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Nel nome di Dio. Un Giudice Penale e un Sacerdote Mago

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Il romanzo “Nel Nome di Dio –Storia di un Giudice Penale e di un Sacerdote Mago-“ attraverso la vicenda di un Magistrato e di un Esorcista, alleatisi per salvare un uomo, racconta il vissuto quotidiano di un Giudice Penale, al di fuori degli stereotipi proposti dai media, in una ricostruzione veritiera delle sue categorie di ragionamento, della sua solitudine, degli ostacoli frapposti all’accertamento della verità, nello sforzo di conservarsi integri in mezzo alle difficoltà della quotidianità, e di un Sacerdote che guiderà il Giudice attraverso l’esperienza sconvolgente di un esorcismo, eseguito con l’impiego di energie fuori dal comune alle quali l’Esorcista attingerà, forte di un passato oscuro dal quale ha cercato redenzione. Il percorso interiore dei personaggi diverrà il percorso del passaggio dal buio alla luce, nel monito finale che porrà ogni coscienza davanti al giudizio dell’Uno Creatore, in un’epopea dell’anima raffigurata in una trama ricca di colpi di scena.

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A Tu per Tu

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Maria Francesca Mariano

Nel nome di DioUn Giudice Penale e un Sacerdote Mago

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Per Ermete ed Amos,uniti da una donna.

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Questa è la storia del sogno di un esorcismo durato un anno e mezzo, ma ricordate che è solo un sogno,

dove ogni riferimento a fatti e persone è frutto del caso,e se voi, leggendo, doveste pensare di riconoscere

qualcuno, vi assicuro che anche voi state sognando.

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Prima Edizione: 2014

ISBN 9788898037513

© 2014 Edizioni Psiconline - Francavilla al MarePsiconline® Srl66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/ATel. 085 817699 - Fax 085 9432764Sito web: www.edizioni-psiconline.ite-mail: [email protected]

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I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qual-siasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimen-to in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi.

Finito di stampare nel mese di Maggio 2014 in Italia da Digital Print Service srl - Segrate (MI) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psi-conline® Srl)

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INDICE

I Capitolo II CapitoloIII CapitoloIV CapitoloV CapitoloVI CapitoloVII CapitoloVIII CapitoloIX CapitoloX CapitoloXI CapitoloXII CapitoloXIII CapitoloXIV CapitoloXV CapitoloXVI CapitoloXVII CapitoloXVIII CapitoloXIX CapitoloXX CapitoloXXI CapitoloXXII CapitoloXXIII CapitoloXXIV CapitoloXXV Capitolo

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XXVI CapitoloXXVII CapitoloUltimo capitoloConclusione

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I CAPITOLO

“Alzati gli occhi verso i suoi discepoli, Gesù disse:Beati voi, poveri in spirito, perché vostro è il Regno di Dio,Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati,Beati voi, che ora piangete, perché riderete,Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi mette-

ranno al bando e vi insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell’uomo.

Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli. Allo stesso modo, infatti, facevano i loro padri con i profeti.

Ma guai a voi ricchi, perché avete già la vostra consolazione.Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame.Guai a voi che ora ridete, perché sarete affl itti e piangerete.Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso

modo, infatti, facevano i loro padri con i falsi profeti”.

“Voi vi dite cristiani, ma siete sicuri di conoscere Gesù? Se lo conosceste davvero, molti di voi che sono seduti qui se ne andrebbero, e molti di coloro che sono fuori entrerebbero qua dentro. Se volete conoscere Gesù è tutto in questa parabola. Ma dovete leggerla sino in fondo e collocarla nel contesto della co-munità in cui nacque. Adesso vorrei compiere un gesto profetico. Vorrei prendere quel crocefi sso che è alle mie spalle e spaccarlo in testa a qualcuno, perché voi capiate che i segni esterni non servono a niente. Gesù non è in quel pezzo di legno, Gesù è vivo,

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è il Dio dei poveri, sta con gli ultimi, con i disgraziati, con gli ignoranti. Dicevo l’altra sera ad un convegno che nessun uomo può dirsi più colto di un altro, perché chiunque abbia vissuto ha appreso e può insegnare. Basta con la carità verso i poveri, i po-veri sono in Dio. Gesù è la ricchezza dei poveri e la povertà dei ricchi, per realizzare la fraternità di tutti. Gesù non fa la carità al povero, non organizza le feste di benefi cienza, non vende le torte per dare il ricavato alle parrocchie. Gesù condivide il tuo destino. Fare la carità non serve a nulla. Se io do una moneta ad un uomo che striscia ad un incrocio io non avrò risolto il suo problema, che è la fame di lavoro e di dignità, avrò solo lavato la mia co-scienza. Ma non serve. Gesù non da la moneta al povero, si siede con lui, mangia con lui, condivide la sua storia, fa amicizia con il povero. Il Regno di Dio non sta nell’alto dei cieli, è qui sulla terra, in mezzo a noi. Il Regno di Dio è la città dei bambini, dove si può correre e giocare, dove la segnaletica funziona, dove non si ruba e non si uccide. Il Regno di Dio è un Sogno, il sogno della felicità. Questo è Gesù, la felicità dell’uomo, il Sogno di Dio per l’uomo. Basta fl agellazioni, basta digiuni ed astinenze. Gesù mangiava e beveva, banchettava, rideva, condivideva. Gesù vuo-le la nostra gioia, non sa che farsene delle nostre fl agellazioni. Io conosco le povertà di ciascuno di voi. Voi affermate di non essere ricchi, dite che la povertà è anche spirituale, ma poi supponete di essere ricchi spiritualmente e cadete in contraddizione.

Ma la nostra povertà è grande. La povertà dell’individuali-smo, che uccide la comunità; la povertà dell’incapacità di prega-re il Signore rivolgendosi a lui come papà, senza la mediazione dei foglietti scritti, della retorica ecclesiastica; la povertà di non riuscire a creare un rapporto diretto con Dio. Quando permet-tiamo all’individualismo di sopraffarci, quando il macigno che c’è tra noi e Dio diventa silenzio è allora che noi affermiamo il trionfo della morte. Gesù, invece, è la Resurrezione. Tutto il Cri-stianesimo si riassume nella Resurrezione, il resto non conta. Il discorso della montagna è il manifesto della felicità. In sostanza la Buona Novella è l’annuncio che il Regno dei Cieli è arrivato

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sulla terra, il cielo ha invaso la terra, è alla portata di ciascuno di noi. Quindi siate felici. Siate felici nella povertà dello spirito, o meglio con spirito, nel senso non di rinunciare ai beni materiali esclusivamente per distaccarsi da essi come i fi losofi cinici, ma nel senso di accogliere la povertà come un dono o di condividere con gli altri la propria ricchezza”.

La gente lo guardava magnetizzata. La Chiesa del centro stori-co era fredda, umida, di marmo striato, senza colori, senza strut-tura. Fra’ Ermete era al centro dell’altare, giovane e bellissimo. I riccioli castano chiari, folti e gonfi come la criniera di un leone, scendevano sulla spalla oltre il collo confondendosi con la barba e circondavano due occhi scuri limpidi, su un viso regolare ed ampio. Alto e snello, emanava regalità. Nulla aveva di santo, in una sfacciata virilità che ostentava senza affaticarsi. Di là su una sedia c’era gettato il suo cappotto biondo e uno sciarpone di lana rossa fatto a mano. La chitarra era posata accanto alla scalinata.

Lì dentro si conoscevano tutti, quelli erano la sua truppa, un manipolo di uomini e donne stanchi di ascoltare i soliti sermo-ni sonnolenti nella penombra delle cattedrali, persone che erano partite in ricerca di qualcosa di nuovo, di una Parola che entrasse nella vita e diventasse vita. Erano giunti da percorsi diversi, da storie personali complesse, e si erano ritrovati lì, scacciati dal santuario perché quel frate faceva troppo rumore, urlava trop-po quando parlava, rideva troppo forte durante l’omelia, qualche volta lanciava una parolaccia, diceva la verità senza metafore, era selvatico, sgarbato, intelligente e colto. Era un uomo per il quale valeva la pena di uscire dal santuario, di sedersi in una chiesetta gelida dimenticata in un angolo di paese, di sentirsi dire di essere strani, controcorrente, forse un gruppo di eretici insod-disfatti del bene comune.

Lui lo sapeva, sapeva quanto fosse grande il potere del suo di-scorso, quanto devastasse le coscienze, quanto turbasse gli animi, agitasse, muovesse, togliesse sassi interiori, sapeva che questo lo avrebbe reso inviso, contrastato, denigrato, ma si esponeva fi no alla consunzione di sé. È diffi cile dire se lo facesse per vocazione

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o per missione. Più facile pensare che fosse lo spirito di contrad-dizione a prevalere, la convinzione di dover dire ciò che gli altri tacevano, di dover spalancare porte serrate, di dover trasmettere un unico messaggio, quello della libertà, nella convinzione che solo un uomo libero fosse un fi glio di Dio e che ogni fi glio di Dio dovesse essere libero.

Sembrava borioso, arrogante, quasi fosse il solo depositario della verità rivelata. Eppure fra’ Ermete attirava come quando dal buio si cerca a tentoni la luce, restandone abbagliati dopo un lungo percorso, e la sua capacità di accogliere chiunque da qua-lunque inferno venisse, con la stessa rassicurante certezza della fratellanza di Gesù per ogni creatura vivente, compensava la sua capacità di non fare sconti a nessuno.

Il rispetto delle regole era un discorso a parte. Perché ad un uomo libero non servono regole, ad un uomo che non ha nulla da perdere non serve nulla, perché ha già tutto in quanto non pos-siede niente. Lui, infatti, andava dove lo portava Gesù, seguito dal suo manipolo di amici, fi no ad essere conosciuto in tutti gli angoli della terra. La comunicazione, anche telematica, era la sua arma per scardinare il potere che dimenticava l’uomo, per difen-dere e rivendicare i diritti umani, per lottare ovunque ci fosse la buona battaglia da combattere.

Adesso, dopo tanto tempo, io che ho vissuto la sua storia, ho diffi coltà a fare il conto di chi lo abbia odiato di più o di chi lo ab-bia più amato. So che lui passò nelle vite di tanti come un vento caldissimo, che tutto consumò. Prese il meglio da ciascuno e lo piantò nella terra perché facesse frutto, e lei, che lo amò dall’ini-zio più di tutti, fu per lui la strada segnata.

“Non fate complimenti, i complimenti sono solo catene, ser-vono a legare. Siate voi stessi, coscienti del vostro valore. Non lasciate dipendere la stima e il vostro posto nel mondo dalle lu-singhe degli altri, siate centrati su di voi, sappiate che in qualun-que luogo voi potete rivendicare il diritto di parlare perché siete fi gli di Dio, fratelli e sorelle in Gesù. Per questo ognuno di voi ha la sua dignità, la sua integrità, la sua autostima. Non temete di

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parlare in pubblico o davanti ai potenti, perché in voi c’è lo Spi-rito Santo e chiunque di voi potrà dire cose più sagge dell’uomo più illustre ed anche di me. La Parola di Dio non è appannaggio esclusivo dei preti, voi potete leggere il testo e commentarlo, voi siete la Chiesa, noi siamo la comunità cristiana. Svegliatevi!”

Il sole nel piazzale luccicava sulle pietre levigate del selciato, accovacciato nella corte costeggiata da vecchi caseggiati. Lo sci-rocco umido, morbido, dondolante, entrava nei cappotti e sotto i piumini gelando le ossa. Ma tutti erano lì in piedi ad attenderlo, chiacchierando con lo sguardo rivolto verso la porticina laterale della chiesetta, fi nchè il suono inconfondibile della sua risata e il suo passo svelto avvertivano il suo arrivo. I discorsi si inter-rompevano, il respiro esitava, lo sguardo sbirciava fra la gente, facendosi largo di soppiatto. Poi frà Ermete usciva travolgendo il suo gruppo come una folata più intensa di scirocco e cominciava a dire ciò che si poteva fare durante quella settimana, gli incontri che c’erano, i giorni in cui sarebbe mancato. A guardarlo nessuno lo avrebbe immaginato ad insegnare teologia nell’aula univer-sitaria, perché la sua teologia era complessa e raffi nata, eppure stranamente semplice, facile da capire, sebbene rivoltasse il con-cetto. Come fosse possibile capovolgere una storia lasciandola identica a se stessa, nell’ortodossia della dottrina ecclesiastica e dentro di essa, era un mistero in cui nessuno entrava, perché la sua conoscenza dei testi, del mondo e dell’uomo lasciavano gli altri un passo indietro sulla soglia della sua mente, affacciati in ascolto.

Lei fuggiva per prima, non stava lì ad attenderlo, perché era infastidita dalla corte, era infastidita dalla corsa al monopolio del-la sua persona, da dover dimenare la coda per qualche secondo di attenzione, prima che il più disgraziato di tutti, il più sconosciuto, l’ultimo arrivato carpisse la sua attenzione per un tempo infi nito. Era una sensazione che oscillava tra la gelosia e il rispetto della sua libertà di scegliere il peggiore, ma anche consapevolezza del privilegio di un canale comunicativo esclusivo che non doveva passare davanti agli altri.

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Tutto questo un giorno divenne sofferenza, estraneità, pazien-za immensa, divenne follia. Ma il tempo è una variabile impor-tante per chi narra l’eternità delle cose ed Ermete era così impor-tante che la sua esistenza in vita non pareva affatto indifferente per il bene del mondo. Peccato che fosse lì per le ragioni sbaglia-te, ma nemmeno lui lo sapeva.

Io lo scoprì, lacerando la mia anima.“L’anima, voi l’avete mai vista? Io no. Noi siamo il nostro

corpo. Il corpo ci serve per proiettarci nel mondo e nella storia, per essere qui e adesso, per amare, per sostenere il fratello, per prendere su di sé il peso del suo dolore e renderlo nostro. Basta questa inutile mortifi cazione del corpo, la bellezza è un pregio, fa parte della vita.”

“Ma cosa dice questo qua? Che l’anima non esiste? Ma da dove viene? Che intende?”

Il solito mormorio di sottofondo, di quelli che hanno sem-pre la risposta a tutte le domande. Il suo gruppo, seguendolo, imparò che ognuno di loro era la risposta e che fi nchè avessero avuto domande da fare sarebbero stati alla ricerca della verità. Quando lei si sedeva in cerchio nella sale in cui si riunivano di notte, come i primi cristiani nelle catacombe, al riparo dalla sa-pienza dei giusti, sopportava ore ed ore di discorsi vuoti per una sua parola piena, perché il buio che aveva invaso il suo passato diventasse piano piano luce. Mentre ciò accadeva lei entrava in collisione con la sua tenebra e la assorbiva impossessandosene, per essere povera cosa davanti a tanta conoscenza del divino, il suo ponte di passaggio verso la luce. Lui lo ignorava, scorrendo fra di loro nell’apparente coscienza di una libertà superiore che agli altri mancava. Ma lei conosceva il suo tormento, lo strazio che si impossessava di lui quando rientrava nel silenzio della sua cella e stava ore davanti al computer per parlare col mondo, per-ché il chiasso degli altri gli impedisse di cadere nel baratro che lo risucchiava, portandolo alle estremità di una sofferenza così profonda che si intravedeva appena nelle esplosioni di una gioia cercata a tutti costi come unico rimedio per sopravvivere.

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La convinse lui ad entrare nel circolo. Lo aveva ascoltato per qualche mese quando ancora gli consentivano di celebrare in cat-tedrale. La prima volta che lo vide restò sorpresa dalla sua bellez-za, come non si addicesse agli uomini di Dio. Appena cominciò a parlare la forza del suo argomentare, lo Spirito che soffi ava alto fra le sue parole nel coraggio di gridare l’indicibile, le fece sen-tire cose pensate e sostenute nel chiuso di se stessa e per questo riconosciute come vere. Il fatto che fossero dette ad alta voce, in fronte a mille volti, fra i quali chiunque poteva esserci, senza timore per la propria sorte, nella consapevolezza che dire il vero sia la sola strada per un cambiamento positivo dei sistemi di vita, la fece sentire davvero meno sola, perché lui proiettava dall’alta-re quello che lei costruiva nel suo lavoro, rompeva gli equilibri, spostava l’asse centrale della logica socialmente imposta, mo-strava la fi erezza dell’amore di Dio, faceva di giustizia e pace il fondamento della dignità umana.

Per questo lei gli aveva telefonato. Aveva scelto proprio lui per aiutare un amico in grave diffi coltà, un uomo che aveva smarrito il senso della vita e che lottava con il desiderio di morte, senza che il suo sostegno sortisse alcun effetto. Non sapeva di aver chiesto il suo numero di cellulare ad un confratello che avrebbe reso diffi cile ogni istante della sua vita in quella casa, perché la sua idea della cristianità trascorreva fra immagini e parole con-suete che nulla di diverso avrebbero dovuto avere per non ferire. Ma il nostro percorso umano a volte segue direzioni singolari e si serve delle circostanze meno propizie per mettere in contatto chi doveva entrare in contatto.

“La settimana prossima sono a Roma, debbo completare le mie ricerche nella biblioteca della Gregoriana”, le aveva detto lui distrattamente, mentre continuava a scrivere al computer, “ma appena torno ti chiamo e andiamo a trovare questa persona. Quanti anni hai?”

“Penso di essere qualche anno più giovane di te. Tu sei verso i quaranta?” Aveva risposto lei ribaltando la domanda.

“Allora la barba mi invecchia, perché sto ancora al di sotto. Va

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bene, siamo coetanei. Chiamami Ermete. I titoli non si addicono ai fratelli”.

Lei non aveva mai pensato di chiamarlo diversamente. Quan-do quello divenne il modo in cui tutti quelli del gruppo lo chia-mavano restò delusa, perché era la sua prerogativa e tutti coloro che ripetevano quel nome urlandolo come si fa nel concerto di una rock star le pareva profanassero quel legame silenzioso ed esclusivo che accomuna coloro che nascono dalla stessa radice.

Ma in quell’occasione pensò che si sarebbe presto dimentica-to della sua richiesta di intervento presso un uomo di cui ignora-va persino l’ identità, così riprese a chiedersi cosa avrebbe potuto fare da sola. Invece dopo due settimane Ermete chiamò, perché nulla di lei sarebbe mai passato inosservato.

Si incontrarono di notte nell’angolo di una calda città medi-terranea, quasi lui potesse muoversi solo nel buio intenso della sera. Lasciò la sua auto, affacciò la testa leonina nel fi nestrino di quella di lei con un sorriso luminoso e l’aiutò a prendere i pacchi.

“Cosa hai portato?” le chiese.Lei era alta, ma Ermete la sovrastava di oltre dieci centimetri.

Indossava jeans schiariti, un maglione coloratissimo sul quale stava gettata una borsa di pezza ricamata in qualche Paese im-poverito.

“Cibo. Ho cucinato per noi. Un uomo depresso, che non man-gia, fuma e beve caffè gettato su un divano, accetta di ricevere qualcuno. Credo sia l’occasione buona per farlo mangiare”, ri-spose mentre cercava di prendere il necessario dall’auto.

“Si, il cibo allontana la morte. Chissà che penserà quando ve-drà me”, borbottò lui seguendola a passo svelto verso un giardino in penombra con un cancelletto socchiuso.

Quando furono nella casa davanti ad un uomo triste, magro, vestito di nero, Ermete sedette su una sedia studiando come avrebbe potuto riportare alla normalità una situazione singolare, non voluta dal padrone di casa che non comprendeva il senso della sua presenza.

Lei cominciò a muoversi in fretta, a parlare ridendo. Prese del

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sale grosso da un sacchetto ed iniziò a gettarlo nell’abitazione.Ermete scoppiò a ridere: “guarda”, disse al padrone di casa,

“questa ragazza così matta da venire a cercarti nel cuore della notte con uno sconosciuto, che tutto sembra tranne che un frate, e che vaga nella tua casa gettando sale benedetto, è la vita che ti viene incontro”.

La notte li vide parlare per molte ore. Ermete riempiva una stanza. Sviluppava energia, diffondeva calore. Lei era leggera come una falena, profonda come il mare striato nella luce del mattino. Lui era vento, inafferrabile, imprendibile. Lei era roc-cia, salda, ferma. Lui era fuoco, acceso, mobile. Lei era acqua, rapida, intensa.

Molti progetti avrebbero realizzato insieme e molte persone avrebbero soccorso. Qualche giorno dopo decisero di recarsi in un campo di rifugiati di etnia araba. Lui arrivò con un’ora di ri-tardo. Lei lo attendeva al freddo e al buio. Non si lamentò. Entrò in un furgoncino sgangherato, simile ad una vecchia giostra con lui che guidava incerto.

“Perché porti il saio?” gli chiese“Lo porto solo se sono nel ruolo uffi ciale”, rispose lui“E siamo in un ruolo uffi ciale?” Chiese lei, “è una povera don-

na, ammalata, senza un soldo. È stata per anni la mia governante fi nchè non è stata costretta a fermarsi. Te lo avevo raccontato”.

“Si, ma la comunità islamica in cui vive è più ampia di lei. Meglio vestirsi così”, rispose Ermete mentre il pulmino sobbal-zava sulla strada dissossata e lei dondolava sul sedile.

“Certo che tu, viaggiare qua dentro! Da non crederci!” Le dis-se guardandola con occhi da lupo.

“Fermati”, replicò lei.Lui bloccò il pulmino di botto. Intorno a loro c’era campagna

arida, qualche alberello, lo scirocco tiepido bagnava i muretti a secco e si avvolgeva tra le pale dei fi chidindia.

“Che c’è?” chiese lui con aria furba.Lei prese un sacchetto di carta, lo aprì e gli mise in mano un

panino: “mangia. Ho pensato che saresti venuto digiuno ed avre-

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sti avuto fame”.Lui, sorpreso, prese il panino e lo addentò senza ringraziare.

Non ringraziava mai.Lei tremava. Non per l’umidità, né per l’attesa in auto al buio.

C’era energia, la stessa dell’altra sera. Sapevano di essere poco comuni, diversi, disorientanti. Sentiva entusiasmo, forza, quasi stessero per alzarsi in volo, tenerezza, compassione. Usava tutto di sé, per trattenere quell’unica parola di lui che non voleva fosse detta.

Lui tremava. Lei aveva intuito la sua fame, la sua stanchezza, il suo desiderio di esserci oltre il limite della fatica, aveva sazia-to il suo bisogno di tempo nell’attesa, senza protestare, aveva i capelli ondulati sciolti sino alla vita, il viso di una dama antica, emanava energia. Avrebbe detto molte cose, ma temeva che lui pronunciasse quell’unica parola che si agitava sul perimetro del-le labbra e non poteva essere detta né pensata.

“Mi passi l’acqua?” le chiese“Non ho portato acqua”, rispose lei.“Come hai fatto a non prendere acqua ed a pensare al panino!

Non è possibile”, disse lui deglutendo.“Berremo al campo”, rispose lei ridendo.Borbottando si rimisero in marcia. Oh! Se la notte avesse

combattuto il mattino restando al suo posto, se i fuochi fossero rimasti alti mentre le ombre intorno si radunavano, se la terra bollente avesse custodito il tempo, chissà, quella notte, quante altre cose si sarebbero detti loro due, così uniti, seduti sui tappeti davanti alle tazze fumanti di tè arabo. Lui la spalleggiava lascian-dola libera di parlare con la donna e con sua fi glia. Lei si faceva da parte perché lui avesse spazio di discutere con gli uomini sen-za distrarsi un momento per proteggerlo. Narrano ancora di quei due, in quel campo, che giunsero nella notte, sedettero fra di loro senza timore, condivisero la loro miseria, la loro sfortuna, il loro andare per il mondo, senza impazienza, senza rancore.

“Sei giovane e bello, signore”, disse Fatima, “perché un uomo come te fa questa vita? Tu potresti avere una donna, una fami-

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glia”.Lei si agitò. Non erano domande da fare ad un religioso. Per

lei i religiosi non erano né uomini, né donne, esistevano e basta. La sua educazione occidentale, cortese, discreta, le avrebbe im-pedito di parlare così ad un uomo di Dio. Ma quella donna ap-parteneva ad un’altra cultura, dove gli uomini di Dio prendevano moglie ed avevano fi gli, ed un uomo poteva avere più mogli.

Lui sorrise: “mi piace fare questo”.“No, non è così. Fai questo perché sai di farlo bene, ma non

ti piace fare questo. Tu soffri”. Fatima stava seduta sul tappeto folto, rosso scuro, con il volto olivastro rotondo, i capelli avvolti in una sciarpa nera, meno scura dei suoi grandi occhi limpidi, fi ssi in quelli di lui.

“Lascialo in pace”, disse lei, che tante volte aveva sperimen-tato su di sé la chiaroveggenza della donna, senza poter obiettare nulla davanti all’esattezza delle sue visioni, fi no a doversi arren-dere, deponendo ai suoi piedi l’arroganza della ragione.

L’incenso bruciava nel braciere di rame annebbiando la vista. L’odore di muschio bianco ed hashish entrava dentro i vestiti ed accarezzava la pelle. La grande lampada di sale arancione lascia-va cadere una luce morbida sugli arazzi dorati della tenda e pro-iettava ombre sui grandi cuscini posti a cerchio. Fatima seduta al centro, avvolta nella lunga veste color rubino ricamata ai bordi, era grande e possente, bella, pensava lei.

“Io sono felice”, rispose Ermete incuriosito. Lui non indie-treggiava mai davanti alle circostanze più impensabili, ascolta-va tutti, la sua curiosità mentale, il suo bisogno di conoscere ed apprendere lo portavano dappertutto. Ma il volto era dubbioso, interrogativo.

Fatima versò il tè in tre tazze di porcellana blu e le offrì ai suoi ospiti.

“Ho fatto la governante per vivere prima di questa malattia che mi toglie il respiro. Una donna senza un uomo nella mia terra non vale nulla. Per questo ho preso mia fi glia e da dieci anni vivo qui, dove anche da sola posso sognare un futuro, almeno per lei.

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Ma ho conservato il potere. Io vedo. Lascia andare quel ricordo. Quella persona era solo dolore e ti ha fatto del male, tanto male”, proseguì Fatima senza distogliere il suo sguardo dagli occhi di lui.

“Mi pensa ancora?” chiese Ermete improvvisamente serio.“Si, ma per quello che ti ha fatto la sua vita è un percorso di

sofferenza. Nel tuo futuro c’è un’altra donna. È bellissima, ed è così vicina a te che se allunghi una mano puoi toccarla”, disse Fatima restando immobile sul tappeto.

Lei si sentì soffocare. Fatima offriva il suo dono ai suoi ospiti per cortesia, perché era l’unico modo che conoscesse per ricam-biare una visita, ed erano davvero pochi gli italiani che entrava-no nella sua tenda per chiederle come stesse. Ignorava, però, lo sgomento che le sue parole potevano provocare nell’altro, che restava nudo davanti a lei, sorpreso di apparire in trasparenza laddove aveva celato e nascosto. Si alzò in piedi, si accostò verso l’uscita della tenda, guardò il falò al centro del campo. Le fi am-me salivano verso il cielo nero, chiaro di stelle, dove una lieve luna accennava un fi lo di luce sulla parte più alta del fuoco ros-so. Uomini e donne in cerchio suonavano e cantavano. Lei non sapeva chi fosse quella gente, si chiedeva quanti di loro fossero pericolosi, quanti fossero disperati, quanti cercassero di divertirsi in una notte tersa.

“Io non credo a queste cose”, commentò Ermete, difendendo l’espressione turbata che mostrava il suo viso, “vieni, Fatima, usciamo in mezzo alla tua gente, raccontami di questa tradizio-ne dei fuochi, il loro senso. Ora ti confronti con la tua malattia, combatti per guarire, entri nella parte più dolorosa di te stessa, ma Dio, il tuo e il mio che sono la stessa cosa, ha vinto la morte e la malattia. Noi siamo suoi fi gli, quindi eredi. Possiamo fare lo stesso. Tu vincerai. Se ci credi, vincerai.”.

Ermete prese Fatima per il braccio, la sorresse portandola fuo-ri dalla tenda e facendola sedere su un sedile di pietra lì vicino.

Lei si accostò. Sentì il calore fortissimo delle fi amme sul suo corpo, vide la sua lunga gonna cambiare colore nella luce del

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falò. Aveva paura e desiderio. Guardava Fatima, che l’aveva ascoltata tante volte, che le aveva comprato il pane quando lei faceva tardi al lavoro appendendoglielo alla maniglia della porta di casa. Guardava Ermete luccicante tra le fi amme e si sentì nel cuore del mondo, senza storia, senza tempo, nell’unica storia che unisce le persone, le fa incontrare, sedere intorno ad una tazza di tè, parlare del loro dolore che è sempre lo stesso, la malattia, la fame, il lavoro, il sogno di un’esistenza piena, colmata dei vuoti che le circostanze scavano.

Poi iniziarono le danze.“Ti prego, balla per me”, le disse Fatima.“Non posso. Non conosco la tua gente. Loro potrebbero co-

noscere me”, rispose lei stringendosi nella sciarpa gettata intorno al collo.

“Mia fi glia è troppo piccola per ballare. Io sono malata. Fam-mi vedere come una donna occidentale balla la danza araba, ti prego”, insistette Fatima.

Lei rabbrividì. Quando la musica andava era diffi cile restare ferma. Studiava danza da più di vent’anni e conosceva quasi tutti i balli del mondo. Il desiderio di danzare era fortissimo, ma te-meva. E poi c’era Ermete lì in piedi. Ma Fatima aveva fatto tanto per lei, aveva curato le sue ferite, aveva ascoltato il suo pianto quando tutti la vedevano sorridere, l’aveva protetta con il suo affetto sincero, le aveva offerto la sua amicizia senza pretese e senza interesse.

“E balla!” le disse Ermete spingendola per le spalle verso il centro del piazzale a nord del quale ardeva il grande falò.

Lei perse il senso dello spazio. Era in un posto qualunque del mondo mentre la musica suonava cancellando i pensieri e rit-mando il suo corpo col battito della terra. La terra ha un cuore pulsante che chi balla sente dalla pianta dei piedi. La danza è un canto col corpo.

Prese la sciarpa dal collo, la avvolse sui fi anchi e la legò a nodo al centro del bacino sul basso ventre.

Le schiave ballano nude, le principesse danzano vestite. Tolse

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le scarpe e restò scalza sulla polvere. Fece il giro del cerchio col passo egiziano, poi passò al passo incrociato, quindi si fermò al centro del piazzale ed iniziò a muovere i fi anchi, eseguì i cerchi, l’otto, le alzate, ondeggiando le spalle, carezzando con le mani e con le braccia la notte, ruotò i lunghi capelli nella scia del passo del serpente, modulando il torso e il bacino nelle stesse moven-ze che fa il cobra sollevandosi lentamente da terra, e poi ancora camminò. Intorno e lei tutti battevano le mani dandole il ritmo, suonando i tamburi. Lei sentiva la musica portare il suo corpo, in una grazia estrema, in una sensualità raffi nata, sottile, misteriosa. Eseguiva la danza sacra, quella insegnata alle vestali per le di-vinità dei sacerdoti egizi. Ermete era un passo indietro nel buio, vicino a Fatima.

“Sei un’altra persona quando danzi,” le disse Fatima, “ emani una forza primitiva”.

Lui non disse nulla, la guardava attonito, gli occhi brillavano, come accadeva sempre quando si posavano su di lei. Poi si avvi-cinò e disse ad entrambe : “bene, dopo questa danza della gioia, siamo tutti più felici”.

“Veramente io non ballo la gioia. Io ho danzato il dolore”, rispose lei con il respiro affannato. Poi sciolse la sciarpa e l’av-volse intorno alle spalle. Infi lò i sandali e lasciò che solo la notte vedesse il suo volto. Nessuno sapeva quanto lei come si danzasse il dolore e non si aspettava di essere capita. Lei danzava per nar-rare la sua sofferenza, la sofferenza silenziosa del mondo. Così conservava la parte più segreta e preziosa di sé, donando qualco-sa di bello.

“Interessante quella donna. Ti vuole bene”, commentò Ermete guidando il furgoncino nel buio.

“Non so cosa fare per lei. Ha bisogno di lavorare per vivere e se non guarisce non può lavorare e rischia di essere espulsa. Ogni tanto le porto la spesa e le do qualche soldo, ma non basta”, disse lei.

“Tu fai già quello che va fatto. La carità non serve. Umilia chi la riceve e gratifi ca solo chi la fa. Tu condividi la sua vita, ti siedi

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con lei, la ascolti, le cammini accanto. Questo è essere cristiani”, spiegò lui.

Non sapeva lei se quello fosse essere cristiani. Semplicemente non poteva fare altrimenti. Pensava che non fosse suo compito occuparsi di tutti i disgraziati della terra, ma se qualcuno di loro attraversava la sua strada non poteva far fi nta di non essersene accorta e non perché una religione che altri le avevano insegnato lo precettava, ma perché era il solo modo di stare al mondo che conoscesse e perché pensava che nella condotta umana ci fosse un principio di giustizia che valesse per ogni uomo in ogni tempo e in ogni luogo per il fatto di stare al mondo.

“Come rimaniamo?” chiese lei mentre tornavano verso il pa-ese.

“Vieni nel gruppo. Ci riuniamo la sera due volte a settimana, poche persone, facciamo delle meditazioni, la gente parla, è un modo nuovo di rifl ettere sulla Parola di Dio”, le propose lui.

“Non ho mai frequentato le chiese né i gruppi parrocchiali. Sono un viperaio. A starci dentro si perde di fede”, rispose lei.

“Lo so, ma credimi questa è una situazione particolare. Vieni a vedere e poi decidi tu se tornarci. Ci vediamo quasi di notte”, ribadì Ermete.

“Spiegami bene dov’è. Potrei decidere di venire”, sarebbe an-data, per lui, per sentirlo parlare, perché apriva mondi, scardina-va pregiudizi, creava strutture nuove, cambiava i comportamenti delle persone. Forse poteva rischiare di affacciarsi in un gruppo.

“Ti farà bene. Sei troppo sola. Hai bisogno di persone. Noi non siamo niente senza gli altri”, commentò lui.

Lei non era affatto sola. C’era una folla di gente che riempiva la sua vita: una cerchia di colleghi con cui condivideva gli stessi ideali, le sue amiche d’infanzia che l’amavano per ciò che era e non per ciò che era diventata, gli amici che erano arrivati in se-guito come frutti di un giovane albero e tante altre persone anco-ra che facevano capo a lei per molte ragioni. Ma tutto questo non dava sollievo ai tagli profondi della sua storia personale.

Quando conobbe Ermete e pesò il suo valore in un istante de-

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cise che lui poteva essere lo scrigno in cui riporre quel fardello prezioso. In fondo le sue lacerazioni erano le cose più importanti che possedesse, poiché i suoi successi erano visibili, destavano invidia, almeno quanto la sua bellezza e la sua eleganza, mentre gli eventi drammatici erano nel silenzio e nel segreto di chi vi prese parte. Ma neppure costoro potevano conoscere cosa aves-sero prodotto nei suoi spazi interiori. Ed ora vi era affezionata, avendo scoperto nel tempo che quella emotività aveva spremuto la sua anima, lasciandole la forza, la capacità di entrare nell’altro in punta di piedi senza farsi notare, l’equilibrio nella tempesta, la possibilità di restare nel deserto di se stessa senza bisogno d’ac-qua.

Ricordò, mentre il furgoncino correva nella notte blu scu-ra sobbalzando, che qualche giorno prima aveva messo tutto in una lettera e l’aveva data ad Ermete. Aveva ritenuto giusto che quell’uomo, dopo aver letto tutto di lei, potesse scegliere se condividere la sua persona o se lasciarla andare. Era un gesto coraggioso, eppure meno avventato di quanto potesse apparire, perché ogni uomo ed ogni donna cercano un testimone per la loro vicenda personale ed a volte una persona può essere raccontata per intero dalla sintesi di due o tre testimoni.

La sera successiva lui le aveva risposto così: “Ho letto la tua lettera e dopo l’ho strappata come mi avevi chiesto. Davanti alla tua storia mi sono tolto i calzari come camminassi su un terreno sacro e ti ho benedetta”.

Non giudicò, non si fece un’opinione, non le disse cosa fare o non fare, cosa era stato giusto e cosa sbagliato, non si scandaliz-zò. Lesse, comprese, accolse.

Lei decise che lo avrebbe seguito.Quando lui la riportò alla sua auto e si salutarono la notte re-

stò vuota. Non avrebbero dovuto salutarsi, perché stando insie-me erano energia vitale, esorcizzavano il passato, scacciavano il male, si incagliavano come le alghe sullo scoglio. Ma ognuno di loro doveva compiere il suo percorso perché non era ancora arrivato il tempo della grande battaglia. Lei arrivò a casa, mise le

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chiavi nella serratura della porta e girò le spalle alla notte. Lasciò fuori la luna sorgente.

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