D.Lgs. n. 198/2002) non contiene una <<clausola di esclusività>>, rivolta a consentire la realizzabilità delle infrastrutture in esso contemplate sulla sola base delle procedure definite dallo stesso Codice; esso non contiene, inoltre, previsioni modificatrici del T.U. dell’edilizia.

Esclusa la teoria più radicale, secondo la quale la verifica edilizia dovrebbe considerarsi superflua, stante la mancata menzione espressa dei profili edilizi nel Codice delle telecomunicazioni, un altro orientamento, assolutamente prevalente nella giurisprudenza amministrativa, riconosce invece (sia pure con argomentazioni non sempre coincidenti) carattere omnicomprensivo all’autorizzazione prevista dal D.Lgs. n. 259/2003, esteso a tutti i profili connessi alla realizzazione ed all’attivazione degli impianti di telefonia cellulare inclusi quelli urbanistiici ed edilizi (…) Tale orientamento – fatto proprio dal Consiglio di Stato, Sez. VI, con le recenti decisioni 11.1.2005, n. 100 e 22.10.2004, n. 6910 (dopo le contrarie decisioni 26.9.2003, n. 5502 e 18.5.2004, n. 3193) vine condiviso da questo Collegio (in senso contrario vedi Cass. Sez. III, 1.12.2003, n. 46172, Gro, ove si omette, però, di valutare la normativa introdotta dal D.Lgs. n. 259/2003) (Cass. Sez. III, 8.7.2005, Vodafone Omnitel, GI, 2006, 1030; Cass. Sez. III, 8.7.2005, Vodafone Omnitel, GI, 2006, 1265. Quest’ultima decisione è pubblicata anche in RP, 2005, 1336).

A sostegno della conclusione la Corte adduce innanzitutto la ratio di semplificazione e concentrazione dei procedimenti amministrativi volti al rilascio dell’autorizzazione per l’installazione di infrastrutture di comunicazione elettronica, espressamente indicata nella legge-delega in attuazione di direttive europee, che resterebbe vanificata <<qualora al procedimento di autorizzazione disciplinato dal D.Lgs. n. 259/2003 dovesse aggiungersi quello previsto dal T.U. dell’edilizia, peraltro non coordinato sotto il profilo temporale>> (Cass. Sez. III, 8.7.2005, Vodafone Omnitel, GI, 2006, 1030; Cass. Sez. III, 8.7.2005, Vodafone Omnitel, GI, 2006, 1265). In secondo luogo, la procedura delineata dall’art. 87 del D.Lgs. n. 259/2003 ben si concilia con la valutazione anche della compatibilità urbanistico-edilizia dell’intervento, in quanto:

- può essere finalizzata ad approfondire tali aspetti la previsione del 5° comma, secondo la quale il responsabile del procedimento può richiedere, per una sola volta, entro 15 giorni dalla ricezione dell’istanza, l’integrazione della documentazione prodotta;

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- i commi 6 e 7 prevedono il ricorso ad una <<conferenza di servizi>>, che deve essere convocata dal responsabile del procedimento in caso di motivato dissenso espresso da un’Amministrazione interessata e l’approvazione intervenuta all’esito della conferenza, adottata a maggioranza dei presenti, <<sostituisce ad ogni effetto gli atti di competenza delle singole Amministrazioni e vale alatresì come dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dei lavori>>

(Cass. Sez. III, 8.7.2005, Vodafone Omnitel, GI, 2006, 1030; Cass. Sez. III, 8.7.2005, Vodafone Omnitel, GI, 2006, 1265).

La Corte trae dunque le seguenti conclusioni: l’individuazione di un’autorizzazione unitaria, rilasciata dal Comune con l’intervento delle Amministrazioni portatrici degli altri interessi pubblici coinvolti, porta razionalmente a ritenere che nel procedimento di autorizzazione debbano confluire tutti i procedimenti in precedenza autonomi, necessari per la compiuta valutazione degli interessi sottesi all’atto che autorizza già la <<installazione>>, e non la sola attivazione, dell’impianto (una paritcolare disciplinaè comunque prevista ne lcaso di motivato dissenso espresso da un’Amministrazione preposta alla tutela ambientale, alla tutela della salute o alla tutela del patrimonio storico-artistico). Le singole valutazioni, che in precedenza erano autonome, non sono eliminate ma unificate sul piano procedimentale e di esse deve essere dato conto in sede di motivazione del provvedimento finale (Cass. Sez. III, 8.7.2005, Vodafone Omnitel, GI, 2006, 1030 s.; Cass. Sez. III, 8.7.2005, Vodafone Omnitel, GI, 2006, 1265).

Negando forza dirimente al principale argomento addotto dai sostenitori della tesi contraria, la Cassazione osserva che In una situazione siffatta non può riconoscersi, allora, rilevanza assorbente alla mancata riproduzione, nel testo del D.Lgs. n. 259/2003, di una <<clausola di esclusività>>. E’ vero, altresì, che l’art. 41, comma 2, lett. d) della legge delega n. 166/2002 impone formalmente la <<abrogazione espressa>> di tutte le norme incompatibili. L’art. 87 del D.Lgs. n. 259/2003, però, non esclude che gli impianti in esso previsti debbano considerarsi <<nuova costruzione>>, ai sensi dell’art. 3 (lettere e.2 ed e.4) del T.U. n. 380/2001 e pone una deroga esclusivamente procedimentale alle generali previsioni dell’art. 10 dello stesso T.U., in quanto non mette in discussione la necessità di una valutazione dell’intervento alla stregua della vigente normativa urbanistico-edilizia e delle prescrizioni degli strumenti di pianificazione (Cass. Sez. III, 8.7.2005, Vodafone Omnitel, GI, 2006, 1031; Cass. Sez. III, 8.7.2005, Vodafone Omnitel, GI, 2006, 1265 s.).

In sostanza, per la Suprema Corte, l’installazione delle infrastrutture di comunicazione elettronica costituisce pur sempre un intervento di nuova costruzione soggetto al regime sostanziale del permesso di costruire, anche, si badi, se si tratti di impianti “con potenza in singola antenna uguale o inferiore ai 20 Watt”, poiché per questi <<la denunzia di inizio attività, prevista dall’art. 87 3° comma – ultima parte, del D.Lgs. n. 259/2003 (…) non è quella disciplinata dagli artt. 22 e 23 del T.U. n. 380/2001, ma va ricondotta al modello generale di cui all’art. 19 della legge n. 241/1990, come modificato, da ultimo, dall’art. 3, comma 1, del D.L. 14.3.2005, n. 35, convertito nella legge 14.5.2005, n. 80. Nel relativo procedimento, tuttavia, dovranno essere pur sempre valutati i profili urbanistico-edilizi del realizzando intervento>> (Cass. Sez. III, 8.7.2005, Vodafone Omnitel, GI, 2006, 1031; Cass. Sez. III, 8.7.2005, Vodafone Omnitel, GI, 2006, 1265). La speciale disciplina contenuta nel Codice delle comunicazioni elettroniche, dunque, deroga al regime dei titoli abilitativi del TUE soltanto sul piano procedurale e la decisione finale assunta in sede di conferenza di servizi – come pure la d.i.a. di cui si è appena detto, ovvero il perfezionamento della procedura con silenzio-assenso a norma degli artt. 87, 9° co., e 88, 7° co., d.lgs. 259/2003 – “sostituisce”, ad ogni effetto, il permesso di costruire, secondo il principio oggi contenuto nell’art. 14-ter, co. 6-bis, l. 241/1990 e succ. modiff., con la conseguenza che, anche per gli impianti di debole potenza soggetti all’iter procedurale semplificato,

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non resta influenzato, in ogni caso, il regime sanzionatorio penale di cui all’art. 44 T.U. n. 380/2001 e le infrastrutture di comunicazione elettronica specificate al comma 1 dell’art. 87 del D.Lgs. n. 259/2003 restano sottoposte, pur sempre, alle sanzioni penali specifiche delle opere soggette a permesso di costruire (Cass. Sez. III, 8.7.2005, Vodafone Omnitel, GI, 2006, 1031; Cass. Sez. III, 8.7.2005, Vodafone Omnitel, GI, 2006, 1266).

La conclusione – frutto di un percorso interpretativo che potrebbe lasciare sussistere qualche perplessità circa il rispetto del principio di tassatività - cerca di contemperare in modo intelligente le esigenze di speditezza sottese alla speciale procedura prevista per l’installazione delle infrastrutture di comunicazione con la tutela degli interessi collettivi sulla gestione e il controllo dell’uso del territorio senza indebolirne l’efficacia. La lettura data dalla Cassazione a proposito di quello che abbiamo sopra definito “inglobamento” del permesso di costruire nell’autorizzazione prevista dalla legge speciale è stata peraltro sostanzialmente confermata dalla Corte costituzionale che ha, da un lato, dichiarato l’illegittimità costituzionale di disposizioni di legge regionali che prevedevano un autonomo iter volto al rilascio del permesso di costruire in aggiunta a quello delineato nell’art. 87 d.lg. 259/2003 (v. Corte cost. 28.3.2006, n. 129, GI, 2006, 1287) e, d’altro lato, disatteso eccezioni di incostituzionalità della disciplina prevista dal d.lg. 259/2003 interpretata nel senso, ritenuto, appunto, errato, che le infrastrutture in questione, nonostante la loro rilevanza urbanistica, sarebbero irragionevolmente sottratte al regime del permesso di costruire (Corte cost. 18.5.2006, n. 203, UA, 2006, 818).

Come si accennava, l’orientamento in questione è stato successivamente ribadito e appare oggi consolidato:

ai fini della installazione di ripetitori telefonici è insufficiente la presentazione di d.i.a., essendo invece necessario il rilascio delle autorizzazioni previste al termine della specifica procedura disciplinata dagli artt.87 e ss. del d. lgs. n. 259 del 2003 il cui mancato rispetto rende le opere abusive e suscettibili delle sanzioni di cui all'art. 44 del d. P.R. n. 380 del 2001.

(Cass., Sez. III, 28.4.2010, Brini e a., C.E.D. Rv. 248218);

integra il reato previsto dall'art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, l'installazione di impianti di telefonia mobile senza il preventivo rilascio dell'autorizzazione disciplinata dall'art. 87, D.Lgs. n. 259 del 2003, atto quest'ultimo che può ritenersi sostituito dalla formazione del cosiddetto silenzio-assenso a condizione, però, che sussistano i presupposti e i requisiti richiesti dalla legge. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto integrato il reato in quanto il silenzio-assenso formatosi sulla richiesta di autorizzazione era in contrasto al piano di localizzazione delle stazioni radio base, adottato dal Comune).

(Cass., Sez. III, 21.3.2013, Vodafone Omnitel, C.E.D. Rv. 256425)

Si è richiamata questa giurisprudenza poiché essa – pur formatasi con riguardo al reato di cui all’art. 44, 1° co., lett. b, TUE – evidentemente rileva, mutatis mutandis, anche ai fini dell’integrazione dell’ipotesi di reato residuale di cui alla lett. a della disposizione integratrice nel caso in cui si accerti che le opere siano state eseguite in difformità dal progetto approvato con l’autorizzazione rilasciata (o dalla d.i.a. che di essa tenga luogo nel caso di impianti di minor potenza). Sul punto non constano

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pronunce edite, ma l’affermazione dei riportati principi non può che condurre a questa conclusione, con un paio di necessarie avvertenze. La prima è che, in forza dell’interpretazione finalistica più volte richiamata, per rilevare ai sensi della norma penale residuale, le difformità debbono aver riguardo agli aspetti urbanistico-edilizi dell’impianto (ad es. alle dimensioni dello stesso in quanto suscettibili, appunto, di determinare un differente “impatto” dell’opera sul territorio), mentre non rileveranno difformità che tale incidenza non abbiano (potrebbero essere irrilevanti, ad es., le questioni strettamente inerenti alla potenza dell’impianto, salvo che, per la loro potenziale dannosità, non siano in grado di incidere sull’utilizzo delle attigue porzioni di territorio secondo la destinazione urbanistica loro propria). La seconda è che dovrà trattarsi di difformità marginali, vale a dire tali da non integrare un vero e proprio aliud pro alio, dovendosi altrimenti optare per la riconducibilità dell’abuso al più grave reato che punisce le difformità totali dal provvedimento di assenso.

2.12.1 Segue. La violazione delle prescrizioni per la costruzione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili.

Problemi analoghi, ma non del tutto identici, a quelli appena descritti si

pongono per la costruzione (e l’esercizio) di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, settore nel quale il nostro paese ha dovuto armonizzare la propria legislazione recependo ed attuando alcune direttive europee (la n. 2001/77/CE e la n. 2009/28/CE) volte ad incentivare la diffusione di siffatti impianti, anche mediante la semplificazione delle procedure amministrative. In ambito statale le fonti sono costituite dall’art. 12 d.lgs. 29.12.2003, n. 387 (rubricato "razionalizzazione e semplificazione delle procedure autorizzative"), dalle linee guida adottate sulla base di tale norma con d.m. 18/9/2010 e dagli artt. 4 ss. d.lgs. 3.3.2011, n. 28. Senza pretesa di completezza, sulla base di tale normativa e delle successive modificazioni il quadro può essere sinteticamente così ricostruito:

la costruzione e l'esercizio degli impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili, gli interventi di modifica, potenziamento, rifacimento totale o parziale e riattivazione, come definiti dalla normativa vigente, nonché le opere connesse e le infrastrutture indispensabili alla costruzione e all'esercizio degli impianti stessi, sono soggetti ad una autorizzazione unica, rilasciata dalla regione o dalle province delegate dalla regione, nel rispetto delle normative vigenti in materia di tutela dell'ambiente, di tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico, che costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico

(art. 12, 3° co., d.lgs. 387/2003; l’art. 5, 1° co., d.lgs. 28/2011 conferma sostanzialmente tale disciplina). La disposizione prosegue prevedendo che la menzionata autorizzazione

<<è rilasciata a seguito di un procedimento unico, al quale partecipano tutte le Amministrazioni interessate>> e che <<il rilascio dell'autorizzazione costituisce titolo a costruire ed esercire l’impianto in conformità al progetto approvato>> (art. 12, 4° co., d.lgs. 387/2003).

Sin qui la normativa appare sostanzialmente speculare a quella descritta per gli impianti di telecomunicazione, sicché se ne deve far derivare – e la giurisprudenza non ha mancato di rilevarlo – che la mancanza

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dell’autorizzazione, laddove richiesta, equivale ai fini dell’applicazione delle norme penali urbanistiche alla mancanza di permesso di costruire ed è pertanto riconducibile all’ipotesi di reato di cui all’art. 44. 1° co, lett. b, TUE (o lett. c, se trattasi di zone vincolate):

integra il reato previsto dall'art. 44 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 la realizzazione di impianti fotovoltaici, che deve essere preceduta dal rilascio dell'autorizzazione unica, che ha carattere omnicomprensivo ed è sostitutiva del permesso di costruire all'esito della conferenza di servizi appositamente indetta dall'amministrazione competente per la verifica della compatibilità urbanistico-edilizia dell'intervento.

(Cass., Sez. III, 20.3.2012, Ferrero e a., C.E.D., Rv. 253286) Ai fini della presente indagine deve pertanto affermarsi la medesima

conclusione tratta alla fine del paragrafo precedente: nel caso di difformità parziale dal progetto di costruzione dell’impianto autorizzato, sempre che essa comprometta il bene tutelato, sarà applicabile la fattispecie di reato residuale di cui all’art. 44, 1° co., lett. a, TUE. Deve ancora osservarsi che, come si desume dalla richiamata norma contenuta nell’art. 12, 3° co., d.lgs. 387/2003, l’autorizzazione costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico, sicché – laddove non siano però ravvisabili profili di illegittimità della procedura – non potrà qui farsi questione di eventuale difformità tra l’autorizzazione e lo strumento urbanistico.

La disciplina in materia di costruzione di impianti di produzione di energia derivante da fonti rinnovabili (i casi statisticamente più ricorrenti si sono sinora avuti nel settore del fotovoltaico e dell’eolico) presenta però un importante profilo di novità rispetto a quella – esaminata al paragrafo che precede - degli impianti di telecomunicazione, quanto meno secondo l’interpretazione che di tale ultima disciplina è stata sin qui data (e sempre che essa non sia “rivisitata” proprio alla luce della normativa ora in esame). Ci si riferisce alle conseguenze delle inosservanze commesse per la costruzione di impianti di minor potenza che l’art. 12 d.lgs. 387/2003 e, soprattutto, gli artt. 4 ss. d.lgs. 28/2011 subordinano alla presentazione di una semplice s.c.i.a. ai sensi degli artt. 22 e 23 TUE o, addirittura, di una mera comunicazione di inizio lavori ex art. 6 TUE. In questi casi la Corte di legittimità ha affermato che – in conformità a quanto accade laddove si tratti di normali interventi urbanistici sottoposti a tali regimi semplificati – la mancanza del titolo, o l’inosservanza del medesimo, danno luogo a mere sanzioni amministrative. Le ipotesi vanno dall’installazione di impianti solari termici integrati in edifici esistenti o loro pertinenze (considerati, al di fuori dei centri storici, attività ad edilizia libera e soggetti ad una mera comunicazione di inizio lavori: v. artt. 7 d.lgs. 28/2011 e 6, co. 2, lett. d, TUE) alla costruzione di impianti di minor potenza quali indicati negli artt. 12, 5° co., d.lgs. 387/2003 e 6 d.lgs. 28/2011, soggetti alla semplice s.c.i.a. (il comma 7 di tale ultima disposizione, ampliando i limiti prima previsti dalla legislazione statale, consente alla legislazione regionale e delle province autonome di estendere tale regime semplificato <<agli impianti di potenza nominale fino a 1 MW elettrico>>). Posto che, alla stregua della disciplina generale dei menzionati titoli semplificati, è però richiesta la conformità degli interventi, tra l’altro, agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi (il requisito, a scanso di

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equivoci, è comunque precisato, quanto agli impianti soggetti al regime della s.c.i.a. anche dall’art. 6, 2° co., d.lgs. 28/2011) in caso di inosservanza dei medesimi residua spazio per l’applicazione del reato di cui all’art. 44, 1° co., lett. a, TUE, come la giurisprudenza non ha mancato di rilevare:

è legittimo il sequestro di un impianto fotovoltaico assentito dal rilascio di semplice DIA e non da autorizzazione unica regionale atteso che, a seguito della declaratoria di incostituzionalità degli artt. 3 legge della Regione Puglia 21 ottobre 2008, n. 31 e 27 legge della Regione Puglia 19 febbraio 2008, n. 1 per effetto delle sentenze della Corte Costituzionale n. 119 del 2010 e n. 366 del 2010, la realizzazione in zona agricola delle opere senza il rispetto del limite di potenza previsto dalla legislazione statale integra il reato previsto dall'art. 44, lett. a), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380

(Cass., Sez. III, 7.2.2012, Ancora, C.E.D., Rv. 252542; le menzionate disposizioni di legge regionale sono state dichiarate costituzionalmente illegittime per aver esteso la procedura semplificata oltre i limiti indicati nella legislazione statale in allora vigente, limiti che, secondo la Consulta, integrano gli estremi dei principi fondamentali della materia)

2.13 Le violazioni delle prescrizioni del titolo edilizio commesse in epoca successiva al termine dei lavori.

Prima di chiudere la trattazione del reato di cui all’art. 44, 1° co., lett. a,

TUE, occorre tornare su un problema a cui abbiamo già accennato (v. §. 3, n fine, e §. 10.1), benché esso, almeno a quanto consta, non abbia sinora avuto riscontri in giurisprudenza. Ci si riferisce all’eventuale rilevanza penale di condotte poste in essere in violazione delle norme contenute nel titolo abilitativo edilizio in epoca successiva al termine dei lavori.

Per delimitare l’ambito della questione, occorre subito chiarire che non si sta parlando di trasformazioni fisiche dell’immobile: a lavori ultimati, le modifiche del manufatto debbono avvenire in conformità alle previsioni normative che disciplinano l’attività edilizia, sicché, a seconda dei casi, per non incorrere nelle sanzioni (penali o amministrative) che la legge prevede, ci si dovrà munire del permesso di costruire, della d.i.a. ad esso alternativa o della s.c.i.a. (l’iter semplificato non è peraltro utilizzabile nel caso in cui si intervenga su immobili abusivi: v Cass. Sez. III, 2.12.2008, Cardito, C.E.D., Rv. 242269). Giova qui osservare che il discrimine temporale tra la possibilità di considerare lavori eseguiti abusivamente sul patrimonio edilizio esistente come difformità (parziali o totali) rispetto all’originario titolo, piuttosto che nuovi interventi da valutare ex se come sine titulo – indipendentemente dal fatto che siano o meno conformi all’originario permesso, oramai divenuto inefficace - è dato dalla formale comunicazione della chiusura dei lavori o, in ogni caso, dalla sopravvenuta decadenza del titolo ex art. 15 TUE. Tanto meno, poi, potrà invocarsi l’istituto della “difformità” per opere eseguite su un manufatto oggetto di sanatoria in epoca successiva al conseguimento del titolo:

ricorre il reato di costruzione in assenza di concessione edilizia, di cui all’art. 20 lett. b), L. 47/1985, nel fatto di colui che effettui lavori edilizi per i quali non è stata rilasciata una concessione preventiva, anche se gli stessi

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lavori configurino una semplice modifica rispetto ad altra opera abusiva per la quale sia già stata ottenuta una concessione in sanatoria (Cass. Sez. III, 3.7.2003 – data del deposito, Melis, UA, 2003, 1236. La massima, recante il riferimento alla data della decisione, è pubblicata in altre riviste in modo che appare più ambiguo, mancando il riferimento alla lettera dell’art. 20 l. 47/1985 ritenuta applicabile: v. CP, 2004, 3363; GP, 2004, II, 185).

Si fa qui riferimento, invece, alle opere di trasformazione urbanistica, che

possono conseguire da una condotta non materiale ma giuridica in senso stretto, non modificativa della res urbanistica ma del diritto soggettivo sulla stessa (essenzialmente del diritto di proprietà), incidendo su utilità e funzioni del bene immobile le quali trovano la propria conformazione nello statuto urbanistico del bene definito sulla base degli strumenti urbanistici e della concessione edilizia (A. ALBAMONTE, ll mutamento di destinazione d’uso senza lavori, la l. 28 febbraio 1985 n. 47 e le leggi regionali in materia, in CP 1987, 2020).

Questa, osserva ancora la stessa dottrina, con proposizione che oggi deve essere riferita al permesso di costruire (o all’equipollente d.i.a.), identifica lo <<stato civile>> edilizio ed urbanistica di ciascuna unità, definendo lo statuto o il modo di essere dell’immobile sulla base della normativa degli strumenti urbanistici nonché delle prescrizioni in essa contenute (A. ALBAMONTE, ll mutamento, cit., 2020).

Sulla base di queste premesse è stata quindi ipotizzata un’interpretazione finalistica della norma incriminatrice che porterebbe ad individuare quale condotta integrativa dell’illecito urbanistico anche attività non consistenti nell’esecuzione di lavori, accogliendo nel suo ambito penale tutta una serie di illeciti che consistono esclusivamente nella inosservanza di prescrizioni della concessione e di previsioni di strumenti urbanistici (…) Non va dimenticato che le prescrizioni della concessione edilizia e le previsioni degli strumenti urbanistici non contengono soltanto regole di condotta indirizzate a disciplinare l’esecuzione di lavori, ma anche regole che disciplinano l’uso, la funzione, il modo di essere dei vari elementi della città e del territorio. E’ sufficiente considerare al riguardo gli atti di obbligo che vincolano parti dell’immobile a certe destinazioni o funzioni urbanistiche, gli atti d’obbligo e le convenzioni che impongono al proprietario di praticare determinati prezzi di vendita e canoni di locazione (art. 7 l. n. 10 del 1977), oppure le norme di piano che definiscono la destinazione d’uso delle varie zone con standard precisi, ovvero che impongono vincoli nelle funzioni di alcuni spazi ed aree, ecc. La stessa Corte di cassazione ha recentemente sostenuto che il mutamento di destinazione d’uso di un’unità immobiliare può avvenire mediante la stipula di un atto negoziale, cioè mediante il contratto di locazione (A. ALBAMONTE, ll mutamento, cit., 2020. Contra, quanto a quest’ultima affermazione, Cass. Sez. III, 3.3.1987, De Fenù, CP, 1988, 919, ma la ratio decidendi sembra riposare sulla modifica legislativa introdotta dall’art. 25, 2° co., l. 47/1985, nella sua originaria formulazione).

Deve innanzitutto osservarsi che se il reato si è già perfezionato con il compimento delle attività materiali, non costituiscono nuova autonoma manifestazione antigiuridica di mutamento di destinazione, penalmente rilevante, la utilizzazione o gli atti di disposizione del manufatto già realizzato in modo difforme o in assenza di concessione. Tali atti rientrano nella sfera del post factum impunibile e degli effetti permanenti di una condotta antigiuridica a consumazione conclusa (Cass. Sez. III, 20.2.1985, Sciacca, CP, 1986, 992).

In secondo luogo, e più in generale, a nostro avviso il problema della qualificazione giuridica di interventi (edilizi o urbanistici) effettuati su uno stabile preesistente non può essere impostato in modo diverso a seconda che sia necessario svolgere opere oppure no. Come si è detto, ultimata l’originaria edificazione, le successive condotte di trasformazione debbono essere analizzate ex se e non già come “difformità” o “violazione” rispetto all’originario (e oramai decaduto) titolo abilitativo, altrimenti si avrebbe che tutti gli interventi su manufatti preesistenti – in contrasto con l’interpretazione sempre seguita in giurisprudenza con le chiare definizioni normative di cui all’art. 3, 1° co., TUE - dovrebbero essere valutate in termini di “difformità” (totale o parziale, o variazione essenziale) rispetto all’originario (e già eseguito) progetto. Ne

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deriva che, ultimati i lavori, cessa l’efficacia precettiva delle disposizioni e prescrizioni contenute nel titolo edilizio e non sembrano quindi configurabili inosservanze riconducibili alla fattispecie di reato residuale.

Ci pare, in ultima analisi, che la violazione dei parametri di legalità previsti dall’art. 44, 1° co., lett. a, TUE possa rilevare ai fini dell’integrazione del reato soltanto se commessa nell’ambito di un intervento di trasformazione urbanistica o edilizia del territorio assoggettato al controllo (tacito o espresso) della p.a. In quest’ottica, attività di natura giuridica (o, comunque, non materiale) che siano difformi dalla disciplina urbanistica o normativa potranno dunque venire in rilievo sostanzialmente in relazione al mutamento meramente formale della destinazione d’uso di immobili tra categorie non omogenee ed in violazione degli standard urbanistici commesso in spregio alle previsioni degli strumenti urbanistici e del regolamento edilizio, trattandosi peraltro di condotta che – quale che sia il titolo abilitativo ritenuto applicabile – certamente rientra nel campo di operatività della disciplina sul controllo delle trasformazioni del suolo secondo quanto a suo luogo precisato (v. §. 7). Per contro, modificazioni di destinazione d’uso marginali e di diversa natura (che riguardino, ad es., soltanto alcuni locali dell’unità immobiliare), se commessi senza opere una volta ultimati i lavori autorizzati con il permesso di costruire (magari dopo molti anni), saranno penalmente irrilevanti anche se formalmente in contrasto con il titolo edilizio a suo tempo rilasciato.

IN SINTESI – L’ultima categoria di inosservanze penalmente rilevanti riguarda le violazioni del

permesso di costruire. Trattandosi di ipotesi di reato residuale rispetto alle altre figure criminose, rilevano a questi fini le sole difformità parziali e variazioni essenzial commesse in zone non vincolate. Le categorie – la cui reciproca distinzione non rileva ai fini penali – debbono ricavarsi in via interpretativa, soprattutto ragionando a contrariis rispetto alla definizione legislativa di totale difformità. Nonostante l’imprecisa formulazione dell’art. 44, comma 2-bis, TUE, che non menziona l’ipotesi della difformità parziale (e della variazione essenziale), l’interpretazione sistematica porta a ritenere che l’estensione della rilevanza penale degli abusi previsti per le opere soggette al permesso di costruire a quelle eseguite con la d.i.a. ad esso alternativa valga anche per le ipotesi in parola. Il “diritto vivente” ha inoltre enucleato ipotesi in cui la normativa penale urbanistica, e dunque anche il reato residuale, trova applicazione in caso di mancanza o difformità da provvedimenti di autorizzazione che inglobano il permesso di costruire (ad es. in materia di impianti di telecomunicazione e di produzione di energia da fonti rinnovabili). Dopo l’ultimazione dei lavori – o la perdita d’efficacia del titolo abilitativo – gli interventi (edilizi o urbanistici, con o senza opere) compiuti sul preesistente manufatto non possono essere valutati in termini di difformità rispetto all’originario titolo edilizio, ma come nuovi interventi autonomi.

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3 IL REATO DI CUI ALLA LETT. B) DELL’ART. 44 T.U. EDILIZIA: L’INTERVENTO SOGGETTO A PERMESSO DI COSTRUIRE

Di Aldo Fiale- Presidente di sezione della Suprema Corte di Cassazione

3.1 Attività edilizia e titoli abilitativi

Anteriormente all’entrata in vigore del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), il sistema dei titoli abilitativi per la realizzazione di attività edilizia operava una fondamentale distinzione tra gli interventi rilevanti sotto il profilo urbanistico ed edilizio, per i quali si riteneva necessario mantenere un più pregnante controllo preventivo da parte dell’Amministrazione comunale, ed interventi edilizi minori, per i quali tale controllo era assai attenuato.

Si era formato, per effetto delle tante modifiche succedutesi nel tempo, un apparato normativo frammentario, caratterizzato dal progressivo abbandono dall’originariamente esclusiva concessione edilizia, prevista dall’art. 1 della legge n. 10 del 1977 per ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio. Già a partire dall’anno successivo, infatti, alcuni tipi di interventi edilizi erano stati subordinati ad autorizzazione, cioè a un titolo più leggero perché gratuito, privo di sostegno penale e a formazione anche implicita (art. 48 della legge n. 457 del 1978; art. 7 del D.L. 23 gennaio 1982, n. 9, convertito nella legge 23 marzo 1982, n. 84). Qualche anno dopo il legislatore aveva fatto passi ulteriori nella direzione della liberalizzazione, prevedendo che una serie di opere edilizie minori potesse essere realizzata senza il previo rilascio di un provvedimento: con l’articolo 26 della legge n. 47 del 1985 era stata sottoposta a semplice asseverazione di conformità la realizzazione di opere interne agli edifici e, successivamente (con l’art. 2, comma 60, della legge 23 dicembre 1996, n. 662) era stato esteso l’ambito della liberalizzazione, prevedendosi che una ulteriore serie di interventi edilizi minori potesse essere realizzata mediante denuncia di inizio attività. Il quadro di risulta era, dunque, quello di una varietà di atti legittimanti, ciascuno dei quali costituente titolo per una o più tipologie specifiche di intervento edilizio.

Il profilo più innovativo del T.U. n. 380/2001 ha riguardato la riduzione dei titoli abilitativi a due soltanto: il permesso di costruire e la denuncia di inizio attività, con conseguente soppressione dell’autorizzazione.

In dottrina la ratio del sistema è stata individuata nella diversa rilevanza per la collettività assunta da determinati interventi sul

territorio piuttosto che da altri (MARZARO GAMBA): il regime abilitativo al quale l’intervento viene sottoposto si pone, in tale prospettiva, in correlazione diretta con l’interesse della collettività coinvolto dalla natura dell’attività posta in essere dal privato ed il più pregnante strumento di controllo costituito dal permesso di costruire si correla ad attività capaci di trasformare il territorio, dal punto di vista urbanistico ed edilizio, alterandolo sotto i profili del fabbisogno di infrastrutture ovvero dal punto di vista estetico ed ambientale. I casi di denunzia di inizio dell’attività alternativa al permesso di costruire possono essere razionalmente inquadrati nell’orientamento sistematico anzidetto in base alla considerazione che si tratta di ipotesi in cui i requisiti dell’intervento sono predeterminati in modo completo dalle previsioni degli strumenti pianificatori mentre alle scelte progettuali del privato residua solo il compito di tradurre le norme di piano nel caso concreto.

La Corte Costituzionale – con la sentenza n. 303 del 25 settembre 2003 – ha rilevato che la disciplina dei titoli abilitativi ad edificare appartiene storicamente all’urbanistica, materia che, in base all’art. 117 Cost., fa parte del «governo del territorio» e costituisce oggetto di competenza legislativa concorrente fra Stato e

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Regioni. Secondo il Giudice delle leggi, lo Stato ha mantenuto la disciplina dei titoli abilitativi come appartenente alla potestà di dettare i principi della materia e, nella legislazione statale, le previsioni della possibilità di realizzare opere con procedure diverse da quella prescritta per il rilascio del permesso di costruire si ricollegano ad interventi edilizi di entità non rilevante o, comunque, ad attività che si conformano a dettagliate prescrizioni degli strumenti urbanistici. Il fine perseguito, che costituisce un principio dell’urbanistica, è quello «che la legislazione regionale e le funzioni amministrative in materia non risultino inutilmente gravose per gli amministrati e siano dirette a semplificare le procedure e ad evitare la duplicazione di valutazioni sostanzialmente già effettuate dalla pubblica amministrazione».

Resta come principio la necessaria compresenza nella legislazione di titoli abilitativi espressi (la concessione o l’autorizzazione, ed oggi, nel nuovo testo unico n. 380 del 2001, il permesso di costruire) e taciti, (la DIA e la SCIA) considerati questi ultimi quali procedure di semplificazione che non possono mancare, libero il legislatore regionale di ampliare o ridurne l’ambito applicativo.

Il legislatore poi: — Con l’art. 5 del D.L. 25-3-2010, n. 40, convertito con modificazioni nella legge 22-5-2010, n. 73, ha

introdotto una normativa di semplificazione dell’attività edilizia, limitata però ad interventi di scarso impatto sul territorio e sul tessuto urbanistico, prevedendo, per alcuni di essi, una «preventiva comunicazione» informativa dell’inizio dei lavori all’amministrazione comunale.

— Con l’art. 49, comma 4-bis, del D.L. 31-5-2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30-7-2010, n. 122, ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto generale della segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), sostituendo integralmente la disciplina della dichiarazione di inizio attività (DIA) contenuta nel previgente art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241.

— Con l’art. 5 del D.L. 13-5-2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 12-7-2010, n. 106, ha espressamente stabilito che «le disposizioni di cui all’articolo 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241 si interpretano nel senso che le stesse si applicano alle denunce di inizio attività in materia edilizia disciplinate dal D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, con esclusione dei casi in cui le denunce stesse, in base alla normativa statale o regionale, siano alternative o sostitutive del permesso di costruire».

— Con l’art. 13 del D.L. 22-6-2013, n. 83 (cd. «decreto sviluppo»), convertito con modificazioni dalla legge 7-8-2012, n. 134, ha rafforzato il ruolo dello sportello unico per l'edilizia, estendendone le attività e gli ambiti di competenza, così da configurarlo (attraverso la modifica dell'art. 5 del T.U.) quale unico punto di accesso per il privato in relazione a tutte le vicende amministrative riguardanti l'intervento edilizio ed il relativo titolo abilitativo, allo scopo di fornire una risposta tempestiva in luogo di tutte le pubbliche amministrazioni comunque coinvolte. E' stato perciò demandato allo sportello unico di acquisire direttamente o tramite conferenza di servizi tutti gli atti di assenso necessari al rilascio del permesso di costruire (es. pareri della ASL e dei vigili del fuoco, autorizzazioni e certificazioni regionali per le costruzioni in zone sismiche, nonché gli atri atti autorizzatori elencati nell'art. 5, comma 3, del T.U. n. 380/2001). Per gli interventi sottoposti a SCIA è stato previsto che, oltre alla presentazione della segnalazione certificata, corredata dalla prescritta documentazione, «nei casi in cui la normativa vigente prevede l'acquisizione di atti o pareri di organi o enti appositi, ovvero l'esecuzione di verifiche preventive [che non comportino esercizio di attività discrezionale n.d.r.] … essi sono comunque sostituiti dalle autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni di tecnici abilitati relative alla sussistenza dei requisiti e presupposti previsti dalla legge, dagli strumenti urbanistici approvati o adottati e dai regolamenti edilizi, da produrre a corredo della documentazione». Tale possibilità di sostituzione è rimasta esclusa, comunque, nei casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali nonché per le prescrizioni riguardanti le costruzioni in zone sismiche.

— Con l’art. 30 del D.L. 21-6-2013, n. 69 (c.d. «decreto del fare»), convertito con modificazioni dalla legge 9-8-2013, n. 98, ha introdotto ulteriori disposizioni in tema di semplificazioni in materia urbanistica e principalmente edilizia, apportando modifiche e nuovi innesti nel corpo del T.U. n. 380/2001.

Per quanto concerne le innovazioni più significative appare opportuno ricordare che: — è stato introdotto un nuovo art. 2 bis in tema di deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati, con cui

il legislatore nazionale consente alle Regioni – ferma restando la competenza statale in materia di

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ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile – di adottare, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al D.M. n. 1444/1968;

— è stata modificata la definizione della nozione di «interventi di ristrutturazione edilizia» (di cui all'art. 3, comma 1, lett. d, del T.U.) così da ricomprendere in tali interventi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria del fabbricato preesistente, sia pure con sagoma diversa dal precedente (ad eccezione dei casi di sussistenza di un vincolo ambientale, paesaggistico e culturale), nonché consentendo la ricostruzione di edifici o parti di essi già eventualmente crollati o demoliti, purché sia possibile accertarne la consistenza preesistente;

— è stato soppresso l'obbligo, in tema di attività edilizia libera ma soggetta a comunicazione di inizio dei lavori (art. 6, comma 4, primo periodo, del T.U.), di avvalersi di un tecnico asseveratore della legittimità dell'intervento che non abbia rapporti con il committente e con l'impresa esecutrice;

— quanto al procedimento di rilascio del permesso di costruire, nei casi di sussistenza di un vincolo ambientale, paesaggistico e culturale, è stato previsto che, se vi è l'atto di assenso dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, il Comune è tenuto a concludere detto procedimento di rilascio con un provvedimento espresso e motivato. Nel caso in cui, invece, l'atto di assenso venga denegato, il permesso di costruire, allo spirare del termine per il relativo rilascio, si intende respinto con silenzio-diniego immediatamente impugnabile;

— in materia di SCIA e di comunicazione di inizio dei lavori è stato previsto che, prima ancora della presentazione di tali atti o contestualmente alla stessa, il soggetto interessato possa richiedere allo sportello unico di acquisire gli atti di assenso necessari per l'intervento edilizio, ma l'inizio dei lavori resta subordinato alla comunicazione, da parte dello sportello unico, dell'avvenuta acquisizione degli atti di assenso;

— si è stabilito che, nelle zone omogenee A (centri storici), per gli interventi ai quali è applicabile la SCIA che comportino modifiche della sagoma, i lavori non possono in ogni caso avere inizio prima che siano decorsi 30 giorni dalla data di presentazione della segnalazione. Sempre nelle zone omogenee A spetta ai Comuni di individuare (con deliberazione da adottare entro il 30 giugno 2014) le aree nelle quali non è applicabile la SCIA ove alle opere si connetta modificazione della sagoma;

— è stato previsto che il certificato di agibilità (art. 24 del T.U.) può essere richiesto anche per singoli edifici, singole unità immobiliari o singole porzioni funzionalmente autonome della costruzione, purché siano state realizzate e collaudate le opere di urbanizzazione primaria relative all'intero intervento edilizio e siano state completate e collaudate le parti strutturali connesse e certificati gli impianti comuni;

— sono stati prorogati di due anni i termini di inizio e di ultimazione dei lavori di cui all'art. 15 del T.U. se non ancora già decorsi al momento della comunicazione dell'interessato e non esista contrasto con nuovi strumenti urbanistici anche solo adottati. E' stata disposta altresì la proroga di tre anni dei termini di inizio e fine lavori per le convenzioni di lottizzazione stipulate fino al 31 dicembre 2012.

3.2 Il regime attuale dei titoli abilitativi

Secondo le previsioni del T.U. n. 380/2001, come modificato: — dal D.Lgs. 27-12-2002, n. 301 (che ha dato attuazione alla delega di adeguamento del T.U. medesimo alle

previsioni in materia edilizia introdotte dalla legge 21-12-2001, n. 443, conferita al Governo dall’art. 1, comma 14, della stessa legge n. 443/2001);

— dall’art. 5 del D.L. 25-3-2010, n. 40, convertito con modificazioni dalla legge 22-5-2010, n. 73; — dall’art. 5 del D.L. 13-5-2011, n. 70, convertito con modificazioni dalla legge 12-7-2011, n. 106; — dagli artt. 13 e 13 bis del D.L. 22-6-2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 7-8-2012, n. 134; — dall’art. 30 del D.L. 21-6-2013, n. 69, convertito con modificazioni dalla legge 9-8-2013, n. 98, il regime attuale dei titoli abilitativi degli interventi edilizi può schematizzarsi come segue: a) Interventi edilizi «liberi», eseguibili senza alcun titolo abilitativo (art. 6, comma 1): — gli interventi di manutenzione ordinaria; — gli interventi volti all’eliminazione di barriere architettoniche, che non comportino la realizzazione di rampe o

di ascensori esterni ovvero di manufatti che alterino la sagoma dell’edificio;

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— le opere temporanee per attività di ricerca nel sottosuolo che abbiano carattere geognostico, ad esclusione di attività di ricerca di idrocarburi, e che siano eseguite in aree esterne al centro edificato;

— i movimenti di terra strettamente pertinenti all’esercizio dell’attività agricola e le pratiche agrosilvo-pastorali, compresi gli interventi su impianti idraulici agrari;

— le serre mobili stagionali, sprovviste di strutture in muratura, funzionali allo svolgimento dell’attività agricola.

Tali interventi devono essere comunque conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei

regolamenti edilizi e alla disciplina urbanistico-edilizia vigente. Essi devono altresì rispettare le altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, in particolare, le norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, quelle relative all’efficienza energetica, nonché le disposizioni contenute nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al D.Lgs. 22-1-2004, n. 42. Fanno altresì eccezione al regime del permesso di costruire: — le opere relative alla difesa nazionale (art. 31, 2° comma, legge n. 1150/1942); — le opere e gli interventi pubblici che richiedano per la loro realizzazione l’azione integrata e coordinata di

una pluralità di amministrazioni pubbliche, allorché l’accordo delle predette amministrazioni, raggiunto con l’assenso del Comune interessato, sia pubblicato ai sensi dell’art. 34, 4° comma, del D.Lgs. 18-8-2000, n. 267 (art. 7, lett. a, del T.U. n. 380/2001);

— le opere eseguite direttamente dallo Stato su beni demaniali e non; — le opere pubbliche di interesse statale, da realizzarsi dagli enti istituzionalmente competenti, ovvero da

concessionari di servizi pubblici, previo accertamento di conformità con le prescrizioni urbanistiche ed edilizie ai sensi del D.P.R. 18-4-1994, n. 383 e succ. modif. (art. 7, lett. b, del T.U. n. 380/2001);

— le opere pubbliche dei Comuni, deliberate dal Consiglio o dalla Giunta comunale, assistite dalla validazione del progetto ai sensi dell’art. 47 del D.P.R. 21-12-1999, n. 554 (art. 7, lett. c, T.U. n. 380/2001).

b) Interventi edilizi eseguibili senza alcun titolo abilitativo ma previa comunicazione, anche per via

telematica, dell’inizio dei lavori all’Amministrazione comunale (art. 6, comma 2): — gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all’art. 3, comma 1, lett. b), ivi compresa l’apertura di

porte interne o lo spostamento di pareti interne, sempre che non riguardino le parti strutturali dell’edificio, non comportino aumento del numero delle unità immobiliari e non implichino incremento dei parametri urbanistici;

— le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a 90 giorni;

— le opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, anche per aree di sosta, che siano contenute entro l’indice di permeabilità, ove stabilito dallo strumento urbanistico comunale, ivi compresa la realizzazione di intercapedini interamente interrate e non accessibili, vasche di raccolta delle acque, locali tombati;

— i pannelli solari e fotovoltaici, a servizio degli edifici, da realizzare al di fuori della zona A) di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444;

— le aree ludiche senza fini di lucro e gli elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici; — le modifiche interne di carattere edilizio della superficie coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio d’impresa,

ovvero le modifiche della destinazione d’uso dei locali adibiti ad esercizio d’impresa.

Tutti gli anzidetti interventi devono essere comunque conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e alla disciplina urbanistico-edilizia vigente.

Essi devono altresì rispettare le altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia. c) Interventi soggetti a permesso di costruire (art. 10): — interventi di nuova costruzione;

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— interventi di ristrutturazione urbanistica; — interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal

precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A), comportino mutamenti della destinazione d’uso; nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili soggetti a vincoli ai sensi del D.Lgs. n. 42/2004

La classificazione anzidetta, tuttavia, non costituisce un elenco chiuso. Il 3° comma dello stesso art. 10 attribuisce infatti alle Regioni il potere di sottoporre al permesso di costruire ulteriori categorie di interventi, «in relazione all’incidenza sul territorio e sul carico urbanistico». d) Interventi soggetti a segnalazione certificata di inizio attività - SCIA - (art. 22, commi 1 e 2): — tutti gli interventi edilizi non assoggettati a permesso di costruire ai sensi dell’art. 10, sempre che siano

conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e alla disciplina urbanistico-edilizia vigente;

— le varianti a permessi di costruire già rilasciati, purché non incidano sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modifichino destinazione d’uso, categoria edilizia e sagoma dell’edificio e non violino prescrizioni specificamente imposte dal permesso di costruire.

Tali varianti «possono essere presentate prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori» e ciò significa che la presentazione della SCIA può essere anche successiva alla concreta realizzazione delle stesse.

e) Interventi soggetti a permesso di costruire o, in base alla scelta discrezionale dell’interessato, a

denuncia di inizio attività - DIA - (art. 22, comma 3): — gli interventi di ristrutturazione di cui all’art. 10, comma 1 lett. c); — gli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica qualora siano disciplinati da piani attuativi

comunque denominati, ivi compresi gli accordi negoziali aventi valore di piano attuativo (es. convenzioni di lottizzazione), che contengano precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive, la cui sussistenza sia stata esplicitamente dichiarata dal competente organo comunale in sede di approvazione degli stessi piani o di ricognizione di quelli vigenti.

Qualora i piani attuativi risultino approvati anteriormente all’entrata in vigore della legge 21-12-2001, n. 443, il relativo atto di ricognizione deve intervenire entro 30 giorni dalla richiesta degli interessati.

In mancanza, si prescinde dall’atto di ricognizione, purché il progetto di costruzione venga accompagnato da apposita relazione tecnica nella quale venga asseverata l’esistenza di piani attuativi con le caratteristiche dianzi menzionate;

— gli interventi di nuova costruzione qualora siano in diretta esecuzione di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche.

L’art. 22, 7° comma, del T.U. n. 380/2001, nell’attuale formulazione, fa salva la facoltà dell’interessato

di chiedere il rilascio del permesso di costruire anche per la realizzazione degli interventi soggetti in via ordinaria a segnalazione certificata di inizio dell’attività (S.C.I.A.). La stessa norma specifica che, comunque, la richiesta del permesso non incide sulla (eventuale) gratuità dell’intervento né sul regime sanzionatorio al quale esso è soggetto.

Le Regioni a statuto ordinario possono: — estendere la disciplina degli interventi edilizi eseguibili senza alcun titolo abilitativo ad interventi edilizi

ulteriori rispetto a quelli previsti dai commi 1 e 2 del modificato art. 6 del T.U. n. 380/2001; — ampliare o ridurre l’ambito applicativo della SCIA, individuando le tipologie di interventi assoggettate a

contributo di costruzione (che deve essere sempre corrisposto nei casi che il T.U. prevede come alternativi al permesso di costruire) e definendo criteri e parametri per la relativa determinazione.

Gli ampliamenti o le riduzioni delle categorie sottoposte dalla legge statale a permesso di costruire non incidono, però, sul regime delle sanzioni penali, che alla sola normativa statale si correla in considerazione dei

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limiti posti dalla Costituzione alla potestà legislativa regionale (art. 22, comma 4, del T.U. n. 380/2001). Appare opportuno ricordare, infine, che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 309/2011, ha

individuato quali principi fondamentali in materia di governo del territorio le disposizioni legislative statali che definiscono le categorie degli interventi edilizi (nuova costruzione, ristrutturazione edilizia, restauro e risanamento conservativo, manutenzione straordinaria e manutenzione ordinaria), con ciò riconoscendo che la definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta allo Stato e non alle Regioni.

3.3 Attività edilizia libera

3.3.1 Gli interventi di manutenzione ordinaria

L’art. 6, 1° comma, lett. a), del T.U. n. 380/2001 esonera dalla necessità di qualsiasi titolo abilitativo la manutenzione ordinaria degli immobili, cioè quegli interventi correnti eseguiti per mantenere in buono stato gli immobili medesimi, con esclusione delle modifiche sia alla destinazione che allo stato dei locali, nonché degli interventi sulle strutture portanti e divisorie.

L’art. 3, 1° comma, lett. a), del T.U. n. 380/2001 definisce interventi di manutenzione ordinaria quelli «che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti».

Conseguentemente (ed a titolo esemplificativo) vanno ricompresi tra le opere di manutenzione ordinaria: — la sostituzione dei manti di copertura dei tetti e delle pavimentazioni delle terrazze, senza alterazione alcuna

all’aspetto ed alle caratteristiche originarie; — la impermeabilizzazione di tetti e terrazze, senza alterazioni alle caratteristiche originarie; — gli interventi per intonaci, pitturazione e rivestimenti interni; — la sostituzione e riparazione di infissi interni ed esterni con altri di identiche caratteristiche; — la sostituzione dei pavimenti; — la sostituzione e l’adeguamento degli impianti idrici, elettrici, di riscaldamento, purchè non comportino

alterazione dei locali, aperture fisse nelle facciate o modifiche ai volumi tecnici; — la riparazione delle opere fognanti private.

Si tratta, in sostanza, di interventi finalizzati a conservare l’immobile in buono stato, mantenendolo — nel breve periodo — idoneo all’uso cui è adibito.

Per quanto riguarda l’edilizia industriale, le caratteristiche delle opere di manutenzione ordinaria hanno trovano specificazione nella circolare n. 1918, emanata dal Ministero dei lavori pubblici in data 16-11-1977, nella parte che di seguito si trascrive: «È appena il caso di rilevare che le opere di ordinaria manutenzione non possono non avere ampiezza e caratteristiche diverse in relazione al tipo di “edificio o struttura” sul quale vengono effettuate: la manutenzione di un edificio residenziale, ovviamente, comporterà interventi diversi da quelli necessari per una struttura a carattere commerciale o per un impianto industriale. Ritiene, comunque, questo Ministero — con riferimento agli impianti industriali — che possano considerarsi opere di ordinaria manutenzione e come tali, essere escluse dall’obbligo della concessione, gli interventi intesi ad assicurare la funzionalità dell’impianto ed il suo adeguamento tecnologico; sempreché tali interventi, in rapporto alle dimensioni dello stabilimento, non ne modifichino le caratteristiche complessive, siano interne al suo perimetro e non incidano sulle sue strutture e sul suo aspetto. Le opere in questione, inoltre, non debbono: — compromettere aspetti ambientali e paesaggistici; — comportare aumenti di densità (che, come è noto, in materia industriale va espressa in termini di addetti); — determinare implicazioni sul territorio in termini di traffico; — richiedere nuove opere di urbanizzazione e, più in generale, di infrastrutturazione; — determinare alcun pregiudizio di natura igienica ovvero effetti inquinanti; — essere, comunque, in contrasto con specifiche norme di regolamento edilizio o di attuazione dei piani regolatori in materia di

altezze, distacchi, rapporti tra superficie scoperta e coperta ecc. A titolo di esemplificazione, si indicano, qui di seguito, alcune opere che possono rientrare nella “categoria” di quelle di ordinaria

manutenzione degli impianti industriali: 1. costruzioni che non prevedono e non sono idonee alla presenza di manodopera, realizzate con lo scopo di proteggere determinati

apparecchi o sistemi, quali: — cabine per trasformatori o per interruttori elettrici;

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— cabine per valvole di intercettazione fluidi, site sopra o sotto il livello di campagna; — cabine per stazioni di trasmissioni dati e comandi, per gruppi di riduzione, purché al servizio dell’impianto; 2. sistemi per la canalizzazione dei fluidi mediante tubazioni, fognature ecc., realizzati all’interno dello stabilimento stesso; 3. serbatoi per lo stoccaggio e la movimentazione dei prodotti e relative opere; 4. opere a carattere precario o facilmente amovibili: — baracche ad elementi componibili, in legno, metallo o conglomerato armato; — ricoveri protetti realizzati con palloni di plastica pressurizzata; — garitte; — chioschi per l’operatore di pese a bilico, per posti telefonici distaccati, per quadri di comando di apparecchiature non presidiate; 5. opere relative a lavori eseguiti all’interno di locali chiusi; 6. installazioni di pali porta tubi in metallo e conglomerato armato, semplici e composti; 7. passerelle di sostegni in metallo o conglomerato armato per l’attraversamento delle strade interne con tubazioni di processo e

servizi; 8. trincee a cielo aperto, destinate a raccogliere tubazioni di processo e servizi, nonché canalizzazioni fognanti aperte e relative vasche

di trattamento e decantazione; 9. basamenti, incastellature di sostegno e apparecchiature all’aperto per la modifica e il miglioramento di impianti esistenti; 10. separazione di aree interne allo stabilimento realizzate mediante muretti e rete ovvero in muratura; 11. attrezzature semifisse per carico e scarico da autobotti e ferrocisterne (bracci di scarichi e pensiline) nonché da navi (bracci di

sostegno manichette); 12. attrezzature per la movimentazione di materie prime e prodotti alla rinfusa ed in confezione, quali nastri trasportatori, elevatori a

tazze ecc.; 13. tettoie di protezione dei mezzi meccanici; 14. canne fumarie ed altri sistemi di addizione e di abbattimento».

3.3.2 Interventi per l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati

La legge 9 gennaio 1989, n. 13 ha disposto che — a decorrere dal 10 agosto del 1989 — tutti i progetti

relativi alla costruzione di nuovi edifici, ovvero alla ristrutturazione di interi edifici (compresi quelli di edilizia residenziale pubblica, sovvenzionata ed agevolata) dovessero essere redatti in osservanza di prescrizioni tecniche necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici medesimi da parte dei portatori di handicap.

La fissazione in dettaglio di tali prescrizioni tecniche è attualmente contenuta nel D.M. del Ministro dei lavori pubblici 14-6-1989, n. 236, ma è demandata in avvenire — dall’art. 77, 2° comma, del T.U. n. 380/2001 — ad un decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti.

La normativa generale per la eliminazione delle barriere architettoniche è contenuta nel capo III del T.U. n. 380/2001 (articoli da 77 a 81).

Per la realizzazione di nuovi edifici e la ristrutturazione di interi edifici, la progettazione deve in ogni caso prevedere (art. 77, 3° comma): — accorgimenti tecnici idonei alla installazione di meccanismi per l’accesso ai piani superiori, compresi i servoscala; — idonei accessi alle parti comuni degli edifici ed alle singole unità immobiliari; — almeno un accesso in piano, rampe prive di gradini o idonei mezzi di sollevamento; — l’installazione, nel caso di immobili con più di tre livelli fuori terra, di un ascensore per ogni scala principale

raggiungibile mediante rampe prive di gradini.

Le opere dirette ad eliminare le barriere architettoniche possono essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, anche per i cortili e le chiostrine interni ai fabbricati o comuni o di uso comune a più fabbricati.

Devono rispettarsi, però, le distanze stabilite dagli artt. 873 e 907 cod. civ. nell’ipotesi in cui tra le opere da realizzare ed i fabbricati di altri proprietari non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune (art. 79).

Nel regime delineato dalla legge n. 13/1989, l’esecuzione di interventi rivolti ad eliminare le barriere architettoniche non era

generalmente soggetta a concessione edilizia né ad autorizzazione (art. 7, 1° comma, della legge n. 13/1989). Era richiesta, invece,

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l’autorizzazione di cui all’art. 48 della legge n. 457/1978 qualora essi fossero consistiti in rampe o ascensori esterni, ovvero in manufatti alteranti la sagoma dell’edificio (art. 7, 2° comma, della legge n. 13/1989). Le opere di quest’ultimo tipo, inoltre, potevano essere alternativamente precedute dalla denuncia di inizio dell’attività ai sensi dell’art. 2, comma 60, della legge 23-12-1996, n. 662.

Per le opere interne era sufficiente che l’interessato, contestualmente all’inizio dei lavori, presentasse al Comune «apposita relazione a firma di un professionista abilitato», mentre non era richiesto che in tale relazione venissero asseverate le opere da compiersi ed il rispetto delle norme di sicurezza e delle norme igienico-sanitarie vigenti (art. 7, 1° comma, legge n. 13/1989).

Alla domanda di autorizzazione ed alla comunicazione di inizio lavori interni dovevano essere allegati un certificato medico attestante l’handicap nonché una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà dalla quale risultassero l’ubicazione dell’abitazione del soggetto interessato e la descrizione delle difficoltà di accesso (art. 8, legge n. 13/1989).

In seguito all’entrata in vigore del T.U. n. 80/2001, gli interventi rivolti ad eliminare le barriere

architettoniche negli edifici privati: — possono essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo (attività edilizia libera, ex art. 6, 1° comma, lett. b), purché non comportino la realizzazione di rampe o di ascensori esterni, ovvero di manufatti che alterino la sagoma dell’edificio. Vi è la necessità, infatti, di garantire il fondamentale requisito dell’accessibilità e vivibilità degli edifici a tutela della dignità della persona umana (la Corte Costituzionale — con la sentenza 10-5-1999, n. 167 — si è espressa nel senso della «accessibilità» degli edifici come requisito legale di tutti gli immobili); — negli altri casi sono assoggettati, invece, a mera segnalazione certificata di inizio dell’attività (SCIA), purché non rientrino tra le tipologie che l’art. 10 riconduce al regime del permesso di costruire.

Alle domande ed alle comunicazioni dirette al competente ufficio comunale devono essere allegati

certificato medico in carta libera attestante l’handicap e dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà (ex art. 47 del D.P.R. n. 445/2000) dalla quale risultino l’ubicazione della propria abitazione nonché le difficoltà di accesso (art. 81 del T.U. n. 380/2001).

L’art. 78 del T.U. n. 380/2001 prevede che le innovazioni in oggetto, nonché la realizzazione di percorsi

attrezzati e la installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi all’interno degli edifici privati, negli stabili condominiali, possono essere approvate con le maggioranze ordinarie di cui all’art. 1136, 2° e 3° comma, cod. civ., fermo il disposto del secondo comma dell’art. 1120 cod. civ.

Ne consegue che, qualora gli interventi in questione ledano il «decoro architettonico» oppure integrino uno dei casi vietati di innovazione su edifici condominiali, le delibere adottate a maggioranza prevista dall’art. 1136, comma 2 e 3, cod. civ. sono nulle, ancorché perseguano lo scopo di innovare le parti comuni, onde favorire le esigenze di un condomino portatore di handicap.

Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro 30 giorni dalla richiesta fatta per iscritto, le relative deliberazioni, i portatori di handicap (ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà) possono installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare l’ampiezza delle porte di accesso, al fine di rendere più agevole l’ingresso agli edifici, agli ascensori e alle rampe delle autorimesse.

Gli interventi in oggetto devono essere realizzati, in ogni caso, nel rispetto delle norme antisismiche, di

prevenzione degli incendi e degli infortuni. Quanto alla normativa antisismica, in particolare, resta fermo l’obbligo del preavviso e dell’invio del

progetto alle competenti autorità (a norma dell’art. 93 del T.U. n. 380/2001) ma non è richiesta l’autorizzazione di cui al successivo art. 94 (art. 84 del T.U. n. 380/2001).

3.3.3 Interventi per l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici pubblici e privati aperti al pubblico

L’art. 82 del T.U. n. 380/2001 stabilisce che tutte le opere edilizie, riguardanti edifici pubblici e privati

aperti al pubblico, che siano suscettibili di limitare l’accessibilità e la visitabilità degli edifici medesimi da parte dei portatori di handicap, devono essere eseguite in conformità alle prescrizioni di cui: — alla legge 30-3-1971, n. 118 e succ. modif.;

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— al D.M. del Ministro dei lavori pubblici 14-6-1989, n. 236; — al regolamento approvato con D.P.R. 24-7-1996, n. 503.

Il rilascio di permessi di costruire per le opere medesime è subordinato alla verifica (demandata all’ufficio tecnico comunale ovvero al tecnico incaricato dal Comune) della conformità del progetto alla normativa anzidetta.

È necessario allegare alla SCIA una documentazione grafica ed una dichiarazione di conformità alla normativa vigente in materia di accessibilità e superamento delle barriere architettoniche.

Tale dichiarazione deve accompagnarsi, altresì, ad ogni richiesta di modifica di destinazione d’uso. Il rilascio del certificato di agibilità è subordinato all’accertamento dell’intervenuta realizzazione delle

opere nel rispetto delle disposizioni vigenti in materia di eliminazione delle barriere architettoniche. Tutte le opere realizzate negli edifici pubblici e privati aperti al pubblico in difformità delle disposizioni

vigenti in materia di accessibilità e di eliminazione delle barriere architettoniche, ove le difformità siano tali da rendere impossibile l’utilizzazione da parte delle persone handicappate, sono dichiarate inagibili.

Il progettista, il direttore dei lavori, il responsabile tecnico degli accertamenti per l’agibilità o l’abitabilità ed il collaudatore, ciascuno per l’attività di propria competenza, sono direttamente responsabili e punibili con l’ammenda da 5.164 a 25.822 euro e con la sospensione dai rispettivi albi professionali per un periodo compreso da uno a sei mesi.

Qualora le innovazioni dirette ad eliminare le barriere architettoniche riguardino immobili assoggettati ai vincoli paesaggistici ed ambientali, è necessario il rilascio della autorizzazione paesaggistica.

A norma dell’art. 4 della legge n. 13/1989 (non abrogato dal D.Lgs. n. 42/2004) e del D.P.C.M. 10-6-2010 (vedi cap. 19, par. 6), invero: — le Regioni, o le autorità da esse sub-delegate, devono provvedere entro i termini perentori di 60 giorni dalla

presentazione della domanda nel caso di vincoli imposti per legge (secondo il procedimento semplificato introdotto del D.P.C.M. 10-6-2010) e di 90 giorni nel caso di vincoli imposti con provvedimenti specifici, anche impartendo, ove necessario, apposite prescrizioni;

— l’autorizzazione può essere negata soltanto qualora non sia possibile realizzare le opere senza serio pregiudizio del bene tutelato ed il diniego deve essere motivato con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall’interessato.

Un procedimento analogo è fissato per gli immobili assoggettati a vincolo architettonico: in tali ipotesi la competente Soprintendenza deve provvedere entro 120 giorni dalla presentazione della domanda, anche impartendo, ove necessario, apposite prescrizioni (art. 5 della legge n. 13/1989).

Nei casi in cui le autorizzazioni di competenza delle autorità preposte alla tutela dei vincoli non possono essere concesse, il superamento delle barriere architettoniche può essere realizzato mediante opere provvisionali (come definite dall’art. 7 del D.P.R. 4-1-1956, n. 164) sulle quali sia stata acquisita l’approvazione delle predette autorità (art. 82, 2° comma, del T.U. n. 380/2001).

3.3.4 Opere temporanee per attività di ricerca nel sottosuolo

Non richiedono alcun titolo abilitativo le opere temporanee per attività di ricerca nel sottosuolo che abbiano carattere geognostico, ad esclusione di attività di ricerca di idrocarburi, e che siano eseguite in aree esterne al centro edificato.

Tali opere devono essere caratterizzate dal requisito della temporaneità (come interpretato dalla giurisprudenza): esse devono essere finalizzate, cioè, a sopperire ad esigenze specifiche e contingenti e devono essere facilmente amovibili e non infisse al suolo.

Il novellato art. 6, 1° comma - lett. c), del T.U. n. 380/2001 richiede che le opere stesse siano “eseguite in aree esterne al centro edificato” e va rilevato, al riguardo, che il 2° comma dell’art. 18 della legge n. 865/1971 definisce centro edificato quello «delimitato, per ciascun centro o nucleo abitato, dal perimetro continuo che comprende tutte le aree edificate con continuità ed i lotti interclusi. Non possono essere compresi nel perimetro dei centri edificati gli insediamenti sparsi e le aree esterne, anche se interessate dal processo di urbanizzazione».

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3.3.5 I movimenti di terra e gli interventi idraulici agrari Nessun titolo abilitativo è richiesto per i movimenti di terra strettamente pertinenti all’esercizio

dell’attività agricola e le pratiche agrosilvo-pastorali, compresi gli interventi su impianti idraulici agrari (novellato art. 6, 1° comma - lett. d, del T.U. n. 380/2001).

Lo scavo o sbancamento di un terreno finalizzato, invece, alla edificazione nel luogo di un immobile (con qualsiasi modalità effettuato) è attività inscindibilmente connessa con quella successiva alla quale funzionalmente tende, sicché ne consegue la necessità del preventivo permesso di costruire, comportando i lavori di scavo già di per sé la alterazione della morfologia del territorio per la realizzazione della cosa finale, sì da doversi considerare un unicum con quest’ultima (si veda, nello stesso senso, con riferimento alla realizzazione di depositi di merci e materiali che comportino la trasformazione in via permanente del suolo in edificato, Cass. pen., sez. III, 4 giugno 2009, n. 23197).

La disposizione in esame non si applica, altresì, agli scavi, pur eseguiti in zona agricola, ma caratterizzati da finalità di sfruttamento delle risorse minerarie.

In relazione alla nuova formulazione dell’art. 6 del T.U. n. 380/2001, può ritenersi che tra gli interventi idraulici agrari siano da ricomprendersi anche i manufatti fuori terra necessari alla rete di irrigazione che non presentino caratteristiche di rilevante entità, nonché le opere di presa d’acqua a fini irrigui, comunque nel rispetto delle disposizioni del T.U. sulle acque n. 1775 del 1933.

3.3.6 Le serre mobili stagionali

In materia di serre, la legge n. 73/2010 ha recepito una distinzione ormai tradizionale nella giurisprudenza, distinguendo tra: — serre mobili stagionali, sprovviste di strutture in muratura e funzionali allo svolgimento dell’attività

agricola; — serre realizzate con strutture fisse, costituenti manufatti di supporto per l’attività agricolo-commerciale

rivolti a soddisfare esigenze non provvisorie ma destinati a fare fronte ad esigenze continuative connesse alla coltivazione, e comportanti una modificazione permanente dell’assetto del territorio.

Le piccole serre, rivolte alla protezione del terreno e delle coltivazioni in periodi stagionali, non richiedono il preventivo rilascio di alcun titolo abilitativo, ma ciò deve necessariamente connettersi alla natura agricola del fondo ed alla esclusiva finalizzazione dell’opera allo sfruttamento agricolo del terreno.

In mancanza di tali caratteristiche è necessario, invece, il permesso di costruire.

3.4 Gli interventi edilizi per i quali non è richiesto titolo abilitativo ma la comunicazione dell’inizio dei lavori all’Amministrazione comunale

Per gli interventi che possono essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo, ma previa comunicazione, anche per via telematica, dell’inizio dei lavori all’Amministrazione comunale (art. 6, 2° comma, del T.U. n. 380/2001, come modificato dal D.L. 25-3-2010, n. 40, convertito con modificazioni nella legge 22-5-2010, n. 73), il soggetto interessato deve trasmettere la comunicazione allo sportello unico comunale dell’edilizia prima dell’inizio delle opere (non è prevista, però, la successiva attesa di alcun termine dilatorio), allegando ad essa le autorizzazioni eventualmente obbligatorie ai sensi delle normative di settore.

Esclusivamente per gli interventi di manutenzione straordinaria, l’interessato, unitamente alla comunicazione di inizio dei lavori, deve comunicare i dati identificativi dell’impresa alla quale intende affidare la realizzazione dei lavori.

Le Regioni a statuto ordinario possono: — estendere la disciplina di cui al modificato art. 6 del T.U. n. 380/2001 ad interventi edilizi ulteriori rispetto a

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quelli previsti anche dall’attuale comma 2; — individuare ulteriori interventi edilizi, tra quelli indicati nel comma 2, per i quali è fatto obbligo

all’interessato di trasmettere la relazione tecnica di cui al comma 4; — stabilire ulteriori contenuti per la relazione tecnica di cui al comma 4, nel rispetto di quello minimo fissato

dal medesimo comma.

La mancata comunicazione dell’inizio dei lavori ovvero la mancata trasmissione della relazione tecnica, di cui ai commi 2 e 4 del novellato art. 6 del T.U. n. 380/2001, non rendono illecito l’intervento ma comportano la sanzione amministrativa pecunaria pari a 258 euro.

Tale sanzione è ridotta di due terzi se la comunicazione è effettuata spontaneamente quando l’intervento è in corso di esecuzione.

L’interessato deve altresì provvedere, nei casi previsti dalle vigenti disposizioni, alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale nel termine di cui all’art. 34 quinquies, comma 2 - lettera b), del D.L. 10-1-2006, n. 4, convertito con modificazioni dalla legge 9-3-2006, n. 80.

Al fine di semplificare il rilascio del certificato di prevenzione incendi, anche per le attività di cui al comma 2 del novellato art. 6 del T.U. n. 380/2001, il certificato stesso, ove previsto, è rilasciato “in via ordinaria con l’esame a vista”, cioè subito dopo il sopralluogo.

3.4.1 Gli interventi di manutenzione straordinaria

Mentre le opere di manutenzione ordinaria consistono in lavori di modesta entità, rivolti alla conservazione ed al mantenimento dell’immobile nel breve periodo, gli interventi di manutenzione straordinaria incidono direttamente in parti (anche strutturali) dell’edificio, rimuovendole e/o sostituendole.

Tali interventi sono anch’essi finalizzati alla conservazione del bene, ma questo risultato, programmato nel lungo periodo, viene perseguito attraverso lavori di ampio respiro e consistenza.

L’art. 3, 1°comma - lett. b), del T.U. n. 380/2001 ricomprende nella manutenzione straordinaria «le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare e integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni d’uso» (definizione già fornita dall’art. 31, lett. b, della legge 5-8-1978, n. 457). Per unità immobiliare deve intendersi «ciascuna parte di un immobile, che sia di per se stessa ed in grado di produrre un reddito proprio» (nozione adottata dal R.D.L. 13-4-1939, n. 652 per la disciplina del nuovo catasto edilizio). La dottrina suggerisce, inoltre, per una più puntuale specificazione, il riferimento all’art. 2 del D.M. 9-10-1978 (elementi di valutazione relativi allo stato di conservazione e di manutenzione degli immobili urbani locati).

A titolo esemplificativo, possono farsi rientrare in tale definizione: — il consolidamento di strutture verticali ed il rifacimento di solai di calpestio, scale e coperture, con divieto di

modificare le quote d’imposta e senza alterazione alcuna allo stato dei luoghi, né planimetricamente né quantitativamente rispetto alle superfici utili ed ai volumi esistenti;

— il rifacimento totale dell’intonacatura e del rivestimento esterno degli edifici; — l’apertura, chiusura o modificazione di parti esterne o finestre, soltanto se rivolte a ripristinare una situazione

preesistente; — la realizzazione di opere accessorie che non comportino, comunque, aumento di volume e di superfici utili

(es. sistemazioni esterne, recinzioni, scale di sicurezza, impianto di ascensori etc.); — la realizzazione di volumi tecnici indispensabili a seguito della revisione o installazione di impianti

tecnologici.

In dottrina, la norma dell’art. 31, lett. b), della legge n. 457/1978 è stata anche interpretata con riferimento all’art. 1005 cod. civ., che disciplina le riparazioni straordinarie nel rapporto proprietario-usufruttuario, individuandole come quelle «necessarie ad assicurare la stabilità dei muri maestri e delle volte, la sostituzione delle travi, il rinnovamento, per intero o per una parte notevole, dei tetti, solai, scale, argini,

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acquedotti, muri di sostegno o di cinta». In ogni caso gli interventi di manutenzione straordinaria devono avere per oggetto singole parti

strutturali dell’edificio e non devono consistere, invece, in un insieme sistematico di opere riguardanti l’intero edificio.

Nella vigenza dell’art. 31 della legge n. 457/1978, la regolamentazione giuridica degli interventi di manutenzione straordinaria era circoscritta nell’ambito dell’edilizia residenziale e non era applicabile a manufatti non abitativi. Tale previsione deve ritenersi abrogata per incompatibilità con la nuova disciplina.

Nel regime dei titoli abilitativi edilizi antecedente alle modifiche introdotte dalla legge n. 73/2010, tutte

le opere di manutenzione straordinaria erano assoggettate a DIA, mentre l’attività edilizia libera comprendeva i soli interventi di manutenzione ordinaria.

Il novellato art. 6, 2° comma - lett. a), del T.U. n. 380/2001 prevede, invece, che possono essere realizzati, senza alcun titolo abilitativo ma previa comunicazione dell’inizio dei lavori all’Amministrazione comunale gli interventi di manutenzione straordinaria di cui al precedente art. 3, comma 1 - lett. b), ivi compresa l’apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne, sempre che non riguardino le parti strutturali dell’edificio, non comportino aumento del numero delle unità immobiliari e non implichino incremento dei parametri urbanistici (cioè incremento degli standard).

La manutenzione straordinaria divenuta libera è limitata, pertanto, alle parti interne delle singole unità immobiliari (anche con la realizzazione e l’integrazione dei servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non siano alterati i volumi e le superfici) ed a quelle, anche esterne, non strutturali.

Sono invece assoggettati a SCIA quegli interventi di manutenzione straordinaria che comportano modifiche delle parti strutturali.

Deve ritenersi la necessità del permesso di costruire nelle ipotesi di aumento delle unità immobiliari, indotto incremento degli standard urbanistici e modifiche delle destinazioni d’uso.

3.4.2 Opere precarie

Secondo costante interpretazione dottrinaria e giurisprudenziale, una trasformazione urbanistica e/o edilizia – per essere assoggettata all’intervento autorizzatorio in senso ampio dell’autorità amministrativa – non deve essere precaria. Un’opera oggettivamente finalizzata a soddisfare esigenze improvvise o transeunti non è destinata a produrre, infatti, quegli effetti sul territorio che la normativa urbanistica è rivolta a regolare.

Sono stati sempre ritenuti esclusi, pertanto, dal regime del permesso di costruire i manufatti di assoluta ed evidente precarietà (cd. opere precarie), destinati cioè a soddisfare esigenze di carattere contingente e ad essere presto eliminati (es. le baracche per il ricovero delle persone e degli attrezzi, destinate a durare per il tempo occorrente alla gestione di un cantiere).

La giurisprudenza ha inoltre specificato che la natura precaria di un manufatto, ai fini dell’esenzione dal permesso di costruire, non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all’opera dal costruttore, né dal dato che si tratti di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo, ma deve ricolleggarsi alla intrinseca destinazione materiale dell’opera stessa ad un uso realmente precario e temporaneo per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con la conseguente e sollecita successiva eliminazione. Il connotato della precarietà dell’opera non dipende, quindi, dalla natura dei materiali adoperati e dalla facilità della rimozione, ma dalla provvisorietà oggettiva dei bisogni che essa è destinata a soddisfare (concreta destinazione – desunta non dalla mera intenzione del costruttore, ma dalle caratteristiche strutturali e funzionali del manufatto – a sopperire ad una specifica necessità, contingente e temporanea, e ad essere poi prontamente rimosso).

Non possono considerarsi precarie le opere stagionali, poiché esse non sono destinate al soddisfacimento di esigenze eccezionali e contingenti, avendo invece una funzione permanente nel tempo.

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Il novellato art. 6, 2° comma – lett. b), del T.U. n. 380/2001 prevede che possono essere installate, senza alcun titolo abilitativo ma previa comunicazione dell’inizio dei lavori all’Amministrazione comunale (anche per via telematica), le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a 90 giorni. Tale disposizione, però, non manca di suscitare incertezze, perché il termine di 90 giorni entro il quale le opere devono essere rimosse è anzitutto troppo breve e non è, poi, definito perentorio: sembra potersi ritenere, perciò, che esso possa essere prorogato su richiesta dell’interessato.

3.4.3 Il permesso di costruire «in precario»

Le amministrazioni locali utilizzano talvolta la prassi, sicuramente atipica, di rilasciare permessi di

costruire provvisori (cd. «in precario») in fattispecie pure dissimili tra loro ma per lo più per assentire opere — non conformi alle prescrizioni dello strumento urbanistico — alle quali però, per natura e destinazione, viene riconosciuta una durata limitata e predeterminabile.

L’istituto del permesso di costruire «in precario» non è previsto dall’ordinamento, perché il permesso di costruire postula la sussistenza di una trasformazione del territorio che abbia natura di prevedibile stabilità e non è configurabile inoltre, nei suoi confronti, il potere di revoca.

La Cassazione penale ed il Consiglio di Stato, pertanto, hanno affermato — con giurisprudenza costante — che non è mai configurabile un permesso di costruire (già concessione edilizia) a titolo precario, in quanto: a) o l’opera è oggettivamente contraddistinta da caratteri di precarietà e non necessita pertanto di alcun titolo

abilitativo; b) o, se essa ha natura stabile, non può prescindere da un titolo abilitativo, che dovrà dare atto della conformità

dell’opera stessa agli strumenti urbanistici vigenti. L’istituto del permesso di costruire a titolo precario, di conseguenza, oltre ad essere extra legem, in

quanto non previsto da alcuna disposizione legislativa, è anche illegittimo e contra legem, perché «non potrebbe avere altra funzione che quella di tollerare una situazione di evidente abuso edilizio».

3.4.4 Opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni Il modificato art. 6, comma 2 - lett. c), del T.U. n. 380/2001 prevede che possono essere realizzate, senza

alcun titolo abilitativo ma previa comunicazione dell’inizio dei lavori all’Amministrazione comunale (anche per via telematica), le opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, anche per aree di sosta - che siano contenute entro l’indice di permeabilità, ove stabilito dallo strumento urbanistico comunale – ivi compresa la realizzazione di intercapedini interamente interrate e non accessibili, vasche di raccolta delle acque, locali tombati.

Deve trattarsi, ovviamente, di opere al servizio di unità abitative e tra esse non possono farsi rientrare quelle di ampliamento di piazzali industriali (vedi Cass. pen., sez. III, 15 luglio 2005, n. 26139, Pedrini).

Va esclusa, altresì, la realizzazione di volumi abitabili.

3.4.5 Pannelli solari, fotovoltaici e termici a servizio degli edifici L’art. 6, comma 2 - lett. d), del T.U. n. 380/2001 — come ulteriormente modificato dall’art. 7 del D.Lgs.

3-3-2011, n. 28 — prevede che possono essere installati, senza alcun titolo abilitativo ma previa comunicazione dell’inizio dei lavori all’Amministrazione comunale (anche per via telematica), i pannelli solari e fotovoltaici, a servizio degli edifici, da realizzare al di fuori della zona A) di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444.

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Detto regime di edilizia libera previa comunicazione non è applicabile, dunque, nei centri storici. Va ricordato, in proposito, che l’art. 11, comma 3, del D.Lgs. 30-5-2008, n. 115 fa rinvio all’art. 3, comma 3 - lett. cc), del D.Lgs. n. 192 del 2005, che esclude dagli obblighi relativi al rendimento energetico nell’edilizia le ville che si distinguono per la non comune bellezza e i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale, inclusi i centri ed i nuclei storici [art. 136, comma 1 - lett. b) e c), del D.Lgs. n. 42/2004], qualora il rispetto delle prescrizioni implicherebbe una alterazione inaccettabile del loro carattere o aspetto con particolare riferimento ai caratteri storici o artistici.

L’art. 123, 1° comma del T.U. n. 380/2001 dispone che «Gli interventi di utilizzo delle fonti di energia di cui all’art. 1 della legge 9 gennaio 1991, n. 10, in edifici ed impianti industriali non sono soggetti ad autorizzazione specifica e sono assimilati a tutti gli effetti alla manutenzione straordinaria di cui all’art. 3, comma 1, lett. a). L’installazione di impianti solari e di pompe di calore da parte di installatori qualificati, destinati unicamente alla produzione di acqua calda e di aria negli edifici esistenti e negli spazi liberi privati ammessi, è considerata estensione dell’impianto idrico-sanitario già in opera».

L’art. 11, comma 3, del D.Lgs. 30-5-2008, n. 115 dispone che “sono considerati interventi di manutenzione ordinaria e non sono soggetti alla denuncia di inizio attività di cui agli artt. 22 e 23 del T.U. n. 380 del 2001… gli interventi di incremento dell’efficienza energetica che prevedono l’installazione di singoli generatori eolici con altezza complessiva non superiore a 1,5 metri e diametro non superiore a 1 metro, nonché di impianti solari termici o fotovoltaici aderenti o integrati nei tetti degli edifici con la stessa inclinazione e lo stesso orientamento della falda e i cui componenti non modificano la sagoma degli edifici stessi … qualora la superficie dell’impianto non sia superiore a quella del tetto stesso”. Per la realizzazione degli interventi dianzi descritti è sufficiente “una comunicazione preventiva al Comune”.

Sempre l’art. 11, comma 3, del D. Lgs. n. 115/2008 fa espressamente salvo l’art. 26 della legge n. 10/1991, che:

— prevede la concessione gratuita ex art. 9 della legge n. 10/1977, per i nuovi impianti, lavori, opere, modifiche, installazioni, relativi alle fonti rinnovabili di energia, alla conservazione, al risparmio e all’uso razionale dell’energia;

— assimila alla manutenzione straordinaria l’installazione di tali impianti in edifici industriali; — considera estensione dell’impianto idrico-sanitario già in opera l’installazione di impianti solari e di pompe di

calore da parte di installatori qualificati, destinati unicamente alla produzione di acqua calda e di aria negli edifici esistenti e negli spazi liberi privati annessi.

Da tutte le disposizioni normative dianzi citate deriva una disciplina piuttosto complessa, che può

sintetizzarsi come segue: — costituiscono attività edilizia libera, previa comunicazione, anche per via telematica, dell’inizio dei lavori all’Amministrazione comunale, gli interventi – da realizzare al di fuori dei centri storici (zone A di cui al D.M. n. 1444/1968) – di installazione dei pannelli nell’ambito di fabbricati anche con più unità immobiliari, a servizio di tutti gli abitanti, purché non modifichino la sagoma dell’edificio; — costituiscono attività edilizia libera, con “comunicazione preventiva al Comune”, gli interventi di incremento dell’efficienza energetica che prevedono l’installazione di impianti solari termici o fotovoltaici aderenti o integrati nei tetti degli edifici con la stessa inclinazione e lo stesso orientamento della falda e i cui componenti non modificano la sagoma degli edifici stessi, qualora la superficie dell’impianto non sia superiore a quella del tetto; — deve considerarsi estensione dell’impianto idrico-sanitario già in opera l’installazione di impianti solari e di pompe di calore da parte di installatori qualificati, destinati unicamente alla produzione di acqua calda e di aria negli edifici esistenti e negli spazi liberi privati annessi; — è soggetta a permesso di costruire gratuito, ex art. 17, 3° comma, lett. e), del T.U. n. 380/2001, l’installazione di tutti gli altri impianti relativi a fonti rinnovabili di energia su edifici di abitazione; — è assimilata alla manutenzione straordinaria l’installazione di impianti di risparmio energetico su edifici ed impianti industriali.

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3.4.6 L’arredo delle aree pertinenziali degli edifici La previsione di cui alla lett. e) del modificato 2° comma dell’art. 6 del T.U. n. 380/2001 ha liberalizzato

la realizzazione degli arredi comuni degli edifici privati e delle aree ludiche di pertinenza (pur trattandosi di interventi che non possono definirsi propriamente “opere minori”, specialmente nei complessi edificativi di grande consistenza).

Riteniamo che, quanto alle aree ludiche pertinenziali, la previsione si riferisca anche ai campi da giuoco (bocce, calcetto, pallacanestro, pallavolo, tennis), ma che, in ogni caso, non debbano realizzarsi volumi: il che porta ad escludere la costruzione di spogliatoi, locali docce etc. anche attraverso l’impiego di manufatti non in muratura ed amovibili. L’interpretazione letterale del testo normativo conduce ad eccettuare pure la creazione di gradinate per gli spettatori.

La norma non può estendersi, in ogni caso, alla realizzazione di piscine, che non possono considerarsi “aree ludiche” destinate all’attività sportiva del nuoto, occorrendo per esse lavori di scavo, rivestimento ed installazione di impianti tecnologici.

La liberalizzazione dai titoli abilitativi non può riguardare, inoltre, quegli interventi che comportino la creazione di impianti sportivi usufruibili dal pubblico in genere o dai cittadini di un quartiere, poiché essi corrispondono alle opere di urbanizzazione secondaria: questi interventi, infatti, anche se non creassero volumi, sono caratterizzati da autonomia funzionale e da una consistenza materiale ed economica tali da dovere essere realizzati in rapporto funzionale con l’organizzazione urbanistica complessiva del territorio comunale.

Devono ritenersi esclusi, infine, gli interventi su aree pubbliche e su edifici pubblici, che rappresentano l’arredo urbano in senso proprio.

3.4.7 Gli interventi sugli immobili adibiti ad esercizio d’impresa

L’art. 13 bis, comma 1 - lett. a), del D.L. n. 83/2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 134/2012, ha aggiunto la lettera e-bis) all’art. 6, comma 2, del T.U. n. 380/2001, facendo rientrare le modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio d’impresa e quelle della destinazione d’uso dei locali adibiti ad esercizio d’impresa tra le attività di edilizia libera per le quali non è necessario il titolo abilitativo, ma è richiesto l’invio della comunicazione all’amministrazione comunale prima di iniziare i lavori.

Il testo legislativo si riferisce in modo generico alle modifiche interne di carattere edilizio ad ai cambi della destinazione d’uso negli immobili destinati ad esercizio d’impresa. Sembra potersi dedurre che in tali immobili, a differenza che negli edifici ad uso residenziale, anche gli interventi sulle parti strutturali, o che comportino aumento delle unità immobiliari e incremento dei parametri urbanistici possono essere effettuati in regime di edilizia libera previa comunicazione al Comune.

3.5 . La DIA (denuncia di inizio attività) in materia edilizia: successione delle disposizioni normative

L’art. 2, comma 60, della legge 23-12-1996, n. 662 — modificato dall’art. 10 del D.L. 31-12-1996, n.

669, convertito nella legge 28-2-1997, n. 30 e dall’art. 11 del D.L. 25-3-1997, n. 67, convertito nella legge 23-5-1997, n. 135 — (che aveva sostituito l’art. 4 del D.L. 5-10-1993, n. 398, convertito nella legge 4-12-1993, n. 493), previde, per taluni interventi specifici, la facoltà di eseguirli previa mera denuncia di inizio dell’attività (DIA), disciplinata, quale istituto generale, dall’art. 19 della legge 7-8-1990, n. 241 e succ. modif. Si trattava dei seguenti interventi assoggettati anche al regime autorizzatorio: — opere di manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo; — opere di eliminazione delle barriere architettoniche in edifici esistenti, qualora consistenti in rampe o

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ascensori esterni ovvero in manufatti alteranti la sagoma dell’edificio; — revisione o installazione di impianti tecnologici al servizio di edifici o di attrezzature esistenti e realizzazione

di volumi tecnici indispensabili sulla base di nuove disposizioni; — parcheggi di pertinenza nel sottosuolo del lotto di insistenza del fabbricato; nonché dei seguenti altri interventi: — recinzioni, muri di cinta e cancellate; — destinazione di aree ad attività sportive senza creazione di volumetrie; — opere interne di singole unità immobiliari, che non comportino modifiche della sagoma e dei prospetti e non

rechino pregiudizio alla statica dell’immobile e, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee di tipo A) di cui al D.M. n. 1444/1968 (centro storico), non modifichino la destinazione d’uso;

— varianti a concessioni già rilasciate che non incidano sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non cambino la destinazione d’uso e la categoria edilizia e non alterino la sagoma né violino le eventuali prescrizioni contenute nella concessione edilizia.

Per gli interventi (dianzi specificati) assoggettati anche al regime autorizzatorio venne così

introdotto un regime di alternatività, in quanto coloro che intendevano realizzarli erano liberi di optare in ogni momento (e quindi pure dopo il diniego intervenuto sulla denuncia di inizio dell’attività) per la richiesta di autorizzazione, che non era subordinata al preventivo esperimento della procedura di denuncia (più tempestiva ma anche più responsabilizzante).

Il T.U. n. 380/2001 ha eliminato l’autorizzazione quale titolo abilitativo dell’edificazione e ha disciplinato (agli artt. 22 e 23) gli interventi edilizi realizzabili mediante denuncia di inizio attività, individuandoli in via residuale rispetto alle categorie espressamente sottoposte a permesso di costruire, eventualmente integrate dalle ulteriori ipotesi determinate dalle singole Regioni. Ciò ha reso inutile l’elencazione degli interventi edilizi minori già contenuto nel ricordato art. 2, comma 60, della legge n. 662/1996 e successive modificazioni.

L’art. 1, 6° comma, della legge 21-12-2001, n. 443 (c.d. legge obiettivo) ampliò notevolmente l’ambito di applicazione della denuncia di inizio di attività. Esso, infatti, assoggettò a tale istituto, a scelta dell’interessato: a) gli interventi edilizi minori già ad esso ricondotti dall’art. 4, 7° comma, del D.L. n. 398/1993 (convertito nella

legge n. 493/1993), come sostituito dall’art. 2, 60° comma, della legge 23-12-1996, n. 662; b) le ristrutturazioni edilizie comprensive della demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma,

con esclusione dal calcolo della volumetria delle innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica;

c) gli interventi già sottoposti a concessione edilizia, se specificamente disciplinati da piani attuativi contenenti precise disposizioni planovolumetriche, tipologiche, formali e costruttive, la cui sussistenza fosse stata espressamente dichiarata dal Consiglio comunale in sede di approvazione degli stessi piani o di ricognizione di quelli vigenti.

Relativamente ai piani attuativi approvati anteriormente all’entrata in vigore della stessa legge, l’atto di ricognizione doveva avvenire entro 30 giorni dalla richiesta degli interessati; in mancanza, si prescindeva dall’atto di ricognizione purché il progetto di costruzione venisse accompagnato da apposita relazione tecnica nella quale fosse asseverata l’esistenza di piani attuativi aventi le caratteristiche anzidette;

d) i sopralzi, le addizioni, gli ampliamenti e le nuove edificazioni in diretta esecuzione di idonei strumenti urbanistici diversi da quelli indicati alla lettera c), ma recanti analoghe previsioni di dettaglio.

Successivamente è stato emanato il D.Lgs. 27 dicembre 2002, n. 301, allo scopo di coordinare la

normativa contenuta nel T.U. n. 380/2001 con quella introdotta dalla legge obiettivo n. 443/2001, che, all’art. 1, comma 14, aveva delegato il Governo ad emanare, entro il 31 dicembre 2002, un decreto legislativo volto ad introdurre nel T.U. dell’edilizia le modifiche strettamente necessarie per adeguare quest’ultimo alle disposizioni, in tema di DIA, contenute nella legge obiettivo. È stato così riformulato l’art. 22 del T.U. n. 380/2001 ed alle ipotesi di DIA (che può definirsi «semplice») già configurate nell’originaria versione, sono state aggiunte nuove ipotesi (definite nella pratica di cd.

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«superDIA») aventi ad oggetto le ristrutturazioni edilizie (comma 3, lett. a)), nonché le nuove costruzioni e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, nel rispetto degli strumenti urbanistici attuativi o generali contenenti prescrizioni di dettaglio. La c.d. «superDIA» ha ad oggetto interventi edilizi maggiori, per i quali il regime di fondo è quello del permesso di costruire. L’interessato ha la facoltà di utilizzare il procedimento della DIA, in luogo del permesso di costruire, ma il regime giuridico sostanziale rimane quello del permesso di costruire, con le seguenti conseguenze: — il titolo abilitativo tipizzato continua ad essere il permesso di costruire, mentre la cd. «superDIA» è

facoltativa; — la «superDIA» è sempre onerosa, come il permesso di costruire; — le violazioni della «superDIA» comportano le stesse sanzioni amministrative e penali previste per le

violazioni del permesso di costruire.

3.6 La sostituzione della DIA con la segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) in materia edilizia

A) Il nuovo istituto della segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) e la sua applicabilità in materia

edilizia

L’art. 49, comma 4-bis, D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122 — in sostituzione dell’art. 19 della legge 241/1990 — ha introdotto la disciplina della segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), destinata a sostituire direttamente la DIA, sia nel nome sia nel procedimento.

Ai sensi del comma 4-ter dello stesso art. 49, infatti, le espressioni «segnalazione certificata di inizio attività» e «SCIA» sostituiscono, rispettivamente, quelle di «dichiarazione di inizio attività» e «DIA», ovunque ricorrano, anche come parte di una espressione più ampia, e la disciplina di cui al comma 4-bis sostituisce direttamente, dalla data di entrata in vigore della legge di conversione, quella della dichiarazione di inizio attività recata da ogni normativa statale e regionale. Alla SCIA devono essere allegate, tra l’altro — con «assunzione di responsabilità» dell’interessato — le «attestazioni e asseverazioni di tecnici abilitati», insieme agli elaborati progettuali necessari per consentire le verifiche successive di competenza dell’amministrazione.

Il nuovo istituto consente di iniziare immediatamente l’attività «segnalata», senza la necessità di attendere il decorso di alcun termine, ma è fatta salva la possibilità per l’amministrazione, in caso di accertata carenza dei requisiti, di adottare entro 60 giorni motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli effetti. Decorso tale termine l’amministrazione può intervenire, esercitando il proprio potere sanzionatorio, in presenza del pericolo di un danno per il patrimonio storico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale, e previo motivato accertamento dell’impossibilità di tutelare comunque gli interessi anzidetti mediante conformazione dell’attività dei privati alla normativa vigente.

Per l’attività edilizia, si è dubitato che la SCIA avesse sostituito la DIA, in considerazione del fatto che la DIA nell’edilizia è regolata con una normativa speciale rispetto al paradigma dell’art. 19 della legge 241/1990 (artt. 22 e segg. del T.U. 380/2001, quale esito di un percorso normativo avviato con l’art. 2 della legge 537/1993 e con l’art. 2, 60° comma, della legge 662/1996). A causa delle incertezze indotte dal D.L. 78/2010, nel tentativo di dissipare i dubbi circa l’estensione dell’applicazione del nuovo istituto anche all’edilizia, il Ministero per la semplificazione aveva emanato una circolare del 16 settembre 2010 con la quale aveva concluso nel senso che la SCIA sostituisce la DIA anche nella materia edilizia, mantenendone l’identico campo applicativo e senza interferire con il permesso di costruire. Secondo l’interpretazione ministeriale, rimaneva esclusa, invece, l’estensione della disciplina della SCIA alla DIA alternativa al permesso di costruire, ponendosi come ostacolo la disciplina speciale di tale istituto posta

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dall’art. 22, 3° e 4° comma, T.U. 380/2001, articolata sulla falsariga di quella del permesso di costruire. La circolare anzidetta, priva di valenza prescrittiva, però, non aveva dissipato le incertezze interpretative ed è quindi nuovamente intervenuto il legislatore che, con l’art. 5 del D.L. 13 maggio 2011, n. 70, convertito in legge 12 luglio 2011, n. 106, ha espressamente stabilito che le disposizioni di cui all’articolo 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241: — si applicano alle denunce di inizio attività in materia edilizia disciplinate dal D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380,

con esclusione dei casi in cui le denunce stesse, in base alla normativa statale o regionale, siano alternative o sostitutive del permesso di costruire;

— esse non sostituiscono la disciplina prevista dalle leggi regionali che, in attuazione dell’articolo 22, 4° comma, del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, abbiano ampliato l’ambito applicativo delle disposizioni di cui all’articolo 22, 3° comma, del medesimo decreto e, nei casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, la SCIA «non sostituisce gli atti di autorizzazione o nulla osta, comunque denominati, delle amministrazioni preposte alla tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale».

Nei casi di SCIA in materia edilizia, inoltre, è stato ridotto a 30 giorni il termine concesso all’amministrazione per adottare, in caso di accertata carenza dei requisiti, motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli effetti.

B) Gli interventi edilizi attualmente assoggettati a SCIA

Devono ritenersi attualmente assoggettati a SCIA, ai sensi dell’art. 22, 1° e 2° comma, T.U. 380/2001: — tutti gli interventi edilizi non assoggettati a permesso di costruire ai sensi dell’art. 10 dello stesso T.U.,

sempre che siano conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e alla disciplina urbanistico-edilizia;

In questa categoria, tipicamente residuale, rientrano (con elencazione meramente esemplificativa): a) gli interventi pertinenziali che comportino la realizzazione di un volume non superiore al 20% di quello

dell’edificio principale (come si evince a contrario dalla disposizione dell’art. 3, lett. e.6 del T.U.); b) gli interventi rivolti all’eliminazione delle barriere architettoniche che non comportino la realizzazione di

rampe o di ascensori esterni, ovvero di manufatti che alterino la sagoma dell’edificio; c) gli interventi di manutenzione straordinaria e le opere interne allorché comportino modifiche delle parti

strutturali degli edifici; d) gli interventi di restauro e risanamento conservativo; e) alcuni degli interventi tra quelli precedentemente individuati dalla legge 662/1996 — quale le recinzioni, i

muri di cinta e le cancellate — allorquando siano realizzati con opere di entità limitata per natura e dimensioni;

f) le demolizioni, gli scavi e i rinterri non finalizzati ad interventi di nuova costruzione; — le varianti a permessi di costruire già rilasciati, purché non incidano sui parametri urbanistici e sulle

volumetrie, non modifichino destinazione d’uso, categoria edilizia e sagoma dell’edificio e non violino prescrizioni specificamente imposte dal permesso di costruire (cd. «varianti leggere o minori»).

La SCIA relativa a tali varianti può essere presentata «prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori» e ciò significa che la presentazione può essere anche successiva alla concreta realizzazione delle stesse.

L’art. 22, 7° comma, T.U. 380/2001 fa salva la facoltà dell’interessato di chiedere il rilascio del

permesso di costruire anche per la realizzazione degli interventi soggetti a SCIA. Trattasi di una disposizione rivolta a salvaguardare l’interesse del privato alla certezza della propria situazione giuridica e la stessa norma specifica che, comunque, la richiesta del permesso non incide sulla (eventuale) gratuità dell’intervento né sul regime sanzionatorio al quale esso è soggetto.

Le Regioni a statuto ordinario possono — con legge — ampliare o ridurre l’ambito applicativo della SCIA edilizia, individuando le tipologie di interventi assoggettate a contributo di costruzione e definendo criteri e parametri per la relativa determinazione. Gli ampliamenti o le riduzioni delle categorie sottoposte dalla legge statale a permesso di costruire non incidono, però, sul regime delle sanzioni penali, che alla sola normativa statale si correla in considerazione dei

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limiti posti dalla Costituzione alla potestà legislativa regionale (art. 22, 4° comma, T.U. 380/2001).

3.7 SCIA ed immobili abusivi

Deve ritenersi che i lavori edilizi che riguardano manufatti abusivi che non siano stati sanati né condonati non sono assoggettabili al regime della SCIA, in quanto gli ulteriori interventi (anche se riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della ristrutturazione, del restauro e/o risanamento conservativo, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell’opera principale alla quale ineriscono strutturalmente (così, con riferimento alla DIA, Cass. pen., sez. III: 20 gennaio 2009, n. 2112, Pizzolante; 19 gennaio 2009, n. 1810, P.M. in proc. Cardito; 19 aprile 2006, n. 21490. Nello stesso senso vedi T.a.r. Campania, Napoli, sez. VI, 22 dicembre 2009, n. 9335).

3.8 SCIA ed immobili vincolati

Qualora un qualsiasi intervento da realizzarsi mediante SCIA riguardi immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistico-ambientale, l’effettuazione dello stesso è subordinata al preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative (art. 22, 6° comma, del T.U. n. 380/2001). Nell’ambito delle norme di tutela rientrano, in particolare, le disposizioni di cui: — al D.Lgs. 22-1-2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio); — alla legge 6-12-1991, n. 394 (legge-quadro sulle aree protette); — alla legge 18-5-1989, n. 183 (norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo); nonché le previsioni: — dei piani territoriali paesistici o dei piani urbanistico-territoriali aventi le medesime finalità di salvaguardia dei valori paesistici e

ambientali; — degli strumenti urbanistici, qualora siano espressamente rivolte alla tutela delle caratteristiche paesaggistiche, ambientali, storico-

archeologiche, storico-artistiche, storico-architettoniche e storico-testimoniali.

Il T.U. n. 380/2001 ha esteso alla generalità dei vincoli di tutela storica o paesaggistico-ambientale il principio — già esplicitato dall’art. 36 del D.Lgs. 29-10-1999, n. 490 (Testo unico in materia di beni culturali e ambientali) con riferimento al solo vincolo storico-artistico — secondo cui la circostanza che l’immobile oggetto dell’intervento edilizio sia sottoposto a tutela non comporta alcun aggravio del procedimento (le disposizioni che avevano via via introdotto semplificazioni procedimentali in materia edilizia avevano invece escluso l’applicabilità di tali semplificazioni ove l’intervento edilizio riguardasse un immobile sottoposto a tutela storico-artistica o paesaggistico-ambientale: si ricordino, in proposito, l’art. 48 della legge n. 457/1978; l’art. 7 del D.L. n. 9/1982; l’art. 26 della legge n. 47/1985; l’art. 4, comma 8, del D.L. n. 398/1993).

Quanto ai profili procedurali, deve ritenersi che, ai sensi dell’art. 23, 3° e 4° comma, del T.U. n. 380/2001: — nell’ipotesi in cui la tutela del vincolo è affidata, anche in via di delega, alla stessa Amministrazione

comunale, la SCIA rimane temporaneamente inefficace fino a quando tale provvedimento non sia emesso. Essa rimane definitivamente priva di effetti, invece, nell’ipotesi di diniego esplicito;

— nell’ipotesi in cui la tutela del vincolo compete ad un’autorità diversa dall’Amministrazione comunale, ove il parere favorevole del soggetto preposto alla tutela non sia allegato alla SCIA, l’ufficio comunale competente a ricevere la segnalazione medesima può convocare apposita conferenza di servizi, al fine di conseguire, in quella sede, i necessari provvedimenti. I lavori possono essere iniziati solo in seguito al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica anche quale esito della conferenza, mentre la SCIA rimane definitivamente priva di effetti qualora l’esito sia negativo.

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3.9 La DIA alternativa (cd. superDIA) e l’art. 22, 3° comma, del T.U. n. 380/2001

La denuncia di inizio attività, in materia edilizia, è attualmente limitata alle ipotesi previste dall’art. 22,

3° comma, del T.U. dell’edilizia n. 380/2001, come modificato dal D.Lgs. 27-12-2002, n. 301. Trattasi degli interventi soggetti a permesso di costruire o, in base alla scelta discrezionale dell’interessato, a c.d. «superDIA», ricomprendenti: — gli interventi di ristrutturazione di cui all’art. 10, comma 1, lettera c); — gli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica qualora siano disciplinati da piani

attuativi comunque denominati, ivi compresi gli accordi negoziali aventi valore di piano attuativo (es. convenzioni di lotizzazione), che contengano precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive, la cui sussistenza sia stata esplicitamente dichiarata dal competente organo comunale in sede di approvazione degli stessi piani o di ricognizione di quelli vigenti.

Qualora i piani attuativi risultino approvati anteriormente all’entrata in vigore della legge 21-12-2001, n. 443, il relativo atto di ricognizione deve intervenire entro 30 giorni dalla richiesta degli interessati.

In mancanza, si prescinde dall’atto di ricognizione, purché il progetto di costruzione venga accompagnato da apposita relazione tecnica nella quale venga asseverata l’esistenza di piani attuativi con le caratteristiche dianzi menzionate;

— gli interventi di nuova costruzione qualora in diretta esecuzione di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche.

Ove esistano piani attuativi, dunque, essi devono contenere «precise disposizioni plano--volumetriche,

tipologiche, formali e costruttive», che costituiscono i parametri dettagliati in base ai quali dovrà essere redatto il progetto del privato, con semplice trasposizione, nelle previsioni progettuali, delle prescrizioni complete dettate dallo strumento urbanistico. Ciò comporta che i piani attuativi di nuova redazione devono contenere anche la dichiarazione esplicita di sussistenza dei presupposti per l’effettuazione degli interventi mediante D.I.A., qualora essi (ovviamente) siano in concreto presenti. Per i piani attuativi già esistenti, invece, il Comune dovrà provvedere, di ufficio, attraverso una variante normativa, ad una ricognizione in via generale e, in mancanza, il riconoscimento dei presupposti dovrà essere chiesto da colui che intenda utilizzare la procedura di D.I.A. Nel caso in cui il Comune non fornisca riscontro, l’interessato potrà fare ricorso all’attestazione del progettista sull’esistenza delle prescrizioni di dettaglio richieste dalla legge.

Qualora manchi una pianificazione attuativa, la legge prevede che i soli interventi di nuova costruzione (e non anche, quindi, quelli di ristrutturazione urbanistica) possano essere eseguiti mediante D.I.A. a condizione che siano «in diretta esecuzione di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche». Notevoli perplessità induce il mancato (e poco ragionevole) riferimento alle «caratteristiche tipologiche, formali e costruttive» richieste, invece, in presenza di piani attuativi. I piani regolatori di nuova formulazione potrebbe indicare espressamente, per determinati ambiti territoriali, la sussistenza dei presupposti per il ricorso alla D.I.A. alternativa ma, ove ciò non si verifichi, spetterà al progettista (con elevato rischio personale) attestare siffatta sussistenza. Quanto poi alla individuazione concreta di detti presupposti, viene prospettata in dottrina (MARZARO GAMBA) la possibilità di riferimento a quelle situazioni in cui la nuova costruzione debba essere effettuata in una zona adeguatamente urbanizzata del territorio comunale, per la quale non sia richiesta la redazione di piani attuativi ove l’intervento progettato non sia in grado di incidere sul carico urbanistico, aggravandolo e creando la necessità di ulteriori opere di urbanizzazione. Può auspicarsi una specificazione dei presupposti in sede di disciplina regionale ma allo stato, a giudizio di chi scrive, la norma è tanto lacunosa da essere praticamente inapplicabile: essa, se superficialmente interpretata, può arrecare gravi danni alla collettività, mentre colui che in buona fede se ne volesse avvalere direttamente affronterebbe una situazione di intollerabile incertezza, foriera di assai probabili sanzioni (anche penali sotto i

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profili della colpa per imprudenza).

3.10 Natura giuridica della denuncia di inizio dell’attività

Il tema della natura giuridica della DIA presenta profili teorici problematici e posizioni divergenti sono

state espresse in dottrina ed in giurisprudenza. A) Un orientamento minoritario, ormai superato, prospettava la configurazione di un’ipotesi di provvedimento abilitativo tacito per silenzio-assenso (atto implicito di controllo positivo circa la sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge per l’esercizio dell’attività). In tale prospettiva la DIA si tradurrebbe direttamente nell’autorizzazione implicita all’effettuazione dell’attività in virtù di una valutazione legale tipica. Si tratterebbe, quindi, di un istituto del tutto peculiare, comunque, assimilabile ad una istanza autorizzatoria, che, con il decorso del termine di legge, provoca la formazione di un «titolo», cioè di un provvedimento tacito di accoglimento di una siffatta istanza, che rende lecito l’esercizio dell’attività (vedi, tra le decisioni più recenti in tal senso, C. Stato: sez. IV, 25 novembre 2008, n. 5811; sez. IV, 29 luglio 2008, n. 3742; sez. IV, 12 settembre 2007, n. 4828; sez. VI, 5 aprile 2007, n. 1550). Dalla tesi che configura la formazione di un provvedimento tacito di accoglimento deriva che la pubblica amministrazione potrebbe esercitare successivamente il proprio distinto potere sanzionatorio dell’attività posta in essere con DIA illegittima soltanto previa rimozione dell’atto positivo che si è tacitamente formato. B) La giurisprudenza e la dottrina prevalenti escludono, invece, che la denuncia di inizio attività dia origine ad un provvedimento amministrativo in forma tacita. L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato — con la recente sentenza 29-7-2011, n. 15 — ha testualmente affermato, in proposito, che la DIA «non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce un atto privato volto a comunicare l’intenzione di intraprendere un’attività direttamente ammessa dalla legge». Già le sezioni semplici del Consiglio di Stato, del resto, avevano osservato che la DIA «è un atto di un soggetto privato e non di una pubblica amministrazione, che ne è invece destinataria, e non costituisce, pertanto, esplicazione di una potestà pubblicistica. L’attività dell’amministrazione, difatti, è limitata alla verifica della sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti, e tale verifica, a differenza di quanto accade nel regime a previo atto amministrativo, non è finalizzata all’emanazione dell’atto amministrativo di consenso all’esercizio dell’attività, ma al controllo, privo di discrezionalità, della corrispondenza di quanto dichiarato dall’interessato rispetto ai requisiti stabiliti dalla normativa applicabile» (vedi: C. Stato: sez. VI, 9 febbraio 2009, n. 717, in Urbanistica e appalti; 2009, 572; sez. VI, 15 aprile 2010, n. 2139; Sez. IV, 13 maggio 2010, n. 2919). Secondo le argomentazioni svolte dalla citata giurisprudenza del Consiglio di Stato, il legislatore ha contrapposto nettamente la DIA al provvedimento amministrativo, prevedendo proprio la sostituzione dei tradizionali modelli procedimentali in tema di autorizzazione con un nuovo schema ispirato alla liberalizzazione delle attività economiche private, con la conseguenza che per l’esercizio delle stesse non è più necessaria l’emanazione di un titolo provvedimentale di legittimazione. A seguito della denuncia, il soggetto pubblico verifica la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti e gli unici provvedimenti rinvenibili nella fattispecie sono quelli (meramente eventuali) che la P.A. può emanare nel termine di legge per impedire la prosecuzione dell’attività o per imporre la rimozione degli effetti, ovvero quelli adottati in «autotutela» successivamente alla scadenza di questo termine. Il potere di verifica di cui dispone l’amministrazione, a differenza di quanto accade nel regime a previo atto amministrativo, non è finalizzato all’emanazione dell’atto amministrativo di consenso all’esercizio dell’attività, ma al controllo (privo di discrezionalità) della corrispondenza di quanto dichiarato dall’interessato rispetto ai canoni normativi stabiliti per l’attività in questione. Con la DIA, quindi, al principio autoritativo si sostituisce il principio dell’autoresponsabilità dell’amministrato (temperato dalla persistenza del potere amministrativo di verifica dei presupposti richiesti dalla legge per lo svolgimento dell’attività denunciata).

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Ha evidenziato ancora il Consiglio di Stato che, se la DIA fosse davvero un atto destinato ad avviare un procedimento destinato a concludersi con un provvedimento di accoglimento tacito, sarebbe arduo cogliere una sostanziale differenza tra DIA e silenzio-assenso. I due istituti, invece, sono tenuti distinti dal legislatore che attribuisce loro una diversa funzione: mentre con la DIA, infatti, si attua una liberalizzazione dell’attività privata non più soggetta ad autorizzazione, il silenzio-assenso costituisce una mera semplificazione procedimentale, prevedendo una modalità di conseguimento dell’autorizzazione equipollente ad un provvedimento esplicito di accoglimento.

Resta fermo il potere dell’amministrazione di assumere determinazioni in via di autotutela ai sensi degli artt. 21quinquies-21nonies della legge n. 241/1990. Ciò significa che l’amministrazione, accanto al potere di adottare provvedimenti di inibizione dell’attività (che è soggetto a decadenza), può ulteriormente esercitare il potere di autotutela ma soltanto nel rispetto dei principi e delle norme regolanti l’esercizio del potere di annullamento di ufficio, cioè solo in presenza di un interesse pubblico prevalente, entro un termine ragionevole e previa comparazione dell’interesse pubblico con quello dell’interessato e dei controinteressati.

La V Sezione del Consiglio di Stato — con la sentenza 19 giugno 2006, n. 3586, in Riv. giur. edilizia, 2006, I, 951 — ha rilevato testualmente che «il riferimento all’autotutela può spiegarsi anche restando nei confini della linea interpretativa secondo cui la DIA è un atto del privato: si tratterà di un’autotutela «sui generis», poiché non andrà ad incidere su un atto amministrativo, ma consisterà nella possibilità per la P.A. di adottare, successivamente alla scadenza del termine di 30 giorni dalla comunicazione di avvio dell’attività, provvedimenti di divieto di prosecuzione della stessa e di rimozione dei suoi effetti, condizionata, però, dalla sussistenza di un interesse pubblico attuale e concreto, ulteriore e diverso rispetto a quello volto al mero ripristino della legalità violata».

La VI Sezione del Consiglio di Stato poi — con la sentenza 9 febbraio 2009, n. 717, dianzi citata — ha affermato che, anche dopo la scadenza del termine perentorio di 30 giorni per l’esercizio del potere inibitorio, la P.A. conserva un potere residuale di autotutela, da intendere, però, come potere «sui generis», che si differenzia della consueta autotutela decisoria proprio perché non implica un’attività di secondo grado insistente su un precedente provvedimento amministrativo. L’applicazione degli artt. 21quinquies e 21nonies della legge n. 241/1990 consente alla P.A. di esercitare un potere che tecnicamente non è di secondo grado, in quanto non interviene su una precedente manifestazione di volontà dell’amministrazione, ma che con l’autotutela classica condivide soltanto i presupposti e il procedimento. In tal modo viene tutelato pure l’affidamento che può essere maturato in capo al privato per effetto del decorso del tempo. Non vi è dubbio, infatti, che la DIA, pur essendo un atto che proviene da un privato, sia comunque suscettibile, a causa del decorso del tempo e del mancato esercizio del potere inibitorio da parte della pubblica amministrazione, di consolidare, analogamente a quanto potrebbe fare un provvedimento espresso, un affidamento meritevole di protezione. Detto affidamento, però, non è certamente così forte da escludere qualsiasi potere di intervento da parte della P.A., anche perché altrimenti, per effetto della DIA, si andrebbe a consolidare una posizione più stabile rispetto a quella che deriva dal provvedimento autorizzatorio (il quale, ricorrendo le condizioni di legge, può essere appunto rimosso in via di autotutela). C) L’art. 6 del D.L. 13-8-2011, n. 138, convertito dalla legge 14-9-2011, n. 148, ha testualmente specificato che la DIA e la SCIA «non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili».

3.11 SCIA, DIA e silenzio-assenso

La SCIA (al pari della DIA) ed il silenzio-assenso restano istituti distinti. A) L’art. 20 della legge 241/1990 (come modificato dalla legge 80/2005 e delimitato, quanto alla portata

applicativa, dalla legge 69/2009) delinea il silenzio-assenso quale istituto di carattere generale che equipara

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all’accoglimento della domanda del privato il silenzio mantenuto dall’amministrazione per un certo tempo successivo alla presentazione della stessa. Qualora l’amministrazione non dà risposta ad una istanza di rilascio di un provvedimento amministrativo, il suo silenzio ha valore di provvedimento di accoglimento, fatta salva l’applicazione delle ipotesi di SCIA, regolate dal precedente art. 19. Il silenzio-assenso matura, senza necessità di ulteriori istanze o diffide, quando l’amministrazione non comunica all’interessato il provvedimento di diniego entro i termini previsti dai regolamenti di cui all’art. 2, 2° comma della legge 241/1990, con i quali sono stabiliti i termini di conclusione dei procedimenti di competenza statale, ovvero nei termini di cui al comma 3 del medesimo art. 2, cioè entro 90 giorni qualora i regolamenti non abbiano fissato un termine di conclusione del procedimento. Esso matura, altresì, se l’amministrazione competente non procede, entro 30 giorni dalla presentazione dell’istanza, a indire la conferenza di servizi di cui al capo IV della legge 241/1990, nel caso in cui il rilascio del provvedimento dipenda da una valutazione congiunta del pubblico interesse. L’istituto non può applicarsi nelle ipotesi di esclusione espressamente previste dall’art. 20, 4° comma, L. 241/1990 che riguardano: — materie sensibili (patrimonio culturale e paesaggistico, ambiente, difesa nazionale, pubblica sicurezza,

immigrazione, cittadinanza e asilo, salute e pubblica incolumità); — casi in cui la normativa comunitaria impone provvedimenti amministrativi formali; — materie soggette ad espressa determinazione regolamentare; — le ipotesi di silenzio-diniego (silenzio significativo di rigetto), in cui la legge qualifica il silenzio

dell’amministrazione come provvedimento di rigetto dell’istanza. Si tratta di eccezioni introdotte a salvaguardia di interessi in relazione ai quali, per la loro rilevanza, il legislatore ha ritenuto di dovere esigere l’espletamento di un procedimento formale e non silenzioso. Vi è, dunque, una equiparazione espressa fra silenzio e provvedimento: il silenzio non è un atto neutro, ma una manifestazione di volontà positiva corrispondente ad un comportamento cosciente dell’amministrazione, la quale — nei procedimenti ad istanza di parte — può scegliere se fare passare il tempo, e così permettere la formazione dell’assentimento silenzioso, ovvero indire una conferenza di servizi o, infine, pronunciarsi con un provvedimento espresso, secondo il disposto dell’art. 2, 1° comma, della legge n. 241/1990. Ne consegue che il silenzio-assenso è un provvedimento espresso ma non scritto, in ossequio alla forma libera delle modificazioni di volontà dell’amministrazione.

B) La SCIA, invece (al pari della DIA), non è un atto pubblico, né porta alla formazione di un provvedimento espresso ma non iscritto. Essa è, in sostanza, un adempimento del privato, con cui l’interessato adempie all’onere di avvisare l’amministrazione che intende intraprendere una determinata attività. L’attività può immediatamente iniziare e prosegue indisturbata se l’amministrazione non la vieta o non ne dispone la rimozione degli effetti per accertata carenza delle condizioni, modalità o fatti legittimanti. Qualora, invece, l’amministrazione emetta provvedimenti, il privato è tenuto a conformarvisi, cessando l’attività intrapresa o adattandola alle disposizioni ricevute per renderla conforme alla legge. La dichiarazione unilaterale dell’interessato sostituisce l’atto amministrativo, poiché questo non serve, restando fermo il potere sanzionatorio dell’amministrazione. È vero che l’art. 19, 3° comma, del novellato art. 19 della legge 241/1990 prevede espressamente il potere dell’amministrazione di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli artt. 21quinquies e 21nonies della legge 241/1990, ma tale riferimento al potere di autotutela va inteso come correlato ad un potere sui generis, che si differenzia dalla consueta autotutela decisoria in senso proprio, perché (pur consentendo di ordinare la sospensione dell’attività e di rimuovere gli effetti della SCIA) non implica un’attività di secondo grado insistente su un precedente provvedimento amministrativo, non interviene cioè su una precedente manifestazione di volontà dell’amministrazione.

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3.12 La procedura di SCIA in materia edilizia

A) Redazione e presentazione della SCIA

A norma del novellato art. 19 della legge 241/1990 (come modificato dall’art. 5 del D.L. 70/2011, convertito dalla legge n. 106/2011), il proprietario dell’immobile, o chi abbia titolo per avvalersi del regime della segnalazione certificata di inizio dell’attività, deve presentare la SCIA allo sportello unico dell’edilizia accompagnata: — dalle dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà, per quanto riguarda tutti gli stati, le

qualità personali e i fatti previsti dagli artt. 46 e 47 del D.P.R. 28-12-2000, n. 445 (T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa);

— dagli elaborati tecnici e progettuali necessari per consentire le verifiche di competenza dell’amministrazione. La SCIA può essere presentata anche mediante posta raccomandata con avviso di ricevimento: in tal

caso la segnalazione si considera presentata al momento della ricezione da parte dell’amministrazione comunale. B) Individuazione del responsabile del procedimento

Deve ritenersi che lo sportello unico debba comunicare all’interessato il nominativo del responsabile del procedimento, per consentirgli di partecipare alla successiva procedura di controllo, mediante accesso agli atti, e, eventualmente, di depositare memorie e documenti di cui l’amministrazione deve tener conto (ciò in applicazione delle norme, di portata generale, poste dagli artt. 4 e 5 della legge 241/1990 e succ. modif.). C) L’attività di controllo dell’intervento

Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale — nel termine di 30 giorni dal ricevimento della SCIA — adotta, in caso di accertata carenza della correttezza della qualificazione dell’intervento, della sussistenza dei presupposti della procedura e del rispetto delle prescrizioni di legge, motivato provvedimento di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa, salvo che, ove ciò sia possibile, l’interessato provveda a conformare detta attività ed i suoi effetti alla normativa vigente entro un termine fissato dall’amministrazione, in ogni caso non inferiore a 30 giorni. D) Determinazioni in via di autotutela

È fatto comunque salvo il potere dell’amministrazione comunale di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli artt. 21quinquies e 21nonies della legge 241/1990. Tale potere di autotutela non è escluso dalla configurazione della SCIA come atto privato ed il Consiglio di Stato, in relazione alla DIA, ne ha individuato la peculiare caratteristica nel fatto «di non implicare un’attività di secondo grado su di un precedente provvedimento amministrativo» (C. Stato, sez. V, 19 giugno 2006, n. 3586, in Riv. giur. edil., 2006, I, 951; sez. IV, 4 settembre 2002, n. 4453). L’amministrazione, dunque, pur non dovendo incidere su un atto amministrativo, potrà pur sempre adottare, successivamente alla scadenza del termine di 30 giorni dalla presentazione della SCIA, provvedimenti di divieto della prosecuzione della stessa e di rimozione dei suoi effetti, a condizione, però, che provvedimenti siffatti siano giustificati dalla sussistenza di un interesse pubblico attuale e concreto, che non si identifichi con il mero ripristino della legalità violata. E) L’eventuale esercizio del potere sanzionatorio

Decorso il termine di 30 giorni dal ricevimento della SCIA, l’amministrazione può intervenire, anche esercitando il proprio potere sanzionatorio, soltanto però in presenza del pericolo di un danno per il patrimonio storico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale, e previo motivato accertamento dell’impossibilità di tutelare comunque gli interessi anzidetti mediante conformazione dell’attività dei privati alla normativa vigente.

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F) Efficacia temporale della SCIA

La SCIA non è sottoposta ad un termine massimo di efficacia, con la conseguenza che l’interessato non ha l’obbligo di comunicare allo sportello unico la data di ultimazione dei lavori. G) La prova dell’abilitazione all’esecuzione dei lavori

La sussistenza dell’abilitazione all’esecuzione dei lavori è provata con la copia della SCIA, da cui risulti la data di ricevimento.

Qualora, però, un intervento eseguito in seguito a SCIA non sia riconducibile a detto regime, bensì a quello del permesso di costruire, l’intervenuta presentazione della segnalazione medesima è assolutamente irrilevante ed i lavori eseguiti sono da considerare abusivi.

3.13 La procedura applicabile alla c.d. «superDIA»

A) Redazione e presentazione della DIA

A norma dell’art. 23 del T.U. 380/2001, come modificato dal D.Lgs. 301/2002, il proprietario dell’immobile, o chi abbia titolo per avvalersi del regime della denuncia alternativa di inizio dell’attività (cd. superDIA), deve presentare tale denuncia allo sportello unico dell’edilizia — almeno 30 giorni prima dell’effettivo inizio dei lavori — accompagnata: — dagli opportuni elaborati progettuali e da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato che

asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati ed il non-contrasto con gli strumenti urbanistici adottati e con i regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie;

— dall’indicazione dell’impresa a cui si intende affidare i lavori.

Qualora l’intervento oggetto di denuncia di inizio attività sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete (anche in via di delega) alla stessa amministrazione comunale, l’anzidetto termine di 30 giorni decorre dal rilascio del relativo atto di assenso ed in mancanza di siffatto provvedimento favorevole la denuncia è priva di effetti. Qualora, invece, la tutela del vincolo non spetta all’amministrazione comunale, ove il parere favorevole del soggetto preposto alla tutela non sia allegato alla denuncia, il competente ufficio del Comune può convocare una conferenza di servizi e l’anzidetto termine di 30 giorni decorre dall’esito della conferenza. In caso di esito non favorevole, la denuncia è priva di effetti. B) Individuazione del responsabile del procedimento

Deve ritenersi che lo sportello unico debba comunicare all’interessato il nominativo del responsabile del procedimento, per consentirgli di partecipare alla successiva procedura di controllo, mediante accesso agli atti, e, eventualmente, di depositare memorie e documenti di cui l’amministrazione deve tener conto (ciò in applicazione delle norme, di portata generale, poste dagli artt. 4 e 5 della legge 241/1990 e succ. modif.).

Quanto al termine in cui detta comunicazione deve intervenire, può applicarsi in via analogica quello di 10 giorni previsto dal novellato art. 20, 2° comma, del T.U. 380/2001, nell’ambito della disciplina del permesso di costruire: in ogni caso, comunque, la comunicazione stessa dovrà essere inviata entro un termine ragionevolmente inferiore a quello di 30 giorni dalla data della presentazione della denuncia e dei relativi elaborati progettuali, che l’art. 23 del T.U. assegna al Comune per la notifica dell’eventuale ordine di non effettuare l’intervento riscontrato irregolare. C) L’attività di controllo dell’intervento

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Spetta all’amministrazione comunale — nel termine di 30 giorni che, dalla presentazione della denuncia,

deve essere lasciato libero prima di iniziare i lavori — verificare d’ufficio la correttezza della qualificazione dell’intervento che si vuole effettuare, la sussistenza dei presupposti della procedura ed il rispetto delle prescrizioni di legge.

Tale attività di controllo è assolutamente doverosa, poiché in essa risiede l’unica vera garanzia ordinamentale a salvaguardia della legalità. Non può condividersi, pertanto, la prospettazione della possibilità, per il Comune, di limitarsi ad operare dei controlli a campione ed in dottrina viene evidenziata l’opportunità (anche per evitare addebiti disciplinari o penali in conseguenza di condotte omissive) che i funzionari istruttori lascino traccia dell’avvenuto controllo in una sorta di relazione interna al fascicolo procedimentale. Meritano adesione le argomentazioni svolte, in proposito, da BOSCOLO, secondo le quali «il modello della denuncia non costituisce una deregolamentazione, né una sorta di delega di responsabilità a vantaggio del privato, proprio perché l’amministrazione rimane lì, a controllare che la denuncia non divenga il veicolo di attività antigiuridiche». Il cittadino deve avere la consapevolezza che la legalità trova una forma di garanzia obiettiva nella presenza effettiva dell’amministrazione, mentre — come avverte altra dottrina — la sistematica «deresponsabilizzazione del personale comunale» rischia di lasciare il territorio «alla mercé di soggetti privati in ipotesi senza scrupoli». In conclusione, il ricorso alla procedura in oggetto non deve risolversi (perché così non è stata prevista dal legislatore) in una diminuzione del livello di protezione della legalità.

Questione controversa è quella della perentorietà e ordinatorietà del termine (di 30 giorni) entro il quale l’amministrazione comunale (nella persona del dirigente o responsabile dell’ufficio competente) può inibire all’interessato di effettuare l’intervento edilizio denunziato. Appare opportuno ricordare che, in relazione all’istituto generale della denuncia di inizio di attività già disciplinato dall’art. 19 della legge 241/1990, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha ravvisato la perentorietà del termine ivi previsto per l’esercizio, da parte dell’amministrazione, del potere di verificare d’ufficio i presupposti ed i requisiti di legge per il ricorso all’istituto medesimo (C. Stato, Ad. plen., 28 aprile 1994, n. 137, in Foro it., 1996, III, 329 e, nello stesso senso, C. Stato, sez. V, 11 maggio 1998, n. 554, in Foro amm., 1998, 1403). In relazione all’attività edilizia la perentorietà del termine è stata affermata dal T.a.r. Puglia, Lecce, sez. I, 29 gennaio 2009, n. 127; dal T.a.r. Campania, Napoli, 27 giugno 2005, n. 8707; dal T.a.r. Veneto, sez. II: 5 novembre 2004, n. 3862, 13 gennaio 2003, n. 324 e 22 febbraio 2002, n. 844; dal T.a.r. Piemonte, sez. I, 16 gennaio 2002, n. 70; dal T.a.r. Friuli-Venezia Giulia, 30 gennaio 2001, n. 18. Il T.a.r. Puglia, Bari, sez. II, 13 novembre 2002, n. 4950; il T.a.r. Lombardia, Brescia, 13 aprile 2002, n. 686; il T.a.r. Campania, Napoli, sez. I, 6 dicembre 2001, n. 5272 hanno affermato, invece, la natura meramente sollecitoria del termine, evidenziando che nel contesto della relativa disciplina, non si rinviene alcun elemento testuale o logico-sistematico dal quale possa desumersi la perentorietà e la conseguente decadenza del potere della P.A. D) L’eventuale adozione di provvedimento inibitorio

Qualora venga riscontrata l’assenza di una o più condizioni stabilite, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale — con provvedimento motivato — ordina agli interessati di non effettuare le previste trasformazioni. In tal caso gli aventi diritto possono ripresentare la denuncia, con le modifiche o le integrazioni necessarie per renderla conforme alla normativa urbanistica ed edilizia. Deve ammettersi che il funzionario responsabile del controllo — ove la denuncia sia mancante di un documento necessario non acquisibile di ufficio da parte dell’Amministrazione, ovvero sia necessario apportare modifiche progettuali di modesta entità — possa segnalare tali circostanze all’interessato, affinché vi provveda, con sospensione del termine di 30 giorni fino all’effettiva integrazione.

Il provvedimento inibitorio non richiede il preventivo avviso del procedimento, trattandosi di procedura attivata su iniziativa di parte.

Non è applicabile, altresì, l’istituto del cd. preavviso di rigetto, previsto dall’art. 10bis della legge

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241/1990 (istituto secondo il quale, nei procedimenti ad istanza di parte, il responsabile del procedimento o l’autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all’accoglimento della domanda ed entro il termine di 10 giorni dal ricevimento della comunicazione gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti). Nel procedimento di DIA, infatti, l’eventuale atto di inibizione non può considerarsi, a rigore, un rigetto dell’istanza e l’onere del preavviso di diniego è incompatibile con il ristretto termine di 30 giorni entro cui l’amministrazione deve effettuare il controllo ad essa demandato (così C. Stato, sez. IV, 12 settembre 2007, n. 4828, in Vita not., 2007, 695). E) Determinazioni in via di autotutela

Permane altresì, in capo alla P.A., il potere «di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli artt. 21quinquies e 21nonies» della legge n. 241/1990 (vedi C. Stato, sez. V, 30 luglio 2003, n. 4391, in Giornale dir. amm., 2003, 1180). Tale potere di autotutela non è escluso dalla configurazione della DIA come atto privato ed il Consiglio di Stato ne individua la peculiare caratteristica nel fatto «di non implicare un’attività di secondo grado su di un precedente provvedimento amministrativo» (C. Stato, sez. V, 19 giugno 2006, n. 3586, in Riv. giur. edil., 2006, I, 951; sez. IV, 4 settembre 2002, n. 4453). L’amministrazione, dunque, pur non dovendo incidere su un atto amministrativo, potrà pur sempre adottare, successivamente alla scadenza del termine di 30 giorni dalla comunicazione di avvio dell’attività, provvedimenti di divieto della prosecuzione della stessa e di rimozione dei suoi effetti, a condizione, però, che provvedimenti siffatti siano giustificati dalla sussistenza di un interesse pubblico attuale e concreto, che non si identifichi con il mero ripristino della legalità violata. F) L’esercizio del potere sanzionatorio-repressivo

In ogni caso, comunque, la decadenza (ovvero la consumazione) del potere inibitorio non preclude all’amministrazione l’esercizio del potere sanzionatorio-repressivo (diverso dal potere inibitorio e da quello di autotutela) per tutte quelle trasformazioni edilizie contrastanti con la disciplina urbanistica (C. Stato, sez. IV, 19 settembre 2008, n. 4513; nonché Cass. pen., sez. III, 29 gennaio 2008, Taglione). La presentazione di una superDIA, infatti, ed il decorso del termine non possono avere alcun effetto abilitativo in ipotesi non consentite per carenza dei presupposti e dei requisiti normativamente previsti. G) Efficacia temporale della DIA

La denuncia di inizio dell’attività è sottoposta al termine massimo di efficacia di 3 anni e l’interessato ha l’obbligo di comunicare allo sportello unico la data di ultimazione dei lavori. I lavori non ultimati entro tale termine devono essere realizzati previa nuova denuncia. H) Certificato di collaudo finale

Una volta che l’intervento sia stato ultimato, il progettista (o un tecnico abilitato) deve rilasciare un certificato di collaudo finale, che va presentato allo sportello unico, con cui si attesti la conformità dell’opera eseguita al progetto presentato con la denuncia di inizio attività. I) La prova dell’abilitazione all’esecuzione dei lavori

La sussistenza dell’abilitazione all’esecuzione dei lavori è provata con la copia della DIA, da cui risulti la data di ricevimento.

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3.14 Attività subordinate a permesso di costruire

3.14.1 Gli interventi di nuova costruzione

L’art. 3, 1° comma, lett. e), del T.U. n. 380/2001 ricomprende tra gli interventi di nuova costruzione:

— la costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero l’ampliamento di quelli esistenti all’esterno della sagoma esistente;

— gli interventi di urbanizzazione primaria e secondaria realizzati da soggetti diversi dal Comune; — la realizzazione di infrastrutture e di impianti, anche per pubblici servizi, che comporti la trasformazione in

via permanente di suolo inedificato; — l’installazione di torri e tralicci per impianti radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di

telecomunicazione; — l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes,

campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e siano diretti a soddisfare esigenze durature nel tempo;

— gli interventi pertinenziali che le norme tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell’edificio principale;

— la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all’aperto ove comportino l’esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato.

Soggette a permesso di costruire sono pure le opere che privati intendano realizzare su aree demaniali e

più in generale su tutti gli immobili di proprietà dello Stato sui quali abbiano un diritto di godimento. Nella vigenza dell’art. 1 della legge n. 10/1977, il richiamo della norma alle opere di trasformazione

urbanistica, accanto a quelle di trasformazione edilizia, riconduceva al regime concessorio anche attività comportanti modificazioni del territorio comunale diverse da quelle edilizie, ma sempre riferibili, in senso ampio, alla utilizzazione del territorio per opere edilizie o per servizi: costruzione di strade, attivazione di discariche di rifiuti; realizzazione di impianti meccanici di autolavaggio ed altro.

Attività siffatte — nelle previsioni del T.U. — sono tuttora assoggettate a permesso di costruire, rientrando tra gli interventi di «nuova costruzione» allorquando comportino la trasformazione permanente del suolo inedificato.

La Corte di Cassazione ed il Consiglio di Stato hanno affermato, al riguardo, che richiedono il rilascio del permesso di costruire non esclusivamente i manufatti tradizionalmente ricompresi nelle attività murarie, ma anche quelli soltanto infissi ed appoggiati al suolo (essendo irrilevante il mezzo tecnico con il quale viene assicurata la stabilità del manufatto), nonché le opere di ogni genere con le quali si intervenga stabilmente sul suolo e nel suolo, purché non si tratti di tipi di opere per le quali la legge specificamente esclude la necessità di detto titolo abilitativo.

3.15 Manufatti prefabbricati, case mobili e mezzi mobili di pernottamento

Il permesso di costruire è pure necessario per «l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati,

e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e siano diretti a soddisfare esigenze durature nel tempo». Ciò indipendentemente dalle caratteristiche dell’opera: se in muratura e incorporata al suolo con fondazioni o in altro modo fisso, oppure se in elementi prefabbricati e ricomposti e semplicemente

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poggiata su strutture emergenti dal suolo o sul suolo direttamente.

L’art. 3, comma 9, della legge 23-7-2009, n. 99 (Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia) aveva disposto che: «Al fine di garantire migliori condizioni di competitività sul mercato internazionale e dell’offerta di servizi turistici, nelle strutture turistico-ricettive all’aperto, le installazioni e i rimessaggi dei mezzi mobili di pernottamento, anche se collocati permanentemente, per l’esercizio dell’attività, entro il perimetro delle strutture turistico-ricettive regolarmente autorizzate, purché ottemperino alle specifiche condizioni strutturali e di mobilità stabilite dagli ordinamenti regionali, non costituiscono in alcun caso attività rilevanti ai fini urbanistici, edilizi e paesaggistici». In seguito all’emanazione di tale disposizione normativa si è diffuso il fenomeno dell’allestimento in maniera permanente, all’interno di aree destinate a strutture turistico-ricettive all’aperto, di strutture abitative fornite di ruote che, però, lungi dal conferire una configurazione veicolare, si pongono come un elemento meramente secondario (se non addirittura fittizio) del manufatto complessivo, non essendo funzionalmente destinate a consentire la mobilità abituale e la circolazione (ma facilitanti piuttosto, in via estramamente residuale, l’eventuale rimozione o amovibilità).

La Corte Costituzionale — con la sentenza n. 278 del 22-7-2010 — ha dichiarato, però, l’illegittimità della disposizione in oggetto, in quanto essa introduce una disciplina che si risolve in una normativa dettagliata e specifica che non lascia alcuno spazio al legislatore regionale, violando l’art. 117, comma 3 della Costituzione, che attribuisce al legislatore statale di prescrivere criteri e obiettivi in materia di governo del territorio mentre è riservata alla normativa regionale di dettaglio l’individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere tali obiettivi.

3.16 Le pertinenze

Sono assoggettati a permesso di costruire gli interventi pertinenziali:

— che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell’edificio principale; — ovvero che le norme tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione- alla zonizzazione ed al pregio

ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino come interventi di nuova costruzione (art. 3, 1° comma, lett. e.6, del T.U. n. 380/2001).

In tutti gli altri casi gli interventi pertinenziali sono subordinati a SCIA.

Il codice civile, all’art. 817, definisce «pertinenze» le cose destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di un’altra cosa, senza costituirne parte integrante e senza rappresentarne elemento indispensabile per la sua esistenza, ma in guisa da accrescerne l’utilità o il pregio. Costituiscono esempi di pertinenza di immobile ad immobile: l’autorimessa destinata al servizio di una casa d’abitazione; un pozzo per l’irrigazione di un fondo, un cortile etc. La destinazione di una cosa al servizio o all’ornamento dell’altra implica il carattere accessorio della prima rispetto all’altra, che assume posizione principale: se manca il vincolo di accessorietà non vi è la figura della pertinenza. Tale vincolo deve essere durevole, cioè non occasionale, e deve essere posto in essere da chi è proprietario della cosa principale, ovvero ha un diritto reale su di essa. Non occorre, però, che la cosa accessoria appartenga al proprietario della cosa principale.

La nozione di pertinenza dettata dal diritto civile è più ampia di quella che attiene alla materia

urbanistica, sicché manufatti che, secondo quella normativa, assumono senz’altro natura pertinenziale tali invece non sono ai fini dell’applicazione delle regole che governano l’attività edilizia, in tutti i casi in cui essi assumono una funzione autonoma rispetto ad un’altra costruzione.

La nozione di pertinenza urbanistica, pertanto, ha peculiarità sue proprie, dovendo trattarsi di un’opera — che abbia comunque una propria individualità fisica ed una propria conformazione strutturale — preordinata ad una oggettiva esigenza dell’edificio principale, funzionalmente ed oggettivamente inserita al servizio dello stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato, non valutabile in termini di cubatura o dotata di un volume minimo tale da non consentire, in relazione anche alle caratteristiche dell’edificio principale, una sua destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell’immobile cui accede.

La strumentalità rispetto all’immobile principale deve essere in ogni caso oggettiva, cioè connaturale alla struttura dell’opera, e non può desumersi, a differenza di quanto consente la nozione civilistica di pertinenza, esclusivamente dalla destinazione soggettivamente data dal proprietario o dal possessore.

L’opera pertinenziale, inoltre, non deve essere parte integrante o costitutiva di altro fabbricato, sicché non può considerarsi tale l’ampliamento di un edificio che, per la relazione di congiunzione fisica con

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esso, ne costituisca parte, come elemento che diviene essenziale all’immobile o lo completa affinché esso meglio soddisfi ai bisogni cui è destinato (vedi Cass. pen., sez. III: 29 maggio 2007, Rossi; 17 gennaio 2003, Chiappalone, in Giust. pen., 2004, II, 176).

3.17 Soppalchi Nel vigore dell’art. 26 della legge n. 47/1985 e dell’art. 4 della legge n. 493/1993, come modificato

dall’art. 2, comma 60, della legge n. 662/1996, la giurisprudenza della Corte di Cassazione si è orientata nel senso che — per la realizzazione di soppalchi aventi destinazione abitativa, interni a costruzioni preesistenti — non occorresse la concessione né l’autorizzazione edilizia. Si riteneva, quindi, sufficiente il procedimento di D.I.A. in via esclusiva, la cui mancanza era sanzionata solo in via amministrativa (vedi Cass. pen., Sez. III: 22 aprile 1998, n. 4746, Matera; 3 giugno 1994, n. 6573, Vicini; 28 marzo 1990, n. 4323, De Pan).

Dopo l’entrata in vigore del T.U. n. 380/2001, detto indirizzo e stato confermato dalla III Sezione penale — con la sentenza 10 novembre 2005, n. 40829, ric. P.M. in proc. D’Amato ed altro, in Giust. pen., 2006, II, 473 (riguardante una vicenda in cui erano stati realizzati due soppalchi all’interno di una preesistente unità immobiliare: adibiti l’uno ad uso studio e l’altro a cameretta per i bambini) — ove si è argomentato che «La realizzazione di opere interne anche in base al testo unico deve ritenersi consentita, come avveniva nella legislazione previgente, previa mera denunzia di inizio dell’attività a condizione che non integri veri e propri interventi di ristrutturazione comportanti modifiche della sagoma o della destinazione d’uso e ciò perché in base all’attuale disciplina sono assentibili con la denuncia d’inizio lavori cosiddetta semplice, ossia quella prevista dall’art. 22 dei T.U. commi 1 e 2 (…) tutti quegli interventi per i quali non è richiesto il permesso di costruire e per quello in questione tale permesso, alle condizioni sopra indicate, non è richiesto giacché, anche se è aumentata la superficie in concreto utilizzabile, non sono stati modificati volume e sagoma».

L’anzidetto orientamento giurisprudenziale, però, è stato definitivamente abbandonato nelle decisioni

più recenti della stessa III Sezione penale, ove: — è stato rilevato che le opere interne devono ritenersi riconducibili alla «ristrutturazione edilizia» allorquando

comportino aumento di unità immobiliari, ovvero modifiche dei volumi, dei prospetti o delle superfici, ovvero mutamenti di destinazione d’uso;

— ed è stato affermato il principio di diritto secondo il quale «l’esecuzione di un soppalco all’interno di una unità immobiliare, realizzato attraverso la divisione in altezza di un vano allo scopo di ottenerne una duplice utilizzazione abitativa, pure se non realizzi un mutamento di destinazione d’uso, costituisce intervento di ristruttura-zione edilizia che richiede il permesso di costruire o, in alternativa, la denunzia di inizio dell’attività, ai sensi dell’art. 22, 3° comma, del T.U. 380/2001. Detto intervento, infatti, comporta un incremento della superficie utile calpestabile che, a norma dell’art. 10, 1° comma — lett. c), dello stesso T.U., impone l’applicazione del regime di alternatività indipendentemente da una contemporanea modifica della sagoma o del volume» (così Cass. pen., sez. III: 26 ottobre 2006, n. 35863, Montilli; 16 novembre 2006, n. 37705, P.M. in proc. Richiello; 26 gennaio 2007, n. 2881, P.M. in proc. Picone ed altro, in Riv. giur, edilizia, 2007, I, 809; 1 marzo 2007, n. 8669, De Martino; 21 ottobre 2008, n. 42539, Sessa).

Resta fuori dal regime del permesso di costruire (e quindi dalla sanzionabilità penale) la creazione di

semplici spazi ripostiglio, del tutto inidonei (ad esempio per l’altezza) ad essere occupati dall’uomo.

3.18 Ristrutturazione edilizia L’art. 3, 1° comma - lett. d), del T.U. n. 380/2001 — anche dopo le modifiche apportate da D.L. n.

69/2013 convertito dalla legge n. 98/2013 — definisce interventi di ristrutturazione edilizia quelli «rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente.

Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, la

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eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi e impianti». La ristrutturazione edilizia non è vincolata, pertanto, al rispetto degli elementi tipologici, formali e

strutturali dell’edificio esistente e differisce sia dalla manutenzione straordinaria (che non può comportare aumento della superficie utile o del numero delle unità immobiliari, né modifica della sagoma o mutamento della destinazione d’uso) sia dal restauro e risanamento conservativo (che non può modificare in modo sostanziale l’assetto edilizio preesistente e consente soltanto variazioni d’uso «compatibili» con l’edificio conservato).

La stessa attività di ristrutturazione, del resto, può attuarsi attraverso una serie di interventi che, singolarmente considerati, ben potrebbero ricondursi sia agli altri tipi dianzi enunciati sia alla nozione delle opere interne. L’elemento caratterizzante, però, è la connessione finalistica delle opere eseguite, che non devono essere riguardate analiticamente ma valutate nel loro complesso al fine di individuare se esse siano o meno rivolte al recupero edilizio dello spazio attraverso la realizzazione di un edificio in tutto o in parte nuovo (recupero dello spazio che è cosa diversa dal mero recupero architettonico).

L’art. 10, 1° comma - lett. c), del T.U. n. 380/2001, come modificato dal D.L. n. 69/2013 convertito dalla

legge n. 98/2013, assoggetta a permesso di costruire quegli interventi di ristrutturazione edilizia «che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti o delle superfici», ovvero si connettano a mutamenti di destinazione d’uso, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A), nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincolo ai sensi del D.Lgs. n. 42/2004 e succ. modif.

L’art. 22, 3° comma - lett. a), dello stesso T.U., come modificato dal D.Lgs. n. 301/2002, prevede, però, che — a scelta dell’interessato — tali interventi possono essere realizzati anche in base a denunzia di inizio attività alternativa al permesso di costruire.

Se ne deduce che sono sempre realizzabili previa SCIA le ristrutturazioni edilizie di portata minore: quelle, cioè, che determinano una semplice modifica dell’ordine in cui sono disposte le diverse parti che compongono la costruzione, in modo che, pur risultando complessivamente innovata, questa conserva la sua iniziale consistenza urbanistica (diverse da quelle, descritte dall’art. 10, 1° comma - lett. c), che possono incidere, invece sul carico urbanistico). La definizione della «ristrutturazione edilizia» era precedentemente fornita dall’art. 31, 1° comma - lett. d), della legge n. 457/1978. Nella relativa elaborazione giurisprudenziale è stato affermato che essa poteva comportare aumento delle superfici residenziali o non residenziali, aumento del numero delle unità immobiliari, mutamento della destinazione d’uso. È stato escluso, invece, che attraverso la stessa potesse realizzarsi un aumento volumetrico, attraverso aggiunte di volumi in ampliamento o in sopraelevazione (con la sola eccezione per i volumi tecnici): vedi C. Stato, sez. V: 12 agosto 1998, n. 1255; 11 maggio 1998, n. 552; 26 febbraio 1992, n. 143; vedi pure Cass., sez. III pen., 15 giugno 1998, Manfredini.

Il T.U. ha introdotto uno sdoppiamento della categoria delle ristrutturazioni edilizie, riconducendo ad essa anche interventi che ammettono integrazioni funzionali e strutturali dell’edificio esistente, pure con incrementi limitati di superficie e di volume. Deve ritenersi, però, che le «modifiche del volume», previste dall’art. 10, possono consistere in diminuzioni o trasformazioni dei volumi preesistenti ed in incrementi volumetrici modesti (tali da non configurare apprezzabili aumenti di volumetria), poiché, qualora si ammettesse la possibilità di un sostanziale ampliamento dell’edificio, verrebbe meno la linea di distinzione tra «ristrutturazione edilizia» e «nuova costruzione».

Il T.U. riconduce alla nozione di ristrutturazione edilizia pure gli interventi ricostruttivi, previa integrale demolizione, qualora il risultato finale coincida nella volumetria con l’edificio preesistente.

La volumetria, dunque, deve rimanere identica soltanto nei casi di ristrutturazione attuata attraverso demolizione e ricostruzione, mentre non si pone come limite per gli interventi di ristrutturazione che non comportino la previa demolizione.

Fino all’entrata in vigore del D.L. 21-6-2013, n. 69 (convertito dalla legge 9-8-2013, n. 98) la

giurisprudenza amministrativa, penale e civile aveva affermato che non costituiva ristrutturazione, ma “nuova costruzione”, la ricostruzione su ruderi, poiché il concetto di ristrutturazione postula necessariamente la preesistenza di un organismo edilizio dotato delle murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura (Vedi tra le decisioni meno remote: C. Stato: sez, IV, 13 ottobre 2010, n. 7476; sez. V, 28 maggio 2004, n. 3452; sez. V, 15 aprile 2004, n. 2142, in Riv. giur. edil., 2004, I, 1373. Vedi altresì Cass. pen., sez. III.: 15 aprile 2009, n.

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27962, in Riv. giur. edil., 2010, I, 293; 21 ottobre 2008, n. 42521, in Riv. giur. edil., 2009, I, 340; 24 settembre 2008, n. 36542. In tal senso pure Cass. civ., sez. II, 27 ottobre 2009, n. 22688).

L’art. 30 del D.L. n. 69/2013 invece – al fine di favorire la riqualificazione del patrimonio edilizio esistente ed evitare ulteriore consumo del territorio – ha espressamente ricompreso (modificando in tal senso l’art. 3, comma 1, lett. d, ultimo periodo del T.U. n. 380/2001) tra gli interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli volti al ripristino di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza.

E’ stato previsto, però, che – in presenza di vincoli paesaggistici ai sensi del D.Lgs. n. 42/2004 – gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti possono qualificarsi come interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata, oltre alla stessa volumetria, anche la medesima sagoma dell’edificio preesistente.

3.19 Ristrutturazione urbanistica

Caratteristiche più ampie presentano gli interventi di ristrutturazione urbanistica, essendo questi ultimi «rivolti a sostituire l’esistente tessuto urbanistico-edilizio con altro diverso, mediante un insieme sistematico di interventi edilizi anche con la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della rete stradale» (art. 3, 1° comma - lett. f, del T.U. n. 380/2001). Trattasi, pertanto, di attività di ristrutturazione accompagnata da demolizioni e ricostruzioni di un insieme di insediamenti ed implicante, generalmente, interventi anche su opere di urbanizzazione.

La ristrutturazione urbanistica è assoggettata a permesso di costruire e, alternativamente a scelta dell’interessato, può essere realizzata anche in base a semplice denunzia di inizio dell’attività, qualora sia disciplinata «da piani attuativi comunque denominati, ivi compresi gli accordi negoziali aventi valore di piano attuativo, che contengano precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive» (art. 22, 3° comma - lett. b), del T.U. n. 380/2001, come modificato dal D.Lgs. n. 301/2002).

3.20 Demolizione totale e ricostruzione di fabbricati Fino al T.U. n. 380/2001 è mancata una specifica disciplina legislativa per gli interventi di demolizione e

successiva ricostruzione. Tale carenza aveva portato a tre diversi orientamenti interpretativi.

a) Secondo l’interpretazione più restrittiva [alla quale aveva costantemente aderito, negli anni più recenti, la giurisprudenza della Corte Suprema (vedi Cass. civ., sez. II, 26 ottobre 2000, n. 14128; nonché Cass. pen., sez. III: 16 gennaio 2002, Basara; 25 settembre 2000, Moccia; 21 dicembre 1998, Spagnuolo; 20 novembre 1998, Nardinocchi e altro; 28 luglio 1998, Capraro e altri; 1 luglio 1998, Padula e altri; 22 maggio 1998, Regis; 15 novembre 1997, Morano e altri; 20 giugno 1997, Coco; 24 gennaio 1996, Oberto e altro; 17 gennaio 1995, Fiorini; 9 giugno 1994, Mencattini; 10 agosto 1993, Mirarchi)] la ristrutturazione andava distinta dalla ricostruzione ed anche il titolare di una concessione edilizia per la ristrutturazione di un immobile rispondeva del reato di sostruzione abusiva qualora avesse demolito, integralmente o pressoché integralmente, e ricostruito lo stesso (sia pure “simbolicamente” salvando alcuni monconi di muratura), giacché l’art. 31, 1° comma, lett. d), della legge n. 457/1978 consentiva soltanto un insieme sistematico di opere rivolto a trasformare organismi edilizi esistenti e non invece realizzazioni ex novo, ove la struttura preesistente cessa praticamente di esistere.

b) La prevalente giurisprudenza del Consiglio di Stato, a far data dalla fine degli anni ottanta, aveva ricondotto alla nozione di ristrutturazione edilizia gli interventi di integrale e fedele ricostruzione di un immobile, preceduta dalla sua integrale demolizione, il cui risultato, quanto a tipologia edilizia, sagoma e volumi, fosse identico a quello preesistente (vedi Cons. Stato, sez. V: 5 marzo 2001, n. 1246; 18 dicembre 2000, n. 6769; 13 luglio 2000, n. 3901; 3 aprile 2000, n. 1906; 24 febbraio 1999, n. 197; 20 ottobre 1998, n. 1491; 28 marzo 1998, n. 369; 18 dicembre 1997, n. 1581).

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In ogni caso, però, non vi erano dubbi che la ristrutturazione edilizia fosse subordinata al preventivo rilascio di concessione edificatoria.

c) Un terzo orientamento, assolutamente minoritario e facente capo ad isolate pronunzie della giurisprudenza, infine, aveva ricondotto l’intervento di demolizione e ricostruzione alle nozioni di risanamento conservativo o addirittura di manutenzione straordinaria, assoggettandolo al regime autorizzatorio in luogo di quello concessorio (vedi: C. Stato, sez. V, 26-5-1992, n. 464; Cass. pen., sez. III, 16-3-1988, De Vitis).

In particolare, quanto agli interventi di integrale e fedele ricostruzione di immobili previamente demoliti, la tendenza a considerarli quale attività di ristrutturazione si è ricollegata alle finalità: — di usufruire del regime di gratuità della concessione, ai sensi dell’art. 9, lett. d), della legge n. 10/1977, allorquando le opere

riguardassero abitazioni unifamiliari; — di avvalersi eventualmente, in occasione della ricostruzione, della normativa urbanistica meno restrittiva vigente al tempo in cui

venne rilasciata l’originaria concessione per l’edificio da demolire, senza dover rispettare le più gravose prescrizioni imposte dagli strumenti urbanistici sopravvenuti.

Secondo l’orientamento dei giudici amministrativi, infatti, “se è pur vero che la ricostruzione di un edificio demolito soggiace, in mancanza di specifiche norme che dispongano in senso contrario, alle limitazioni imposte dalle leggi urbanistiche vigenti al tempo in cui viene rilasciata la relativa concessione, tale principio non opera nel caso in cui l’attività di ristrutturazione corrisponda integralmente, per volumi, altezze, fisionomia architettonica, all’opera (in tutto o in parte) demolita: in tal caso, pertanto, la relativa concessione edilizia non è subordinata al rispetto dei vincoli imposti dagli strumenti urbanistici sopravvenuti” (C. Stato, sez. V, 14 novembre 1996, n. 1359, in Riv. giur. edilizia, 1997, I, 324).

Nella materia il legislatore ha introdotto una disciplina espressa soltanto con l’art. 3, 1° comma, lett. d),

del T.U. n. 380/2001, che, nella sua formulazione originaria, riconduceva nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia «anche quelli consistenti nella demolizione e successiva fedele ricostruzione di un fabbricato identico, quanto a sagoma, volume, area di sedime e caratteristiche dei materiali, a quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica».

Il D.Lgs. 27-12-2002, n. 301 aveva modificato tale disposizione, riconducendo nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia «anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica».

Era stato eliminato, dunque, il riferimento alla «fedele» ricostruzione ed era stato specificato che la ricostruzione costituiva ristrutturazione se il risultato finale coincideva nella volumetria e nella sagoma con il preesistente edificio demolito.

Il D.L. 21-6-2013, n. 69, come convertito dalla legge 9-8-2013, n. 98, ha ulteriormente modificato l’art. 3, 1° comma, lett. d), del T.U. n. 380/2001 ed ha ed ha eliminato il riferimento normativo alla necessità di mantenere l’identità della «sagoma», per cui – secondo la definizione attuale – nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi pure quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria del manufatto preesistente, anche se non con la stessa sagoma.

La necessità di mantenere inalterata la sagoma permane, invece, soltanto per gli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del D.Lgs. n. 42/2004 e succ. modif. Per la determinazione della nozione di «sagoma» dell’edificio, appare opportuno il riferimento alla giurisprudenza della Suprema Corte secondo la quale la sagoma «attiene alla conformazione planovolumetrica della costruzione ed al suo perimetro inteso in senso sia verticale sia orizzontale». Essa «concerne il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti» (così Cass. pen., sez. III: 23-4-2004, n. 19034, ric. Calzoni; 27-3-1998, n. 3849, ric. Maffullo e altro; 15-7-1994, n. 8081, ric. Soprani).

Può concludersi, quanto agli interventi di ristrutturazione, che essi sono subordinati a permesso di costruire ma, in alternativa, possono essere realizzati mediante denuncia di inizio attività:

— se «portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A), comportino mutamenti della destinazione d’uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del D.Lgs. n. 42/2004 e succ. modif.» (art. 10, 1° comma, lett. c, del T.U. n. 380/2001, come modificato dal D.L. n. 69/2013);

— se, però, comportino, la preventiva demolizione dell’edificio, il risultato finale deve coincidere nella volumetria con l’edificio precedente e, se si tratta di immobili vincolati ai sensi del D.Lgs. n. 42/2004, deve

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essere mantenuta anche l’identità della sagoma (art. 3, 1° comma, lett. d), del T.U. n. 380/2001, come modificato dal D.L. n. 69/2013).

La demolizione, poi, dell’edificio con la ricostruzione su suolo contiguo è sicuramente ipotesi

normativa diversa dalla «ristrutturazione», essendo caratterizzata da elementi (territoriali e costruttivi) e da un risultato che le conferiscono fisionomia autonoma e differenziata.

3.21 Lavori eseguiti in base a permesso di costruire illegittimo

La giurisprudenza pretorile, intorno agli anni settanta, cominciò a ricondurre alla carenza di concessione edilizia le ipotesi di lavori eseguiti sulla base di concessione illegittima: cioè viziata, o per inosservanza dei presupposti formali di legittimità, o in violazione del vincolo di inedificabilità stabilito dalla legge in assenza di strumenti urbanistici, ovvero in contrasto con i limiti imposti dalla pianificazione vigente. Venne affermato che in tali casi il giudice penale — avvalendosi dei poteri genericamente attribuiti al giudice ordinario dall’art. 5 della legge 20-3-1865, n. 2248, all. E) — può compiere una valutazione del titolo abilitativo, al fine di verificarne la legalità. Qualora egli riscontri eventuali vizi di illegittimità (violazione di legge, incompetenza, eccesso di potere), può disapplicare l’atto amministrativo illegittimo, considerando ad ogni effetto i lavori come eseguiti in assenza di titolo.

La Suprema Corte non assunse, al riguardo, un orientamento uniforme, ed invero: — talune decisioni ritennero che l’illegittimità della concessione fosse assimilabile alla mancanza della stessa; — altre distinsero tra concessione illegittima e concessione illecita, escludendo — nel primo caso — la

sussistenza di un presupposto essenziale del reato; — altre infine ravvisarono, nell’ipotesi di concessione illegittima, la violazione dell’art. 17, lett. a), della legge n.

10/1977, e non quella più grave di cui alla lett. b).

Alcuni studiosi (BAJNO, PETRONE, VENDITTI, VILLATA), comunque, confutarono energicamente la tesi della disapplicazione, affermando che l’art. 5 della legge n. 2248/1865 non può spiegare alcuna efficacia nell’ambito del processo penale, in quanto questo non è rivolto alla tutela di diritti soggettivi, bensì all’accertamento della corrispondenza di un fatto alla fattispecie incriminatrice. Non vi è, insomma, una parte che possa chiedere al giudice il disconoscimento di una disciplina imposta da un provvedimento amministrativo illegittimo, con sacrificio di relazioni giuridiche alle quali essa partecipa; il provvedimento illegittimo, invece, potrebbe costituire soltanto il presupposto di un reato. Si asserì, infine, che la disapplicazione si risolve, agli effetti penali, in una forma di retroattività «in malam partem» (BAJNO, G. DE ROBERTO), dal momento che si qualifica postumamente illecita una condotta posta in essere in conformità ad un titolo assistito dalla presunzione di legittimità degli atti amministrativi, che è principio generale del nostro ordinamento.

Un notevole contributo alla configurazione della questione venne fornito dalla III sezione penale del Supremo Collegio, con l’ordinanza 13-3-1985 (ric. Meraviglia).

Approfondito, in detta ordinanza, è l’esame dei riferimenti all’allegato E) della legge n. 2248/1865: «La legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, di abolizione del contenzioso amministrativo, intese fondamentalmente salvaguardare, nella scelta dei criteri di individuazione della giurisdizione, il principio della tutela esclusiva dei diritti da parte del giudice ordinario, quale garanzia assoluta di libertà. In tale contesto l’art. 4 dispone che il giudice ordinario, quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell’autorità amministrativa, può conoscere solo degli effetti dell’atto in relazione all’oggetto del giudizio, non potendo né revocare né modificare l’atto amministrativo; e l’art. 5 dispone che, in questo come in ogni altro caso, il giudice ordinario applica gli atti amministrativi in quanto siano conformi alla legge. Com’è noto, è tuttora aperta la questione se le norme degli artt. 4 e 5 contemplino fattispecie diverse e comportino precetti autonomi l’uno dall’altro, ovvero se si tratti, in realtà, di disposizioni tra loro complementari. La questione non è soltanto formale perché, ove si accogliesse la prima soluzione, si dovrebbe ritenere che l’art. 5 contiene un precetto generalizzato di disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi, indipendentemente dal fatto che vi sia lesione di diritti soggettivi,

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essendo diretto alla reintegrazione del diritto oggettivo. Quest’ultima è l’interpretazione prevalentemente accolta dalla giurisprudenza penale, la quale, laddove la decisione presuppone la cognizione dell’atto amministrativo, lo disapplica se il giudice ne ravvisa l’invalidità. Tale orientamento non può essere condiviso. La cognizione degli atti amministrativi da parte del giudice ordinario fu voluta dal legislatore del 1865 solo entro i limiti in cui ritenne che la giurisdizione amministrativa non fosse sufficiente a garantire determinate posizioni soggettive a livello di diritti; e, pure in tali limiti ristretti, il legislatore si preoccupò di evitare che la cognizione dell’atto amministrativo da parte del giudice ordinario potesse comportare, comunque, la revoca o la modifica del provvedimento, il che avrebbe determinato un consistente vulnus al principio fondamentale voluto dalla legge sul contenzioso, secondo cui il controllo della validità degli atti amministrativi e l’eliminazione degli effetti degli atti invalidi sono attribuiti alla giurisdizione amministrativa. Tutto ciò convince che l’art. 5 legge contenzioso non introduce affatto un principio generalizzato di disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi da parte del giudice penale per esigenze di diritto oggettivo, ma che al contrario, esso contiene un precetto complementare al precedente art. 4, in modo che il controllo sulla legittimità dell’atto amministrativo debba restare rigorosamente confinato agli atti incidenti negativamente su diritti soggettivi, e sempre che si tratti di accertamento incidentale, che lasci persistere gli effetti di cui l’atto è capace all’esterno del giudizio. Si deve ritenere, cioè, che l’istituto della disapplicazione non riguarda gli atti amministrativi che rimuovono un ostacolo al libero esercizio di diritti (nulla-osta, autorizzazioni) ovvero costituiscono diritti soggettivi (concessioni), per la semplice considerazione che, in tali casi, non sussiste la lesività dell’atto e perché l’intervento del giudice ordinario si tradurrebbe in una ingerenza ed in un controllo dell’attività amministrativa, teso ad eliminare ex officio non solo i diritti derivati dall’atto amministrativo ma anche lo stesso atto amministrativo, la cui accertata invalidità lo svuoterebbe di contenuto all’interno ed all’esterno del giudizio, talché, sostanzialmente, esso sarebbe annullato dall’autorità giudiziaria ordinaria. Tutto ciò non esclude in termini assoluti che il giudice penale debba egualmente conoscere dell’invalidità dell’autorizzazione o della concessione e ritenere che tali provvedimenti siano da considerarsi tamquam non essent sotto il profilo sostanziale, nei casi i cui l’assenza di tali atti amministrativi costituisca il presupposto della condotta incriminata. Ma tale potere non è riconducibile, come erroneamente è stato ritenuto dai giudici di merito, al potere di disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi ex art. 5 legge sul contenzioso, bensì deve trovare fondamento e giustificazione nella stessa disposizione incriminatrice, nel senso che sia il precetto normativo ad esigere il controllo della legalità dell’atto per non essere la materiale esistenza del provvedimento sufficiente ad escludere la sussistenza del reato. L’indagine sistematica si può avvalere, sotto tale riflesso, del disposto dell’art. 650 c.p., in cui si prevede espressamente che il reato d’inosservanza di provvedimenti dell’autorità sussiste sempre che tali provvedimenti siano dati legalmente. La cognizione del reato da parte del giudice penale comporta, in tal caso, un giudizio valutativo, che include l’esame della legalità dell’atto amministrativo, perché è la stessa disposizione incriminatrice a richiamare tale requisito tra i presupposti del reato». Rilevò, quindi, la Corte che la norma incriminatrice ricollega la sanzione penale all’«insussistenza» del provvedimento amministrativo e non anche alla sua «illegalità»: «Applicando i principi testé esposti al caso di specie, si rammenta che l’art. 17, lett. b), L. 28 gennaio 1977 n. 10 prevede, tra l’altro, una contravvenzione edilizia nel fatto della costruzione in assenza della concessione. Avrebbe potuto il legislatore aggiungere “legalmente data” ovvero “con concessione illegalmente data”, come per le ipotesi sanzionatorie dell’art. 650 c.p., e non vi sarebbe stato alcun problema interpretativo. In tal caso, il giudice penale avrebbe conosciuto della legalità della concessione, perché da tale accertamento, positivo o negativo, sarebbe dipeso il giudizio, non in forza degli artt. 4 e 5 legge sul contenzioso ma della stessa struttura della norma incriminatrice. In mancanza, non ritiene la Corte che il requisito della legalità della concessione sia ricavabile in base ad altri rilievi ermeneutici delle norme in esame».

In decisioni successive la Suprema Corte ribadì che il giudice penale deve controllare soltanto l’esistenza dell’atto sulla base dell’esteriorità formale e della sua provenienza dall’organo legittimato ad emetterlo, ulteriormente precisando che deve parlarsi di assenza dell’atto non solo qualora l’atto in questione sia stato emesso da organo assolutamente privo del potere di provvedere, ma anche qualora il provvedimento sia frutto di attività criminosa del soggetto pubblico che lo rilascia o del soggetto privato che lo consegue, e, quindi, non sia riferibile oggettivamente alla sfera del lecito giuridico, oltre la quale non è dato operare ai pubblici poteri (cfr. Cass., 31-3-1986, ric. Ainora).

Il contrasto giurisprudenziale rese opportuno l’intervento delle Sezioni Unite penali e queste — con la sentenza del 31 gennaio 1987 (ric. Giordano) -— statuirono che «il potere del giudice penale di conoscere della illegittimità della concessione edilizia non è riconducibile al potere di disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo riconosciutogli dagli artt. 4 e 5 della legge n. 2248 del 1865, all. E), ma deve trovare fondamento e giustificazione o in una esplicita previsione legislativa ovvero nell’ambito della interpretazione ermeneutica della norma penale, qualora l’illegittimità dell’atto amministrativo si presenti, essa stessa, come elemento essenziale della fattispecie criminosa».

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Le Sezioni Unite affermarono, nella decisione anzidetta, che — dalla lettura congiunta degli artt. 4 e 5 della legge del 1865 — «si evince chiaramente che le norme in questione non introducono affatto un principio generalizzato di disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi da parte del giudice ordinario (sia esso civile o penale) per esigenze di diritto oggettivo, ma che, al contrario, il controllo sulla legittimità dell’atto amministrativo è stato rigorosamente limitato dal legislatore ai soli atti incidenti negativamente sui diritti soggettivi ed alla specifica condizione che si tratti di accertamento incidentale, che lasci persistere gli effetti che l’atto medesimo è capace di produrre all’esterno del giudizio. Ne consegue, pertanto, che la normativa in questione non può trovare applicazione per quegli atti amministrativi che, lungi da comportare lesione di un diritto soggettivo, rimuovono, invece, un ostacolo al loro libero esercizio (nulla-osta, autorizzazioni) o addirittura li costituiscono (concessioni). Opinare diversamente non solo comporta l’estensione al diritto oggettivo di una regola dettata unicamente a tutela dei diritti soggettivi, ma comporta altresì — con violazione del principio della divisione dei poteri — l’attribuzione al giudice penale di un potere di controllo e d’ingerenza esterna sull’attività amministrativa e, quindi, l’esercizio di un’attività gestionale che dalla legge è, invece, demandata in esclusiva ad altro potere dello Stato. Ciò, peraltro, non esclude che, in determinati casi, il giudice penale non possa egualmente conoscere della illegittimità dell’atto amministrativo. Tale possibilità, tuttavia, non è riconducibile al potere di disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo riconosciutogli dagli artt. 4 e 5 della legge del 1865, ma deve, invece, trovare fondamento e giustificazione o in una esplicita previsione legislativa (come, ad esempio, avviene con il disposto dell’art. 650 cod. pen.), ovvero, nell’ambito dell’interpretazione ermeneutica della norma penale, qualora l’illegittimità dell’atto amministrativo si presenti, essa stessa, come elemento essenziale della fattispecie criminosa. Ne deriva, pertanto, che nel caso in esame, intanto potrebbe ritenersi valida la (effettuata) equiparazione tra «mancanza di concessione» e «concessione illegittimamente rilasciata», in quanto fosse possibile ritenere che la disposizione di cui al citato art. 17, lett. b), legge 28 gennaio 1977 n. 10 (ora art. 20, lett. b), legge 28 marzo 1985, n. 47) sia funzionale alla tutela dell’interesse all’osservanza delle norme di diritto sostanziale che disciplinano l’attività edilizia. Ma una simile opinione certamente non può essere condivisa, dato che — come è stato oramai ripetutamente precisato da questa Suprema Corte con giurisprudenza consolidata (nonché dalla Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 47 del 1979) — l’interesse tutelato da tale norma è quello pubblico di sottoporre l’attività edilizia al preventivo controllo della P.A., con conseguente imposizione, a chi voglia edificare, dell’obbligo di richiedere l’apposita autorizzazione amministrativa; il reato de quo sussiste anche se il privato — che non ha chiesto o comunque non ha ottenuto la detta autorizzazione (denominata concessione) — abbia costruito o iniziato a costruire nel pieno rispetto delle norme sostanziali che disciplinano l’attività edilizia».

Secondo l’assunto delle Sezioni Unite, dunque, l’inammissibilità dell’equiparazione tra mancanza di concessione e concessione illegittimamente rilasciata sarebbe derivata dalla considerazione che la disposizione di cui all’art. 17, lett. b), della legge n. 10/1977 non era «funzionale alla tutela dell’interesse all’osservanza delle norme di diritto sostanziale che disciplinano l’attività edilizia».

Un netto dissenso dall’anzidetto orientamento venne però espresso in una successiva sentenza della sezione III della Cassazione (9 gennaio 1989, n. 2766, ric. Bisceglia, in Cass. pen. 1990, 1142), ove si affermò che la questione doveva essere rivista alla stregua dei principî informatori della legge n. 47/1985, avendo tale legge profondamente mutato l’oggetto stesso della tutela penale, incentrata ormai sul criterio sostanziale della conformità delle opere alla normativa urbanistica. Al giudice penale venne riconosciuta così la potestà di disapplicare l’atto amministrativo illegittimo, essendo divenuta la illegittimità dell’atto essa stessa un elemento essenziale della fattispecie criminosa.

La Corte Costituzionale — con ordinanza 11/14 giugno 1990, n. 288 — confermò l’orientamento delle Sezioni Unite penali della Cassazione (ritenendolo espressamente non superato dall’anzidetta decisione) secondo il quale il giudice ordinario non può disapplicare il provvedimento amministrativo, salvo i casi di lesione di diritti soggettivi o di illiceità penale, soggiungendo però che «l’illiceità penale di una concessione non deriva soltanto dalla collusione (tra richiedente ed autorità amministrativa), ma da qualsiasi violazione della legge penale che abbia a viziare il momento formativo della volontà della pubblica Amministrazione».

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Le ipotesi di rilascio doloso di titolo abilitativo illegittimo potranno essere, altresì, punite: — ai sensi dell’art. 319 c.p., se vi sia stata offerta di danaro o di altra utilità; — nonché ai sensi dell’art. 323 c.p.

Le Sezioni Unite della Cassazione hanno avuto occasione di pronunciarsi nuovamente sulla questione e — con la sentenza 12 novembre 1993, ric. Borgia, in Corriere giur., 1994, 750 — hanno affermato che «al giudice penale non è affidato, in definitiva alcun cd. sindacato sull’atto amministrativo», ma questi — nell’esercizio della potestà penale — è tenuto ad accertare la conformità tra ipotesi di fatto (opera eseguenda o eseguita) e fattispecie legale (identificata dalle disposizioni legislative statali e regionali in materia urbanistico-edilizia, dalle previsioni degli strumenti urbanistici e dalle prescrizioni del regolamento edilizio). Il complesso di tali disposizioni, previsioni e prescrizioni, tutte insieme considerate, costituisce il parametro organico per l’accertamento della liceità o dell’illiceità dell’opera edilizia e ciò in quanto l’oggetto della tutela penale apprestata dall’art. 20 della legge n. 47/1985 non è più — come nella legge n. 1150/1942 — il bene strumentale del controllo e della disciplina degli usi del territorio, bensì «la salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio» medesimo. In questa prospettiva, nell’ipotesi di realizzazione di opere di trasformazione del territorio in violazione dell’anzidetto parametro di legalità urbanistica ed edilizia, il giudice non deve concludere per la mancanza di illiceità penale solo perché sia stato rilasciato il permesso di costruire: questo, infatti, «nel suo contenuto, nonché per le caratteristiche strutturali e formali dell’atto, non è idoneo a definire esaurientemente lo statuto urbanistico ed edilizio dell’opera realizzanda senza rinviare al quadro delle prescrizioni degli strumenti urbanistici … Né il limite al potere di accertamento penale del giudice può essere posto evocando l’enunciato dell’art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248 - all. E, in quanto tale potere non è volto ad incidere sulla sfera dei poteri riservati alla pubblica Amministrazione, e quindi ad esercitare un’indebita ingerenza, ma trova fondamento e giustificazione in una esplicita previsione normativa, la quale postula la potestà del giudice di procedere ad un’identificazione in concreto della fattispecie sanzionata».

In seguito a quest’ultimo intervento delle Sezioni Unite, alcune decisioni della Suprema Corte considerarono il reato di cui all’art. 20, lett. a), della legge n. 47/1985 come l’unica fattispecie penale configurabile nell’ipotesi di illegittimità dell’atto concessorio, escludendo comunque l’elemento soggettivo della contravvenzione medesima quando la violazione delle norme urbanistiche (leggi, strumenti di pianificazione, regolamenti) non fosse «grossolana o macroscopica» (vedi Cass., sez. III: 19 ottobre 1992, Palmieri e 21 maggio 1993, P.M. in proc. Tessarolo). Successivamente, però, la Corte ha rilevato che il giudizio (ric. Borgia) conclusosi con la pronunzia delle Sezioni Unite aveva ad oggetto una fattispecie inquadrabile nella previsione dell’art. 20, lett. a), ma che i principî affermati con quella pronunzia hanno valore e portata generale in relazione a tutte e tre le fattispecie attualmente previste dall’art. 44, poiché esse tutte tutelano il medesimo interesse sostanziale dell’integrità del territorio.

Spetta in ogni caso al giudice penale la individuazione, in concreto, di eventuali situazioni di buona fede e di affidamento incolpevole.

Attualmente il consolidato orientamento della Cassazione è nel senso che, in presenza di un permesso di costruire illegittimo, non viene in rilievo la disapplicazione di un atto amministrativo, bensì la valutazione della sussistenza di un elemento normativo della fattispecie penale. Allorquando il giudice penale accerta l’esistenza di profili di illegittimità sostanziale del titolo abilitativo edilizio non pone in essere la procedura di disapplicazione riconducibile all’art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, né incide con indebita ingerenza sulla sfera riservata alla pubblica amministrazione, ma esercita un potere che trova fondamento e giustificazione nella stessa previsione normativa incriminatrice, della quale la legittimità dell’atto costituisce elemento integrativo, in quanto procede ad una identificazione in concreto della fattispecie con riferimento all’oggetto della tutela da identificarsi nella salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio regolati dagli strumenti urbanistici (vedi Cass., sez. III: 2 marzo 2009, n. 9177, Corvino ed altri, in Riv. giur. edilizia, 2009, I, 977; 21 marzo 2006, Tantillo; 3 marzo 2004, Dalla Fior, in Cass. pen., 2005, 34).

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Appare opportuno ricordare altre decisioni della Corte Suprema nelle quali è stato affermato che: — «In materia edilizia, il giudice penale può accertare la illegittimità sostanziale del titolo abilitativo non

soltanto se l’atto medesimo sia illecito, ovvero frutto di attività criminosa per eventuali collusioni del soggetto beneficiario con organi dell’amministrazione, ma anche nell’ipotesi in cui sussista la non conformità dell’atto alla normativa che ne regola l’emanazione o alle disposizioni legislative in materia urbanistico-edilizia (nell’occasione la Corte ha ulteriormente affermato che il potere del giudice trova il proprio limite nell’esistenza di provvedimenti giurisdizionali, passati in giudicato, che abbiano espressamente affermato la legittimità del titolo abilitativo ed il conseguente diritto del cittadino alla realizzazione dell’opera)» (Cass., sez. III, 14 dicembre 2006, Bruno).

— In materia urbanistico-edilizia, la macroscopica illegittimità del provvedimento amministrativo abilitativo

non è essenziale ai fini della configurabilità di un’ipotesi di reato ex art. 44 D.P.R. n. 380/2001, ma costituisce un significativo indice di riscontro dell’elemento soggettivo della contravvenzione contestata, anche riguardo all’apprezzamento della colpa» (Cass. pen., sez. III, 13 gennaio 2009, Corvino, in Riv. giur. edilizia, 2009, I, 977).

— «In materia edilizia il potere del giudice penale di accertare la conformità alla legge ed agli strumenti

urbanistici di una costruzione edilizia, e conseguentemente di valutare la legittimità di eventuali provvedimenti amministrativi concessori o autorizzatori, trova un limite nei provvedimenti giurisdizionali del giudice amministrativo passati in giudicato che abbiano espressamente affermato la legittimità della concessione o della autorizzazione edilizia ed il conseguente diritto del cittadino alla realizzazione dell’opera» (Cass., sez. III, 5 giugno 2003, Lubrano di Scorpianello, in Cass. pen., 2005, 153).

Deve altresì rilevarsi che il giudice penale non esercita alcun sindacato sull’attività della pubblica Amministrazione allorquando verifica (con accertamento doveroso) la necessità del permesso di costruire per la realizzazione dell’intervento sottoposto al suo esame e perviene ad affermare l’insufficienza di diversa procedura autorizzatoria o di controllo (es. mera denuncia dell’inizio dell’attività) pur ritenuta applicabile in sede amministrativa.

Per completezza espositiva va evidenziato, infine, che la Cassazione penale si è occupata anche della diversa ipotesi in cui l’edificazione sia avvenuta in seguito al diniego illegittimo del rilascio del titolo abilitativo da parte dell’Amministrazione comunale. In ipotesi siffatte la Suprema Corte — pur riconoscendo al giudice penale il potere di valutare incidentalmente la legittimità del rifiuto del rilascio del titolo abilitativo (in considerazione del carattere generale del sindacato dell’autorità giudiziaria ordinaria nei confronti dell’atto amministrativo) — ne ha tratto, però, la conseguenza che il riconoscimento della eventuale illegittimità del rifiuto non vale comunque a rendere legittima la realizzazione di opere urbanisticamente rilevanti senza concessione edilizia, «perché ciò equivarrebbe ad un inconcepibile rilascio di provvedimenti abilitativi da parte del giudice medesimo, in difetto assoluto di potere». È stato affermato, conseguentemente, il principio che la valutazione incidentale di illegittimità del rifiuto della concessione edilizia (attualmente permesso di costruire) da parte dell’Amministrazione non elimina l’illiceità penale della condotta di chi realizza comunque l’opera non assentita (Cass., sez. III, 23 maggio 2000, Puddu, in Riv. pen., 2001, 54).

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4 Reato edilizio in area vincolata. Reato paesaggistico.

Luca Ramacci ‐ Corte di Cassazione e.mail: [email protected] Sito web : www.lexambiente.it

(il sito, aggiornato quotidianamente, contiene dottrina, giurisprudenza e legislazione in materia ambientale

4.1 Reato edilizio in area vincolata in genere Come è noto, l'art. 44, lett. c) d.P.R. 380\01 (testo unico dell'edilizia) sanziona, oltre alla lottizzazione abusiva, gli interventi eseguiti nelle zone sottoposte a vincolo storico, artistico, archeologico, paesistico, ambientale, in variazione essenziale, in totale difformità o in assenza del permesso di costruire. Le sanzioni indicate nell'art. 44 sono applicate, come specificato nel primo comma, salvo che il fatto costituisca più grave reato. Restano inoltre ferme le sanzioni amministrative. Le sanzioni pecuniarie indicate nella disposizione sono state incrementate del cento per cento dal D.L. 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 novembre 2003, n. 326. Inoltre, secondo quanto disposto dal comma 2-bis (aggiunto dal d.lv. 27 dicembre 2002, n. 301) le disposizioni contenute dall’articolo 44 si applicano anche agli interventi edilizi suscettibili di realizzazione mediante denuncia di inizio attività alternativa al permesso di costruire (c.d. superdia) di cui all’articolo 22, comma 3 eseguiti in assenza o in totale difformità dalla stessa. Va poi precisato che, rispetto alla fattispecie contravvenzionale indicate nella lettera b) dell'art. 44, quella di cui tratta la lettera c) si configura come un'autonoma figura di reato e non costituisce una semplice aggravante della prima dovendosi così escludere la possibilità di procedere al giudizio di comparazione, ai sensi dell'art. 69 cod. pen., con eventuali circostanze attenuanti (cfr. Cass. Sez. III 3 ottobre 2008, n. 37571). Ciò in quanto la disposizione in esame prevede specifiche condotte criminose e presenta, quindi, sotto il profilo strutturale, un elemento ulteriore rispetto alla lettera b) (così Cass. Sez. III 15 novembre 1997, n.10392). Tale autonomia consente anche la possibilità del concorso con altre violazioni sanzionate dall'art. 44, quale ad esempio, quella relativa all'inosservanza dell’ordine di sospensione dei lavori di cui alla lettera b). Inoltre, essendo il bene giuridico tutelato dall’articolo 44 lettera c) diverso da quello relativo alle disposizioni poste a tutela dei beni culturali e del paesaggio (d.lv. 42\2004) e delle aree naturali protette (l. 394\1991) è sempre ammissibile il concorso tra la violazione urbanistica ed i reati contemplati dalle suddette disposizioni. Può ricordarsi, a tale proposito, che nel ritenere la complementarietà e autonomia delle diverse discipline, il cui fondamento è rinvenibile, oltre che nelle diverse finalità perseguite anche nella previsione di diversi procedimenti amministrativi finalizzati al rilascio dei relativi titoli abilitativi previa effettuazione di diverse valutazioni, si è riconosciuta, in più occasioni e con riferimento agli interventi edilizi eseguiti in aree protette, la necessità di tre distinti e autonomi provvedimenti autorizzatori (permesso di costruire, autorizzazione paesaggistica e nulla osta dell’ente parco) gli ultimi due dei quali possono essere attribuiti, dalla legge regionale, anche ad un organo unico, chiamato però a compiere comunque una duplice valutazione (v. per tutte Cass. Sez. III n. 26863 , 30 maggio 2003). Le sanzioni previste dall'art. 44 lett c) sono sensibilmente più gravi rispetto a quelle previste dalle lettere precedenti e la giurisprudenza di legittimità ha individuato una giustificazione nella particolare esigenza di tutela che le zone soggette a vincolo richiedono, osservando la condotta sanzionata va ad incidere in modo rilevante non soltanto sull'assetto del territorio, ma sull'intero ambiente, determinando un vulnus alle condizioni di vita della popolazione residente, della quale

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altera le condizioni soggettive ed oggettive di vita, la cui protezione è costituzionalmente statuita dall'art. 9 e comportando una lesione del paesaggio, che va considerato anche una risorsa, non soltanto naturalistica, ma anche economica, poiché rappresenta fonte di introiti per la collettività (Cass. Sez. III 15 novembre 1997 n. 10392. Conf. Sez. III 3 ottobre 2008, n. 37751). Il riferimento, nelle decisioni appena richiamate, riguarda il vincolo paesaggistico ma il discorso è ovviamente estensibile alle altre tipologie di vincolo considerate dall'art. 44 lettera c) comunque finalizzate alla tutela di aree ritenute meritevoli di specifica tutela. Va infine rilevato che, pur essendo gli interventi edilizi realizzati in zona soggetta a vincolo paesaggistico maggiormente frequenti, la formulazione dell'art. 44, lett. c), come si è già detto, contempla espressamente altre tipologie di vincolo (storico, artistico, archeologico e ambientale) che meritano comunque un minimo accenno

4.1.1 Il vincolo storico storico, artistico, archeologico

La materia dei beni culturali ed ambientali è ora disciplinata, come è noto, dal d.lgs. 22 gennaio 2004, n.42 « Codice dei beni culturali e del paesaggio» che, subendo, nel tempo, anche rilevanti modifiche, ha preso il posto del d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo Unico sui Beni Culturali e Ambientali) con il quale si era proceduto alla riunione ed al coordinamento di tutte le disposizioni vigenti in materia mediante la creazione di un testo organico e sistematico, che contemplava anche le disposizioni delle «leggi Bottai» 1 giugno 1939 n. 1089 (sulle cose di interesse artistico e storico) e 29 giugno 1939 n. 1497 (paesaggio) oltre che della «legge Galasso» 8 agosto 1985 n. 431 (sempre concernente la tutela del paesaggio). L’intervento del legislatore ha tenuto conto, come specificato nell’articolo 1, di quanto disposto dall’articolo 9 della Costituzione, considerando quali componenti del «patrimonio culturale nazionale», oggetto di tutela costituzionale, tanto i beni culturali quanto quelli paesaggistici. L’articolo 2 del codice specifica che sono beni culturali «le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà», mentre si intendono per beni paesaggistici “gli immobili e le aree indicati all’articolo 134, costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge” Ho osservato la giurisprudenza (Cass. Sez. III n. 21400, 8 giugno 2005) che il riferimento contenuto nell'art. 2, comma secondo del D.Lv. 42\44 alle «altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà» costituisce una formula di chiusura che consente di ravvisare il bene giuridico protetto dalle nuove disposizioni sui beni culturali ed ambientali non soltanto nel patrimonio storico-artistico-ambientale «dichiarato" (beni la cui valenza culturale è oggetto di previa dichiarazione), bensì anche in quello «reale» (beni protetti in virtù del loro intrinseco valore, indipendentemente dal previo riconoscimento di esso da parte delle autorità competenti). Si delinea pertanto un sistema «misto» volto ad apprestare una prima forma di tutela al patrimonio «reale» e, quindi, una successiva a quello «dichiarato». La individuazione dei beni culturali non avviene esclusivamente sulla base di categorie predefinite ed individuate per legge, poiché per alcuni beni è prevista una procedura di verifica dell’interesse culturale mediante un complesso procedimento, definito dall’articolo 12, all’esito del quale la verifica della mancanza di tale requisito determina l’inapplicabilità delle disposizioni contenute nel codice. Se tale esito attiene a cose appartenenti al demanio dello Stato, delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali, è possibile disporne anche la sdemanializzazione qualora, secondo le valutazioni dell’amministrazione interessata, non vi ostino altre ragioni di pubblico interesse. Ciò determina anche la libera alienabilità delle cose medesime. Al contrario, l’accertamento dell’interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico determina la definitiva sottoposizione dei beni alle disposizioni del d.lgs. 42\2004. Detto accertamento, secondo quanto disposto dall’articolo 12, comma 7, costituisce dichiarazione dell’interesse culturale del bene. La dichiarazione, contemplata dall’articolo 13, accerta a seguito di complesso procedimento disciplinato dai successivi articoli 14, 15 e 16, la sussistenza dell’interesse

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culturale del bene. L'art. 10, comma 1 individua alcuni beni culturali che restano sottoposti alle disposizioni del codice fino a quando non sia stata effettuata la verifica dell’interesse culturale, garantendone così la tutela. L’esito positivo della verifica equivale, come si è appena detto, alla «dichiarazione». L’esito negativo ha, invece, le conseguenze in precedenza indicate. Il comma 2 del medesimo articolo individua altri beni per i quali la dichiarazione non è richiesta e che rimangono sottoposti a tutela anche qualora i soggetti cui appartengono mutino in qualunque modo la loro natura giuridica (articolo 13, comma 2), mentre il comma 3 elenca altri beni che necessitano della «dichiarazione». Il comma 4, infine, fornisce un'ulteriore elencazione di cose che sono comprese tra quelle indicate al comma 1 ed al comma 3, lettera a). Fatto salvo, infine, il disposto degli articoli 64 e 178 (in tema di attestati di autenticità e provenienza e contraffazione di opere d’arte), non sono soggette alla disciplina in esame le cose indicate al comma primo che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni, se mobili, o ad oltre settanta anni, se immobili, nonché le cose indicate al comma 3, lettere a) ed e), che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni (art. 10, comma 5). Il successivo art. 11 assoggetta poi alle disposizioni espressamente richiamate le tipologie di cose espressamente elencate, stabilendo, al comma 1-bis, che resta ferma l'applicabilità delle disposizioni di cui agli articoli 12 e 13, qualora sussistano i presupposti e le condizioni stabiliti dall'articolo 10. Le disposizioni seguenti disciplinano la catalogazione (articolo 17) la vigilanza (articolo 18) e l’ispezione (articolo 19) nonché la protezione e conservazione dei beni, individuando gli interventi vietati (articolo 20) e quelli soggetti ad autorizzazione (articolo 21) da rilasciarsi secondo la procedura disciplinata dai successivi articoli da 22 a 28 che prendono in esame anche le situazioni di urgenza e l’applicazione di misure cautelari e preventive. Gli articoli da 29 a 44 prendono invece in esame l’attività di conservazione, mentre altre forme di protezione, quali ad esempio le prescrizioni di tutela indiretta, sono poi individuate dagli articoli da 45 a 52, prestando anche particolare attenzione alla circolazione dei beni culturali in ambito nazionale ed internazionale, alla disciplina dei ritrovamenti e delle scoperte e, infine, alla fruizione e valorizzazione dei beni culturali. Vengono anche presi in considerazione (articolo 128) i beni culturali individuati in base alla legislazione previgente, assicurando così una sostanziale continuità. La Parte Quarta del codice prevede sanzioni di natura amministrativa e penale. Quelle relative ai beni culturali sono contenute, rispettivamente, nel Titolo Primo, Capo Primo e nel Titolo Secondo, Capo Primo. Tra le condotte sanzionate assumono rilievo, per quel che qui interessa, quelle contemplate dall'art. 169, concernente le «opere illecite», il quale raggruppa quattro diverse condotte costituenti reato e già previste dall’articolo 59 della legge 1089\39 e poi dall’articolo 118 del D.Lv. 490\99 riguardanti chi: a) senza autorizzazione demolisce, rimuove, modifica, restaura ovvero, senza approvazione, esegue opere di qualunque genere sui beni culturali indicati nell’articolo 10; b) senza autorizzazione del soprintendente procede al distacco di affreschi, stemmi, graffiti, iscrizioni, tabernacoli ed altri ornamenti di edifici, esposti o non alla pubblica vista, anche se non vi sia stata la dichiarazione prevista dall’articolo 13; c) esegue, in casi di assoluta urgenza, lavori provvisori indispensabili per evitare danni notevoli ai beni indicati nell’articolo 10, senza darne immediata comunicazione alla soprintendenza ovvero senza inviare, nel più breve tempo, i progetti dei lavori definitivi per l’approvazione d) non osserva l’ordine di sospensione lavori impartito dal soprintendente ai sensi dell’articolo 28. I destinatari del precetto vanno individuati non solo nei soggetti proprietari del bene vincolato o negli altri soggetti ad essi equiparabili, ma anche in coloro che con la propria condotta, anche in concorso con altri, possono materialmente incidere sulla cosa protetta o comunque trasgredire le prescrizioni indicate. Come rilevato dalla giurisprudenza durante la vigenza della legge 1089\39, oggetto di tutela non sono esclusivamente gli immobili considerati nella loro struttura edilizia, ma anche le cose che, costituendone pertinenza, contribuiscono a salvaguardare l’interesse storico ed artistico del bene (Cass. Sez. III n.11927, 12 dicembre 1985; Sez. III n. 6295, 2 luglio 1997).

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L’intervento abusivamente eseguito, inoltre, non deve necessariamente consistere nella realizzazione di opere murarie, essendo sufficiente la predisposizione di qualsiasi manufatto, anche precario o di limitate dimensioni, purché idoneo a ledere il bene tutelato (Cass. Sez. III n. 682 del 22 gennaio 1985; Sez. III n. 9622, 28 ottobre 1997; Sez. III n. 2733, del 7 marzo 2000. Si è anche precisato - Sez. III n.42065, 16 novembre 2011- che gli interventi realizzabili sul bene storico sono soltanto quelli che mirano a valorizzare o meglio utilizzare il bene protetto, anche mediante modifiche d'uso che ne salvaguardino, pur in una prospettiva di adeguamento al mutare delle esigenze, la natura ed il valore). Il reato, considerata la sua natura, è stato collocato tra i reati formali di pericolo presunto, esso si perfeziona con la sola realizzazione degli interventi non autorizzati, indipendentemente dal pregiudizio arrecato al bene tutelato e dal conseguimento della prescritta autorizzazione in un momento successivo all’esecuzione delle opere (Cass. Sez. III n. 6421, 25 giugno 1993; Sez. III n.12003 20 novembre 1998; Sez. III n.5834 10 maggio 1999; Sez. III n. 14446 23 dicembre 1999; Sez. III n. 46082 15 dicembre 2008, che esclude la natura plurioffensiva del reato) sempre che sussista un minimo di idoneità offensiva della condotta tale da incidere sul bene tutelato nel senso della diminuzione del godimento estetico complessivo (Cass. Sez. III n. 22733, 7 marzo 2000). L’atto autorizzatorio successivo all’intervento non ha, secondo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, alcuna efficacia sanante e, conseguentemente, non estingue il reato (Sez. III n. 46082\2008 cit.). Esso non rileva, inoltre, neppure nel caso in cui costituisca un successivo riconoscimento della correttezza artistica e filologica della modificazione apportata e, quindi, della inesistenza di un danno di carattere estetico o storico E’ stato inoltre rilevato come il reato in esame sia integrato anche dalla mancata ottemperanza alle condizioni apposte dalla P.A. in sede di rilascio del provvedimento autorizzativo che, in tale ipotesi, deve considerarsi inefficace ( Cass. Sez. III n.11275, 20 marzo 2002). Con riferimento, invece, al momento consumativo, si ritiene che la violazione abbia natura di reato permanente non solo per quanto riguarda l’ipotesi di esecuzione di interventi senza autorizzazione, ma anche nelle ipotesi di rimozione di cose mobili vincolate. A tale proposito si è osservato che la condotta antigiuridica non si esaurisce nel trasporto iniziale ma permane, per volontà dell'agente, fino a quando questi non trasferisca nuovamente il bene nel luogo di provenienza ovvero fin quando non sia intervenuta l'autorizzazione amministrativa. Ciò in quanto la lesione del bene penalmente tutelato verrebbe a protrarsi per volontà dell'agente sino a che da questi non sia posta in essere una condotta uguale e contraria a quella iniziale o sino a che l'autorità competente non ratifichi la sua condotta. Ad analoghe conclusioni si è giunti anche con riferimento all’ipotesi contravvenzionale, consistente nella mancata presentazione del progetto alla competente sovrintendenza. In tal caso, però, si è tenuto conto del fatto che la punibilità della condotta posta in essere risulta correlata con l'ampia discrezionalità riconosciuta alla P.A. nella valutazione della compatibilità del progetto stesso cosicché, pur dovendosi di regola considerare che la permanenza si protrae fino alla cessazione - volontaria o coatta - della condotta o con l'impossibilità sopravvenuta di compiere l'azione richiesta (consistente nella presentazione del progetto), essa cessa anche con il venir meno della condotta duratura se tale cessazione non determina l'interruzione dell'effetto lesivo, poiché il suo permanere e' sottratto alla volontà dell'autore in quanto si fonda su un provvedimento discrezionale della pubblica amministrazione. Da ciò consegue che deve ritenersi cessata la permanenza nel caso in cui l’opera sia ultimata e sia stato presentato il progetto per l’approvazione, poiché il rilascio della stessa esula dalla volontà dell’agente ed è rimessa all’apprezzamento discrezionale della competente sovrintendenza (Cass. Sez. III n.10720, 25 novembre 1997) Può ritenersi pacifica la possibilità del concorso tra il reato in esame con quelli contemplati dalla vigente normativa urbanistica e ciò in ragione della diversa obiettività giuridica e della differenza tra le condotte punite. Altra contravvenzione di interesse, tra quelle concernenti la tutela dei beni culturali è quella contemplata dall'art. 170, il quale punisce la destinazione dei beni culturali indicati nell’articolo 10 ad uso incompatibile con il loro carattere storico od artistico o pregiudizievole per la loro conservazione o integrità (condotta già sanzionata dall’articolo 59 della legge 1089\39 e dal T.U

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490\99) Per «uso illecito» la giurisprudenza considera «...l'uso del bene culturale che ne determini la distorsione dal godimento che gli è proprio, ovvero di studio, ricerca o piacere estetico complessivo» (Cass. Sez. III n. 14377, 17 marzo 2005) ritenendo così integrato il reato anche attraverso l'uso del bene culturale attuato mediante interventi incidenti sulla sua conservazione od integrità e non finalizzati a valorizzarne la natura storica od a garantirne un migliore utilizzo quanto, piuttosto, a soddisfare beni ed interessi privi di relazione con tale natura e con la destinazione

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pubblica (Cass. Sez. III n. 42065, 16 novembre 2011, fattispecie in cui la Corte ha considerato incompatibile l'uso di un bene culturale, costituito da un parco pubblico, al cui interno erano in corso lavori per la realizzazione di un parcheggio). La particolare tutela cui è sottoposto il bene consente di escluderne in assoluto qualsiasi utilizzazione. Da ciò consegue che, legittimamente, potrebbe essere vietato dalla competente sovrintendenza anche il solo uso abitativo da parte del proprietario del bene, potendosi così ritenere subordinate alle esigenza di tutela e conservazione le ragioni della proprietà (così Cass. Sez. III n.442, 19 febbraio 1994). Il danno implicito nel reato in esame può consistere anche in una diminuzione del godimento estetico realizzato mediante opere non compatibili con la struttura esistente. Si tratta, anche in questo caso di reato di pericolo avente, peraltro, natura permanente. Sebbene non vi siano precedenti giurisprudenziali specifici, la condotta sanzionata ben potrebbe collegarsi ad interventi edilizi illeciti, ad esempio finalizzati alla modificazione dell'originaria destinazione d'uso di un immobile vincolato. Merita, inoltre, di essere menzionato, perché di interesse in questa sede, anche il reato di inosservanza delle prescrizioni di tutela indiretta. L’articolo 172 punisce, infatti, chiunque non osserva le prescrizioni date a norma dell’articolo 45, comma 1 in base al quale il Ministero, ha facoltà di prescrivere le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia messa in pericolo l’integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro. La disposizione in esame si riferisce ad ipotesi di «tutela indiretta» in quanto il provvedimento di prescrizione incide su beni diversi da quelli tutelati ma con specifiche finalità di conservazione di questi ultimi. Secondo quanto rilevato dalla giurisprudenza amministrativa, tali provvedimenti hanno lo scopo di tutelare la «cornice ambientale» di un monumento, ma non quello di conservare le bellezze panoramiche che si godono dallo stesso, con la conseguenza che il vincolo non può essere imposto al solo fine di conservare la visuale che si gode dal monumento. Le prescrizioni devono essere poi stabilite con riguardo alla globale consistenza della c.d. cornice ambientale (che si estende fino a comprendere ogni immobile, anche non contiguo, ma pur sempre in prossimità del bene monumentale) che sia con esso in relazione tale che la sua manomissione sia idonea, secondo una valutazione ampiamente discrezionale dell'Autorità, ad alterare il complesso di condizioni e caratteristiche fisiche e culturali che connotano lo spazio circostante . I provvedimenti hanno inoltre natura discrezionale ma non espropriativa. In giurisprudenza si è precisato che «le prescrizioni imposte a tutela indiretta del bene vincolato non devono essere confuse con gli obblighi imposti con i vincoli diretti. Le prescrizioni a norma dell'articolo 45 impongono, per ragioni d'interesse pubblico, delle vere e proprie limitazioni al diritto di proprietà del singolo. Nel momento in cui la pubblica amministrazione ha motivato un vincolo indiretto di inedificabilità assoluta di alcune aree adiacenti al monumento direttamente vincolato al fine di conservare l'integrità del fondale e la vista del bene, il proprietario dell'area circostante non può apportare al suolo di suo proprietà alcuna modificazione in contrasto con la prescrizione. I divieti possono essere assoluti o relativi. Se il divieto è assoluto, l'attività vietata non può essere svolta neppure con la preventiva autorizzazione amministrativa» (Cass. Sez. III n.37470, 2 ottobre 2008). La giurisprudenza ha anche riconosciuto la natura permanente della violazione in esame evidenziando come, avvenuta l’alterazione ovvero posta in essere una delle altre condotte vietate, si determini una situazione antigiuridica gravante sull’immobile tutelato che permane fintanto che l’agente volontariamente o coattivamente ne abbia determinato la cessazione (Cass. Sez. III n.9860, 27 settembre 1995,Sez. III n.37470\2008, cit.). La disposizione prevede infine, nel secondo comma, un’altra ipotesi di reato ravvisabile nel caso in cui non siano osservati i provvedimenti cautelari che conseguono alla comunicazione di avvio del procedimento per l’adozione delle prescrizioni di tutela indiretta (articolo 46, comma quarto) e che

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comportano la temporanea immodificabilità dell’immobile limitatamente agli aspetti cui si riferiscono le prescrizioni contenute nella comunicazione stessa. Per l’individuazione della sanzione applicabile la disposizione rinvia all’articolo 180 il quale, a sua volta, fa riferimento alle pene previste dall’articolo 650 cod. pen. Non può mancare infine un richiamo all'art. 733 cod. pen. per la sua funzione di chiusura del sistema di norme poste a tutela dei beni culturali ed all'art. 635 cod. pen. che pure può trovare applicazione in riferimento a tale tipologia di beni

4.1.2 Il vincolo paesaggistico L’articolo 131 del dlv. 42\2004 definisce il paesaggio come «il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni», dunque un' entità complessa, che considera tanto l’incidenza di fattori naturali quanto di quelli umani e delle loro interrelazioni. La disposizione, nell'attuale formulazione, evidenzia nel secondo comma che l’oggetto della tutela del paesaggio sono gli «aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell'identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali» specificando (comma quarto) che la tutela del paesaggio, ai fini del Codice, è volta «a riconoscere, salvaguardare e, ove necessario, recuperare i valori culturali che esso esprime». Ogni intervento sul territorio nazionale deve essere fondato su principi di uso consapevole del territorio e di salvaguardia delle caratteristiche paesaggistiche e di realizzazione di nuovi valori paesaggistici integrati e coerenti, rispondenti a criteri di qualità e sostenibilità ed, in tal senso, deve essere informata l’attività di Stato, Regioni, enti territoriali ed altri soggetti che sul territorio intervengono nell’esercizio di pubbliche funzioni (art. 131, ultimo comma) i quali devono anche assicurare la conservazione degli aspetti e caratteri peculiari del paesaggio Viene altresì evidenziato (comma quinto) che la valorizzazione del paesaggio concorre a promuovere lo sviluppo della cultura, prevedendo che le amministrazioni pubbliche promuovano e sostengano apposite attività di conoscenza, informazione e formazione, riqualificazione e fruizione del paesaggio nonché, ove possibile, la realizzazione di nuovi valori paesaggistici coerenti ed integrati. La valorizzazione deve essere attuata nel rispetto delle esigenze della tutela.

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Non manca, inoltre, un preciso riferimento (articolo 132) agli obblighi ed ai principi di cooperazione tra gli Stati derivanti dalle convenzioni internazionali. La tutela del paesaggio viene assicurata attraverso la cooperazione tra pubbliche amministrazioni (articolo 133) prevedendo la definizione, d’intesa tra il Ministero competente e le Regioni, delle politiche per la conservazione e la valorizzazione del paesaggio. Tale attività deve, inoltre, tener conto anche degli studi, delle analisi e delle proposte formulati dall'Osservatorio nazionale per la qualità del paesaggio, istituito con decreto del Ministro, nonché dagli Osservatori istituiti in ogni regione con le medesime finalità. La cooperazione viene altresì attuata nella definizione degli indirizzi e criteri riguardanti l'attività di pianificazione territoriale e la gestione dei conseguenti interventi per assicurare la conservazione, il recupero e la valorizzazione degli aspetti e caratteri del paesaggio Altro dato rilevante è rappresentato dal riferimento normativo, contenuto nell’articolo 133, comma secondo, al concetto di “sviluppo sostenibile” cui va fatto riferimento nel definire gli indirizzi e criteri di cui si è appena detto. Lo scopo dichiarato è quello di “assicurare la localizzazione, minimizzare gli impatti ed assicurare la qualità progettuale delle opere e degli interventi che sia necessario realizzare in aree di particolare valore” Gli altri enti pubblici territoriali, infine, devono conformare la loro attività di pianificazione agli indirizzi e ai criteri suddetti adeguando, nell'immediato, gli strumenti vigenti (articolo 133, terzo comma). Il Codice fornisce poi i criteri per individuazione dei beni oggetto di tutela. L’articolo 134 individua come “beni paesaggistici”: a) gli immobili e le aree di cui all’articolo 136, individuati attraverso al procedura descritta dagli articoli da 138 a 141; b) le aree definite nell’articolo 142; c) gli immobili e le aree comunque sottoposti a tutela dai piani paesaggistici previsti dagli articoli 143 e 156. Il richiamo operato fa, in pratica, riferimento nelle lettere a) e b) alle categorie di beni già individuate in base alla legge 1497\39 (poi contemplate dall’articolo 139 del T.U.) e dalla legge 431\85 (unitamente alle disposizioni legislative che l’avevano preceduta) prese poi in esame dall’articolo 146 del T.U. medesimo. Viene dunque operata una tripartizione tra:

1) beni individuati a seguito di procedimento amministrativo, 2) beni soggetti a tutela in base alla legge 3) beni soggetti a tutela in base ai piani paesaggistici.

Un ruolo centrale e rilevante è assegnato dal Codice all’attività di pianificazione che, rispetto al previgente Testo Unico, viene estesa a tutto il territorio regionale, individuando in modo minuzioso la procedura di pianificazione, i contenuti del piano e le sue finalità, prevedendo anche la possibilità di accordi per l’elaborazione dei piani tra singole regioni e ministero. Rispetto all’originaria stesura, l’articolo 135, comma primo precisa ora che l’attività di conoscenza, salvaguardia, pianificazione e gestione del territorio deve avvenire tenendo in considerazione anche “i differenti valori espressi dai diversi contesti che lo costituiscono” prevedendo così maggiore flessibilità e possibilità di adattamento. Stabilisce, a tale proposito, l’articolo 135 che le regioni assicurano adeguata tutela e valorizzazione del paesaggio sottoponendo a specifica normativa d’uso il territorio, approvando piani paesaggistici ovvero piani urbanistico-territoriali con peculiare considerazione dei valori paesaggistici, concernenti l’intero territorio. Viene altresì chiarito che il piano paesaggistico definisce le trasformazioni compatibili con i valori paesaggistici, le azioni di recupero e riqualificazione degli immobili e delle aree sottoposti a tutela, nonché gli interventi di valorizzazione del paesaggio. La rilevanza attribuita alla pianificazione ha anche determinato una rivisitazione del regime delle autorizzazioni paesaggistiche e del controllo sul rilascio delle stesse.

4.1.3 Le diverse tipologie di beni sottoposti a vincolo paesaggistico I beni individuati a seguito di procedimento amministrativo sono elencati dallʹart. 136 e, rispetto 

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ad essi assume rilevanza essenziale la procedura di dichiarazione di notevole interesse pubblico. 

A tale scopo  l’articolo 137 prevede  l’istituzione da parte delle regioni di apposite commissioni 

aventi il compito di formulare proposte per la dichiarazione di notevole interesse pubblico. 

La  regione, sulla base della proposta della commissione, esaminate  le osservazioni e  tenuto conto 

dell’esito dell’eventuale inchiesta pubblica, emana il provvedimento di dichiarazione che deve 

essere notificato al proprietario, possessore o detentore, depositato presso  il comune, nonché 

trascritto a cura della regione nei registri  immobiliari. E’ prevista anche  la pubblicazione nella 

Gazzetta Ufficiale e nel Bollettino Ufficiale della regione oltre ad altre forme di pubblicità. 

La dichiarazione di notevole  interesse pubblico  indica  la specifica disciplina  finalizzata ad 

assicurare  la  conservazione  dei  valori  espressi  dagli  aspetti  e  caratteri  peculiari  del  territorio  e 

costituisce parte  integrante del piano paesaggistico. Non e' suscettibile di rimozioni o modifiche nel corso del procedimento di redazione o revisione del piano medesimo (articolo 140, comma secondo). L’articolo  141 disciplina,  inoltre,  l’intervento  in  via  sostitutiva del Ministero  in 

caso di inerzia o tardo da parte della regione. Con il D.Lv. 63\2008 è stato infine introdotto 

l’articolo  141bis  che  regola  l’integrazione  del  contenuto  delle  dichiarazioni  di  notevole  interesse 

pubblico. 

I beni soggetti a tutela in base alla legge sono, appunto, individuati per categorie ed elencati 

dallʹart. 142, essi ricevono tutela  in ragione del  loro  interesse paesaggistico fino all’approvazione 

del piano paesaggistico.  I commi 2 e 3 dellʹart. 142 prevedono comunque alcune specifiche 

eccezioni. 

Va segnalato che, con specifico riferimento ai corsi d’acqua  indicati nella  lettera c) del comma 

primo,  l’articolo  142 prevede  che  gli  stessi non  rientrino  tra  i  beni  tutelati  qualora  siano  ritenuti 

irrilevanti ai  fini paesaggistici e, pertanto,  inclusi  in apposito elenco  redatto e  reso pubblico dalla 

Regione  competente,  ferma  restando  la  possibilità  per  il  Ministero di confermare la rilevanza paesaggistica di detti beni con provvedimento adottato con le procedure previste dall’articolo 141 per l’integrazione degli elenchi. E’ importante rilevare come, secondo una condivisibile lettura delle disposizioni in esame effettuata dal Consiglio di Stato, da una interpretazione letterale, logica e sistematica, deve ritenersi che i fiumi ed i torrenti siano soggetti a tutela paesistica di per sé stessi, a prescindere dalla iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche, mentre solo per i corsi d’acqua diversi dai fiumi e dai torrenti la iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche ha efficacia costitutiva del vincolo paesaggistico. L’affermazione è basata principalmente sulla circostanza che, alla luce dei termini utilizzati dal legislatore, anche i fiumi e i torrenti sono da ritenere corsi d’acqua con la conseguenza che la loro autonoma indicazione assume «una sola, plausibile spiegazione: si è pensato ai fiumi e ai torrenti come acque fluenti di maggiore importanza, e ai corsi d’acqua come categoria residuale, comprensiva delle acque fluenti di minore portata (per esempio ruscelli («piccolo corso d’acqua»), fiumicelli («piccolo fiume»), sorgenti («punto di affioramento di una falda d’acqua»), fiumare («corso d’acqua a carattere torrentizio»), ecc.» ( Cons. Stato Sez. VI n. 657 del 4\2\2002). L'attività di pianificazione paesaggistica è invece disciplinata dagli articoli 143, 144 e 145 ed ha lo scopo di ripartire il territorio in ambiti omogenei, da quelli di elevato pregio paesaggistico fino a quelli significativamente compromessi o degradati, tenendo ovviamente conto delle caratteristiche delle aree interessate. Il piano paesaggistico ha contenuto descrittivo, prescrittivo e propositivo e la sua elaborazione si articola in diverse fasi, descritte nell’articolo 143. Il piano può essere realizzato sulla base di accordi di intesa tra regioni, Ministero per i beni e le attività culturali e Ministero per l’ambiente e la tutela del territorio e del mare, è suscettibile di successive revisioni e può essere approvato, in via sostituiva, con provvedimento ministeriale (limitatamente ai beni paesaggistici di cui alle lettere b), c) e d) del comma 1 dell’articolo 143) in caso di inerzia della regione. Sempre con riferimento alla tipologia di beni appena indicati, l’articolo 143, comma terzo, stabilisce che, dopo l’approvazione del piano paesaggistico, il parere reso dal soprintendente nel

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procedimento autorizzatorio è vincolante (salvo quanto disposto al comma 4, nonché quanto previsto dall'articolo 146, comma 5). Il piano paesaggistico può inoltre prevedere la individuazione di aree soggette a tutela ai sensi dell'articolo 142 e non interessate da specifici procedimenti o provvedimenti di cui agli articoli 136, 138, 139, 140, 141 e 157, nelle quali la realizzazione di interventi può avvenire previo accertamento nell'ambito del procedimento ordinato al rilascio del titolo edilizio, della conformità degli inventi medesimi alle previsioni del piano paesaggistico e dello strumento urbanistico comunale, ovvero la individuazione delle aree gravemente compromesse o degradate nelle quali la realizzazione degli interventi effettivamente volti al recupero ed alla riqualificazione non richiede il rilascio dell'autorizzazione di cui all'articolo 146. L’applicazione di tali disposizioni viene comunque subordinata, dal comma quinto, all'approvazione degli strumenti urbanistici adeguati al piano paesaggistico, ai sensi dell'articolo 145, commi 3 e 4, mentre il comma sesto stabilisce anche che il piano possa subordinare l'entrata in vigore delle disposizioni che consentono la realizzazione di interventi senza autorizzazione paesaggistica all'esito positivo di un periodo di monitoraggio che verifichi l'effettiva conformità alle previsioni vigenti delle trasformazioni del territorio realizzate. Va inoltre evidenziato che l’ultimo comma della disposizione in esame stabilisce che, a far data dall'adozione del piano paesaggistico, non sono consentiti, sugli immobili e nelle aree di cui all'articolo 134, interventi in contrasto con le prescrizioni di tutela previste nel piano stesso. A far data dalla approvazione del piano le relative previsioni e prescrizioni sono immediatamente cogenti e prevalenti sulle previsioni dei piani territoriali ed urbanistici.

4.1.4 Gestione dei beni ed autorizzazione paesaggistica L’articolo 146 del d.lgs. 42\2004 vieta ai proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di beni ambientali, espressamente richiamati dal primo comma, di distruggerli o di introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione. Non è però esclusa la possibilità di eseguire interventi sui beni predetti previo rilascio dell’autorizzazione prevista dai commi secondo e seguenti dell’articolo in esame. Come si evince dalla semplice lettura della disposizione, l’autorizzazione deve precedere l’esecuzione dell’intervento., poiché è espressamente indicato che i soggetti interessati all’esecuzione dell’intervento hanno non solo l'obbligo di presentare alle amministrazioni competenti il progetto degli interventi che intendano intraprendere, corredato della prescritta documentazione, ma anche quello di astenersi dall'avviare i lavori fino a quando non ne abbiano ottenuta l'autorizzazione. La sua efficacia è di cinque anni, scaduti i quali è necessaria una nuova autorizzazione, ma i lavori iniziati nel corso del quinquennio di efficacia dell'autorizzazione possono essere conclusi entro e non oltre l'anno successivo la scadenza del quinquennio medesimo. Il procedimento di rilascio dell’autorizzazione è disciplinato sempre dall’articolo 146 che ne attribuisce la competenza alla regione, la quale può tuttavia delegare altri enti (province, forme associative e di cooperazione fra enti locali, agli enti parco o ai comuni), precisandosi, tuttavia, che la delega presuppone la disponibilità, da parte degli enti destinatari, di strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico – edilizia. Questa puntualizzazione, introdotta con un intervento correttivo nel 2008, è evidentemente finalizzata ad eliminare la scandalosa prassi del ricorso alle c.d. commissioni edilizie integrate dove la presenza, talvolta solo eventuale, di non meglio specificati «soggetti esperti», veniva utilizzata per legittimare interventi anche rilevanti in aree vincolate senza alcuna valutazione effettiva delle esigenze di tutela del paesaggio. Resta da vedere, però, come verrà di fatto esercitato il controllo sull’esistenza di tali presupposti, nulla precisando in merito la disposizione in esame e l’articolo 159. La richiesta è presentata unitamente ai progetti delle opere che si intendano eseguire, corredati della

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documentazione prevista e la pronuncia sull’istanza di autorizzazione avviene dopo avere acquisito il parere vincolante del soprintendente (in relazione agli interventi da eseguirsi su immobili ed aree sottoposti a tutela dalla legge o in base alla legge, ai sensi del comma 1, salvo quanto disposto dall'articolo 143, commi 4 e 5 in tema di panificazione). Il parere del Soprintendente, all'esito dell'approvazione delle prescrizioni d'uso dei beni paesaggistici tutelati, predisposte ai sensi degli articoli 140, comma 2, 141, comma 1, 141-bis e 143, comma 3, lettere b), c) e d), nonché della positiva verifica da parte del Ministero, su richiesta della regione interessata dell'avvenuto adeguamento degli strumenti urbanistici, assume invece natura obbligatoria non vincolante ed è reso nel rispetto delle previsioni e delle prescrizioni del piano paesaggistico, entro il termine di quarantacinque giorni dalla ricezione degli atti, decorsi i quali l'amministrazione competente provvede sulla domanda di autorizzazione.

L’amministrazione che riceve la domanda deve verificare la sussistenza dei presupposti e può richiedere l’integrazione della documentazione presentata. L’autorizzazione è rilasciata o negata entro i termini specificati dall’articolo 146. Appare del tutto evidente l’importanza delle disposizioni appena esaminate in quanto la dettagliata specificazione dei presupposti per il rilascio dell’atto abilitativo comporta necessariamente una adeguata motivazione. E’ infine prevista l’impugnabilità dell’autorizzazione rilasciata con ricorso al T.a.r. o con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, dalle associazioni ambientaliste portatrici di interessi diffusi individuate ai sensi delle vigenti disposizioni di legge in materia di ambiente e danno ambientale e da qualsiasi altro soggetto pubblico o privato che ne abbia interesse. Le disposizioni in tema di autorizzazione si applicano, ora, anche alle autorizzazioni per le attività di coltivazione di cave e torbiere, precedentemente non considerate (si vedano, a tale proposito, i commi 14 e 15 dell’articolo 146). La lettera della norma lascia dunque intendere, in modo inequivocabile, che la complessa procedura per il rilascio dell’autorizzazione non può essere in alcun modo elusa e l’atto autorizzatorio, che non ammette equipollenti, deve essere espresso e, nel caso in cui l’intervento si concreti in un opera rilevante anche sotto il profilo urbanistico, deve ritenersi provvedimento distinto dal permesso di costruire. L'articolo 146 prevede, al comma nono, l'emanazione di un regolamento che stabilisca le procedure semplificate per il rilascio dell'autorizzazione in relazione ad interventi di lieve entità in base a criteri di snellimento e concentrazione dei procedimenti e ferme, comunque, le esclusioni di cui agli articoli 19, comma 1 e 20, comma 4 della legge 7 agosto 1990, n. 241 e successive modificazioni. Tale regolamento è contenuto nel D.p.r. 9 luglio 2010, n. 139 e stabilisce la sottoposizione ad autorizzazione semplificata di una serie di interventi analiticamente descritti nell'Allegato 1 al decreto medesimo. La procedura prevista prevede una sensibile riduzione della documentazione da presentare e la riduzione dei tempi di definizione del procedimento autorizzatorio. Come espressamente indicato nell’articolo 149, l’autorizzazione non è richiesta (fatto salvo il disposto dell’articolo 143, comma quarto, lettera a) per l’esecuzione di interventi manutentivi e di conservazione in genere che non determinino l’alterazione dell’assetto originario dei luoghi ed, in particolare, per gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici; per gli interventi inerenti all’esercizio dell’attività agro-silvo-pastorale che non comportino alterazione permanente dello stato dei luoghi con costruzioni edilizie ed altre opere civili (e sempre che si tratti di attività ed opere che non alterino l’assetto idrogeologico del territorio) e, infine, per il taglio colturale, la forestazione, la riforestazione, le opere di bonifica, antincendio e di conservazione da eseguirsi nei boschi e nelle foreste indicati alla lettera g) dell’articolo 142, comma primo purché previsti ed autorizzati in base alle norme vigenti in materia. Il codice prevede anche un potere di inibizione o sospensione dei lavori (articolo 150) esercitabile dalla Regione e dal Ministero con riferimento ai beni indipendentemente dall’avvenuta pubblicazione all’albo pretorio prevista dagli articoli 139 e 141, ovvero dall’avvenuta comunicazione prescritta dall’articolo 139, comma 4. Tale facoltà consiste nella possibilità di

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inibire che si eseguano lavori senza autorizzazione o comunque capaci di pregiudicare il paesaggio e di ordinare la sospensione di lavori iniziati anche quando non sia intervenuta la diffida.

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Una disciplina specifica è stabilita per gli interventi soggetti a particolari prescrizioni (quali, ad esempio, l’apertura di strade e cave) dall’articolo 152 e per le opere di amministrazioni statali (ivi compresi gli alloggi di servizio per il personale militare) dall’articolo 147. Le regole per l’apposizione di cartelli pubblicitari e per l’individuazione del colore delle facciate dei fabbricati in determinate ipotesi sono invece dettate dagli articoli 153 e 154.

4.1.5 Rapporti tra permesso di costruire e autorizzazione paesaggistica. Sulla natura dell’autorizzazione fornisce utili indicazioni il comma quarto dell'art. 142, precisando che essa costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico - edilizio e che, fuori dai casi di cui all'articolo 167, commi 4 e 5 (di cui si dirà in seguito), l'autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi. Si era ritenuto di poter affermare in passato, in attesa di contributi interpretativi più incisivi da parte della giurisprudenza che la natura endoprocedimentale dell’autorizzazione paesaggistica potrebbe ricavarsi, in primo luogo, dal tenore dello stesso articolo 146 D.Lv. 42\04, nonché da quello dell’articolo 20 d.P.R. 380\01 e, soprattutto, dall’articolo 5, comma quarto del citato d.P.R. Occorre tuttavia prendere atto del fatto che una successiva decisione del giudice amministrativo ha espressamente escluso la natura endoprocedimentale dell'autorizzazione paesaggistica. In particolare, ricordando come già il primo giudice avesse evidenziato che l’autorizzazione paesaggistica, contrariamente a quanto affermato dai ricorrenti, non è atto endoprocedimentale in senso proprio, perché attiene ad un sub-procedimento autonomo e distinto rispetto alla domanda di permesso di costruire, il Consiglio di Stato ha chiarito che «...il procedimento di rilascio del permesso di costruire ha un rapporto di autonomia e non di interdipendenza rispetto al rilascio del parere ambientale, posto che l’art. 159 del d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, in via transitoria sino al 31 dicembre 2009 e, susseguentemente a tale data, in via definitiva, l’art. 146 del medesimo d.lgs., egualmente dispongono nel senso che “l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti ‘'intervento urbanistico edilizio” e che “i lavori non possono essere iniziati in difetto di essa”. Da ciò pertanto discende che l’autorizzazione paesaggistica non può essere intesa quale mero presupposto di legittimità del titolo legittimante l’edificazione, connotandosi piuttosto per una sua autonomia strutturale e funzionale rispetto al permesso di costruire; e che il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e titolo edilizio si sostanzia pertanto in un rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra valutazioni paesistiche ed urbanistiche, nel senso che questi due apprezzamenti si esprimono entrambi sullo stesso oggetto, ma con diversi e separati procedimenti, l’uno nei termini della compatibilità paesaggistica dell’intervento edilizio proposto e l’altro nei termini della sua conformità urbanistico-edilizia (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 27 novembre 2010 n. 8260)» (Cons. Stato Sez. IV n. 4234, 21 agosto 2013).

4.1.6 Il vincolo ambientale Con la L.6 dicembre 1991, n. 394 è stata disposta la istituzione e regolamentata la gestione delle aree naturali protette con le finalità, chiaramente indicate nell’articolo 1, di garantire e promuovere in forma coordinata la conservazione e valorizzazione del patrimonio naturale. La legge prevede la classificazione delle aree protette, predispone strumenti di programmazione, misure di salvaguardia e di incentivazione nonché una ripartizione successivamente oggetto di successivo intervento del legislatore . Nella nozione di «area protetta» rientrano, oltre ai parchi nazionali, «i parchi naturali interregionali e regionali, le riserve naturali statali e regionali» (Cass. Sez. III n. 46079 15 dicembre 2008), «le aree umide di importanza nazionale ai sensi della Convenzione di Ramsar di cui al d.P.R. 448 del 13\3\1976, le zone di protezione speciale degli uccelli selvatici ai sensi della direttiva 79\409\CEE, le zone speciali di conservazione degli habitat naturali e semi-naturali e della flora e della fauna selvatiche ai sensi della direttiva 92\43\CEE» ( Cass. Sez. III n. 30 5 gennaio 2000) . Come osservato in giurisprudenza, la definizione del territorio che compone un «parco» non rientra

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nella disponibilità dell'Ente che lo amministra o delle autorità preposte al controllo ed alla tutela dell'area protetta in quanto, ai sensi della legge 394\91, i confini delle aree devono essere definiti nel provvedimento istitutivo Cass. Sez. III n. 42976, 21 novembre 2007). La legge prevede, nell’articolo 30, alcune fattispecie costituenti reato riguardanti l’inosservanza delle misure di salvaguardia stabilite nell’articolo 6 e la violazione delle disposizioni contenute nell’articolo 13, il quale richiede il preventivo «nulla osta» dell’Ente Parco per il rilascio di concessioni ed autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all’interno dei parchi nazionali e regionali e delle riserve naturali da emanarsi secondo la procedura descritta nell’articolo medesimo. La seconda parte dell’articolo 30, comma primo contempla altre violazioni penali ritenute meno gravi di quelle appena esaminate e punite con la pena alternativa (arresto o ammenda) fissata, nel massimo, in misura minore. La terminologia utilizzata dal legislatore sembra eliminare ogni dubbio circa la necessità che il predetto nulla osta intervenga prima del rilascio dell’autorizzazione o permesso, incidendo sull’efficacia dell’atto stesso. Va poi ricordato che il nulla osta di cui si tratta è provvedimento del tutto autonomo non solo rispetto al permesso di costruire, ma anche alla autorizzazione paesaggistica prevista dalle disposizioni in tema di tutela dei beni ambientali di cui si è detto in precedenza (V. Cass. Sez. III n. 12917, 13 ottobre 1998, nella quale viene precisato che il nulla-osta dell'Ente parco e l'autorizzazione paesistica sono atti amministrativi diversi, sia perché seguono distinti procedimenti sia perché tendono a conseguire finalità non collimanti: il primo mira ad accertare la compatibilità tra le disposizioni del piano e del regolamento e le opere da realizzare; il secondo e' volto a stabilire la possibilità d'inserimento di queste ultime nell'ambito panoramico. V. anche Sez. III n.83 11 gennaio 2000; Sez. III n. 47706 15 dicembre 2003. Nello stesso senso Sez. III n. 20738 12 maggio 2003, ove viene altresì precisato che l'autorizzazione paesaggistica e il nulla osta dell'Ente parco possono essere attribuiti da legge regionale anche ad un organo unico, ma chiamato a compiere una duplice valutazione, mantenendo la loro autonomia ad ogni effetto, ivi compreso quello sanzionatorio. Conf. Sez. III n. 26863, 20 giugno 2003. Con specifico riferimento all’applicabilità della disposizione in esame anche ai parchi regionali si veda Sez. III n.5863, 13 febbraio 2004). Va poi rilevato che il riferimento ad “interventi, impianti ed opere” fatto dal legislatore estende la necessità del nulla osta non solo a gli interventi rientranti nell’attività edilizia propriamente detta, ma a tutti quelli la cui realizzazione possa incidere in modo significativo sull’originario assetto dell’area protetta. L’evidenza del bene giuridico tutelato non sembra creare problemi interpretativi circa il rapporto con altre fattispecie aventi rilevanza penale.

4.2 Le tipologie di intervento edilizio rilevanti per l'applicazione dell'art. 44 lett c) d.P.R. 380\01

L’articolo 44 lettera c) prevede, a differenza della lettera b), la configurabilità del reato non solo per gli interventi eseguiti in assenza del permesso di costruire o in totale difformità, ma anche di quelli effettuati in variazione essenziale nelle zone soggette a vincolo (v. Cass. Sez. III n. 16392, 27 aprile 2010). Tale ultima tipologia di interventi, è indicata dalla giurisprudenza (Cass. Sez. n. 8316, III 3 marzo 2005) come una tipologia di abuso intermedia tra la difformità totale e quella parziale. L’articolo 32 del dpr 380\01 precisa che le regioni stabiliscono quali siano le variazioni essenziali al progetto approvato, tenuto conto che l'essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle seguenti condizioni: 1) mutamento della destinazione d'uso che implichi variazione degli standards previsti dal decreto ministeriale 2 aprile 1968; 2) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato; 3) modifiche sostanziali di parametri urbanistico - edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione dell'edificio sull'area di pertinenza; (v. Cass. Sez. III n. 21781, 31 maggio 2011); 4) mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito; violazione delle norme vigenti in materia di edilizia

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antisismica, quando non attenga a fatti procedurali. Nel comma secondo dell'art. 32 si aggiunge che non possono ritenersi comunque variazioni essenziali quelle che incidono sulla entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative. Sono poi espressamente esclusi, dal terzo comma, gli interventi eseguiti su immobili sottoposti a vincolo storico, artistico, architettonico, archeologico, paesistico ed ambientale, nonché su immobili ricadenti sui parchi o in aree protette nazionali e regionali che vanno invece considerati in totale difformità dal permesso, ai sensi e per gli effetti degli articoli 31 e 44. Tutti gli altri interventi sui medesimi immobili sono considerati variazioni essenziali. Ai fini dell'applicabilità della disposizione in esame assumono rilievo anche i vincoli di tutela indiretta (Cass. Sez. III n. 36095, 5 ottobre 2011). Va inoltre ricordato che il regime vincolistico assume specifico rilievo, nell'ambito della disciplina urbanistica, con riferimento a determinate tipologie di interventi, rispetto alle quali impone un regime autorizzatorio più complesso o limitazioni alla loro esecuzione, come avviene, ad esempio, per le opere soggette a SCIA, per le ristrutturazioni edilizie modificative della sagoma di un edificio. Una cenno particolar merita la recente modifica dell'art. 3, lett. d) del d.P.R. 380\01 ad opera del c.d. decreto del fare (d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modificazioni dalla L. 9 agosto 2013, n. 98). Nel considerare gli interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria del preesistente edificio, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, sono ora ricompresi anche quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, per gli immobili sottoposti a vincolo ai sensi del d.lgs. 42\2004 gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente. Con gli interventi modificativi apportati dal d.l. 69\2013 si è quindi notevolmente ampliato il concetto di ristrutturazione, limitando, rispetto a quanto avveniva in precedenza, l'obbligo del rispetto della sagoma ai soli immobili vincolati ed introducendo la possibilità di ristrutturazione degli edifici crollati demoliti, prima esclusa. La norma, è appena il caso di dirlo, risulta formulata in modo tale da offrire, se non interpretata con estrema attenzione, un ulteriore incoraggiamento all'abusivismo. Va subito detto che la possibilità di ristrutturazione senza rispetto della sagoma per gli immobili non vincolati imporrà una particolare attenzione agli incrementi volumetrici che potrebbero essere attuati con estrema facilità ben oltre i limiti dianzi delineati. Quanto alla «ristrutturazione dei ruderi» appare di tutta evidenza la bizzarria di una disposizione che consente di ristrutturare qualcosa che non esiste più, tale essendo un edifico crollato o demolito. Ma tant'è. Va rilevato, inoltre, che il riferimento ad edifici crollati o demoliti o parti di essi, chiaramente riguarda non soltanto quei manufatti venuti meno per effetto di incuria o per vetustà, ma anche quelli oggetto di interventi specificamente finalizzati alla loro demolizione. Va tuttavia richiamata l'attenzione sul fatto che detti interventi impongono quale imprescindibile condizione che sia possibile accertare la preesistente consistenza di ciò che si è demolito o è crollato. Tale accertamento dovrà essere effettuato con il massimo rigore e dovrà necessariamente fondarsi su dati certi ed obiettivi quali documentazione fotografica, cartografie etc. in base ai quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza del manufatto preesistente. Inoltre, l'utilizzazione del termine «consistenza» inevitabilmente include tutte le caratteristiche essenziali dell'edifico preesistente (volumetria, altezza, struttura complessiva etc.) con la conseguenza che, in mancanza anche di uno solo di tali essenziali elementi per la richiesta attività ricognitiva dovrà escludersi la sussistenza del requisito richiesto dalla norma. La disposizione stabilisce inoltre espressamente che, con riferimento agli immobili sottoposti a

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vincoli ai sensi del d.lgs. 42\2004, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente. Si osserva, a tale proposito, che il riferimento ai vincoli di cui al menzionato d.lgs. 42\2004 è del tutto generico, cosicché sembrano ricompresi anche i vincoli riguardanti i beni culturali, che il decreto legislativo pure contempla, rispetto ai quali risulta quanto meno azzardato prevedere la possibilità di interventi di demolizione e ricostruzione. L'ambito di operatività di tali disposizioni dovrà pertanto essere accuratamente delimitato dalla giurisprudenza

4.2.1 L 'abuso paesaggistico La disciplina sanzionatoria degli abusi paesaggistica contempla sanzioni amministrative e penali. Per ciò che concerne queste ultime, deve farsi riferimento all'art. 181 d.lgs. 42\2004, dall'esame del quale può operarsi una distinzione tipologica degli abusi paesaggistici secondo la seguente tripartizione:

– abusi minori, comportanti la applicazione delle sole sanzioni amministrative pecuniarie qualora intervenga una valutazione della compatibilità paesaggistica con la procedura descritta nel comma 1-quater e della quale si dirà in seguito

– abusi “gravi” che presentano le caratteristiche descritte nel comma 1-bis e configurano un delitto, punito con la reclusione (per il quale la giurisprudenza ha espressamente escluso la possibilità di qualificarlo come reato circostanziato. V. Cass. Sez. III n. 34866, 27 settembre 2010)

– abusi ordinari, già previsti dall’articolo 181, comma primo nella sua originaria formulazione e sanzionati mediante il rinvio quoad poenam all’articolo 44 lettera c) della legge urbanistica.

In linea generale, la costante giurisprudenza di legittimità qualifica il reato paesaggistico come reato formale e di pericolo, che si perfeziona, indipendentemente dal danno arrecato al paesaggio, con la semplice esecuzione di interventi non autorizzati idonei ad incidere negativamente sull’originario assetto dei luoghi sottoposti a protezione (v. Sez. III n.2903, 22 gennaio 2010 ed altre prec. conf.). E’ di tutta evidenza, attesa la posizione di estremo rigore del legislatore in tema di tutela del paesaggio, che assume rilevo, ai fini delle configurabilità del reato contemplato dal menzionato articolo 181, ogni intervento astrattamente idoneo ad incidere, modificandolo, sull’originario assetto del territorio sottoposto a vincolo paesaggistico ed eseguito in assenza o in difformità della prescritta autorizzazione. L’individuazione della potenzialità lesiva di detti interventi deve inoltre essere effettuata mediante una valutazione ex ante, diretta quindi ad accertare non già se vi sia stato un danno al paesaggio ed all'ambiente, bensì se il tipo di intervento fosse astrattamente idoneo a ledere il bene giuridico tutelato (v. ex pl. Sez. III n. 14461, 28 marzo 2003; n.14457, 28\3\2003; n. 12863, 20 marzo 2003; n.10641,, 7 marzo 2003). E’ quindi richiesta la preventiva valutazione da parte dell’ente preposto alla tutela del vincolo per ogni intervento, anche modesto e diverso da quelli contemplati dalla disciplina urbanistica ed edilizia. Alla luce di tali premesse generali, la giurisprudenza ha ritenuto rilevanti, sotto il profilo paesaggistico e, pertanto, intrinsecamente idonei a comportare modificazioni ambientali interventi quali, ad esempio, la realizzazione di un campo da golf eseguita mediante livellamento del terreno (Sez. III n. 6444, 21 febbraio 2006), l’abbassamento del livello di una strada vicinale (Sez. III n. 3065, 2 aprile 1997), la realizzazione di un parcheggio mediante spandimento sul terreno di materiale tufaceo (Sez. III n. 159, 9 gennaio 2007). E' stato attribuito rilievo penale anche alle opere non visibili all’esterno (ad esempio interrate) ma comunque idonee a determinare una compromissione dei valori ambientali (Cass. Sez. III n. 11128, 30 marzo 2006; conf. Sez. III n. 7292, 22 febbraio 2007; Sez. III n. 21842, 1 giugno 2011 contra

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Sez. III n. 660, 25 giugno 1992). Più in generale, si è affermato che assume rilevanza il mutamento della consistenza estetica di un manufatto e, cioè, la sua fisionomia e l’aspetto esteriore (Sez. III n. 2903, 22 gennaio 2010, fattispecie relativa alla mera chiusura con elementi vetrati di un portico di abitazione) Si è ulteriormente specificato che, per la configurabilità del reato in esame, è sufficiente che l'agente faccia del bene protetto un uso diverso da quello cui esso è destinato, atteso che il vincolo posto su certe parti del territorio nazionale ha una funzione prodromica al governo del territorio stesso (Sez. III n. 564, 11 gennaio 2006; Sez. VI n. 19733, 8 giugno 2006). Sulla base di tali considerazioni si è anche giunti ad affermare che il reato paesaggistico è configurabile anche se la condotta consista nell'esecuzione di interventi senza autorizzazione i cui effetti, per il mero decorso del tempo e senza l'azione dell'uomo, siano venuti meno restituendo ai luoghi l'originario assetto (Sez. III n. 6299, 08 febbraio 2013) Ancor più recentemente si è ribadito che la punibilità del reato in questione è esclusa solo nell'ipotesi di interventi di «minima entità», inidonei, già in astratto, a porre in pericolo il paesaggio, e a pregiudicare il bene paesaggistico-ambientale (Sez. III n. 39049, 23 settembre 2013). Tali principi sono stati affermati anche con riferimento all'ipotesi delittuosa disciplinata dal medesimo art. 181 d.lgs. 42\2004 (Sez. III n. 34764, 26 settembre 2011). La giurisprudenza non ha inoltre mancato di prendere in esame, l'incidenza del c.d. principio di offensività, già oggetto, in precedenza, di una compiuta analisi delle diverse posizioni dottrinarie e giurisprudenziali (Sez. III n. 2733, 7 marzo 2000; Sez. III n.44161, 10 dicembre 2001) cui si rinviava, ricordando anche quanto osservato, in tema, dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 247 del 1997) secondo la quale anche per i reati ascritti alla categoria di quelli formali e di pericolo presunto od astratto è sempre devoluto al sindacato del giudice penale l'accertamento in concreto dell'offensività specifica della singola condotta, dal momento che, ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta e si verte in tema di reato impossibile, ex art. 49 cod. pen. (sentenza n. 360 del 1995). Veniva precisato, sempre in tale occasione (Sez. III n. 34764, 26 settembre 2011, cit.), che il principio di offensività deve essere considerato non tanto sulla base di un concreto apprezzamento di un danno ambientale, quanto, piuttosto, per l'attitudine della condotta a porre in pericolo il bene protetto (affermazione peraltro successivamente ribadita in Sez. III n. 13736, 22 marzo 2013 e precedentemente formulata in Sez. III n. 2903, 22 gennaio 2010). E' stato preso in considerazione anche il rilievo assunto, ai fini della valutazione della offensività della condotta, da eventuali valutazioni postume di compatibilità paesaggistica delle opere abusivamente realizzate, escludendone ogni efficacia.

Osservando, infatti, che il reato si perfeziona con il porre in essere interventi in zone vincolate senza il controllo e la autorizzazione amministrativa indipendentemente dal risultato sulle bellezze naturali si è ritenuto irrilevante, ai fini del perfezionamento della fattispecie, la mancanza di danno ambientale attestata dalle autorità competenti alla tutela del vincolo (Sez. III n.10463, 17 marzo 2005) Si era inoltre argomentato, in precedenza, che il riferimento al criterio di concreta offensività può essere accettato, nelle ipotesi in esame, soltanto in ambiti estremamente marginali riguardanti casi in cui l’assenza di pericolo di lesione del bene tutelato sia verificabile ictu oculi e, quindi, al di là di ogni ragionevole dubbio, con la conseguenza che non può ammettersi, per l 'evidente incompatibilità con la rigorosa disciplina di settore, il riconoscimento della inoffensività, in concreto, di una nuova opera, che, indipendentemente dalle dimensioni, per il solo fatto di essere introdotta in un paesaggio rigorosamente tutelato nella sua integrità, ne determina inevitabilmente una modifica e, quindi, un «pericolo di alterazione», pericolo che, con riferimento alla sua sussistenza, al momento della consumazione dell’abuso, non può ritenersi vanificato da successiva autorizzazione in sanatoria (così Sez. III n. 1401, 31 maggio 2000). Il principio è stato ribadito successivamente con sentenza del 4.2.2014, la cui motivazione non è stata ancora depositata.

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Va richiamata inoltre l'attenzione sul fatto che gli interventi sanzionati non sono soltanto quelli eseguit i in assenza di autorizzazione ma anche quell i posti in essere in difformità dall’autorizzazione rilasciata. Non viene però effettuata alcuna distinzione tra difformità parziale o totale con la conseguenza che, escluse le attività consentite, qualsiasi difformità rispetto all'autorizzazione è idonea a configurare il reato purché abbia un'oggettiva possibilità d'impatto sul paesaggio (così Cass. Sez. III n. 10478, 12 marzo 2007; conf. Sez. III n. 19077, 7 maggio 2009). E' appena il caso di ricordare, infine, che la realizzazione di interventi in zona vincolata può anche concretare la violazione della contravvenzione di cui all'art. 734 cod. pen. qualora ne ricorrano, ovviamente, i presupposti, poiché la natura di reato di danno determina la necessità di una effettiva distruzione o alterazione delle bellezze naturali dei luoghi protetti.

4.3 Il delitto paesaggistico previsto dell'art. 181 d.lgs. 42\2004 All'originaria ipotesi contravvenzionale, come si è già detto, si aggiunge ora il delitto contemplato dal comma 1-bis dell'art. 181 d.lgs. 42\2004 che sanziona, con la reclusione da uno a quattro anni, ogni intervento in assenza o difformità dall’autorizzazione ricadente su immobili od aree che, ai sensi dell'articolo 136, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori ovvero ricadente su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell'articolo 142, quando abbiano comportato un aumento dei manufatti superiore al trenta per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento della medesima superiore a settecentocinquanta metri cubi, ovvero ancora abbiano comportato una nuova costruzione con una volumetria superiore ai mille metri cubi. Ne consegue che, con riferimento ai beni tutelati in base a specifico provvedimento amministrativo, ogni intervento non autorizzato o in difformità configura il delitto, mentre, sulle aree o immobili tutelati in base alla legge, è richiesto l’ulteriore requisito dell’aumento della volumetria preesistente o della creazione di nuovi volumi oltre i limiti indicati. Tenuto conto inoltre che il legislatore, nel prevedere la prima delle due fattispecie, usa l’espressione «realizzazione dei lavori» nell’individuare il termine antecedentemente al quale deve essere emanato il provvedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico, sembra possa affermarsi che il delitto potrà concretarsi anche nel caso in cui detto provvedimento venga emesso dopo l’inizio dei lavori e prima del loro completamento. Sembra poi evidente che, come si è appena detto per le violazioni originariamente contemplate, il reato ha natura formale e di pericolo presunto e può, dunque, configurarsi quando interventi astrattamente idonei ad incidere negativamente sull’assetto del paesaggio siano eseguiti in assenza o in difformità dal titolo abilitativo, indipendentemente da un danno arrecato in concreto, attraverso un giudizio che andrà effettuato mediante quei criteri di valutazione chiaramente indicati da una giurisprudenza di legittimità ormai ultra-decennale. Trattandosi di delitto e nulla disponendosi in merito, l’elemento soggettivo richiesto è il dolo generico (V. Cass. Sez. III n. 48478, 28 dicembre 2011; Sez. III n. 24241, 24 giugno 2010 la dimostrazione della sussistenza del quale non sembra presentare particolari difficoltà.

4.4 La valutazione postuma di compatibilità paesaggistica degli abusi minori Prima dell’entrata in vigore del D.Lv. 42\2004, la possibilità di un parere postumo di compatibilità paesaggistica, avente autonoma efficacia estintiva del reato paesaggistico, è sempre stata esclusa dalla giurisprudenza penale. Con altrettante chiarezza è sempre stata esclusa la possibilità che alle violazioni paesaggistiche, aventi diversa oggettività giuridica, possano applicarsi le disposizioni della disciplina urbanistica sull’accertamento di conformità. La relativa questione di legittimità costituzionale è stata dichiarata manifestamente infondata (Corte Costituzionale n. 46, 6 marzo 2001). Il principio della non sanabilità degli abusi paesaggistici, costantemente affermato, è stato successivamente esplicitato, come si è già detto, dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio

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nell’articolo 146, precedentemente ricordato il quale, tuttavia, stabilisce un'eccezione, riferita all’articolo 167, commi 4 e 5, che riguarda gli abusi paesaggistici minori, rispetto ai quali, pur mantenendosi ferma l’applicazione delle misure amministrative pecuniarie previste dal citato articolo 167, non si applicano le sanzioni penali stabilite per il reato contravvenzionale contemplato dal primo comma dell’articolo 181. Gli interventi suscettibili di “sanatoria” riguardano, come stabilito dal comma 1-ter, i lavori, realizzati in assenza o difformità dall 'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica e lavori configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380. Tali interventi possono, come si è detto, essere definiti «minori» in quanto caratterizzati da un impatto sensibilmente più modesto sull'assetto del territorio vincolato rispetto agli altri considerati nella medesima disposizione di legge. La procedura per il conseguimento della valutazione postuma di compatibilità paesaggistica è disciplinata dal comma 1-quater del menzionato articolo 181, il quale dispone che il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi in questione deve presentare apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo, la quale si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni. Si tratta di indicazioni alquanto sommarie, nulla disponendosi, ad esempio, circa la documentazione da porsi a corredo della richiesta o sulla qualificazione del silenzio eventualmente tenuto dall’amministrazione sulla richiesta stessa ma, anche a fronte di tale laconicità, hanno comunque consentito alla giurisprudenza di legittimità di affermare che la valutazione di compatibilità paesaggistica non ammettere equipollenti e che non può prescindersi dal necessario parere della sovrintendenza che la norma espressamente prevede e qualifica come vincolante (Cass. Sez. III n. 889, 13 gennaio 2012). Nella medesima occasione si è anche precisato non soltanto che il rilascio della valutazione paesaggistica all'esito della menzionata procedura non determina automaticamente la non punibilità in ordine al reato contestato, dovendo essere sempre accertata dal giudice la sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto legittimanti la «sanatoria», ma anche che agli effetti della valutazione di compatibilità paesaggistica la nozione di «superficie utile» di cui al comma 1- ter, lett. a), dell'art. 181, dev'essere individuata prescindendo dai criteri applicabili per la disciplina urbanistica e considerando l'impatto dell'intervento sull'originario assetto paesaggistico del territorio.

4.5 La spontanea demolizione come causa di estinzione del reato paesaggistico

L’autodemolizione dell’immobile abusivo non produce, come è noto, effetti estintivi del reato urbanistico. Una situazione diversa è, invece, riscontrabile relativamente alla spontanea demolizione di alcuni interventi eseguiti in zona soggetta a vincolo paesaggistico. L’articolo 181, comma 1-quinquies del d.lv. 42\04 prevede, infatti, che la rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici, da parte del trasgressore, prima che venga disposta d'ufficio dall'autorità amministrativa e, comunque, prima che intervenga la condanna, estingue il reato di cui al comma 1 del medesimo articolo. Il riferimento è esclusivamente rivolto al reato previsto dal primo comma e non riguarda, pertanto, l’ipotesi delittuosa né, tanto meno, le violazioni urbanistiche eventualmente concorrenti, pur potendo una tale evenienza essere oggetto di valutazione da parte del giudice penale per la determinazione della pena e relativamente alla mancanza di un danno penalmente rilevante o alla buona fede dell’imputato (Cass. Sez. III n. 19317, 17 maggio 2011. Conf. Sez. III n. 25026, 22 giugno 2011) . Altrettanto rigidi appaiono il limite temporale imposto per la demolizione e la formulazione della

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disposizione nel suo complesso da cui si ricava l’ulteriore requisito della necessaria spontaneità dell’autodemolizione che non deve essere, quindi, altrimenti provocata (v. Cass. Sez. III n. 3064, 21 gennaio 2008). Trattandosi, inoltre, di causa estintiva di un reato già perfezionato in tutti i suoi elementi essenziali, il relativo onere probatorio incombe all'imputato (così Cass. Sez. III n. 37271, 1 ottobre 2008).

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4.6 L'ordine di riduzione in pristino Come già stabilito dalla previgente normativa, anche il d.lgs. 42\2004 prevede all'articolo 181, comma 2, che alla sentenza di condanna per il reato in esso contemplato consegua l’ordine di rimessione in pristino dello stato originario dei luoghi a spese del condannato. Copia della sentenza va poi trasmessa alla Regione ed al Comune nel cui territorio è stata commessa la violazione. L’ordine ha natura di misura amministrativa di ripristino che non necessita di motivazione in quanto le ragioni che ne determinano l’applicazione sono desumibili dalla motivazione relativa alla verifica della sussistenza del reato. Tale misura, inoltre, costituisce un atto dovuto per il giudice che deve ordinarla quando non risulti già eseguita. Da ciò consegue l’applicabilità della misura medesima anche nel caso in cui il procedimento penale si sia concluso mediante applicazione di pena sull’accordo delle parti ai sensi dell’articolo 444 cod. proc. pen. Va inoltre ricordato che anche con riferimento alle violazioni paesaggistiche è stata riconosciuta la legittimità della subordinazione del beneficio di cui all'art. 163 cod. pen. alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi, sul presupposto che la presenza su territorio vincolato di una costruzione abusiva costituisca una conseguenza dannosa e pericolosa del reato. La giurisprudenza ha , a tale proposito, espressamente richiamato l'orientamento riguardante la subordinazione della sospensione condizionale alla demolizione dell’abuso edilizio, ritenendolo applicabile, a maggior ragione, anche con riferimento all’ordine di riduzione in pristino. Va inoltre ricordato che la rimessione in pristino, per la sua natura di sanzione amministrativa oggettivamente riparatoria, in quanto volta alla eliminazione della causa della lesione, può essere applicata anche nei confronti di una persona giuridica alla quale appartengano le opere illegittimamente realizzate da chi, all'epoca, ne era legale rappresentante e nei confronti del quale, per detta sua condotta, sia stata pronunciata condanna ovvero sentenza di applicazione della pena su richiesta, ciò in quanto non trovano applicazione i principi in tema di responsabilità personale validi per le sanzioni amministrative aventi carattere punitivo (Cass. Cass. Sez. III n. 3679, 4 febbraio 2000).

 

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