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Parola di prete Pensieri in margine all’anno sacerdotale Francesco Farronato

Parola di prete · 2018-12-20 · nericità che non corrisponde al mio cuore, se de-terminativo, le attribuirebbe un’assolutezza che il tuo non accetterebbe. Sì, perché se c’è

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Un ritratto interiore profondamente umano e spiri-tualmente ricco emerge dagli undici quadri che rac-contano, in tono autobiografico, le esperienze vissute dall’autore nel corso della sua vita sacerdotale. Dalla memoria della vocazione e dell’ordinazione; al fondamen-to eucaristico della propria esistenza; alla centralità della Parola; fino al tentare di rimanere sempre tenacemente incollato a Dio pur nelle inevitabili stanchezze e difficoltà del ministero.

FRANCESCO FARRONATO nato a Fellette di Romano d’Ezzelino (VI) nel 1949 è stato ordinato sacerdote nel 1974. Ha ricoperto vari incarichi nella diocesi di Padova, nella quale cura programmi d’impronta religiosa e cultu-rale per la radio («Bluradioveneto»). In particolare si dedica alle scuole di preghiera nelle quali le riflessioni sulla Parola si intrecciano con le immagini della storia dell’arte. Tiene corsi di esercizi spirituali ed è anche parroco.

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Parola di prete

Pensieri in margine all’anno sacerdotale

Francesco Farronato

www.edizionimessaggero.it

9 788825 025606

ISBN 978-88-250-2560-6

€ 11,00 (I.C.)

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Riflessi Red

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Francesco Farronato

Parola di PretePensieri in margine all’anno sacerdotale

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I edizione marzo 2010 I ristampa maggio 2010

ISBN 978-88-250-2780-8

Copyright © 2010 by P.P.F.M.C.MESSAGGERO DI SANT’ANTONIO – EDITRICEBasilica del Santo - Via Orto Botanico, 11 - 35123 Padova

www.edizionimessaggero.it

Prima edizione digitale 2010

Realizzato da Antonianum Srl

Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio,

prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso

senza il previo consenso scritto dell’editore.

Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce

violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata

civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

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Prefazione

amico libero, amico di Parola

Mi si chiede di scrivere qualcosa di te, così, senza darmi altra indicazione. Mi piace! penso io, ma intuisco subito che è impresa che espone per-ché non potrò parlare di te semplicemente come del cappellano della mia parrocchia, cosa che è stata solo in un tempo ormai molto lontano, né come del mio padre spirituale, che non sei più, né nel mio ruolo di collaboratrice nelle tue innume-revoli attività, dato che ciò è vero solo in minima parte.

E allora, mi dico, a che altro posso attingere se non al consistente bagaglio di un’amicizia che vive da molti anni? Lo dico con un certo pudore perché so che questa è cosa che non va ostentata e conosco la difficoltà dell’equilibrio, mai defini-tivamente raggiunto, per cui sento di poter dire di te «amico», così, senz’articolo alcuno che, se indeterminativo, darebbe alla relazione una ge-nericità che non corrisponde al mio cuore, se de-terminativo, le attribuirebbe un’assolutezza che il tuo non accetterebbe.

Sì, perché se c’è una cosa che di te ho im-parato a conoscere è quel bisogno estremo di libertà che ti rende imprendibile e imprevedibi-le… come è giusto che sia… a volte spiazzan-

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doci tutti, perché più ti «stringiamo» e meno ti abbiamo.

Mi sono chiesta spesso come sarebbe stata la mia vita, la mia fede, la mia relazione col mondo e con Dio se, tanto tempo fa, per felice casualità, non fossi inciampata in te. A me che venivo da un’esperienza di vita e di parrocchia «pesanti», certo un po’ tristi, tu hai aperto l’incontro con un Dio leggero e sorridente, finalmente attraente, coinvolto con me (proprio con me!) e per questo capace di coinvolgermi fino al punto di chiedere tutto. E del «Dio leggero» mi hai trasmesso la bel-lezza più e prima che la giustizia, la simpatia me-glio del timore, la gratuità sopra a ogni esigenza.

La «gravità» non abita a casa tua. Non che ciò t’impedisca d’essere qui ora, pienamente respon-sabile di questo oggi che ti è dato, ma ti consente il «balzo lungo», l’essere contemporaneamente già più in là, oltre… imprendibile e imprevedibi-le, appunto!

Gli «spiriti gravi» ne sono infastiditi e ti giu-dicano forse malato d’infanzia; altri rimangono affascinati e ti seguono; io a volte mi arrabbio e vorrei fermarti, più spesso… sfrutto la scia.

Chi ti conosce sa quanto sia importante per te il rapporto con la Parola, ma sa anche quale me-diatore amato e sofferto siano le parole. Parole che prima, in adolescenza, non venivano, a quan-to mi hai raccontato, se non forse per iscritto, ma che dentro parlavano creando modulazioni e atmosfere intraducibili. Ora che il fluire è libero

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e non conosce timidezze o insicurezze, capita di sentirti dipingere con le parole. È un dono che ti è dato e di cui sei consapevole.

E delle parole conosci la forza, il potere e an-che la pericolosità. A bocca aperta ti ascoltavo in quei primi anni di conoscenza quando con le tue parole rendevi viva la Parola. Avrei potuto, forse dovuto, scriverle quelle prediche che finalmente «parlavano a me» e mi inquietavano o rasserena-vano a seconda del… «meteo personale».

Ti ho sentito pronunciare la parola che evo-ca, quella che manifesta la poesia del vivere na-scosta ai più, quella che narra (ti ricordi le favole che ci raccontavi durante i viaggi e che facevi durare un tempo infinito, inventando passaggi e battute inesistenti?). Ti ho sentito usare la parola che spiega, quella che consola, quella che crea e quella che rassicura. Ti ho sentito dire la parola che diverte e quella che stuzzica. Non ti ho mai sentito servirti della parola che ferisce perché, e questo è uno dei tuoi tratti migliori, c’è in te una mitezza naturale, una costante e dichiarata vo-lontà di creare e ricreare l’unità, perché si possa respirare benessere.

Quelli, come me, a cui è data una natura fiera e battagliera, passionale e irruente, sanno voler bene con tutto il cuore ma spesso, anche senza volerlo, generano slabbrature nel contesto dove vivono. Quelli come te possiedono l’ago sottile della ricucitura paziente. Per questo ti cerchiamo e abbiamo bisogno di te. Nella sapiente econo-

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mia della provvidenza noi, forse, ti testimoniamo la tenacia del voler bene «nonostante tutto», tu ci aiuti a ritrovare la calma che ci rifà intorno il tessuto delle relazioni. E lo dico usando un plura-le non per nascondermi, ma perché so che molti hanno tratto beneficio da ciò nella tua vicinanza.

Finisco. Magari, ho detto troppo per qualcu-no. Non per me, che avrei da aggiungere molto ancora. Non ci si sazia troppo in fretta di ciò che è buono. Il resto lo consegno al silenzio che cu-stodisce e non dimentica.

Morena GarbinLaureata in filosofia, insegna presso le scuole elementari,

è consacrata dell’ordine secolare delle «spigolatrici della chiesa». È stata impegnata nella diocesi di Padova

presso il Centro vocazioni e la Caritas per il volontariato femminile. Guida parecchie scuole di preghiera.

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1.

Credere l’inCredibile

Sono passati tanti anni. Dapprima dieci, poi d’un balzo venti. Quindi con soddisfazione e fatica tren-ta. Adesso sono a quota trentacinque. A guardarci dentro trovo tante cose, tanti talenti.

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C’era una volta

Quando mi sono svegliato alla vita, non mi sono svegliato con la sola testa, ma con tutto il corpo, con la pelle, con gli occhi, con i sensi, e la vita l’ho voluta gustare sempre, fin da ragazzo. Mi ricordo che mi sedevo in un angolo, in disparte, a guardare mio papà e gli uomini del borgo che trebbiavano sul cortile di casa: non era lavoro il loro, era festa.

Oppure mi ricordo quando nei campi mi per-devo a contemplare la terra: ho ancora nelle na-rici l’odore dell’erba appena falciata, il profumo intenso della terra arata. È stato mio papà, che di anni ne ha accumulati tanti, è stato mio papà, grande e buon lavoratore, a insegnarmi che tutto nella vita ha il sapore giusto. Occorre cercarlo, però.

Da ragazzo, a dirla con la parabola del Vange-lo, in tasca mi trovai un solo talento. E avere un solo talento, almeno secondo il testo del Vange-lo, significa stare in una situazione molto peri-colosa perché la tentazione della buca è molto forte… perché ne hai uno solo e non puoi tanto rischiare.

In più m’accorsi presto che il mio talento era anche bucato. Cosa voglio dire? Semplice… che non mi bastava; sentivo che mancavo di qualco-sa. Non lo sentivo a livello di testa, lo sentivo a livello di tutto! Sì, il mio primo talento è stato avvertire il bisogno, la necessità estrema di dare

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un senso a qualcosa che mi era capitato in mano, che era lì, la mia vita!

Ho scoperto una cosa bellissima! Sentire la mancanza non è mancanza di senso, ma è il talen-to giusto per dar senso alla vita. Benedetta la po-vertà, quando te la scopri addosso come bisogno enorme di vita, di senso. Benedetto il bisogno, che ti fa attendere… anche quello che non sai!

Vorrei ringraziare tutti quelli che hanno ri-empito il mio talento bucato, dandomi una mano, fin da ragazzo. Lo posso dire con sere-nità: sono andato in seminario solo perché al-tri mi pagavano la retta; sono stato vestito fino all’ordinazione sacerdotale con mutande e ca-micie che mia mamma faceva con stoffe e tes-suti che andavamo a questuare nelle fabbriche dei dintorni…

È andata così. E così il mio talento bucato è stato riempito, non da me, ma dalla gente e so-prattutto da Dio, diventando subito due talenti. E aver due talenti significa andare in zona franca, andare fuori pericolo, poter respirare, far proget-ti e buttarsi, perché… quando ti senti in qualche maniera equipaggiato di qualcosa, vita chiama vita. E fai presto a riempirti: ti affolli l’anima di tanti sentimenti, desideri, voglie nuove. No, non importa che cosa tu vuoi, è importante che tu voglia! Che tu sia desiderio, che tu ti spinga in avanti!

E questo l’ho desiderato visceralmente tutti i giorni di tutta la vita. Ed è quello che mi ha sal-

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vato! Perché puntualmente i due talenti si molti-plicavano in quattro. Era qualcosa di fantastico: sentivo che le persone che incontravo, che il Dio che respiravo, affollavano sempre di più la stan-za della mia vita ma anche quel pieno non mi ba-stava ancora. Avevo ancora fame; dovevo ancora metterci dentro qualcosa di più.

Vita piena chiamava altra vita, ancora vita! De-siderio grande chiamava altro grande desiderio. Sembra impossibile, eppure una stanza piena, per quanto sia piena, domanda di essere riempita di più! È la stanza vuota che ti butta fuori di te-sta, ti getta nella disperazione. La vita piena di… sentimenti, di intrighi, è una vita che domanda di intrigarti ancora di più! Questa è la bellezza dei miei anni sacerdotali passati dentro stanze piene, strapiene di Dio, zeppe di gente!

E a riempirti di Dio finisci in contemplazio-ne… a riempirti di gente finisci per essere tutto lo sporco che la gente ha e tutto il bello che la gente è! Di quale seduzione è capace la gente, mamma mia! Sì, l’ho amata la gente! Mi sono incantato anche dentro la gente, ed è stato bellissimo. È stato bellissimo.

Quante volte ritornando a casa la sera tardi, buttandomi sul letto, dicevo: «Signore, ti ringra-zio. Ma dirti questo è dirti niente. Puoi anche far-mi morire stanotte: vai libero, Signore; non m’in-teressa più, perché mi hai fatto toccare e vivere le emozioni più grandi della vita».

È un’emozione grande sentire che la tua pel-

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le non copre più solo il tuo corpo, ma abbraccia anche la storia degli altri. È un’emozione gran-de sapere di gente che torna a credere nella vita dopo anni di disperazione semplicemente perché ha incontrato la tua parola.

Non è che mi siano mancati i giorni bui, tempestosi… perché, quando hai tanti talenti, ti è anche più facile accontentare qualche de-bolezza. Ci sono stati giorni perciò in cui mi sono sentito un niente. E lo confesso con tan-ta sincerità. Ci sono stati giorni in cui mi sono vergognato di me stesso e ho pianto di me stes-so. Ma, anche quelli sono stati giorni estrema-mente veri, estremamente santi e belli… che mi son cresciuti dentro come altrettanti semi di sapienza.

Come mi sento ora? Mi sento lanciato in un immenso terreno di bellezza, dove io, purtrop-po, risulto sempre troppo povero, troppo pic-colo, rispetto a quanto mi si regala in vita, in bellezza. Vi assicuro. Domando continuamen-te scusa a Dio di essere quel povero prete che sono, anche se non è vero, anche se la gente continuamente mi dice che non è vero. Ma è vero. Tutte le volte che indosso l’abito sacro, la casula per le celebrazioni, non lo sento, per fortuna, ancora pelle della mia pelle, perché è troppo più santo di me! Tutte le volte che ce-lebro l’eucaristia, anche se non sembra, tremo nell’anima… perché è troppo grande quello che faccio rispetto a quello che sono: mi passa

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davanti anche se mi attraversa dentro, rimane sempre più alto di me, perché rimane sempre più in là. Lo diceva, da par suo, anche il grande Eduardo de Filippo quando, vecchissimo or-mai, gli domandavano: «Quando vai a recitare ti trema ancora il cuore?». Lui inevitabilmen-te rispondeva: «Non c’è stata mai una sera che non mi sia tremato il cuore a uscire sul palco!». È la vita che è più grande di noi. Puoi immagi-narti Dio. Per fortuna, dalla parte nostra c’è la sua tenerezza.

Quanti talenti mi restano in mano? Non lo so. Forse sono due, forse cinque. Certamente il pri-mo talento, che mi ritrovo quotidianamente tra le mani e che auguro a tutti, è la parola di Dio. In questi anni mi sono innamorato della parola di Dio o, meglio, è la parola di Dio che si è innamo-rata di uno come me. Le parole di Dio sono quelle da cui tento di trasudare le mie parole. La Parola sua e le parole mie.

Il secondo talento, a cui credo con tutto me stesso dopo la parola di Dio, è la carità. Credo che a questo mondo esiste soltanto un respiro, un fiato, un’anima: il volerci bene, il perdonarci, il guardarci fissi negli occhi e capire che l’altro è come me, una necessità di amore! Odiarci, al-lontanarci gli uni dagli altri non serve, non con-clude: fa perdere tempo, sprecare occasioni ed energie! Non possiamo prenderci questo lusso! Quando, poi, viene a cadere il rapporto tra noi, anche se preghi Gesù Cristo, non funziona più

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niente! Perché Gesù Cristo è il rapporto, Gesù Cristo è l’abbraccio, Gesù Cristo è il bacio… Gesù Cristo è quello che io respiro con te! Sol-tanto questo è vero! Soltanto questo è sacro! Il resto forse è un buon arredo, serve soltanto di copertura. Credo soltanto alla carità, all’amore, all’amore che diventa perdono, misericordia, abbraccio!

Il terzo talento è la bellezza. Mamma mia! Io resto incollato a tutto ciò che è bello! Amo la bellezza con le sue seduzioni, con i suoi pericoli, con i suoi mille intrighi. No, non posso perdermi a inseguire il brutto: è così bello il bello! E allora? Allora voglio il bello, lo voglio in tutte le maniere. Mi ci attacco sopra perché non soltanto voglio il bello, ma voglio io essere bello.

E accanto alla bellezza amo il silenzio. Forse è il quarto talento, se ancora funzionano i nu-meri. In lui amo la parola che tace, amo questo pozzo in cui ci si può perdere, andando a fon-do, senza perdersi. A farci male nella vita si fa presto, si fa presto a fare un taglio sulla mano, però dopo ci vogliono tempi fisiologici molto lunghi per suturare la ferita. E i tempi lunghi sono i tempi del silenzio, i tempi dell’inutilità, quelli giusti per rifarsi le certezze interiori. Le donne direbbero: si fa presto a concepire un bambino, ma ci vogliono nove mesi di inutilità e di silenzio… per farlo nascere. Il silenzio è questo!

E ultimo talento è il godimento. Credo che a

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star bene si sta bene. Credo che a star male si sta male! È una filosofia molto semplice, ma molto vera… Dio è festa! Ma non la festa gestita dai ba-racconi delle sagre paesane o dalle discoteche: Dio è una colonna sonora inesauribile, bellissi-ma, che ti prende e non ti lascia più, t’incanta tut-ta la vita.

Questi sono i talenti che mi ritrovo in mano: da uno solo e per di più bucato, sono passato a due, e da due a cinque. Adesso, cosa mi aspetta? Mi si dice che se io nella banca ho messo tanti soldini, non è più necessario che io mi dia tanto da fare, perché sono quelli che si danno da fare per me, producono da soli.

Dopo tanti anni di sacerdozio, sento che è ar-rivato il momento giusto di lasciar libera la grazia di Dio di produrre lei quello che vuole, come e dove vuole. Credo che questo sia davvero il ri-sultato migliore di quell’unico talento bucato che era solo tanta… fame di Dio, tanta fame di sa-pienza, tanta fame di vita!

nebbia incredibile

Il giorno dell’ordinazione è molto lontano: è stato il 28 dicembre 1974, festa dei Santi Martiri Innocen-ti. Da quella data il mondo è molto cambiato. Cul-turalmente, socialmente, politicamente, spiritual-mente. E anch’io sono cambiato. Mi sembra lontano anni luce quell’avvenimento che ha dato una svolta alla mia vita. Eppure è un fatto presentissimo non

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solo alla memoria, ma anche agli affetti. C’era una nebbia incredibile quel pomeriggio a Fellette di Ro-mano d’Ezzelino (vicenza).

Avevo venticinque anni e gravava una fitta nebbia sulle case del mio paese quel pomerig-gio. Ma anch’io venivo da una nebbia fitta, tutta interiore. M’era scesa improvvisa alcuni mesi prima, quando i superiori del seminario, in cui ero cresciuto per tredici lunghi anni, avevano cancellato per me la data di giugno, appunta-mento solito della diocesi per le ordinazioni di gruppo.

Loro avevano le loro buone ragioni. Io alle loro ragioni mi sentii morire. Altro che eclissi solare: sprofondai in un inferno con tanta rab-bia in corpo e una gran voglia di andarmene, sbattendo la porta.

Mi fermò solo la grazia di Dio: si presentò con le parole di una donna, che mi proponeva di cre-dere a ciò che in quella situazione era incredibile: la bontà della chiesa che mi escludeva e la bon-tà… mia.

Era una scommessa… incredibile. La colsi proprio così e… mi ritrovai a passare pomerig-gi interi, per mesi, nella solitudine più assoluta, accoccolato tra i banchi della chiesa di Monte-merlo.

A quei tempi quella chiesa non era ancora impreziosita dalle vetrate artistiche ed era total-mente spoglia di quadri alle pareti. Era di una nudità assoluta e proprio per questo… anche di

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una solarità accecante. Il sole nei pomeriggi afo-si di quell’estate vi entrava libero dai finestroni, andava a sbattere contro le pareti, rimbalzava moltiplicato sul pavimento, scivolava lungo le colonne e finiva con il gioco chiaroscurale delle cappelle laterali: fasci di luce rendevano d’oro il pulviscolo sospeso in un balenio iridescen-te. Davvero incredibile: con tutta la nebbia che mi fasciava l’anima mi ritrovavo immerso den-tro troppa luce, troppo sole. Era anch’essa una scommessa incredibile, quasi fisica, sulle mie tenebre.

A quei tempi tra le mie mani giravano due li-bri: da un lato gustavo Cittadella, il diario di An-toine de Saint-Exupéry, pilota postale e scrittore- poeta, da tutti conosciuto per II piccolo principe. Dall’altro lato mi mettevo in gioco con il vangelo: mi misuravo con ogni sua parola e la trovavo in-credibile. Era molto al di là dei logaritmi ascetici che mi avevano insegnato in seminario; era mol-to di più degli studi teologici che pure avevo fatto con profitto.

Era una parola che, creduta per quei para-dossi che conteneva, scoprivo finalmente come l’unico codice di vita, l’unica formula che veniva dalla vita e mi assicurava abbondanza di vita. Io cercavo solo questo: una vita che avesse sa-pore, un esistere che fosse sale, che contenesse lievito, che desse luce. Era incredibile volere questo?

Ricordo: cancellai ogni preoccupazione per

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quale sarebbe stata la mia scelta vocazionale. Avrei accettato qualunque risultato… ma vole-vo incominciare a credere sul serio. A che cosa? Credere all’incredibile, sussurrato dal silenzio della parola di Dio.

Feci tacere ogni altra voce, e sì che mi pia- cevano, soprattutto quelle che cantavano da si-rene sui mari della mia giovinezza esiliata. Ac-cettai lo scontro diretto e con il vangelo come abbecedario decodificai i fantasmi delle mie paure, verificai gli inganni e le ambiguità della società.

Ricordo, fu un «corpo a corpo» tremendo e stupendo: da sudar sangue e da sprizzare gioia. Mi ritrovai in quella pagina del Genesi dove Gia-cobbe, il furbo, viene a confronto con un angelo nerboruto sulle rive del fiume Jabbok. Anche là era notte e solitudine, rabbia e frantumazione. Eppure quella volta alla fine era sorta l’alba di un giorno nuovo.

Dio riuscì benissimo anche nel mio caso a ru-barmi il nome, oltre ogni mia resistenza, sfiancan-do anche la mia graniticità di giovane intelligente e rabbioso. Alla fine della notte mi trovai debole, sciancato, ferito, povero, nudo… ma, cosa stra-na, senza vergogna, mentre all’orizzonte si alzava la luce dell’alba.

Pur con le ossa rotte avvertivo soprattutto un piacere che ritornava. Pur dentro tanta violenza, mi ritrovavo liberato, sciolto, leggero. E Dio, stra-no a dirsi, non era quel mostro che, per vivere lui,

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indiCe

Prefazione: Amico libero, amico di Parola . . . . . . . . . pag. 5

1. Credere l’incredibile . . . . . . . . . . . . » 9

2. Insieme . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 27

3. La celebrazione . . . . . . . . . . . . . . . . » 33

4. La Parola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 47

5. Oasi di luce . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 59

6. Seminati nei giorni qualunque lui,io e tutti gli altri . . . . . . . . . . . . . . . . . » 73

7. A tutta festa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 87

8. La Pasqua dei risorti . . . . . . . . . . . . » 103

9. Diritto di riposo . . . . . . . . . . . . . . . . » 125

10. Consegna a staffetta . . . . . . . . . . . . » 137

11. Ciò che lascio… . . . . . . . . . . . . . . . . » 141

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Finito di stampare nel mese di maggio 2010Villaggio Grafica – Noventa Padovana, Padova

«Riflessi RED»Agili libri con una grafica nuova e accattivante, stampati col colore dello Spirito: il rosso. Trattano temi spirituali legati in particolare alle problematiche contemporanee più attuali.

Formato 11x18

Jeremy Hall, Domande a Dio, pp. 96

Gabriel de Saint Victor, La morte conciliata. Messag-gio di speranza di chi se ne va a coloro che resta-no, pp. 152

Jean-miGuel GarriGueS, Nell’ora della nostra morte. Accogliere la vita eterna, pp. 168

FranceSco Farronato, Parola di prete. Pensieri in margine all'anno sacerdotale, pp. 152

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Per ordinazioni: Tel. 049.8603121 - Fax 049.7803156MESSAGGERO DISTRIBUZIONE S.r.l.