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Irma Kurti [Albania] PARLO CON LA TUA OMBRA Su un foglio bianco sto scagliando corpuscoli di ricordi che svolazzano come farfalline intorno a me. Voglio afferrarli e, se riesco, tenerli stretti, così che non mi sfuggano. Oggi è il 25 dicembre, il giorno di Natale. Gli alberi sono pieni di luci. Esse assomigliano alle stelle, che, infiacchite dall’altezza, si sono posate sui rami. Ed io, mamma, ricordo quella vigilia delle feste, in cui tu sei andata via per sempre, portando con te anche quel dì del nostro ultimo autunno insieme. Un tardo pomeriggio passeggiavamo insieme e io cercavo di pareggiare il passo con te. Assorta nel via vai della gente, nella gamma delle luci delle vetrine, senza riuscire a trovare l’incantesimo in tutto ciò, sentii la tua voce che mi svegliò dal silenzio. Tu mi dicesti: «Sarebbe bello celebrare con voi almeno Natale e Capodanno!». Da mesi il tuo corpo ti tradiva, le forze ti stavano abbandonando e ogni giorno insieme, lo vivevamo come fosse l’ultimo. Intuii che cosa volevi dire: vivere con noi queste feste e poi andartene per sempre. Provai una disperazione così profonda che non riuscii a pronunciare nemmeno una parola. Avrei dovuto dirti: «Eh certo che vivrai anche un mese, noi festeggeremo insieme. Ti sentirai meglio, ti riprenderai...». Ma non ho potuto, perché tutto il mio essere era preda di una grande e incommensurabile costernazione che mi diceva il contrario: tu, io, nonostante sognassimo che vivessi di più, non potevamo variare nulla davanti alla fatalità della tua partenza senza ritorno. Ciò era deciso da qualcuno molto più potente di noi. Pronunciai solo un “sì sì”, tra i denti, ma quello che volevo fare era urlare. Volevo dare sfogo al rancore dentro di me, volgere gli occhi verso il cielo e gridare: «Se tu lassù veramente esisti, dalle ancora un mese di vita! È tanto? Com’è possibile che non riesca a leggere nel suo spirito, nel mio, la voglia inesauribile di vita? E se la leggi, è così difficile donare a una persona solo un mese?» Tacqui. Gli occhi mi brillarono di lacrime e per non lasciarle scorrere diedi uno sguardo ai negozi, alla moltitudine di persone che già uscivano con i sacchetti pieni e sembravano beffarsi della mia afflizione. Tu non sei riuscita a festeggiare né Natale né Capodanno del 2007. Non sei andata via, la morte ti ha divorato, proprio pochi giorni dopo quella passeggiata in una serata autunnale. Gli alberi erano spogli, come la mia anima priva di sensazioni. In quel vuoto non poteva stare nemmeno il mio strazio. Le luci si sono spente nella mia mente non dandomi mai più la possibilità di conoscere la raffigurazione della felicità. Se solo un filo fosse dipeso da te, non ti saresti mai allontanata, avresti lottato con tutte le forze per rimanere in questa vita con me, almeno per un mese. Mi sento persa in questo 25 dicembre. Sono trascorsi cinque anni da quando tu non ci sei più ed io vivo queste feste come un’ingiustizia. Penso a te, al tuo desiderio e mi dispero che nessuno ti abbia ascoltato e non abbia realizzato il tuo sogno. Non doveva essere inattuabile: solo un mese di vita! Non è giusto che io sia rimasta sulla terra e debba festeggiare, gioire, ritirare i regali sotto l’albero di Natale mentre il sorriso mi fiorisce sul viso. Il Natale si celebra in famiglia. Ma la mia famiglia non è più completa ora e non lo sarà mai, perché manchi tu. Questa sera, mentre la macchina scivolava sulle strade bagnate ed io mi sorprendevo per i torrenti di pioggia che non cessavano più da due settimane, ho provato una strana sensazione. Non volevo tornare al mio appartamento, ma venire al cimitero. Volevo fermare la macchina, camminare a passi veloci, mettere disattenta i piedi nelle pozzanghere d’acqua affrettandomi per essere lì, vicino a te,

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Irma Kurti [Albania] PARLO CON LA TUA OMBRA Su un foglio bianco sto scagliando corpuscoli di ricordi che svolazzano come farfalline intorno a me. Voglio afferrarli e, se riesco, tenerli stretti, così che non mi sfuggano. Oggi è il 25 dicembre, il giorno di Natale. Gli alberi sono pieni di luci. Esse assomigliano alle stelle, che, infiacchite dall’altezza, si sono posate sui rami. Ed io, mamma, ricordo quella vigilia delle feste, in cui tu sei andata via per sempre, portando con te anche quel dì del nostro ultimo autunno insieme. Un tardo pomeriggio passeggiavamo insieme e io cercavo di pareggiare il passo con te. Assorta nel via vai della gente, nella gamma delle luci delle vetrine, senza riuscire a trovare l’incantesimo in tutto ciò, sentii la tua voce che mi svegliò dal silenzio. Tu mi dicesti: «Sarebbe bello celebrare con voi almeno Natale e Capodanno!». Da mesi il tuo corpo ti tradiva, le forze ti stavano abbandonando e ogni giorno insieme, lo vivevamo come fosse l’ultimo. Intuii che cosa volevi dire: vivere con noi queste feste e poi andartene per sempre. Provai una disperazione così profonda che non riuscii a pronunciare nemmeno una parola. Avrei dovuto dirti: «Eh certo che vivrai anche un mese, noi festeggeremo insieme. Ti sentirai meglio, ti riprenderai...». Ma non ho potuto, perché tutto il mio essere era preda di una grande e incommensurabile costernazione che mi diceva il contrario: tu, io, nonostante sognassimo che vivessi di più, non potevamo variare nulla davanti alla fatalità della tua partenza senza ritorno. Ciò era deciso da qualcuno molto più potente di noi. Pronunciai solo un “sì sì”, tra i denti, ma quello che volevo fare era urlare. Volevo dare sfogo al rancore dentro di me, volgere gli occhi verso il cielo e gridare: «Se tu lassù veramente esisti, dalle ancora un mese di vita! È tanto? Com’è possibile che non riesca a leggere nel suo spirito, nel mio, la voglia inesauribile di vita? E se la leggi, è così difficile donare a una persona solo un mese?» Tacqui. Gli occhi mi brillarono di lacrime e per non lasciarle scorrere diedi uno sguardo ai negozi, alla moltitudine di persone che già uscivano con i sacchetti pieni e sembravano beffarsi della mia afflizione. Tu non sei riuscita a festeggiare né Natale né Capodanno del 2007. Non sei andata via, la morte ti ha divorato, proprio pochi giorni dopo quella passeggiata in una serata autunnale. Gli alberi erano spogli, come la mia anima priva di sensazioni. In quel vuoto non poteva stare nemmeno il mio strazio. Le luci si sono spente nella mia mente non dandomi mai più la possibilità di conoscere la raffigurazione della felicità. Se solo un filo fosse dipeso da te, non ti saresti mai allontanata, avresti lottato con tutte le forze per rimanere in questa vita con me, almeno per un mese. Mi sento persa in questo 25 dicembre. Sono trascorsi cinque anni da quando tu non ci sei più ed io vivo queste feste come un’ingiustizia. Penso a te, al tuo desiderio e mi dispero che nessuno ti abbia ascoltato e non abbia realizzato il tuo sogno. Non doveva essere inattuabile: solo un mese di vita! Non è giusto che io sia rimasta sulla terra e debba festeggiare, gioire, ritirare i regali sotto l’albero di Natale mentre il sorriso mi fiorisce sul viso. Il Natale si celebra in famiglia. Ma la mia famiglia non è più completa ora e non lo sarà mai, perché manchi tu. Questa sera, mentre la macchina scivolava sulle strade bagnate ed io mi sorprendevo per i torrenti di pioggia che non cessavano più da due settimane, ho provato una strana sensazione. Non volevo tornare al mio appartamento, ma venire al cimitero. Volevo fermare la macchina, camminare a passi veloci, mettere disattenta i piedi nelle pozzanghere d’acqua affrettandomi per essere lì, vicino a te,

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accanto al marmo verde. Sdraiarmi su di esso e sentire le corde della pioggia picchiarmi il corpo spietatamente. Sentire la freddezza del marmo, perché ciò che senti tu probabilmente è freddezza. Diventare un tutt’uno con il buio, perché anche tu sei diventata parte del buio. Volevo fermarmi lì, stare con te, perché questo giorno si celebra con la famiglia, con le persone amate. Parlare, sotto la luce fioca del piccolo abete che ho messo sulla tua tomba, con la tua foto che guarda solo me con dolcezza e sussurrarti: «Cincin!». «Il cimitero è aperto oggi?», chiedo con un filo di voce. «Come può essere aperto oggi, il giorno di Natale. E poi quando, a quest’ora?». «Sì, vero, che stupida che sono!», balbetto e mi zittisco. Ho gli occhi pieni di lacrime. Non voglio piangere, questo è il mio dolore e non voglio condividerlo con nessuno. Sapevo che era chiuso, ma ecco, proprio oggi mi ha invaso un forte senso di nostalgia, che mi rode lo spirito e mi lascia lo strazio nel petto. Voglio uscire dalla macchina, bagnarmi, aggiungere a questa pioggia le mie lacrime, alzare gli occhi al cielo e cercare l’immagine della persona a me cara che non c’è più. Chiamare a piena voce: «Mamma-aa!», come facevo nel cortile dei giochi del mio palazzo, quando ero bambina. Ma questo cielo un tempo non ha ascoltato le mie preghiere, non voglio rivolgermi ad esso anche ora. Non mi ha sentito o forse non mi ha capito perché questo cielo mi è estraneo. Anche la pioggia che cade è tale da non riuscire a bagnarmi. Questa è la sensazione che ho oggi, anche se il cimitero è chiuso. Il Natale si deve festeggiare solo con la famiglia. Alzo gli occhi dal foglio bianco. Ti vedo davanti a me. Parlo con te, con la tua ombra. Distinguo il tuo sorriso che mi riempie tutto l’essere di gioia, i tuoi occhi, il prato verde che mi regalava pace quando ero piccola e su cui correvo felice. Per un momento non ti vedo più. Il vuoto mi occupa tutta. Forse ti ho spaventato? Mamma, avrei dato la mia vita per farti felice, ma inconsciamente ti ho procurato anche amarezze. Ti chiedo scusa per le notti insonni, per le mie conversazioni lunghe in cui ti smarrivi spesso dimenticando anche te stessa. Ti chiedo perdono, perché non ti ho detto: «Ti voglio tanto bene!». Come vorrei tornare indietro nel tempo, averti con me solo un momento per dirtelo! Ma ormai è tardi. Perdonami per i miei momenti di nervosismo! Mi ricordo quando stavamo insieme nella stanza da letto, parte del nostro piccolo appartamento, e tu mi raccontavi storie del tuo passato. Spesso appoggiavo un libro aperto sul grembo e cercavo di leggere. Una volta ti dissi: «Voglio leggere ora, lasciami in pace!». Oppure te l’ho detto più volte? Sono spiacente di non averti dedicato il tempo che tu hai riservato a me! Perché non ti ho ascoltato? Perché non ho imparato qualcosa di più del tuo passato? Come vorrei saperne di più! Chi mi racconterà le storie che non sono riuscita a sentire, il tuo sogno lontano d’amore, di cui non hai provato nemmeno un bacio? Chi risponderà a tutte le domande che ora affliggono la mia anima stanca? Mi sembrano noiosi i libri che ho letto in quel periodo, non vorrei mai toccarli di nuovo. Non voglio tenerli neanche negli scaffali della mia biblioteca. Mi hanno rubato il tempo più prezioso: quello che potevo passare con te. Cosa non avrei dato per averti qui mamma! Non so perché ti vedo di rado, molto di rado. Non sei mai venuta a incontrarmi, a quanto pare è impossibile. So che se fosse esistita un’unica opportunità tu saresti venuta, avresti bussato alla porta, saresti apparsa nelle mie notti insonni. Mi avresti bisbigliato che cosa fare quando mi trovo nella morsa dell’incertezza. Ti saresti convertita in un bacio, in un abbraccio e mi avresti calmato nei momenti di crisi. Oggi, per tutto il pomeriggio sei stata innanzi a me. Ed era la prima volta. Forse avrai sentito i miei singhiozzi o forse la mia anima, mentre si lamentava dal desiderio di vederti. E per questo sei venuta. Tutto il tempo mi hai guardato con attenzione come per leggere la mia inquietudine. Ma tu lo sai ora che il mio patimento più grande sei tu, cioè la tua assenza.

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Continui a guardarmi negli occhi. Sei propensa a dirmi: «Anima della mamma, quanto sei dimagrita!». Nessuno ha questa premura per me, nessuno mi asciuga le lacrime e mi tranquillizza, come facevi tu una volta. Perché tu avevi un cuore grande come il mare, pieno d’amore. «Mamma per favore, non fuggire, stai ancora un po’ vicino a me!». Ho paura di dimenticare, temo che il tempo farà svanire la tua immagine. Ti prego, resta un po’, ho bisogno di vederti, annientare la nostalgia, disegnare di nuovo il tuo ritratto e metterlo in memoria. Intatto. Mi dispiace di averti lasciato andare! Dovevo calpestare tutti i luoghi sacri, lì, dove i miracoli accadono. Non l’ho fatto, ho sbagliato. Ti chiedo perdono! Non ti vedo più. È così che ti allontani anche nei sogni, scivoli come un raggio di sole e le tenebre mi gelano il corpo. Mamma! Ho scritto queste briciole di ricordi per non dimenticarli. Per liberarmi in qualche modo dal senso di colpa, per ammettere cose che non sono riuscita a dirti quando eri in vita. Per accentuare per la centesima volta che nella mia anima regna un vuoto che nessuno può colmare. Concludo qui questa conversazione. Termino anche la lettera. Ho messo punto alla fine delle frasi che sembrano come gruppi di uccelli spaventati in un cielo che avvisa la tempesta, cioè le mie lacrime. Porterò con me questa lettera quando arriverò da te e in quel regno del silenzio, la leggeremo insieme. Fino ad allora, arrivederci!