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Rogers Brubaker Neoistituzionalismo e nazionalismo* Le nazioni vengono rappresentate concettualmente come entità reali, come comunità, come collettività sostanziali e stabili. E mentre il fatto che esistano è dato per scontato , come le nazioni esistano -e come s iano arrivate a esistere un argomento di ampia discussione. Una concezione analoga, il gruppo come entità reale, è stata prevalente per molto tempo in molti campi della sociologia e delle scienze affini. Ma in que- st'ultima decina d'anni almeno quattro sviluppi della teoria sociale hanno con- tribuito a minare il concetto che i gruppi siano entità reali e sostanziali. Primo, il crescente interesse verso le forme di rete, il fiorire della teoria della rete, e il sempre maggiore uso della rete come immagine o come metafora di orien- tamento generale nella teoria sociale. Secondo, la sfida che le teorie dell'azio- ne razionale hanno posto alla concezione realistica del gruppo 1 con il loro implacabile individualismo metodologico. Il terzo sviluppo è la tendenza a passare da posizioni generalmente strutturaliste a una varietà di posizioni teo- retiche più "costruttiviste"; nel senso che mentre le prime consideravano i gruppi come componenti stabili della struttura sociale, le seconde vedono il gruppo in quanto tale come qualcosa di costruito, contingente e fluttuante. Il quarto, infine, è l'emergere di una sensibilità teoretica postmodernista che enfatizza il frammentario, l'effimero e la erosione delle forme fisse e delle separazioni nette. Questi sviluppi, per quanto dissonanti e persino contraddit- • Testo pubblicato nel 1996. l. In questa tradizione, la letteratura sull'azione collettiva, da M. Olson, The Logic of Collective Action: Public Goods and the Tbeory of Groups, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1971; tra d. i t. La logica dell'azione collettiva. I beni pubblici e la teoria dei gntppi, Milano, Feltrinelli, 1983; fino a M. Hechter, Principles of Group Solidarity, Berkeley, Ucla Press, 1987, è stata particolarmente importante nello sfidare le interpretazioni correnti di gruppo e della formazione di gruppo. 90

Neoistituzionalismo e nazionalismo* · ... come le nazioni esistano -e come siano arrivate a esistere -è un argomento di ... di etnonazionalismo rampante,·la tentazione ... la patria

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Rogers Brubaker

Neoistituzionalismo e nazionalismo*

Le nazioni vengono rappresentate concettualmente come entità reali, come comunità, come collettività sostanziali e stabili . E mentre il fatto che esistano è dato per scontato, come le nazioni esistano - e come siano arrivate a esistere -è un argomento di ampia discussione.

Una concezione analoga, il gruppo come entità reale, è stata prevalente per molto tempo in molti campi della sociologia e delle scienze affini . Ma in que­st'ultima decina d'anni almeno quattro sviluppi della teoria sociale hanno con­tribuito a minare il concetto che i gruppi siano entità reali e sostanziali. Primo, il crescente interesse verso le forme di rete , il fiorire della teoria della rete, e il sempre maggiore uso della rete come immagine o come metafora di orien­tamento generale nella teoria sociale. Secondo, la sfida che le teorie dell'azio­ne razionale hanno posto alla concezione realistica del gruppo1 con il loro implacabile individualismo metodologico. Il terzo sviluppo è la tendenza a passare da posizioni generalmente strutturaliste a una varietà di posizioni teo­retiche più "costruttiviste"; nel senso che mentre le prime consideravano i gruppi come componenti stabili della struttura sociale, le seconde vedono il gruppo in quanto tale come qualcosa di costruito, contingente e fluttuante . Il quarto, infine, è l'emergere di una sensibilità teoretica postmodernista che enfatizza il frammentario , l'effimero e la erosione delle forme fisse e delle separazioni nette. Questi sviluppi, per quanto dissonanti e persino contraddit-

• Testo pubblicato nel 1996. l. In questa tradizione, la letteratura sull'azione collettiva, da M. Olson, The Logic of

Collective Action: Public Goods and the Tbeory of Groups, Cambridge, Mass. , Harvard University Press, 1971; tra d. i t. La logica dell'azione collettiva . I beni pubblici e la teoria dei gntppi, Milano, Feltrinelli, 1983; fino a M. Hechter, Principles of Group Solidarity, Berkeley, Ucla Press, 1987, è stata particolarmente importante nello sfidare le interpretazioni correnti di gruppo e della formazione di gruppo.

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tori, hanno avuto un effetto convergente nel rendere problematica la teoria dei gruppi e nel far vacillare l'assioma del gruppo inteso come entità stabile.

In ogni caso, questo prendere le distanze dall'idea del gruppo come entità reale è stato più o meno marcato. Per dare un esempio, è stato assai evidente nello studio della classe, specialmente nel caso della classe operaia, un termi­ne che oggi è difficile usare senza fare uso di virgolette o di qualche altro siste­ma che lo metta in risalto. In effetti, la classe operaia - considerata come entità reale o come una comunità sostanziale - praticamente non viene più presa in considerazione come oggetto di analisi. È stata messa in dubbio sia da affer­mazioni teoretiche che da dettagliate ricerche empiriche nel campo della sto­ria sociale, della storia del lavoro e anche della storia dei discorso e della mobilitazione popolare L..]. Lo studio della classe come linguaggio culturale e politico, come forma di lotta e come dimensione intrinseca astratta della strut­tura economica rimane vitale; ma non è più impacciato dalla concezione delle classi come entità reali e stabili.

Allo stesso tempo, però, il concetto che le nazioni siano entità reali conti­nua a permeare lo studio dello status nazionale e del nazionalismo. Oltretutto, questa immagine realista e sostanzialista di nazione viene condivisa anche da pensatori che poi, sotto altri punti di vista, hanno idee assai diverse riguardo allo status di nazione e al nazionalismo.

Da una parte, essa informa il concetto che gli stessi nazionalisti e gli stu­diosi con idee filonazionaliste hanno del nazionalismo. Secondo il loro punto di vista, il nazionalismo presuppone l'esistenza delle nazioni, e in effetti costi­tuisce la manifestazione delle loro lotte per l'autonomia e per l'indipendenza. Le nazioni sono considerate individui collettivi, capaci di azioni collettive coe­renti e intenzionali. Il nazionalismo è un dramma in cui le nazioni sono gli attori principali. Si potrebbe pensare che questa immagine sociologicamente naif non sia presa molto in considerazione dalla dottrina recente; ma in realtà ha avuto un certo successo, ultimamente, nelle interpretazioni del riemergere di forme di nazionalismo nei paesi della ex-Unione Sovietica [. .. ].

Ma il principio che le nazioni siano ontologicamente reali ispira anche dot­trine più sobrie e meno celebrative. Consideriamo un solo indicatore di que­sto fatto. Innumerevoli discussioni sullo status nazionale e sul nazionalismo incominciano con la domanda: che cosa è una nazione? La questione non è teoreticamente innocente come sembra: sono proprio i termini in cui è posta a presupporre l'esistenza dell'entità che deve essere definita. La domanda riflette già di per sé stessa la convinzione realista e sostanzialista che "una nazione" è una entità reale di qualche genere, anche se forse di un genere elu­sivo e difficile da definire.

A vedere le nazioni in termini di entità reali e di collettività sostanziali non sono soltanto i cosiddetti primordialisti, cioè coloro che enfatizzano le radici

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profonde, le origini antiche e la forza emotiva dell'attaccamento alla nazione. [. . .] Ragionano così anche molti "modernisti" e "costruttivisti", i quali conside­rano le nazioni come il risultato dell'azione di forze quali l'industrializzazione, lo sviluppo, la crescita delle reti di comunicazione e di trasporto, e delle spin­te potentemente integratrici e omogeneizzanti dello Stato moderno. Questo approccio sostanzialista non è tipico solo di quelli che definiscono le nazioni "obiettivamente", cioè in termini di caratteristiche oggettive condivise da tutti, come la lingua, la religione e via dicendo; esso è ugualmente caratteristico anche di coloro che enfatizzano fattori soggettivi, quali la comunanza di miti, di memorie o di convincimenti personali.

Paradossalmente, un approccio di tipo realista e sostanzialista permea anche i lavori di coloro che cercano di ridurre alle giuste proporzioni, e di demistificare, il nazionalismo negando la realtà stessa delle nazioni. Secondo il loro punto di vista, se la nazione è una comunità illusoria o spuria, una cor­tina di fumo ideologica, allora il nazionalismo deve essere un caso di falsa coscienza, o un errore di persona. Questo ragionamento riduce la questione della reale esistenza o della reale efficacia dello status di nazione o della idea di nazione all'interrogativo se le nazioni siano realmente comunità o colletti­vità concrete, e perciò preclude la possibilità di trovare maniere alternative e teoreticamente più promettenti di concepire status di nazione e idea di nazio­ne.

Il problema di questa visione sostanzialista che considera le nazioni come entità reali consiste nel fatto che adotta categorie di pratica come se fossero categorie di analisi. Essa cioè prende un concetto inerente alla pratica del nazionalismo e alle realizzazioni dello Stato moderno e del sistema statale -vale a dire la concezione realista che reifica le nazioni e le materializza in comunità reali - e lo rende un concetto fondamentale per la teoria del nazio­nalismo. La reificazione è un processo sociale, non solo una pratica intellet­tuale. Come tale, è basilare nel fenomeno del nazionalismo, cosa che abbiamo potuto vedere anche troppo chiaramente in questi ultimi anni [. .. ]. In quanto analisti del nazionalismo, dovremmo certamente provare a spiegare questo processo sociale di reificazione, attraverso il quale l'immagine politica fittizia di nazione diventa - da un momento all'altro eppure in maniera efficace - rea­lizzata nella pratica. Questo è forse uno dei compiti più importanti della teo­ria del nazionalismo. Ma dovremmo evitare di riprodurre o rinforzare invo­lontariamente questa reificazione di nazioni nella pratica con una reificazione delle nazioni in teoria.

Controbattere la concezione realista e sostanzialista di nazioni non signifi­ca mettere in discussione la realtà dello status di nazione. Significa, piuttosto, rendere di nuovo concettuale quella realtà. Significa separare lo studio dello status di nazione e della idea di nazione da quello delle nazioni come entità,

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collettività e comunità sostanziali. Come pure significa porre l'attenzione sulla idea di nazione vista come variabile concettuale, per usare un'espressione di ].P. Nettl2, non sulle nazioni viste come collettività reali. Si tratta di considera­re la nazione non come sostanza ma come forma istituzionalizzata; non come collettività ma come categoria pratica; non come entità ma come evento con­tingente. Solo in questo modo possiamo cogliere la realtà dello status di nazio­ne e la forza vera del nazionalismo, senza dover fare ricorso nelle nostre teo­rie proprio alla "immagine politica fittizia" della "nazione" la cui efficacia desi­deriamo spiegare nella pratica [...l.

Non dovremmo chiederci "che cos'è una nazione" ma piuttosto: in che modo lo status di nazione, come forma politica e culturale, viene istituziona­lizzato nell'ambito degli Stati e tra gli Stati? Come opera la nazione in quanto categoria pratica, come schema di classificazione, come struttura cognitiva? Che cosa conferisce maggiore o minore risonanza o efficacia all'uso di questa categoria da parte degli Stati, o contro gli Stati? Che cos'è che dà maggiori o minori probabilità di successo alle evocazioni della nazione e alle invocazioni alla nazione, nella retorica dei discorsi di certi politici? [. .. l

Questo potrebbe sembrare un momento non troppo propizio per un argo­mento del genere. Il collasso dell'Unione Sovietica, i conflitti nazionalistici negli Stati che ne sono eredi, le guerre etnonazionali in Transcaucasia e nel Caucaso settentrionale, la carneficina nella ex-Jugoslavia: non dimostra tutto questo - ci si potrebbe chiedere - in maniera stringente la realtà e la forza delle nazioni? Non è questa una dimostrazione del fatto che le nazioni hanno potu­to sopravvivere in quanto gruppi solidali, in quanto centri di identità colletti­va, di lealtà collettiva e basi di azione collettiva, malgrado gli sforzi dell'Unione Sovietica e della Jugoslavia di schiacciarle?

In un contesto di etnonazionalismo rampante,·la tentazione di adottare una prospettiva centrata sulla nazione è comprensibile. Ma bisognerebbe resistere a una tentazione del genere. Il nazionalismo non è generato dalle nazioni. Esso è prodotto - o meglio, è indotto- da campi politici di particolari tipi [. .. ]. Le sue dinamiche sono governate dalle proprietà dei campi politici, non dalle proprietà delle collettività3.

Prendiamo per esempio il caso del nazionalismo sovietico e di quelli post­sovietico. Considerare questi ultimi come le lotte di nazioni, di gruppi reali e

2. Cfr. ).P. Netti, "The State as a Conceptual Variable", in: "World Politics", 20, 1968. 3. Sviluppo questa linea analitica [. .. ] usando "campo" in un senso più o meno simile a

quello inteso da Bourdieu. Per un'esposizione particolarmente chiara del concetto, cfr. P. Bourdieu, L. Wacquant, An Invitation to Reflexive Sociology, Chicago, Chicago University Press, 1992, pp. 92 e ss.

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solidali, sopravvissuti in qualche modo malgrado i tentativi sovietici di schiac­ciarli - sostenere che le nazioni e il nazionalismo attualmente stanno rinascen­do malgrado le spietate politiche antinazionali del regime sovietico - significa riportare le cose esattamente indietro. L'enfasi sullo status di nazione e sul nazionalismo è maggiore oggi in gran parte proprio a causa delle politiche del regime sovietico. Anche se antinazionaliste, queste politiche non sono state anche antinazionali. Lungi dal reprimere in maniera spietata lo status di nazione, il regime sovietico lo ha istituzionalizzato in maniera puntigliosa. Il regime reprimeva il nazionalismo, naturalmente; ma allo stesso tempo [. .. ] si è spinto più in là di qualunque altro Stato prima di allora, o da allora in poi, nello istituzionalizzare lo status di nazione territoriale e la nazionalità etnica come categorie sociali fondamentali . E nel fare questo esso ha creato inavver­titamente un campo politico con una fortissima tendenza al nazionalismo.

Il regime ha fatto questo in due modi. Da un lato, ha ritagliato lo Stato sovietico in più di cinquanta territori nazionali, ciascuno definito espressa­mente come la patria di un particolare gruppo etnonazionale e per quel grup­po etnonazionale specifico. I territori nazionali di primo rango - quelli che sono oggi gli Stati successori indipendenti - erano definiti come Stati quasi­nazione, e ciascuno aveva il suo proprio territorio, nome, costituzione, legi­slazione, organi amministrativi, istituzioni culturali e scientifiche, e così via.-)

Dall'altro, il regime ha diviso la popolazione in un sistema meticoloso di nazionalità etniche mutualmente esclusive, in tutto più di cento. Codificata in questo modo, la nazionalità etnica servì non solo come categoria statistica, unità base per i computi statistico-sociali, ma anche, e in maniera più caratte­ristica, come status obbligatoriamente attribuito. Questo veniva assegnato dallo Stato ai vari individui all'atto della nascita, sulla base della discendenza. Veniva registrato nei documenti di identità personale. Ne veniva presa nota in quasi tutti i passaggi burocratici, nelle transazioni e negli atti ufficiali. Veniva inoltre usato come strumento di controllo per l'accesso all'istruzione superiore e come elemento discriminante per i posti di lavoro più ambiti, in maniera da limitare le opportunità di certe nazionalità, soprattutto gli ebrei, e da favorirne altre mediante sistemi di trattamento preferenziale per le cosiddette naziona­lità "titolari" all'interno delle "loro" repubbliche.

In questo modo, già molto tempo prima di Gorbaciov, lo status di nazio­nalità territoriale e la nazionalità etnica erano forme sociali e culturali istitu­zionalizzate in maniera pervasiva. E non si trattava certo di formule vuote. Sono state tenute in poco conto dai sovietologi, senza dubbio perché il regi­me reprimeva in maniera continua ed efficace tutti i segni evidenti di nazio­nalismo politico, e a volte anche il nazionalismo in senso culturale. Tra l'altro, la repressione del nazionalismo andava di pari passo con il processo di con­solidamento dello status nazionale e della nazionalità etnica come forme

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cognitive e sociali fondamentali . All'epoca della glasnost, queste forme già isti­tuzionalizzate in maniera meticolosa vennero propriamente politicizzate. Esse costituirono le basi del pensiero politico, della retorica politica, dell'interesse e dell'identità politica. Per dirla nei termini della metafora dell' "uomo-interrut­tore" di Max Weber, esse determinarono le vie da seguire, il quadro cognitivo secondo cui l'azione veniva spinta dalla dinamica degli interessi materiali e degli ideali . Nel fare questo, lo status nazionale e la nazionalità etnica contri­buirono in maniera determinante allo sgretolamento dell'Unione Sovietica e allo strutturarsi di politiche nazionaliste dopo il suo collasso.

Ho sostenuto che dovremmo considerare la nazione non come sostanza ma come forma istituzional'izzata, non come collettività ma come categoria prati­ca, non come entità ma come evento contingente. Dopo aver parlato di status di nazione come forma istituzionalizzata e come categoria cognitiva e socio­politica voglio dire qualcosa, in conclusione, sulla idea di nazione come even­to. Qui le mie notazioni saranno più schematiche e programmatiche. Intendo semplicemente puntualizzare un gap nella letteratura e suggerire una linea di lavoro potenzialmente produttiva.

[La nazione come evento contingente]

Nel parlare di idea di nazione come evento contingente, segnalo una dop­pia contraddizione. La prima è tra nazione come entità e idea di nazione come proprietà variabile di gruppo, di relazione [. .. ]. La seconda è tra il concetto di status di nazione o di idea di nazione come qualcosa che si sviluppa oppure come qualcosa che accade. Voglio mettere a fuoco in particolare questa secon­da contraddizione tra la prospettiva evoluzionista e quella casualista. [. . . ]

Esiste un'ampia e matura letteratura evoluzionista sullo status di nazione e sul nazionalismo. Questa letteratura ripercorre i cambiamenti politici, econo­mici e culturali che a lungo termine hanno portato, nel corso dei secoli, all'e­mergere graduale della nazione o, come preferisco dire, dell'idea di nazione. I lavori più significativi degli ultimi dieci anni sulla nazione e sul nazionalismo - in particolare quelli di Ernest Gellner, di Benedict Anderson, Anthony Smith ed Eric Hobsbawm [. .. l - sono tutti evoluzionisti in questo senso.

Per contrasto, mancano analisi sofisticate casualistiche sull'idea di nazione e sul nazionalismo. Vi sono naturalmente molti studi su nazionalismi specifici, particolari, che si riferiscono a periodi di tempo più brevi delle decine di anni, o dei secoli, caratteristici della letteratura evoluzionista. Ma i sociologi e gli stu­diosi di scienze politiche hanno avuto la tendenza a non considerare l'evento nella loro ricerca di spiegazioni strutturali e culturali generalizzate; mentre gli

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storici, che danno per acquisito il significato degli eventi contingenti, non sono stati inclini a teorizzarli [. . .].

Non mi risulta che vi siano studi analitici approfonditi sul concetto di idea di nazione intesa come evento, cioè qualcosa che cristallizza di colpo piutto­sto che svilupparsi in maniera graduale; una immagine variabile se e come cambia la situazione; e quindi una contingente e precaria motivazione di azio­ni individuali e collettive, piuttosto che il risultato relativamente stabile di ten­denze evolutive consolidate nel campo dell'economia, del sistema politico e della cultura. Però è possibile costruire un caso teoretico coerente per un approccio casualistico all'idea di nazione. Come Craig Calhoun ha recente­mente sostenuto in uno scritto sul movimento di protesta degli studenti cinesi del1989, l'identità dovrebbe essere concepita come "prodotto variabile di azio­ne collettiva", non come il motivo stabile che ne è alla base4. Bisognerebbe proprio dire la stessa cosa a proposito dell'idea di nazione.

È necessaria e urgente, oggi, una prospettiva teoreticamente sofisticata sul­l'idea di nazione e sul nazionalismo. Per riuscire a capire il significato del col­lasso dell'Unione Sovietica e della Jugoslavia e delle sue conseguenze, abbia­mo bisogno - tra l'altro - di riflettere teoreticamente sulle fluttuazioni relativa­mente improvvise che si verificano nella "idea di nazione" dei gruppi e sugli adattamenti nelle relazioni. Dobbiamo riflettere teoreticamente sul processo di essere "sopraffatti dalla nazionalità", per usare l'acuta espressione della scrit­trice croata Slavenka Drakulic. La Drakulic descriveva così la propria situazio­ne. Come molti della sua generazione postbellica era piuttosto indifferente alla questione della nazionalità. Eppure le capitò- contro la sua volontà - di esse­re definita solamente dalla sua nazionalità, imprigionata da una categoria dive­nuta qualcosa di fin troppo reale5. Per come vanno le cose nella ex-Jugoslavia il suo caso non è particolarmente grave. Però illustra in termini personali un avvenimento più generale e importante, la relativamente improvvisa e perva­siva "nazionalizzazione" della vita pubblica e persino di quella privata. Ciò ha significato la nazionalizzazione degli schemi del linguaggio e dell'interpreta­zione, della percezione e della valutazione, del pensare e del sentire. Ha impo­sto il silenzio o l'emarginazione al linguaggio politico alternativo e non nazio­nalistico. Ha comportato la nullificazione d'identità complesse schiacciate dalla terribile, categorica semplicità della nazionalità ascritta. Ha provocato catego-

4. C. Calhoun, "The Problem of Identity in Collective Action" in: ). Huber (a cura di), Macro-Micro Linkages in Sociology, Newsbury Park, Sage, 1991 , p. 59

5. [. .. ]S. Drakulic, 7be Balkan Express: Fragmentsjrom the Other Side ofWar, New York, Norton, 1993, pp. 50-52.

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rizzazioni essenzialiste, demonizzanti, dell'"altro" nazionale, caratterizzazioni che trasformano serbi in cetnici, croati in ustascia e musulmani in fondamen­talisti.

Sappiamo bene da una varietà di terribili testimonianze che ciò è accadu­to; ma sappiamo troppo poco su come ciò sia accaduto. Ed è qui che abbia­mo bisogno di una prospettiva casualistica. [. . .] [D]obbiamo porre una seria attenzione teoretica agli eventi contingenti e alle loro conseguenze trasforma­triei [. . . ]. Solo in questa maniera possiamo sperare di comprendere la dinami­ca dei processi nazionalistici. Ed è l'attento studio della dinamica di tali pro­cessi, io credo, che produrrà nei prossimi anni il lavoro più originale e signi­ficativo sul nazionalismo, lavoro che promette passi in avanti teoretici come pure una più completa comprensione dei casi particolari [. .. ].

Ho cominciato con la domanda: in che modo dobbiamo considerare lo sta­tus di nazione e l'idea di nazione, e in che modo essi sono implicati nel nazio­nalismo? Ridotta a una formula, la mia tesi è che noi dovremmo focalizzare la nazione come categoria pratica, lo status di nazione come forma culturale e politica istituzionalizzata, e l'idea di nazione come evento o accadimento con­tingente, ed evitare di usare la nozione analiticamente dubbia di "nazione" per indicare collettività sostanziali e stabili. [. . . ]

Il nostro non è , come si dice spesso, e lo dice anche un pensatore sofisti­cato come Anthony Smith, un "mondo di nazioni"6. È un mondo in cui lo sta­tus nazionale è istituzionalizzato in maniera capillare nelle pratiche degli Stati e nelle opere dei sistema statale. E un mondo in cui la nazione è ampiamen­te, anche se in modo non uniforme, disponibile e ha risonanza come catego­ria di visione e divisione sociale. È un mondo in cui l'idea di nazione può improvvisamente, e in maniera forte, "verificarsi". Ma nulla di tutto questo implica un mondo di nazioni, di collettività effettive e stabili.

Per comprendere la forza del nazionalismo non abbiamo bisogno di ricor­rere alle nazioni. E non dovremmo, all'altro estremo, scartare totalmente lo sta­tus nazionale. Abbiamo bisogno, piuttosto, di separare le categorie di analisi dalle categorie pratiche, conservando le analiticamente indispensabili nozioni di nazione come categoria pratica, status di nazione come forma istituziona­lizzata, e idea di nazione come casualità, ma lasciando "la nazione" come comunità stabile ai nazionalisti.

6. A. Smith, National Identity, London, Penguin Books, 1991 , p. 176.

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