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Nel corso del ’700 iniziano ad essere sviluppati specifici studi su collanti, vernici, pigmenti … Vengono pubblicati numerosi manuali e trattati come quello dedicato alle vernici del gesuita Filippo Bonanni. Nel ‘700 a Venezia si distingue una figura singolare di restauratore e teorico: Pietro Edwards, che venne incaricato di soprintendere al controllo e alla salvaguardia delle pitture conservate nel Palazzo Ducale e negli uffici di Rialto (1778). Gli aspetti finanziari ed organizzativi e le regole da seguire nel restauro vennero fissate in due capitolati: • il restauro doveva essere effettuato da 3 “professori”, ciascuno con 4 “assistenti”, tutti coordinati dall’iispettore I restauratori si impegnavano a: • … accomodare li quadri a lor consegnati senza pregiudicarne la virginità … • … rimediare a tutt’i danni inferiti al dipinto dall’imperizia di altri pulitori inesperti … • … levar tutti i ritocchi non originali che ritroveranno sovrapposti al dipinto vergine, e di scoprir questo senza suo maggior detrimento … • … rimettere tutte le mancanze del colore scrostato, e caduto senza occupare il color vecchio, e senza che la menda resti visibile …

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Nel corso del ’700 iniziano ad essere sviluppati specifici studi su collanti, vernici, pigmenti …

Vengono pubblicati numerosi manuali e trattati come quello dedicato alle vernici del gesuita Filippo Bonanni.

Nel ‘700 a Venezia si distingue una figura singolare di restauratore e teorico: Pietro Edwards, che venne incaricato di soprintendere al controllo e alla salvaguardia delle pitture conservate nel Palazzo Ducale e negli uffici di Rialto (1778).

Gli aspetti finanziari ed organizzativi e le regole da seguire nel restauro vennero fissate in due capitolati:

• il restauro doveva essere effettuato da 3 “professori”, ciascuno con 4 “assistenti”, tutti coordinati dall’iispettore

I restauratori si impegnavano a:

• … accomodare li quadri a lor consegnati senza pregiudicarne la virginità …

• … rimediare a tutt’i danni inferiti al dipinto dall’imperizia di altri pulitori inesperti …

• … levar tutti i ritocchi non originali che ritroveranno sovrapposti al dipinto vergine, e di scoprir questo senza suo maggior detrimento …

• … rimettere tutte le mancanze del colore scrostato, e caduto senza occupare il color vecchio, e senza che la menda resti visibile …

•… risarcire i pezzi lacerati e mancanti, come teste, mani, drapperie, sempre imitando il carattere dell’autore

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L’ispettore doveva compilare un’esposizione scritta di tutti i danni rilevati e determinare la qualità dei restauri, nonché attribuire i singoli dipinti ad una delle tre classi:

“Prima classe, o quadri dell’estremo bisogno”: colore in gran parte caduto e mancante; colore cadente; ridipinture nelle maggior parte del quadro; annerimenti.

“Seconda classe, o quadri del grave bisogno”: danni di grado inferiore alla prima classe

“Terza classe, o quadri del minore bisogno”: quadri semplicemente sporchi e con danni lievi

Nelle sue relazioni Edwads riportava accuratamente tutti i danni riscontrati, indicava i precedenti interventi di restauro e suggeriva quali dovevano essere eseguiti.

L’ispettore doveva supervisionare il lavoro dei restauratori:

• … che per ispedire solecitamente il lavoro non si adoperino corrosivi …

• … che non si trascuri di fermar il colore cadente prima di passare ad altre penose operazioni …

•… che alcun professore neppure con buona intenzione di migliorar l’opera levi cosa alcuna dell’originale …

• … che tutte le meccaniche operazioni siano eseguite con ogni possibile accuratezza …

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Vi erano inoltre le funzioni di polizia dell’ispettore:

•… doveva accertarsi dell’abilità degli assistenti scelti dai professori …

• … doveva accertarsi che i restauratori non si portassero a casa il lavoro …

•… doveva stilare una relazione finale …

Edwards ottenne di utilizzare il refettorio del convento dei Santi Giovanni e Paolo come laboratorio dove condurre le opere da restaurare.

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Nel 1785 Edwards pubblicò la Dissertazione preliminare al piano di custodia da istituirsi per la possibile preservazione e per il miglior mantenimento delle pubbliche pitture, in cui espose le sue idee sul comportamento della pittura ad olio e sulla possibilità di rallentarne il decadimento.

Nel 1797, con l’occupazione francese di Venezia, Edwards ricevette l’ordine di sgomberare il laboratorio.

Nel 1798, dopo la cessione di Venezia all’Austria, ripresero gli interventi specialmente sulle opere che potevano essere ricollocate nei luoghi d’origine.

Nel 1819 Edwards pubblicò il Progetto per una scuola di restauro delle pitture, in cui illustra la necessità di dover preparare i restauratori allo stile degli antichi maestri, all’uso delle vernici, ai giusti criteri di pulitura …

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Alla fine del ‘700 il restauro delle statue antiche tende ad evitare la combinazione con elementi nuovi.

Il più famoso restauratore del periodo fu Bartolomeno Cavaceppi, secondo il quale i restauri dovevano presentarsi come una statua rotta e ricomposta con i pezzi originali.

I suoi interventi sono ancora molto legati ad una visione tradizionale della statua come parte di una storia a cui partecipa: busti dove le teste si volgono verso un possibile interlocutore, figure che un braccio proteso coinvolge in un’azione.

Cavaceppi si guadagnò la stima di Winkelmann per il rispetto dei frammenti originali che completava.

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Un caso particolare è rappresentato dalla mancata integrazione dei Marmi di Elgin, per i quali anche Canova escluse il restauro. Il comitato che ne decise l’acquisto nel 1816 per il British Museum non ritenne necessario nessun restauro perché esposti presso una istituzione pubblica avrebbero contribuito all’educazione del gusto del pubblico e degli artisti anche nel loro stato lacunoso.

Sembra chiudersi la parabola apertasi nel ‘500.

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Durante la Rivoluzione Francese si registrano numerosi episodi di vandalismo nei confronti del patrimonio culturale (specialmente conservato nelle chiese e in particolare di età medievale).

La consapevolezza dei gravissimi danni causati dalla violenza rivoluzionaria portò l’Assemblea Costituente a varare delle norme di tutela degli oggetti “utili alle scienze e alle arti”.

Una figura fondamentale è Alexandre Lenoir che nel “Museo dei Monumenti Francesi” (1791) raccolse opere d’arte sottratte alla furia rivoluzionaria, dedicando una sala ad ogni secolo della storia francese.

Tuttavia Lenoir venne pesantemente contestato da alcuni contemporanei, in particolare lo storico Quatramère de Qunicy e nel 1816 il “Museo dei Monumenti Francesi” e le opere vennero in parte restituita ai legittimi proprietari, in parte ricollocate nelle chiese di origine e in parte furono destinate al Louvre.

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Con la Restaurazione, l’insperato ritorno delle opere d’arte sembrò restituire a Roma il ruolo di capitale delle arti dell’Europa neoclassica.

Il programma di riqualificazione del patrimonio portò alla conservazione nella Pinacoteca Vaticana di molti dipinti restituiti.

Vincenzo Camuccini è uno dei protagonisti principali di questa fase della storia del restauro a Roma, specialmente per gli interventi su affreschi e mosaici, come nel caso dei lavori eseguiti a Santa Costanza (1834-1840) e soprattutto della pulitura del “Giudizio Universale” Di Michelangelo.

I restauri condotti da Camuccini rientrano nella campagna di interventi più organicamente programmata della prima metà dell’800 e va vista sullo sfondo della legislazione di cui l’Editto Pacca del 1819 è la manifestazione più nota.

Lo spirito di questa politica di tutela sembra trasparire nelle due soluzioni adottate nel restauro del Colosseo.

Nel 1807 Stern intervenne sul lato verso il Laterano limitandosi a bloccare e consolidare i materiali originali, i conci che si sono assestati nella rovina.

Nel 1826 Valadier costruì lo sperone di mattoni verso il Foro ed intervenne sulla struttura con integrazioni in mattone scialbato

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Nel corso dell’800 le Accademie svolsero, nell’assenza di una ben definita struttura pubblica responsabile della tutela, un ruolo di controllo della qualità dei restauri, oltre che di arbitri delle controversie che sempre più spesso accompagnavano gli interventi.

La nuova attenzione che la creazione dello Stato unitario comporta per la tutela e la conservazione del patrimonio culturale e i problemi derivati dalla necessità di definire e unificare la metodologie di intervento sono all’origine dei primi manuali di restauro redatti in italiano.

Ulisse Forni, Manuale del pittore restauratore, 1866

Giovanni Secco-Suardo, Il restauratore dei dipinti, 1894 (postumo) in cui rivendica l’originalità dei suoi procedimenti di distacco degli affreschi e trasporto dei dipinti; ricerca l’ausilio della chimica e la conoscenza delle tecniche pittoriche degli antichi maestri come guida essenziale per l’operazione di pulitura; afferma la necessità di integrazioni pittoriche del tutto mimetiche, fondando i rifacimenti su un attento studio dello stile del dipinto e del suo autore che viene pienamente riproposto a vantaggio della completezza e delle migliore godibilità dell’opera.

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Fondamentale nella seconda metà dell’800 è il pensiero di Giovan Battista Cavalcaselle, il quale sosteneva che un’opera d’arte deve esser vista anzitutto come testimonianza storica e deva essere conservata in questa autenticità ed i suoi limiti devono essere indicati con assoluta chiarezza.Secondo il suo pensiero è meglio un quadro inscurito che danneggiato, una lacuna riconoscibile che la mimetizzazione ottenuta mediante ridipinture. Per questo è necessario educare il gusto del pubblico a seguire l’originale anche attraverso i danni, senza mistificazioni.

Tra i restauratori più noti della seconda metà dell’800 si ricordano:• Guglielmo Botti autore dell’intervento nella Cappella degli Scrovegni e rispose agli orientamenti critici richiesti da Cavalcaselle.• Luigi Cavenaghi che vedeva l’opera d’arte come documento di cui il restauro doveva recuperare l’originale. Riportò alla luce la stesura originale della “Madonna coi cherubini” del Mantegna

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Nel corso dell’800 si distinguono approcci profondamente diversi al restauro.

Viollet-le-Duc (1814-1879), architetto francese, ha teorizzato il cosiddetto “restauro stilistico”, che consiste nel riportare un edificio nella sua unità stilistica, dandogli un aspetto che può anche non aver mai avuto nel passato (“restaurare un edificio significa ristabilirlo in uno stato di integrità che può non essere mai esistito”).In questo restauro si tende a cancellare la storia successiva di un edificio, demolendo le parti che non sono coerenti con il suo stile originario, e rifacendo le parti mancanti o demolite nello stile originario dell’edificio.

John Ruskin (1819-1900) è stato un intellettuale inglese che si oppose radicalmente al restauro stilistico fatto dai francesi, accusando questo tipo direstauro di “menzogna”. Secondo lui restaurare significa sempre fare un falso, per cui l’unica operazione consentita è di curare il più possibile gli edifici con interveti utili a prolungarne il più possibile la vita, ma di non far nulla se questi vanno in rovina.Questa posizione è stata anche definita “restauro romantico”.

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Luca Beltrami (1854-1933), alla fine dell’Ottocento, teorizzò una nuova idea chiamata “restauro storico”.Questo restauro non si differenziava molto da quello stilistico di Viollet-le-Duc, ma solo ammetteva che eventuali integrazioni ed aggiunte dovevano essere fatte non per un astratto criterio di coerenza stilistica, ma in base a documentate fonti archivistiche e storiche.

Camillo Boito (1836-1914), nel Congresso degli ingegneri e architetti italiani tenutosi a Roma nel 1883, definì i primi criteri di un restauro inteso in senso più moderno. Questa posizione venne definita “restauro filologico” e chiarì la via italiana al restauro secondo la quale il restauratore è uno “storico-archivista” che fonda la propria azione esclusivamente su testimonianze sicure, dai documenti di archivio ai dipinti, all’analisi approfondita del monumento ai testi letterari del tempo.

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Secondo Camillo Boito:

• i monumenti valgono non solo allo studio dell’architettura, ma quale documento della storia dei popoli e perciò devono essere rispettati, poiché una loro alterazione trae in inganno e conduce a deduzioni errate.• i monumenti devono essere “piuttosto consolidati che riparati, piuttosto riparati che restaurati”.• le aggiunte operate in tempi diversi devono essere considerate parti del monumento e mantenute, salvo il caso che esse arrechino mascheramenti o alterazioni.• qualora le aggiunte siano indispensabili per ragioni statiche o per altri motivi di assoluta necessità, devono essere eseguite sopra dati assolutamente certi e con materiali e caratteri diversi, ma senza alterare l’aspetto complessivo del monumento.

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La dottrina di Beltrami si affermò lentamente e nel 1931 la Conferenza Internazionale di Atene per il restauro ne accoglie i principi.

Nel 1932 Gustavo Giovannoni (1873-1947), definì i termini del “restauro scientifico”.Giovannoni fu il primo che suggerì che in ogni intervento bisogna sfruttare tutte le più moderne tecnologie per poter giungere a interventi scientifici di restauro.Distingue tra diversi tipi di restauro:

-Restauro di consolidamento (da limitare al minimo necessario)

-Restauro di ricomposizione (o anastilòsi) ovvero riportare in situ frammenti di monumenti esistenti e riunirli in unità architettonica.

-Restauro di liberazione (dalle aggiunte prive di carattere artistico, ma rispettando qualunque addizione valida, indipendentemente dalla sua epoca)

-Restauro di completamento (lecito solo per parti accessorie ed evitando rifacimenti e innovazioni)

- Restauro di innovazione (cioè con aggiunta di parti essenziali: criterio da respingere in linea di principio ma che alle volte si rende necessario)

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Gli eventi drammatici della Seconda Guerra Mondiale (che evidenziarono la non generale applicabilità del “restauro scientifico”, in particolare ai restauri di massa e di urgenza) e le nuove acquisizioni del pensiero sull’arte (che ne dimostrarono inattualità e limiti) portarono a una successiva evoluzione della teoria del restauro, con un approccio più capace di comprendere la complessa realtà artistica e documentaria dei monumenti.

Il c.d “restauro critico” pone accanto al valore storico quello estetico già dalle prime formulazioni di Roberto Pane e Renato Bonelli.Ma è con Cesare Brandi e il saggio “Teoria del restauro” che vengono definiti i punti di riferimento assoluti nell'ambito della disciplina.

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Il pensiero di Brandi si fonda sulla definizione di restauro: “Il restauro costituisce il momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte nella sua consistenza fisica e nella duplice polarità estetica e storica, in vista della sua trasmissione nel futuro”.

Le opere d’arte hanno due caratteristiche che le definiscono: l’istanza estetica, che deriva dalla artisticità dell’opera d’arte e l’istanza storica, che la qualifica come prodotto nato in un certo periodo storico e luogo e “vivente” in un tempo e luogo attuali.

L’opera d’arte attraversa la storia non perdendo mai la sua vitalità perché non è il lato artistico che si può rovinare col tempo, ma solo la materia con cui è fatta. Quindi il restauro deve intervenire solo sulla materia dell’opera “mirando al ristabilimento dell’unità potenziale dell’opera d’arte, purché ciò sia possibile senza commettere un falso artistico o un falso storico, e senza cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera d’arte nel tempo.” L’opera d’arte può essere restaurata secondo l’istanza della storicità o secondo l’istanza estetica, sarà la coscienza a giustificare quale strada scegliere. Brandi cita come oggetto il “rudero”, ossia una vestigia che ha perso gran parte del suo aspetto e rimane come materia, come documento storico. In questo caso non è che applicabile la sola operazione del consolidamento e conservazione. Le aggiunte effettuate nel corso dei secoli vanno mantenute in quanto testimonianza di civiltà di un dato periodo storico.

Ribadendo che il restauro deve interessare la sola materia di cui è fatta l’opera d’arte e sapendo che esse è soggetta al deperimento a causa di elementi esterni (agenti atmosferici, fisici e chimici), limitare la loro azione proteggendo la materia da essi è il primo intervento di restauro: il restauro preventivo.

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Secondo la teoria di Brandi:• il restauro non può interferire minimamente sui significati dell’opera, ma deve interessarsi dei suoi componenti materiali • il restauro non può cancellare le modificazioni, naturali o dovute all’azione dell’uomo, che l’opera può aver subito nel corso del tempo

Per Brandi l’opera è INTERO anche se lacunosa (concetto da contrapporre al “totale” o aggregazione funzionale di parti); definisce così l’istanza estetica che legittima anche gli interventi che direttamente interessano l’immagine, come la pulitura e le integrazioni, a condizione che siano tecnicamente sicuri e criticamente fondati (le integrazioni, comunque riconoscibili e reversibili), non devono essere interpretative o fantasiose, ma devono essere fondate da dati certi suggeriti dalla figuratività superstite, altrimenti la lacuna deve essere mantenuta, anche se potrà subire trattamenti che diminuiscano il disturbo visivo arrecato all’immagine.

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Principi fondamentali della conservazione e del restauro

Si restaura solo la materia dell’opera d’arte, non l’immagine (non si può intervenire sull’immagine di un’opera, per renderla magari più gradevole o adeguata al gusto dei propri tempi).

Il restauro deve mirare a ristabilire dell’unità potenziale dell’opera, purché sia possibile raggiungere ciò senza commettere un falso artistico o un falso storico, e senza cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera nel tempo.

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Principi fondamentali della conservazione e del restauro

1. il restauro deve essere riconoscibile (anche se non immediatamente visibile)

2. la materia dell’opera d’arte è insostituibile3. ogni intervento deve essere compatibile e possibilmente

reversibile, e facilitare gli eventuali interventi futuri4. ogni intervento deve essere preceduto da una attenta

analisi storica dell’opera sulla quale si interviene (genesi, sia sulla sua storia successiva fino ai nostri giorni, in particolare su tutte le trasformazioni e i restauri precedenti)

5. Ad ogni intervento si deve accompagnare una attenta analisi tecnico-scientifica dei materiali e delle patologie riscontrate

6. Ogni intervento di restauro dovrebbe essere documentato e pubblicato per lasciare nel futuro precise indicazione degli interventi effettuati sull’opera (analisi effettuate e procedure eseguite nel restauro, documentazione dello stato iniziale e di quello finale a seguito del restauro)

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Nei primi decenni del ‘900 i termini del dibattito non mutano, ma si è avvertita sempre più l’esigenza di condividere principi univoci circa il restauro, così che questa attività divenisse sempre più scientifica e sempre meno empirica.Le formulazioni teoriche dei principi del restauro sono avvenute sempre in conferenze internazionali, nelle quali studiosi e professionisti di diversi paesihanno portato il loro contributo, poi raccolto in documenti di sintesi chiamati “Carte del Restauro”.

La prima “Carta del Restauro” venne scritta nel 1931 dalla “Conferenza Internazionale degli Architetti” riunita ad Atene.Si compone di 10 punti che più che stabilire dei veri e propri principi, detta delle raccomandazioni, rivolte ai governi degli Stati:

• di curare il proprio patrimonio architettonico,• di uniformare le legislazioni così da non far prevalere l’interesse privato su quello pubblico• di ampliare lo studio dell’arte così da inculcare nelle popolazioni l’amore e il rispetto per il proprio patrimonio architettonico.

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Nel 1932 il “Consiglio Superiore per le Antichità e le Belle Arti”, presso il Ministero della Pubblica Istruzione, emanò una “Carta del restauro” che può essere considerata la prima direttiva ufficiale dello Stato Italiano in materia direstauro.In esso si affermavano principi analoghi a quelli della “Carta di Atene”, ma con in più la posizione espressa in quegli anni da Gustavo Giovannoni (1873-1947), definita come “restauro scientifico”.

Esaurita la fase della ricostruzione post-bellica, la cultura architettonica internazionale si interrogò nuovamente sulle corrette pratiche del restauro e, nel “Secondo Congresso Internazionale degli Architetti e Tecnici dei Monumenti”, riunitosi a Venezia dal 25 al 31 maggio 1964, si definì una nuova carta del restauro definita “Carta di Venezia”.A questo documento diedero un contributo fondamentale soprattutto gli studiosi italiani quali Roberto Pane, Pietro Gazzola e Cesare Brandi.

La carta si compone di 16 articoli e riassume i principi che possono essere considerati immutabili della metodologia del restauro architettonico; sottolinea soprattutto l’importanza dell’aspetto storico di un edificio, e introduce per la prima volta il concetto di conservazione anche dell’ambiente urbano che circonda gli edifici monumentali.

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In Italia alcuni principi e norme procedurali riferiti al restauro sono contenuti nell’attuale legislazione, in particolare nel “Codice dei Beni Culturali” del 2004.

Nel Codice si stabilisce che ogni intervento di restauro deve ottenere la preventiva approvazione della Soprintendenza competente per territorio.Inoltre dà potere al Ministero di imporre ai privati interventi conservativi o di restauro, e nel caso di loro inadempienza, di eseguirli in loro vece, ma sempre a spese dei proprietari.

Nessuna indicazione viene invece fornita dal Codice sui principi teorici e metodologici da seguirsi nelle operazioni di restauro, demandando ogni problematica di questo settore all’organo del Ministero preposto, che è l’ISTITUTO CENTRALE PER IL RESTAURO.