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313 | 2017 Anno 47 nr. 313 seconda serie

som

mar

io3 intervistaSe la strada resta la nostra universitàFare formazione al lavoro sociale, ieri come oggiIntervista a Leopoldo Grosso a cura di Roberto Camarlinghi

13 studiLo scivolamento verso un welfare condizionalePer una diversa rappresentazione di problemi e risorseRemo Siza

23 prospettiveQuale welfare al tempo della sharing economy?Appunti per un confronto su possibilità e criticità dell’economia collaborativaDavide Arcidiacono

32 Inserto del mese Parole chiave per lavorare con i giovani/7Spunti per una pedagogia dell’impegno fra i giovani Giovani al tempo della sharing economyGiovani che fanno il loro futuro dando futuro al loro paeseNon è una scuola quella dove non c’è utopia al lavoroGiovani alla ricerca sperimentale di utopia, qui e oraTesti a cura di Carlo Andorlini, Nicola Basile, Marco Lo Giudice, Andrea Marchesi, Riccardo Nardelli, Maria Ramella

77 metodo Per una didattica attiva e meditativaCome bambini e ragazzi possono acquistare fiducia e autostima in laboratori di manualitàFerdi Giardini

87 strumenti Capacitare il districarsi tra le faticheVerso percorsi di accompagnamento brevi e intensiviLuisa Sironi

96 luoghi&professioni Accogliere giovani vite in fugaQuale lavoro con i minori stranieri non accompagnati?Luca Fossarello, Agnese Calò, Selenia Serafino

105 bazarpunto Dario Fo | discussione L’azione dal basso non basta, si rischia la disintermediazione Anna Monti, Luca Rossetti | diari I sospetti dell’assistente sociale davanti a certi Isee Davide Pizzi | locande Il bistrot che porta avanti l’opera di Murialdo Gaia Girardi

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Direzione e redazioneFranco Floris (direttore responsabile - [email protected]), Ro ber to Camarlinghi (vice direttore - [email protected]), Laura Carletti ([email protected]), Francesco Caligaris ([email protected]), Francesco d’Angella ([email protected]). Segreteria di redazioneGianluca Borio ([email protected]), Daniele Croce ([email protected]).

Comitato di redazioneEleonora Artesio, Paolo Bianchini, Lucia Bianco, Elisabetta Dodi, Michele Gagliardo, Elena Granata, Riccardo Grassi, Andrea Marchesi, Michele Marmo, Roberto Maurizio, Francesca Paini, Norma Perotto, Ennio Ripamonti, Franco Santamaria, Simone Spensieri.

Consulenti Marco Aime (interazioni tra mondi culturali), Roberto Beneduce (psichiatria transculturale), Pier Giulio Branca (processi di partecipazione), Massimo Campedelli (politiche di welfare), Ugo Corino (cura della gruppalità), Mauro Croce (prevenzione delle dipendenze), Duccio Demetrio (educazione degli adulti), Norma De Piccoli (logiche dell’empowerment), Ota de Leonardis (culture e istituzioni delle politiche sociali), Italo De Sandre (professioni sociali), Leopoldo Grosso (pedagogia delle dipendenze), Marco Ingrosso (promozione della salute), Gioacchino Lavanco (sviluppo di comunità), Vanna Iori (pedagogia delle emozioni), Ivo Lizzola (antropologia della cura), Sergio Manghi (epistemologia delle relazioni sociali), Nicola Negri (contrasto della povertà), Franca Olivetti Manoukian (formazione degli operatori), Mario Pollo (animazione culturale), Fulvio Poletti (processi dell’educare), Piergiorgio Reggio (pe-dagogia interculturale), Dario Rei (terzo settore), Claudio Renzetti (auto-organizzazione della cura), Francesca Rigotti (analisi dei processi culturali), Chiara Saraceno (politiche per la famiglia), Paola Scalari (comunità educante), Gabriele Vacis (processi culturali e artistici).

La reteSilvia Brena (Bergamo), Daniele Bruzzone (Piacenza), Elena Buccoliero (Ferrara), Salvatore Cacciola (Catania), Lorenzo Canafoglia (Milano), Ettore Cannavera (Cagliari), Franco Chiarle (Torino), Luigi Colaianni (Milano), Maurizio Colleoni (Bergamo), Barbara D’Avanzo (Milano), Riccardo De Facci (Sesto S. Giovanni), Giuseppe De Robertis (Andria), Stefano De Stefani (Rovigo), Alessandra Di Toma (Bologna), Barbara di Tommaso (Milano), Graziella Favaro (Milano), Max Ferrua (Torino), Osvaldo Filosi (Trento), Alessandro Forneris (Torino), Marina Galati (Lamezia Terme), Claudia Galetto (Pinerolo), Raffaella Goattin (Venezia), Claudio Gramaglia (Padova),, Riccardo Guidi (Lucca), Pierpaolo Inserra (Roma), Giacomo Invernizzi (Bergamo), Giovanni Laino (Napoli), Roberto Latella (Roma), Raffaello Martini (Lucca), Giorgio Macario (Firenze), Gino Mazzoli (Reggio E.), Michele Marangi (Torino), Laura Molteni (Milano), Meme Pandin (Venezia), Paolo Peruzzi (Arezzo), Salvatore Pirozzi (Napoli), Silvio Premoli (Milano), Emiliano Proietto (Firenze), Paola Scarpa (Venezia), Paola Schiavi (Legnago), Chiara Sità (Verona), Giorgio Sordelli (Milano), Nicoletta Spadoni (Reggio E.), Matteo Villa (Pisa), Tommaso Vitale (Milano), Carla Weber (Trento), Boris Zobel (Torino).

Progetto grafico: Avenida grafica e pubblicità (Mo) - Disegni di copertina: Dario Fo Impaginazione: redazione Animazione Sociale - Stampa: Stampatre (To)

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Fondato nel 1971 da Aldo Guglielmo Ellena

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inter vista | s tudi | prospett ive | inser to | metodo | st rument i | luoghi&professioni | bazar

Fare formazione al lavoro sociale, ieri come oggi

Intervista a Leopoldo Grossoa cura diRoberto Camarlinghi

Negli anni ’70 non pochi gruppi e associazioni, sparsi per l’Italia, costruivano le loro esperienze di lavoro sociale, procedendo per tentativi ed errori. Si era nella fase nascente del welfare dei servizi, e i primi operatori volontari e professionali avvertivano forte l’esigenza di formarsi, di mettere a punto ipotesi su un lavoro che era al tempo stesso sociale, politico e culturale. Una di queste esperienze pionieristiche nel campo della formazione fu quella dell’Università della strada del Gruppo Abele. Merita oggi tornare su quella stagione, per rileggere la storia da cui veniamo ma soprattutto per capire come orientare la formazione al lavoro sociale in un mondo molto mutato.

Se la strada resta la nostra università

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Nel fermento degli anni ’70, a segui-to delle conquiste sociali, venivano istituiti i primi servizi di aiuto e cura

(per le tossicodipendenze, la salute menta-le, i consultori, le comunità terapeutiche, ecc.). Nasceva il welfare sociale e insieme l’esigenza dei primi operatori professionali e volontari di formarsi, attrezzarsi, scam-biarsi idee e pratiche. In quella fase istituente del lavoro sociale, il Gruppo Abele, una delle grandi esperienze pionieristiche dell’epoca (fondato nel 1965 da don Luigi Ciotti a Torino), dava vita sulle colline del Monferrato all’Università della strada, una esperienza di formazione rivolta a quanti si impegnavano al fianco di persone che vivevano situazioni di disagio e di sofferenza.Università e strada erano allora, e sono in parte ancora oggi, termini all’apparenza antitetici. Eppure l’esperienza ha dimo-strato che il contatto con la strada – i suoi volti, le sue storie – non solo può insegnare molto, ma è luogo imprescindibile per for-marsi come operatori sociali. In occasione dei 40 anni dell’Università della strada (nel 2018), le Edizioni Gruppo Abele hanno da poco pubblicato un libro, Preparati all’incertezza. Fare formazione in ambito sociale, che riflette sull’attualità di quella proposta. Abbiamo incontrato Leopoldo Grosso, psicologo e psicoterapeuta, curatore del volume (con Angela La Gioia), a lungo coordinatore dell’Università della strada. A lui abbiamo chiesto una riflessione che, prendendo spunto da quella storia, ragioni sulle prospettive del fare formazione oggi.

Quelle settimanedi vita in comuneI primi corsi dell’Università della strada del Gruppo Abele nascono nel lontano

1978, su intuizione di Luigi Ciotti e da una diffusa esigenza di formazione. È così?

L’Università della strada – come le prime agenzie non istituzionali di formazione per operatori sociali – è figlia del grande mo-vimento riformatore degli anni ’60 e ’70 che diede vita ai servizi in Italia. Il lavoro sociale nasce in quell’epoca, insieme al si-stema di welfare. I primi gruppi di operatori sentivano la necessità di riflettere sul loro agire, che era un agire di frontiera. Stiamo facendo bene?, stiamo andando nella direzione giusta?, cos’altro potremmo fare?, erano le domande legate all’operatività concreta, che si innestavano nel timore di tradire la coerenza con i propri valori. Non erano pochi a quel tempo i gruppi e le associazioni che, sparsi per l’Italia, non diversamente dal Gruppo Abele, avevano costruito le loro esperienze, procedendo inevitabilmente per tentativi ed errori.

Erano corsi residenziali, in una dimensio-ne comunitaria...

Sì, per tre settimane consecutive i parte-cipanti vivevano a stretto contatto e con la completa autogestione dei servizi di vitto-alloggio e lavanderia. La formazio-ne si svolgeva presso la comunità agri-cola di Murisengo, su un cucuzzolo del Monferrato, all’incrocio tra le province di Asti, Alessandria e Torino. Chi aveva un lavoro si giocava le ferie, gli studenti uni-versitari almeno la metà delle vacanze. Si faceva cassa comune per le spese alimentari. L’impegno di ogni giornata formativa richie-deva sei ore di lavoro intellettuale e due di lavoro manuale. L’esperienza voleva essere di quelle che lasciano il segno. La proposta di «ingaggio», molto esigente, oggi sarebbe improponibile e non più replicabile.

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L’impegno richiesto, oltre alla riflessione intellettuale e alle implicazioni di lavoro domestico e agricolo, esigeva soprattutto il mettersi in gioco sul piano personale e rela-zionale. Non più di 25 persone per corso, si privilegiava il lavoro in piccoli gruppi di 7-8 persone, disposte a cerchio, dove tutti erano invitati a dire la loro, per poi cercare, «strada facendo» nel percorso formativo reciproco, delle sintesi condivise.

Un’idea che anticipavail futuro tirocinioLa formula era quella del laboratorio di ricerca...

Sì, una ricerca che intendeva andare in profondità. All’analisi sociologica delle problematiche – che erano quelle pro-prie dell’impegno quotidiano del Gruppo Abele: tossicodipendenza, delinquenza minorile, prostituzione, emarginazione e disadattamento… – si affiancava lo sguar-do psicologico, introspettivo, che metteva in discussione la persona dell’operatore allora volontario o in procinto di essere assunto nei nascenti servizi per le tossico-dipendenze. L’operatore veniva sollecitato a fare emer-gere le proprie rappresentazioni mentali del fenomeno; ci si confrontava sulle emo-zioni vissute nei momenti di condivisione e affiancamento con chi, nella cascina agricola, era venuto per mettersi al riparo dai rischi di dipendenza, per capire alcuni perché della sua vita, nel tentativo di ri-prendere in mano il proprio futuro. L’idea anticipava quella che poi sarebbe di-ventata, a livello di formazione istituziona-le, l’esperienza di tirocinio: un contatto di-retto con le problematiche, una «messa alla prova» delle proprie modalità di relazione rispetto ad alcune situazioni da gestire.

C’erano, di base, l’intuizione e la fiducia che il contatto con la strada potesse in-segnare qualcosa, che confrontarsi con il vissuto di chi aveva fruito degli interventi permettesse di verificarne la validità: nella consapevolezza che nessuno potesse propi-nare ricette, ma solo mettere a disposizione esperienze da cui attingere.

Università della strada perché si ritene-va la strada, con i suoi volti e le sue sto-rie, «maestra»?

Certo. La presenza dei ragazzi «col pro-blema» era indispensabile, perché il con-fronto con chi aveva vissuto in prima per-sona l’esperienza della tossicodipendenza e dell’emarginazione era ineludibile. Si voleva ridurre il gap tra teoria e pratica, mettere a confronto un sapere libresco con l’esperienza quotidiana. Si tentava anche di dimostrare che non esisteva un «maestro della società», in grado di indicare come risolvere i pro-blemi, ma un insieme di persone e grup-pi che, collaborando fin dall’analisi dei fenomeni, contribuivano a scioglierne i molteplici nodi.Il contributo di «sapere» di cui erano por-tatori i ragazzi problematici, i «portatori

La formazione si

svolgeva in una comunità agricola

del Monferrato. Chi

aveva un lavoro si

giocava le ferie, si faceva cassa comune, la proposta

di ingaggio era esigente e oggi non

più replicabile.

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del problema» – espressione che verrà poi sostituita con quella di «esperti per espe-rienza» – costituiva un aspetto indispen-sabile del percorso di apprendimento ed era parte fondamentale della «formula» dei corsi dell’Università della strada. Le loro conoscenze, desunte dalla vita, «scritte sulla loro pelle», costituivano un apporto imprescindibile e decretavano un tavolo orizzontale, pienamente paritetico, del setting della formazione. Formalmente era azzerata ogni asimme-tria tra i partecipanti al corso, e si sigillava un’alleanza di lavoro che prescindeva da qualsiasi aspetto terapeutico, prefiguran-do una collaborazione volta a individuare i tentativi di soluzione più praticabili.

Formare le coscienze,si diceva all’epocaL’obiettivo della formazione era anche politico-culturale?

L’obiettivo consisteva nell’arrivare a essere co-protagonisti, insieme, di un confronto che desse linfa alla formulazione di pro-getti da avanzare alle Amministrazioni, con proposte che chiamassero in causa le responsabilità istituzionali, nella necessità di un loro maggiore coinvolgimento. Era appena stata approvata la prima vera legge riabilitativa degli stati di tossicodi-pendenza, la 685 del 1975, con l’istituzione di servizi appositi, sull’onda delle grandi riforme sociali degli anni ’70, che bene-ficiavano dello svecchiamento culturale prodotto dal movimento del ’68. Rimaneva viva una critica pratica all’Accademia, agli istituti di ricerca universitaria, ancora te-nacemente ancorati a vecchi paradigmi, resistenti ad aprirsi alla realtà delle pro-blematiche emergenti. L’obiettivo era politico ma anche culturale: scuotere l’indifferenza sociale, sfatare i luo-ghi comuni, debellare pregiudizi e stereoti-pi, contrastare l’ignoranza imperante sulla

Un incontro dell’Università della Strada nel 1981 a Cascina Abele, Murisengo (Al).

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droga, battere il tabu del silenzio, finirla con la politica dello struzzo, far emergere il binomio disadattamento/droga.All’epoca era chiaro che l’impegno sociale richiedeva un equivalente sforzo cultura-le, un ingaggio per la «formazione delle coscienze», come si usava dire. Alla capa-cità di dialogare con le persone escluse ed emarginate, si aggiungeva la necessità di far capire le buone ragioni dell’impegno anche a chi era estraneo a tali problema-tiche, spesso preda di rappresentazioni sociali semplicistiche e fuorvianti.

Chi veniva ai corsi?

I destinatari erano in primo luogo la gio-ventù impegnata di allora, come si usava dire. Più in generale la proposta formativa era rivolta a tutti coloro che volevano ap-profondire seriamente alcuni nodi del la-voro sociale, ritenendo inefficaci e contro-producenti le risposte esistenti. Esigenza sentita anche dai nuovi operatori, che di fronte all’urgenza dell’apertura dei servi-zi previsti dalle leggi sociali per cui si era tanto lottato si dichiaravano ancora non attrezzati per il loro compito. Erano i primi operatori professionali sulle problemati-che della tossicodipendenza, dei portatori d’handicap inseriti nelle scuole dell’ob-bligo, della territorialità in psichiatria, dei consultori materno-infantili... A fronte di un’informazione scientifico-teorica da cui non si deducevano chiari orientamenti e di un’insufficienza degli strumenti offerti da formazioni tradizio-nali, veniva molto apprezzato l’apprendi-mento che poteva emergere dal confronto con l’esperienza, dall’insegnamento che si traeva dagli errori commessi, dai limiti delle soluzioni insoddisfacenti e inadegua-te adottate in ormai più di dieci anni di lavoro.

Il sapere dell’operatoreallo stato nascenteSi era allo stato nascente del sapere, forte era l’atteggiamento di ricerca...

Possiamo dire che apprendere dall’espe-rienza sia la formula che raccoglie tutto il senso della storia di allora: far parlare e socializzare le buone prassi, filtrare la verifica della loro applicazione nei diffe-renti contesti. Si trattava di valorizzare il sapere diffuso del lavoro quotidiano, passarlo e filtrarlo al vaglio critico del confronto tra le diverse esperienze, rendendolo sapere consolidato e trasmissibile. E poi ancora: continuare a praticare il confronto permanente, man-tenere la presenza, al tavolo della rifles-sione e dell’elaborazione, degli «esperti per esperienza», che nella maturazione degli sviluppi successivi diventeranno operatori-pari.L’obiettivo era accrescere l’auto-riflessività dei partecipanti e la riflessione comune. La metodologia di lavoro faceva del dubbio la spinta propulsiva dell’impegno, contro ogni dogmatismo e ricetta semplificatrice che creasse false illusioni di scorciatoie per risolvere problemi complessi. L’atteggiamento di ricerca era anche ricer-ca dei metodi di insegnamento e appren-dimento in grado di favorire il confronto. Il rifiuto di soluzioni precostituite, e del ruolo di chi si prende il compito di fornir-le, comportava la sperimentazione di un modello di scuola che, a partire dall’au-togestione, contemplava già in sé un coin-volgimento al lavoro di gruppo ed evocava la capacità fondamentale che tale lavoro richiede: sapersi mettere in discussione, esporsi alla critica, sperimentare su di sé il cambiamento e il superamento degli ostacoli insiti, perché «ogni cambiamento

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sociale inizia dal cambiamento personale». L’esperienza di fare comunità di appren-dimento in una comunità agricola rivolta all’aiuto di ragazzi tossicodipendenti, con una full immersion di 24 ore su 24, anche se «solo» per tre settimane, metteva ab-bondantemente a nudo l’intera persona. Operazione necessaria proprio perché par-tiva dall’assunto che è la propria soggettivi-tà lo strumento principale per operare nel sociale tramite la costruzione di relazioni.

Formarsi al lavoro sociale implicava poi imparare ad allargare la visuale dall’indi-viduo al contesto...

Sì, c’era la consapevolezza che il lavoro sociale non può fermarsi e limitarsi solo all’accogliere. Si rendeva necessario affian-care, al lavoro con chi sta male, l’appro-fondimento e l’elaborazione culturale delle problematiche di chi è sofferente, allargan-do la visuale dall’individuo al contesto. Fu questa l’esigenza iniziale da cui originò l’Università della strada, che nasceva pro-prio dall’ascolto e dall’analisi della vita di strada, dalla constatazione di quanti con-dizionamenti ambientali interferiscano con tante biografie di persone dipendenti.Non solo accogliere, non solo studiare le problematiche, non solo elaborare proget-ti: bisogna anche immergersi nel conflitto politico, per fare approvare le proposte maturate dalla riflessione comune.

Quarant’anni dopo, tra crisi e sfideSono passati quarant’anni, in cosa con-siste, nell’attualità dell’oggi, il compito di un’attività di formazione che nasce e si radica nelle esperienze di accoglienza e di accompagnamento delle persone in difficoltà?

I bisogni degli operatori oggi sono molto variegati: alcuni reclamano di compren-dere come muoversi nelle complicazioni del mondo reale; altri mostrano difficol-tà a uscire da schemi di interventi la cui funzione è soprattutto «difensiva» per sé, perché mette al riparo dal coinvolgimento e dall’esposizione all’utenza, non contri-buendo né a evolvere le situazioni delle persone né a promuoverne i diritti. Il vasto mondo degli operatori sociali che giungono in formazione è oggi impregnato di tante differenze. Operatori impegnati e disimpegnati, équipe di lavoro che si sono scelte e altre casuali, contratti di lavoro differenti pur nello svolgimento di ruoli sovrapponibili, stress lavorativo, limitatis-simo ricambio generazionale… Tuttavia c’è un denominatore comune: tutti i servizi sociali e socio-sanitari, indistintamente, ri-sentono della crisi economica e culturale, e anche morale, dell’ultimo decennio. La crisi economica, tuttora in corso, ha generato una pressione al risparmio sulla spesa pubblica. I tagli dei trasferimenti dei contributi dallo Stato agli Enti locali hanno determinato una drastica riduzio-ne dei margini di intervento per Comuni e Asl nel garantire i precedenti livelli dei servizi alla persona. E agli operatori dei servizi pubblici e delle organizzazioni non profit sono di fatto delegate molte delle prestazioni del sistema del welfare socio-assistenziale e sanitario. Un sistema che oggi vive la criticità del passaggio tra ciò che si è realizzato e permane del welfare state e la prefigurazione di un nuovo asset-to di welfare che i più audaci e ottimisti tra noi definiscono «generativo». Tra l’altro anche gli spazi per la formazio-ne e la supervisione si sono drasticamente compressi nelle organizzazioni. Per una questione economica, ma anche culturale: si è fatta strada l’idea individualistica che in

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realtà la formazione professionale ognuno se la debba impartire da sé. È inevitabile che, in questo clima, quando si ascoltano gli operatori in formazione, se ne raccolgano i cocci...

I diritti, vaso di cocciotra due vasi di ferroÈ paradossale che in una società dove aumentano i bisogni sociali si taglino le risorse dedicate al lavoro sociale e alla sua formazione.

Il fatto è che la cultura dei diritti, e dei diritti sociali in particolare, pare oggi un vaso di coccio tra due vasi ferro. Il neo-darwinismo sociale da una parte, frutto di una spinta liberistica che nella ricerca della massimizzazione dei profitti ha perso di vista la centralità delle persone e della loro dignità, propone la selezione sociale degli individui come selezione na-turale: chi è povero non si è meritato la ricchezza; la responsabilità è individuale: la persona ha giocato male le sue carte; né gli altri, né le istituzioni hanno alcun obbligo morale, tantomeno giuridico, di aiutarla. Dall’altra parte, come correttivo e com-pensazione, ha guadagnato strada un wel-fare soccorritore, dal volto caritatevole e compassionevole, che viene incontro ad alcune delle vittime, meno immeritevoli e più sfortunate, rimaste intrappolate nell’in-granaggio delle dinamiche sociali, vittime parziali di circostanze avverse a cui non hanno saputo opporsi a sufficienza. Nel mezzo, tra le due voci più grosse, ri-mane schiacciata, indebolita e più fievole, rischiando un naufragio di consensi e di coscienze, la voce dei diritti e dei diritti sociali in particolare. È in questo quadro che si colloca la pro-

posta di una riflessione sul fare formazione oggi, nella consapevolezza che il cambia-mento è sia individuale che collettivo, che il singolo e la società non possono prescinde-re l’uno dall’altra. Nel cambiamento ven-gono chiamati in causa sia i professionisti che le forze sociali.

Il ruolo di cernieradegli operatori socialiSu che cosa deve puntare oggi la for-mazione degli operatori professionali dei servizi pubblici e del non profit, a cui di fatto – come dicevi - sono delegate mol-te prestazioni del welfare?

La preparazione e la formazione degli operatori sociali professionali assumono rilevanza per il ruolo di cerniera per nulla secondario che questi ricoprono all’interno dell’intero corpo sociale, pur con le poche risorse oggi a disposizione. Cerniera tra esclusi e inclusi, tra diritti all’inclusione degli uni e diritti alla sicu-rezza degli altri. Due diritti che non sono da pensare in antitesi perché prendendosi cura delle persone marginali vengono sti-molati sia processi di ri-appartenenza e re-integrazione sociale sia processi di control-

La cultura dei diritti pare oggi un

vaso di coccio tra

due vasi di ferro:

il neo-darwinismo

sociale da una parte e un welfare

compassionevole

dall’altra. In questo

quadro si colloca il

fare formazione oggi.

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lo sociale leggero, che sono tutt’altra cosa dalla mera repressione. Ogni formazione che si rispetti punta molto sul valorizzare questo ruolo che gli operatori svolgono, tutti i giorni, nelle loro pratiche anche routinarie, direttamente a vantaggio delle persone in difficoltà e indi-rettamente a favore di tutta la cittadinanza, contro i rischi di cadute e imbarbarimenti della vita sociale. È noto quanto poco questi aspetti siano tenuti in debita considerazione da parte della pubblica opinione, dei mass media e della politica; tant’è che molte organiz-zazioni del privato sociale si stanno chie-dendo quanto sia stato trascurato un inve-stimento in immagine, di tipo informativo e comunicativo, sulla rilevanza sociale del lavoro svolto.Forse con un po’ di presunzione e di orgo-glio si pensava che le buone ragioni della tanta fatica condotta parlassero da sole. Si è sottovalutato quanto i bassi livelli di retri-buzione (in non poche situazioni ai confini con i working poors) fossero lo specchio della scarsa reputazione sociale in cui era riflesso il proprio impegno professionale. La stessa rappresentazione mediatica delle questioni sociali, privilegiando unicamente le notizie di cronaca nera, sancisce indi-rettamente il fallimento degli interventi di aiuto. Così, l’empowerment degli operatori, la valorizzazione della loro professionalità, la restituzione di un orgoglio per il loro impe-gno cercano di porre argini a smarrimenti, depressioni e crisi identitarie. Va però detto che si ha maggiore successo in questo compito solo se i formatori sono anche in grado di suggerire, contestualmen-te, una concretezza di obiettivi accompa-gnata da una metodologia di lavoro idonea ed efficace.

Il rilancio di un lavoro sul territorioCome aiutare gli operatori a uscire dall’angolo?

È ormai idea condivisa che il baricentro del lavoro sociale debba spostarsi in direzio-ne della comunità territoriale, trovando le connessioni, la convergenza di interessi co-muni, nuovi stimoli e nuovi apporti, nella ricerca di una collaborazione con la cit-tadinanza più attiva e solidale. Altrimenti ogni altra direzione di impegno rischierà di morire di asfissia, con sempre minori ri-sorse a disposizione che rendono monchi i tentativi riabilitativi e insufficienti gli stessi interventi tampone, incrementando la rab-bia e la disperazione della stessa utenza a cui si vorrebbe andare incontro. Il rilancio di un investimento sul lavoro di territorio consente di trovare nuove oppor-tunità e di evitare che le stesse comunità siano risucchiate dal rancore che alimenta le «guerre tra poveri», producendo esclu-sione invece che accoglienza. Anche oggi, come negli anni ’70, non mancano «cittadini responsabili». Sono una minoranza in genere esigua ma mai trascurabile della popolazione, ben inte-grata e propositiva, spesso in sintonia con le varie iniziative sociali e culturali a difesa degli esclusi e su temi controversi che ven-gono intraprese nei territori. Neanche la loro domanda di formazione può essere elusa. Costituiscono il patrimo-nio e il fermento sociale di un territorio; la loro presenza, il loro darsi da fare sono la testimonianza e la pratica spontanea dei valori di inclusione, solidarietà e coopera-zione. Costituiscono gli «alleati naturali» degli operatori dei servizi, indispensabili in un lavoro di rete che non si esaurisce nella gestione del singolo «caso», ma che inten-

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de ragionare sul perché si originano così tanti singoli casi, affrontando le tematiche anche a livello sociale e culturale.Il processo formativo delle minoranze attive che agiscono a livello sociale nel territorio si realizza spesso col lavorare insieme, nel confronto sulle iniziative, nel fornire, so-prattutto, competenze di metodo. Diciamo anche che il lavoro sociale, aprendosi a maggiori contatti e interazioni con la so-cietà civile, è destinato oggi ad acquisire una più spiccata collocazione politica.

Il formatorenon è neutraleQuali sono oggi le bussole di chi fa for-mazione al lavoro sociale?

Oggi la figura del formatore non può con-figurarsi come neutrale. Per quanto la sua funzione tenti di tenere assieme, nel micro-cosmo dei partecipanti alla formazione, in un dialogo che si vorrebbe permanente, tutte le parti e tutti i punti di vista, egli è inevitabilmente schierato. Pur nelle tante mediazioni a cui è chiamato, pur nello scontato rispetto di tutte le posizioni, anche quelle a lui più avverse, il formatore compie comunque una scelta di campo: sta dalla parte dei più deboli, dei bisogni dei meno rappresentati, ne promuove i diritti e ne favorisce la progressiva assunzione di responsabilità, contribuisce a svelare le mo-dalità con cui si manifestano ingiustizie e oppressione. È su questi valori che si fonda il suo fare formativo, inclusivo e partecipa-to, che non divide e che non esclude. La formazione, oggi come un tempo, ha il compito di abbattere i luoghi comuni e di andare a fondo nell’analisi delle proble-matiche. Mai come oggi è opportuno un investimento riflessivo. Incontrarsi per ca-pire, approfondire e imparare costituisce

un’occasione preziosa. Per questo formare è anche predisporre, gestire, aver cura degli spazi e dei tempi in cui le persone si riuni-scono per confrontarsi e aggiornarsi. Non bisogna mai dimenticare che riflettere è un comportamento esplorativo e come tale, per potersi esprimere, ha bisogno di una «base sicura». La base sicura è il buon clima formativo che si riesce a creare.

Aiutarea pensareIn effetti si incontra oggi nei gruppi di la-voro una fatica di pensare, di ascoltarsi, di confrontarsi. Si tende subito a propor-re la soluzione, a rimanere attaccati alla propria «verità». Interessante questa tua osservazione: riflettere è un comporta-mento esplorativo, come tale generato-re di ansie.

Se la conoscenza rimane lo strumento principale di ogni cambiamento, bisogna tenere a mente che tutto il percorso della conoscenza è marcato da profonde emo-zioni che lo sostengono, che motivano l’apprendimento, ma che possono anche intralciarlo e ostacolarlo. Ognuno di noi, ripercorrendo il proprio passato di allie-vo, ricorda bene quanto la relazione con i propri insegnanti possa essere stata di sti-molo o viceversa una difficoltà aggiuntiva nell’affrontare la materia di studio. La qualità delle relazioni che il formatore instaura tra sé e i partecipanti, e riesce a far vivere tra i partecipanti stessi, assume quindi una rilevanza che non è secondaria alla competenza sui contenuti proposti. La relazione è sempre emozione. L’intero processo di apprendimento è percorso dal coinvolgimento del proprio sé ed è influen-zato dalle relazioni in cui è immerso. Non a caso la disposizione a cerchio dei parte-

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cipanti costituisce il punto di partenza sim-bolico del percorso formativo. Non ci sono prime e ultime file, tutti si è esposti nella stessa misura, più scoperti ma al contempo anche invitati a mettersi in gioco personal-mente, ci si guarda tutti negli occhi, con un richiamo forte all’imprinting dei gruppi di auto-mutuo aiuto.

Aiutare a reggere l’incertezzaCi sono altri aspetti che pongono la for-mazione di oggi in continuità con quella di ieri?

Fare formazione in ambito sociale, oggi come ieri, significa mantenere viva la curio-sità della ricerca, non necessariamente con la R maiuscola, ma come «volontà di sape-re» che si può esercitare in ogni ambito e con una diversità disparata di strumenti: la ricerca «grigia» che sistematizza, comuni-ca e trae considerazioni dalle conoscenze del proprio ambito di servizio; la ricerca-azione che coinvolge le risorse territoriali; il confronto costante con le evidenze e le innovazioni della letteratura di settore; gli approfondimenti sul «caso» e sui suoi inse-gnamenti; la periodica ricognizione tramite l’organizzazione di focus groups per mette-re a confronto saperi diversi e integrare le conoscenze.Fare formazione in ambito sociale, oggi forse più di ieri, significa aiutare a colloca-re le conoscenze settoriali, parziali e locali all’interno di una cognizione più globale dei problemi. Da questo punto di vista non aiuta la frantumazione delle conoscenze in campi specialistici che comunicano anco-ra poco tra loro. Si rischia di non riuscire a restituire la complessità unitaria di una condizione umana che è al tempo stesso fisica, biologica, psichica, culturale, sociale

e storica. Né aiuta il bisogno di sicurezze e rassicurazioni che gli operatori spesso por-tano nei contesti formativi: chi lavora nel sociale deve essere consapevole che la ri-sposta alla domanda di cosa sia giusto fare in una certa situazione è sempre l’esito di un sapere che si costruisce nella situazione stessa, insieme alle persone portatrici del problema e ai colleghi. E che quello che si fa nel sociale non è mai edificato in modo stabile, non dura nel tempo.

Ieri come oggi,saper essere strabiciFare formazione in ambito sociale, infine, è sempre alzare il livello della sfida per l’o-peratore sociale: dal «caso» al «contesto». La consapevolezza di quanto le vicende individuali siano collegate con le vicende collettive, di quanto la sfera di molte vite private sia condizionata dalle scelte di am-bito pubblico, e di quanto alcune decisioni o indecisioni politiche incidano negativa-mente sull’esistenza di tutti, è il passaggio che alza il livello della sfida per l’opera-tore sociale: non solo la «risoluzione» del «caso», ma il cambiamento socio-culturale del contesto complessivo. Oggi come ieri lo strabismo che viene richiesto all’impegno sociale consiste nello slittare avanti e indietro su tre piani: dall’attenzione alla centralità della perso-na, al lavoro di rete e di valorizzazione dei contesti e delle comunità di appartenenza, alla denuncia e alla proposta politica.

Leopoldo Grosso è psicologo e psicoterapeu-ta, a lungo coordinatore dell’Università della strada, presidente onorario del Gruppo Abele: [email protected]

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in ter v ista | studi | prospett ive | inser to | metodo | st rument i | luoghi&professioni | bazar

Per una diversarappresentazionedi problemi e risorse

diRemo Siza

Il welfare italiano presenta oggi priorità e obiettivi sempre più lontani dalle preoccupazioni di una parte significativa delle famiglie. Questo crescente divario, tuttavia, non è semplicemente dovuto alla crisi finanziaria ed economica, che ha ridotto le risorse e la capacità operativa soprattutto dei servizi sanitari e sociali, ma a una nuova fase evolutiva dei welfare europei. Una fase variegata e problematica che prevede una riduzione degli ambiti di intervento, un aumento consistente delle condizioni di accesso alle prestazioni e ai servizi, per i soggetti beneficiari, nuovi equilibri tra risorse pubbliche e risorse private.

Lo scivolamentoverso un welfare condizionale

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Le politiche di welfare sono tradizio-nalmente finalizzate a proteggere le persone dai rischi sociali della società

industriale (prima modernità), come la di-soccupazione, la malattia, la vecchiaia, la disabilità, e dai nuovi rischi delle società della seconda modernità quali la precarie-tà, la non autosufficienza, la fragilità delle reti primarie, le difficoltà crescenti che le persone incontrano nel conciliare la vita lavorativa con la vita familiare. Allo stesso tempo, le politiche di welfare intendono operare anche in un secondo versante, con una logica di investimento so-ciale che sposta l’asse delle politiche sociali dal presente al futuro (Morel et al., 2012), con politiche di attivazione finalizzate alla crescita delle persone e delle famiglie, della loro capacità di creare relazioni di benes-sere e di cura, alla prevenzione dei rischi connessi ai cambiamenti occupazionali, all’acquisizione di capacità di lavorare in-sieme per scopi comuni, di associarsi e di partecipare alle scelte collettive. Per quanto riguarda il primo obiettivo le assenze sono numerose: troppi rischi so-ciali accompagnano le scelte individuali di vita che riguardano il lavoro, il reddito, la malattia, la maternità e in questo ultimo decennio molte tutele di welfare si sono ulteriormente indebolite. Sul versante dei processi di attivazione e di investimento so-ciale, l’arretramento è per certi versi ancora più significativo: la capacità delle politiche di welfare di operare nelle comunità, valo-rizzare le competenze delle persone, inve-stire sull’infanzia e su politiche familiari, creare nuove forme associative.

Verso un modello unico di welfare in Europa Il riferimento del welfare italiano è diven-tato il modello adottato da molte nazioni

europee in cui il sistema pubblico convive con un sistema privato molto dinamico e finanziato prevalentemente da fondi sani-tari, fondi pensionistici, welfare aziendale: un modello che rafforza il ruolo dei sogget-ti privati, che tuttavia storicamente hanno avuto in Italia un ruolo marginale.I welfare europei stanno andando in questa direzione attenuando sensibilmente le dif-ferenze tra i vari sistemi nazionali. Ciò che sta emergendo in Europa, sostanzialmen-te, è una sorta di modello unico di welfare, una configurazione che possiamo definire «ibrida» o «mista» che combina, in ter-mini ritenuti finanziariamente più soste-nibili, modalità d’intervento storicamente privilegiate dai sistemi di welfare liberale con modalità dei sistemi di welfare social-democratico, limitate risorse pubbliche e crescenti risorse private. Le risposte ai nuovi rischi sociali sono cercate nel proporre nuove soluzioni eco-nomiche di mercato o nuovi interventi pubblici, rimanendo comunque sempre all’interno di una logica di opposizione e combinazione fra queste forze e senza superare i limiti strutturali che le caratte-rizzano: quando lo Stato non è in grado di avviare un programma, si ricorre al mer-cato, quando il mercato fallisce si ricorre allo Stato. Tutto quello che è al di fuori di questa combinazione è insignificante (Bonoli, Natali, 2012; Donati, 2011). Un welfare sempre meno socialeI comportamenti dei beneficiari diventano decisivi nell’erogazione delle prestazioni e nella costruzione dei loro diritti. Il welfare diventa sempre meno sociale: le attenzioni, le sensibilità sociali che per decenni l’han-no contraddistinto diventano marginali, troppo lente rispetto al crescente dina-mismo delle attuali società, oppure non

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conformi a regole procedurali, comunque superate dai nuovi modi di intendere le re-lazioni fra le persone. L’ambito del lavoro sociale perde specifi-cità e diventa un’area di intervento come tante altre, orientato da tempi e principi dell’economico, dell’organizzazione am-ministrativa, dalle esigenze ineludibili della competizione e del mercato del lavoro.

La distinzione tra poveri meritevoli e riprovevoliIl welfare emergente riattualizza distinzioni che operatori e cittadini avevano reso ob-solete, quella tra poveri ritenuti meritevoli (deserving poor), vittime incolpevoli di cir-costanze e di crisi di carattere collettivo; e poveri i cui valori e comportamenti moral-mente riprovevoli (undeserving poor) sono ritenuti la causa primaria del loro stato. Su questa base si differenzia la qualità delle prestazioni di welfare e si valuta il senso degli interventi e degli operatori sociali che li erogano. Il neoliberismo orienta, per molti aspetti, le possibili scelte e i valori sociali: ora non è più soltanto una conce-zione politica ed economica da condividere o a cui contrapporsi, ma è diventato una parte non secondaria del senso comune, del modo di osservare e di valutare le azioni e i comportamenti degli altri, delle persone in difficoltà.

La riduzione del welfare a welfare condizionaleUn welfare fondato su risorse di mercato e su risorse pubbliche e procedure am-ministrative riconfigura le sue modalità d’intervento. Il sistema di welfare che si sta consolidando in Europa tende a non riconoscere la rilevanza di risorse e relazio-ni di cura che si sviluppano nella famiglia, con minor frequenza promuove azioni per

valorizzare le relazioni informali. Per rispondere a una crescente domanda di servizi e prestazioni in un’epoca in cui le risorse pubbliche diminuiscono, la solu-zione diventa un utilizzo massiccio di risorse private. Le relazioni intersoggettive non si ritiene che possano integrare, modificare le combinazioni tra Stato e mercato, ciò che accade in questa sfera di vita è sostanzial-mente irrilevante per l’organizzazione dei servizi di welfare: si dà per scontato che la famiglia e le relazioni di aiuto informali si stiano indebolendo e che nulla possa essere fatto per invertire questa deriva. Si ragiona con una logica sostitutiva: nuovi modi di creare sostegno reciproco, di so-cialità, le innovative forme di domiciliarità e di abitare leggero che si stanno rapida-mente diffondendo, non sono riconosciute nella loro rilevanza, non si avviano azioni per valorizzarle e sostenerle, ma per sosti-tuirle con più consistenti e stabili risorse di mercato.

Il nuovo quadro di riferimento delle politiche socialiIl risultato complessivo di queste concezio-ni del welfare è il rafforzamento di alcuni principi, modi di intendere, valori, che chi opera nel sociale contrasta e stenta a riconoscere come propri, ma che nel loro insieme rischiano di diventare il nuovo quadro di riferimento delle politiche so-ciali. Un quadro di riferimento che è fon-dato sostanzialmente su quattro direzioni di sviluppo:• è necessario promuovere estese politiche di retrenchment che prevedono, oltre che sensibili riduzioni delle risorse, un ridimen-sionamento complessivo del welfare, una riduzione degli ambiti d’intervento e dei soggetti beneficiari; costruire un welfare pubblico molto più selettivo con una con-sistente integrazione prodotta da servizi

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privati (fondi assicurativi sanitari, pensioni complementari, welfare aziendale);• la dualizzazione del welfare è inevitabile, la maggioranza delle famiglie comunque continueranno ad accedere a un sistema pubblico ancora universalistico, anche se la qualità delle prestazioni sarà sempre meno soddisfacente; le famiglie con redditi e con-dizioni lavorative soddisfacenti potranno, invece, accedere agevolmente a un sistema pubblico-privato sempre più integrato e complessivamente efficiente;• le prestazioni di welfare devono essere differenziate in relazione ai comportamenti delle persone, distinguendo le persone alle quali possono essere destinati interventi attivi e qualificanti perché si ritiene pos-sano essere reintegrate nel tessuto sociale e persone che, invece, si ritiene siano ben lontane da queste condizioni e la cui ge-stione può essere affidata a interventi di controllo più che di recupero;• è necessario semplificare e standardizzare le procedure e le modalità di intervento, i tempi degli interventi di aiuto e la com-plessità delle mediazioni professionali, privilegiando modalità più dirette come l’erogazione monetaria, le sanzioni dei comportamenti non ritenuti ammissibili, l’inserimento lavorativo.

Le forti ambiguità di un welfare condizionaleNelle strategie emergenti nei welfare euro-pei, il welfare attivo si trasforma in un wel-fare condizionale in cui le relazioni di cura perdono rilevanza e prevalgono politiche di controllo nelle prestazioni di welfare, l’accesso ai servizi dipende dal comporta-mento responsabile del beneficiario. I be-neficiari che non si comportano in modo responsabile (hanno comportamenti mo-ralmente riprovevoli, non rispettano le prescrizioni, non si impegnano a cercare

un lavoro, non accettano il lavoro offerto, non frequentano corsi di aggiornamento) subiscono la riduzione o la sospensione dei benefici previsti (Harrison, Sanders, 2014; vedi anche il sito www.welfareconditiona-lity.ac.uk). I beneficiari di prestazioni di welfare (dalle persone che abitano case popolari ai senza dimora) sono soggetti al rispetto di nume-rose condizioni, in termini di stringenti requisiti di accesso (reddito, condizioni occupazionali, disabilità), ma soprattutto devono assumere determinati comporta-menti, in caso contrario si procede alla revoca parziale o totale del beneficio. Chi opera nel sociale esprime preoccupazio-ne nei confronti del destino di coloro che perdono il lavoro e perdono, a causa di sanzioni, anche i benefici di welfare. Ma adottare questo modello di intervento è di-ventata una prassi scontata e indipendente dalla collocazione politica dei governi in carica, come se ci fossero delle consisten-ti e indiscutibili evidenze scientifiche che supportano queste scelte. In Italia, le disposizioni del decreto isti-tutivo del Reddito di inclusione (Rei) in-troducono una condizionalità significativa, prevedono sanzioni molto severe, sospen-sioni e decadenze dai benefici previsti per chi non rispetta accordi e prescrizioni.

Il rischio di distacco dalle relazioni di curaEppure molte ricerche empiriche hanno evidenziato che questo sistema di sanzioni rischia di promuovere, piuttosto che la cre-scita delle persone, distacchi e allontana-menti dalle relazioni di cura delle persone che presentano maggiori difficoltà e che persistono nell’assumere comportamenti riprovevoli. La scarsità delle risorse de-stinate al finanziamento del Rei produce effetti sulle relazioni sociali non secondari:

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sono stati introdotti requisiti di accesso e priorità nella scelta dei beneficiari che non rappresentano indiscutibilmente condizio-ni di maggiore deprivazione, rischiando in questo modo di creare competizioni tra gruppi sociali che vivono condizioni simili e che temono scelte discrezionali, conflitti tra le persone che hanno paura di essere escluse dal lavoro e anche dagli interventi di sostegno economico. In un welfare che marginalizza la qualità sociale delle relazioni di aiuto, i progetti personalizzati di attivazione previsti dal Rei rischiano di subire un’attuazione molto riduttiva, una loro riduzione a beneficio economico accompagnato da progetti personalizzati molto deboli, sbrigativi, che prevedono sanzioni più che articolate relazioni di sostegno. Il timore è che emerga una sorta di acca-nimento selettivo, un’applicazione severa e punitiva delle norme e dei criteri di ac-cesso alle prestazioni sociali che esclude le persone non affidabili né come lavoratori né come cittadini, mentre le persone con maggiori strumenti culturali e maggiori relazioni riescono comunque a ottenere un’applicazione delle norme e dei criteri di accesso più favorevole.

L’unidimensionalità del welfare attivoIl welfare condizionale è il punto di arrivo di una lunga evoluzione del welfare atti-vo, per certi versi ne risolve le ambiguità che storicamente lo hanno caratterizzato privilegiando decisamente una direzione. Un welfare attivo nasce da quadri di rife-rimento di politica sociale molto differenti – liberisti, socialdemocratici, comunitari – e può condurre a delineare prospettive di azione e, soprattutto, responsabilità so-ciali e impegni di cura per le famiglie e le

persone molto differenti. L’attivazione del beneficiario è stata adottata come obiettivo prioritario dai sistemi di welfare europei sin dai primi anni Novanta, sollecitata da varie raccomandazioni e rapporti dell’Oc-se, soprattutto in riferimento al mercato del lavoro.

L’enfasi su differentirelazioni e sfere di vitaI welfare europei adottando questo ap-proccio hanno enfatizzato, di volta in volta, differenti relazioni e sfere di vita:• un’attivazione strettamente connessa alla partecipazione al mercato del lavoro;• un’attivazione dei cittadini come clienti e consumatori di prestazioni, attraverso la loro libertà di scelta, la capacità di muo-versi autonomamente nei servizi di welfare; • il riconoscimento del diritto dei familiari di svolgere una funzione attiva in termini di cure informali, di sostegno, di assisten-za nei confronti di altri componenti della famiglia e di conciliare esigenze di vita ed esigenze di lavoro;• un’attivazione che riguarda i sistemi di governance, la partecipazione attiva dei cit-tadini ai processi democratici di formazio-ne delle decisioni, come parte attiva della società civile (Andersen et al., 2005).

Nel Rei il timore è che

emerga una sorta di

accanimento selettivo,

un’applicazione severa e punitiva dei

criteri di accesso alle

prestazioni sociali

che esclude le persone non affidabili

né come lavoratori

né come cittadini.

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La centratura sul lavoroa scapito delle altre sfere di vitaIn questo ultimo decennio, gli orientamenti «attivanti» delle politiche sociali sono sem-pre più frequentemente esposti a sviluppi applicativi riduttivi, non sono cioè intesi nella pluralità delle dimensioni e nell’equi-librio delle sfere di vita che possono com-prendere. Gli attuali sviluppi rischiano una standardizzazione su politiche di attivazione fondate sul lavoro, che adottano mezzi e tempi che non tutti riescono a condivi-dere; frequentemente sono finalizzate ad attivare le abilità professionali, mentre le altre risorse di cui le persone dispongono in differente misura – affettive, relazionali, valoriali – diventano secondarie, almeno fin quando non interferiscono con la vita lavorativa e restano relazioni private.La società è intesa come un immenso campo di risorse a disposizione, uno spa-zio di beni-servizi-relazioni-competenze tutte da poter trasformare, attivare per la crescita; come un insieme potenzialmente infinito di risorse strumentali allo sviluppo economico. La capitalizzazione, l’attivazio-ne delle risorse sono i valori indiscutibili perché concepiti come condizioni necessa-rie, seppure non sufficienti, per ogni altro obiettivo (Prandini, 2005).

I problemi che chiedono intensivi interventi socialiMolti programmi di welfare, definiti work first, hanno come unico obiettivo quello di incoraggiare le persone disoccupate, soprattutto attraverso sanzioni, ad entrare nel mercato del lavoro il più velocemente possibile, anche accettando un lavoro non appropriato rispetto alla qualifica possedu-ta. Spesso, però, le persone che sono quasi pronte a entrare nel mercato del lavoro e possono essere inserite in programmi come questi, costituiscono una piccola quota

della popolazione disoccupata, mentre una crescente percentuale di essi presenta svan-taggi e problematiche multidimensionali e il loro inserimento lavorativo, pertanto, richiede più intensivi programmi sociali di intervento (Dean, 2003).

Le tre sfere di vita dell’integrazioneIl welfare condizionale non tiene conto che il rischio di povertà e i cambiamenti nelle condizioni di vita dipendono dalle relazio-ni e dalle sinergie che si stabiliscono fra le tre sfere di vita nelle quali si costruisce l’integrazione: famiglia, lavoro, welfare. Queste condizioni quando agiscono nello stesso senso – come perdita di legami, come severa diminuzione del reddito di-sponibile, come perdita dei benefici di welfare – possono condurre a una caduta nella povertà; quando invece agiscono in senso contrario, favoriscono fuoriuscite più o meno stabili. Di per sé la crisi in una di queste sfere non conduce alla povertà, così come la solidità di una di queste sfere spesso non è sufficiente ad assicurare con-dizioni di vita soddisfacenti. Le politiche di welfare possono incidere su queste tre sfere di vita orientandole a produrre sinergicamente e valutandone gli effetti complessivi: gli effetti di un benefi-cio di welfare si estendono alla qualità delle relazioni familiari, gli effetti di una sua sospensione possono travolgere relazioni informali e legami sociali. Le condizioni di rischio di povertà o di relativo benessere di una famiglia dipendono dagli equilibri che si stabiliscono fra queste tre sfere di vita.

L’incremento delle prestazionisociali e sanitarie privateIl modello di welfare che si sta consolidan-do in Italia si basa su un’analisi sempli-

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ficata della società italiana e delle condi-zioni economiche della famiglie italiane. Si immagina che la maggior parte della popolazione possa essere progressivamente esclusa da una parte consistente delle pre-stazioni pubbliche di welfare in quanto, superati questi anni di crisi, potrà disporre di una parte del suo reddito per assicurarsi prestazioni sociali e sanitarie private di qua-lità, realmente protettive rispetto ai rischi della non autosufficienza, di una malattia prolungata.La realtà è molto più articolata: la società italiana non riesce a rendere compatibili le esigenze dello sviluppo con la qualità del lavoro, i livelli retributivi e la qualità delle relazioni umane, a governare le dinamiche, gli squilibri e i nuovi raggruppamenti so-ciali che continuamente produce. I risultati dell’indagine annuale eu-silc (istat 2017) mostrano che nel 2016 il 30% delle persone residenti in Italia era a rischio di povertà o esclusione sociale, registrando un peggioramento rispetto all’anno prece-dente quando tale quota era pari al 28,7%. Oltre la metà (53%) dei redditi individuali è compresa tra 10.001 e 30.000 euro lordi annui, circa un quarto (il 24,4%) è al di sotto dei 10.000 euro e il 18,5% è tra 30.001 e 70.000; solo nel 2,8% dei casi si superano i 70.000 euro. Le tre zone di coesione sociale individua-te da Robert Castel (2003) in suo saggio molto noto, possono essere utilizzate per rappresentare i cambiamenti intervenuti in Italia in questi ultimi decenni e i rischi sociali emergenti. Castel individua:• una «zona di integrazione» caratterizzata da contratti di lavoro a tempo pieno, pos-sibilità di partecipazione alla vita sociale e benefici di welfare adeguati;• una «zona di vulnerabilità»: è la zona della precarietà, del lavoro temporaneo, dei lavori mal retribuiti, di insufficienti

risorse di welfare e fragilità delle relazioni primarie;• la «zona della disaffiliazione»: secondo Castel, la zona di integrazione si sta ridu-cendo, la zona di vulnerabilità e precarietà si sta espandendo e alimenta continuamen-te una terza zona, la zona della disaffiliazio-ne o dell’esclusione (esclusione dal merca-to del lavoro con spesso la perdita di buona parte delle tutele sociali).

Gli anni dell’estensionedella zona dell’integrazione In Italia, fino alla prima metà degli anni Novanta, la zona dell’integrazione era molto estesa, comprendeva le persone con redditi elevati, le classi medie e buona parte della classe operaia. Se ci riferiamo agli studi più accreditati sulla stratificazione sociale, possiamo sti-mare che un 70% della popolazione con-divideva questa condizione di integrazione (Sylos Labini, 1975). La stabilità lavorativa e le retribuzioni medie consentivano di soddisfare le tra-dizionali aspettative di queste famiglie: la proprietà della casa, l’accesso agevole alle cure sanitarie, l’istruzione per i compo-nenti più giovani, opportunità di mobilità sociale, la sicurezza di una pensione ade-guata, la possibilità di vacanze anche brevi. Le disuguaglianze nei redditi e nelle ric-chezze ricominciava a risalire, ma ancora comunque non determinava una frammen-tazione elevata del tessuto sociale. Le pre-stazioni di welfare erano sostanzialmente stabili o crescenti. La seconda zona, quella della vulnerabilità, si presentava sostanzialmente circoscritta (stimabile nel 20% della popolazione) e riguardava i lavoratori con limitate tutele contrattuali, precarietà, condizioni di lavo-ro e retribuzioni molto inferiori da quelle condivise dai lavoratori protetti. Anche

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la zona dell’esclusione riguardava gruppi sociali ben individuabili (il restante 10%), che vivevano condizioni di povertà per lungo tempo, esclusi dal mercato del la-voro, ma con qualche possibilità di rientro in lavori a bassa retribuzione e scarsamente qualificati.

Il radicale restringersidell’area dell’integrazioneIn anni più recenti, e soprattutto dopo la crisi economica e finanziaria, la situazione è cambiata radicalmente, incidendo pro-fondamente nella solidità delle tre sfere di vita (famiglia, lavoro, welfare) nelle quali si costruisce l’integrazione sociale. • La zona dell’integrazione è diventata molto ridotta (può essere stimata nel 30% della popolazione) e comprende le persone con redditi alti e una parte limitata della classe media (istat, 2017a; istat, 2017b; Siza, 2017). In questa zona, la precarietà delle relazioni primarie non è vissuta me-diamente come rischio incombente, talvol-ta è una scelta, i suoi effetti, nella maggio-ranza dei casi, rimangono nell’ambito della sfera affettiva. • La zona della vulnerabilità è diventata, invece, molto estesa (attorno al 50% della popolazione). Comprende una parte rile-vante della classe media e quasi tutta la classe operaia. Processi di dualizzazione e la riduzione delle prestazioni di welfare hanno indebolito fortemente la capacità operativa del welfare. Questa parte della popolazione utiliz-za crescentemente prestazioni private nell’ambito della sanità, dell’istruzione: in molte regioni un’applicazione dell’isee rigorosa ha escluso una parte significativa di queste famiglie dall’accesso agevolato a molti servizi comunali (asili nido, sostegno domiciliare, servizi residenziali). Precarietà e rottura delle relazioni diventano un ri-

schio che coinvolge profondamente il vis-suto delle persone, il reddito, l’abitazione e tutte le sfere di vita. • Infine la zona della esclusione e della po-vertà (il restante 20%) composta dai grup-pi sociali stabilmente esclusi dal mercato del lavoro, con possibilità di rientro molto basse, che hanno subito in questi anni una riduzione significativa di tutte le prestazio-ni di welfare. Accanto alle povertà persistenti si conso-lida la presenza di famiglie e persone che vivono condizioni di povertà transitorie – di breve durata, occasionale oppure oscil-lante – con oscillazioni di reddito frequenti fra povertà e severe ristrettezze finanziarie, che vivono una fragilità delle condizioni di vita per il diffondersi di instabilità nel mer-cato del lavoro e nelle relazioni familiari, di isolamento dalle possibili reti informali di aiuto. Persone che vivono situazioni particolar-mente fluide, dai contorni non ben definiti, in cui tutti i soggetti sono consapevoli che le cose possono mutare, in un senso o in un altro, non sono stabilmente acquisite o stabilmente perse.

Le molte posizioni intermedie fortemente impoverite La società italiana non ci appare a questo punto caratterizzata soltanto da una ele-vata povertà e disuguaglianza, polarizzata tra poveri e ricchi, ma anche caratterizzata dalla presenza di molte posizioni intermedie fortemente impoverite, con condizioni di vita instabili, che non costituiscono più un tessuto connettivo di relazioni e di valori su cui poggia il vivere sociale e il legame tra differenti gruppi sociali (come storica-mente sono state la classe operaia e le classi medie). Ciò che emerge non è un drammatico scon-volgimento della stratificazione sociale o

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un impoverimento generalizzato, ma un diffondersi progressivo di relazioni instabili in ogni sfera della vita, che crea inquietudi-ne, preoccupazioni per il proprio futuro, insicurezza. A queste esigenze il welfare risponde molto parzialmente, sebbene queste condizioni di vita costituiscano una delle criticità più rilevanti per la coesione sociale.

Il «ritorno»a un welfare socialeIn un approccio che intenda superare le semplificazioni e le standardizzazioni dei «welfare condizionali» che si stanno con-solidando in Europa, e che intenda valo-rizzare la qualità sociale delle relazioni di welfare, gli interventi di attivazione assu-mono anche altre finalità: sono finalizzate alla costruzione di legami sociali e di reti di relazione e di sostegno, alla ricostru-zione di un’identità, all’apprendimento e alla progressiva acquisizione di senso di responsabilità, di un equilibrio personale, di una motivazione alla partecipazione at-tiva al lavoro e alla vita sociale.

La responsabilità non è il requisito per un primo accesso al welfareIl benessere delle persone e la promozione delle responsabilità collettive non dipen-dono soltanto dalle combinazioni fra Stato e mercato, tra pubblico e privato, ma coin-volgono i cittadini, la capacità di mobilitare le risorse di cura di cui dispongono. Relazioni informali, lavoro, welfare sono le tre sfere di vita nelle quali si costruisce l’integrazione sociale. Le politiche sociali non sono riducibili alle politiche del lavoro e il termine attivazione non significa soltan-to formazione e inserimento nel mercato del lavoro. Il welfare to work può diventare l’accet-

tazione obbligatoria di qualsiasi lavoro, pena l’interruzione di ogni forma di soste-gno economico, un avvio forzoso a lavori scadenti, e la contestuale riduzione di tutte le altre spese di welfare. Oppure può essere una politica sociale di accompagnamento e di responsabilizzazio-ne che tenga conto delle differenze, l’avvio di un percorso di recupero alla vita sociale e lavorativa, che sostiene la persona e la sua famiglia nella pluralità delle sue esigenze. In questa seconda prospettiva, alle persone povere può essere richiesto di essere più re-sponsabili, ma questo può essere l’obietti-vo dell’intervento, nella prima prospettiva, invece, è il requisito per un primo accesso ai programmi di welfare.

Una diversa rappresentazionedei problemi e delle risorse sociali Un welfare civile consistente e consapevole delle sue ragioni può proporre e sostene-re un’altra rappresentazione delle esigenze delle persone, può mettere in discussione la logica delle attuali combinazioni tra pub-blico e privato, operando concretamente e proponendo in molti ambiti di welfare modalità di intervento che coinvolgono relazioni umane e le risorse di cura che esprimono.

L’esistenza di una pluralità di risorse socia-li autonome Alla base la convinzione che esista una pluralità di risorse in sfere so-ciali autonome rispetto allo Stato e alle di-namiche economiche – nella società civile, nella famiglia, nell’associazionismo e nel volontariato organizzato, nelle comunità informali – e che può essere efficacemente mobilitata al benessere delle persone. I valori e le regole di vita delle relazioni informali di aiuto – quali la disponibilità, la reciprocità, la condivisione, l’accoglienza, la sussidiarietà – possono estendersi oltre

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i loro ambiti naturali, per diventare regole generali, entrare nel sistema valoriale del privato e dell’apparato pubblico, mitigan-done ogni unidirezionalità e ogni combi-nazione esclusiva.

Il riaffacciarsi del principio dell’universalismo Un’alternativa alle attuali combinazioni tra pubblico e privato è costituita, inoltre, da una configurazione di welfare che riaffer-ma il principio universalistico che ancora regola i più significativi settori del welfare italiano, nella consapevolezza che l’intro-duzione di criteri selettivi e una riduzione delle prestazioni pubbliche aggravano le condizioni di vita della maggioranza delle famiglie italiane.Sono famiglie che rischiano di non poter disporre di sufficienti servizi pubblici, che hanno scarse possibilità di accesso a un welfare integrativo, non hanno lavoro o hanno inserimenti in aziende di picco-le dimensioni che non assicurano ai loro dipendenti prestazioni di welfare, hanno condizioni lavorative difficilmente conci-liabili con la vita familiare anche in presen-za di un programma di sostegno.

Istituzioni che valorizzano quanto nella so-cietà si muove Il welfare che intende va-lorizzare le relazioni umane non si limi-ta a rafforzare il ruolo delle prestazioni pubbliche e a dare capacità progettuale alle istituzioni, ma promuove l’interazione delle istituzioni stesse con le risorse che la comunità esprime; è volto a valorizzare le risorse presenti nelle relazioni informali, i valori e le regole di una civile convivenza. Nella consapevolezza che la costruzione del benessere sociale e dell’equità nella comunità non dipende soltanto da una ra-zionalizzazione e da una moltiplicazione di servizi, ma anche da una valorizzazione di quanto nella società si muove per riaggre-

gare, per superare frammentazioni sociali e distanze, per stabilire relazioni positive tra le persone.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI• Andersen G., Guillemard A., Hensen P. H., Pfau-Effinger B. (a cura di), The Changing Face of Welfare, The Policy Press, Bristol 2005.• Bonoli G., Natali B., The Politics of the New Welfare State, Oxford University Press, Oxford 2012.• Castel R., La metamorfosi della questione sociale, Sellino Editore, Avellino 2007.• Dean H., Reconceptualising welfare to work for people with multiple problems and needs, in «Journal of Social Policy», 32, 2003, pp. 441-459.• Donati P., Relational Sociology: A New Paradigm for the Social Sciences, Routledge, London-New York 2010.• Harrison M., Sanders T. (a cura di), Social Policy and Social Control. New Perspective on the «Not-So-Big Society», Policy Press, Bristol 2015.• istat, Rapporto annuale 2017, Roma 2017a. • istat, Condizioni di vita, reddito e carico fiscale delle famiglie nel 2016, Roma 2017b.• Morel N., Palier B., Palme J. (a cura di), Towards a Social Investment Welfare State? Ideas, Policies, Challenges, Policy Press, Bristol 2011. • Prandini R., L’emergere di un welfare state attivo «mother friendly» e le sue conseguenze per la famiglia, in «Sociologia e politiche sociali», 1, 2006, pp. 82-83.• Siza R., Welfare for the middle classes: the case for reinforcement, in Siza R., Deeming C. (a cura di), Il declino della classe media: i limiti delle politiche sociali, numero speciale di «Sociologia e politiche sociali», 2, 2017.• Siza R., Narrowing the gap: the middle classes and the modernization of welfare in Italy, in «International Journal of Sociology and Social Policy», n. 1-2, 2018, pp. 1-14.• Sylos Labini P., Saggio sulle classi sociali, Laterza, Bari 1975.

Remo Siza, sociologo, svolge attività di ricer-ca e formazione in Italia e nel Regno Unito: [email protected]

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in ter v ista | studi | prospettive | inser to | metodo | st rument i | luoghi&professioni | bazar

Appunti per un confronto su possibilità e criticità dell’economia collaborativa

diDavide Arcidiacono

Ripensare il welfare al tempo della sharing economy può sembrare un modo distante di porre la questione. Tanto più che a oggi la sharing economy, con le sue grandi piattaforme, non sembra aver ridotto le disuguaglianze, semmai le ha acuite distribuendo in maniera diseguale possibilità e benefici della collaborazione. Eppure un nuovo welfare può oggi utilmente adottare la logica della condivisione e della collaborazione come «humus» etico-culturale ed economico-organizzativo. E può stimolare la sharing economy a capire come essere opportunità di inclusione e benessere, soprattutto per i gruppi a basso reddito.

Quale welfare al tempo della sharing economy?

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* | Il rapporto tra sharing economy e welfare è stato al centro della riflessione del progetto #Oltre i Peri-metri e le considerazioni riportate in queste pagine

sono una serie di appunti e riflessioni a partire dal dibattito che si è svolto a Rho il 24 maggio 2017.

La storia del welfare state è legata a doppio filo ai processi della moder-nizzazione. Non è un caso che i primi

rischi sociali a essere protetti riguardassero i lavoratori industriali e che la fase espansi-va del welfare abbia coinciso con il trenten-nio glorioso di consolidamento del modello produttivo fordista e con l’affermarsi della società salariale.

Una nuova intesasul welfare?Il patto sociale tra classe salariata, impresa e Stato è stato il terreno fertile per la sua espansione. L’infrangersi della convergen-za tra questi attori negli anni ’70-’90 ha alimentato un’intensa politica «sottrattiva» che ha indebolito i sistemi di welfare state così come si erano configurati nel secondo dopoguerra. Da qui è emersa la necessità di un loro ripensamento che fosse sistemico, ovvero capace di prendere le mosse pro-prio dal cambiamento dei modelli produt-tivi di riferimento. Ricalibrare il welfare (Ferrera, Hemerijck, Rhodes, 2000) ha voluto dire ridefinire la sinergia tra gli attori in gioco attraverso l’espansione e il mutuo riconoscimento del ruolo degli attori non statali (impresa e terzo settore, ma anche gruppi di citta-dini) che si attivano nella sperimentazione di modelli gestionali innovativi a supporto e a complemento di un’azione pubblica in crisi. È evidente che un simile ripensamento si ritiene oggi tanto più necessario quanto più si afferma un nuovo modo di produrre va-lore, che chiameremo «modello piattafor-ma» (Arcidiacono, 2017a, p. 232).

Questo paradigma rappresenta un’ulteriore evoluzione tecno-sociale del modello della specializzazione flessibile, essendo ancora più leggero, reticolare e diffusivo. Si strut-tura attorno a un sistema centrale dinami-co (la piattaforma appunto, che può avere consistenza fisica o digitale) in base al quale possono essere sviluppati, innestati e adat-tati componenti e sistemi di produzione diversificati per finalità e gerarchie. In questo modello, l’azienda (la piattafor-ma) diventa sempre più un abilitatore di processi produttivi distribuiti all’interno di una rete di attori professionali e non, in cui gli utenti-destinatari giocano il ruolo di partner di processo, in quanto portato-ri di «risorse dormienti» (idle capacity) e competenze in grado di svolgere un ruolo essenziale per la qualità e innovatività degli output generati. A questo modello produttivo si ispira anche quell’ecosistema plurale di pratiche e servizi che oggi viene richiamato con il concetto-ombrello di sharing economy. La molteplicità degli assetti e delle finalità che lo connotano ne spiega la natura di per sé ibrida ed eterarchica prima richiamata, sviluppatasi negli interstizi di un capitali-smo in crisi, ma anche nei «lavori in corso» di un nuovo welfare in cerca di identità e strategie.

Oltre il mercato e la redistribuzioneSecondo Juliet Schor (2014) è quasi impos-sibile trovare una definizione esaustiva di sharing economy perché sotto il concetto di economia della condivisione possiamo in-cludere una varietà disordinata di pratiche

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e modi di scambiare beni e servizi, difficile da rendicontare in maniera esaustiva. Tecnicamente con il termine in questione ci riferiamo soprattutto a forme disinterme-diate di interazione/scambio tra pari (P2P) che si basano su schemi di reciprocità sem-pre esistiti, ma che riemergono con nuova forza grazie al potere abilitante e massi-mizzante delle nuove tecnologie digitali.

I quattro pilastridella sharing economyRachel Botsman e Roo Rogers (2010) considerano la sharing economy come un modello economico basato sulla collabo-razione e sulla condivisione di asset, spazi, competenze, al fine di trarre benefici mo-netari e non. Secondo i due autori, essa si articola su quattro pilastri:• il consumo collaborativo, in cui la gente scambia, condivide, redistribuisce prodotti di cui non ha bisogno e che non utilizza con continuità (forme di baratto o di scambio dell’usato come il Bookrunning o piatta-forme come Reoose, ma anche di condi-visione come Muniren o il car pooling di Blablacar; di ospitalità come Airbnb o di trasporto come Uber Pop e Lyft, o servizi di social eating come Gnammo), ma anche beni intangibili (competenze, tempi, spazi, ecc., il caso delle digital time banking come Time-Republik o Coachsurfing), o paga per avervi accesso piuttosto che acquisirne la proprietà (per esempio, il car sharing);• la produzione collaborativa, in cui reti di individui collaborano per la progettazione/design (es. Quirky, Zooppa), la produzione (casi come Open Street Map) e la distribu-zione di beni e servizi (es. Nimber);• l’apprendimento collaborativo, attraverso corsi aperti o forme di condivisione e ag-glomerazione di conoscenze in un’ottica crowd (es. Wikipedia o Future Learn);• la finanza collaborativa, con raccolte

fondi in cui la gente può supportare la creazione di progetti, imprese, iniziative benefiche (crowdfunding) gratuitamente o ricevendo una forma di ricompensa simbo-lica o tangibile (es. Kickstarter; Produzioni dal basso, Rete del dono, Sellaband), ma anche altre forme come i prestiti tra pari o le monete complementari (es. Sardex).

Le condizioni basilari della sharing economyPer parlare di sharing economy occorrono, però, le seguenti condizioni (Arcidiacono, 2017b, p. 25):• lo scambio deve riguardare l’overcapacity di un asset (la macchina, la casa, ma anche il cibo, le competenze acquisite, formali o infomali, ecc.);• il modello di consumo è fondato sull’uso/accesso e non sulla proprietà;• non si esclude il ruolo del mercato o la creazione di un utile (non è detto che si tratti solo di economia del dono, basata sulla totale gratuità economica);• la riduzione dei confini tra produzione e consumo (per esempio, un host di Airbnb non è un albergatore, ma comunque pro-duce un servizio di ospitalità);• la riduzione dei livelli di intermediazione tra chi eroga e chi usufruisce del prodotto/servizio (ovvero, il distributore o il media-tore è supplito dall’infrastruttura tecnolo-gica della piattaforma);• basilare è la concezione dell’oggetto scambiato come «risorsa relazionale» e non come bene rivale.

L’articolazionein tre forme di scambioIl modello si può articolare al suo interno in tre forme di scambio.

On demand/renting economy Le transazioni hanno come oggetto asset di proprietà di

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un attore, individuale o collettivo, che ne mette a disposizione l’overcapacity ad altri user, anche (e non esclusivamente) attra-verso l’uso di piattaforme digitali. Vi è sem-pre uno scambio monetario, la cui entità è stabilita dall’agente che abilita o media la transazione e/o possiede la piattaforma e gli asset, appropriandosi di buona parte del valore economico generato. Si tratta di uno scambio in cui i meccanismi di attribuzione fiduciaria al provider seguono i tradizionali meccanismi di mercato (pubblicità e repu-tazione del brand). Per esempio, Netflix, Uber, Car2go, Taskrabbit.

Sharing economy (strictu sensu) Le tran-sazioni sono tra pari e vengono abilitate attraverso una piattaforma digitale che in qualche modo disciplina la contrattazione tra le parti, anche quando assume carattere monetario, appropriandosi di una parte del valore generato. Si tratta di esperienze con ambizioni globali, ma che nella maggior parte dei casi si concentrano su mercati nazionali o locali. Le relazioni sono perlopiù tran-sitorie e strumentali, mediate da sistemi fiduciari basati su rating reputazionali on line. Per esempio, digital time-banking (TimeRepublik), car pooling (Blablacar),

file sharing (Emule, bitTorrent) o servi-zi di condivisione di alloggio (Airbnb, Coachsurfing), o servizi di social eating (Eatwith, Gnammo), ecc.

New barter economy Le transazioni hanno come oggetto un bene/servizio all’interno di reti di pari, spesso territorialmente defi-nite e a carattere per lo più locale, prive di mediazione monetaria e in cui la tecnologia agisce solo come fattore di facilitazione, ma non come fattore abilitante alle relazioni, che possono preesistere allo scambio e in qualche modo lo superano. Il valore rimane esclusivamente ai diretti interlocutori e si esprime sotto forma di rafforzamento dei legami fiduciari tra gli stessi. È il caso di transazioni come ba-ratto/riuso, bookrunning, tool library, orti sociali, scambi di cibo, social street...

Gli incroci possibili tra reciprocità, mercato, redistribuzioneI modelli di creazione e distribuzione del valore sono, pertanto, assai differenziati e possono includere sia forme di reciprocità sia di mercato, o persino forme di tipo re-distributivo (Pais, Provasi, 2015). Inoltre, la capacità dell’economia di condi-visione di generare un modello di scambio realmente alternativo, secondo molti osser-vatori (Bauwens, Kostakis, 2014; Scholz, Schneider, 2016), è soprattutto una que-stione di governance delle piattaforme: si tratterebbe di garantire il passaggio dal platform capitalism, in cui l’infrastruttura di scambio è in mano a un soggetto for profit, alimentato da interessi prettamen-te finanziario-speculativi e orientato all’e-strazione del valore generato, al platform cooperativism, un modello in cui la piatta-forma è di proprietà degli stessi pari che redistribuiscono al loro interno il valore generato dai propri scambi.

La capacità della

sharing economy

di generare un modello

di scambio realmente

alternativo rimanda

a una governance

delle piattaforme:

dal platform capitalism

si tratta di passare

al platform cooperativism.

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La possibile comunanza di elementi tra mondo cooperativo e sharing economy in questa ultima accezione è molto forte (in particolare, la rilevanza dei fattori relazio-nali, etici ma anche co-produttivi dell’azio-ne economica). Tuttavia le esperienze con-crete, e ancora più di successo, appaiono quanto mai rare e sottovalutate.

Come valutarel’impatto sul welfare?Valutare le concrete potenzialità dell’e-conomia della condivisione in termini di welfare significa misurane concretamente l’impatto. In realtà l’ambiguità concettuale che connota il termine «economia della con-divisione», unita alla frammentarietà e al disordine del dibattito pubblico e accade-mico, rendono assai difficile distinguere valore e valori generati da questa tipologia di scambio.

Quattro angolaturedi valutazione di impattoLa valutazione d’impatto dell’economia collaborativa andrebbe articolata in diversi sottosistemi (Arcidiacono, 2017b): • adattivo/economico, relativo alle ricadute nella sfera della produzione di risorse;• direzionale/politico, relativo alle ricadute nella sfera pubblica di governo in termini di apertura e trasparenza dei processi deci-sionali che mettano al centro la collabora-zione con la cittadinanza per la co-gestione di servizi, spazi e altri beni comuni;• integrativo/relazionale, relativo agli effet-ti di queste pratiche in termini di norme e gestione dei potenziali conflitti;• valoriale/culturale, che attiene ai processi

di legittimazione della collaborazione pro-mossi dalle diverse istituzioni sociali.Tuttavia, a oggi, mancano analisi sistemi-che, nonché indicatori condivisi e affidabili capaci di rendicontare ognuno di questi imperativi funzionali. In loro vece, provia-mo a ricostruire una cornice quanto meno di senso attraverso una ricognizione di al-cuni dei dati disponibili e confrontando le risultanze empiriche delle principali ricerche sul tema.

I dati per costruireuna cornice di sensoUna relazione del parlamento europeo (2016) stima in circa 572 miliardi di euro il valore della sharing economy. Tuttavia, secondo Eurobarometro (2016), il 52% degli europei non conosce questi servizi e solo il 17% li ha utilizzati. L’Italia sembra in linea con la media euro-pea. Secondo il rapporto di Volta (2016) l’economia collaborativa oggi nel nostro Paese rappresenta lo 0,2% del Pil, ma si stima una proiezione tra gli 8,8 e i 10,5 miliardi di euro entro il 2020. A sua volta uno studio dell’Università di Pavia e Phd (1)

stima che dai 3,5 miliardi di euro generati nel 2015 si potrebbe arrivare nei prossimi dieci anni a un volume di 14 miliardi. In Italia, secondo i dati della mappatura di «Collaboriamo» e Università Cattolica di Milano, l’offerta continua a crescere: erano già presenti 138 piattaforme nel 2014, ma sono salite a 187 nel 2015 (+35% rispetto all’anno precedente) e nel 2016 sono arri-vate a 206, con una crescita ulteriore del +10% (Sharitaly, 2016). Queste imprese sarebbero per lo più concentrate nell’am-bito del crowdfunding (68), nel settore dei trasporti (25) e nel turismo (17).

1 | http://www.technopolismagazine.it/cont/news/la-sharing-economy-e-una-risorsa-anche-per-l-

italia/4379/1.html#.WcucTVu0MdU

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Inoltre, le piattaforme di sharing italiane si caratterizzerebbero per una più forte voca-zione locale (per esempio, Zego o Ginger). Per lo più si tratta di micro-imprese a carat-tere locale, autofinanziate, con problemi di scalabilità in termini di utenza e numero di transazioni generate (solo il 31% raggiunge almeno 30.000 utenti e solo il 6% supera le 5.000 transazioni mensili).

Un laboratorio per la «generazione-flusso»Come si vede, è un mercato ancora im-maturo sotto il profilo strettamente eco-nomico. Tuttavia la sharing economy, in particolare in Italia, sarebbe soprattutto uno straordinario laboratorio di pratiche e imprenditorialità che sta calamitando il discorso sull’innovazione, seppur arranchi nella ricerca della sua massa critica.

L’intercettazione della «generazione-flusso» Questa nuova economia intercetterebbe in particolar modo una nuova generazione di utenti, tra i 20 e i 35 anni, istruiti e ad alta alfabetizzazione digitale, che si informano prevalentemente on line, nati tra gli anni ’80 e il 2000. Vengono definiti millennials, ma anche generazione-flusso, perché vivono cambia-menti continui nella loro vita, a causa della più intensa mobilità spaziale e lavorativa generata dalla attuale fluidificazione e fles-sibilizzazione dei mercati del lavoro.Essi rappresentano la constituency di una nuova classe emergente, «il precariato» o, come qualcuno l’ha definita più recente-mente, «la classe disagiata», parafrasando e sovvertendo lo storico lavoro di Thorstein Veblen sull’America industriale dei primi del ’900 e mettendo a fuoco il processo di dissoluzione del ceto medio e la crisi di

una generazione cresciuta all’«ombra» di questa meta culturale.

Un fattore di distinzione e di integrazione del reddito Trattasi della categoria sociale più trascu-rata dal welfare, specie nei paesi mediter-ranei. Sono questi i clienti e gli utenti tipo della sharing economy che utilizzerebbero i servizi-piattaforma per soddisfare i loro bisogni di consumatori affluenti, ma con una capacità di spesa sempre più limitata e variabile, utilizzando perlopiù l’elevata dotazione del capitale culturale a disposi-zione, individuando nella condivisione un nuovo fattore di distinzione e, al tempo stesso, uno strumento in qualche modo funzionale di integrazione del reddito. Secondo i dati forniti, per esempio, da Airbnb (2016) sui propri host in Italia, que-sti percepiscono un’integrazione al reddito in media di 2.300 euro all’anno, che arri-vano a 6.300 in città come Firenze con un turismo fortemente destagionalizzato.Alcuni studi sul profilo degli utenti della mobilità condivisa mostrano come questa nuova pratica si concentri su certi profili d’utenza medio-alti, escludendo le persone più adulte, meno scolarizzate e che vivono in periferia, anche per precisi meccanismi di «disegno del servizio» che accentuano questa dimensione di esclusione. Al tempo stesso, non è il prezzo ma la fles-sibilità del servizio il vero motivo per cui decidono di utilizzarlo. Sono la generazio-ne dei prosumers (pro-ducers + con-sumers), che vive tra professionismo e hobbismo.

Benefici distribuiti però in maniera disegualeSebbene alcuni analisti e policy maker ve-dano nello sviluppo della sharing economy un’opportunità di inclusione e benessere,

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soprattutto per i gruppi a basso reddito, i dati testimoniano, purtroppo, una realtà molto differente. Diversi studi condotti tra gli user delle piat-taforme collaborative mostrerebbero un au-mento delle disuguaglianze: i soggetti pro-venienti da famiglie benestanti, altamente istruiti e dotati delle capabilities adeguate, stanno usando le piattaforme per aumenta-re i loro guadagni o integrare il proprio red-dito, generando un effetto «spiazzamento» di quei soggetti che tradizionalmente svol-gevano alcuni lavori «della condivisione», dotati di competenze «esperte», seppure informali, ma soprattutto con redditi e li-vello di istruzione più bassi. Effetti in termini di diseguaglianza si sono generati, ad esempio, dai processi di gentrification a seguito dell’espansione degli affitti a breve termine su Airbnb in grandi città come New York e Barcellona. Esisterebbe pertanto un «divario sociale», un «divario digitale» e un «divario parte-cipativo» che distribuirebbe in maniera diseguale i benefici della collaborazione, avvantaggiando soprattutto i maschi, gio-vani, ad alta istruzione e maggiormente attivi sulla rete. Le dimensioni sociali o etico ambientali non sembrano quasi mai prevalenti tra i consumatori di servizi condivisi, che non appaiono come consumatori critici del modello economico di mercato, come av-viene invece per altre pratiche, ad esempio i gruppi d’acquisto. Alcuni studi ci dicono poi che alcune pratiche basate sul riuso o il baratto non necessariamente sviluppano un compor-tamento di consumo anticonsumistico e maggiormente orientato alla sostenibilità, così come l’uso del car sharing o del car pooling ha ridotto solo in minima parte la propensione dei soggetti ad acquistare un’auto.

Un impatto economico più che sociale ed eticoLe motivazioni che spingono i soggetti a condividere sono prevalentemente eco-nomiche, e assai meno sociali o valoriali. In particolare, la relazionalità è un output secondario per gli utenti e mai il principale driver, per questo assume perlopiù carat-tere transitorio e strumentale. Le relazioni ricorrenti sono in qualche modo «osteg-giate» o temute da molti operatori della sharing economy che, pur inseguendo il mito della costruzione di una community coesa intorno al proprio servizio, al tempo stesso non desiderano che relazioni abituali tentino gli utenti a disintermediare la piat-taforma stessa. Inoltre, la relazione è fortemente mediata dalla fiducia, a sua volta riprodotta attraver-so il sistema degli algoritmi reputazionali. Tuttavia, secondo alcuni studi, questo siste-ma presenta risultati ambivalenti: gli utenti al momento di valutare un servizio offerto da un proprio pari temono una ritorsione negativa di quest’ultimo o degli altri mem-bri della community. Si produrrebbe una sorta di «bolla» del rating, in quanto c’è una sovrastima viziata in positivo del concreto capitale reputazionale. Questo è stato evi-denziato su Blablacar o Airbnb. Inoltre, tale meccanismo può favorire una forma di individualismo e di esclusività delle proprie cerchie di scambio in quanto si tenderebbe perlopiù a interagire e a con-dividere con persone che hanno caratteristi-che socio-biografiche o reputazionali simili alle proprie, discriminando tutti gli altri. Discriminazioni di tipo razziale in qualche modo sono state evidenziate in Airbnb e forme di discriminazione di genere sono state evidenziate nel time-banking.Infine, i dati Oecd (2017) mostrano anche come l’affermazione di modelli collabora-tivi diffusi nella pianificazione e gestio-

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ne delle politiche pubbliche, seppure in espansione, rappresentano ancora più un obiettivo formale che un risultato concreta-mente raggiunto in molti Paesi, soprattutto in Italia.

La sharing economy per un nuovo welfare?La sharing economy appare, alla luce delle riflessioni teoriche ed empiriche fin qui riportate, un paradigma ancora in transi-zione, ovvero incapace di esprimere allo stato attuale le potenzialità di un modello alternativo di sviluppo e di welfare. È nel disallineamento tra obiettivi socio-relazionali dell’economia di condivisione e gli scarsi risultati in termini di attenuazio-ne delle diseguaglianze o di inclusività dei soggetti in condizione di marginalità, che si potrebbe sviluppare una grande quantità di nuovi servizi sharing.

La possibilitàdi ibridazioni solidaliProprio in questo spazio lasciato vuoto dalle grandi piattaforme si potrebbe svi-luppare, nella logica di un modello coo-perativo o for benefit, una più «solida» economia collaborativa con effetti ancora

più significativi in termini di welfare. Alcuni caratteri costitutivi della sharing economy la rendono un modello assai in-teressante in un momento di ripensamento dei sistemi di benessere sociale. Prima di tutto per la sua capacità di integrare in sé forme di scambio differenti (reciprocità, redistribuzione e mercato). Si tratta quindi di un modello aperto all’i-bridazione che libera ampi margini di azio-ne e creatività innovativa per economie ge-nerative, soprattutto per il terzo settore, ma anche per le nuove aziende «geneticamente socialmente responsabili», come le B-Corp. La sharing economy, richiamandosi piena-mente al concetto di comunità, appare il terreno ideale per sviluppare nuove con-nessioni e sodalizi all’interno del welfare mix, con nuove opportunità di scalabilità per i numerosi esperimenti locali di secon-do welfare.

La capacità di attivare risorse dormientiUn altro fattore importante della sharing economy nei processi di ricalibratura del welfare è il suo orientamento a ridisegnare catene del valore meno asimmetriche e più trasparenti, con la garanzia di un elevato livello di personalizzazione di servizio ri-spetto ai bisogni e alle peculiarità degli utenti. Altrettanto coerente il fatto che questo paradigma si basi su un’elevata capacità di attivazione e co-produzione dei beneficiari/utilizzatori, capace di ot-timizzare i processi in un momento in cui la scarsità di nuove risorse è percepita come il problema più grande che limita l’espansione del welfare. La sharing economy, invece, avvia un vero ragionamento di ricalibratura a partire dalle risorse che esistono già e che sono invece «dormienti» o sottoutilizzate. In questo senso, questo paradigma rappre-

Proprio nello spazio

lasciato vuoto dalle

grandi piattaforme si

potrebbe sviluppare,

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senta la possibilità di ripensare ai model-li di erogazione e distribuzione di nuovi servizi capaci di risvegliare «risorse latenti o disperse», ma all’interno di una cornice di senso e di valori forte, come quella di cooperazione o di bene comune. Un esempio di questo è l’ambito dello «sha-ring food»: la sharing economy potrebbe fornire nuovi input per espandere rete ed efficienza nella lotta allo spreco alimentare (recentemente rilanciata dalla legge Gadda del 2016). A oggi, alcuni esperimenti come Scambiocibo.it e Ifoodsharing.org hanno saputo valorizzare quel patrimonio di attori e di esperienze che rappresentano un’eccellenza, ma che rese «collaboranti» all’interno del modello piattaforma potreb-bero generare maggiore valore per tutti. Quali risultati si potrebbero raggiunge-re se si abilitassero i pari, distributori e associazioni che operano nella lotta allo spreco all’interno di un sistema integrato, reticolare e dinamico di interazione in cui le eccedenze sarebbero più facilmente re-cuperate e redistribuite?

L’orizzonte di un nuovoparadigma di welfareEvidenziare le complementarietà possibili tra sharing e welfare non significa tuttavia negare i processi in atto di «appropriazio-ne» del modello della condivisione da parte del puro mercato. Né significa negare che la qualità degli ecosistemi e dell’azione po-litica siano fattori contestuali poco rilevanti per fare della sharing economy un nuovo paradigma del benessere sociale. Fare dell’economia collaborativa un nuovo paradigma del welfare significa oggi af-frontare i deficit culturali dell’economia digitale e della condivisione, ma anche valorizzare tradizioni e pratiche già con-solidate di dono e di reciprocità all’interno dei territori e che popolano un patrimonio

di iniziative, competenze e sperimentazioni in ambito locale.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI• Airbnb, Fattore sharing. L’impatto economico di Airbnb in Italia, Milano 2016.•Arcidiacono D., L’inclusione del consumatore nella catena del valore, in Barbera F., Pais I., Fondamenti di Sociologia Economica, Egea, Milano 2017a.• Arcidiacono D., Economia collaborativa e startup: forme alternative di scambio economico o mito della disintermediazione?, in «Quaderni di Sociologia», 73, 2017b, pp. 25-43.• Bauwens M., Kostakis V., Network Society and Future Scenarios for a Collaborative Economy, Palgrave Pivot, London 2014.• Botsman R., Rogers R., What’s Mine Is Yours: The Rise of collaborative Consumption, Harper Business, London 2010.• Eurobarometer, 2016, Collaborative Platform, 438, http://ec.europa.eu/COMMFrontOffice/publicopinion/

• European Parliament, The Cost of Non Europe in the Sharing Economy, Bruxelles 2016.• Ferrera M., Hemerijck A., Rhodes M., Recasting European Welfare States for the 21st Century, in «European Review», 8 (3), 2000, pp. 427-446. • Maino F., Il secondo welfare: contorni teorici ed esperienze esemplificative, in «La Rivista delle Politiche Sociali», 4, 2012, pp. 167-182.• Oecd, Government at glance, Oecd Publishing, Paris 2017.• Pais I., Provasi G., Sharing economy: a step towards «re-embedding» the economy?, in «Stato e Mercato», 105, 3, 2015, pp. 347-377.• Shor J., Debating the Sharing Economy, www.msaudcolumbia.org/summer/wp-content/uploads/2016/05/Schor_Debating_the_Sharing_Economy.pdf, october 2014.• Sharitaly, La mappatura delle piattaforme di sharing economy e del crowfunding 2016, http://www.collaboriamo.org/media/2016/11/Sharitaly_2016_mappatura-1.pdf• Scholz T., Schneider N. (eds.), Ours to Hack and to Own: The Rise of Platform Cooperativism, a New Vision for the Future of Work and a Fairer Internet, OR Books, New York 2016.

Davide Arcidiacono è ricercatore in Sociolo-gia dei processi economici e del lavoro pres-so l’Università Cattolica di Milano: [email protected]

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Con quale sguardo osservare l’evolversi dei mondi giovanili alla ricerca di futuro? E con quale sensibili-tà scorgere la loro capacità di non mancare, nonostante tutto, il loro appuntamento con il mondo, con il loro e nostro mondo di adulti? In altre parole, come le nuove ge-nerazioni possono sfidare se stesse a farsi carico del mondo?Sono interrogativi che sulla rivista tornano di continuo, comprensibilmente. Così come sono tornati nei nostri due appuntamenti nazionali a Rovereto di «Cose da fare con i giovani».Proprio il secondo appuntamento nello scorso febbraio ha permesso di delineare qualche riflessione intorno agli interrogativi ora sollevati, perché l’attenzione dei partecipanti è andata a soffermarsi da vicino su come le nuove generazioni si mettano in gioco nel loro modo di aggregarsi, nel loro modo di leggere le sfide, nel loro modo di delineare gli investimenti, nel loro modo – per dirla con un termine classico – di impegnarsi. Dal confronto sono emerse alcune tendenze e modalità di azione tipiche di questa generazione e, prima ancora, si è reso evidente il ruolo attivo del sintonizzarsi di molti giovani con alcune dinamiche sociali, culturali e anche economiche che, più o meno sotto traccia, stanno innescando stimolanti trasformazioni nel modo di organizzarsi e produrre. In particolare, non pochi mondi giovanili sono connessi alla ricerca diffusa dentro il mondo economico-sociale di un diverso approccio per attraversare la crisi attuale, con un’intensa apertura a quel che succede nei mondi dell’economia della

condivisione e della collaborazione, nella convinzione che un «altro futuro» passi dal co-produrre beni, materiali e immateriali, che possano dirsi comuni.A partire da questa angolatura abbiamo pensato e organizzato l’inserto. Dopo una riflessione sulla ricerca pratica e riflessiva di molti giovani nell’ingaggiarsi in imprese generative di futuro, e sulle connessioni tra le loro istanze e quelle alla base della sharing economy (primo articolo), i due articoli successivi offrono una ricostruzione critica di due esperimenti: uno a sfondo professionale e lavorativo (l’avvio della cooperativa di comunità Brigì di Mendatica), l’altro su base volontaria a cui partecipano migliaia di adolescenti e giovani che si sperimentano nell’apprendere a farsi responsabili in prima persona del «mondo» (il Social day di Bassano del Grappa tra scuola e territorio). In chiusura, come rilancio delle ipotesi di lavoro emerse lungo l’inserto, le riflessioni di Andrea Marchesi danno indicazioni di prospettiva ed elementi di metodo per una «pedagogia dell’impegno» con questi adolescenti e giovani.

34 | Carlo Andorlini, Nicola BasileGiovani al tempo della sharing economy

45 | Intervista a Maria Ramella, a cura di Carlo Andorlini e Nicola BasileGiovani che fanno il loro futuro dando futuro al loro paese

55 | Marco Lo Giudice, Riccardo NardelliNon è una scuola quella dove non c’è utopia al lavoro

66 | Andrea MarchesiGiovani alla ricerca sperimentaledi utopia, qui e ora

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Testi a cura di Carlo Andorlini, Nicola Basile, Marco Lo Giudice, Andrea Marchesi, Riccardo Nardelli, Maria Ramella

Inserto del meseParole chiave per lavorare con i giovani/7

Spunti per una pedagogiadell’impegno fra i giovani

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I cambiamenti in atto nel paradigma economico, per un verso parziali e frammentati, per l’altro promettenti e generativi, richiedono una costruttiva riflessione sul-la collocazione attuale dei giovani al suo interno e sugli sviluppi delle politiche ad essi dedicate. Per introdurre in estrema sintesi quale sia la sfida in gioco, prendiamo in prestito le parole di Checky, fondatore di Airbnb, secondo cui «oggi siamo in grado di progettare il no-stro mondo e la sharing economy – economia della condivisione – vorrebbe offrire a tutti la possibilità di immaginare il proprio presente e futuro». Si coglie da subito la forte propensione al futuro, ma soprattutto a vederne le tracce nel presente. Più da vicino, guardando i vari territori si intravedo-no segnali interessanti del cambiamento, dalle coo-perative di comunità che cercano di evitare processi di spopolamento ai coworking che tentano di creare percorsi professionali e di imprenditorialità, dai pro-cessi di start up con valenza sociale e/o culturale e/o ambientale ad azioni di attivazione e gestione di beni comuni a rinforzo di una logica solidale. In questa fase storica di attrazione e investimento sull’economia della condivisione i giovani sono, come sempre, attori «a modo loro» del nuovo e del possibile, protagonisti e vettori del rinnovamento. Tutto questo avviene, va sottolineato, mentre i percorsi della tran-sizione verso l’età adulta sono sempre meno coerenti, tanti giovani cambiano il proprio percorso, l’errore

Carlo Andorlini, Nicola Basile

Giovani al tempodella sharing economy Traiettorie personali e generazionali attraverso la crisi

Molti mondi giovanili si stanno posizionando attivamente dentro i cambiamenti nel modo di pensare e agire che animano la società a livello culturale ed economico. Là dove invece l’aggancio ai cambiamenti non avviene e, più da vicino, non si tessono connessioni fra mondi giovanili e mondi economico-culturali ispirati da una cultura di condivisione e collaborazione,in forse è la capacità delle nuove generazioni di fare leva sulle loro aspirazioni e competenze per non mancare l’appuntamento con il mondo. Ma come e con chi ingaggiarsi qui e ora in imprese oltre le contraddizioni del nostro tempo?

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diventa un elemento determinante. La sequenza temporale non è più certa e i tempi si dilatano, come si vede nelle dinamiche di formazione e lavoro che convivono a lungo nella vita di tutti. Per altri versi, si attenua il confine tra produttore e con-sumatore, anche nella dinamica socio-culturale, aprendo spazi di protagonismo e co-produzione. Il quadro emergente, di rottura dei classici percorsi di vita, è foriero di possibilità innovative, però è necessario non nascondere lo spiazzamento di molti giovani, la loro difficoltà a inserirsi in questi contesti e l’emergere di nuove forme di disugua-glianza sociale. Il nostro ruolo, il ruolo di chi pensa, affianca e cerca di sintonizzarsi con i nuovi contesti giovanili, forse è proprio quello di cogliere il portato di ciò che avanza, le indicazioni metodologiche e le visioni che il paradigma reca con sé, provando a elaborarne una critica che lo renda sensata prassi di lavoro.In tale direzione nel presente articolo proviamo a tracciare degli elementi di ri-flessione e dei fattori di criticità per tratteggiare poi alcuni spunti metodologici e mettere a fuoco le principali sfide. Proviamo dunque a inquadrare la ricerca di sintonizzazione tra giovani e sistemi che si muovono nel solco della collaborazione e della relazione densa.Stiamo dentro un orizzonte che da un lato affascina, dall’altro interroga. E che in ogni caso, abbandonando retoriche o depressive o esaltanti, pone sfide di grande portata. Non a caso la riflessione avviene all’interno di un «inserto» della rivista che si conclude con una riflessione sull’impegno e l’aspirare dei giovani che – anche per questa caratteristica – risultano il gruppo sociale più capace di leggere i mutamenti sociali ed economici e di produrre immaginazione e azione di cambiamento per sé e per le proprie comunità. Tra l’altro, per dare forza alla riflessione, approfondiamo nel prosieguo dell’inserto due esperienze animate da giovani: la Cooperativa di comunità Brigì e il Social day.

Quale economia di condivisione e collaborazione?Nei processi inizialmente elencati si genera una sorta di co-produzione del servizio e del prodotto, fondata sulla collaborazione e/o sulla condivisione tra loro sempre più collegate alla gestione del bene comune, all’accrescimento della propria rete personale/professionale e della propria reputazione e all’allargamento del proprio mercato di riferimento, dove da consumatore si diventa prosumer e si partecipa con altri alla costruzione di ciò di cui si ha bisogno.Quando parliamo di sharing economy siamo, tuttavia, all’interno di un insieme complesso dove è opportuno distinguere l’economia della condivisione dall’eco-nomia della collaborazione. I due termini non sono dei sinonimi. Per chiarire la distinzione si possono riprendere le parole del «Libro verde» sull’e-conomia collaborativa curato dalla Regione Toscana quando afferma:

La principale distinzione concettuale è tra forme di mera condivisione materiale e forme di condivisione che implicano o generano relazioni collaborative via via più

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intense e/o gradualmente sempre più disintermediate. Con la prima tipologia si condividono beni, servizi, risorse esistenti sfruttando la capacità inutilizzata, mentre con la seconda si possono generare nuove relazioni, nuove imprese di proprietà degli o governate dagli utenti, imprese cooperative o sociali, nuovi servizi e beni pubblici. (1)

Smontare le retoriche per raccogliere le sfideÈ facile comprendere come il nuovo modello (2) possa stimolare, da un lato, un pensiero entusiasta che vede nella sharing economy il superamento dell’attuale sistema capitalistico (in primis J. Rifkin (3)), dall’altro una riflessione pessimista (4)

che la interpreta come una nuova fase del capitalismo, estremamente aggressiva rispetto ai diritti dei lavoratori (5) e alle regolamentazioni nazionali (6).In ogni caso tutti concordano sul fatto che questo sistema economico sta producen-do una serie di nuove sfide/problemi (7) e di inedite opportunità. E così è opportuno ragionare sulle occasioni che si producono nel mercato sociale (8) integrabili nel lavoro con i giovani.Nell’ottica descritta, nel segmento delle iniziative sociali troviamo alcuni esempi interessanti. Wikipedia, che attraverso la collaborazione e la condivisione degli utenti produce conoscenza accessibile e condivisibile, oppure le Social street, che puntano a ricostruire il senso di comunità legate all’appartenenza territoriale o, più da vicino, esperienze come la cooperativa di comunità Brigì.

La prospettiva di un’intelligenza cittadinaSiamo di fronte a un fenomeno minoritario (9), che non toglie affatto valore alle esperienze, anzi forse ne aggiunge. La tipologia delle esperienze ora indicate risulta infatti intrigante perché offre piste di lavoro ai giovani, alle comunità locali, alla Pubblica amministrazione (10) e al mondo del terzo settore (11). Appaiono interessanti

1 | Dal Libro verde della Regione Toscana #col-laboratoscana – per un’agenda regionale sull’e-conomia collaborativa, http://www.regione.toscana.it/-/-collaboratoscana-economia-colla-borativa-e-beni-comuni 2 | Alcuni autori, tra cui Arun Sundararajan, pensano che in realtà non siamo di fronte a mo-delli completamente innovativi, ma a una fusio-ne su modalità del capitalismo pre-company e innovazione tecnologica. Cfr. Sundararajan A., The Sharing Economy: The End of Employment and the Rise of Crowd-Based Capitalism, Mit-Press, 2016, Kindle Edition.3 | Rifkin J., La società a costo marginale zero, Mondadori, Milano 2014.4 | Vedi su: http://www.doppiozero.com/mate-riali/web-analysis/rifkin-e-il-capitalismo5 | Vedi su: https://www.economyup.it/food/tutto-quello-che-bisogna-sapere-per-capire-il-caso-foodora/6 | Vedi su: https://altreconomia.it/amazon-le-

tasse-cambiare-non-cambiare-nulla/7 | Ad esempio: come regolamentare le profes-sioni e il lavoro? come coniugare il diritto ai consumi con la buona produzione? come evi-tare che un turismo low cost diventi turismo irrispettoso verso le persone e i luoghi? come tenere insieme un sistema di trasporti pubblico con iniziative estremamente personalizzate? 8 | Vedi su: http://www.chefuturo.it/2016/07/sharing-mercato-sociale-condivisione/9 | Comito V., La sharing economy. Dai rischi incombenti alle opportunità possibili, Ediesse, Roma 2016, p. 22.10 | Vedi su: http://www.corrierecomunica-zioni.it/pa-digitale/42513_sharing-pa-ivana-pais-valorizzare-le-idee-dei-cittadini.htm?utm_source=twitterfeed&utm_medium=twitter11 | Vedi su: http://www.vita.it/it/arti-cle/2016/05/06/circular-economy-unopportu-nita-per-il-non-profit/139312/

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perché in prospettiva consolidano un’intelligenza cittadina (12) di cui, ancora una volta, i giovani, soprattutto quelli con maggiori competenze, possono essere motore. Nel nuovo ecosistema, se da un lato diventa possibile attraverso il web 2.0 far conoscere le proprie istanze sociali e aggregare persone intorno a problematiche collettive, ambientali e culturali (13), dall’altro invece si è in grado di promuovere le proprie competenze, farle diventare professionalità, costruire possibili carriere. Ed è proprio nell’ecosistema ora tratteggiato che ci interessa osservare cosa sta accadendo per cogliere in profondità quanto l’approccio ibrido alimenti nuovi lavori giovanili, nuovi processi inclusivi, nuovi contesti di crescita culturale e sociale.

Il prendere forma di un inedito potenziale educativoSiamo convinti che l’evoluzione sociale ed economica, che porta a descrivere la nostra come società circolare (14), alimenti con intensità la strutturazione a rete (social network...), la realizzazione di spazi fisici e/o digitali di scambio (piattaforme on line, servizi di scambio...), la costruzione di relazioni di mutuo e auto-aiuto (movi-menti organizzati attraverso la rete, attivisti civici…) e la realizzazione di pratiche di collaborazione e di condivisione (makerspace, coworking...).In altre parole, l’avvento della logica collaborativa rappresenta una sfida da non perdere, perché porta con sé un paradigma socio-culturale (oltre che economico) con un potenziale educativo molto alto. Ad alcune condizioni che vedremo nelle pagine seguenti, essa contiene fermenti fortemente generativi per i giovani e per le loro comunità.

Nuovi attori dentro nuovi cantieriDentro la sfida che la logica collaborativa lancia con forza si intravedono orizzonti teorici, ipotesi progettuali, iniziative concrete, plurali e contaminanti, spesso piccole ma molto significative. Non senza ambivalenze. Troviamo stimolanti provocazioni nei giovani con alcune caratteristiche che li vedono aperti e per nulla chiusi nei loro mondi, interessati a riempire di senso gli spazi in cui si muovono, transitanti in modo da arricchire le proprie competenze, in movimento e con una bussola che indica la direzione, ma non necessariamente la meta.

Più aperti che chiusi, senza appartenenze esclusive Per molti versi almeno, le nuove generazioni non si appoggiano a rendite di posi-zione ma a capacità di azione, non cercano più un’appartenenza esclusiva ma uno

12 | «Social network, cloud, device mobile, big data, oggetti in rete saranno gli strumenti dei quali si servirà il genere umano per produrre l’intelligenza cittadina», in Vianello M., Smart cities, Maggioli, Sant’Arcangelo di Romagna,

2013, Kindle Edition.13 | Castells M., Reti di indignazione e speranza, Università Bocconi Editori, Milano 2012.14 | Cfr. Bonomi A., La società circolare. Deri-veApprodi, Roma 2016.

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scambio di conoscenze, non mirano al possesso ma alla possibilità di accesso a beni e servizi. L’esigenza di scambiare nelle relazioni (il 25% dei giovani baratta e uno su quattro viaggia con sconosciuti) porta a uno straordinario cambio di approc-cio: si trasformano le esperienze sociali, le modalità di partecipare alla vita della comunità e soprattutto le dinamiche di lavoro. Prima prevaleva il rispetto delle gerarchie come organizzazione verticale, oggi predominano i rapporti orizzontali. E se il lavoro era funzionale al mantenimento della famiglia, adesso è mezzo di realizzazione personale, in linea con la ricerca del «chi sono» e, allo stesso tempo, del «cosa mi definisce».

Riempitori di vuotipropensi all’autorganizzazione Il riprendersi cura della comunità è alla base di straordinarie e inaspettate risposte pratiche. Risposte che nascono da un semplice quanto mai perentorio «allora ci organizziamo» e si articolano a partire da una forbice molto larga di possibili mo-venti: dalla disperazione alla reazione, dalla voglia di riscatto all’idea di cambiamento ma anche all’idea di innovazione. Risposte che nascono dalla convinzione che le comunità possono essere resilienti, costruire rapporti di reciprocità, assumersi corresponsabilità nelle risposte.Emergono esperienze sociali e aggregative che rimettono al centro l’impegno e la voglia di spendersi per la propria comunità e per gli altri. Come viene raccontato nell’articolo sul Social day, dove i ragazzi, dalle elementari alle superiori, si mettono in gioco per un’impresa collettiva che porta a maturare la cittadinanza attiva e la solidarietà internazionale. Allo stesso tempo si delineano percorsi lavorativi che uniscono professione, valori personali e coscienza di luogo in un unico contesto costruendo – di fatto – «atti» capaci di incidere politicamente sul proprio contesto o territorio (proprio perché svincolati spesso dall’aiuto pubblico, dal condizionamento di una politica assente o carente).Nel loro insieme questi esperimenti rimandano a metodi di lavoro che sostituiscono l’unilateralità (io fornisco, produco, vendo) con processi di reciprocità e circolarità di comunità, con percorsi imprenditoriali in cui si agisce per cambi di paradigma economico in grado di alimentare indirettamente cultura civica.Gli esempi non esauriscono la gamma delle attuali «reazioni» positive. Vogliono solo aprire un varco di visione su come le carenze abbiano generato risposte molto «spostate» sulla comunità, con la comunità, «fuori» dalle organizzazioni e «dentro» i contesti.

Transitanti tra competenzeche delineano «carriere» Ormai le carriere dei giovani vivono a intermittenza. In un ritmo così complesso la tenuta di molte storie che a macchia di leopardo vediamo in Italia è dovuta a un modo nuovo di intendere l’esperienza socio-lavorativa. Un modo che concepisce il percorso lavorativo come temporaneo, prodromo di altre esperienze future, all’in-

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terno di filiere che prevedono il passaggio da una fase precedente a una successiva.E il tutto non è vissuto come un difficile itinerario verso la stabilità, ma come un percorso positivo di formazione che, passo dopo passo, permette di rafforzare i legami di contesto, allargare il raggio di azione, costruire nuovi nodi professionali.Esiste un’innovazione «riflessiva» (15) che è originata dal ragionevole dubbio sulle nostre condizioni di vita e fa leva sull’immaginazione e sperimentazione di nuovi modi di lavorare, di consumare e di cercare di intervenire nella società (16).Per questo possiamo usare il concetto di «transito», in cui l’esperienza (da quella del tirocinio, a quella del servizio civile fino alle prestazioni professionali) è tappa fondamentale per accrescere le proprie competenze, avere un rapporto di lavoro/esperienza retribuita, ma soprattutto incrociare persone, legami, reti necessari all’approdo lavorativo successivo (17).

Il movimento per direzione compresi gli erroriOsservando una generazione giovanile che prova a farcela, che si concentra nel pensare di uscire da una possibile deriva del «disorientamento immobilizzante» verso invece una rinnovata «motivazione generatrice», ci sono delle interessanti ricorrenze che si generano o si rafforzano in particolare dove, a un adattamento individuale, si preferisce l’elaborazione di una risposta collettiva.• Anzitutto la carriera per direzione e movimento, dove sviluppare una carriera non significa inserirsi su binari predefiniti in base all’organizzazione o alla figura professionale (quindi subendola), ma piuttosto costruire i binari stessi in base alle proprie caratteristiche e aspirazioni (quindi interpretandola).• In secondo luogo la libertà dalla burocratizzazione del lavoro, che significa passare dall’idea di un format «predestinato» e «preimpostato» (con tanto di orario, pause, vacanze da programmare in tempo, recuperi, ecc.) a un tempo «liberato» che si «muove» nell’arco dello stesso giorno e dei mesi.• Infine la formazione continua sempre, anche nel lavoro, dove di fatto, mentre si agisce, ci si orienta, si perlustrano altri ambiti e, soprattutto, si cerca di imparare cose che permettano «lo sconfinamento professionale».

Sguardi diversi, per cogliere i percorsi possibiliGli elementi tratteggiati portano a leggere sotto una luce diversa le prospettive sociali ed economiche legate all’agire dei giovani. Forse, come ci ricorda Andrea Marchesi nell’articolo conclusivo dell’inserto, è necessario cambiare sguardo per liberare l’immaginario, perché solo così saremo in grado di cogliere quelle esperienze minoritarie fatte di impegno civile, sociale e politico, come anche quelle intraprese

15 | Bovone L., Lunghi C. (a cura di), Resistere.Innovazione e vita quotidiana, Donzelli, Roma2017. 16 | Ivi.

17 | Per fare un esempio, nel Terzo settore la percentuale più alta di ingressi lavorativi arriva dai giovani che hanno fatto un’esperienza di servizio civile in quell’ente.

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temporanee che sembrano abbondare nell’epoca attuale.Solo attraverso un nuovo sguardo saremo in grado di comprendere che quella molteplicità variegata di esperienze – che a volte appare contraddittoria e senza senso – può diventare, a condizione di una riflessione collettiva, un laboratorio di futuro e soprattutto un’esperienza prodromica alla transizione verso la vita adulta. Ancora una volta, chi lavora con i giovani si deve confrontare con una complessità che emerge dal cambiamento del paradigma economico-culturale. Sarà necessario ricercare – forse sarebbe meglio dire co-ricercare, in quanto l’operatore stesso è soggetto di tali mutamenti – il senso del proprio lavoro e la valenza promozionale dell’attività quotidiana.

L’attenzione ai beni comuniCi troviamo in un grande contenitore collaborativo dove rileviamo tendenze gio-vanili multiformi e diversificate capaci di affrontare la sfida con una loro visione. È fondamentale mettere in luce la dimensione che più di ogni altra produce vici-nanza e fusione di intenti fra giovani e collaborazione: la tensione al bene comune.Molte esperienze connesse alla narrazione dell’economia della condivisone e della collaborazione pongono come elemento centrale lo sviluppo della comunità attra-verso l’utilizzo e/o l’attivazione di beni comuni. Il riferimento principale e storico sono gli studi di Eleonor Ostrom (18), che definisce il concetto come beni utilizzati da più individui, che per differenti ragioni non prevedono esclusioni e il cui consumo è legato alla fruizione degli attori in campo. Gli esempi classici sono i prati dedicati al pascolo, oppure i mari in cui si pratica la pesca.Oggi si riflette su come i processi dell’economia circolare e del digitale ne stiano modificando la definizione. Gli elementi centrali sembrano essere, da un lato, una vicinanza, quasi una sovrapposizione, tra chi produce i servizi e chi ne usufruisce, dall’altro la semplificazione dell’accesso all’esperienza, anche perché spesso i nuovi beni comuni, per crescere, hanno bisogno di un alto numero di soggetti, in quanto la loro produzione e il loro mantenimento è intimamente legato alla condivisione delle conoscenze, delle competenze e all’apprendimento collaborativo. Tutte queste esperienze, infine, prevedono e crescono grazie ad alti livelli di fiducia e alla scarsa presenza, a volte addirittura assenza, di sanzioni per chi viola le regole (19).

L’implicazione soggettivain piattaforme collaborativeVogliamo mettere in evidenza, infine, come i beni comuni oggi richiedano una signi-ficativa e progressiva implicazione personale. Spesso assistiamo a una transizione dal volontariato sporadico, all’impegno costante, sino al passaggio all’attività lavorati-

18 | Ostrom E., Governare i beni collettivi, Mar-silio, Venezia 2006.19 | Il tema delle sanzioni non può essere sotto-

valutato. Appare importante proteggere i beni comuni e le risorse umane che li producono da abusi.

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va. Le diverse tappe/fasi appena descritte incrociano la prospettiva dell’economia della condivisione e della collaborazione. Ad esempio, è evidente come l’impegno volontario e il lavoro retribuito convivano in Wikipedia, nei last minute market e nei makerspace, e come spesso questo mondo produca occasioni professionali e di crescita importanti e significative per i ragazzi.Nella direzione delineata si apre una discussione sulla fecondità delle piattaforme collaborative (20) oppure sull’esigenza di forme di economia della condivisione e della collaborazione semi-centralizzate e che poggino su una moltitudine di comunità collaborative, che vanno dai giardini comunitari agli orti condivisi, dai gruppi di acquisto solidali ai modelli di monete alternativi.Tutto questo vede i giovani, in particolare grazie alle opportunità che il web offre in termini di scambio e confronto, protagonisti attivi, soggetti competenti e capaci di immaginarne futuri possibili. Comprendono quasi naturalmente la centralità del legame debole, della costruzione del network (fatto di interazioni fisiche e virtuali) e dell’utilizzo delle reti lunghe. Per le traiettorie di vita dei giovani, ad esempio, può essere utile sia uno scambio leggero con un coetaneo appena tornato da Londra e in grado di fornire informazioni fresche, sia un percorso di orientamento con un professionista. Le generazioni che si affacciano al mondo del lavoro sono abituate a essere nel flusso dell’informazione, molto più di quelle che le hanno precedute (21)

e in tale fiume informativo navigano e costruiscono le loro prospettive future. Ma, come vedremo, ciò è vero per molti, ma non per tutti.

La disponibilitàall’apprendere collaborativoChi lavora con i giovani deve esserne cosciente, perché sempre più il suo ruolo diventa quello di promuovere occasioni, facilitarne l’accesso e costruire connes-sione. Il nodo preoccupante è come mantenere i soggetti più fragili all’interno di percorsi sempre meno definiti.In effetti negli attuali beni comuni stiamo passando, per riprendere la metafora di Ostrom, dal pascolo consumato in base alla numerosità dei capi di bestiame, al campo delle conoscenze che cresce in relazione all’aumentare dei partecipanti e al loro modo di interagire, dove la svolta passa dall’apprendimento collaborativo, dai processi di condivisione e dalle pratiche di cooperazione che sono, pertanto, i punti nevralgici di metodo di lavoro da porre al centro del lavoro con i giovani, soprattutto se si vuole agire su un piano promozionale. Oltre a garantire un accrescimento delle competenze dei giovani permettono di far crescere i beni comuni, di costruire sul territorio piattaforme abilitanti (22) e di orientare il ruolo dell’operatore verso una funzione da gatekeeping e di cura della qualità dell’esperienza (23).

20 | Gorenflo N., How Platform Coops Can Beat Death Stars Like Uber to Create a Real Sharing Economy, vedi su: www.shareable.net/blog/how-platform-coops-can-beat-death-stars-like-uber-to-create-a-real-sharing-economy21 | Non vogliamo sottovalutare le criticità con-

nesse alla disintermediazione dell’informazione.22 | Basile N., Imbrogno G., Giovani attivi nel-le piattaforme sociali abilitanti, in «Animazione Sociale», 307, 2017, pp. 69-79. 23 | Cappa F., L’occasione educativa del lavoro materiale, in «Animazione Sociale», 309, 2017.

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Uno spazio in cui le istituzionipossono ripensare il loro compitoLa genesi circolare dei nuovi beni comuni, se pur in una fase aurorale, aiuta a far maturare parti di società e ad ampliare le capacità di intervento delle istituzioni (24), in particolare delle amministrazioni locali. Le politiche giovanili e la valorizzazione del ruolo dei giovani, sempre più appaiono strategie funzionali ad aumentare la densità relazionale all’interno delle città e a moltiplicare gli spazi di azione sociale e di condivisione collaborativa. Viene posta al centro la comunità, forse sarebbe meglio dire le micro comunità. Le persone si avvicinano per assonanza, per comuni passioni e le idee collidono fino ad arrivare a proposte di cambiamento sociale.Come ci insegnano le esperienze delle cooperative di comunità, il rilancio del ciclo economico può essere un volano fondamentale per riattivare il ciclo sociale, quello culturale e, fondamentalmente, per rendere un territorio generativo.

La sollecitazione a uscire dalle polarizzazioniPurtroppo la discussione è viziata da posizioni preconcette che non aiutano a comprendere fino in fondo le questioni. Per cui, troviamo letture che vedono nell’economia della condivisione e nell’economia della collaborazione modelli neces-sariamente virtuosi e in grado di generare innovazione sociale e crescita economica, altre che invece la interpretano esclusivamente come meccanismo che lentamente sta smontando le politiche, i servizi pubblici ed erodendo i diritti dei lavoratori (25).Evitare polarizzazioni permette di mettere in luce gli attori sociali, i dispositivi più interessanti e le reali opportunità, evitando adesioni a retoriche trionfalistiche che non consentono di cogliere i limiti e i rischi del modello circolare.Educare gli attori, in particolare i ragazzi e le ragazze, a comprendere la differenza tra i due modelli appare fondamentale sia per evitare strumentalizzazione e erosione dei diritti, sia per provare a innescare processi di rigenerazione delle comunità. Le esperienze che vediamo sui territori portano con sé spesso tale ambiguità. Si muovono sul confine tra economico e sociale, ma quasi sempre hanno un’elevata potenzialità educativa che può permettere di apprendere competenze e strategie funzionali alla propria vita. Chi affianca i giovani spesso si muove sul confine e sostenendo la produzione di iniziative sociali e pre-economiche promuove com-petenze «funzionali» al contesto economico.

Appunti di metodo di lavorofra giovani e operatoriGuardare con questo rinnovato sguardo permette di comprendere quali siano gli scenari in cui i giovani (a prescindere da fatiche e difficoltà strutturali in ascesa

24 | Nell’ottica della teoria delle reti di azioni sono i set di azioni che permettono la costru-zione dei network, delle organizzazioni e la ri-

generazione delle istituzioni.25 | Recalcati M., L’ora di lezione, Einaudi, To-rino 2014, p. 41.

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nel nostro Paese) si stanno muovendo. Su quali caratteristiche personali puntano, con quale atteggiamento relazionale, che competenze trasversali stanno costruen-dosi. E poi a quale «mondo nuovo» si stanno affezionando. Un mondo che parla insistentemente di condivisione e fiducia e che ha come traiettoria l’idea di una società collaborativa (nell’economia, nella formazione, nella vita sociale...) e la prospettiva di una crescita individuale legata alle competenze relazionali e a un metodo collaborativo, orizzontale nei rapporti fra giovani e operatori, dove il ten-tativo è creare luoghi di cooperazione nei quali condividere desideri e aspettative. È centrale la costruzione di meccanismi attraverso cui, partendo da aspirazioni individuali, si possano costruire processi collettivi. Il punto non è tanto la tecni-calità del coworking, del makerspace oppure del vecchio centro di aggregazione, quanto la costruzione di un movimento relazionale, inclusivo e aperto al territorio. Ed è così che i giovani diventano interpreti di processi che, da un lato, rigenerano le istituzioni esistenti (il comune, la scuola, le organizzazioni, le imprese, ecc.) e, dall’altro, invece, pongono le basi per nuove istituzioni. Nel quadro abbozzato, il ruolo dell’operatore, spesso, è quello di rendere fruibili le possibilità e creare delle connessioni sistemiche (26). Ancora una volta, il tentativo non può che essere la connessione di traiettorie individuali all’interno di contesti collettivi. Sono tre le parole chiave che, nel contesto attuale, influenzano maggiormente il metodo di lavoro.

Lo sviluppo di una transizione fortemente cittadina Pensare alle politiche per i giovani significa ragionare sulle politiche di sviluppo di una città. Se le politiche per l’autonomia dei giovani funzionano, funzionerà sicuramente anche la crescita della città. Non è vero il contrario.Le politiche per l’autonomia giovanile a livello locale, ambito più vicino al contesto di vita sociale e lavorativo, devono promuovere politiche di prossimità. In questi anni, in cui la disoccupazione giovanile appare uno dei problemi principali, è però importante non ridurre gli interventi a favore dell’aggregazione giovanile, dei tirocini, degli inserimenti lavorativi, degli interventi di accelerazione di im-presa, ecc. È fondamentale che la transizione dei giovani verso la vita adulta abbia una dimensione fortemente sociale e – come abbiamo descritto nella prima parte dell’articolo – spesso è proprio grazie a questa che nascono passioni e accrescono competenze che poi, in un secondo momento, aprono a percorsi professionali.

L’innovazione che fa leva sulla densità relazionaleNelle politiche giovanili l’innovazione da curare e da implementare è quella che utilizza la densità relazionale come stile e anche come ecosistema di riferimento. Tutto ciò che avviene grazie allo scambio relazionale permette all’innovazione

26 | Basile N., Imbrogno G., art. cit.

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di essere sociale e sostenibile. Il processo di rinnovamento coglie in maniera si-gnificativa le questioni che coinvolgono le nuove generazioni dalla sostenibilità alla tecnologia, dalle sfide ambientali all’apertura globale. Così diventa un driver fondamentale per entrare in contatto con alcuni mondi e per sostenere alcune esperienze che da aurorali possono diventare consolidanti e consolidanti di alcuni modi di pensare e agire. Sostenere i processi descritti significa anche fare avanzare il Paese, le città, i paesi.

L’inclusione che passada ibridazioni connesseLe politiche dello sviluppo e dell’innovazione, se disegnate in contesti a forte scam-bio relazionale, orizzontalità di rapporti e costruzione di spazi aperti, si aprono a tutti i livelli sociali e gerarchici tipici nel nostro sistema organizzato. Perciò ri-guardano potenzialmente tutti i giovani, nessuno escluso. Dove il contesto si apre, si apre anche la possibilità di accoglienza. Dove il contesto si apre, si generano nuovi luoghi informali di rilevazione del bisogno. Dove il contesto si apre, si legittimano situazioni di confine. E allora verrebbe da dire che tutto quello che abbiamo visto nelle pagine preceden-ti, e il tanto altro che potremmo vedere in un’altra occasione, non funzionerebbe senza il rapporto produttivo e permanente con la comunità. Proprio per le ragioni esposte è necessario mitigare i processi di disintermediazione in atto. L’operatore è ancora quello che aiuta e promuove processi di mediazione all’interno dei contesti permettendo, così, di ricostruire pezzi di comunità. Grazie soprattutto alla sen-sibilità collaborativa, può favorire processi inclusivi dove la presenza dei giovani diventa fondamentale e i posizionamenti tradizionali (chi educa, chi insegna, chi è educato, chi impara) si confondono e diventano orizzontali favorendo forme ibride e fortemente connesse.

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Mendatica, pochi chilometri da Ventimiglia. Un pic-colo paese, di circa 160 abitanti, che abbarbicato sul monte Frontè domina l’Alta valle Arroscia. Arrivia-mo in una calda giornata. Ad accoglierci il palazzo comunale e una bella chiesetta in stile barocco. Dopo pochi minuti giunge Maria Ramella, una delle socie fondatrici di Brigì – dal nome della pecora brigasca, tipica della zona – insieme andiamo verso il Parco Av-ventura, cuore pulsante della cooperativa di comunità. L’aria è fresca, il sole scalda e si percepisce subito il clima frizzante dei contesti giovanili. I ragazzi si muo-vono continuamente, facilitano bambini e famiglie all’interno del Parco Divertimento e offrono momenti di relax al piccolo chiosco. Parlando con alcuni di loro emerge la passione per il territorio, per le montagne e i percorsi che le attraver-sano. A pranzo Ludovico ci racconta degli asini e del corso formativo a cui ha appena partecipato per la costruzione del basto da lavoro per gli asini. Brigì, una delle prime cooperative di comunità nate in Liguria, il socio più giovane 19 anni, il più grande 34. In totale un gruppo di 22 ragazzi e ragazze che si stanno prodigando per gestire un bene comune e produrre del valore aggiunto per loro stessi e la comunità. La valorizzazione del territorio diventa una strategia per offrire opportunità ai ragazzi di Mendatica e contrasta-re la dinamica dello spopolamento. Così nel loro rac-conto troviamo amore per il territorio, collaborazione

Intervista a Maria Ramella a cura di Carlo Andorlini e Nicola Basile

Giovani che fanno il loro futuro dando futuro al loro paeseBrigì a Mendatica (Im),una cooperativa del farsi comunità

Si ripete, spesso in tono enfatico, se non imbarazzante, che il lavoro i giovani devono inventarselo. Compito certo più necessario di ieri, che non ha senso tuttavia caricare solo sulle spalle delle nuove generazioni. Un alleggerimento del peso può avvenire là dove il lavoro stesso è visto in una prospettiva diversa, come evento cooperativo dove in gioco è il futuro dei luoghi e delle economie locali. E dove al centro si pone un’idea di lavoro ispirato a logiche di condivisione e collaborazione, che rimanda a forme inedite di «apprendimento cooperativo» degli attori economici e politici locali.

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generazionale e tra generazioni, utilizzo delle tradizioni per innescare processi di marketing territoriale, promuovere circuiti virtuosi e far evolvere l’identità locale.

Tutti giovani,alcuni giovanissimiMaria, raccontaci un po’ di voi, chi siete?

Brigì nasce dall’idea di tre ragazzi che, grazie al sostegno della Proloco e dell’Ammi-nistrazione comunale, hanno deciso di spendersi per valorizzare il proprio territorio fondando così una delle prime cooperative di comunità. La partecipazione a Coop Startup Liguria ha permesso di accrescere le nostre competenze e di raccogliere un piccolo capitale da investire. Oggi siamo impegnati nella gestione del Parco Av-ventura, del Rifugio, di un Cte, centro per il turismo escursionistico, di Mendatica didattica (attività didattiche per scuole e gruppi) e di alcuni servizi forestali, come la pulizia dei sentieri.In cooperativa siamo 13 soci e 14 dipendenti, tutti giovani, alcuni giovanissimi. È la nostra caratteristica principale ed è bello pensare di offrire possibilità a chi sta crescendo, però è anche un elemento di criticità perché molti ragazzi sono alla loro prima esperienza lavorativa e non sempre comprendono la fortuna di lavorare in una struttura sul territorio dove si può partecipare ai processi decisionali. Con i ragazzi più grandi è più semplice, sono più coscienti dell’opportunità che rappresenta Brigì.La cooperativa di comunità è di fatto una cooperativa di lavoro per cui prevede che il socio sia dipendente, oppure abbia la partita Iva, altrimenti può essere socio finanziatore ma non può lavorare. Tali vincoli rendono difficile l’allargamento della base sociale. Una delle nostre collaboratrici, ad esempio, avrebbe voluto diventare socia ma non potendo assumerla non è stato possibile. Peccato, un’occasione persa.

Dove vi ha portato la consapvolezza dei molti vincoli lavorativi?

Nessuno di noi lavora full-time, tutti siamo coinvolti per alcuni servizi che coprono solo determinati periodi dell’anno. Il ciclo produttivo, purtroppo, al momento è ancora stagionalizzato, infatti, in agosto, tutti siamo impegnati almeno 15-20 ore settimanali. Nei mesi invernali, invece, sono tre o quattro i ragazzi che continuano la propria azione e solo per 5-10 ore alla settimana. La maggior parte lavora nel Parco Avventura, aperto da aprile a settembre. Una ragazza segue il rifugio escur-sionistico che funziona tutto l’anno. Dal punto di vista occupazionale il nostro obiettivo, nei prossimi tre anni, è sta-bilizzare almeno tre contratti. Pensiamo che sia utile offrire contratti part-time a tempo indeterminato in modo che i ragazzi, soprattutto quelli che hanno imprese familiari di tipo agricolo, possano comunque portare avanti l’attività dei genitori. Se non si costruisce questo tipo di mix abbiamo constatato che i ragazzi sono costretti a trovarsi un lavoro in città e, se va bene, sostengono i genitori durante il week end. Alla lunga le persone non ce la fanno e sono costrette ad abbandonare il business, così sparisce un attore economico e pian piano anche gli abitanti del paese.

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Il raggiungimento del nostro obiettivo pensiamo possa concorrere a interrompere lo spopolamento di Mendatica.

Il territorio comeopportunità di lavoroChe cosa vi ha spinto a intraprendere l’avventura di Brigì?

La Proloco e l’Amministrazione comunale hanno sempre facilitato la partecipa-zione dei giovani nella gestione del Parco Avventura e del Rifugio. L’esperienza cresciuta sull’impegno dei volontari stava diventando insostenibile, da un lato, per la gestione amministrativa e, dall’altro, perché non si riusciva a sfruttare a pieno le opportunità del territorio.Così abbiamo pensato: «Perché non proviamo a prendere a pieno le occasioni pre-senti a Mendatica? Perché non cerchiamo di creare posti di lavoro?». Ne abbiamo parlato con la Proloco, con il sindaco ed è sembrata una buona idea. Francesco Meoli, attuale presidente di Brigì, aveva elaborato la stessa riflessione, così il sindaco ha organizzato un momento in cui potessimo scambiarci delle proposte, in questo modo abbiamo iniziato a condividere l’idea di Brigì. Poi, una volta coinvolta anche Paola, abbiamo deciso di far nascere una cooperativa. Non pensavamo a una cooperativa di comunità, non sapevamo neanche cosa fos-sero, però appena ne hanno parlato i funzionari di Legacoop abbiamo capito che era la nostra strada. Inizialmente avevamo pensato a una cooperativa, perché l’idea era di promuovere un progetto che vedesse la collaborazione di diverse persone. Un’iniziativa economica che potesse essere un’occasione per i ragazzi. La coope-rativa di comunità sembrava perfetta perché permette di associare l’elemento della collaborazione e la dimensione economica connessa all’amore per il territorio e le sue tradizioni. Insomma, ogni volta che la strada sembrava aprirsi, prontamente si faceva più lungo il percorso. A una svolta, però, è spuntata la necessità di Brigì.

Puoi spiegare?

C’è stato un momento, quando stavamo individuando i contratti di lavoro, in cui abbiamo temuto di aver sbagliato, perché la cooperativa di comunità è un’idea bellissima, ma poi sei una cooperativa di lavoro e quindi dal primo giorno di ope-ratività devi avere dipendenti contrattualizzati. È fattibile ad Alassio, che offre una serie di occasioni, è un po’ più difficile qui, dove le opportunità sono più limitate. Poi abbiamo risolto i nostri problemi con il contratto a chiamata per il turismo. Lo stiamo utilizzando ancora, anche se vorremmo abbandonarlo perché non offre molte garanzie, né per i lavoratori né per noi che paghiamo contributi altissimi; prima però dobbiamo far maturare nuove situazioni di lavoro per dare stabilità economica all’organizzazione. Anche il fatto che i volontari fossero per lo più pensionati ci ha spinto verso la co-operativa di comunità, loro hanno a disposizione molto tempo, ma la prospettiva futura di supporto è a medio termine. I giovani, invece, per condizioni lavorative ed

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esistenziali possono mettere a disposizione sempre meno tempo. L’unica soluzione, per non vedere un impoverimento delle iniziative e del paese, era creare le condizio-ni per cui alcune attività producessero valore e quindi posti di lavoro. Ecco Brigì.

È stato difficile?

Molto. Bisognava essere strutturati e noi non lo eravamo. Oltre tutte le attività c’era-no anche gli adempimenti (stendere il bilancio, compilare le fatture e ricevute, ecc.). Gli aspetti burocratici, però, devono essere vissuti come vincoli che permettono di strutturarsi e di crescere. Passo dopo passo migliora il livello di organizzazione e le cose diventano più semplici. Abbiamo ancora tanta strada da fare. L’aspetto più delicato è stato pagare i nostri stipendi. Inizialmente emergeva una sorta di senso di colpa, pensavamo che con quei soldi avremmo potuto comprare un imbrago oppure sistemare meglio una parte del Parco. Dopo abbiamo capito che era fondamentale pagarsi, perché quello era diventato il nostro lavoro. Soprat-tutto per chi arrivava dall’esperienza della Proloco, è stato ed è ancora un aspetto complicato. Quando si passa da un’azione volontaria a una lavorativa è strano farsi retribuire, però è fondamentale per far crescere l’organizzazione.

Una questione di connessioniIl percorso che descrivi è ricco di incontri, persone, organizzazioni e istituzioni che hanno saputo abilitare i giovani. Ma quali sono gli eventi che ti hanno portato a investire in questa esperienza?

Personalmente, sia per educazione familiare sia per l’esperienza maturata alla Proloco, ho deciso che sarei tornata a vivere a Mendatica. La mia tesi triennale, motivata dall’interesse verso il territorio e dal recupero della tradizione, ha visto l’elaborazione dello studio del Piano di gestione e di valorizzazione territoriale. Inizialmente l’attenzione era verso l’aspetto ingegneristico e tecnico. Nel percorso ho compreso quanto il turismo fosse fondamentale per Mendatica e ho deciso di partecipare attivamente alla Proloco. Il salto di qualità, sia per me sia per gli altri due soci fondatori, è stato il bando di Coop Startup perché ha cambiato la nostra consapevolezza, sono aumentate le nostre conoscenze amministrative, di marke-ting, di gestione dell’organizzazione, ecc. Dopo Coop Startup abbiamo capito che la cooperativa era un’azienda e da lì abbiamo sviluppato nuovi comportamenti. Abbiamo compreso che era necessario coniugare la passione per il territorio e per le tradizioni con una gestione aziendale orientata alla sostenibilità. La formazione è stata fondamentale, sono un ingegnere edile e di organizzazione e cooperativa non ne capivo molto, adesso riesco ad orientarmi.

Raccontaci meglio di Coop Startup…

Era un bando che promuoveva la nascita e il sostegno di neo cooperative. La call era semplicissima, bastava presentare l’idea di business e allegare i Cv. Hanno par-

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tecipato 91 gruppi e sono state selezionate 30 idee. Nella fase successiva abbiamo seguito delle lezioni sulle logiche cooperative, il modello di business, gli aspetti economici e di marketing. Dopo circa un mese è stato avviato un laboratorio sulla stesura del business plan e un corso on line sulla comunicazione, il ruolo del datore di lavoro e altri temi. A gennaio abbiamo presentato il business plan e sostenuto un esame orale. Alla fine siamo stati selezionati tra i primi dieci progetti. Questo ha significato vincere un contributo di attuazione di 15.000 euro in tre anni, un contributo di 5.000 euro a fondo perso e un corso di economia presso l’università di Genova. Durante la formazione abbiamo compreso la necessità di lavorare in gruppo e di promuovere le potenzialità di tutti.

Passione per il territorioe scelta del gruppoQuindi la consapevolezza dell’importanza del gruppo di lavoro è emersa lentamente? Sì, sia il gruppo sia la comunità hanno avuto un ruolo fondamentale, ma l’abbiamo compreso con il progredire dell’esperienza. Inizialmente pensavamo che la coo-perativa l’avremmo costituita e gestita in tre. Non abbiamo riflettuto sul valore del collettivo. Non ci siamo chiesti se il nostro fosse il team giusto e se ci fossero le competenze necessarie. Questi ragionamenti li abbiamo maturati dopo la nascita della cooperativa nel tentativo di colmare le lacune. Anche perché, a differenza di molte altre startup, noi abbiamo come asset centrale la passione per il territorio, il legame con la nostra comunità e le nostre tradizioni. Questi sono gli elementi che tengono unita Brigì. Strada facendo, capita l’importanza del gruppo, abbiamo cercato – e stiamo cer-cando – di promuovere un lavoro sempre più condiviso. C’è ancora molto da im-parare, in particolare rispetto alle azioni mirate a far crescere lo spirito di gruppo e la comunicazione interna. Ne avevo parlato un po’ anche nella presentazione di Rovereto (1). Avevo raccontato delle riunioni interne che organizziamo una volta al mese: possono sembrare noiose e retoriche, ma in realtà sono un momento per condividere con tutti i soci come sta crescendo Brigì, anche con i più giovani che magari non ne sono pienamente consapevoli. Il rapporto con la comunità è stato altrettanto determinante anche perché, una parte importante di essa, ha promosso la nostra nascita.

E l’altra parte?

L’altra fatica a credere in quello che realizziamo. Quando presentiamo l’esperien-za di Brigì fuori da Mendatica siamo pienamente apprezzati, in paese invece una parte della comunità è critica. Poi, dopo aver spiegato ogni azione, mostrato che non rubiamo e che realizziamo delle attività a favore del territorio, forse, il nostro lavoro viene apprezzato. Il recinto che vedi, ad esempio, è stato eretto grazie a noi,

1 | Brigì è stata una delle 20 esperienze discusse a «Cose da fare con i giovani/2» (Rovereto, 24-25

febbraio 2017), evento promosso da Animazione Sociale, Associanimazione, Provincia di Trento.

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il Comune da solo non ci sarebbe riuscito. Per un mese intero tutte le mattine lo trovavamo distrutto in alcuni punti. Oppure appena è iniziata la pulitura sistematica del parco sono stati pubblicati dei post su Facebook che raccontavano che con il soffiatore sporcavamo lo scivolo dei bambini. Anche durante la prima settimana di pulizia del parco abbiamo trovato i bidoni della spazzatura rovesciati e tagliati.

Come avete reagito?

Ci siamo detti che è comprensibile una resistenza alle iniziative innovative. Proprio perché funzionano, cambiano alcuni rapporti interni alla comunità.Questa spegazione non ci bastava, non volevamo arrenderci alla confusione che poteva crescere. E così l’anno scorso abbiamo deciso di dedicare un filone di co-municazione alla comunità. Le nostre classiche modalità di divulgazione, basate sul web e i social network, non erano adatte agli abitanti di Mendatica, così stiamo provando a sviluppare contenuti specifici, a usare linguaggi differenti e a costruire nuovi momenti di contatto in modo da far apprezzare il valore della nostra azione.Nella presentazione utilizzata nel 2016 spieghiamo che tipo di contratti lavorativi applichiamo, come gestiamo la cooperativa e, infine, presentiamo il nostro bilancio. Poi raccontiamo che paghiamo le bollette della corrente elettrica – molti pensavano che il costo fosse sostenuto dal Comune – ,che abbiamo reso free la wi-fi in alcune zone di Mendatica e che realizziamo una serie di attività gratuite per la cittadinanza. La comunità nel suo insieme comincia a comprendere l’apporto del vostro lavoro al futuro dei giovani e di Mendatica?

Sì, all’ultima assemblea – oltre ai soliti sostenitori – c’erano trenta persone contro le cinque dell’anno prima. Significa che stiamo riuscendo a raccontare bene le nostre attività. Chi viene più o meno apprezza ciò che facciamo. L’aspetto più riconosciuto è la capacità occupazionale, infatti diamo lavoro a molti ragazzi. Più difficile far comprendere l’importanza che a farlo sia una cooperativa nata da giovani del paese. Per molti anche se fosse una Srl che viene da Milano sarebbe identico. Altro elemento difficile da comunicare è la strategicità dell’investimento sulla va-lorizzazione territoriale. Negli ultimi mesi stiamo cercando di uscire dai limiti di Mendatica strutturandoci maggiormente e collaborando con il Parco (2) e con altre associazioni in modo da dare una strategia turistica all’Alta valle Aroscia che ha delle potenzialità inespresse. Il percorso descritto è fondamentale per la nostra cooperativa, per Mendatica e per tutte le comunità dell’Alta valle Aroscia.

L’innesco promettentedi un circolo virtuosoDal vostro punto di vista quali sono gli aspetti su cui lavorate in un’ottica di bene comune?

2 | Parco naturale regionale delle Alpi liguri: è esteso nei Comuni di Osio d’Arroscia, Men-

datica, Montegrosso Pian Latte, Pigna, Rezzo, Rocchetta Nervina, Triora.

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Il business di Brigì si basa su Mendatica, così investire sulla nostra attività significa valorizzare il paese e questo produce un circolo virtuoso che ci permette di crescere e di fare del bene al territorio. Vi racconto una storia semplice, ma che rappresenta il nostro spirito imprenditoriale. Stavamo pulendo il paese in occasione della festa della Cucina bianca (3) e Paola mi dice: «Dovremmo chiedere alla Protezione civile se ci presta il mezzo una volta ogni due mesi per pulire il paese». Io le chiedo: «Secondo te dobbiamo chiedere un corrispettivo economico al Comu-ne?». Lei: «Se ci danno il mezzo con il gasolio, per noi è un vantaggio avere il paese pulito, per cui, possiamo farlo anche gratis». Un’altra volta abbiamo contribuito gratuitamente a tener aperto l’Info point Iat per due anni. Per noi è una logica naturale e normale, ma ci stiamo rendendo conto che non è scontato e a volte insospettisce le persone, perché pensano che ci sia «dietro qualcosa di strano». Invece noi, da una parte, lo facciamo perché siamo legati al nostro paese (a tutti fa piacere il parco sistemato come un giardino e il paese pulito), dall’altra, perché fa parte dell’azione imprenditoriale della cooperativa. È un investimento sul territorio che riguarda tutta la comunità: da un lato, è un’a-zione di riqualificazione della filiera e, dall’altro, è un’attività di tenuta sociale ed economica del paese. Tutto questo però non viene percepito. Se fossimo una coo-perativa sociale e portassimo la spesa all’anziano probabilmente sarebbe tutto più comprensibile, perché queste dinamiche sono già attive all’interno della comunità.

Una governance con un rapporto a treCome sostegni avete avuto la Proloco, il Comune, Legacoop...

Praticamente la governance del territorio e della cooperativa funziona perché c’è un rapporto a tre: Brigì, Proloco, Amministrazione comunale. La Proloco è stata fondamentale perché attraverso la sua azione volontaria ha creato le attività che hanno permesso alla cooperativa di nascere e oggi prosegue nella sua azione in stretta collaborazione con Brigì. Il valore aggiunto della Proloco è l’averci trasmesso l’idea che se vuoi fare qualcosa è necessario organizzarsi e che è importante dedicare del tempo agli altri e al proprio territorio. Le altre cooperative di comunità che conosciamo sono generate da un trauma: la chiusura dell’ultimo bar, la presenza di un borgo disabitato, ecc. La particolarità di Brigì, invece, è che nasce in maniera quasi spontanea in un’ottica di valorizzazione del paese. È un percorso di auto-organizzazione sostenuto da alcuni ragazzi per far esplodere le potenzialità di Mendatica. L’Amministrazione comunale ha facilitato e sostenuto le iniziative della cooperativa, in una comunità così piccola senza collaborazione sarebbe stato difficilissimo far crescere Brigì. Iniziare a gestire il Parco Avventura non pagando un affitto, ma fornendo dei servizi alla comunità è stato di grande aiuto. Ha permesso, da un lato,

3 | Cucina bianca, il penultimo sabato di agosto. È una rassegna di piatti di origine prevalente-

mente povera, anticamente base alimentare dei pastori.

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di aumentare i nostri volumi di lavoro e quindi i dipendenti, dall’altro, invece, ha alleggerito la nostra situazione finanziaria in quanto abbiamo potuto concentrare le risorse economiche solo per il pagamento degli stipendi e dei costi aggiuntivi (spese fisse, corrente, assicurazioni, collaudi, ecc.).

Il supporto di una rete di cooperativeE Legacoop a cui hai accennato in precedenza?

Legacoop, insieme a Coop Start Up, ha reso possibile la nascita di una rete di coope-rative. Nel nostro percorso abbiamo capito che più avremmo condiviso con le altre cooperativa, più ci saremmo supportati e più le nostre realtà sarebbero cresciute. Tutti i partecipanti erano laureati, con master, con esperienze diversificate e ciò ha permesso di alzare continuamente il livello dell’esperienza. Coop Startup ha dato forza a Brigì e a tutto il gruppo.I corsi sono stati importantissimi, averli organizzati a «Condiviso» – spazio di cowor-king che si occupa anche di gestione del territorio e di turismo – e non in università ha offerto maggiori stimoli, tante piccole attenzioni che hanno permesso di creare un bel gruppo. Con gli altri soci di Brigì si parla spesso di Coop Startup e riteniamo che l’utilità principale sia stata l’apprendimento di nuove conoscenze, l’accrescimento delle nostre competenze e l’innovazione del nostro modo di lavorare. Con i soldi abbiamo fatto parecchie cose: aggiustato gli appartamenti, realizzato una formazione in ambito di comunicazione, ecc. Le risorse economiche sono state determinanti per la decisione di partecipare, ma oggi capiamo che erano l’aspetto meno importante. Il sostegno di Legacoop è stata importante anche dopo Coop Startup, perché ha continuato a offrire strumenti alle cooperative nate dal progetto. Tanto che con le altre startup abbiamo promosso una rete e continuiamo a lavorare insieme. Noi portiamo, ad esempio, le nostre iniziative a Genova alla Notte bianca dei bambini, per noi non sono attività particolarmente innovative, ma nel capoluogo sì. Avere un legame con Genova, con altre cooperative che sono più innovative, più aperte ai cambiamenti, permette – anche a noi – di essere più dinamici e capaci di guardare al futuro. Se fossimo rimasti da soli sarebbe tutto più difficile.

Quindi avete creato spazi di condivisione con le altre cooperative conosciute a Coop Startup?

Sì, praticamente è nato tutto da un gruppo di WhatsApp. Al momento siamo una rete informale che si chiama Giovani innovatori Liguria. Come spazio fisico uti-lizziamo Tatabox – spazio che crea servizi per studenti – oppure Condiviso dove ci riservano delle sale in cui possiamo incontrarci per confrontarci, coordinarci e progettare nuove proposte. Le collaborazioni sono nate all’interno delle relazioni: ad esempio, Condiviso, ha supportato Brigì sul marketing territoriale, sono venuti a Mendatica, ci hanno

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aiutato a riorganizzare i contenuti e ad impostare un piano di comunicazione. Sono stati fondamentali. La collaborazione, in spirito cooperativistico, sta andando avanti e per noi è fondamentale perché Condiviso è una realtà di professionisti che lavora nell’ambito della promozione del turismo locale da oltre dieci anni. Mentre con Tatabox collaboriamo anche perché la presidente è la responsabile di Generazioni Liguria. Gli organizzatori di Coop Startup non si aspettavano tale ricettività da parte nostra, invece abbiamo cercato di cogliere al massimo ogni opportunità.

Gli elementideterminantiVolgendo lo sguardo all’indietro, quali sono per te gli elementi determinanti del vostro lavoro?

Difficile, ma ci provo. Il primo elemento è stato semplicemente sperimentare che impegnandosi si raggiungono dei risultati. Secondo elemento è aver visto la cre-scita della Proloco, non si sono mai fermati, passo dopo passo sono andati sempre avanti. Questo ha fatto bene a loro, ma anche a Mendatica. Lo stesso discorso vale per l’Amministrazione comunale che ha sempre cercato di andare oltre, ampliare i contatti, rafforzare le reti esistenti e costruirne di nuove.Altro fattore, credo, sia stato la fortuna di avere a che fare con persone e organizza-zioni che avevano una visione di futuro. A Mendatica abbiamo imparato che puoi lavorare per modellare il futuro e, se riesci a farlo insieme agli altri, è ancora più probabile raggiungere gli obiettivi prefissi. Poi è stato essenziale che il Comune abbia investito sul territorio, non solo sulle opere fondamentali come le strade e l’acquedotto, ma anche su attività ludico-aggregative come il Parco Avventura oppure la Festa della Cucina bianca che porta in paese oltre 4.000 ragazzi. Questo ha permesso di sviluppare senso di appartenenza, di affezionarsi a Mendatica e ha posto le basi per la nascita di Brigì. Altra questione centrale è che i ragazzi fondatori di Brigì hanno vissuto una parte della loro vita lontani dal paese (le scuole superiori, l’università, alcune esperien-ze lavorative). L’ibridazione delle esperienze ha permesso di guardare al nostro territorio in maniera diversa, di portare nuovi stimoli e innovare i processi sociali. Infine, l’ultimo aspetto, Mendatica, ci viene detto spesso: «È un’avanguardia». Ini-zialmente alcune attività (per esempio, la Cucina bianca) hanno funzionato e poi si è sempre cercato di innovare e fare nuove iniziative. Alcune non hanno funzionato e sono state eliminate, altre proseguono. Però tutti dicono: «A Mendatica, avete una marcia in più». Io credo che sia solo la scelta di non accontentarsi dell’esistente.

Quando si parla di innovazione il pensiero va subito alle App, alla Piattaforma digitale. Voi invece fate proprio altro…

Noi non volevamo fare innovazione sociale, ma solo aprire un’attività economica e per farlo in un paese di 120 abitanti devi fare innovazione ed essere sostenibile per forza, altrimenti fallisci. La cooperativa di comunità è lo strumento, non il fine. Ci

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hanno chiamato al convegno «Mattone alla comunità» di Perugia e loro vedevano la cooperativa di comunità come obiettivo per far rinascere i paesi dopo il terremoto. Personalmente non credo sia sufficiente, ci dev’essere uno spazio di condivisione e un rapporto forte con il territorio.Quello che permette di far nascere una cooperativa di comunità è il legame tra il lavoro svolto e il territorio/comunità. Noi possiamo fare pulizia dei sentieri piuttosto che gestire un rifugio o un Parco Avventura, ma lo scopo unificante è rivalorizzare e far vivere Mendatica. Partiamo dalla prospettiva economica e poi, rilanciato il ciclo economico, cerchiamo di riattivare i vari cicli: sociali, culturali, ecc. La cooperativa di comunità è un mezzo, non il fine. Cosa è cambiato da quando avete iniziato a lavorare?

La questione principale è che in paese c’è un’attività in più, se noi ragionassimo in percentuale c’è stato un incremento di posti di lavoro molto importante. Ci sono 13 ragazzi che hanno un progetto e una visione comune e ciò è fondamentale perché partecipano alla costruzione di un futuro per Mendatica. Poi sono successe tante cose, molte inattese: ad esempio, è stato significativo l’interesse e il sostegno del mondo cooperativa dopo l’alluvione che nel 2016 ci ha duramente colpito. Altret-tanto importante per noi è l’interesse che è nato intorno a Brigì, è stato molto bello essere invitati a Rovereto e poterci confrontare a partire dalla nostra esperienza. Infine, un elemento di cui andiamo particolarmente fieri, è la costruzione di una prospettiva collettiva per i ragazzi della valle. Qualche giorno fa parlavo con Chia-ra, una delle nostre socie, e mi raccontava che quando andò a Genova a studiare pensava che non sarebbe mai tornata a vivere a Mendatica. Adesso, invece, abita in paese. Nella scelta, mi diceva, ha pesato anche il fatto di aver visto nella cooperativa un’idea di futuro per il paese.

Tre sfide per il futuroPer concludere ci racconti le criticità dell’esperienza e tre sfide per il futuro?

A volte siamo poco preparati e professionali rispetto ad alcuni servizi che offriamo e quindi dobbiamo migliorare, come, del resto, è necessario crescere sulla capacità di disegnare i nostri business model e redigere business plan. L’altra criticità è la ca-pacità di coinvolgimento della cooperativa, vorremmo aumentare il nostro numero di soci in modo da accrescere il coinvolgimento della comunità. La prima sfida è realizzare tre contratti part-time, come ho raccontato all’inizio dell’intervista. La seconda, realizzare «l’albergo diffuso» perché a Mendatica ci sono molte case sfitte che non sono particolarmente adeguate, sarebbe sufficiente un intervento strutturale minimo e una messa in rete per farle diventare un’occasione turistica, economica e sociale. L’ultima sfida è quella di uscire dalla dimensione comunale e partecipare allo sviluppo di una strategia territoriale più ampia per promuovere il turismo nella nostra valle.

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I banchi radunati al centro della classe, come un gran-de tavolo quadrato, le sedie attorno, i docenti scrutano un ordine del giorno pieno, si andrà ben oltre l’orario previsto, forse si farà sera. C’è chi sbadiglia, chi correg-ge compiti, chi risponde a una telefonata. È il momento di accordarsi sulle attività extra-curricolari della classe: gite, progetti, iniziative. Ed ecco, una voce sentenzia gelida: «Questa classe fa già troppe cose, non c’è spazio per il Social day», qualcuno annuisce, qualcun altro tace contrariato, e si prosegue pertanto con il punto successivo. È vero. Nella scuola dei soli risultati, del futuro calcolato, del rischio minimo, per il Social day non può esserci spazio. In questa scuola, l’utopia non ha posto. Eppure, in educazione, non c’è niente di più serio dell’utopia. Niente che richieda tanto spazio quanto l’utopia. Vedere qui, ora quel che ancora non c’è, e agire di conseguenza, è un gesto rivoluzionario, rivoluzione che si fa educazione e che segna l’esistenza in un orizzonte di senso (1).

Marco Lo Giudice, Riccardo Nardelli

Non è una scuola quella dove non c’è utopia al lavoro Il Social day dei giovani in azione tra scuola, territorio, mondo

Le nuove generazioni soffrono, fino a nutrire ansia e paura per la linea evolutiva della società e del mondo intero, proprio perché più di altre generazioni si sentono dentro la «madre terra», dove il qui e l’altrove sono percepiti mondi contigui. Come trasformare tale ansia in aspirazione all’aver cura del mondo come luogo di auto-realizzazione? Se non viene coltivata e praticata dentro i vincoli che ci assediano, questa aspirazione rischia di farsi mortifera. Essa invece può alimentare forme di azione, anche economiche, dove ragazzi e ragazze si fanno parte attiva nel cambiare il mondo qui e ora per cambiare il mondo altrove.

* | Il testo cerca di condensare in poche pagine due pomeriggi a Rovereto di scambi intensi e profonde riflessioni con i giova-ni e le giovani del Social day italiano, in occasione del Conve-gno «Nuove generazioni Altre generatività» del 24-25 febbraio 2017. Per informazioni: [email protected] | «Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci pas-si più in là. Per quanto io cammini, non lo raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare», in Galeano E., Parole in cammino, Sperling & Kupfer, Milano 2006, p. 255.

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La possibilità di sporcarsi le maniper occuparsi del mondoLa sfida del Social day comincia da lontano, mezzo secolo fa, dalla nostalgia e dalla riconoscenza per un gigante d’Europa, Dag Hammarskjöld. All’indomani della sua morte improvvisa nei cieli africani, in un incidente aereo le cui cause non saranno mai del tutto chiarite, un gruppo di giovani delle scuole superiori svedesi decide di istituire una giornata a lui dedicata per raccogliere fondi da destinare ai Sud del mondo. Seguendo uno sviluppo carsico, discontinuo, per certi versi fortuito e casuale lun-go tutta Europa, nel 2007 questa esperienza approda a Bassano del Grappa, e in dieci anni coinvolge la provincia vicentina e altri territori in Veneto, Lombardia, Toscana e Trentino. Nel 2017 partecipano al Social day quasi 10.000 studenti con un raccolta fondi di circa 90.000 euro.

Un processo intenso di cittadinanza attivaL’algoritmo è semplice: in una giornata scolastica di primavera, dal forte valore simbolico – il Social day, appunto – migliaia di bambini, ragazzi e giovani sono coinvolti in un’attività «retribuita» il cui guadagno andrà a finanziare dei progetti di cooperazione internazionale e solidarietà. I lavori possibili sono tanti quanti sono i ragazzi coinvolti: dall’orto del vicino, alla fabbrica dello zio; dal negozio del centro, alla propria parrocchia; dalla fioreria al supermercato; dall’inserimento dati alla mungitura del latte. La costruzione di questa giornata diventa un processo intenso di cittadinanza attiva, attraverso il quale i giovani – durante la scuola – possono vivere momenti formativi sui temi dei diritti, della pace e della giustizia, e sperimentare la possibilità di farsi portavoce dei loro pari, coinvolgendoli e formandoli a loro volta. La finalità intrinseca del Social day è, quindi, raccogliere fondi da destinare a progetti di coo-perazione; ma è anche – verrebbe da dire soprattutto – promuovere, in una giornata simbolica, l’azione di una città sensibile in cui le giovani generazioni «chiamano» il territorio ad attivarsi in iniziative solidali, attraverso modalità ispirate allo sporcarsi le mani e al fare insieme.

Il giorno di chi credeche si possa cambiare il mondo

È un concetto di giustizia. La ricchezza nel mondo è mal distribuita per cui in realtà quando noi facciamo del bene, non siamo migliori di altre persone, semplicemente stiamo facendo il giusto, stiamo cercando di equilibrare la ricchezza. (Stefano)

Chi partecipa al Social day, chi vive il lungo processo che conduce alla giornata d’azione, vuole cambiare il mondo. Anzi, crede che si possa cambiare il mondo. Ecco, non si può raccontare il Social day se non si tenta di comprendere a fondo

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che cosa implichi questa convinzione nei giovani coinvolti. Una convinzione che nasce necessariamente da un passo iniziale, da un cominciamento, con il quale si chiede ai ragazzi una profonda presa di coscienza rispetto alla «condizione uni-versale del mondo» (2). Non è scontato, e non è facile, avviare il Social day da un’istantanea del contempo-raneo che non sia già interessata a produrre una volontà di cambiamento e trasfor-mazione. Difficile attestare il fallimento del liberalismo, la crescita di ingiustizie e disuguaglianze, la promessa di libertà – cuore del pensiero moderno – tradita a Sud dell’occidente, il divario tra pochi che hanno tanto e un’infinità che vive con nulla; difficile condividere un drammatico fallimento di almeno tre generazioni con l’ultima di queste, nata nel nuovo millennio, innocente e oppressa da un presente senza futuro. Il mondo cambia cambiando le regole qui e ora A questo passo necessario, segue l’invito a cambiare il mondo, a cambiarne le re-gole, riconoscendo il fallimento di quelle che l’hanno condotto fin qui. Cambiare le regole, perché non piacciono, perché sono vecchie, perché raccontano di un mondo che non ci appartiene, perché non liberano futuro. Cambiarle subito, con la consapevolezza di avviare un processo prendendovi parte fin dall’inizio. Un invito a un salto folle, paradossale, come Morpheus chiede a Neo in Matrix (3), ma possibile. Il presupposto etico del Social day è la possibilità, che l’antropologo Arjun Appa-durai contrappone alla probabilità (4), in una sottigliezza che produce uno scarto di speranza, che libera immaginario, genera futuro, nutre la capacità di aspirare. Il mondo cambierà? Improbabile, forse, ma possibile. In questa domanda c’è la prima mano tesa ai ragazzi: la disponibilità a crederci, a mettere a dura prova il disincanto e la disillusione del mondo adulto, a tenere a bada le convinzioni socio-politiche, e a immaginare il cambiamento possibile.

Il Social day è un’utopia che diventa realtà. Potrebbe sembrare un controsenso ma lo è. Noi giovani siamo spesso attratti dall’impossibile e forse questo è il motivo per cui un progetto del genere ci attira tanto. (Giada)

È un registro nuovo, un linguaggio della possibilità che non appartiene al quoti-diano dei banchi, delle aule, delle classi, dei voti, e perciò già potente, immediato, nuovo. Ma che richiede immediatamente un aggancio incontrovertibile con il reale: ok, ci stiamo – dicono i ragazzi – ma vogliamo le prove. Perché è possibile, questo cambiamento? O diversamente: che cosa rende possibile il Social day?

2 | Vattimo G., L’ultima lezione del filosofo che lascia l’Università. La verità e l’evento: dal dia-logo al conflitto, in «La Stampa», ottobre 2008.3 | «Devi lasciarti tutto dietro, Neo. Paura, dubbio, scetticismo. Sgombra la tua mente»,

così il personaggio di Morpheus sprona Neo in Matrix.4 | Appadurai A., Il futuro come fatto culturale, Raffaello Cortina, Milano 2014, p. 405.

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Azioni che danno sostanzaalla consapevolezzaL’impalcatura del Social day si salda su alcune azioni. È bene cominciare da qui per comprendere come un giovane si possa sentire agente (attore) di cambiamento. Come si vedrà qualche riga più avanti, la pedagogia del fare qui abbraccia la pedagogia dell’agire, scavando più a fondo nei gradi di consapevolezza dei giovani partecipanti.

Noi siamo un gruppo più ristretto composto da referenti di tutte le scuole, in pratica coordiniamo a livello generale quello che poi si fa all’interno delle scuole. Siamo dietro le quinte di tutti gli appuntamenti pubblici del Social day: la giornata di presen-tazione dei progetti, la giornata d’azione, la conferenza stampa, l’evento finale. Ci troviamo ogni due settimane e, se necessario, anche una volta a settimana. Siamo un gruppo, quindi le responsabilità sono distribuite, c’è un bel lavoro di squadra. (Andrea)

Con il Social day non si fa solamente, si agisce: a partire da una prima fase di forma-zione e informazione sui temi della cittadinanza attiva, della pace e della giustizia – affiancata a momenti di coinvolgimento della cittadinanza attraverso incontri, seminari, convegni, contatti diretti – i giovani interessati a curare l’intero processo del Social day proseguono con le due fasi cruciali, nelle quali il loro coinvolgimento è profondo (5), reale, si potrebbe dire necessario alla riuscita stessa dell’iniziativa.

L’organizzazionedella giornata d’azioneIn queste due fasi – l’organizzazione complessiva della giornata d’azione e la scelta dei progetti da finanziare con i fondi raccolti – i ragazzi sono affiancati dagli opera-tori locali del Social day, giovani adulti con l’obiettivo preciso di incentivare anche nel singolo dettaglio la presenza degli studenti.Per quanto riguarda l’organizzazione della giornata d’azione, i giovani curano con grande attenzione tutte le questioni logistiche e burocratiche sottese al proget-to: la promozione e la sensibilizzazione dell’iniziativa, la formazione per i propri compagni e compagne partecipanti sui temi fondanti il Social day, l’affiancamento ai loro compagni nella individuazione dell’attività da svolgere, personalmente o di gruppo, la registrazione e l’archiviazione delle iscrizioni, la raccolta dei fondi inviati o consegnati ai ragazzi.

La discussione intorno alla scelta dei progetti da finanziareLa scelta dei progetti si concentra invece nei primi mesi dell’anno ed è davvero un momento determinante in tutto il percorso vissuto dai ragazzi: è qui che avviene un incrocio virtuoso di sperimentazione democratica e acquisizione di competenze

5 | Appadurai A., op. cit., p. 241: «Dal punto di vista semantico, democrazia profonda evoca

radici, ancoraggi, intimità, vicinanza e colloca-zione».

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valutative che guardano con attenzione alla qualità, tenendo a un piano inferiore la quantità. In un momento piuttosto sentito – coordinato dai ragazzi – vengono invitati tutti i referenti delle associazioni che, qualche mese prima, hanno parteci-pato al bando per accedere ai fondi raccolti con il Social day. I referenti hanno la possibilità di esporre gli obiettivi del progetto in un tempo rigorosamente uguale per tutti e di soddisfare successivamente, in un momento più informale, le varie curiosità raccolte dai ragazzi. Terminata l’audizione, i ragazzi si ritrovano per scegliere i progetti da finanziare. Con alcuni criteri condivisi in pre-cedenza, la scelta avviene secondo il metodo del consenso: niente voti per alzate di mano, ma un dibattito – anche molto lungo, se necessario – che cerca di dare voce alle opinioni, di trovare i punti di convergenza e di giungere così a una decisione collettiva. Nelle giovani generazioni c’è un rispetto per i processi democratici molto più alto di quanto pensiamo.Prima, durante e dopo queste due fasi, i giovani hanno l’occasione inoltre di par-tecipare agli incontri di Network team (giovani rappresentanti di tutte le aree del Social day), al meeting nazionale (momento «assembleare» del Network) e alla General assembly di Same (che sta per «Solidarity action-day movement in Europe», il movimento che raduna i Social day d’Europa).

Il fare qui e oraper agire altrove nel mondoQuesto coinvolgimento «necessario» si colloca in un orizzonte di senso che tenta di sradicare la solidarietà dalla beneficenza, rifondandola nella reciprocità e in questa precisa e concreta attivazione individuale e collettiva: nella percezione del cambiamento impossibile, o possibile soltanto con meccanismi distruttivi (dell’altro e dell’istituzione), si tenta l’innesto di un’azione che sia di tutti e per questo capace di trasformare. Dalla realtà che ci circonda («l’orto del vicino» da cui cominciare non è mai stata un’immagine così letterale!) fino al mondo intero, producendo cam-biamento a decine di migliaia di chilometri. Una possibilità magnetica per le giovani generazioni: fare qui per agire altrove per cambiare il mondo. Un futuro immagi-nato, «aspirato» qui e ora, che inonda di senso la mia piccola azione quotidiana.

Quando ce lo hanno esposto e ci hanno fatto vedere il video di promozione, mi sono stupito del silenzio che c’era, perché non c’è mai stato un silenzio così a scuola da noi. (Tobia)

In questa direzione, nel Social day la dimensione formativa è legata a doppio filo con il grado di coinvolgimento attivo: se da un lato l’azione di quel giorno – scom-posta in ventimila mani tra badili, scope, pennelli, sacchi, rastrelli – e l’azione di chi realizzerà i progetti finanziati donano realtà al sogno, all’utopia, alla speranza immaginate negli incontri preparatori, dall’altro proprio questo scarto culturale maturato nelle parole e nei pensieri dà radici a quel semplice fare. È un legame che non si può scindere, sono due pratiche assolutamente comple-mentari; i giovani hanno bisogno di sporcarsi le mani e aprire le menti, una con-

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giunzione che racchiude tutto il senso pedagogico del Social day. Una formazione votata all’agire si colloca giocoforza in un nuovo modo di apprendere e al contem-po produrre conoscenza: siamo distanti da una visione economicista e contabile dell’apprendimento, dove una serie di contenuti possono essere travasati da una mente all’altra. Il tentativo è di conoscere il mondo, ascoltarne le voci, raccogliere un pensiero collettivo e restituirlo al mondo con l’azione. È probabilmente quella che Edgar Morin ha definito identità terrestre: «Un pensiero policentrico capace di tendere all’universalismo non astratto, ma consapevole dell’unità/diversità uma-na… nutrito dalle culture del mondo»(6).

Il giocarsi in prima persona nell’impegno e nel conflittoNon si fa, si agisce, quindi. E nell’agire l’adolescente conosce e vive due dimensioni centrali, potenti, eppure così difficili da incontrare oggi nei percorsi didattici e formativi di un ragazzo: l’impegno e il conflitto. L’impegno è l’arte di lasciare un pezzettino di sé in pegno nel mondo, una parte di quel che siamo, di quel che pensiamo e di quel che facciamo. Mi impegno e perciò lascio traccia del mio passaggio, sento il piede affondare nel solco di chi prova strade nuove. L’impegno ha a che fare con la mia capacità generativa di seminare per chi verrà. Dall’altro versante, il conflitto – spesso attutito dalle procedure e burocrazie dell’i-stituzione scolastica – è il ritmo della crescita. Di conflitti il Social day ne conosce tanti, con i docenti, con gli adulti, con le istituzioni politiche, scolastiche, con gli amministratori, e per nessuno di questi è prevista la mediazione di una figura adulta, ma in qualche modo si tenta di coglierne il valore pedagogico e – anche qui – generativo che rende possibile, senza vincitori né vinti, quella «riorganizzazione contingente che ogni relazione ci offre. In ogni incontro e nella relazione che lo sostiene è possibile infatti prestare attenzione alla discontinuità che si apre ad ogni scambio» (7).

Il pragmatisno dei numeri e l’idealità delle scelte

Ovviamente è una soddisfazione vedere i numeri del Social day crescere, ma la cosa che ha sempre contraddistinto le nostre scelte è la ricerca della qualità prima della quantità: a un’espansione incontrollata ed esponenziale (di cui pure il progetto ha potenzialità), abbiamo sempre preferito la forte aderenza ai valori, seppur questa scelta abbia comportato una diffusione più graduale. (Silvia)

La correlazione irrinunciabile tra pensare e fare, enucleata dall’agire, è certamente alla base del patto al quale corrispondono i giovani partecipanti. Da una parte

6 | Morin E., I sette sapere necessari all’educa-zione del futuro, Milano 2001, pp. 64-65. 7 | Morelli U., Il confitto generativo. La respon-

sabilità del dialogo contro la globalizzazione dell’indifferenza, Città Nuova Editrice, Roma 2014, p. 17.

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la presenza di un fine importante, alto, ambizioso: «fare la cosa giusta» ovvero contribuire a «cambiare le regole» a livello globale, a mettere in discussione le di-seguaglianze, impegnandosi nel sostegno della cooperazione internazionale e dello sviluppo locale. Dall’altra la possibilità che questa forma di impegno si traduca in qualcosa di misurabile e riscontrabile. Il Social day – non va dimenticato – è una raccolta fondi: le donazioni ricevute possono fare la differenza ai singoli progetti finanziati, l’aumento di partecipanti significa la possibilità di sostenere un maggior numero di azioni nel Sud del mondo, il tam tam informativo può essere generatore di nuovi interessi da altri territori, e perciò di nuove partecipazioni e altri fondi. Insomma: i numeri contano, eccome. I numeri sono importanti, altroché. E i giovani coinvolti ne sono profondamente consapevoli. Questa sensibilità particolarmente vicina a loro (perché di questo tempo, così irrimediabilmente legato ai numeri: sondaggi, statistiche, numeri di like, di views, numeri che si sproporzionano, tra stipendi e mutui a sei zeri, numeri nei voti, nei crediti formativi, numeri per scegliere, per decidere, per votare) viene improvvisamente compresa, risignificata e restituita da loro al mondo in una con-nessione interessante tra pragmatismo e idealità, tra etica e concretezza.

La tensione forte a includere, incrementare, partecipareI destinatari del Social day – inteso come processo partecipativo di chiamata all’a-zione – sono giovani di un’età compresa tra i 6 e i 19 anni, appartenenti alle scuole di ogni ordine e grado della provincia di Vicenza e di altre province venete ed ita-liane. I più piccoli (scuole primarie e medie inferiori) partecipano per classe (con insegnante), affiancati a un’associazione del territorio, i più grandi partecipano in piena autonomia, individuando loro stessi l’attività da svolgere. Tra i più grandi, dai 16 ai 19 anni, alcuni vengono coinvolti anche in tutto il percorso organizzativo, vivendo un’esperienza di partecipazione piuttosto impegnativa, da novembre a maggio: sono loro a entrare nelle due fasi cruciali descritte sopra, l’allestimento di tutto ciò che concerne la giornata d’azione e la scelta dei progetti da finanziare.Uno stile di lavoro partecipativo a più livelli, quindi, «incrementale, per piccoli gruppi, capace di generare forme altre rispetto a modalità illuministico-paternali-stiche (cfr. chiamate a raccolta dei principali portatori di interesse per discutere di problemi già definiti altrove) o a modalità speculari di tipo assemblearista (dove il mito dell’assemblea sovrana finisce spesso per condurre a decisioni elitarie)». (8)

La partecipazione all’interno del progetto è concentrica e riesce a formare e a coinvolgere i giovani e il territorio a livelli diversi di profondità: uno studente può semplicemente partecipare alla giornata di azione o prendere parte a tutto il processo organizzativo; un’azienda o un cittadino possono offrire posti di lavoro o conoscere il progetto incontrando casualmente gli studenti mentre stanno lavorando. Eppure,

8 | Mazzoli G., Arricchire l’intelaiatura della de-mocrazia, in Costruire partecipazione nel tempo

della vulnerabilità, supplemento di Animazione Sociale, 259, 2012.

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anche chi è solo sfiorato dal progetto viene contaminato dagli ideali di solidarietà, cooperazione e cittadinanza attiva. (Maria)

La fecondità del permearsitra cerchi concentrici L’idea è che tutti possano fare il Social day, chi partecipando attivamente al percorso formativo e organizzativo, chi sostenendo lo staff scolastico incaricato di portarlo avanti nella propria scuola, chi semplicemente aderendo alla giornata d’azione, in un’intensità che può variare e contagiare in maniera diversa e producendo un impatto a sua volta multiplo: l’impatto effettivo e riscontrabile sui micro-progetti di cooperazione internazionale; l’impatto sulla popolazione studentesca che si in-forma e partecipa; l’impatto sulla comunità locale destinataria e promotrice, perché accoglie, riceve e promuove l’impegno dei partecipanti. Questi gradi differenti di partecipazione e di impatto della stessa, che tengono in-sieme senza scollare, sono la sorpresa più grande per i ragazzi: esiste la possibilità di un’azione efficace che lasci il segno, a cerchi concentrici, nelle biografie individuali, nei contesti scolastici, nel territorio e in un angolo di mondo. Io, il mio mondo, un frammento di altro mondo, il mondo intero, fuori da verticismi e forzature rappresentative: due tentazioni di un passato sempre più lontano e sempre meno adeguate a leggere le modalità d’impegno dell’universo giovanile. Nel Social day il vertice non è sulla punta di una piramide ma al centro di una serie di cerchi che si permeano l’un l’altro, in continua osmosi. E chi sta al centro non necessariamente «rappresenta» gli altri, ma porta «in pegno» se stesso – la sua storia, il suo stile, le sue istanze – in una sfida collettiva, con obiettivi alti e strumenti concreti.È una strada nuova, ancora da comprendere a fondo, dove la non rappresentatività non si trasforma in distanza elitaria dalla base (un’equazione alla quale spesso si riduce la percezione del fare politica attuale) ma rimane un processo fortemente inclusivo, seppur con accenti e sfumature differenti. Una strada senza apparte-nenze, manifestazioni di piazza, mobilitazioni ideologiche, ma che porta con sé la quotidianità, i micro-contesti, il cambiamento interiore.

La spinta istituente del cambiamento qui e oraCapacità di aspirare perché ci si sente agenti di cambiamento, dentro di me, intorno a me, nel mondo. Penso, faccio, agisco. Istituisco il cambiamento, e cioè ne getto le fondamenta e il principio. Istituire, non istituzionalizzare: questo rifuggire a qualsiasi classificazione del Social day (alternanza scuola-lavoro? crediti formativi? volonta-riato?) è quanto di più anomalo, fastidioso la scuola-istituzione possa temere. I ragazzi chiedono di dare avvio a processi, non di farsi ingabbiare da strade già scrit-te: sembra che quanto più le strade siano da scrivere, da incominciare, da scegliere, tanto più vengano messe in gioco passione, entusiasmo e serietà. La partecipazione incrementale a osmosi, l’assunzione di responsabilità dei giovani in maniera così radicale, investire una giornata di scuola per mettere il proprio impegno a fianco di

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chi lo farà a decine di migliaia di chilometri, sono tutte provocazioni molto potenti se rivolte all’abitudine tutta adulta di governare istituzionalizzando, cercando di incasellare il cambiamento per renderlo immediatamente comprensibile e – perciò – terribilmente innocuo. Il Social day mantiene un’efficacia tutta particolare se rimane imprevisto e disordi-nato, se inquieta schemi e procedure. In qualche modo, si può dire che se si produce un cambiamento là dove giungono i fondi per dare avvio e sostenere i progetti scelti dai ragazzi, si cerca di agire un cambiamento anche qui, reinventando il modo di aggregarsi, di partecipare, di scegliere, di fare insieme, di essere individuali e col-lettivi senza rappresentanze, senza capi, senza strutture.

La leggerezza intensa degli adulti che partecipanoCon il Social day si tentano percorsi inediti di governance dei processi di partecipa-zione e attivazione giovanili. Si potrebbero definire tentativi di «alleggerimento» di abitudini pedagogiche cariche di strutture e regole; a sostenere l’esperienza di regole ce ne sono poche, seppure molto precise, così come le strutture, le azioni, le scelte. Complesso sì, ma non appesantito. Un grande tentativo di «sollevarsi dalla pesantezza del mondo» (9), come scriveva Calvino, per poterlo cambiare. Leggera sembra essere anche la presenza adulta in un processo che vede al centro di quei cerchi i ragazzi, una presenza non offuscata o intiepidita, ma leggera. Cosa significa e come si può tradurre? In questa esperienza gli adulti sono «leggeri» perché sono presenti in modi differenti, senza invadere: sono garanti del processo, formatori, facilitatori, educatori gli operatori che affiancano i ragazzi; sono media-tori e attivatori i docenti coinvolti; scommettono, investono, rischiano i dirigenti delle scuole partecipanti; accolgono, promuovono, ripongono fiducia le realtà ospitanti, siano negozi, aziende, enti, associazioni, parrocchie. Un mondo adulto a più dimensioni, ingaggiato per sostenere, affiancare, permettere, disporre, discu-tere, co-progettare, collaborare. Il mandato è chiaro: rendere possibile, dagli adulti del potere, sostantivo, agli adulti del potere, verbo. In questa particolare leggerezza si nasconde allora un concetto di cura educativa tutto da scoprire: questi adulti praticano una leggerezza più intensa del previsto, che sembra trasmettere una bruciante passione di esistere. Perché le cose si possono vivere, sperimentare, scegliere e – soprattutto – cambiare.

Lo spazio del rischio per chi vuole educarePer rendere possibile l’esperienza del Social day è in qualche modo necessaria un’assunzione di rischio. Nel Social day tutti rischiano un pochino: rischia la scuola, inserendo l’attività nel Piano di offerta formativa a inizio anno e perciò, di fatto,

9 | Calvino I., Lezioni americane, Mondadori, Mila-no 2016, p. 16.

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coprendo con l’assicurazione scolastica un’attività molto particolare e fuori dal comune; rischia il titolare dell’azienda, il commerciante, il genitore, il prete, l’am-ministratore che accoglie i ragazzi, spesso senza conoscerli; rischiano i giovani partecipanti, che si incaricano dell’amministrazione di tutta la raccolta fondi. Questa dimensione di rischio porta con sé una cifra educativa molto precisa: chi sta al gioco del Social day è disposto a osare, a spingere abitudini, paure, reticenze qualche passo in là, ad accordare fiducia a tutti gli attori coinvolti. È disposto ad assumersi rischi, e perciò responsabilità. In un assurdo gioco di parole, l’istituzione educativa (scuola, famiglia, associazione) che oggi non sa rischiare, rischia di non educare più alla responsabilità. Attenzione, assumersi rischi non significa agire in maniera sconsiderata: significa produrre cambiamenti evolutivi nelle pieghe assicurative, nelle logiche che scaricano barili, nelle paure e ansie camuffate da regole e postille; significa tentare strade nuove, sperimentare, conoscere, fallire, in una parola: apprendere.

Le potenzialità del relativismo dei giovaniLa gioventù intercettata dal Social day non sembra conoscere il nichilismo che la contraddistingue nelle parole e nelle opinioni di buona parte della sociologia con-temporanea. Forse agisce, al fondo, un ritorno delle ideologie che hanno mobilitato gli studenti quarant’anni fa? Oppure c’è qualcosa di nuovo che aggancia i ragazzi, per un momento, consegna loro un orizzonte di senso e li fa agire nel mondo? Ma come possono essere quegli stessi ragazzi raccontati in maniera così differente? L’ipotesi è che un certo relativismo contemporaneo sia all’origine di entrambi gli immaginari, e che però non si sia colta abbastanza – se non per nulla – la potenza di questo relativismo nell’immaginario delle giovani generazioni. Altro che assenza di ideali, cinismo e utilitarismo: in gioco è la disponibilità a far uscire dalle tasche la propria verità, a condividerla con le verità altrui, a cogliere la pluralità di storie, culture, tradizioni, sguardi sul mondo. «Nella diversità, non contro la diversità… dentro l’arcobaleno della varietà umana, al centro della scala di grandezza e di valori, non in cima»(10), in un vizio tutto occidentale di guardare al pianeta. È qui che stanno i ragazzi del Social day: conoscono il mondo, ne colgono le verità plurali e agiscono per «affermare il diritto e la volontà di condividere con gli altri la responsabilità della cultura universale», come scrive il poeta senegalese Alioune Diop.

La forza del sogno della «terra dall’ampio sguardo»E allora non può essere un caso che il Social day sia un’esperienza profondamente europea. Nasce in Svezia, per diffondersi in tutto il Nord Europa, in Germania, nei Balcani e da qualche tempo anche qui in Italia: è la rete di Same, il movimento che raduna tutti gli action day per la solidarietà internazionale in Europa.

10 | Aime M., Gli specchi di Gulliver, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 93.

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Non può essere un caso perché questo relativismo capace di agire nel mondo porta con sé il sogno della «terra dall’ampio sguardo» (così dice l’etimologia d’Europa), e cioè: non essere al centro, ma ricordare al pianeta che queste lande hanno co-nosciuto la difficile libertà del decidere insieme, hanno saputo accogliere, creare, conoscere, convivere, scoprire, hanno saputo ricominciare dall’umano, dalla sua dignità, dal suo diritto a essere felice. Nel Social day questo sogno tenta la via della concretezza in uno scambio intenso tra i paesi, per condividere buone prassi e importare pratiche partecipative, lavo-rando in gruppi misti, con finalità collettive e con un pensiero a ciò che sta oltre i confini, in una logica di paziente apertura degli stessi. E in questo processo si ha la sensazione vivida di contribuire alla costruzione di un’Europa «dal basso».

L’Europa del Social day è l’Europa che mi piace. È un mondo bellissimo che non credevo esistesse. Se si guarda ai giornali si vede solo la crescita dei gruppi nazio-nalisti, muri che si alzano e paesi che si allontanano. Non si può negare che tutto ciò accada, è vero ma non c’è solo questo anzi, è solo una piccola parte. L’Europa giovane è un’Europa che crede nel lavoro di gruppo, che non guarda da che Stato provieni o come ti esprimi. Se anche il tuo inglese non è perfetto ti accetta, l’impor-tante è farsi capire. È una vera e propria famiglia. Ognuno ha le sue tradizioni e le sue particolarità ma queste non sono motivo di scherno o divisione, nient’affatto. Costituiscono un elemento di curiosità e sono rispettate. Ci si diverte assieme ma si lavora anche tanto. Non lo si fa in camicia e cravatta, in lussuose stanze d’albergo attorniati dai giornalisti. Ci si ritrova in ostelli economici, indossando abiti magari trasandati e ballando tra una riunione e l’altra, ma si è super produttivi. Si riesce a creare cose inimmaginabili persino per i più grandi imprenditori. Semplicemente si crede nel progetto e ci si impegna come si può. È l’Europa del futuro, quella che forse era nei pensieri più primitivi della nostra comunità ma che mai si è vista. (Giada)

La disponibilità di tantia «sortirne insieme» «Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è la politica», scriveva don Lorenzo Milani con i ragazzi di Barbiana in Lettera a una professoressa. Il tentativo del Social day è il medesimo: si può partecipare, si può agire, si può cambiare il mondo. Numeri alla mano, è possibile. Ma non può valere una logica meramente generazionale. Non è dei giovani, questo percorso. È di tutti, e proprio perché di tutti, i giovani hanno pari dignità, nessuna minorità ma pieno diritto a esserci, qui, ora, oggi, pronti a cambiare. È la sfida della comunità locale, della comunità Italia, della comunità Europa, della comunità mondo: mettere in comune il dono reciproco del proprio impegno, della propria irriducibile presenza, un obbligo collettivo ciascuno nei confronti dell’altro, sia esso al nostro fianco, o a diecimila chilometri dalla mia porta di casa, dalla mia scuola, dalla mia vita.Il Social day funziona perché non è l’ennesimo giocattolo, un altro «spazio dedi-cato», una parentesi in mezzo a miriadi di sentenze; non è gentile concessione né pacca sulla spalla. È una seria assunzione di responsabilità collettiva, che parte dalle giovani generazioni ma che abbraccia tutti, nessuno escluso.

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Rispetto alle rappresentazioni dell’adolescenza con-temporanea c’è una dimensione che sembra comple-tamente evaporata. Si tratta del conflitto, ovvero della dimensione che ha accompagnato la genealogia della categoria di adolescenza definita, per tutto il ’900, come inquieta, turbolenta, ribelle (1). Più specificamente sembra essere scomparsa, almeno dal punto di vista della narrazione socialmente diffusa, la figura dell’adolescente che trova nella ribellione, nella contestazione e a volte nell’impegno politico-sociale le forme privilegiate per esprimere la propria soggettività. Se l’adolescenza ha preso forma come categoria inda-gata dalle nascenti scienze umane attraverso la catego-ria del conflitto, con tutto il conseguente allestimento di apparato di controllo e contenimento, oggi sembra definitivamente compiuta la traiettoria della patologiz-zazione che associa all’adolescenza uno stato di crisi.E se la turbolenza, l’inquietudine e la conflittualità mettevano d’accordo quasi tutti gli analisti che han-no iniziato a studiare l’adolescenza tra il xix secolo e buona parte del xx secolo, troviamo un’analoga con-vergenza delle analisi più recenti attorno alla categoria di disimpegno come tratto distintivo dell’adolescenza contemporanea.

Andrea Marchesi

Giovani alla ricerca sperimentaledi utopia, qui e oraProvare a chinarciper indagare le esperienze da vicino

Un’istanza che emerge da molti esperimenti giovanili, condotti all’interno di un approccio economico e culturale ispirato alla condivisione e alla collaborazione, è la ricerca di pedagogia critica, capace di idealità con i piedi per terra, in modo che giovani e adulti possano apprendere a implicarsi con forza nelle sfide dell’oggi. E impegno critico vuol dire essere consapevoli dei vincoli, vedere i conflitti negati, interrogarsi sulle conseguenze delle scelte e dei gesti anche quotidiani.Ma soprattutto ingaggiarsi riconoscendo le aspirazioni che emergono dentro il nostro tempo.

1 | Cfr. Barone P., Pedagogia dell’adolescenza, Guerini, Milano 2009, pp. 47-74.

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Dalla gioventù ribelle all’adolescenza fragileAbbiamo assistito all’uscita di scena della figura dell’adolescente identificata nell’es-sere contro, nel mettere in discussione il sistema di valori e l’ordine simbolico delle generazioni precedenti, assumendo i connotati del ribelle. Non c’è più traccia di adolescenti borghesi che mettono in discussione appartenenza e posizione di classe come è accaduto a più riprese nella modernità, dai moti rivoluzionari del 1848 fino al movimento del 1968 che, per la prima volta, vede una vera e propria connotazione anagrafica come «rivolta dei giovani».Un inno all’adolescenza, alla sua energia e alla sua bellezza come visione politica per cambiare il mondo, come è stato il poema di Elsa Morante, Il mondo salvato dai ragazzini, appare oggi come un reperto archeologico. Sembra quasi surreale pensare che il testo più rilevante della pedagogia italiana del ’900, Lettera ad una professoressa, sia stato scritto da un gruppo di ragazzi durante un esercizio di scrittura collettiva nella scuola di Barbiana. Non sembra nemmeno più concepibile la soggettività adole-scenziale che attraverso l’esercizio del conflitto trovava una forma di riconoscimento sociale, di protagonismo sulla scena pubblica, sia nelle modalità dell’agire politico, sia nella capacità di incidere sul piano culturale. In particolare ciò che pare davvero derubricata è quella dimensione dell’impegno che rimanda all’engagement di J. P. Sartre, ovvero a una filosofia dell’azione e della prassi, a una visione della libertà indi-viduale che trova realizzazione nell’agire sociale e collettivo. L’adolescenza come nascita sociale e come ricerca del proprio appuntamento con il mondo sembra, pertanto, avere reciso il legame con la costruzione di una visione della realtà che si afferma nell’azione, cercando di lasciare un segno, cambiando le condizioni entro le quali ci si trova a crescere. La politicità adolescenziale appare come definitivamente disinnescata, facendo tramontare una serie di elementi che ne avevano connotato l’emersione e l’affermazione lungo tutta la modernità: il conflitto, la differenza, la trasgressione, l’idea stessa che il passaggio adolescenziale implicasse l’attraversamento di uno spazio di cambiamento. Siamo passati dalla celebrazione della gioventù ribelle all’iscrizione dell’adolescenza in uno schema di fragilità, senza renderci conto della performatività di questo tipo di ordine del discorso.

Adolescenti nella zona di sicurezzaIl primo effetto di questa traiettoria è ampiamente noto: l’adolescenza non è più da tempo riconosciuta come soggettività da interpretare, ma solo come oggetto di studi, indagini e trattamento. È come se ci fosse un rapporto direttamente propor-zionale tra la sovraesposizione di studi scientifici e di rappresentazioni mediatiche dell’adolescenza, con l’evanescenza della sua soggettività. La rimozione del conflitto e della differenziazione, la scomparsa dell’azione pub-blica e dell’impegno, fanno restare sulla scena solo le componenti negative e poten-

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zialmente auto-distruttive: le patologie psichiche, il bullismo, le nuove dipendenze. Le domande che vengono associate all’adolescenza, non a caso, sono tutte preva-lentemente sotto il segno della cura e della protezione. L’enfasi sulla fragilità come condizione costitutiva dell’adolescenza determina la creazione di una distanza di sicurezza che separa i ragazzi dal mondo, gettandoli in un microcosmo autore-ferenziale, individualistico, a tratti autistico, privo di legami, ma anche di attriti. Pensiamo, ad esempio, alla centralità che ha assunto la normativa sulla sicurezza in ambito formativo con il suo corollario di limitazioni paradossali, sul piano della mobilità come della possibilità di sperimentazioni autonome e attive: l’importante è che i ragazzi non si facciano male. Questa distanza di sicurezza dall’urto con la realtà, insieme alla «formattazione» di qualsiasi forma di conflitto – immediatamente ricondotto al contenitore in-differenziato del bullismo – non può che determinare un «ritorno del rimosso»: quando i ragazzi escono, dal circuito protetto, scuola, famiglia, agenzie del tempo libero strutturato, quando si trovano fuori, nell’ambiente esterno, privi di riparo e controllo, sembrano riscoprire la violenza (2), come unica forma che possa inter-rompere una condizione di vita anestetizzata.

La nuda vita dell’adolescenza disimpegnataMa l’effetto più inquietante di una rappresentazione unilaterale dell’adolescenza come età della crisi e della fragilità riguarda la prospettiva, la loro destinazione an-nunciata: cosa attende adolescenti che vengono sempre più precocemente indagati nelle loro manifestazioni anomale e sottoposti a cura e protezione? La figura all’orizzonte è precisamente descritta attraverso lenti socio-economiche che sembrano completare la rappresentazione psico-sociale: l’adolescenza è una traiettoria a tempo indeterminato che conduce ad assumere i panni di un nuovo personaggio, identificato con l’acronimo Neet, a indicare una condizione di auto-esclusione e di ritirata. L’adolescente sembra destinato a non oltrepassare mai la linea d’ombra, condannato a rimanere in forma permanente un minore: soggetto strutturalmente fragile, che richiede cura, attenzione, controllo; che non è titolare di diritti individuali perché tutelato e protetto dagli adulti, che non ha ancora voce, parole ed è ricondotto letteralmente a una condizione infantile. La minorità diventa minorità sociale e da schema di riferimento per descrivere una componente della popolazione adolescen-ziale, potenzialmente deviante, proprio come è accaduto con la categoria dei Neet, diventa chiave di lettura generalizzata e indiscriminata. Ma la componente peculiare di tutto questo discorso risiede nel principio di esclu-sione che connota la rappresentazione contemporanea di adolescenza come figura che si colloca fuori dalla città. Non può non venire in mente la definizione di nuda

2 | «La violenza che si dissocia dal conflitto diventa invece, come si esprimerebbe Bion, un puro attacco al legame, la semplice negazione

dell’alterità, dunque una pura attività di distru-zione», in Recalcati M., Cosa resta del padre, Raffaello Cortina, Milano 2001, p. 96.

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vita attorno alla quale si è sviluppata la ricerca filosofica di Giorgio. Agamben: «La nuda vita ha, nella politica occidentale, questo singolare privilegio, di essere ciò sulla cui esclusione si fonda la città degli uomini» (3).Un’adolescenza messa al bando dalla vita pubblica, dalla scena sociale, oggetto di studio, di diagnosi e trattamenti, destinata in parti consistenti a una prolungata e indeterminata condizione di esclusione dalla cittadinanza sociale, ci ricorda quella separazione che, secondo Hannah Arendt, sarebbe alla base della sovranità politica occidentale: la distinzione tra la vita nelle sue mute necessità biologiche e la «buona vita» che si esercita attraverso il discorso sulla scena politica. Dell’adolescenza, infatti, sembra rimanere solo la corporeità e quindi la componente biologica pu-ramente intesa: corpi da studiare, da contenere, da vestire, corpi utilizzati come supporti per grafie e scritture, corpi attorno ai quali si giocano le principali strategie di marketing, dato che attorno al loro splendore tutta la società dei consumi si gioca l’esercizio della domanda di puro godimento. L’adolescenza disimpegnata e impolitica è quindi inquadrata come nuda vita, esclusa strutturalmente dalla vita politica, dalla cittadinanza sociale, consegnata a una condizione di minorità e marginalità nei confronti della comunità, oggetto di esercizio dei programmi statali di cura, formazione, controllo, accompagnamento a tempo indeterminato.

Cambiare sguardo per liberare l’immaginarioAncora una volta torniamo a ribadire che c’è un problema di sguardo e degli effetti reali e performativi determinati dal modo di vedere l’adolescenza, come se fossimo tutti implicati da un enorme effetto Pigmalione nei confronti di una generazione chiamata a confermare l’immagine stereotipata proiettata dal mondo adulto. Forse si tratta davvero di fare i conti con l’immaginario sessantottino – a cin-quant’anni di distanza i tempi dovrebbero essere maturi – per congedare quello che abbiamo chiamato uno sguardo postumo, da specchietto retrovisore. Se ci aspet-tiamo che torni sulla scena l’adolescente ribelle, protagonista della contestazione, non saremo mai in grado di scorgere le altre forme che può assumere l’espressione di una soggettività adolescenziale disposta a praticare un rapporto conflittuale e generativo con la realtà. È in gioco un compito di natura conoscitiva a chiamare in causa chi lavora con adolescenti e giovani in campo formativo e sociale: sospendere giudizi, provare a chinarci per indagare da vicino le esperienze, i modi di esprimersi e agire che non sono mainstream, che non fanno cronaca e non ispirano le sceneggiature cinema-tografiche. Dobbiamo liberarci da una «volontà di sapere» che ha investito l’ado-lescenza come oggetto di indagine e conseguente classificazione permanente, per aprirci alla conoscenza e quindi al riconoscimento di una soggettività in divenire che, con molta probabilità, non sta semplicemente confermando le nostre proiezioni.

3 | Agamben G., Homo sacer, Einaudi, Torino 1995, p. 10.

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Dovremmo essere in grado di accettare, come ci suggerisce Massimo Recalcati, l’alterità irriducibile del figlio, riconoscendo che la «la vita di un figlio è una vita altra, straniera, distinta, differente, al limite, impossibile da comprendere» (4) .Per queste ragioni chi opera a livello educativo insieme ad adolescenti oggi dovreb-be, innanzitutto, chiedersi se è ancora in grado di stupirsi, ricordando che lo stupore è il principale indicatore di un processo conoscitivo autentico, di un’attenzione effettiva a ciò che accade, anche e soprattutto quando questo non coincide con le nostre aspettative condizionate da un immaginario dominante. Liberare lo sguardo implica un cambiamento di postura, un’attenzione che si rivolge a quelle presenze carsiche, intermittenti, probabilmente minoritarie, che configu-rano una nuova costellazione dell’impegno civile, sociale e politico che caratterizza una porzione significativa del pluriverso giovanile. Possiamo incontrare adolescenti titolari di esperienze in grado di innescare effetti collaterali nelle comunità locali, generando una qualche forma di bene comune. Pos-siamo ascoltare i racconti di imprese, spesso temporanee, nelle quali si producono cambiamenti effettivi per chi ha vissuto l’esperienza – qualcosa che ha lasciato su di sé un segno – e al tempo stesso per chi vi ha interagito, per l’ambiente e il contesto nel quale si è determinata. Possiamo rintracciare, qui e ora, la viva presenza di un desiderio di trovare altri modi di abitare il proprio mondo, allestendo esperienze di azione diretta che mettono in contatto con una realtà entro la quale coltivare un desiderio, ricordandoci che «è controcorrente non cercare di dare realtà al desiderio, ma ricercare il desiderio che c’è nella realtà»(5). È in questo movimento che sembra risiedere la linea di demarcazione tra le pra-tiche di consumo, di godimento immediato, di fruizione passiva di beni e oppor-tunità materiali e le esperienze autentiche di trasformazione di sé e della realtà. Il desiderio, allora, è davvero il sogno di una cosa, immaginazione e progettualità capace di dischiudere altre possibilità nella realtà. Desiderio che viene coltivato e riconosciuto proprio quando si agisce, qui e ora, per generare cambiamento nella propria realtà: restituendo a una biblioteca rionale la sua funzione comunitaria, partecipando a un’impresa sociale che rivitalizza un’area dismessa, prendendosi cura di un campo sottratto alla mafia, organizzando eventi capaci di produrre socialità in un quartiere dormitorio.

L’impegno come stato di eccezioneStiamo alludendo a esperienze che spesso si determinano sotto traccia (6). Ragazzi e ragazze che partecipano ai campi di lavoro dell’associazione Libera all’interno

4 | Recalcati M., Il segreto del figlio, Einaudi, Torino 2017, p. 17.5 | Lizzola I., Sei appigli per farsi esperti in un tempo di incertezza, in «Animazione Sociale», 271, 2013, pp. 74-77.6 | Facciamo riferimento, per esempio, a una

ricerca-azione con gruppi informali di adole-scenti e giovani, una decina di esperienze dalla Calabria al Friuli, in Conte C., Marchesi A., Giovani che generano beni comuni, in «Anima-zione Sociale», 271, 2013, pp. 60-73.

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dei beni confiscati alle mafie e trasformati in imprese sociali, che, a volte, ritornano nelle proprie scuole e quartieri dando vita a presidi di contrasto della corruzione e delle pratiche mafiose. Gruppi informali che animano consulte, comitati di quartiere, contribuendo alla ri-generazione di spazi e aree dismesse. Fenomeni di partecipazione improvvisa e ad alta intensità, spesso connessa a eventi catastrofici sul piano ambientale: gli angeli del fango che hanno preso la scena a Genova nel 2011 e poi nel 2014 durante le alluvioni; i gruppi che dal 2009 continuano le loro battaglie per la riapertura del centro storico della città dell’Aquila dopo il terre-moto. Adolescenti che si impegnano nei gruppi e nelle associazioni di volontariato, ad esempio sul fronte dell’accoglienza dei richiedenti asilo e dei profughi, dalla Sicilia a Milano.Non abbiamo a disposizione una mappatura di queste esperienze, ma possiamo ipotizzare un filo conduttore che le tiene insieme, ovvero un impegno diretto che si esprime sempre di più in relazione agli stati di eccezione che investono la vita politica: emergenze, lacune, assenze, entro le quali molti adolescenti si trovano ad agire, posizionandosi fisicamente entro le condizioni di crisi dei contesti politico-istituzionali. Sembra esserci una corrispondenza tra l’eccezionalità dell’impegno sociale di adole-scenti chiamati a confutare la rappresentazione di una condizione di auto-esclusione dalla comunità e le situazioni nelle quali l’azione politica istituzionale esibisce le sue contraddizioni, creando quello che Agamben chiama proprio lo «stato di eccezio-ne». Con questa espressione si intende, infatti, descrivere il funzionamento della sovranità politica che includerebbe sempre una «relazione di eccezione», ovvero una forma estrema di relazione che «include qualcosa unicamente attraverso la sua esclusione»(7). Si tratta di un vero e proprio paradigma della politica contempora-nea che contempla l’adozione di misure straordinarie che sospendono il diritto, le norme ordinarie, per fronteggiare minacce e fenomeni che non sono governabili. L’esempio più intuitivo investe la questione dei flussi migratori con la conseguente attivazione di misure straordinarie, sospensione di normative e totale mancanza di riconoscimento dei diritti umani e civili sanciti dagli ordinamenti internazionali. Ma possiamo scorgerne esempi durante momenti di alta criticità: crisi e catastrofi ambientali, eventi terroristici, momenti di forte tensione sociale, fasi di contrasto militare della criminalità organizzata. Senza addentrarci oltre su questo versante filosofico-politico, sembra però interes-sante riflettere sul fatto che le principali manifestazioni di impegno adolescenziale abbiano una qualche corrispondenza con le contraddizioni dell’azione istituzionale dentro un quadro di tipo emergenziale. Dagli angeli del fango che si attivano dopo l’alluvione, che ha visto i mancati controlli preventivi della autorità preposte e le risorse limitate per fronteggiare l’emergenza, fino ai volontari che accolgono le masse di profughi che arrivano sulle coste italiane o nelle stazioni ferroviarie delle città metropolitane senza trovare un’adeguata struttura di accoglienza: le forme dell’impegno sembrano esprimersi entro le lacune delle istituzioni.

7 | Agamben, op. cit., p. 22.

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Ricomporre il desiderio e la leggePer certi aspetti, qualcosa di analogo lo possiamo rintracciare sul piano dell’im-pegno civile nell’ambito dei movimenti antimafia: una legalità sostanzialmente sospesa all’interno di interi settori della società civile che vede la partecipazione civile in termini di denuncia, di sostegno delle vittime innocenti, ma soprattutto di contrasto socio-economico attraverso la rigenerazione dei beni confiscati alle mafie. Ancora una volta un’azione che interviene nell’ambito di una lacuna: se la legge sulla confisca dei beni ai mafiosi è stata una svolta normativa sul piano del contrasto alla criminalità organizzata, solo la rigenerazione attiva di quei beni ha dato piena sostanza a quella strategia politica. Forse, non a caso, proprio la legalità sembra essere, a livello di contenuti, il terreno privilegiato dell’esordio adolescenziale di un impegno politico.Il riferimento all’impegno per la legalità sembra dare ragione alle riflessioni di Recalcati sulla figura di Telemaco utilizzata per identificare una nuova tendenza presente all’interno di alcuni mondi adolescenziali: la disperata ricerca di ricom-porre il desiderio e la legge, interrompendo il divorzio che si è consumato con il tramonto del principio di autorità e l’affermazione di una logica consumistica del godimento immediato. In un contesto dove tra le nuove generazioni la politica è associata alla corruzione sembra emergere un’inedita domanda di legalità, intesa come rispetto delle leggi ma anche come approccio critico alle norme rilette nei termini della giustizia e del rispetto di diritti civili e sociali. Quando le norme e le misure non servono a evitare i disastri annunciati, troviamo la reazioni di molti adolescenti che, per la prima volta, assumono una funzione attiva sulla scena dell’agire pubblico. Il momento di massima esposizione al pericolo, alla vulnerabilità, crea uno spazio per innescare un movimento di riconoscimento e rispecchiamento nell’altro come appartenente a una condizione simile e per sentirsi finalmente parte di una città che va letteralmente in pezzi. È la domanda che si pone la filosofa statunitense Judith Butler, ragionando sugli effetti dell’11 settembre e sulla scoperta – traumatica – della vulnerabilità nel cuore dell’impero economico:

Da dove, se non dalla preoccupazione per la comune vulnerabilità umana, potrebbe emergere un principio in base al quale ci impegniamo a proteggere gli altri dalle stesse sofferenze che abbiamo patito. (8)

Come se nell’incertezza interiorizzata, nelle vite strutturalmente precarie ci fossero le condizioni per assumersi una responsabilità, infrangendo quella soglia di (auto) esclusione oltre la quale il copione dominante ha collocato la condizione adolescen-ziale. Forse, non sarà allora un caso che in alcune ricerche sui Neet si scopre che

8 | Butler J., Vite precarie, Meltemi, Roma 2004, p. 51.

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tra chi non è inserito nel mondo del lavoro regolare e della formazione istituzionale troviamo una significativa presenza di volontari, di ragazze/i che si «danno da fare» nelle organizzazioni umanitarie, nella Croce Rossa, nelle reti di accoglienza.

Tracce di una pedagogia dell’impegnoSe ci posizioniamo in ascolto, chinati sulle esperienze di impegno di un gruppo di adolescenti che torna dai campi di lavoro nei beni confiscati alle mafie, come sulle esperienze di rigenerazioni di spazi dismessi (9) o di assistenza ai migranti, possiamo rintracciare spunti utili per una differente modalità di trattamento dell’adolescenza. Una lettura in controluce ci permette di cogliere indicazioni di metodo, appunti per una proposta pedagogica orientata alla cittadinanza attiva, all’impegno e all’agire sociale.

Mi impegno se c’è impattoIl primo elemento che emerge immediatamente da una posizione di ascolto è una domanda inequivocabile; i ragazzi chiedono occasioni per mettersi alla prova e si dimostrano disponibili a prendere parte a esperienze a condizione che si generi cambiamento, si possa lasciare un segno nei contesti, ci sia un impatto consistente con la realtà. L’impatto della propria azione deve essere effettivo e riscontrabile; per questo sono interessati a sostenere micro-progetti di cooperazione internazionale, come nel caso del Social day, il cui esito (l’ambulatorio in Tanzania, l’atelier di gioielli con materiali di riciclo da sminamento in Cambogia) sia verificabile. Ma è un impatto che implica una molteplicità di livelli: l’impatto sui destinatari finali (le popola-zioni locali), l’impatto sulla popolazione studentesca che si informa, partecipa, e l’impatto sulla comunità locale che mette a disposizione postazioni per esercitare lavoro volontario. Si tratta di esperienze che lasciano il segno a cerchi concentrici: nelle biografie individuali (come sono cambiata partecipando al Social day), nei contesti scolastici, nel territorio e in un angolo di mondo. Io, il mio mondo, un frammento di altro mondo.Ci si mette insieme e si sta insieme, in un gruppo, se è avvertita la presenza di un compito connesso a un obiettivo percepito come sensato, motivante e consistente e nell’esperienza del compito si costruiscono e alimentano relazioni affettive. In una scuola si innesca la partecipazione studentesca quando un progetto di service learning entra nella fase di sperimentazione attiva e si organizzano la raccolta di indumenti e i corsi di italiano per i richiedenti asilo del vicino centro di accoglienza. Ci si mette in gioco quando, spontaneamente, insieme a un gruppo di coetanei si

9 | Per una mappatura dell’esperienze di riuso e rigenerazioni di spazi urbani si veda il lavoro di Giovanni Campagnoli, Riusiamo l’Italia, edi-

zione Sole24 ore, Milano 2014. Vedi su www.riusiamolitalia.it

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decide che non ha senso oggi andare a scuola quando nel paese vicino l’alluvione ha messo in ginocchio un’intera comunità locale. L’istanza pratica diventa determinante, sia quando diventa il fattore decisivo per mobilitare il coinvolgimento, sia quando, all’interno di un percorso, diventa l’ele-mento che permette di comprendere il senso dei discorsi. Come capita nei campi di lavoro all’interno dei campi confiscati alle mafie (10), dove grazie al lavoro manuale all’interno della cooperativa agricola si coglie fino in fondo il senso del proprio contributo a un’impresa più ampia. È in questo corpo a corpo con la realtà che si alimenta il desiderio, entro una tensione e uno scarto tra il concreto e il possibile, che spinge ad agire trovando nell’azione riscontri immediati, significato e riconoscimento.

Mi impegno quandoincontro un adulto testimoneIl secondo elemento riguarda il rapporto con gli adulti come componente dispari tra i pari. Se il tradimento da parte degli adulti, per una mancata staffetta interge-nerazionale, è la cifra più comune nelle rappresentazioni di molti giovani, questo non significa rivendicazione di assoluta indipendenza, ma indica un approccio selettivo e critico. Pensare che i giovani richiedano esclusivamente contesti dove stare e imparare tra pari, costituisce, forse, l’ennesimo alibi per una posizione di ritirata e di ammutinamento del mondo adulto, mentre è più impegnativo ma in-teressante seguire l’indicazione di chi è alla ricerca di un confronto con un adulto che sia, però, disposto a rischiare nell’impresa comune, a perdere qualcosa per fare un pezzo di strada insieme ai ragazzi all’interno di contesti reali.Si tratta di un adulto capace di esprimersi come testimone, titolare di un’esperienza degna di essere raccontata e di essere messa al servizio degli altri, non come esempio da imitare e riprodurre, ma come stimolo ad attivare esperienze altrettanto degne di essere vissute e raccontate.È l’insegnante che è in grado di testimoniare il proprio amore per il sapere che «non solo conduce lungo strade che non si conoscono affatto, ma soprattutto, come ci indica il gesto di Socrate, muove il desiderio del viaggio» (11).È il familiare di una vittima di mafia che racconta per cercare una risposta alla propria storia, offrendo, al tempo stesso, la testimonianza di una ricerca di senso che incontra la domanda di un adolescente che, forse per la prima volta, incontra la ricerca di giustizia come qualcosa di incarnato. È il parroco, il capo scout, a volte anche l’operatore sociale, che consegna il testimone a un gruppo di ragazzi e ragaz-ze, chiedendo, senza prediche e giudizi moralistici, di continuare a loro modo una storia che viene da lontano, trasmettendo fiducia, incoraggiando e accompagnando in modo discreto sul confine di un progetto, presidiando il contesto e le condizioni che rendano effettivamente possibile un’esperienza di impegno.

10 | Rinviamo alla lettura dei diari dei campi dei la-vori nei beni confiscati pubblicati sul sito di Libera, vedi su www.libera.it

11 | Recalcati M., L’ora di lezione, Einaudi, Torino 2014, p. 41.

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Si tratta di adulti anomali, che «ti ascoltano nonostante la tua età e che prendono davvero in considerazione quello che pensi» (12), senza abdicare al proprio ruolo di responsabilità che a volte chiede di segnalare un limite come condizione per andare oltre. È una presenza dispari che non si dissolve tra i pari anche se molto spesso partecipa all’impresa comune, mettendosi in gioco, perché convinto fino in fondo di poter avere qualcosa da insegnare ma anche da imparare, entro i confini di un incontro vissuto come qualcosa di generativo. È un adulto che riconosce tutto il valore della dinamica collaborativa che caratterizza un’esperienza di impegno, dentro un’impresa reale, in un progetto caratterizzato essenzialmente da una logica di compito e di fronteggiamento di un problema.

Mi impegno con altri:perché «ionoi» è un palindromoIn queste esperienze, infatti, si riscopre una dimensione rimossa dalle rappresen-tazioni contemporanee dell’adolescenza: la gruppalità. Si registra la presenza di una logica cooperativa quanto performativa, che interpreta la gruppalità come reticolare, plurale, aperta, capace di mettere in comunicazione mondi, campi di esperienza, interessi apparentemente molto lontani. C’è una logica collaborativa, di condivisione, di scambio, di utilizzo virtuoso delle reti a legame debole, che sembra prefigurare un altro modo di pensare e praticare l’agire cooperativo. Una cooperazione che è dichiaratamente una componente stru-mentale: insieme si uniscono le forze, i saperi, si moltiplicano gli sguardi, si produce conoscenza, si agisce, in una costante dimensione di scambio e di condivisione. Ma una cooperazione che è anche caratterizzata da una dimensione affettiva: collabo-rare significa, infatti, stare bene insieme, provare piacere nell’agire collettivamente, costruire legami affettivi, ma tutto questo – e forse questo è il punto inedito – senza produrre chiusure, delimitazioni autoreferenziali. Sia la componente strumentale che quella affettiva del cooperare sono, infatti, assunte come fattori contagiosi, capaci di generare trasformazioni negli individui che attraversano direttamente queste esperienze, ma anche nei contesti dove queste esperienze prendono forma. Emerge una consapevolezza di quanto l’impegno e la partecipazione procedano per contagio, la consapevolezza che solo minoranze intense e persistenti possano contagiare, se persistono nell’azione e se lasciano aperte le possibilità di una partecipazione a intensità variabile: chi entra nel gruppo degli attivisti, chi ascolta, chi collabora solo parzialmente, chi appare indifferente ma l’anno successivo, se il progetto continuerà, potrebbe farsi coinvolgere. È a questo punto che emerge una dimensione politica del desiderio, non più intesa come un a priori ideologico, come un dover essere, ma come qualcosa che accade, nel divenire dell’esperienza. È il desiderio di incidere, di lasciare un segno, di contagiare il contesto in cui si opera, di condividere con altri il senso e il piacere della propria esperienza, ricordandoci che io e noi, se accostati, diventano una parola palindroma.

12 | Rampini A,, Scegliere la propria causa, in Laffi S. (a cura di), Crescere nonostante, Edizio-

ni dell’asino, Milano 2015, p. 49.

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Carlo Andorlini si occupa di innovazione nelle organizzazioni di Terzo settore, partendo in par-ticolare dalle esperienze giovanili: [email protected] | Nicola Basile, esperto di interventi di sviluppo di comunità e politiche giovanili, è responsabile dell’area progettazione della coope-rativa Il Torpedone di Cinisello Balsamo (Mi): [email protected] | Marco Lo Giudice si occupa di politiche giovanili e sviluppo di co-munità per la cooperativa Adelante di Bassano del Grappa (Vi): [email protected] | Andrea Marchesi, pedagogista, lavora per la cooperativa Arti&Mestieri Sociali di San Giuliano Milanese: [email protected] | Riccardo Nardelli si occupa di ricerca e sviluppo di politiche sociali e di comunità per la cooperativa Adelante di Bassano del Grappa: [email protected] | Maria Ramella è socia fondatrice della cooperativa di comunità Brigì di Mendatica, a pochi chilometri da Imperia: [email protected]

IL PROGETTOGLI AUTORI

Non si può fare a meno di aver cura del mondo, quello piccolo a portata di mano e quello grande in cui siamo tutti immersi. Abbiamo visto nelle pa-gine dell’inserto che, a modo loro, le nuove gene-razioni sentono impellente questa necessità (non senza preoccupanti fughe nella rassegnazione) e stanno sperimentando idee, azioni, collaborazioni decisive per il futuro. Questo non basta, tuttavia, perché è indispensa-bile un’ampia riflessione di giovani e adulti per trasformare le istanze emergenti in ricchezza pe-dagogica. Solo in questo modo si possono moltipli-care sentieri fecondi per nuove forme di impegno delle nuove generazioni: rispetto al quotidiano modo di pensare, relazionarsi e agire, e rispetto al loro modo di connettere l’agire quotidiano con il compito di aver cura, fin da oggi, del mondo. E questo ingaggiandosi in un «apprendimento col-laborativo» che possa qualificare nuove intraprese sociali e culturali, economiche e politiche.

Dalle retrotopie alla ricerca di utopie concreteUtilizzare così esplicitamente la parola impegno potrebbe risultare una forzatu-ra. Oggi se sottoponi a un gruppo di adolescenti la parola impegno le principali associazioni sono riconducibili alla sfera sentimentale – sono impegnato perché sto insieme a un’altra persona – oppure all’ambito sportivo e, più raramente, al volontariato. È molto difficile che alla parola impegno vengano associati aggettivi che possano rinviare all’ambito politico, civile e sociale. Eppure la parola impegno, forse non a caso, richiama direttamente la dimensio-ne del legame, del vincolo relazionale così come della promessa, ma in una logica immanente, temporanea e contingente. Mi impegno qui e ora, con qualcuno per qualcosa che implichi un riscontro e abbia un impatto. Per qualcuno si tratta di un eccesso di pragmatismo, che confina in modo ambiguo con l’utilitarismo, ma sicuramente è un posizionamento molto lontano dalla «retrotopia» per dirla con l’ultimo Bauman, con uno sguardo rivolto nostalgicamente al passato come gesto di difesa nei confronti del futuro minaccioso. Forse, invece, si tratta di una ricerca di utopie concrete, di qualcosa di differente, di un altrove e di un altrimenti rintracciabile nel presente. Forse, pensando alla relazione tra impegno, legami e beni comuni, c’è almeno una possibilità di riconoscersi in ciò che scrive Miguel Benasayag quando ci ricorda che: «Il comune non preesiste in astratto, al di fuori delle situazioni nelle quali ci troviamo impegnati. Il comune va costruito ed è racchiuso sempre e soltanto nel conflitto che attraversiamo».

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in ter v ista | studi | prospett ive | inser to | metodo | st rument i | luoghi&professioni | bazar

Come bambini e ragazzi possono acquistare fiducia e autostima in laboratori di manualità

diFerdi Giardini

Lavorare con le mani ha un grande potenziale trasformativo di sé. Permette di concentrarsi sul «qui e ora», assentandosi dai problemi piccoli o grandi che spingono bambini e ragazzi ad assumere un atteggiamento ribelle o antisociale. Permette di anestetizzare la mente, caricando di energia le mani e l’oggetto su cui si lavora. Certo, nei laboratori manuali l’obiezione è sempre: «Sì, ma io non sono capace a disegnare, a manipolare materiali...». Non è così, tutti possono e sanno lavorare con le mani. Perché è la concentrazione che permette di riuscire in questo ambito, l’abilità viene dopo. E al termine del compito, i risultati sono lì a dimostrarlo.

Per una didattica attiva e meditativa

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L’esperienza di formatore per inse-gnanti, il contatto diretto con bambi-ni e ragazzi (da quattro a sedici anni),

fino all’ultimo lavoro come insegnante di Materiali e Modelli al Politecnico di Torino (con quasi adulti), mi hanno donato una «rivelazione». Questa scoperta desidero condividerla con tutti coloro che hanno a cuore l’insegnamento e la formazione dei giovani ora, degli adulti del nuovo mondo domani.

Lavorare con le maniLa rivelazione è questa: lavorare con le mani, non solo con la testa (l’intelletto), permette di concentrarsi molto bene sul «qui e ora». E tutti, ma proprio tutti gli al-lievi, possono e sanno lavorare con le mani. Solo una cattiva educazione, che ahimè si protrae nel tempo, ci costringe a pensare e credere il contrario.

I bambini «caratteriali»si applicano meglioA questa scoperta sono arrivato osservan-do, attentamente e da vicino, i cosiddetti «bambini caratteriali». Bambini irrequie-ti, ritenuti impossibili da gestire. Insegnando loro in laboratori di manuali-tà, mi accorsi che «loro» lavoravano bene con le mani, sapevano usare i pennelli, dosare i colori, disegnare o modellare me-glio degli altri... Allora mi sono chiesto: perché? Perché loro – tutti i bambini di questa malaugurata «categoria» – sapevano lavorare e interpre-tare bene con le mani qualunque cosa? Non che non ci fossero altri bambini «nor-mali» che sapessero dipingere bene e sa-pessero usare le forbici in modo appropria-to. Ma i «diversi» – tutti – si applicavano meglio.

Poi magari in un secondo momento si di-straevano, e diventavano turbolenti e di-spettosi. Ma di chi era la colpa (se di colpa si può parlare) di questo repentino cambia-mento? Non certo loro, ma dell’insegnante di turno, o anche del sottoscritto.

Più capaci di concentrarsi nel«qui e ora» per assentarsi dai problemiDa lì ho intuito che era necessario dare loro maggiore considerazione e responsa-bilità. Attenzione, ho detto considerazione e responsabilità, non maggiore attenzione, magari togliendola agli altri e discriminan-do in questo modo i «normali». E come un ricercatore al microscopio, osservavo da vicino e da distante, e riflet-tevo...I bambini che riuscivano bene a lavorare con le mani erano quelli che si concentra-vano meglio degli altri, non per chissà quali eredità biologiche... E grazie a questo tipo particolare di concentrazione, riuscivano meglio degli altri.Non era quindi talento innato, era alme-no per «l’irrequieto» un modo innato\au-tomatico di assentarsi dai problemi piccoli o grandi che lo spingevano ad assumere un atteggiamento ribelle e asociale. In quel momento con le sue mani era solo lì, nulla lo poteva distrarre. Nemmeno un pizzicotto. Quei bambini, ora, a distanza di tempo lo posso affermare, erano nel «qui e ora» di tutte le discipline di meditazione, sia dina-miche alla Osho per intenderci, che quelle tradizionali buddiste dell’immobilità del corpo statuario.

L’abilità manuale è conseguenza della concentrazioneCosì arrivai alla conclusione che se lavori con le mani, anche in lavori umili, aneste-tizzi la mente, o meglio ti assenti da essa

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che ti affligge e tormenta, e carichi di ener-gia le mani e l’oggetto su cui lavori…In quel momento non mi interessava se l’energia espressa fosse «negativa o positi-va»; era un modo per lavorare bene con le mani... punto. Finito il tuo compito, prova-vi piacere, e in alcuni casi eri anche felice! Felice quando quello che avevi prodotto rispettava dei canoni consueti di bellezza estetica. La concentrazione ti permetteva di riuscire in questo intento con sorprendenti risulta-ti. La concentrazione, non l’abilità manua-le. L’abilità era una conseguenza, veniva dopo, era come un esercizio ginnico! Più lo praticavi, meglio ti veniva, ancora un’al-tra scoperta… La disinvoltura dei gesti si poteva imparare!

Una via verso fiducia e autostimaCosì, attraverso l’uso delle mani acqui-stavi fiducia in te stesso e aumentava l’autostima.

Le mani, un arto pensanteLe mani erano un «arto pensante» che so-stituiva in modo sorprendente la mente! Le mani che non tradiscono, la mente che mente... Ma questo lo capii ancora in un altro momento del mio percorso di espe-rienza, dopo. E quando capitava che i ragazzi non riuscis-sero a lavorare bene, era perché la mente, sì la mente li distraeva – non l’amico-nemico, la merenda più buona del compagno, la campanella della scuola, il clacson, le urla di qualcuno, tutte distrazioni esterne... La tua mente ti riportava fuori, nella periferia, lontano dalla tua anima, la mente si faceva riagganciare dal dolore o dall’insofferenza che cercavi di alleviare...

Una possibilità data a tuttiMi convinsi sempre di più che imparare a lavorare bene con le mani era una possibi-lità data a tutti indistintamente, per crede-re in se stessi. C’erano certo e ci saranno sempre i talentuosi o i predisposti a una disciplina piuttosto che a un’altra sin dalla nascita, ma imparare a credere di poter la-vorare da soli con scalpelli, matite, colori a olio, creta, legno, ferro, dopo aver visto un maestro all’opera, era possibile, realizzabi-le, era sufficiente concentrarsi!L’importanza di diventare, fare, «l’artista» era secondaria, non mi interessava, l’obiet-tivo vero era distante ma ne sentivo l’odo-re, e il profumo sapeva di libertà, di forza per scardinare i luoghi comuni, le credenze che imprigionano l’anima, per insegnare a saper ascoltare i richiami del tuo cuore, troppe volte interrotti da false ideologie, dogmi, droghe di ogni genere. Quindi questa intuizione strettamente per-sonale, cioè che tutti possiamo esprimerci in modo creativo a volte originale, stava prendendo forma.

L’universale bisogno di esprimersiEppure si lavora poco con le mani nella

Scoprii che per i bambini «caratteriali»

lavorare con le mani

era un modo per

anestetizzare la mente. Quei bambini

– a distanza di tempo

lo posso dire – erano

nel «qui e ora» di

tutte le discipline di

meditazione.

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nostra scuola, direi nella nostra cultura. Al centro resta la mente. E invece bisognereb-be. Anche quelli che non ne hanno asso-lutamente voglia, di lavorare con le mani, dovrebbero essere stimolati. Perché questo bisogno? Perché tutti abbia-mo bisogno di raccontare, di esprimerci, di sfogare e dare corpo alle felicità o ai tormenti interni. L’esprimersi non impor-ta con quale mezzo creativo – la danza, la poesia, la musica, l’arte, il teatro, il canto – è di vitale importanza per ognuno di noi. Se poi questo esprimersi dona piacere agli altri oltre che a noi stessi, avremo fatto centro. E ancora, pensando a chi ha la mente in tumulto, a quei ragazzini «caratteriali» (ma anche agli adolescenti «a rischio», alle persone con disturbi psichici...), se que-sto iniziale esercizio creativo, che serviva per tenere a bada i pensieri, diventerà un mestiere dal quale ricavare del denaro per vivere e auto-sostenersi… allora i pensieri saranno superati con una nuova fiducia in se stessi.

«Davvero non sei capace a disegnare?»Tutta questa teoria, queste intuizioni, que-sto entusiasmo, dovevano essere convalida-ti in modo paradossalmente «scientifico» con esempi pratici, tangibili. Non poteva-no restare nella frase retorica «credetemi, è così, ve lo dico io, credetemi….», anche perché imparai, poi, che l’uomo davanti a fatti tangibili, insondabili, continua a resta-re sulle difensive, perplesso, sempre pronto a non credere di poter cambiare opinio-ne, visione, prospettiva; esempio lampan-te sono le continue avvisaglie e notizie di intolleranza e razzismo anche subdolo e camuffato, che troviamo in qualsiasi socie-tà «democratica» ancora oggi.

Venti minuti per smontare false credenzeQuindi, come spesso mi accade, arrivò un’altra intuizione. Inventai un semplice esercizio di disegno e, per validare le mie convinzioni (cioè che tutti possono e sanno lavorare con le mani, che la concentrazione precede l’abilità...), testai questo semplice ma non per questo banale «gioco» con: bambini, adulti, colti, modesti, intellettuali, anziani, adolescen-ti… trogloditi. L’esercizio all’inizio lo conducevo con un solo «allievo» davanti a me. Quello che notavo era che funzionava meglio questo esercizio proprio con i soggetti che alla mia domanda: sei capace a disegnare? Rispondevano con un secco NO! E le dita delle loro mani si ritraevano come la testa e le zampe della tartaruga. Questa reazione si verificava con i più osti-ci e spaventati nell’usare le mani, se non limitatamente per gesti di banale quoti-dianità. Io allora sostenevo che non era vero e che era un’enorme bugia! Che erano dei Beliefs (credenze) creati da altri e poi innestati nel nostro cervello! A quel punto d’inizio «cottura» alzavo la posta e scommettevo il contrario delle loro affermazioni, lasciando che scegliessero qualunque altissimo tributo, come paga-mento! Affermavo che se avessero accet-tato di «giocare» con me per venti minuti facendo un piccolo esercizio, avrebbero perso umilmente. Facendo leva su profonde radicate loro emozioni, in soli venti minuti, vincevo. Nell’arco di circa trent’anni, ho visto diver-se persone di ogni età ed estrazione sociale, alla fine dell’esperimento, piangere, pian-gere di felicità, e poi, accogliendoli senza riscuotere ovviamente la vincita, ridere con loro abbracciandoli.

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«Scommettiamo che non è vero?» L’esercizio che ho ripetuto a ogni inizio anno accademico al Politecnico consiste in questo: inizio con la solita domanda: chi di voi è capace a disegnare? E si presume che in quell’ambiente il numero di mani alzate tra un centinaio di ragazzi sia elevato…Non sempre è così scontato. Allora passo con gli occhi i ragazzi che non hanno alzato la mano e chiedo loro: perché? «Perché mi rispondete così, con un secco NO? Forse se vi chiedo “sapete scrivere?” mi rispondete… “sì, non bene, ma scri-vo... beh, non sono un romanziere ma so esprimermi decentemente anche scriven-do…”. E potremmo continuare con frasi di questo tipo, decisamente più positive… Allora proprio con voi scommetto che non è vero che non sapete disegnare, e ve lo dimostrerò. Scommettiamo?». Sì. «Ok».«Prendete tutti, anche quelli «bravi» (fun-ziona comunque anche con loro lo stupore finale), tre fogli bianchi non a righe, non ha importanza la dimensione, liberate il banco da ogni distrazione, e prendete quel-lo che più vi piace per disegnare: matita, biro, pennarello, nessun tipo di gomma! Ora su un foglio, disegnatemi un occhio, pronti via…».Normalmente gli «incapaci» disegnano uno scarafaggio! Che ricorda vagamente un pesciolino e forse poi un occhio. Gli «incapaci» sono fieri di questo loro obbro-brio e ammiccano con i compagni vicino, ridendo con sfida!

«Ora, sul secondo foglio, copiate questo occhio»Devo aprire adesso una parentesi. Quando inventai questo esercizio, avevo, come detto, sempre una sola persona davanti a me. E in quel preciso momento, quando chiedevo di nascondere quel disegno e di prendere un altro foglio e di iniziare a co-piare sul secondo foglio il mio occhio, of-frendomi come modello, la concentrazione si focalizzava sempre di più in un campo ristretto, quasi intimo. Al Politecnico questo non poteva succe-dere, le classi erano da un minimo di 50 studenti, in su; e quindi mi inventai questa soluzione… «Avete capovolto e nascosto il vostro di-segno? Sì? Bene». In quel momento come per magia faccio scendere la gigantogra-fia di un occhio, attaccato a una lavagna nascosta sotto un’altra, alle mie spalle, e il successivo «comando» è: «Bene, adesso copiate sul secondo foglio quest’occhio». Qualcuno si impegna un po’ di più, qualcu-no si «rema volutamente contro», qualcuno continua a distrarsi e a disturbare il compa-gno, ma questa è la prassi. Impiegano un tempo leggermente più lungo per finire, ma lo finiscono. Il risultato è leggermente diverso: non sembra più uno scarafaggio, sembra un pesciolino che ricorda un oc-chio! Comunque va già meglio.

Sul terzo foglio, tutti, ma proprio tutti, disegnano un vero occhioNuovamente chiedo: «Nascondete il se-Fig. 1 - Il 1º disegno in genere ricorda un pesciolino

Fig. 2 - Il 2º disegno, fatto copiando, va già meglio

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condo foglio e prendete l’ultimo foglio bianco». Prendo una bacchetta lunga che mi permetta di indicare bene i dettagli dell’occhio, e vado a iniziare a raccontare anatomicamente come è fatto… il nostro occhio! Chiedo di toccarsi il loro occhio, mentre parlo, e di accorgersi che in realtà il nostro occhio è fatto come una pallina da ping pong; che le palpebre sono una pellecchia che serve per pulire come un tergicristallo questa forma in realtà sferica, non di un fuso; che le ciglia servono come difesa per la pupilla e la cornea, non solo per amma-liare la preda innamorata; che la pupilla è come l’interno delle vecchie macchine fo-tografiche reflex – il pallino nero si chiude e si apre esattamente come il diaframma di quelle macchine, per far entrare più o meno luce, e poi ancora… se chiudiamo l’occhio e proviamo a toccarlo, sentiremo che la pupilla è come una piccola lente sal-data sulla nostra sfera.Con questa nuova consapevolezza, chie-do di disegnare quello che veramente ora vedono sulla gigantografia alle mie spalle. E quindi, dettaglio dopo dettaglio, dopo la spiegazione anatomica e geometrica di tutti anche gli invisibili prima colpi di luce su questo organo vitreo, tutti, ma proprio tutti disegnano un vero inconfondibile inequivocabile occhio! Alcuni riescono, anche se con la biro o il pennarello, a fare delle sfumature o evidenziare i colpi di luce che si riscontrano nelle sopracciglia! Tutto questo ha una durata di circa 20-25 minuti.

Al termine...stupore generaleAl termine faccio girare i tre fogli e, nello stupore generale, il mento di quasi tutti gli studenti, cade sul banco! Per lo stupore! Sembrano tre persone differenti che non si conoscono e che disegnano in tre modi differenti. Tre disegni di tre persone! Non dello stesso studente! Allora quello che la mente dei più severi con se stessi dice immediatamente è: «Sì ok, ma il suo è più bello!» riferendosi al disegno del vicino! «Beh siamo stati aiutati da te, da soli non ci saremmo riusciti…» e altre frasi di questo genere, sconnesse dal presente, dal qui e ora, dal risultato lam-pante che hanno sotto gli occhi. Allora arriva la mia spiegazione disarman-te… «Quell’ultimo disegno bello l’avete fatto voi, non sono venuto a correggerlo con la gomma e non vi ho fatto vedere come si disegna, era la mia voce che vi guidava in un percorso di concentrazione visiva, uditiva; ma la parte tattile era solo la vostra! La strada sì la indicavo, ma chi la percorreva era la vostra mano! Ciò che vi ha permesso di disegnare è stata solo la vostra concentrazione, per la prima volta eravate interamente o quasi soli, con la vostra mano e il vostro foglio, la mente l’avevate messa in stand by! Ora potrete dire al mondo che sapete di-segnare, certo forse non come Caravaggio o Leonardo, ma applicandovi potrete raggiungere un buon livello di rappresen-tazione della realtà, siete padroni di una tecnica che può soltanto migliorare, basta osservare bene con questo nuovo modo di guardare, fare paragoni, associazioni, proporzioni. Il resto viene da sé come un normale esercizio ginnico». E come sempre all’ultimo il più ostico e rigido arriva, dicendo… «Sì ma abbiamo copiato, se devo inventare? Se devo usare Fig. 3 - Il 3º è inequivocabilmente un occhio!

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la fantasia? Eh? Allora?». Allora, rispondo: «Ricordati che sia Caravaggio che Leonardo che Van Gogh copiavano, e che Picasso sapeva disegnare un corpo umano partendo dall’alluce, sa-lendo su fino alla punta dei capelli in modo anatomicamente perfetto, impeccabile, perché aveva copiato innumerevoli volte nudi femminili e maschili, ma di questa perfezione si ruppe talmente i gioielli di fa-miglia che scompose il corpo umano come se fosse una scatola, un solido e inventò il cubismo!». Successivamente spiego come anche la fantasia si può allenare e far crescere in modo esponenziale con un altro esercizio sempre inventato da me… Ma a quel punto mi seguono tutti facilmente, anche i più reticenti.

Per una didatticaattiva e meditativaHo fin qui raccontato per quale motivo la didattica da me proposta, che chiamo «attiva e meditativa», sia efficace nel pro-muovere concentrazione in bambini e ra-gazzi irrequieti e poi fiducia in se stessi e autostima. Perché è concentrandosi che ci scopriamo via via capaci di disegnare, di esprimerci, di creare.

Alla ricercadello «stato flow»Quei bambini «caratteriali» erano nel «qui e ora» che tutte le forme di cammino spi-rituale richiamano e, con le loro pratiche, contribuiscono a creare. E così arrivai alla conclusione che, lavorando con le mani, puoi fermare la mente. La concentrazione e la meditazione aiu-tano a riuscire in questo intento con sor-prendenti risultati: l’abilità manuale era

una conseguenza della concentrazione, di quello «stato meditativo» che la psicologia chiama lo «stato flow»; quello stato in cui la percezione dello spazio-tempo è diffe-rente da quella ordinaria con la sospen-sione del giudizio sulle proprie capacità o incapacità!Con la pratica emergeva anche la disinvol-tura dei gesti. Le mani erano, come detto, un arto pensante che sostituiva, in modo sorprendente, il ragionamento. Le mani che non tradiscono, la mente che mente... Perché quando i ragazzi non riuscivano a lavorare bene era perché la mente li distra-eva, li portava lontano da se stessi.

Meditareal Politecnico?Gli ultimi anni di insegnamento al Politecnico li ho passati facendo ricerca sulla meditazione accademica, se così si può definire. Ossia sul capire come poter introdurre gli studenti del mio corso a una inconsueta ma efficace meditazione attiva lavorativa. Sempre di più mi sono accorto che, per prima cosa, la meditazione serviva a me per sviluppare maggiori capacità intuitive, maggiori e lunghi periodi di concentrazio-

Al termine faccio

girare i tre fogli. Sembrano tre disegni di tre persone diverse!

Nello stupore generale dico: «Ciò

che vi ha permesso

di disegnare è stata solo la vostra

concentrazione...».

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ne sul mio lavoro. Ma che la conoscenza di questo metodo, pur così apparentemente distante dalla nostra società, è utile proprio per affrontare la vita «quotidianamente» in modo più riflessivo e da osservatore. Osservavo inoltre che quello che cercavo di trasferire agli studenti del mio corso era proprio una stravagante ma efficace meditazione attiva lavorativa, e gli effetti salutari che ne avevano molti dei ragazzi-ragazze erano visibili a loro stessi e a me. Su alcuni gli effetti benefici trasformavano i loro tratti somatici del viso oltre che la postura della loro schiena non più curva! Sia concava che convessa. Così, un giorno di inizio anno accademico, chiesi ai potenti del Politecnico se la mia materia «Laboratorio materiali e model-li II» si potesse anche con un sottotitolo modificare in: «Laboratorio materiali e modelli dell’anima II»… Ovviamente mi risposero garbatamente che era impossibi-le. Ma oggi questo sento che occorrerebbe fare.

Allenare animepiù che istruire mentiNon mi sento un insegnante che trasferisce solo la conoscenza degli strumenti e dei materiali per realizzare oggetti o prototi-pi, non insegno loro solo come si usano correttamente aghi per cucire, colori per verniciare, trapani levigatrici o altri elet-troutensili per costruire... ma verso la metà della lezione leggo poesie, saggi, aneddo-ti di grandi e sconosciuti scrittori, che ti aprono il cuore. Non insegno solo sistemi cad per velociz-zare le loro idee attraverso l’uso del com-puter, non cerco solo di riportarli a una manualità vera concreta… ma chiedo loro di diventare umili, umili nel chiedere, umili nel dare, nel darsi. Di essere consapevoli di quanto sia importante concedersi, con-

cedersi il lusso di spogliarsi. Una studentessa dell’ultimo anno, sa-lutandomi un giorno, mi ha detto «ciao allenatore di anime». Allora forse faccio l’allenatore, non l’insegnante, il trainer che ti aiuta a tirare fuori il meglio dal tuo cuore, attraverso l’espressione delle tue mani, che ti educa ad avere rispetto di te stesso, di conseguenza degli altri, che ti aiuta a pen-sare con la tua anima e la tua pancia, non con la testa degli altri, che ti aiuta a rico-noscere e fuggire i luoghi comuni a causa dei quali le tue mani possono paralizzarsi, e la tua fantasia non può che inaridirsi, a tal punto da omologarsi nella corsa per di-ventare un più astuto pescecane. Il potere, il dominio, la sudditanza, la pre-potenza, l’arroganza, la prigionia, le mille facce della dipendenza, delle droghe, nelle mie lezioni le riconosciamo, le osserviamo e molto poeticamente le lasciamo andare, andare alla deriva. Quando si riesce senza giudicare, ma solo osservando, a guardare con nuovi occhi quello che fino a quel mo-mento abbiamo dato per scontato…

E se la meditazione fosse materia a scuola?Grazie a questi sistemi cambia, come dice-vo, la loro postura, l’espressione dei loro visi, diventa più aperta, fiduciosa verso il mondo, incominciano ad aver fiducia in se stessi e negli altri, ad aiutarsi e a colla-borare gli uni con gli altri, cosa che non capitava prima.

Meditare serve alla creativitàE così, sono arrivato a un ennesimo scalino da affrontare, da salire: fino a questo punto capisco, gestisco, discretamente la situazio-ne, ottengo dei buoni risultati, ma sento che si può ottenere di più, ancora di più,

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è nel mio carattere non accontentarmi mai. E quindi penso che sia utile far crescere in modo assai più completo gli studenti; coin-volgendoli nelle tecniche della meditazione per affrontare la creatività e non solo, in modo intelligente e unico. Introdurre come una vera e pura materia scolastica, equiparabile alla matematica, alla chimica, alla geometria descrittiva, all’italiano, alla filosofia… la «meditazio-ne». Finalmente una materia-disciplina dove non c’è competizione, obiettivi, aspettative, richieste di prestazioni, ansie, confronti… anzi confronti sì, ma solo con te stesso, esattamente come nel mio eser-cizio dell’occhio.E mi accorgo, però, che è necessario ci sia accanto a me un altro «allenatore», un altro «maestro» che sappia trasferire l’arte della vera meditazione, argomento che conosco e pratico, ma che non sono ancora in grado di trasmettere. Un lavoro a quattro mani paritario e com-penetrante, indissolubile e di sostegno l’uno all’altro. Questa intuizione mi ha portato a cercare la persona giusta che do-veva avere a cuore gli stessi miei obiettivi, e vibrasse con gli stessi armonici suoni.

Un esperimentoche meriterebbe proseguireLa persona la trovai come sempre per caso o coincidenza. Era una vecchia amica, ci frequentavamo quando eravamo entram-bi studenti all’Accademia di Belle Arti di Torino, del corso di Scenografia. Un percorso dopo quel periodo, il suo, di vita affascinante, ricco di sapere e viaggi, il sano sapere di come vivere tra la gente nel mondo. Musicista poliedrica, maestra di Ohashiatzu, e medicina cinese, si di-ploma in seguito, in Astrologia a Londra con l’indirizzo psicologico al Cpa, fonda SoundGate, Istituto di ricerca sul suono,

l’ascolto profondo e gli stati di coscien-za… Queste sono solo alcune «cose» sul suo conto.Sovente, dai tempi dell’Accademia, abbia-mo condiviso pensieri, confronti e viaggi, interminabili serate. Quando le telefonai per coinvolgerla in una nuova avventura, le raccontai tutto quello che pensavo di fare e costruire con gli studenti, e di come si fosse creata una possibilità, all’interno della settimana dei Workshop nella sede di Disegno industriale, per la Facoltà di Architettura, di portare un progetto di stage sulla meditazione… Accettò! Insieme, così, abbiamo condotto, lei anche progettato e costruito, per il Politecnico di Torino un workshop sulla «vera» meditazione, che aveva come titolo: «NevermindZen». Cinque gior-ni consecutivi dalle 9 del mattino alle 17 del pomeriggio, con una ventina di studenti, a noi sconosciuti. E in quelle ore, lavori sulla postura, sul sederti nella posizione più adeguata, lavori sul respi-ro, sul silenzio, sul sentire, sul suonare, sull’ascoltare e odorare, sul camminare lentissimamente...Gli studenti, a digiuno di ogni argomento sulla meditazione, si sono catapultati in

Perché non Introdurre come una vera e pura materia scolastica,

equiparabile alla

matematica, alla chimica, alla geometria descrittiva, all’italiano... la meditazione?

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una disciplina e realtà robusta per loro, in modo coerente e maturo. Solo due iscritti si sono ritirati. Le mie timide intuizioni su questa disciplina che, se insegnata re-golarmente a scuola, porterebbe alla vera nascita dell’uomo nuovo hanno avuto conferma dalle loro reazioni durante e a fine stage. Le testimonianze furono: «Dormiamo, poi a casa, in modo diverso, più profon-do…», «ci sentiamo più ricettivi, attenti, presenti, anche in famiglia o comunque a casa è diverso… ci sentiamo meno stan-chi, più tolleranti, rilassati...». Avevamo fatto centro.

Imparare a coltivare la presenza mentaleSono contento di aver potuto racconta-re questa mia esperienza su Animazione Sociale perché sono persuaso che, nei mondi dell’educare, dell’animazione so-ciale, della scuola, andrebbero introdotte pratiche didattiche/laboratoriali di tipo attivo-meditativo. A tal fine bisognerebbe sensibilizzare istituzioni, enti pubblici possibilmente o privati, per proporre corsi di questo tipo a studenti dalle medie all’università. Corsi appunto di didattica attiva-meditativa, dove l’impiego della pratica meditativa è finalizzata al miglioramento.Concludo con una citazione tratta da Il Miracolo della presenza mentale, di Thich Nhat Hanh (Ubaldini, Roma 2012, p. 37).

Si potrebbe chiedere: ma allora l’unico sco-po della meditazione è il rilassamento? In re-altà la meditazione mira a qualcosa di molto più profondo. Posto che il rilassamento è il necessario punto di partenza, su questa base è possibile realizzare un cuore sereno e una mente lucida. Realizzare un cuore sereno e una mente lucida significa aver fatto un bel pezzo

di strada sul sentiero della meditazione.È chiaro che per prendere possesso della nostra mente e calmare i pensieri è necessa-rio coltivare anche la presenza mentale delle nostre sensazioni e percezioni. Per prendere possesso della vostra mente, dovete praticare la presenza mentale della mente. Dovete impa-rare a osservare e riconoscere la presenza di ogni sensazione e pensiero che emerge dentro di voi. Tutti abbiamo bisogno di esprimerci, tutti abbiamo bisogno di credere in noi stessi per poter vivere meglio e più serenamente, in armonia e gioia, essenzialmente con noi e di conseguenza con gli altri.Quando sei felice di te stesso, quando ti ami profondamente, senza amare-adorare e alimentare il tuo ego, allora, solo allo-ra, puoi vivere bene e serenamente con gli altri, solo allora saprai amare in modo incondizionato senza pretendere dalla per-sona amata, nulla.

Ferdi Giardini, nato a Torino nel 1959, dove vive e lavora, diplomato all’Accademia di Belle Arti nel corso di scenografia, è artista e desi-gner. Ha insegnato Laboratorio Materiali e Modelli II presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino: [email protected] – www.ferdigiardini.com

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in ter v ista | studi | prospett ive | inser to | metodo | strumenti | luoghi&professioni | bazar

Verso percorsi di accompagnamento brevi e intensivi

diLuisa Sironi

Ci sono situazioni faticose di persone che cercano come districarsi tra i problemi nelle quali le modalità di intervento del servizio sociale rischiano di non riuscire a dare aiuto, per la pesantezza con cui una interpretazione diffusa del ruolo porta a esprimersi. A volte l’intervento finisce così per alimentare ulteriormente carriere segnate da cronicità. Pensare a forme leggere di accompagnamento, invece, può portare a orientarsi a lavorare – a fianco di vissuti e storie personali e familiari dove le fatiche non hanno ancora distrutto le motivazioni e le capacità soggettive – sviluppando forme di accompagnamento intenso su tempi relativamente brevi.

Capacitare il districarsi tra le fatiche

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* | I contenuti esposti in questo articolo sono il frutto di anni di lavoro con i servizi sociali, dapprima in qualità di consulente e negli ultimi due anni come responsabile di un servizio. In particolare, la presa in carico breve e intensiva, la cui descrizione occupa gran parte del testo, ha preso corpo durante il percorso di accompagnamento volto alla riorganizzazione della

«funzione di accoglienza» dei servizi sociali territoriali del Comune di Reggio Emilia. Si è trattato di un cammino significativo e stimolante al quale anche questa rivista ha dedicato ampio spazio negli anni. Per maggiori approfondimenti si rimanda al testo Cambiamenti e riorganizzazioni in servizi sociali terri-toriali, Supplementi di Animazione Sociale, 309, 2017.

Dopo la lunga crisi economica che ha toccato l’Italia e l’Unione europea a partire dal 2008, tutte le forze so-

ciali, comprese le istituzioni, si sono dovu-te interrogare su come far fronte all’onda d’urto che stava travolgendo moltissime famiglie mentalmente ed emotivamente impreparate a quel che stava succedendo, trasformando velocemente gli equilibri su cui si è retto per decenni il nostro Paese.I servizi sociali, sociosanitari ed educativi si sono trovati in prima linea ad affrontare le conseguenze di questa trasformazione. Ma la natura dei problemi che hanno in-contrato, e tuttora incontrano, è sempre più intricata e le logiche d’intervento che hanno guidato le risposte a tali problemi, anche in un recente passato, sembrano non essere più adeguate: sia perché le risorse economiche sono in forte contrazione sia perché le risposte erano state pensate per disagi differenti, più codificabili e meglio inquadrabili. Oggi le persone che chiedono aiuto porta-no istanze complesse e multiproblematiche. I disagi entrano nelle famiglie o in gruppi che si pensavano protetti o esenti, con in-trecci difficili da riconoscere e da trattare: squilibri economici, pesanti compiti assi-stenziali ed educativi, fragilità relazionali, nuove patologie croniche fisiche e mentali, diluizione di capitale sociale... Si sente la necessità di agire e, al contempo, l’impos-sibilità di farlo in una tradizionale «logica di risoluzione» dei problemi. È evidente che un simile cambiamento ha interrogato dall’interno, sin nelle pieghe

dell’operatività, tutti i servizi che quotidia-namente si occupano di cittadini e famiglie in difficoltà.

I servizi possono divenire luoghi creativiOggi con molta frequenza chi arriva per la prima volta ai servizi si mostra disilluso, privato della speranza di un riscatto so-ciale, arreso ormai a entrare nel luogo che accoglie chi «non ce l’ha fatta». Più rara-mente si fa l’esperienza opposta, quella di chiedere aiuto per evitare di essere esclusi. E così sembra via via più complesso poter intervenire prima che il disagio si cronicizzi e si possa immaginare un cambiamento. Può accadere che i servizi vengano inter-pretati come i luoghi nei quali si possono depositare i problemi sociali, dove gli spe-cialisti del disagio e i professionisti della marginalità sono chiamati a «sistemare le cose». Ad essi è chiesto, più o meno consa-pevolmente, adottando un pensiero che si muove sotto traccia, di essere una sorta di diga, di divenire il luogo nel quale è possi-bile aggiustare ciò che si è rotto, appunto in modo specialistico, al pari di un inter-vento chirurgico.

La chiusura nelle routine per allontanare le sofferenze Sappiamo per esperienza e conoscenza che si tratta di un’attesa magica: non tutto è «curabile», e ciò che si può riparare non sempre coincide con ciò che i cittadini de-siderano «aggiustare».

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Eppure gli stessi operatori, un po’ per mandato e un po’ per vocazione, sono tal-volta irretiti da questa rappresentazione salvifica e fanno fatica a rinunciare all’idea di poter eliminare o agire una significativa azione di contrasto. Di contro, il contatto reale e prolungato con le fatiche, l’impotenza, la cronicità ri-schiano di trasformare la rappresentazione dell’intervento da riparativa ad espulsiva spingendo a dire «che cosa ci faccio con questa situazione?», «le ho provate tutte, ma non c’è nulla da fare», «non cambierà mai» (e talvolta è anche così)... È forte la tentazione di allontanare la disperazione, il dolore, la sofferenza spesso intollerabili, facendosi sedurre da routine consolidate, rinunciando a cercare al di là del noto.

Due principi per aprirsi a strade non tracciateSi palesa la necessità di individuare nuove strategie per evitare che i servizi diventino, comprensibilmente, delle roccaforti poco permeabili, dove c’è spazio solo per ciò che già si fa con grande fatica e impegno, ma non per ciò che è nuovo, sconosciuto e rispetto al quale non vi siano strade già tracciate. Del resto non si può rinunciare a innestare nelle pratiche quotidiane nuova energia. Senza anelito non è possibile ac-cogliere la vita, per quanto dolente e com-promessa possa essere.Cosa dunque può favorire la creatività e la generatività dei servizi? Si fanno strada almeno due principi orien-tatori: rinunciare, seppure con fatica, a risolvere compiutamente i problemi che gravano sui cittadini, lavorando su parzia-lità; accettare che la strada che si può com-piere ce la possano suggerire le persone:

sono loro esperte della propria vita ed è con loro che si devono progettare interventi, mobilitando attori e risorse.Oggi più che mai l’intervento sociale a fa-vore di individui e famiglie svantaggiate, a rischio di esclusione sociale, si gioca in una vicinanza, anche fisica, ineludibile e chia-ma in campo competenze nuove di natura sociale e relazionale.

Un accompagnamento ravvicinato e intensivoPotremmo parlare di un nuovo paradig-ma d’intervento: passare dalla gestione del caso all’accompagnamento ravvicinato e intensivo volto a rendere più autonomo e meno isolato e rassegnato il cittadino e la sua famiglia. Ai servizi sociali tocca pertanto un compito di prossimità alle persone e ai loro contesti di vita perché è solo avendo uno sguardo «olistico» sul come si vive che si può capire dove e in che modo esercitare l’aiuto. Per dirla con le parole di Fabio Folgheraiter: «La qualità dei servizi sociali si nutre di soggettività perché ha radici nella vita. Il problema sociale è in effetti un problema del vivere (life problem)» (1).Agire un accompagnamento di questa na-tura implica innovare le pratiche di lavoro consuete e aprirsi ad una funzione creativa e generativa. La creatività che apre la strada alla generazione di nuove idee si produce quando c’è la volontà di conoscere. A suo tempo Goethe intendeva la cono-scenza come l’attivazione di un’immagi-ne interiore generata dall’incontro con il mondo esterno attraverso i nostri sensi. In altri termini potremmo parlare di riverbero interiore di un’esperienza che facciamo col

1 | Folgheraiter F., Fondamenti di metodologia rela-zionale, Erickson, Trento 2011, p. 198.

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nostro corpo, appropriandoci della realtà per gradi. Si tratta di una conquista, proprio perché di essa si fa un’esperienza interiore, anche solo osservando la realtà o ascoltando una narrazione. Ascoltare e osservare: due ar-chetipi del lavoro di cura.

L’immaginazione di un futuro, prima che si prefiguri la stradaRiflettendo su questo movimento interio-re – che attraverso la memoria vivifica il passato e grazie alla volontà di conoscere ci tiene agganciati al presente – si apre la stra-da della creatività e dell’immaginazione che ci porta a pensare a un futuro, prossimo o lontano, sul quale sia possibile incidere. Si riesce cioè a immaginare ciò che ancora non si è realizzato. Ne consegue che, se non riusciamo a sen-tire dentro che il futuro può essere prefi-gurato, con un certo grado di fiducia sulla nostra possibilità di costruirlo o, quanto meno, di esercitarvi un orientamento, non possiamo sperare di migliorare la realtà. Potremmo anche dire che il lavoro dei ser-vizi in gran parte dipende dalla capacità e competenza di far immaginare e sperare un futuro possibile, prima ancora che si prefi-guri con chiarezza la strada da percorrere. La pensabilità di possibilità nasce nella relazione d’aiutoLa costruzione della fiducia e della speran-za ha sempre radici soggettive e relazionali. È un processo che riguarda l’operatore e il suo utente, il contesto di lavoro dell’opera-tore e quello di vita del cittadino. Molto si gioca nella modalità all’interno della quale avviene lo scambio relazionale,

se riesce a generare fiducia nella possibilità di intervenire sulla vita:

Un utente è qualcuno che è incerto su cosa fare e come fare, è in cerca di aiuto e di sup-porto... Quando l’operatore si sente in questa condizione d’incertezza – senza per questo svalutarsi o demordere, anzi sentendosi più responsabilizzato e motivato – egli è preparato nel metodo e nello spirito alla relazione d’aiuto di qualsiasi tipo essa sia. (2)

La relazione sociale parte sempre da un in-contro dinamico con l’alterità. Ed è all’in-terno di questa danza che nascono le idee. Il coinvolgimento di chi chiede aiuto, la sua adesione reale al progetto che riguarda la sua vita sono pertanto irrinunciabili, senza la sua partecipazione attiva e addirittura creativa non esiste progettualità. La professionalità, in questo approccio, ha conseguentemente una forte valenza educativa, intendendo l’accompagnamen-to come un e-ducere, un portare fuori, le risorse presenti, le potenzialità, spesso oscurate dalla fatica di vivere, orientandole al cambiamento. Va da sé che per operare in questa direzione occorre rinunciare a presumere cosa è giusto per chi accompa-gniamo, a vicariare la sua libertà di scelta, anche quando ci sembra necessario per il «suo bene» (3). All’opposto non si deve rinunciare a co-pensare possibilità, anche quando ci sembra che tutto sia inutile. In sintesi potremmo dire che l’operatore deve favorire la pensabilità di possibilità. È chiaro che questo processo avviene muovendo anche la sfera delle dimensioni emotive che, attraverso la riflessione, pos-sono favorire la nascita di idee che condu-cono all’azione, prima ancora alla volontà di intervenire. E per questo occorrono

2 | Folgheraiter F., ivi, p. 306.3 | Il problema sociale non è il comportarsi disfunzionale di qualcuno. Di conseguenza «la modificazione del

comportamento» è, alla lettera, sempre un’aspetta-tiva illegittima (per non dire bastarda) per il lavoro sociale, ivi, p. 113.

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competenze, conoscenze da raffinare e contesti organizzativi capaci di svolgere una funzione di incubazione in grado di proteggere la generatività da irrigidimenti e cristallizzazioni.

La sospensione dell’azione come spazio di riflessività e stuporeOccorrono strumenti rinnovati, meno schiacciati sulle prestazioni. Sia gli ope-ratori, sia in larga parte anche gli utenti sanno molto bene di quali strumenti il servizio si può avvalere per corrispondere ai bisogni espliciti che vi arrivano, anche se si fa continuamente esperienza di una divaricazione tra ciò che si può fare e ciò che servirebbe (trovare una casa, un lavo-ro, garantire un reddito sufficiente...). Percorrendo solo questa strada ci si trova spesso in un vicolo cieco, si attiva un ca-leidoscopio di emozioni che coinvolgono professionisti e cittadini non sempre in modo virtuoso. Può essere. È in ogni caso molto utile provare a decentrarsi cognitivamente, oltre che emotivamente, da questi circuiti ricorsivi e cambiare prospettiva: esplora-re, all’interno dello scambio relazionale, quali sono i bisogni degli utenti e delle loro famiglie, meno nell’ottica dell’acquisto-offerta di beni-servizi, e cioè con minori aspettative sul superamento di problemi concreti, e più in quella dell’ascolto e della costruzione condivisa di nuove possibilità. In tal modo si assume come valore per la propria identità professionale la sospen-sione temporanea dell’azione a vantaggio della riflessività. Per accogliere pensieri e immagini genera-tivi è necessario aprire loro un varco e que-sto richiede un tempo meditativo, un vuoto

che può accogliere l’ignoto, lo sconosciuto. Lo stupore è la prova di un movimento creativo: «Gli Dei ci creano tante sorprese: l’atteso non si compie, e all’inatteso un dio apre la via» (Euripide, in Medea). Nella congestione della quotidianità sem-bra impossibile trovare il tempo per so-spendere l’azione, ascoltare i pensieri senza controllarli, senza finalizzarli all’interven-to, contenere le emozioni senza censurarle, accogliendo le paure, le ansie, le insoffe-renze... Il lavoro nei servizi sempre di più chiede di essere pazienti, senza sentirsi inopero-si, di sopportare movimenti depressivi per poter generare fiducia nel cambiamento. Se lasciamo le porte aperte a questi dina-mismi, se attendiamo con fiducia, l’idea può arrivare, l’inatteso può manifestarsi. Per riformare le pratiche di lavoro occorre dunque pensare in modo diverso, rinnova-re le nostre mappe conoscitive e revisiona-re alcuni strumenti di lavoro.

Uno strumento utile,non onnipotenteDall’applicazione operativa e sperimentale di quanto esposto in queste righe, ha preso forma un semplice ausilio professionale, il cui intento consiste nel praticare nel quotidiano un differente approccio verso alcuni problemi dei cittadini. Lo abbiamo chiamato Presa in carico breve e intensiva (Pic) (4). Va naturalmente precisato che non si tratta di uno strumento onnipotente e applicabile su ogni situazione. Il suo interesse prin-cipale risiede nel tentativo di introdurre un processo di lavoro insolito e poco istin-tivo nelle pratiche degli operatori. Invita ad andare contro corrente, partendo dal

4 | Per un approfondimento più analitico si rimanda a Cambiamenti e riorganizzazioni in servizi sociali

territoriali, Supplemento di Animazione Sociale, 309, 2017, pp. 49-65.

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presupposto che c’è senz’altro una risorsa latente in chi si ha di fronte su cui far leva, e che, entro un tempo definito, è possibile favorire gradi di autonomia, volti a risve-gliare capacitazioni e piccole attivazioni generative. A oggi è stata sperimentata in prevalenza su situazioni di fragilità sociale.

L’attivazione del cittadino nella presa di coscienzaUn primo importante presupposto della Pic consiste nell’attivazione immediata del cittadino. Sin dal primo accesso al servizio se ne cerca un coinvolgimento proattivo e mobilitante. La relazione che l’operatore instaura deve veicolare una cultura che non sia solo assistenziale, mentre l’utente deve essere accompagnato a riformulare anche la sua rappresentazione del servizio: luogo in cui si possono depositare richieste di aiuto molto specifiche, come per esem-pio gli aiuti economici, ma altresì luogo in cui si generano relazioni di fiducia nelle quali utenti ed operatori sono chiamati a cooperare per intervenire. Compito degli operatori sociali è quello di accompagnare l’utente nella presa di co-scienza rispetto alle proprie scelte di vita in modo da promuoverne una maggiore con-sapevolezza e responsabilità, sostenendolo

nell’affrontare la quotidianità, progettando un percorso di lavoro e delineando insieme obiettivi chiari e raggiungibili.Occorre dare credibilità al punto di vista di chi si accompagna, comprese le opacità e le incoerenze. In questo senso l’approccio acquista una valenza educante, se si riesce a costruire un patto con l’utente fondato su un rapporto di fiducia e di sostenibi-lità reciproca. Si condivide un progetto in cui ci si possa riconoscere, in modo da costruire un’alleanza di lavoro duratura. Operatore e utente si assumono responsa-bilità e compiti. I patti possono rompersi ma c’è la consapevolezza di averli siglati corresponsabilmente. Erano stati tracciati confini e pattuite condizioni, se necessario, riformulabili, per essere più congrue.

Il tempo, una risorsa da governareLa presa in carico breve e intensiva dà corpo a questa rappresentazione dell’uten-te, interviene per incentivare e potenziare le sue risorse, in un tempo definito e con attivazioni su problemi trattabili e circo-scritti (ancorché intricati) che l’utente può ancora affrontare.Dunque si differenzia dalla presa in carico tradizionale in quanto si contrae nel tempo (si ipotizza un inizio ma anche una fine) e si intensifica, prevedendo colloqui anche ogni 15 giorni per massimo un anno. Se è vero che non si può aiutare senza es-sere in relazione, ne consegue che occorre sottostare ad alcuni vincoli che l’essere in relazione con qualcuno implica: uno di questi vincoli è la vicinanza, anche nel tempo. Spesso il carico di lavoro impedisce di scandire gli incontri con assiduità e così si può incorrere nel rischio di ricominciare sempre da capo, sfilacciando la relazione e gli accordi pattuiti. Vedersi con continuità consente di tenere vivo il ricordo dell’in-

Compito degli operatori

è accompagnare

l’utente nella presa di

coscienza delle proprie

scelte di vita, in modo

da promuoverne consapevolezza e

responsabilità, dando

credibilità al suo punto

di vista, comprese le

opacità e le incoerenze.

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contro e per questo motivo permette di maneggiarlo con maggiore efficacia.

La predilezione per ciò che è presenteDa subito si cerca di lavorare per visualiz-zare e sostenere le risorse presenti, risorse che, in taluni casi, se supportate, mettono in grado di fare un percorso evolutivo, senza dover ricorrere alla presa in carico tradizionale. A differenza del passato, dove più fre-quentemente alla richiesta d’aiuto di un cittadino corrispondeva l’erogazione di un servizio o di una prestazione, oggi, come già precisato, si sta cercando di individuare risposte che non siano unicamente orien-tate a corrispondere a bisogni di natura economica. L’esperienza ci insegna che intervenire sul solo disagio economico paradossalmente può facilitare il processo di esclusione sociale, poiché non incide sulle disfunzioni che lo hanno generato e talvolta concorre ad alimentare il circuito che ha prodotto il disagio originario. È invece utile provare ad entrare mag-giormente nei progetti di vita di singoli e famiglie, ad affiancarli in percorsi che, se da un lato mirano a sostenere le relazio-ni interne ed esterne al nucleo, dall’altro rafforzano, con questo agire, il ruolo del servizio come partner nella costruzione/revisione del progetto di vita. Si concorre in tal modo alla lenta costru-zione di una nuova/rinnovata rappresen-tazione del servizio da parte dei cittadini: da erogatore di prestazioni a supporter/counselor esistenziale.

La selezione delle situazioni trattabiliVa da ultimo precisato che non tutte le si-tuazioni che accedono ai servizi possono

essere accompagnate con questo strumen-to. La Pic dà priorità a casi in cui vi sia una presenza di consapevolezza come elemento di partenza.Non è fattibile lavorare con persone che hanno assai scarsa o nulla consapevolez-za della propria situazione. Si tratta di un percorso intensivo di accompagnamento che presuppone che la persona abbia gli strumenti necessari per effettuare piccoli cambiamenti.

La presenza di sufficienti strumenti cognitivi Connesso a questo, occorre immaginare utenti che abbiano sufficienti strumenti cognitivi, tali da poter condividere la stra-da da percorrere. Avere garanzia che ciò che si dice è ben compreso, una sufficiente capacità linguistica (sapere leggere e scri-vere almeno nella propria lingua), sapersi muovere con disinvoltura sul territorio, conoscere il proprio contesto abitativo...

L’interesse all’affrontamento dei problemi Sono preferibili situazioni la cui comples-sità non impedisca di individuare percor-si di affrontamento dei problemi, seppur impegnativi; attraverso una modalità che permetta di lavorare con le caratteristiche dell’utente. Occorre dunque selezionare situazioni in cui la compromissione non sia antica: per lavorare in Pic breve è neces-sario che le difficoltà di cui si fa portavoce l’utente non siano sedimentate da vecchio tempo, ossia non siano cristallizzate e pre-senti da generazioni nel nucleo famigliare.

La condivisione della parzialità di lavoro È so-stanziale sancire un patto con l’utente sulla reale trattabilità dei suoi problemi e dunque condividere una parzialità di lavoro, per un periodo circoscritto, in un cammino in cui l’utente è co-progettante e si esprime circa la sostenibilità del percorso immaginato.

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Il ricorso alla co-immaginazione di tutto un territorio Occorre pensare al territorio come ambito d’intervento che va coinvolto in modo nuovo, in una logica non delegante né «scompositiva» (io faccio un pezzo e tu ne fai un altro), bensì in una logica co-immaginativa: i problemi sono di tutti e si intersecano sguardi e risorse per formulare risposte innovative e trasversali.

Un tempo intenso, ma limitato Come già precisato, l’accompagnamento deve essere intensivo ma limitato nel tempo (massimo 20 colloqui). Vi deve essere da parte del cit-tadino l’assunzione di una prima riformu-lazione del problema su cui si trova minima convergenza, nonché della rappresentazio-ne che la persona ha della sua situazione, tenendo presenti le risorse personali e di contesto.In questo processo la decodifica delle rappresentazioni degli utenti (cosa guida i pensieri e le richieste di aiuto) e il costante monitoraggio di quelle dell’operatore (cosa guida l’operatore nell’interazione con chi ha di fronte) sono le fondamenta su cui costruire l’edificio del lavoro di accompa-gnamento.

La tenuta della micro comunità territoriale Quanto detto rende evidente che questo tipo di approccio implica un forte investi-mento nei territori (comuni e aggregazioni di comuni), anche in piccole comunità, al cui interno debbono essere attivati servizi che aiutino a districarsi nella complessità del quotidiano (5). Occorre la stretta collaborazione tra ente

pubblico, privato sociale e mondo profit.Non tutto, infatti, si gioca all’interno delle mura dei servizi. Affinché l’intervento sia efficace e piccoli spostamenti concreti si realizzino, occorre che il servizio si prolun-ghi e dirami nei luoghi di vita dei soggetti con cui si lavora. Gli operatori socio-assistenziali, socio-sanitari e socio-educativi possono essere una presenza attiva nei micro contesti quo-tidiani e possono guardare da vicino, con competenza, i problemi delle persone.

Un partner affidabile fuori dai soli serviziTuttavia per costruire percorsi concreti e sostenibili, occorre individuare partner di lavoro fuori dai soli servizi. Il lavoro di rete certamente corrisponde a questo obiettivo. Non si tratta però di condividere solo con la rete dei servizi formali e strutturati pro-cessi di cura condivisi. Si tratta anche di pensare le micro comu-nità come luoghi nei quali l’accompagna-mento prosegue e dilata il lavoro di cura avviato dai servizi stessi. È di nuovo nella prossimità alle persone che chiedono aiuto la chiave per interve-nire. Spesso gli operatori faticano ad agire que-sta prossimità, le regole entro cui esercita-no la loro professione talvolta lo impedi-scono. Eppure non è impossibile.L’ipotesi che ci guida è che le relazioni di prossimità appartengano a tutti. Quando parliamo di relazioni di prossimità non ci riferiamo solamente alle reti primarie e naturali della famiglia, a quelle più allar-gate degli amici e dei conoscenti, bensì a quelle degli sconosciuti, riconosciuti nella

5 | Gli interventi devono andare nella direzione di inserire le persone in contesti socializzanti, incentivare percorsi di scolarizzazione, aprire dialoghi intercul-

turali, semplificare l’accesso ai servizi, favorire scelte educative opportune, sostenere la genitorialità.

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loro funzione sociale nei territori, quartieri, isolati: pensiamo ai negozianti, baristi, vici-ni di casa... È all’interno di questi contesti che possono nascere azioni «curative». Esistono in potenza, serve visualizzarle, per attivarle.

Un lavoro che si estende oltre gli ufficiIl lavoro dell’operatore allora non si esaurisce nel pur prezioso, insostituibile e primario lavoro di ascolto e accompa-gnamento, anche alla rete dei servizi, bensì si prolunga, si estende oltre gli uffici, nei luoghi di vita delle persone dove la poten-zialità dell’intervento di aiuto è ancora da concretizzare.Dentro le piccole, il più delle volte invisibi-li, azioni che le persone attivano al di fuori dei contesti istituiti, il processo di cura im-maginato prende corpo. Relazioni d’aiuto anche episodiche, circoscritte, occasionali fanno parte della vita di tutti i cittadini. Fare leva su ciò che è già presente, anche se debole, incerto, fragile è il lavoro a cui non si può abdicare. Spesso è negli scambi quotidiani, il più delle volte imprevedibili, che si possono verificare insperate e sorprendenti risposte di aiuto.All’interno di questa tessitura sottile, all’apparenza poco significativa, precaria, soprattutto non controllabile, le persone possono condurre esistenze sufficiente-mente adeguate.

Un cantiere non troppo istituitoIn conclusione, ricollegandoci a quanto scritto in apertura, è nel fluire ordinario

della vita che l’intervento sociale può di-venire generativo; è nel cantiere non trop-po istituito che si può vedere il non visto. «Le vie dei venti sono più durevoli delle fondamenta scavate sotto il suolo», ricorda Italo Calvino (6).Certamente il lavoro di rete tra servizi, gio-cato su funzioni e mandati istituzionali, è indispensabile, patrimonio da conservare e potenziare, purché rinnovato da ciò che prende vita nell’informalità e lì disegna nuovi itinerari. A chi lavora con i cittadi-ni fragili è dunque richiesto di scoprire e ricercare i fili della loro vita quotidiana e immaginare come questi possano essere intrecciati per favorire un cambiamento positivo. A questo movimento creativo contribui-scono le associazioni, i gruppi di cittadini, i singoli, tutti responsabilmente chiamati a riconfigurare il quotidiano di persone gra-vate dalla multiproblematicità della vita; non rinunciando mai a sperare nel futuro. Del resto «se non speri l’insperato, non lo troverai» (Eraclito).

Luisa Sironi, consulente e formatrice, è re-sponsabile del Servizio sociale integrato unionale della Bassa reggiana:[email protected]

6 | Calvino I., Le città invisibili, Mondadori, Milano 1972.

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Quale lavoro con i minori stranieri non accompagnati?

diLuca FossarelloAgnese CalòSelenia Serafino

I migranti continueranno ad arrivare sempre più numerosi in Europa, complici i conflitti, il land grabbing, i mutamenti del clima... Difficilmente si potrà arginare il flusso dell’umanità in fuga. Non sono singoli individui, sono popoli che camminano, scappano, sperano. Insieme ai migranti adulti, stanno arrivando sempre più minori non accompagnati: ragazzi «buoni», ragazzi «cattivi», ragazzi «pigri», ragazzi «brillanti», a volte un po’ confusi e arrabbiati. Né più né meno degli adolescenti italiani, con l’aggiunta però di una lunga serie di traumi alle spalle: abbandoni, violenze, viaggi tremendi, povertà estreme... La questione non è «se accoglierli», ma «come accoglierli».

Accogliere giovani vite in fuga

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I dati del Ministero dell’interno mostra-no che in Italia, dal 2014 al 2016, la percentuale di minori stranieri non ac-

compagnati (Msna) autodichiarati è andata aumentando, in rapporto al totale dei rifu-giati (1): forse per effetto del passaparola, forse per aumento delle situazioni di crisi nei rispettivi Paesi di provenienza.In termini numerici, i minori stranieri non accompagnati presenti in Italia a inizio 2016 risultavano essere circa 16 mila. Il numero è molto dinamico: molti diventano presto maggiorenni, visto che la fascia più rappresentata è quella dei ragazzi con 17 anni, altri fuggono per proseguire il per-corso migratorio.

Ragazzi da poco sbarcati in ItaliaIl progetto Fami/Home (2) nel quale lavo-riamo nasce per contrastare la dispersione di minori stranieri non accompagnati sul territorio: ovvero «quei minori stranieri che si trovano in Italia privi di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per loro legalmente responsabili in base alle leggi vigenti nell’ordinamento italiano»(3). L’intento del nostro progetto di accoglien-za è di evitare che finiscano in circuiti il-legali quali lo spaccio, la prostituzione, il commercio di organi, o semplicemente diventino «invisibili», fuori dal margine della società. In Nord Italia, le cooperative e gli altri at-tori sociali che hanno recepito il progetto

Fami per i minori sono in tutto tre: Torino-San Mauro, Genova e Bologna-Ferrara. Sono presenti altri centri Fami in Sud Italia e soprattutto in Sicilia. Il progetto, recepi-to nel nostro territorio da due cooperative sociali, ha portato all’istituzione di quattro centri di accoglienza a Torino, il più gran-de dei quali si trova a San Mauro, a pochi chilometri dal capoluogo. L’équipe del centro di San Mauro è costitu-ita da diversi operatori, tra cui un assistente sociale, uno psicologo, un mediatore cul-turale, un operatore legale e diversi edu-catori. Gli ospiti della struttura (messa a disposizione dalla Diocesi di Torino) sono 24, e sono tutti ragazzi. Quando questi minori fanno il loro ingres-so in struttura, sono generalmente arrivati in Italia da poco tempo. Per questa ragio-ne, dopo una prima fase di accoglienza, vengono subito tutelati dal punto di vista della salute psico-fisica. Successivamente si avvia con loro un complesso iter ammi-nistrativo (identificazione, accertamento dell’età, ricostruzione delle storie, richiesta della tutela...) che li porterà a ottenere un permesso di soggiorno provvisorio di sei mesi. Trascorso questo periodo, verranno trasferiti in altre strutture di accoglienza con meno ospiti, per fornire loro un servi-zio di accoglienza più adeguato.

Quattro storie di vite in fugaPresso il Centro di prima accoglienza Fami di San Mauro, sono finora transi-

1 | Cfr. Dipartimento per le libertà civili e l’immi-grazione, anni 2015-2017, www.interno.gov.it/it/sala-stampa/dati-e-statistiche/sbarchi-e-accoglienza-dei-migranti-tutti-i-dati.2 | Il progetto Fami/Home è finanziato dal fondo Fami (Fondo asilo migrazione e integrazione) del Ministero dell’interno. Home si riferisce al fatto che

il nostro centro di accoglienza intende essere «casa» per questi ragazzi che arrivano da Paesi lontani, con storie drammatiche alle spalle e un futuro incerto davanti. Il tempo in cui sostano da noi è mediamente di otto mesi. 3 | Tratto da Rozzi E., Save The Children, Vademecum sui diritti dei msna, www.meltingpot.org.

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tati circa 50 ragazzi, provenienti soprat-tutto da Gambia, Bangladesh, Senegal e Mali. La loro età media è di circa 17 anni. Generalmente presentano una buona sa-lute generale, ma spesso portano con loro le cicatrici, non solo fisiche, della loro do-lorosa vicenda esistenziale. Per meglio capire il progetto di accoglien-za di San Mauro, è necessario conoscere le persone che ne sono ospiti. Ecco allora quattro storie di vita, che abbiamo compo-sto mettendo insieme le parole che questi ragazzi ci hanno consegnato. Le storie sono quelle di Shumel, un ragaz-zo proveniente dal Bangladesh; di John dalla Nigeria; di Ebrima, detto la «piccola faina», dalla Guinea Conacry; e di Dawda dal Gambia. I nomi sono di fantasia, ma le storie sono come i nostri quattro ragazzi ce le hanno narrate.

Shumel, la sua famigliaha investito su di luiShumel proviene dalla zona di Chandipur, a Sud del Bangladesh. Il suo Paese conta quasi 169 milioni di abitanti, dodicesimo Paese al mondo per densità di popolazio-ne (1.200 abitanti al km²) e 1.508 dollari all’anno di Pil pro capite, in un contesto di profondissime disuguaglianze sociali. Uno dei fenomeni più drammatici del Paese di Shumel è il cambiamento clima-tico, che sta portando, oltre a un intensi-ficarsi dei cicloni, all’inabissamento della parte costiera. Il Paese è poi percorso da gravi tensioni politico-religiose, con una minoranza islamista e un governo laico filo-indiano. Shumel ci ha raccontato di avere almeno due buoni motivi per migrare: la totale mi-seria in cui versa la sua numerosa famiglia (sono sette componenti) e il fatto che la zona in cui abitano sta inabissandosi. Lui è dunque un migrante economico e clima-

tico, secondo la distinzione che viene oggi proposta. La sua famiglia ha deciso di investire su di lui, in modo che lui potesse arrivare in Europa, lavorare subito e inviare denaro a casa. Per finanziare il viaggio, ha dovuto versare l’equivalente di 12 mila euro (circa un miliardo di taka bengalesi) a una orga-nizzazione di «brokers», così vengono de-finiti i trafficanti di uomini in Bangladesh, con la casa di famiglia lasciata in pegno. Una cifra enorme, che lui dovrebbe co-minciare a restituire non appena arrivato in Europa. Con sulle spalle questa grande responsa-bilità, Shumel ha intrapreso il suo viaggio, che non è stato, come per i turisti, via area, con scalo a Dubai, ma per vie moltepli-ci, come accade ai profughi: bus, barche, piedi... Partito nel novembre 2015, ha rapida-mente attraversato l’India ed è rimasto in Pakistan per circa 50 giorni, prima di poter valicare la frontiera. Dopodiché è arrivato in Iran, dov’è rimasto per tre mesi in una condizione di quasi schiavitù, lavorando in una fabbrica 15-16 ore al giorno, nella quale era recluso anche di notte. Poi la fuga rocambolesca e un orribile viag-gio via terra e mare verso la Libia. Qui è stato quasi subito rapito, e per sopravvi-vere ed essere liberato ha dovuto pagare un cospicuo riscatto, aumentando così la cifra da restituire. Dopo tre mesi, nel lu-glio 2016, si è imbarcato per l’Italia su una carretta del mare. Della sua traversata nel Mediterraneo ricorda l’odore delle perso-ne stipate nel barcone e il provvidenziale salvataggio da parte di una motovedetta italiana. A Reggio Calabria ha avuto la sfortuna di essere ospitato nel «centro di accoglienza» Lo Scatolone, una orrenda palestra di ba-sket adibita a dormitorio, nella quale erano

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presenti solo volontari per qualche ora al giorno. Lì è rimasto con altri 250 ragazzi fino a inizio ottobre, quando è stato trasfe-rito a San Mauro nel nostro Centro. Shumel con noi si è dimostrato un ragazzo brillante e sta prendendo, primo del suo gruppo, un certificato di conoscenza della lingua italiana, nonostante abbia studiato poco in Bangladesh, dove la scuola è pri-vata. Il suo cruccio è di non essere ancora riuscito a spedire soldi alla sua famiglia.

John, la sua storia è fatta di abbandoni e fughe John è un ragazzo nigeriano di 17 anni, cristiano e di etnia Eshan, un bellicoso gruppo tribale che all’inizio del ’900 ha contrastato efficacemente gli inglesi nei loro tentativi di colonizzazione. La Nigeria (o meglio, Repubblica Federale della Nigeria) è il più popoloso Stato del continente africano, con circa 191 milio-ni di abitanti; essa comprende 36 Stati e oltre 250 gruppi etnici. Dal punto di vista economico, è un Paese ricco di risorse na-turali, in forte crescita; il Pil è di 2.700 dollari pro capite, anche qui però distri-buito in modo profondamente diseguale. Dal punto di vista religioso, la popolazione è quasi perfettamente divisa tra cristiani e musulmani, con violenti scontri nel recente passato, nel Nord Est del Paese. La madre di John, Precious, era sposata con un marito molto ricco, abitavano insie-me a Port Hancourt. Poi lui si invaghisce di un’altra donna, con una scusa ripudia la moglie e disconosce i due figli, tra cui John. I tre finiscono a vivere in strada, con la madre che comincia presto a prostituirsi per mantenersi. I due ragazzini vengono affidati a un Pastore protestante, ma questi mal sop-porta John, che a un certo punto non ce la fa più e scappa via. Insieme a un amico,

decide di cercare fortuna in Libia: i due si impossessano di una macchina e attra-versano, corrompendo i doganieri, tutto il territorio che li separa dal confine libico. Qui però sono fermati da una banda ar-mata che li rapina e li imprigiona in un compound per chiedere un riscatto alle famiglie. Secondo il racconto di John, gli aguzzini sono così impietositi da lui che lo liberano; più probabilmente capiscono che non ha una famiglia alle spalle e trattenerlo significa occupare un posto. Il ragazzo è quindi rimesso in libertà, ma è solo e non sa dove andare. Il suo letto è la strada. Racconta John che un giorno un passan-te, mosso da pietà, lo invita a stare a casa sua, dove abita con la moglie, ma questa ospitalità si traduce ben presto in schiavitù, in quanto il ragazzino è costretto a lavora-re gratis tutto il giorno. John allora fugge un’altra volta, forse rubando a quell’uomo un po’ di denaro, quanto basta per pagarsi il viaggio in barcone. In Italia arriva nell’agosto 2016 e viene ospitato anche lui presso Lo Scatolone. Poi viene trasferito a San Mauro e ora il ragazzo è ospite in uno sPrar specializzato nella presa in carico di minori fragili.

Ebrima, appena 13 anni, un giorno si è allontanato con tre mele in tascaEbrima, anche detto la «piccola faina», ha il primato di essere il più giovane ospite del nostro centro di accoglienza. Il certificato di nascita che ci ha mostrato, insieme al certificato scolastico, attesta che lui al mo-mento dell’ingresso in comunità ha appena 13 anni. Ebrima proviene dalla Guinea Conacry, un piccolo e povero Paese dell’Africa orien-tale, con circa 12 milioni di abitanti, un Pil pro capite di circa 520 dollari. Ricco di risorse naturali, il Paese è preda di dit-tature; rilevanti sono anche le tensioni tra

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i mandinka e i pulà, i due principali ceppi etnici. Ebrima racconta che il padre è stato assas-sinato durante uno scontro etnico. Lui è stato portato in salvo dallo zio fino in Mali, dove è stato abbandonato. Dal Mali in poi è riuscito a cavarsela da solo facendo l’aiu-to cuoco in Libia. Dalla Libia si è imbarca-to per l’Italia. Arrivato a Reggio Calabria è stato trasferito a San Mauro dove, per farsi rispettare, ha assunto un comportamento molto aggressivo e dispettoso, combinan-done di tutti i colori sia agli altri ospiti che agli operatori (da qui il soprannome scher-zoso «piccola faina»).Un giorno di dicembre scorso, dopo aver pranzato con tutti, si è allontanato con un paio di mele in tasca, forse per raggiungere un qualche suo parente in Inghilterra. Di lui non abbiamo più notizie, ma siamo certi che sia arrivato dove voleva. Ci restano al-cuni suoi effetti personali, come i disegni e le scritte sopra il suo letto, nei quali incon-tra la mamma che non aveva mai conosciu-to, perché morta durante il parto.

Dawda, che ha visto morire l’amico per disidratazione nel desertoDawda è un ragazzo gambiano grande e grosso e molto maturo per la sua età. Dimostra più dei 17 anni che dice di avere, con ragione (la sua età è stata accertata tra-mite test multidisciplinare). Il Gambia è un Paese dell’Africa occiden-tale poco più grande del nostro Abruzzo. Negli ultimi vent’anni è stato caratterizza-to da dittature e repubbliche presidenziali che si sono avvicendate. L’ultima sommos-sa è avvenuta ad aprile di quest’anno, con la cacciata dell’ex presidente che, perse le elezioni, non voleva rinunciare al potere. Nonostante il terreno fertile e il mare pe-scoso, il Pil è molto basso; vi è quindi una povertà molto diffusa.

Dawda racconta che qualche anno fa, a se-guito di un incidente, suo padre è morto, e sua madre ha sposato un altro uomo, con cui lui aveva un pessimo rapporto, culmi-nato con la sua cacciata di casa da parte del patrigno. Dawda racconta di aver dormito per giorni davanti al portone di casa, ma di non esservi stato più riammesso. A quel punto ha deciso di andare a nord, in Libia o in Tunisia, per fare il mestiere che conosce bene: l’elettricista. Il viaggio che ha intrapreso è stato duro: racconta che nel deserto lui e altri migranti sono stati fatti scendere dal conducente del pick-up su cui viaggiavano, sotto la minaccia di un fucile, e che in quel tratto un suo caro amico è morto per disidratazione. Dawda si è salvato e dopo varie peripezie è arrivato a San Mauro. In una occasione ha dimostrato il suo sangue freddo, tem-prato dalle vicissitudini: un giorno uno degli ospiti ha rotto (per sbaglio) il vetro di una finestra con la mano, rischiando di tranciarsela. Dawda l’ha tenuto fermo e, strappandosi la camicia, ha «bendato» la ferita, evitando una ulteriore perdita di sangue prima dei soccorsi del 118.

Storie che sono documenti di un’epocaQueste storie sono documenti di un’epo-ca – la nostra – in cui milioni di persone decidono loro malgrado di mettersi in cam-mino. Non sappiamo se i fatti si siano real-mente svolti come Shumer, John, Ebrima, Dawna e tanti altri ce li hanno raccontati. I loro volti però raccontano più delle parole. Ciò che sappiamo con certezza è che tutti sono passati per la Libia. Alcuni sono pro-fughi, vittime di guerre, violenze, scontri etnici, disastri ambientali, discriminazioni religiose e sessuali; altri, forse, sono sem-plicemente migranti economici, persone che cercano un futuro migliore per sé e la propria famiglia.

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Un mandato tracura e controlloI minori stranieri non accompagnati vengo-no selezionati per aderire al progetto Fami/Home dal Ministero dell’interno, e posso-no essere trasferiti presso il nostro centro o appena sbarcati oppure dopo essere stati ospiti di Centri accoglienza straordinaria (Cas), di Centri accoglienza richiedenti asilo (Cara) e hotspot sparsi per tutt’Italia.

Tre compiti fondamentaliIl nostro mandato istituzionale ci impone di accertarne l’età, prenderli in carico dal punto di vista sanitario e far loro ottenere un permesso di soggiorno temporaneo, dopodiché vengono trasferiti in un centro sPrar sul territorio nazionale. In particola-re il nostro lavoro consiste in questi punti.

La presa in carico sanitaria È l’azione che prevede meno criticità, in quanto sul terri-torio piemontese, e torinese in particolare, anche grazie all’azione di advocacy del Gris Piemonte, una rete tra pubblico (Centri isi), privato convenzionato e volontariato sanitario (Camminare Insieme e serMiG) riesce a garantire un diritto alla salute per i beneficiari del progetto.

L’accertamento dell’età La normativa ita-liana prevede che siano gli operatori del centro di accoglienza, se sussiste un ragio-nevole dubbio, a domandare alla Questura un procedimento di accertamento dell’età. La normativa regionale stabilisce invece che tutti i sedicenti minori presenti sul territorio regionale siano sottoposti, per una questione di maggior tutela nei loro confronti, ad accertamento di età. Questa circolare produce argomenti di discussione su almeno tre livelli: scientifico, etico ed economico.

La questione scientifica: all’attuale stato delle conoscenze tecnico-scientifiche, è possibile determinare l’età di una persona con un range di più o meno due anni, tra-mite una serie di esami sociosanitari che possono variare a seconda dei protocolli utilizzati. Vi è quindi una incertezza tec-nica, in quanto non vi è una uniformità di protocolli (ne esistono diversi). Accertare l’età è un atto amministrativo che va a in-fluire sullo status giuridico di una persona, nel senso che può trasformare un minoren-ne in un maggiorenne oppure il contrario. Una norma tecnica opinabile può influire in modo molto pesante sulla vita di una persona: ovvero l’uscita di una persona da un sistema di protezione e accoglienza (teoricamente) molto tutelante come quel-lo riservato ai minori, e l’ingresso in un sistema diverso, ovvero quello riservato ai maggiorenni. La questione etica rimanda a una doman-da rivolta ai professionisti di settore (e ai lettori di questo articolo): un minore, che è palesemente molto minore, perché deve essere sottoposto ad accertamento dell’età? Perché, come è successo in Piemonte, una bambina di circa sei anni deve essere sot-toposta ad accertamento della minore età, se non vi sono dubbi a riguardo?La questione economica è legata al sottopor-re tutti i minori stranieri non accompagna-ti registrati in Piemonte ad accertamento dell’età, anche coloro che risultano palese-mente minorenni, moltiplicando i costi a carico del Servizio sanitario regionale.

L’iter amministrativo Ai minori appena ar-rivati in struttura si chiede se posseggano già un permesso di soggiorno, oppure se abbiano fatto altre operazioni amministra-tive, come il secondo foto-segnalamento (il primo è avvenuto nel luogo di sbarco). Se la risposta è negativa, si contatta la Questura

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per fissare il foto-segnalamento e, una volta effettuato, si contatta la Medicina legale dell’asl per concordare l’accertamento dell’età. Parallelamente si effettuano almeno due colloqui con il minore, per ottenere infor-mazioni socio-anagrafiche e alcuni cenni sulla sua storia. Una volta che l’accerta-mento dell’età è concluso e il ragazzo risul-ta essere effettivamente un minore, viene ottenuta la tutela dal Tribunale di Ivrea; se il minore risulta avere più di 17 anni, viene trasferito in un centro sPrar per adulti.

Una mail non lettapuò bloccare la vita di un ragazzoIn un processo così dinamico e comples-so, entrano in gioco molti attori sociali: Ministero dell’interno, sPrar centrale, Prefettura, Questura, asl, Tribunale dei Minorenni, Consorzio dei servizi sociali, reti di volontariato e sPrar locali. Rispetto alla tutela della salute, grazie alla normativa in vigore e alla sua attuazione, non sembrano esserci particolari criticità, che invece sussistono rispetto all’iter nor-mativo, dove un singolo attore sociale può bloccare tutto il processo: una mail non letta o dimenticata, una lentezza nell’inol-trare una relazione, può bloccare il pro-getto individuale di un minore per mesi e

mesi, relegando nell’incertezza la vita del ragazzo. Succede così che, se per la cosiddetta «legge Zampa» (che da febbraio 2017 ha riforma-to l’accoglienza ai minori stranieri non ac-compagnati) tali procedure burocratiche dovrebbero essere espletate entro 30 giorni, di fatto, da quando è stato aperto il centro, da ottobre 2016 a giugno 2017, sono ancora presenti alcuni ospiti originali. Con il tempo, e costruendo una rete, i tempi si stanno accorciando, ma, una volta giunti al termine dell’iter burocratico, quando il minore è pronto per essere trasferito nei centri sPrar, bisogna attendere che nella rete nazionale dei centri sPrar si liberi un posto. E i tempi tendono a dilatarsi di mesi.

Il lavoro con gli ospiti Lavorare nel sociale con i minori è sempre complesso, ancor più se si tratta di minori stranieri, che non sono accompagnati da genitori o adulti di riferimento, che spesso arrivano da situazioni di disagio e adultiz-zazione precoce e che hanno visto o subito violenze durante il viaggio. Ulteriore fonte di complessità è la natura temporanea della loro permanenza, non-ché le tempistiche incerte, ovvero in quanti e quali (la questione della qualità dell’acco-glienza è un nodo scoperto) altre strutture andranno in futuro.

La costruzione del piano individualeRispetto al lavoro con il minore, l’équipe, dopo l’arrivo del ragazzo in struttura e le prime visite mediche urgenti (prima visita medica, screening TbC), realizza una va-lutazione socio-psico-educativa, condotta sia tramite colloqui (non troppi e non tutti insieme, per non mettere sotto tensione il

Lavorare con i minori è sempre complesso, ancor

più se sono stranieri

non accompagnati,

provenienti da situazioni di disagio

e adultizzazione precoce, che nel

viaggio hanno visto

o subito violenze.

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minore), sia tramite osservazione di come il minore si relaziona con il gruppo.Questa valutazione consente all’équipe di elaborare un piano individuale per il ragazzo, che tenga conto dei suoi biso-gni e desideri, e che sia costruito con lui, passo dopo passo. Tutto questo lavoro è condotto con il mediatore culturale che è in équipe. Veramente fondamentale è poi l’apporto fornito da volontari formati. Il piano individuale deve avere una tempi-stica limitata, al massimo cinque mesi, in quanto probabilmente il minore permarrà nel centro per un periodo simile. È fondamentale anche creare un contesto di accoglienza ad hoc, in cui il ragazzo si senta al sicuro e accettato e attraverso il quale possa accedere alle risorse, materiali e immateriali, che il territorio offre e che l’équipe ha selezionato con lui e per lui: corsi di sartoria, di meccanica, ecc. Questi piani sono come dei vestiti che vanno rita-gliati su misura del ragazzo, e solo per lui.

La prevenzione di situazioni illegaliUn aspetto importante del lavoro con i ragazzi è l’attività di prevenzione alle si-tuazioni di illegalità. Tale attività consiste in una formazione condotta da docenti appositamente formati, peer educator e operatori pari, e viene sviluppata con Save The Children, che a Torino ha una attività ben avviata nella zona del mercato di Porta Palazzo. La prevenzione viene svolta sia perché sul territorio sono presenti reti di connazionali anche dedite ad attività illegali, sia perché questi ragazzi, per mesi se non anni, hanno dovuto sopravvivere a situazioni di qual-siasi genere, contando solo sulla propria capacità di adattamento. L’ottica è la tutela del minore, che rischia di essere agganciato a reti di spaccio, che

sono contigue a reti illegali di ricettazione, piccoli furti e prostituzione minorile.

L’inserimento a scuola e nel lavoroCome motori di integrazione, scuola e la-voro sono risorse eccezionali. Appena arri-vato, il minore viene subito testato sulla sua alfabetizzazione ed eventuale conoscenza dell’italiano, e inserito in uno degli istituti scolastici del territorio che si occupano di istruzione per cittadini stranieri. Una questione delicata rimane quella lega-ta all’avviamento al lavoro: questi ragazzi arrivano da contesti molto umili, e molti di loro lavoravano già a 10 anni; una volta ar-rivati in Italia hanno il desiderio di mettersi a lavorare subito, chi per pagare i debiti del viaggio, chi per comprarsi le cose che desi-dera e che noi non forniamo, come abiti di marca, smartphone di ultima generazione, ovvero tutto ciò che un normale adolescen-te considera status symbol.Tuttavia, data la loro minore età, e dato che la stragrande maggioranza dei corsi di formazione richiedono come requisiti co-noscenze relativamente avanzate di italia-no, a volte è difficile inserirli velocemente in corsi professionali e bisogna attendere che il ragazzo abbia sviluppato sufficienti competenze di italiano.

L’importanza di attivare le risorse localiPer lavorare con i minori stranieri non ac-compagnati è necessario sviluppare siner-gie con le diverse agenzie del territorio: dai servizi sociali locali, all’asl, alla Questura; ma non solo, anche con le realtà di volon-tariato, con le scuole, con le squadre di calcio locale e con altre realtà sportive. Si deve quindi costruire una rete sul territorio, in modo da potervi attingere risorse per i progetti individualizzati. Perché le risorse

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delle persone si attivano se insieme si mo-bilitano le risorse degli ambienti in cui essi si trovano a condurre, progettare, sognare la propria vita.Tra le risorse locali ci sono sicuramente i volontari, i «cittadini attivi». Un famoso proverbio africano dice che «per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio». Anche noi siamo convinti che non bastino gli operatori, ma ci vogliano volontari for-mati (singoli o famiglie). Costruire una rete di volontari è una operazione che richiede tempo. Per questo, già prima dell’apertura del centro di San Mauro (ottobre 2016), si è pensato di mobilitare la disponibilità di persone e gruppi, dagli scout a persone ap-partenenti ad associazioni di volontariato. Il lavoro dei volontari è gestito e moni-torato costantemente, e i feedback che ci forniscono sui ragazzi sono fondamentali per calibrare il piano individuale.

Una buona accoglienzacrea buoni cittadiniI migranti continueranno ad arrivare sem-pre più numerosi in Europa, complici i conflitti, il land grabbing, i cambiamenti climatici. Difficilmente si potrà arginare il flusso dell’umanità in fuga. Non sono singoli individui, sono popoli che cammi-nano, scappano, sperano. Insieme ai migranti adulti, arrivano sem-pre più e arriveranno minori non accom-pagnati: ragazzi «buoni», ragazzi «cattivi», ragazzi «pigri», ragazzi «brillanti», ragazzi e adolescenti a volte un po’ confusi e ar-rabbiati. Né più né meno degli adolescenti italiani, con l’aggiunta però di una lunga serie di traumi alle spalle: abbandoni, vio-lenze, viaggi tremendi, povertà estreme... Non crediamo che la questione principale sia «se accogliere», ma il «come accoglie-re», ovvero costruire una buona accoglien-

za: centri di accoglienza (che siano Cas, hotspot, sPrar non importa) realizzati in luoghi degni, gestiti in modo chiaro, e con beneficiari accompagnati da una équipe di professionisti del settore, fornendo loro dei servizi sociosanitari equi e di qualità, elaborando progetti individuali basati su integrazione locale, scuola e avviamento professionale. Semplicemente, una buona accoglienza forma buoni cittadini.Certo è rilevante oggi anche curare l’im-patto che l’arrivo di migranti ha sui ter-ritori. A tal fine da un lato serve creare una sensibilità sociale, formare una cultura dell’ospitalità, che spesso nei nostri terri-tori è più presente di quanto si pensi. Ma lo è sotto traccia, e servono professionisti sociali capaci di creare le condizioni e le occasioni perché queste disponibilità vo-lontariamente si mettano all’opera. Dall’altro occorre che la politica, a livello non solo italiano ma europeo, si incarichi di distribuire in modo equo tra i territori le persone rifugiate in generale e i minori non accompagnati in particolare. Perché l’Italia non può e non deve rimanere da sola nella gestione di un fenomeno che è globale e che non sarà passeggero, ma un fenomeno con cui, come parte del mondo «fortunata» e come tale agognata dall’altra parte del mondo «sfortunata», dovremo fare i conti nel tempo.

Luca Fossarello è assistente sociale nel pro-getto Home della cooperativa sociale Terre-mondo a San Mauro Torinese: [email protected] Serafino è assistente sociale nel progetto Home di Terremondo: [email protected] Calò è tirocinante (in Master Era-smus Mundus in Mediazione Inter-Mediterra-nea presso l’Università Cà Foscari di Venezia) nel progetto Home di Terremondo: [email protected]

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punto

bazar | punto Fo | d iscussione | d iar i | l ibr i | segnalaz ioni | locande

Illustrazione di Dario Fo La pace di Aristofane1984, Tecnica mista su tavola

Testo diDario Fo

... si ripete a tormentone che questa è una guerra umanitaria. È interessante notare come avviene questa cancellazione del senso di umanità, questa mostruosa capacità di distinguere un morto da un altro e di collocarli all’interno di due categorie mentali completamente diverse. La morale che rende possibile questo doppio salto mortale logico è quella del fine che giustifica i mezzi. Se il fine è giusto (punire i terroristi) qualunque costo collaterale (uccidere civili innocenti) è accettabile.Al contrario noi pensiamo che per raggiungere un fine giusto si possano compiere solo azioni che rispecchiano la giustizia del fine. Siamo convinti di questo, non solo per imprescindibili ragioni morali, ma anche perché abbiamo dato un’occhiata alla storia e abbiamo notato che ogni volta che si è cominciato a giustificare i mezzi con ilfine sono successi disastri...

(Dal discorso contro la guerra in Afghanistan, 14 ottobre 2001)

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SOSTE DI DISCUSSIONE

Il quotidiano nascere di reti sociali partecipate/2

L’azione dal basso non basta, si rischia la disintermediazioneAnna Monti, Luca Rossetti

L’enfasi sull’azione dal basso delle reti sociali, tanto più in territori complessi, rischia di essere controproducente. Può alimentare forme crescenti di disintermediazione, con quel che comporta in termini di ingannevole autosufficienza dei cittadini e di distanza tra questi e le istituzioni pubbliche, fino a disperdere il senso stesso della politica. Per scongiurare questi rischi occorre stimolare le istituzioni pubbliche a sviluppare una nuova prossimità con i cittadini.

Scriviamo questa «Sosta» dalla ben nota via Pado-

va a Milano, dove come ope-ratori sociali ci troviamo a facilitare percorsi di rete per promuovere su un territorio impegnativo il rispetto reci-proco, la voglia di impegnarsi per migliorare anche dal bas-so, l’arricchimento tra cul-ture per coltivare comunità. Ma anche avendo presente che, in un’epoca di crisi, «te-nere insieme» paure, passioni e conflitti di un contesto è una sfida improba. Si tratta, un passo alla volta, di mettere insieme gruppi diversi e di aprire ponti con le istitu-zioni del territorio favorendo processi di apprendimento re-ciproco. Siamo convinti che in questa fase storica il rapporto con le politiche sia vitale per nominare questioni, presenta-re possibili soluzioni, suggerire un metodo di lavoro basato sul confronto. Ci troviamo, infatti, immersi in situazioni personali e familiari, di gruppo e comunitarie, mai semplici. Con scenari di de-grado relazionale e ambientale che chiamano in causa ruoli e

responsabilità, che spesso sono da ripensare e coordinare in una chiave efficace e generativa per chi abita i quartieri.Diciamo questo dal di dentro di un via e di un quartiere ca-ratterizzati da un alto tasso di immigrazione, ma anche da un rapido processo di innova-zione socio-culturale dove gli abitanti storici si confrontano con nuovi modi di abitare, connotati sia da un tessuto so-ciale multiculturale e cosmo-polita sia da una più recente presenza creativa giovanile.

La sola azionedal bassonon basta più Lavorare in questa situazione ha fatto crescere in noi la consape-volezza che promuovere coesio-ne chiede di provare a risponde-re ai tanti problemi del territo-rio, valorizzando le risorse della comunità, non chiudendoci nell’allestire attività conviviali o eventi, ma puntando sul farci ponte tra istituzioni politiche e cittadini.In questa prospettiva, occorre promuovere e consolidare un modello di governance e nuo-

ve modalità organizzative che alimentino in una città com-plessa come Milano la sinergia tra assessorati e decentramento urbano (i nuovi Municipi). Una necessità indifferibile per dare corpo a processi accompagnati dal basso e governati dall’alto. Il rischio, altrimenti, è che il coinvolgimento e la parte-cipazione risultino effime-ri, generando paradossal-mente sfiducia, dopo aver a l imenta to a spe t ta t i ve . In effetti le difficoltà nel rap-porto con le politiche incidono pesantemente sulla generati-vità sociale. La sola azione dal basso non basta più. I cittadini attivi e attivabili percepiscono segnali di assenza, illusori e con-traddittori. Le persone non ci credono più, gettano la spugna, sentendo che la loro disponibi-lità diventa poca cosa, al punto che il senso di frustrazione si trasforma in rassegnazione e disimpegno.

Una richiesta diffusa di superamento dell’immobilismoRipensando al nostro operare in via Padova una leva signifi-

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In via Padova

si avverte una

grande energia dal

basso, ma questa

energia attende

di incontrare gli

attori istituzionali

dall’alto.

cativa è stata una campagna di ascolto e contatto locale tramite diversi strumenti (questionari, cartoline, presidi, interviste, aperitivi, incontri ad hoc con varie realtà locali) che ci ha raccontato la grande comples-sità nel fare e tenere insieme le persone. E tuttavia, se pur diversi sono i bisogni, comuni sono i desideri, con una dif-fusa volontà di superamento dell’immobilismo. Si avverte una grande energia prodotta (dal basso) da parte di cittadini, organizzazioni, gruppi informali. Ma questa energia attende di incontrare gli attori istituzionali (dall’al-to) che, però, procedono spes-so in ordine sparso senza una precisa intenzionalità. Le particolarità del quartiere, alimentate anche dalla presen-za di giovani design, creativi e artisti, fanno respirare le poten-zialità della bellezza e dell’arte nei luoghi pubblici per ridare vita, significato e socialità ad alcuni «non luoghi». Ma, ancora una volta, sono energie che necessitano di in-contrare politiche pubbliche come elemento di facilitazione e sostegno, coordinamento e arricchimento reciproco.

Il disegno di un arcipelago della coesione Le esperienze attuate con l’a-iuto dei cittadini e dei gruppi locali – dai laboratori di street art agli orti sociali, dal libro fo-tografico Via Padova e dintorni che è un «mosaico» di immagi-ni e racconti della lunga storia della via, al reading letterario tratto dai presidi ai giardini di via Mosso, luogo problematico

del quartiere – ci hanno fatto apprendere sul campo la plura-lità di risposte necessarie. La coesione sociale richiede molti ingredienti: presidio dei luoghi, ascolto, attivazione, riqualificazione del territorio, sicurezza urbana e nuove for-me di socialità da accompa-gnare per rispondere a vecchi e nuovi problemi. Aspetti tutti da tenere a mente nella costru-zione dell’agenda operativa e nel rapporto tra istituzioni e territorio.La capacità generativa è frutto di impegno costante per molti-plicare risorse facendo leva su incontri tra mondi locali (isole), sapendo che la coscienza della frammentazione alimenta oggi l’esigenza di coesione sociale, che passa anzitutto dal «me-scolare», facendo incontrare le comunità di un territorio anche per riconoscere i bisogni comuni. Comunità che spesso si ritrovano «tra di loro», come costellazioni di isole (giovani, famiglie con figli che frequen-tano le scuole, comunità stra-niere, anziani...) che il lavoro di rete cerca di trasformare in un arcipelago di realtà comuni-canti, interessate a conoscersi, incontrarsi, collaborare abbat-tendo gli steccati.

La partecipazione è opportunità ma anche rischio Abbiamo a che fare con un’e-voluzione significativa della partecipazione in un contesto segnato, come molti altri, dalle «difficoltà» della rappresentan-za tradizionale (partiti, sindaca-ti, associazioni di categoria), at-traversato dalla crisi economica e da incessanti flussi migratori.

In questi ambiti la partecipa-zione si è trasformata in poco tempo ed è oggi esposta a un bivio. Da un lato c’è una strada fat-ta da una domanda esigente, adulta e matura, di protagoni-smo proveniente da cittadini e gruppi locali che cercano, nell’interlocuzione con gli at-tori politici e i mondi ammi-nistrativi, risposte articolate, se non di «sistema». Parliamo di gruppi che hanno più volte percorso i gradini della «scala di partecipazione»; che aprono vertenze e interloquiscono con le politiche presentando richie-ste di ricucitura tra frammenti sociali e fisici. Dall’altro, c’è il rischio di ali-mentare scorciatoie, davanti alle difficoltà delle politiche, con l’invocazione di parteci-pazione come delega diretta, disconnessione dalle politiche che si respira in locuzioni come «fate fare a noi che qui ci vivia-mo, dateci i soldi!». Per questo occorre promuove-re la sensibilità e l’attenzione verso processi delicati ma ine-ludibili con azioni in grado di lasciare qualcosa. Si tratta di fa-vorire occasioni di conoscenza, di far crescere la collaborazione tra persone, gruppi e istituzioni facendo insieme e sperimentan-

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do «pretesti», tanto dal basso quanto dall’alto, per sviluppare legami e tenere aperti ponti fra cittadini e amministratori a li-vello di quartiere e di città. Le sperimentazioni più generative si verificano, infatti, nell’incon-tro tra la politica, le reti sociali e i servizi locali. Esperienze che reinventano il governo dei pro-

cessi tenendo conto del contri-buto che può arrivare dal basso come dall’alto coltivando una capacità di apprendimento che mette in gioco il personale poli-tico e amministrativo passando per i gruppi locali e i cittadini coinvolti nei processi parteci-pativi. Esperienze che riescono a passare dal semplice fare rete

al farsi sistema di governo di processi complessi.

Luca Rossetti, socio della coop. soc. B-Cam, lavora al progetto «Co-esione Sociale 3.0» in via Padova a Milano: [email protected] Monti, socia della coop. soc. Comin, lavora al progetto «Coesio-ne Sociale 3.0» in via Padova (Mi): [email protected]

L’Associazione per la legali-tà e l’equità fiscale (Lef) ha

di recente evidenziato come ogni anno chi non paga le tasse ottenga due miliardi in servizi sociali. Leggere questi dati mi ha fatto ricordare frangenti della mia vita professionale, caratteriz-zati dal sospetto nei riguardi di utenti che si rivolgevano al servizio sociale per chiedere un sostegno economico. Il medesi-mo sentore aleggiava anche tra i miei colleghi. Sempre secondo l’analisi Lef: «Chi non versa le imposte, oltre a non concorrere a sostenere le spese dello Stato, ottiene un vantaggio nell’accesso ai servizi erogati in base all’Isee». Quin-di, grazie all’evasione fiscale, queste persone «scavalcano nelle graduatorie i contribuen-ti onesti».

Il servizio sociale comunale di base è luogo per antonomasia

dove si sviluppa maggiormente il sospetto, e accanto ad esso, purtroppo, anche il pregiudizio nei riguardi di alcuni utenti. Il timore di essere «ingannato» certe volte spinge – quasi a livel-li paranoici – l’assistente sociale a essere condizionato da alcuni pregiudizi. In questo servizio si rivolgono persone adulte, o famiglie, il cui reddito è al di sotto dei parame-tri del minimo vitale stabilito dal regolamento comunale (pa-rametri che possono variare da Comune a Comune), che neces-sitano d’interventi a sostegno del reddito. Gli interventi pos-sono essere continuativi o una tantum, a secondo della gravità della situazione e della valuta-zione che effettuerà l’assistente sociale. L’utente che desidera beneficiarne deve produrre la documentazione utile alla valu-tazione, e in questa è compreso il modello Isee. Se in una famiglia c’è qualcuno

che svolge lavoro in nero, quel reddito non risulterà nei para-metri Isee, e non sempre que-ste entrate «ufficiose» vengono dichiarate all’assistente sociale. Perciò, nuclei familiari che non avrebbero diritto a essere aiuta-ti riescono lo stesso a ottenere un sussidio, erodendo e sottra-endo risorse agli utenti onesti.

Ricordo che la questione mi fece riflettere fin dai tempi del tirocinio, quando a volte si sco-privano utenti che non avevano dichiarato entrate provenienti da attività di commercio ambu-lante, colf, operaio nell’edilizia, ecc., esercitate a nero. La que-stione diventava assai più com-plessa quando addirittura acce-devano cittadini appartenenti al circuito della criminalità, che nelle loro distorte logiche d’assistenzialismo «pretende-vano» aiuti sulla base del loro «reddito zero», e nel caso in cui l’istanza era rigettata passavano

L’evasione, porta sul retro per accedere al welfare

L’assistente socialedavanti a certi IseeDavide Pizzi

I DIARI DELL’OPERATORE

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all’azione mediante aggressivi-tà/violenza fisica o verbale, con insulti e minacce all’assistente sociale.

Noi assistenti sociali viviamo, chi più chi meno, all’interno di questo clima, a causa della re-sponsabilità di amministrare danaro pubblico, e spesso l’ho vissuto anch’io. Gli stereotipi possono far emergere dei pre-giudizi, ed è a quel punto che s’inizia a cercare indizi sul teno-re di vita degli utenti, cercandoli attraverso come sono vestiti, se l’abito è di marca, che cellulare hanno, ecc. Certe volte è facile ignorare che una difficoltà economica può insorgere improvvisamen-te, quando meno te lo aspetti, perdendo il lavoro o vedendosi ridotto l’orario con ricadu-te sullo stipendio. Certi abiti una persona potrebbe averli acquistati quando ancora non si trovava in situazione di dif-ficoltà, potrebbe averli ricevuti in regalo, ecc. Un utente afflitto da un problema di nuove pover-tà non ha mai l’aspetto di uno straccione!

Per approfondire il livello di benessere segue, per coloro che non sono già noti al servizio, la visita domiciliare. Talvolta rie-sce a fugare i sospetti, ma altre volte li rinforza. Costosi televi-sori, mobilio di valore e così via non passano indifferenti ai fini della valutazione, soprattutto quando si è abituati a visitare case molto modeste. Ma si può pretendere da una persona che non si era mai trovata prima in difficoltà eco-nomica che venda i pezzi pre-giati della sua casa per la sua

sopravvivenza? Quanto effet-tivamente potrebbe ricavarne dalla vendita al mercatino dell’usato, senza considerare i tempi d’attesa? La cosa sarebbe diversa se pos-sedesse, per esempio, un’auto lussuosa i cui costi di manteni-mento sono significativi. Infatti ho anche incontrato utenti che – prima di venire al servizio sociale – comprendendo l’ur-gente necessità di contenere le spese avevano venduto persino delle utilitarie. L’intervento del servizio non deve però mai essere procrasti-nato fino al punto da costringe-re l’utente a prosciugare prima quasi ogni sua risorsa econo-mica. Agire nei tempi giusti si-gnifica, con buona probabilità, evitare ulteriori peggioramenti e cronicizzazione della povertà. Sprofondare di più nella diffi-coltà economica significa inve-ce compromettere, a fianco alle risorse materiali, anche quelle mentali, indispensabili per non demoralizzarsi e affrontare la situazione.

Purtroppo qualche furbetto s’incontra sempre. È capitato anche a me. Ricordo il caso di una coppia di anziani che ave-vo ereditato da una collega che li aveva seguiti per quasi dieci anni. I due beneficiavano del servizio di assistenza domicilia-re (sad). Un giorno l’operatrice sociosanitaria mi riferì che ave-va dei sospetti riguardo al fatto che la coppia vivesse con la sola pensione del marito, perché li aveva sentiti parlare di affitti da riscuotere. Trasformandomi in poliziotto della tributaria, condussi un’in-dagine catastale, e scoprii che

ciò che aveva autocertificato il figlio della coppia d’anziani non era vero, poiché non era-no stati dichiarati due apparta-menti, un garage e un locale! Il sad, con costo a totale carico del Comune, era costato parec-chio in quei dieci anni!

Da dove possono provenire i due miliardi in servizi sociali di cui beneficiano gli evasori? Ecco qui un breve elenco: dal-le esenzioni del ticket sanitario su visite ed esami specialistici, e per il pagamento del ticket per l’assistenza farmaceutica. Dal bonus sociale per l’energia elettrica e dal bonus sociale per il gas. Dal contributo per il sostegno delle abitazioni in locazione e dall’esenzione sul-la TarI. Dalla deduzione per i familiari fiscalmente a carico e dal censimento anagrafico reddituale per chi vive in al-loggio popolare, e detrazione Irpef per i conduttori di allog-gi sociali. Dalle varie forme di reddito d’inclusione attiva, a livello nazionale o regionale, dalle pensioni d’invalidità, ecc.

Concludo. Lavoro nero ed evasione fiscale (secondo gli studi della CgIa di Mestre la-vorano in nero circa 3 milioni di addetti, che producono 42,7

Un giorno la collega

mi disse che

dubitava che la

coppia vivesse con

la sola pensione di

lui. Li aveva sentiti

parlare di affitti da

riscuotere...

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Davide Pizzi è assistente sociale iscritto all’Ordine regionale della Puglia. Blog: https://assistente-socialereporter.wordpress.com/ - email: [email protected]

mld di euro di evasione fiscale) rappresentano, oltre che un se-rio problema del nostro Paese, anche una via segreta d’accesso ai canali del welfare. Molte persone fruiscono di servizi e prestazioni sociosani-tarie, entrando di fatto da una porta d’accesso sul retro. Il fenomeno è più marcato nelle aree d’Italia dove il familismo amorale e l’alegalità sono larga-mente diffusi. Lavoro nero ed evasione fiscale, oltre a produr-re un danno al sistema fiscale italiano, erodono il paniere del welfare locale e nazionale,

e sottraggono risorse alle fasce di popolazione che sono og-gettivamente in situazione di fragilità economica o, peggio ancora, nell’indigenza.

Una parte di questo proble-ma investe anche l’operatività quotidiana degli assistenti so-ciali che hanno il compito di ridistribuire agli utenti risorse che provengono dalle tasse dei cittadini. Questa responsabi-lità pone noi assistenti sociali in una situazione dicotomica, perché, se da un lato dobbia-mo valutare attentamente le

richieste d’aiuto e intervenire, al contempo dobbiamo evitare facili elargizioni. Il rischio che qualcuno tenti disonestamente di attingere a queste risorse esiste e va com-battuto, ma altrettanto perico-losa è la tentazione di diffidare di chiunque, e di lasciarsi rag-girare – in questo caso – dai propri pregiudizi.

L’Etiko Diversamente Bistrot a Torino

Il bistrot che porta avanti l’opera di Murialdo Gaia Girardi

ANDAR PER LOCANDE

Una sera sono andata a cena al ristorante Etiko Diver-

samente Bistrot di via Filippo Juvarra angolo Corso Palestro a Torino. L’isolato i torinesi lo conoscono bene perché qui sorge la Casa Madre della Congregazione dei Giuseppini del Murialdo, ordine religioso da 150 anni protagonista della vita sociale della città. E perché negli infernotti sottostanti (così si chiamano le cantine della vecchia Torino) sorgeva fino a poco tempo fa il Teatro Juvarra, che ha visto passare il meglio dell’avanguardia teatrale (non solo) italiana.

Ogni cosaè curataDico subito che consiglio que-

sto posto perché fa parte di un progetto che va sostenuto. Va sostenuto perché il locale, molto bello esteticamente, è anche molto bello nel suo cuore: alcune sue parti come i tavoli, le copertine dei menù e i grembiuli del personale sono realizzati in laboratori da gio-vani mamme e ragazzi (guidati da maestri artigiani) che pro-babilmente hanno smesso di credere in loro stessi un po’ troppo presto. Quel legno, quelle copertine, quella stoffa trasmettono la loro lotta, e di nutrirci di speranza oggi ne ab-biamo tutti bisogno, più ancora che di cibo.Nel locale si trovano poi idee molto carine, come le lampade realizzate con delle molle che

nella loro semplicità sono di grande effetto, una luminosa e ampia cucina a vista che per-mette di intravedere il grande lavoro che sta dietro a un piatto e i sassi nei lavandini del bagno, idea semplice ma di grande sim-patia. E infine c’è il menù del bistrot, raccontato con nomi ricercati ma senza ridondanze; anche il bilanciamento della scelta tra piatti di carne, pesce e ve-getariani è accurato. Tutte le materie prime provengono da aziende che hanno saputo dimostrare valori etici nella produzione (agricoltura so-ciale su terreni confiscati alle mafie e prodotti di aziende che impiegano personale disagiato e categorie protette) e rispetto

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per l’ambiente, anche per il be-nessere animale.

L’accoglienza dei camerieriI piatti vengono portati in ta-vola da camerieri meravigliosi. Sorridenti, gentili e così attenti che già solo per la loro presenza qui si sta bene. Questi ragazzi – alcuni di loro si sono forma-ti presso l’ente di formazione dell’opera dei Giuseppini del Murialdo, engIm – hanno im-parato molto bene il concetto dell’accoglienza. Il cosiddetto capitale umano che vince sem-pre su tutto! Ho assaggiato due primi: I no-stri gnocchi di ricotta e crusca con pomodoro crudo e timo e il Risotto carnaroli Tenuta al Ca-stello con barbabietola, crescen-za e zenzero. I secondi propone-vano Rollè di coniglio al forno e fonduta di parmigiano 24 mesi e lo Stinco di manzo e purea di patate all’olio extravergine di oliva. Ma sono passata diretta-mente al dolce, assaggiando il Tortino di cioccolato fondente e nocciole con tartare di frutta (pere o fragole) e il Mille foglie di baci di dama.Il cioccolato è ottimo e provie-ne dal laboratorio della Spes, la cooperativa sociale acquisita dall’Opera torinese Murialdo nel 2011 e ampliata in un pro-getto a filiera corta che conta a oggi quattro punti vendita con caffetteria. Il locale apre alle 7 con le co-lazioni e chiude alle 23 con le cene. A pranzo menù light, con insalate, omelette e piatti veloci.

Murialdo, santo sociale torineseMa torniamo alla storia che

si respira tra le antiche mura, ritmate da archi e volte. Qui Leonardo Murialdo, santo sociale torinese, poco dopo la metà dell’800 iniziò a occuparsi di ragazzi ai margini, cercando di restituire loro una possibilità di vita più dignitosa. Oggigiorno lo spirito primor-diale si conserva in alcuni pro-getti comunitari che ospitano persone temporaneamente in difficoltà, come giovani mam-me con i loro bimbi e ragazzi che hanno scelto condotte tur-bolente per rispondere ai fatti che la vita gli ha posto davanti. Nella stessa struttura accanto alla comunità è sorto un con-vitto per universitari che mira all’integrazione, allontanando l’idea di ghetto che a volte si potrebbe percepire in luoghi come questo. Le cooperative che gestiscono i laboratori e i progetti di inserimento lavora-tivo raccolgono e proseguono il lavoro iniziato dal fondatore, modernizzando progetti e stan-do ai passi con le richieste del nostro tempo. In questo momento nel cortile dell’edificio è in costruzione un parcheggio sotterraneo che vuole generare utili per offrire un miglior sostegno economico ai molti progetti dell’Opera.

150 anni di una storia che continua Appena entrati nel locale ti accoglie una grande frase sul muro: «Se fossero già perfetti, perché educarli?», ovviamen-te citazione del Murialdo. Una frase di sapore ottocentesco, da collocare nel pensiero pedago-gico di quell’epoca, che oggi leggiamo come primo passo verso un pensiero di cura ed

educazione che diventerà più articolato e riflessivo. Oggi certo non useremmo più quelle parole. Chi opera nei campi dell’educare e dell’aiu-to non percepisce più quella pressione a dover «aggiustare» qualcun altro verso un modello di perfezione che di fatto non esiste. Resta però attuale il sen-so della domanda: come fare a tirar fuori dalle persone tutta la meraviglia che hanno dentro? L’educazione è la via. Una via che è una grande avventura umana e professionale. A guardare i volti dei camerieri sembra davvero che gli sforzi in questi 150 anni dell’opera dei Giuseppini del Murialdo si siano coordinati per dare op-portunità di vita felice. Viene in mente una frase di Bertrand Russell: «L’entusiasmo è per la vita quello che è la fame per il cibo». E in questo bistrot, che di sfamare le persone se ne in-tende, l’entusiasmo per la vita è palpabile.

Etiko - Diversamente Bistrot - via Juvarra 13/a - Torino - tel. 011 0448864 – Aperto dalle 7 alle 23, domenica chiuso: info@etiko-bistrot

Gaia Girardi è terapista occupa-zionale, libera professionista: [email protected]

Tra le antiche mura

si respira la storia degli inizi.

Quando, a metà

’800, Leonardo

Murialdo iniziò

a occuparsi di

ragazzi ai margini.

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