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saggio di Mezzadra
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Nei cantieri marxiani: il soggetto e la sua produzione.
Prime approssimazioni
di Sandro Mezzadra
Questo testo è stato scritto originariamente come “dispensa” per il corso universitario di
“Frontiere della cittadinanza”, che tengo presso l’Università di Bologna (anno accademico 2012-
2013). Va dunque letto come tentativo di indicare alcune ipotesi di lavoro, una serie di problemi e
di riferimenti da sviluppare durante le lezioni.
Bologna, febbraio 2013
1. Marx oltre il marxismo
“Accade oggi alla dottrina di Marx quel che è spesso accaduto nella
storia alle dottrine dei pensatori rivoluzionari e dei capi delle classi
oppresse in lotta per la loro liberazione. Le classi dominanti hanno
sempre ricompensato i grandi rivoluzionari, durante la loro vita, con
implacabili persecuzioni; la loro dottrina è stata sempre accolta con il
più selvaggio furore, con l’odio più accanito e con le più impudenti
campagne di menzogne e di diffamazioni. Ma, dopo morti, si cerca di
trasformarli in icone inoffensive, di canonizzarli, per così dire, di
cingere di una certa aureola di gloria il loro nome”
(Vladimir Ilic Lenin, Stato e rivoluzione [1917], trad. it. in Id., Opere
scelte in sei volumi, Roma-Mosca, Editori Riuniti- Progress, vol. IV,
p. 235).
In verità, scrisse Marx alla figlia Laura nel 1868, “io sono una macchina condannata a divorare libri
per vomitarli in una nuova forma, come concime sulla terra della storia”. Prende avvio da questa
immagine la lettura di Marx recentemente proposta da Pierre Dardot e Christian Laval in un libro
tanto ponderoso quanto importante (Marx, prénom: Karl, Paris, Gallimard, 2012). Singolare
metabolismo, quello qui delineato: libri, autori e teorie macinati da una macchina di lettura che li
restituisce “in una nuova forma” alla storia, per renderla più fertile. Un continuum di variazioni e di
ripetizioni su temi ereditati dalla storia per produrre dal loro interno quell’innovazione che alla
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storia deve tornare. È bene non esagerare, sia chiaro, il significato di questa privata “confessione” di
Marx alla figlia nell’anno del suo matrimonio con Paul Lafargue: e tuttavia essa ci offre una traccia
che vale la pena seguire per tornare a leggere Marx, oggi. Fin dalla prefazione di Engels al secondo
libro del Capitale (1885), il marxismo ha costruito di Marx un’immagine ben diversa: quella
dell’assoluto novatore, “che forniva la chiave per la comprensione dell’intera produzione
capitalistica, per chi avesse saputo utilizzarla” (C, II, p. 20). Il pensiero di Marx prese così a essere
considerato come un compatto sistema, costruito sulla base di una serie di “scoperte” (della lotta di
classe, della forza-lavoro, del plusvalore, di leggi) e di una serie di radicali “cesure” con tutto ciò
che lo aveva preceduto – e in particolare con le sue “tre fonti” fondamentali: la filosofia tedesca,
l’economia politica inglese e il socialismo francese.
È da questo Marx che dobbiamo prendere congedo. Certo, abbiamo spesso ripetuto la frase che
Marx avrebbe pronunciato, secondo lo stesso Engels, verso la fine degli anni Settanta
dell’Ottocento: tout ce que je sais, c’est que je ne suis pas Marxiste (MEW, XXXVII, p. 436). Si
tratta tuttavia oggi di affermare qualcosa di più radicale: ovvero che, a dispetto dei molti tentativi di
rianimarlo, il marxismo è finito. È bene parlarne con rispetto, ma rigorosamente al passato. Quello
che chiamiamo marxismo è stato un formidabile edificio di pensiero, costruito storicamente a
partire dal lavoro di Engels sui manoscritti del secondo e del terzo libro del Capitale, consolidatosi
nella polemica di fine secolo attorno al “revisionismo” e poi assestatosi dopo l’Ottobre sovietico e
la divisione del movimento operaio. Il marxismo è vissuto nelle lotte, nelle insurrezioni e nei sogni
di grandi masse, nell’azione di movimenti, partiti e regimi. Non è stato soltanto un edificio di
pensiero, dunque; è stato anche una forza materiale che ha contribuito a costruire il mondo che
abitiamo. Di per sé, tuttavia, il marxismo appartiene al “mondo di ieri”. Non è solo la fine del
socialismo reale, di quello che Rita di Leo (L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e
viceversa, Roma, Ediesse, 2012) ha recentemente definito “l’esperimento profano”, e del
movimento operaio a decretare il suo esaurimento. Tanto nella filosofia quanto nella politica, tanto
nell’insorgenza anticoloniale quanto sulle barricate del maggio francese e nelle officine di
Mirafiori, tanto nella presa di parola delle donne quanto in quella delle “minoranze”, una serie di
movimenti e di lotte si costituisce a partire dalla metà del Novecento in eccedenza rispetto al
marxismo; prima lo attraversa problematicamente e poi contribuisce a farlo esplodere. Diceva
Sartre, sul finire degli anni Cinquanta dello scorso secolo, che il marxismo è “l’orizzonte
insuperabile del nostro tempo”. Non è più così.
Conviene considerare il marxismo come un “sistema di pensiero”, nel senso che Michel Foucault
assegnò a questa formula al momento di assumere il suo incarico al Collège de France. Anche nel
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marxismo, cioè, “la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e
distribuita tramite un certo numero di procedure” (M. Foucault, L’ordine del discorso [1970],
Torino, Einaudi, 1972, p. 9). Non si tratta di riprendere l’affermazione di Foucault di qualche anno
prima, secondo cui “il marxismo è nel pensiero del XIX secolo come un pesce nell’acqua: cioè,
fuori di lì cessa ovunque di respirare” (M. Foucault, Le parole e le cose [1966], trad. it. Milano,
Rizzoli, 1978, p. 283). Di questa affermazione si potrebbe anzi mostrare la posizione di paradossale
internità, ancorché liminare, al “campo discorsivo” del marxismo. È piuttosto la definizione di
questo campo che Foucault ci aiuta a cogliere. Studiando in particolare i tre momenti “fondativi”
che si sono precedentemente indicati, credo che sarebbe possibile tracciare in modo quasi
cartografico le regole di enunciazione e le problematiche che, in modo relativamente costante –
combinando le funzioni che ancora Foucault ha definito in termini di “persistenza”, “additività” e
“ricorrenza” (L’archeologia del sapere [1969], trad. it. Milano, Rizzoli, 1980, pp. 166 s.) –, hanno
governato la produzione e la riproduzione del marxismo come “sistema di pensiero”. Anche
all’interno di quest’ultimo, si può insomma dire, “‘chiunque parla’, ma quello che dice non lo dice
da una posizione qualunque. È necessariamente implicato nel meccanismo di una esteriorità” (ivi, p.
165). Già sento le obiezioni: non vi sono state all’interno del marxismo straordinarie “eresie”?
Dobbiamo forse confondere il “marxismo-leninismo” con il black Marxism e con l’operaismo
italiano, Stalin con Trotski, il “marxismo occidentale” con il “dispotismo orientale”? Non
scherziamo. La fine del marxismo ci consente piuttosto di riaprire l’archivio marxista, di
apprezzarne come mai in passato la polifonia e la ricchezza di alternative. Di rileggere un’intera
schiera di classici, senza limitarci a quelli che una lunga storia ha canonizzato come eretici. Per
dirla in modo provocatorio: non è escluso che in qualche pagina di Stalin vi siano formulazioni da
riscoprire… Ma l’essenziale è formulare un principio di metodo: la condizione per riaprire
produttivamente l’archivio marxista è la sospensione, la disattivazione delle regole di enunciazione
che hanno governato la sua formazione. Nella prospettiva di dare un primo, modestissimo
contributo a questa impresa necessariamente collettiva, lascio risuonare all’inizio di ogni paragrafo
di questo testo, in forma di epigrafe e senza commentarle, una serie di citazioni “marxiste”.
Partiamo dunque dalla prima, che si è da poco letta, e facciamo un’eccezione commentandola
brevemente. Quando Lenin, alla vigilia dell’insurrezione di ottobre, parla della trasformazione di
Marx in un’“icona inoffensiva” pone in fondo un problema che ci riguarda, nel tempo in cui
l’Economist dedica copertine a Marx come geniale profeta della globalizzazione (e in fondo come
apologeta del capitalismo). Ma anche il marxismo, quello stesso marxismo-leninismo che si è
richiamato nei decenni successivi a Stato e rivoluzione, ha trasformato Marx in un’“icona” – spesso
anche se non sempre “inoffensiva”, ma comunque in un’“icona”. Non è accaduto lo stesso a Lenin?
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I versi di Majakovskij, scritti all’indomani della morte di Lenin, sono troppo noti per essere citati al
di là di qualche riga: “ho paura che una corona sulla sua testa / possa nascondere la sua fronte / così
umana e geniale, così vera…”. Ma restiamo a Marx: il marxismo, novella patristica, si è costituito
essenzialmente attraverso il commento ai suoi testi, e ha così costruito di Marx una specifica
immagine in primo luogo forgiando un corpus di opere che ha valorizzato l’istanza di sistema e
scientificità. Il lavoro di Engels attorno al secondo e al terzo libro del Capitale è da questo punto di
vista esemplare. Sia chiaro: non si tratta qui di proporre l’ennesima contrapposizione tra Marx ed
Engels, tra la genialità del primo e la pedanteria del secondo. Engels fece un lavoro straordinario,
coniugando dedizione amicale, cura filologica e spirito militante, “di partito”! Ma impose unitarietà
e sistematicità a un pensiero che dopo la pubblicazione del primo libro del Capitale (1867) si era
mosso in direzioni complesse e spesso contraddittorie, senza più riuscire ad assestarsi in una sintesi.
La pubblicazione dei manoscritti marxiani nella nuova edizione critica delle opere (la cosiddetta
MEGA2) ci consente di apprezzare la frammentarietà ma anche la ricchezza di questo pensiero: e ci
offre nuove chiavi di accesso ai cantieri marxiani.
Tocca dire una volta di più “sia chiaro”: l’istanza di sistema e scientificità è propria di Marx fin
dagli anni della sua formazione. Ma quel che oggi vale la pena di sottolineare è il continuo urto di
questa istanza con la materialità della storia, della politica, dello stesso sviluppo dei suoi studi e
della sua riflessione. I “sentieri interrotti”, se è consentita la battuta, sono innumerevoli nei cantieri
marxiano. Se la MEGA2 ha contribuito a rinnovare l’immagine di Marx, e a stabilire un nuovo
terreno su cui studiarlo, non è tanto per gli “inediti” che ha portato alla luce quanto perché ha
mostrato l’enorme sproporzione – difficilmente riscontrabile in un altro “classico” – tra quanto
Marx ha scritto e quanto Marx ha pubblicato. E ha in fondo offerto qualche argomento a chi, come
Dardot e Laval, valorizza la metafora della “macchina” da cui si sono prese le mosse. La fine del
marxismo ci consente di apprezzare in modo nuovo il carattere frammentario dell’opera marxiana,
di esplorarne i cantieri sulla base delle nuove acquisizioni delle lotte e degli sviluppi teorici degli
ultimi decenni. Non è quello che è avvenuto all’interno del marxismo, il cui sviluppo è stato
periodicamente caratterizzato dalla pubblicazione di “inediti” attorno a cui si sono accese
polemiche che hanno considerato quaderni di appunti e frammenti di teoria come opere a sé stanti.
È accaduto con i Manoscritti economico-filosofici del 1844, è accaduto – sia pure secondo modalità
e in condizioni diverse – con i Grundrisse, come ha mostrato di recente ad esempio Marcello Musto
(Ripensare Marx e i marxismi. Studi e saggi, Roma, Carocci, 2011). Anche qui si tratta dunque di
disattivare e sospendere le regole di enunciazione e le problematiche che hanno governato, in quel
Novecento che è stato anche il “secolo marxista” (G. Arrighi, Marxist Century, American Century.
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The Marking and Remaking of the World Labour Movement, “New Left Review”, 179, January-
February 1990), la lettura di Marx.
Addentriamoci dunque nei cantieri marxiani. Leggiamo di nuovo i suoi testi senza dimenticare che
la storia di cui sono intrisi non è solo storia di teorie ma anche storia di lotte e di combattimenti di
strada, della violenza del dominio e dello sfruttamento, della faticosa conquista e della materiale
costruzione di libertà e di uguaglianza da parte degli sfruttati. È storia vissuta nella luce incerta e
tuttavia mai spenta di quello che Marx, in una lettera a Ruge del settembre 1843, chiamò il “sogno
di una cosa” (Traum von einer Sache, MEW, I, p. 346), e che avrebbe assunto il nome di
comunismo. Vale in fondo anche qui, per apporre una seconda epigrafe marxista a questo incipit,
quel che Ernst Bloch scriveva di Thomas Münzer nel 1921, all’indomani della fatale sconfitta della
rivoluzione in Germania: “noi vogliamo essere sempre con noi. Così anche qui noi non guardiamo
assolutamente indietro. Ma vivi noi stessi ci mescoliamo. Ed anche gli altri si volgono di nuovo
trasformati, i morti tornano di nuovo, la loro azione vuole compiersi ancora una volta con noi”.
Anche Marx, insomma, è per noi “anzitutto storia in senso fecondo, egli e ciò che è suo e tutto il
passato che merita essere trascritto è qui per impegnarci, per entusiasmarci, per sostenere sempre in
modo più ampio ciò che è da noi continuamente inteso” (E. Bloch, Thomas Münzer teologo della
rivoluzione, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1980, p. 29). Affermare la fine del marxismo e la necessità
del ritorno a Marx, come dovrebbe essere chiaro a questo punto, è un gesto teorico che punta a
riscoprire e a riattivare nel presente la radicalità, il portato sovversivo e rivoluzionario del suo
pensiero e del suo desiderio comunista.
2. Produzione di soggettività
“L’uomo è da concepire come blocco storico di elementi puramente
individuali e soggettivi e di elementi di massa e oggettivi o materiali
coi quali l’individuo è in rapporto attivo. Trasformare il mondo
esterno, i rapporti generali, significa potenziare se stesso, sviluppare
se stesso. […] Perciò si può dire che l’uomo è essenzialmente
‘politico’, perché l’attività per trasformare e dirigere coscientemente
gli altri uomini realizza la sua ‘umanità’, la sua ‘natura umana’”
(Antonio Gramsci, Quaderni del carcere [Quaderno 10, “La filosofia
di B. Croce II”, 1932-1935], Torino, Einaudi, 1975, p. 1338).
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“Noi vogliamo essere sempre con noi”, scriveva Bloch. Nelle nostre esplorazioni dei cantieri
marxiani siamo dunque orientati dai temi su cui ragioniamo e discutiamo nel nostro presente.
Avviamo con questi appunti il primo di una serie di sondaggi, e scegliamo di farlo seguendo il filo
offerto dalla formula “produzione di soggettività”. È una formula attorno a cui si è in qualche modo
riorganizzata negli ultimi trent’anni la riflessione sul soggetto, in filosofia come in psicoanalisi, nel
femminismo come negli studi culturali e postcoloniali (e si potrebbe continuare a lungo elencando
campi e province del sapere). Alle spalle di questa vicenda teorica non vi sono soltanto i dibattiti sul
“postmoderno” tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo, quando pareva a
molti – anche in Italia – che occorresse andare “al di là del soggetto”, magari per indebolire il
pensiero, raffreddare le passioni e comodamente accasarsi nei “tempi nuovi” (cfr. G. Vattimo, Al di
là del soggetto. Nietzsche, Heidegger e l’ermeneutica, Milano, Feltrinelli, 1981). Agiva certo con
forza una stagione di lotte che aveva fatto esplodere le figure della soggettività politica costruite
nell’arco di tre secoli dalla modernità. Ma la formula “produzione di soggettività” fa anche i conti
con l’insieme degli sviluppi teorici che tra Otto e Novecento, tra Marx e Freud, tra Nietzsche e
Heidegger, aveva in effetti prodotto e consumato la crisi di un’immagine del soggetto che aveva più
in generale orientato gli sviluppi della filosofia europea tra Descartes e Kant. È bene non
dimenticarlo quand’anche si sia maturata una notevole insofferenza (come nel caso di chi scrive)
per la stanca ripetizione e per la riduzione a vuoto slogan del sintagma “soggetto cartesiano” in
troppi scritti contemporanei. L’annuncio foucaultiano della morte dell’uomo, destinato a essere
“cancellato, come sull’orlo del mare un volto di sabbia” (Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 414),
non è ovviamente comprensibile al di fuori di questa vicenda di lungo periodo, e intrattiene un
rapporto non occasionale, in particolare, con quanto aveva scritto Martin Heidegger a proposito di
un subjectum che, “traduzione del greco hypokemeinon, […], ciò che sta-prima, ciò che raccoglie
tutto in sé come fondamento”, aveva trovato la propria incarnazione proprio nell’“uomo”:
l’“essenza stessa” di quest’ultimo, chiosava Heidegger in L’epoca dell’immagine del mondo (1938),
“subisce una trasformazione col costituirsi dell’uomo a soggetto” (M. Heidegger, Sentieri interrotti,
trad. it. Firenze, La Nuova Italia, 1984, pp. 85 s.).
Dunque, morto l’uomo è tramontato anche il soggetto? Non è detto. La morte spesso si accompagna
alla nascita, a molte nascite. Che so, si potrebbe dire con qualcosa di più di una battuta: morto
l’uomo, nasce la donna. Il fatto è che anche la donna sarebbe stata di lì a poco investita da una serie
di tensioni che se non ne avrebbero determinato la morte, forse per via di una diversa relazione con
la vita che da sempre la donna intrattiene a differenza dell’“uomo”, avrebbe comunque lacerato il
suo profilo unitario. La storia del femminismo afro-americano e postcoloniale, che la recente
pubblicazione di una silloge italiana degli scritti di Chandra Talpade Mohanty (Femminismo senza
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frontiere. Teorie, differenze, conflitti, Verona, ombre corte, 2012) consente di rivisitare, ha in fondo
questo significato: la “donna nera”, la “donna del Terzo mondo”, la donna “subalterna” sono segni
di questo proliferare di differenze e parzialità che non si lasciano ricondurre a un unico significante.
Di questo proliferare, in ultima istanza, di figure della soggettività nel punto d’incrocio tra
dispositivi di assoggettamento e pratiche di soggettivazione. Ecco delineato in poche battute il
significato generale che assume per me la formula “produzione di soggettività”, come ho anche di
recente sostenuto in un saggio scritto con Sandro Chignola (Fuori dalla pura politica. Laboratori
globali della soggettività, in «Filosofia politica», XXVI [2012], 1). L’uso che così propongo di fare
del concetto di soggettivazione, anch’esso centrale nei dibattiti critici contemporanei (si pensi, per
fare solo due nomi, ai lavori di Étienne Balibar e Jacques Rancière), ne fa uno dei due poli –
accanto all’“assoggettamento” – attorno a cui si determina la “produzione di soggettività”. Ma quel
che conta è precisamente la tensione tra questi due poli, la loro reciproca implicazione in mutevoli
costellazioni storiche, politiche, sociali e culturali (anche qui gli aggettivi si potrebbero moltiplicare
a piacere, ma lasciamo perdere). Diciamolo anzi in termini più netti: lo stesso soggetto diviene
impensabile al di fuori di questo campo di tensione, è esso stesso questo campo di tensione e di
battaglia.
Una ricostruzione genealogica della formula “produzione di soggettività” dovrebbe fare i conti con
due dei più importanti movimenti di pensiero del Novecento, tanto importanti – occorre subito
aggiungere – quanto elusivi, nebulosi: lo “strutturalismo” e il “post-strutturalismo”. Elusivi e
nebulosi, questi movimenti di pensiero, lo sono per ragioni molto semplici: gli autori più importanti
che allo “strutturalismo” sono stati via via associati (da Althusser a Lévi-Strauss, da Lacan a
Foucault) hanno fatto a gara, quantomeno a partire dalla fine degli anni Sessanta, nel dichiarare che
con esso non avevano avuto niente a che fare; il “post-strutturalismo”, per parte sua, prende forma a
partire dalla lettura statunitense di una serie di pensatori francesi che si sarebbero a dir poco
sorpresi di vedere accostati i loro nomi all’interno di un’unica corrente di pensiero. E tuttavia vale
forse la pena di valorizzare proprio quelli che si sono definiti caratteri elusivi e nebulosi di
strutturalismo e post-strutturalismo per accumulare qualche traccia e per arricchire il nostro
riferimento alla “produzione di soggettività”. Interroghiamo intanto il senso del “post” in
poststrutturalismo. “Dopo” che cosa viene quest’ultimo? Soltanto dopo lo strutturalismo? In un
saggio del 1973, intitolato Da che cosa si riconosce lo strutturalismo?, Gilles Deleuze lasciava
intendere fin dalle prime righe la sua risposta: “il punto d’arrivo di questo studio è l’anno 1967” (F.
Chatelet (a cura di), Storia della filosofia, vol. VIII, trad. it. Milano, Rizzoli, 1975, p. 194). Il
corsivo deleuziano non lascia spazio a dubbi sulla natura periodizzante del Sessantotto, crinale su
cui lo strutturalismo non può che aprirsi al suo “post” senza tuttavia smettere di avere “una
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produttività che è quella della nostra epoca” (ivi, p. 216). E questo crinale, attorno a cui si ponevano
in modo nuovo i problemi del “mutamento strutturale” o della “transizione da una struttura
all’altra”, è anche quello su cui riemerge con prepotenza non solo la questione della “prassi” ma
anche quella del soggetto. Lo strutturalismo, scriveva Deleuze, “non è affatto un pensiero che
sopprime il soggetto, bensì un pensiero che lo sbriciola e lo distribuisce in modo sistematico, che
contesta l’identità del soggetto, che lo dissipa e lo fa passare da un posto all’altro, soggetto sempre
nomade, fatto di individuazioni ma impersonali, o di singolarità ma preindividuali” (ivi, p. 214).
Ecco delineati, per quel che ci interessa, l’orizzonte e la problematica del “poststrutturalismo”: lo
studio delle forme di assoggettamento e dei processi di soggettivazione, della “produzione di
soggettività”, dopo la fine del soggetto come hypokeimenon e dopo la “morte dell’uomo”. Lo stesso
lavoro di Deleuze attorno alla categoria di “desoggettivazione” e “asoggettivo” (in particolare nei
libri nati dalla collaborazione con Felix Guattari) si sarebbe collocato all’interno di questo campo.
Il soggetto (la sua produzione) è comunque il tema essenziale attorno a cui ruota dopo il Sessantotto
il lavoro di molti autori associati in un modo o nell’altro allo strutturalismo nel decennio
precedente. Vale ad esempio per Althusser, in particolare per i suoi scritti sugli “apparati ideologici
di Stato” e sul “divenire soggetto” dell’individuo a partire da un’interpellazione esemplificata dal
“banale” richiamo poliziesco: “ehi! Lei, laggiù!” (L. Althusser, Lo Stato e i suoi apparati [1969-
1970], trad. it. Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 193). Non è il caso di ricordare le molte critiche,
spesso del tutto condivisibili, che a questa riformulazione della teoria dell’ideologia attraverso la
categoria di interpellazione sono state rivolte. L’intera questione non figura del resto se non per
accenni nelle pagine che seguono, in attesa eventualmente di tornarvi in una prossima occasione.
Ma era intanto importante segnalare l’intensità di una riflessione che mostra intera la “materialità”
dell’ideologia nel momento stesso in cui colloca la produzione di soggettività sul terreno
dell’“immaginario” (di un immaginario certo riletto attraverso la lezione lacaniana ma dall’interno
di una densa trama spinoziana e marxiana). Più direttamente agiscono nell’impostazione del
problema che qui si propone le sollecitazioni di Michel Foucault, che alla discussione
contemporanea ha offerto del resto buona parte del suo lessico (assoggettamento, soggettivazione,
dispositivi etc.). Non è questa la sede per ricostruire il percorso che ha condotto Foucault a
installare il soggetto e la sua produzione al centro della sua ricerca (si veda comunque, per un
riferimento canonico, M. Foucault, Perché studiare il potere: la questione del soggetto [1983], in
Id., Poteri e strategie, trad. it. Milano, Mimesis, 1994). Io e Brett Neilson, in un libro da poco
terminato (Border as Method, or, the Multiplication of Labor, Durham, NC, Duke University Press,
2013), abbiamo cercato di evidenziare l’importanza in questo percorso del confronto sotterraneo
instaurato da Foucault con Marx. E abbiamo in particolare richiamato l’attenzione su una
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conferenza tenuta a Bahia il primo novembre del 1976, in cui Marx è esplicitamente discusso. Ci
sembrava, e ne abbiamo trovato conferma in un recente e importante intervento di Pierre Macherey
(Le sujet productif [2012], http://uninomade.org/le-sujet-productif/), che Foucault stesse lì seguendo
la traccia offerta dai due lati (individuale e sociale) del concetto marxiano di forza lavoro,
attribuendo al primo (quello individuale) le tecnologie “atomo-politiche” di potere minuziosamente
analizzate in Sorvegliare e punire (1975) e proponendosi di approfondire la ricerca su quelle
corrispondenti al secondo lato, indicate con il termine “bio-politica” – di cui si ha in questo testo
una delle prime occorrenze in Foucault (M. Foucault, Le maglie del potere, trad. it. in Archivio
Foucault. Interventi, colloqui, interviste, 3, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 164).
Individualizzazione e socializzazione: due assi attorno a cui seguire, storicamente e teoricamente, la
produzione di soggettività. In un libro che non è tra i suoi più noti, Antonio Negri collocava del
resto già nel 1987 in modo molto preciso questa problematica in un contesto marxiano,
riformulando una serie di temi e concetti classici: “la società della sussunzione reale”, scriveva
Negri, “si caratterizza anche come tentativo di produzione diretta della soggettività”. La categoria di
“sussunzione reale” era del resto già stata al centro della lettura negriana dei Grundrisse (A. Negri,
Marx oltre Marx, Milano, Feltrinelli, 1979). Qui Negri la collegava direttamente alla produzione di
soggettività e allo scompaginamento del nesso tra “determinazioni strutturali e determinazioni
sovrastrutturali, che attraversa la soggettività”. “È come una nuova accumulazione primitiva”,
aggiungeva: “come in quella, in questa fase di sussunzione reale si costruiscono non solo le
condizioni della riproduzione sociale, ma anche gli attori, i portatori, i soggetti di questa
produzione” (A. Negri, Fabbriche del soggetto, Livorno, 1987, pp. 76 s.). Ecco nominati alcuni dei
concetti e dei problemi essenziali con cui ci confronteremo nelle pagine che seguono. Senza
dimenticare che la formula “produzione di soggettività” ha in riferimento a Marx sempre un duplice
significato, ovvero che doppio (soggettivo e oggettivo) è il significato del genitivo che la
costituisce: all’interno del modo di produzione capitalistico, in altri termini, essa indica al contempo
“la costituzione della soggettività, di uno specifico comportamento soggettivo, e la potenza
produttiva della soggettività, la sua facoltà di produrre ricchezza” (J. Read, The Micro-Politics of
Capital. Marx and the Prehistory of the Present, Albany, State University of New York Press,
2003, p. 153). È dall’interno di questa duplicità, come ha ricordato di recente Ranabir Samaddar,
che Marx pone il problema della “liberazione della soggettività, ovvero della soggettività
rivoluzionaria” (R. Samaddar, The Emergence of the Political Subject, New Delhi, Sage, 2010, p.
xxviii).
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3. Un doppio inizio
“La situazione particolare, che rende tanto difficile la comprensione
teorica del problema marxismo e filosofia, consiste nel fatto che
apparentemente questo travalicare i limiti del punto di vista borghese
– e solo esso trasforma il contenuto essenzialmente nuovo del
marxismo in oggetto comprensibile – porterebbe in pari tempo alla
soppressione e alla distruzione dell’oggetto in quanto filosofico”
(Karl Korsch, Marxismo e filosofia [1923], trad. it. Milano, SugarCo,
1978, p. 48).
Una volta segnato, sia pure per accenni, il campo teorico contemporaneo al cui interno si pone il
problema della “produzione di soggettività” è opportuno dire qualcosa sul modo in cui questo stesso
problema, diversamente nominato, si presentava al giovane Marx. Tanto sotto il profilo dei concetti
politici quanto sotto il profilo dei concetti filosofici, il confronto con Hegel è qui ineludibile. Per la
semplice ragione che era lo stesso Marx a considerarlo tale in quello che solo per comodità analitica
possiamo chiamare un “doppio inizio”: inestricabile è infatti da subito, per Marx, il nesso che
stringe politica e filosofia in termini tanto concettuali quanto storici. Tanto più dopo Hegel. “La
nostra epoca è politica; la nostra politica vuole la libertà di questo mondo”, aveva scritto nel 1842
Arnold Ruge, dando lapidaria espressione a questo incrocio di politica e filosofia nella storia (A.
Ruge, La filosofia hegeliana del diritto e la politica del nostro tempo [1842], trad. it. in “Annali di
Halle” e “Annali tedeschi” [1838-1843], Firenze, La Nuova Italia, 1981, p. 205). Limitiamoci – a
proposito di Hegel – a pochi cenni, anche qui con l’obiettivo di segnare un campo e di delineare i
contorni di una problematica. È negli anni di Jena che Hegel porta logicamente a compimento lo
sviluppo del contrattualismo moderno nel momento stesso in cui ne articola una critica rigorosa e
definitiva (cfr. G. Duso, La critica hegeliana del giusnaturalismo nel periodo di Jena, in Id., a cura
di, Il contratto sociale nella filosofia politica moderna, Bologna, Il Mulino, 1987). Si potrebbe così
riassumere il punto che maggiormente mi interessa: il problema delle condizioni non individuali
dell’individualità, presente sotto traccia nel pensiero politico moderno fin da Hobbes (non vi sono
individui senza sovranità, per quanto il patto produca l’illusione ottica della pre-esistenza degli
individui al Leviatano), è assunto con decisione da Hegel come tema fondamentale della sua
riflessione. Ne deriva un essenziale movimento, che investe l’insieme dei concetti e degli istituti in
cui la politica è stata modernamente pensata e articolata. “Si incontra innanzitutto la vana astrazione
di un concetto dell’universale libertà di tutti, la quale sarebbe separata dalla libertà dei singoli”,
scrive Hegel nel 1802 con trasparente riferimento a Rousseau; “poi, d’altro lato, appunto questa
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libertà dei singoli, parimenti isolata” (G.W.F. Hegel, Scritti di filosofia del diritto [1802-1803],
trad. it. Bari, Laterza, 1962, p. 57). È questa opposizione astratta tra i “singoli” e i “tutti” che deve
essere superata.
Importa qui più la posizione (o la riapertura) del problema da parte di Hegel di quanto non
importino le soluzioni – che già in questi anni egli comincia a cercare in un nuovo concetto di
“costituzione” (Verfassung) e sul piano dell’“eticità”. L’opposizione tra individuo e potere sovrano,
attorno a cui si era sviluppato l’intero giusnaturalismo, appare spezzata, l’individuale e il collettivo
(il singolare e il comune, per usare termini che ricorrono negli scritti hegeliani, non sempre con il
medesimo significato di particolare e universale) si presentano come figurazioni non
necessariamente stabili prodotte da un movimento che conosce sì i propri “momenti” e la propria
articolazione ma che ha anche, filosoficamente e politicamente, una sua propria autonoma
consistenza come movimento produttivo. In un libro dedicato alla ricostruzione storico-filosofica
della figura del “cittadino/soggetto”, Étienne Balibar ha mostrato lo svolgimento di questa
problematica hegeliana nella Fenomenologia dello spirito. “Io che è Noi, e Noi che è Io” (Ich, das
Wir, und Wir, das Ich ist”) e “l’attività di tutti e di ciascuno” (das Tun aller und jeder): sono queste
le due formule su cui maggiormente lavora Balibar. Ancora l’individuale e il collettivo, stretti in un
nesso che impedisce di pensarli come termini opposti e sembra piuttosto indicare in una
problematica “messa in comune” il luogo della soggettività (É. Balibar, Citoyen sujet et autres
essais de anthropologie philosophique, Paris, PUF, 2011, in specie p. 238). E d’altro canto: lo
stesso concetto di universale pare a Balibar aprirsi in direzione del comune, nella filigrana
dell’Allgemeinheit traspare ciò che è all(en) gemein, a tutti comune (ivi, p. 269). Leggiamo il brano
in cui compare la seconda delle formule hegeliane richiamate (e conviene farlo tenendo a mente il
marxiano “sogno di una cosa”): “la Cosa stessa è un’essenza il cui essere consiste, a un tempo,
nell’attività del singolo individuo e in quella di tutti gli individui, e la cui attività è immediatamente
per altri, è una Cosa; essa è cosa soltanto come attività di Tutti e di Ciascuno, è l’essenza che
costituisce l’essenza delle essenza: la cosa stessa è l’essenza spirituale” (G.W.F. Hegel,
Fenomenologia dello spirito, ed. it. con testo tedesco a fronte, Milano, Bompiani, 2000, p. 565).
Die Sache selbst, la cosa stessa, vale qui la “causa” o “l’affare comune”, come Balibar afferma
convocando l’autorità di traduttori e grandi interpreti francesi di Hegel (J.-P. Lefebvre, J.
Hyppolite). Viene così meglio in luce lo spiazzamento operato da Hegel rispetto alla questione
aristotelica di ciò che costituisce il “proprio dell’uomo”: “l’ergon idion, l’opera propria che è anche
l’‘opera particolare’, deve divenire anche un koinon ergon, ‘una causa comune che si realizza in
un’opera’, attraverso cui l’attività individuale comunica con l’universale” (Balibar, Citoyen sujet,
cit., pp. 271 s.). È nello spazio aperto da questo spiazzamento che si colloca il doppio inizio di
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Marx, nella filosofia e nella politica, nell’unità che le stringe e che proprio attorno al problema del
soggetto si dà a vedere nel modo più chiaro.
Leggiamo da questo punto di vista un passo di quelli che conosciamo come Manoscritti economico-
filosofici del 1844: “il lavoro, l’attività vitale, la vita produttiva stessa appaiono all’uomo in primo
luogo soltanto come un mezzo per la soddisfazione di un bisogno, del bisogno di conservare
l’esistenza fisica. Ma la vita produttiva è la vita della specie. È la vita che produce la vita (das
Leben erzeugende Leben). In una determinata attività vitale sta interamente il carattere di una
‘species’, sta il suo carattere specifico; e l’attività libera e cosciente è il carattere dell’uomo. La vita
stessa appare soltanto come mezzo di vita” (MEF, pp. 77 s.). “La produzione produce l’uomo”,
dunque (MEF, p. 90). Produzione di vita, produzione dell’uomo, la “creazione pratica di un mondo
oggettivo” (MEF, p. 78): ecco delineata, in poche battute, la problematica marxiana. Nell’enfasi
posta sul momento della produzione, su una “creazione” spogliata di ogni carattere trascendente,
possiamo ascoltare echi epicurei e lucreziani, possiamo vedere la traccia delle grandi tradizioni del
materialismo rinascimentale. Ma lo scarto con quello che si presentava a Marx come materialismo
all’indomani della morte di Hegel non potrebbe essere più netto. Prima tesi su Feuerbach (1845): “il
difetto principale d’ogni materialismo fino a oggi (compreso quello di Feuerbach) è che l’oggetto,
la realtà, la sensibilità, vengono concepiti solo sotto la forma dell’obietto o dell’intuizione; ma non
come attività sensibile umana (sinnlich menschliche Tätigkeit), prassi; non soggettivamente (nicht
subjektiv)”. Fissiamo questo punto: non v’è materialismo, per Marx, se non superando
l’opposizione di soggetto e oggetto e la mediazione del loro rapporto attraverso l’“intuizione” –
ovvero rinnovando profondamente l’immagine stessa del soggetto. Hegel dovrà certo essere
“rovesciato”, perché, come si legge ancora nella prima tesi su Feuerbach, “il lato attivo fu
sviluppato astrattamente, in opposizione al materialismo, dall’idealismo – che naturalmente non
conosce l’attività reale, sensibile in quanto tale”. L’intensità della riflessione marxiana di questi
anni sull’“estraneazione”, sull’“alienazione” (categorie, lo si ricordi, hegeliane) segnala del resto,
per riprendere i termini impiegati da Balibar, una radicale interruzione nella “comunicazione”
dell’attività individuale con l’“universale”. Ma il “materialismo nuovo” che Marx annuncia nelle
tesi su Feuerbach non tornerà indietro rispetto a Hegel. E avrà piuttosto il suo punto d’onore nel
tenere ferma – come chiave di una complessiva ricostruzione dell’ontologia – la centralità
dell’“attività sensibile umana”: di quella “attività pratica degli individui” che spiazza le alternative
che dividevano la filosofia tedesca post-hegeliana, quella tra “reale” e “razionale” non meno di
quella tra “sostanza” e “coscienza” (cfr. Dardot – Laval, Marx, prénom: Karl, cit., cap. II).
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Ontologia, si è detto, dottrina dell’essere. L’essere appare in questi anni, a Marx, come “essere di
massa” (massenhaftes Sein), in cui l’uomo è immerso (HF, p. 56). Ontologia dell’immanenza,
ontologia dell’essere sociale, ontologia delle relazioni attraverso cui sempre di nuovo l’uomo
costruisce la sua storia e produce la sua “natura”: l’“esserci dell’uomo per l’altro uomo, la sua
relazione umana con l’altro uomo, il rapportarsi sociale dell’uomo all’uomo” (HF, p. 44). È celebre
del resto l’affermazione contenuta nella sesta tesi su Feuerbach: “l’essenza umana non è qualcosa di
astratto che sia immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà essa è l’insieme dei rapporti
sociali (in seiner Wirklichkeit ist es das ensemble der gesellschaftlichen Verhältnisse)” (se ne veda
il commento in É. Balibar, La filosofia di Marx, trad. it. Roma, Manifestolibri, 1994, pp. 32 ss.).
Meno commentato è un altro passo di questi stessi anni, in cui la critica dell’astrazione si carica di
valenze ulteriori. In questione è qui, in La sacra famiglia (1845), la critica della “critica critica” di
Bruno Bauer “e consorti”. Questa critica, scrivono Marx ed Engels, “troneggia nella solitudine
dell’astrazione; essa pare occuparsi di un oggetto, ma non esce dalla sua solitudine priva d’oggetto
per entrare in un rapporto realmente sociale con un oggetto reale, perché il suo oggetto è soltanto
l’oggetto della sua immaginazione, è soltanto un oggetto immaginato” (HF, p. 167). La critica
dell’astrazione è qui critica della “solitudine”, di un soggetto che afferma la propria sovranità (che
“troneggia”) soltanto nella misura in cui si erge solo al di sopra del mondo delle cose e degli uomini
– per ritrovarsi a maneggiare soltanto un “oggetto immaginato”. Una mera apologia di questa
solitudine appare conseguentemente a Marx l’immagine degli individui che abitano la società
borghese come “atomi”, condannati a muoversi irrelati in un mondo “vuoto” (cfr. HF, pp. 127 s.).
Essi sono piuttosto, per riprendere una grande immagine dall’Ideologia tedesca (1845-1846),
“individui empiricamente universali” (IT, p. 34), uomini che sono sì diventati “individui astratti, ma
proprio per questo e solo per questo sono messi in condizione di entrare come individui in
collegamento tra loro” (IT, p. 72). Il massimo di isolamento coincide qui con il massimo di socialità
(cfr. L. Basso, Socialità e isolamento: la singolarità in Marx, Roma, Carocci, 2008). È all’interno
di questo nesso che occorre collocarsi, per studiare le condizioni che hanno condotto a strappare
l’individuo all’insieme di condizioni (evidentemente non individuali, bensì “universali”) che pure,
“empiricamente”, ne determinano l’esistenza – e ne producono la soggettività. Contro la “critica
critica” si tratta di mettere al centro della ricerca “l’attività essenziale del soggetto reale, che vive e
soffre nella società presente, partecipando dei suoi tormenti e delle sue gioie” (HF, 169).
Siamo così passati, quasi senza accorgercene, dal primo inizio, quello filosofico, al secondo, quello
politico: sono del resto lo Stato e la proprietà privata i dispositivi, come oggi diremmo, che
“trasformano gli uomini in astrazioni” in quanto essi stessi “prodotti dell’uomo astratto” (HF, p.
204). Si vede bene come il tema che si è scelto come filo conduttore di questa esplorazione dei
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cantieri marxiani – la produzione di soggettività – illumini fin dalle opere giovanili la “specularità”
di Stato e proprietà privata. Nel punto d’incrocio tra i due inizi di Marx c’è poi necessariamente la
religione, terreno eminente di esercizio della critica nella filosofia post-hegeliana. Sarebbe
interessante mostrare come Marx assuma anche qui una posizione di grande originalità, seguendo
una traccia essenzialmente spinoziana (cfr. K. Marx, Quaderno Spinoza 1841, trad. it. Torino,
Bollati Boringieri, 1987). Emergerebbe così – rispetto ai passi che si sono appena visti della Sacra
Famiglia – una diversa valenza, affatto materiale e incardinata nei processi di produzione storica
della soggettività, dell’immaginazione. Il punto che qui maggiormente rileva è tuttavia un altro:
ancora polemizzando con Bruno Bauer, in La questione ebraica (1844) Marx determina uno
spiazzamento della politica moderna che ne investe in profondità le logiche e le categorie. Al centro
del suo ragionamento è nuovamente la figura di soggettività corrispondente allo Stato moderno,
solcata da una radicale scissione (Spaltung) tra il lato pubblico e il lato privato della sua esistenza,
tra “la vita nella comunità politica (im politischen Gemeinwesen)” e “la vita nella società civile”
(QE, p. 58). Il riconoscimento da parte di Marx di quella che altri avrebbe chiamato la struttura
“teologico-politica” della moderna forma Stato è netto: “la religione è il riconoscersi dell’uomo per
via indiretta. Attraverso un mediatore. Lo Stato è il mediatore tra l’uomo e la libertà dell’uomo”
(QE, p. 56). Quanto più “il mediatore” si perfeziona, quanto più “lo Stato politico perfetto (der
vollendete politische Staat)” dà espressione, rappresentandola, alla “vita generica (Gattungsleben)
dell’uomo”, tanto più si approfondisce la scissione tra quest’ultima e la “vita materiale” dell’uomo
stesso (QE, p. 57). Al contrario della “critica critica” di Bauer, la critica marxiana non può dunque
arrestarsi al terreno della “pura politica”: l’analisi dell’“emancipazione degli ebrei” diventa anzi
occasione per una critica complessiva dell’“emancipazione politica”, nonché di concetti come
democrazia e cittadinanza. Il movimento della critica va del resto apprezzato nella sua specificità: la
politica è innanzitutto assunta da Marx nei suoi effetti di realtà, a loro volta descritti sotto il profilo
della produzione di una figura specifica della soggettività nel tempo storico in cui lo Stato si è
affermato come monopolista della politica stessa. Non è qui, dall’interno di questa “politica”, che si
può muovere verso il superamento della “scissione” sopra indicata. L’orizzonte è dunque segnato:
quella che Marx chiama in La questione ebraica “emancipazione umana” (QE, p. 66) indica lo
scarto che si è comunque prodotto rispetto alla politica moderna. L’aggettivo, “umana”, sarà messo
a dura prova dagli sviluppi degli anni successivi, sia per la progressiva presa di distanza di Marx
dall’“umanesimo giovanile” sia per il peso che assumerà in modo sempre più deciso nel suo lavoro,
accanto allo Stato, un’altra potenza storica caratterizzata da precise modalità di produzione di
soggettività: il Capitale. Ma al centro del pensiero e dell’azione di Marx resterà il rompicapo della
liberazione. Per intanto, la politica è per così dire messa in dissolvenza.
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Ma non è quel che accade anche con la filosofia? Non v’è in Marx un urto continuo, in questi anni,
contro il limite della filosofia? Non avvia il “nuovo materialismo”, quantomeno nelle intenzioni, la
dissolvenza della filosofia stessa? A me pare evidente che le cose stiano così. Non dimentichiamo le
difficoltà, le vere e proprie aporie che segnano il programma di Marx tanto in politica quanto in
filosofia. Mi interessa di più, tuttavia, segnalare che, pensato insieme, questo doppio movimento di
dissolvenza sembra indicare un rapporto tra filosofia e politica decisamente diverso da quello che
Jacques Rancière ha definito in riferimento a Marx con la formula “meta-politica” (J. Rancière, La
Mésentente. Politique et philosophie, Paris, Galilée, 1995, pp. 118 ss.). Decisiva non è in Marx,
neppure in La questione ebraica, la denuncia della “non-verità” della politica, la scoperta del
sociale come “verità del politico”. Una volta presi sul serio gli “effetti di realtà” della politica
moderna, e una volta misurati questi effetti sul terreno specifico della produzione di soggettività, il
“sociale” non può in particolare, se non per un’illusione ottica, essere pensato come altro dalla
politica, appunto come sua “verità”. Quella di Marx è semmai, se vogliamo giocare con le formule,
una “anti-politica”, nel senso preciso di una politica che incorpora al proprio interno l’elemento che
la eccede e ne mostra continuamente il limite.
4. Il soggetto della storia, il soggetto nella storia
“E molti di noi affondarono nei pressi
delle coste, dopo lunga notte, alla prima aurora.
Verrebbero, dicevamo, se solo sapessero.
Che sapevano, noi non lo sapevamo ancora”
(Bertold Brecht, L’abicì della guerra [1945], n. 48, trad. it. in
Poesie, vol. II, Torino, Einaudi, 2005, p. 509).
Il “nuovo materialismo” è prima di tutto materialismo storico. E la storia si presenta prima di tutto a
Marx come regno della libertà: “la storia non fa nulla”, leggiamo ancora in La sacra famiglia, “è
l’uomo, l’uomo reale, vivo, che fa tutto, che possiede, che lotta. Non è ad esempio la ‘Storia’ che ha
bisogno dell’uomo come mezzo, per realizzare i suoi scopi, come se fosse una persona originale: al
contrario essa non è null’altro che l’attività degli uomini che perseguono i propri scopi” (HF, p.
98). Durerà poco questa inebriatura di libertà, l’ombra della “necessità” si distenderà
progressivamente sulla storia nella stessa riflessione marxiana. L’ineluttabilità della rivoluzione
verrà ammantandosi in molte pagine di Marx (per tacere dei marxismi) di un carattere “oggettivo”,
il movimento della “struttura” sembrerà esso stesso il soggetto della storia, a cui si affiderà il
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“maturare” delle condizioni per il superamento del capitale. In un testo tanto breve quanto celebre,
la prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica, la successione dei modi di
produzione (“asiatico, antico, feudale, borghese”) è presentata come successione di “epoche che
marcano il progresso della formazione economica della società”. E Marx scrive: “una formazione
sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dar corso; nuovi
e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla
vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza” (C, I, p. 958). Certo, il Manifesto del
partito comunista (1848) aveva proclamato fin dalle prime sue righe: “la storia di ogni società
esistita fino a questo momento è storia di lotte di classi” (MPC, p. 100). Ma qual è il ruolo della
lotta di classe nel “maturare” delle condizioni di “nuovi e superiori rapporti di produzione”? Come
interviene la soggettività dentro e contro questo processo? E di quale soggettività stiamo parlando,
della “classe” o forse di un’avanguardia, di un “partito”? Sono domande che, indipendentemente
dagli sviluppi teorici e politici successivi alla sua morte, interpellano radicalmente il pensiero di
Marx, attraversato da una continua oscillazione e da formidabili tensioni rispetto al problema che
quelle stesse domande pongono. In una pagina del 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852), i termini
di questo problema sono fissati in modo tanto preciso quanto impegnativo dal punto di vista teorico:
“gli uomini fanno la storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi,
bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla
tradizione” (18B, p. 172). Si deve qui cogliere un elemento di “pessimismo” marxiano, dovuto agli
sviluppi della rivoluzione del ’48, bagnati del sangue degli insorti di giugno a Parigi? Non parrebbe,
se è vero che già in L’ideologia tedesca possiamo rinvenire formulazioni che anticipano quella che
si è appena citata (cfr. ad es. IT, pp. 35 s.), a partire da una riflessione sull’“estraneazione” (IT, p.
33). È più corretto vedervi lo svolgimento di un problema interno allo stesso “nuovo materialismo”
di Marx, del problema cioè del rapporto, costitutivo dell’“attività pratica degli individui”, che
quest’ultima intrattiene tanto con “le condizioni determinate al cui interno essa si svolge quanto con
quelle che essa stessa produce: ogni attività è condizionata e produce delle nuove condizioni
trasformando quelle che essa ha dapprima ‘incontrato’ davanti a sé, come ‘date’ al di fuori di sé e
indipendentemente da sé” (Dardot – Laval, Marx, prénom: Karl, cit., p. 139).
Restiamo alla formulazione del 18 brumaio. Vi si può vedere enunciato un tema che segnerà, in
particolare in Germania, la grande cultura “borghese” dei decenni successivi, tra storicismo (W.
Dilthey), “sociologia classica” (G. Simmel, M. Weber) ed ermeneutica filosofica (H.G. Gadamer).
Si tratta di sviluppi in cui prevarranno progressivamente tonalità “tragiche” nella descrizione della
“gabbia d’acciaio” che progressivamente si stringe attorno alla libertà del soggetto nella storia:
l’ultimo Simmel, quello della “tragedia della cultura”, è da questo punto di vista esemplare. La
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pagina marxiana appare più controllata, anche se l’immagine con cui prosegue il passo citato non è
delle più rassicuranti: “la tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul
cervello dei viventi…” (18B, p. 172). Ciò nondimeno, per quanto non “in modo arbitrario”, sono
pur sempre “gli uomini” che “fanno la storia”. Si sarebbe tentati di parlare di equilibrio marxiano. E
tuttavia credo che nulla sarebbe più sbagliato: in questione non è qui una semplice opposizione tra
le “circostanze” oggettive e gli “uomini”, bensì un’altra lacerazione che attraversa il soggetto.
Gayatri Spivak, commentando un altro passo del 18 brumaio, ha scritto che “Marx è obbligato a
costruire i modelli di un soggetto diviso e dislocato, le cui parti non sono continue e coerenti tra
loro” (G. Ch. Spivak, Critica della ragione postcoloniale (1999), trad. it. Roma, Meltemi, 2004, p.
271). Il punto è che il soggetto è al tempo stesso prodotto dalle “circostanze” che gli si presentano
come esterne, come “oggettive”, e produttore di quelle medesime circostanze, tanto nel senso che
esse nulla hanno di naturale (essendo state a loro volta prodotte da uomini che hanno fatto la storia)
quanto nel senso che, sapendole costruite, il soggetto può trasformarle o distruggerle. La
“divisione”, come sottolinea Spivak, attraversa il soggetto stesso, non scinde soggetto e oggetto. Più
che alla ricerca dei passi marxiani in cui l’“oggettivismo” che dominerebbe la critica dell’economia
politica cede il campo alla “logica della guerra di classe” (questa, un poco semplificando, è l’ipotesi
su cui lavorano Dardot e Laval nel libro più volte citato), si tratta allora di forzare l’analisi proprio
sul terreno della produzione di soggettività. E qui l’“equilibrio”, nella prospettiva marxiana, non
potrà che apparire come forma della dominazione, come capacità – per riprendere due categorie che
si sono già incontrate (e che Marx utilizza anche prima del ’48 [cfr. MF, p. 79] – dei “rapporti di
produzione” di contenere al proprio interno le “forze produttive”. A ben vedere, il brano del 18
brumaio anticipa sul terreno della storia la tensione e l’antagonismo tra queste categorie cruciali
della critica dell’economia politica, riformulando una classica problematica machiavelliana.
“Fortuna” (le “circostanze”) e “virtù” (la capacità degli uomini di “fare la storia”) vengono qui a
indicare i due poli attorno a cui si determina materialmente la costituzione del soggetto. La
riflessione marxiana terrà fermo questo schema analitico negli anni successivi, e il problema che ne
occuperà il centro – minacciando di tanto in tanto di trasformarsi in un rompicapo – sarà la
fondazione teorica (e al tempo stesso necessariamente politica) di quello che possiamo chiamare il
momento dell’eccedenza soggettiva. Detto in altri termini: di una libertà materialisticamente
rinnovata nella storia.
Nella storia, in ogni caso, gli “uomini reali” (noi aggiungeremmo “e le donne reali”, ma non usava
ai tempi di Marx…) vivono e soffrono, lottano e fanno i conti con le “circostanze” in cui si trovano
ad agire. Lo stesso Marx, in quanto “uomo reale”, partecipò intensamente tanto dei “tormenti”
quanto delle “gioie” della porzione di storia che gli capitò di vivere. Il ’48, in questo senso, fu per
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lui – come del resto per l’intera Europa – un tornante decisivo. All’inizio di quell’anno usciva il
Manifesto del partito comunista, con l’obiettivo di “farla finita con la favola dello spettro del
comunismo” e di esporre “apertamente in faccia a tutto il mondo” il programma dei comunisti
(MPC, pp. 64 s.). Di questo testo, pamphlet politico tra i più straordinari e influenti che siano mai
stati scritti, conviene qui evidenziare un unico punto: la potenza di anticipazione teorica di una
presa di parola che diventa immediatamente politica. Gli anni Quaranta dell’Ottocento erano stati
caratterizzati da grandi dibattiti sulla “questione sociale”, su cui appunto aleggiava lo “spettro” del
comunismo. La rivolta dei canut (i tessitori di seta) di Lione del 1831 aveva prefigurato l’irruzione
sulla scena europea di un nuovo e minaccioso soggetto, che l’anno successivo Blanqui avrebbe
nominato con un termine antico: proletario. Ma certo, all’inizio del 1848 non erano in molti a
pensare che nel corso di quell’anno i “due grandi campi nemici”, le “due grandi classe contrapposte
l’una all’altra”, “borghesi e proletari” (MPC, p. 101) si sarebbero scontrati armi in pugno. Non
sembravano esservene le “condizioni oggettive”, per riprendere il tema appena trattato, e ancora a
febbraio, a Parigi, borghesi e proletari avevano lottato fianco a fianco contro la monarchia di luglio
e per la repubblica. Poi venne giugno, “la terribile insurrezione in cui venne combattuta la prima
grande battaglia tra le due classi in cui è divisa la società moderna” (LCF, p. 44). Alexis de
Tocqueville riconobbe nei suoi Ricordi (1851), da posizioni politiche antitetiche rispetto a quelle di
Marx, la cesura che questa insurrezione determinò rispetto alla moderna storia delle rivoluzioni:
“gli insorti combatterono senza grido di guerra, senza capi, senza bandiere, e tuttavia presentando
un insieme meraviglioso e un’esperienza militare che meravigliò i più vecchi ufficiali. Quello che la
distinse ancor più tra gli avvenimenti del genere accaduti da sessant’anni a questa parte tra noi, fu il
fatto che essa non ebbe per iscopo quello di cambiare la forma di governo, ma di alterare l’ordine
della società. A dir la verità non fu una lotta politica (nel senso che avevano dato fino allora a
questa parola), ma una lotta di classe, una specie di guerra servile” (A. de Tocqueville, Scritti
politici, vol. I, Torino, Utet, p. 422). Marx, questa cesura, la aveva anticipata.
“Le locomotive della storia”: così Marx, in Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 (una serie
di articoli “storici” scritti in presa diretta sugli eventi), definisce le rivoluzioni (LCM, p. 132). Ci
sono momenti, nella storia, in cui il tempo accelera vertiginosamente. Ma in quale direzione? In
quella “oggettivamente” stabilita dalla “ragione”, dal “progresso” o dalle “leggi di movimento”
della struttura economica? Conviene leggere sulla base di questa domanda gli scritti marxiani sul
’48. A me pare che si debba parlare, a questo proposito, di una concentrazione nel tempo di una
serie di vettori di sviluppo, di una loro scomposizione e di una tendenziale esplosione dell’unità
della storia stessa. Certo, la pagina marxiana spesso ci rassicura sull’esito di questo complesso
movimento. Quando leggiamo che “la rivoluzione va fino in fondo alle cose”, che “lavora con
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metodo”, intravediamo il sicuro riscatto della sconfitta di giugno, nel giorno in cui “l’Europa
balzerà fuori dal suo seggio è griderà: ben scavato, vecchia talpa!” (18B, pp. 300 s.). Ma dovrebbe
forse stupirci questa “rassicurazione” nello scritto di un rivoluzionario non pentito? Evidentemente
no: si renda piuttosto l’onore delle armi al vecchio Karl! Ciò che mi interessa di più, sotto il profilo
teorico, è quello che ho chiamato il movimento di scomposizione e la tendenziale esplosione dei
diversi sviluppi ricostruiti da Marx negli scritti sul ’48 – nonché dei tempi storici che li
caratterizzano. Da una parte almeno due storie di lungo periodo conoscono, passando attraverso
l’“imbuto” della rivoluzione del ’48, un’accelerazione che non sembra alterarne il corso da tempo
intrapreso: quella della moderna forma Stato (“tutti i rivolgimenti politici non fecero che
perfezionare questa macchina, invece di spezzarla”, 18B, p. 302) e quella del capitale
(“l’aristocrazia finanziaria non solo non è stata abbattuta dalla rivoluzione, ma anzi ne ha tratto
maggior forza”, LCF, p. 150). C’è però almeno una terza storia che corre parallela a queste, le
attraversa e le condiziona acquisendo progressivamente autonomia: è quella che potremmo
chiamare la storia politica dei subalterni (termine che Marx non usa e che provvisoriamente
adottiamo, seguendo più Spivak che Gramsci, per enfatizzare la problematicità della “nominazione”
dei suoi soggetti). È una storia contraddistinta da uno specifico regime di accumulazione di
esperienze, di invenzione di istituti, di linguaggi, di rapporti, da tempi propri e da originali
dispositivi di produzione di soggettività. “La rivoluzione di febbraio era stata la bella rivoluzione”,
scrive Marx, “la rivoluzione della simpatia generale, perché gli antagonismi che erano scoppiati in
essa contro la monarchia sonnecchiavano tranquilli l’uno accanto all’altro, non ancora sviluppati”.
Ecco nuovamente posto il problema delle “circostanze”, della “maturazione” delle condizioni
“oggettive” della rivoluzione. Il punto è che qui i tempi di maturazione sono bruciati, non passano
che quattro mesi e subentra la rivoluzione di giugno, “la rivoluzione brutta, la rivoluzione
ripugnante, perché al posto della frase è subentrata la cosa, perché la repubblica stessa ha svelato la
testa del mostro, abbattendo la corona che la proteggeva e la copriva” (LCF, p. 45).
Nello scarto tra febbraio e giugno intravediamo dunque i lineamenti di un’altra storia. E nell’analisi
marxiana cogliamo preziose indicazioni di metodo per ricostruire in chiave genealogica la forza con
cui le lotte e i movimenti dei subalterni fanno la (propria) storia: si pensi all’analisi dei “club”, in
cui Marx vede “altrettante Assemblee costituenti del proletariato” (LCF, p. 84), ma anche
all’insistenza sulla capacità dell’autonoma iniziativa proletaria di dettare il ritmo dello sviluppo
delle forme istituzionali borghesi, dapprima elaborando “alla perfezione il potere parlamentare, per
poterlo rovesciare”, poi spingendo “alla perfezione il potere esecutivo” per “concentrare contro di
esso tutte le sue forze di distruzione” (18B, pp. 300 s.). Sarà bene non dimenticare che su questa
storia incombe il massacro degli insorti di giugno. E sarà dunque il caso, una volta riconosciuta la
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sua autonomia, di non isolare analiticamente la storia politica dei subalterni dalla costellazione più
generale in cui si inserisce. A me pare tuttavia che l’indicazione marxiana sia preziosa, tanto per il
lavoro storiografico quanto per quello teorico-politico. Possiamo scorgervi del resto, sia pure in
frammenti, una traccia di riflessione non soltanto su un’“altra storia” ma anche su un’“altra
politica”, che emerge nella dissolvenza di quella costruita dallo Stato moderno. Già nei Manoscritti
del 1844, del resto, Marx aveva cercato di fissare questa traccia, alludendo a quello che possiamo
chiamare un momento di eccedenza strutturale della lotta proletaria rispetto ai suoi obiettivi
immediati. “Quando gli operai comunisti si riuniscono”, aveva annotato, “essi hanno primamente
come scopo la dottrina, la propaganda, ecc. Ma con ciò si appropriano immediatamente di un nuovo
bisogno, del bisogno della società, e ciò che sembra un mezzo è diventato scopo”. E aveva
aggiunto: “questo movimento pratico può essere osservato nei suoi risultati più luminosi, se si
guarda a una riunione di ‘ouvriers’ socialisti francesi. Fumare, bere, mangiare, ecc. non sono più
puri mezzi per stare uniti, mezzi di unione” (MEF, p. 137). Ripetiamolo: è un’annotazione. Che può
tuttavia rivelarsi preziosa.
5. Lavoro vivo
“Se l’alienazione del lavoro significa un totale annullamento ed
estraneazione della natura umana, lo stesso lavoro deve essere allora
inteso come espressione e realizzazione propria e peculiare della
natura umana. Ma ciò significa che esso è concepito come una
categoria filosofica.
Anche se le cose stanno, dunque, nel modo che abbiamo cercato di
spiegare, non oseremmo tuttavia usare a proposito della teoria
marxiana un termine di cui è stato fatto così cattivo uso come quello
di ontologia, se non lo usasse esplicitamente Marx”
(Herbert Marcuse, Nuove fonti per la fondazione del materialismo
storico [1932], trad. it. in Id., Marxismo e rivoluzione, Torino,
Einaudi, 1975, p. 73).
Passarono solo pochi anni dalle rivoluzioni del ’48, e già queste ultime venivano definite da Marx
“soltanto dei poveri episodi – piccole rotture e crepe nella dura crosta della società europea”.
“Eppure”, aggiungeva, “esse resero visibile una voragine. Esse rivelarono, al di sotto della
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superficie apparentemente solida, un mare di materia fluida, che aveva solo bisogno di espandersi
per mandare in frantumi continenti di roccia compatta” (MEW, XII, p. 3). Al momento di scrivere
queste righe, nel 1856, Marx viveva ormai da diversi anni in esilio a Londra, in quell’Inghilterra
che, in quanto “domina il mercato mondiale”, gli appariva già in Le lotte di classe in Francia come
il paese in cui la prossima rivoluzione avrebbe dovuto trovare il proprio “inizio di organizzazione”
(LCF, p. 124). Intanto si era immerso nel “mare di materia fluida” della critica dell’economia
politica, intraprendendo un itinerario di ricerca che soltanto con la pubblicazione del primo libro del
Capitale (1867) avrebbe trovato una provvisoria conclusione. “Una nuova rivoluzione”, aveva
scritto dopo il ’48, “non è possibile se non in seguito a una nuova crisi. L’una però è altrettanto
sicura quanto l’altra” (LCF, p. 152). In condizioni di estrema povertà, tormentato da problemi di
salute e da stenti di ogni genere, Marx scrutava in questi anni l’orizzonte alla ricerca dei segni della
crisi che doveva arrivare. Quando cominciò la grande recessione degli anni 1856-1858, egli ne fu
analista e cronista straordinariamente acuto (cfr. S. Bologna, Moneta e crisi: Marx corrispondente
della “New York Daily Tribune”, 1856-57, in AA.VV., Crisi e organizzazione operaia, Milano,
Feltrinelli, 1974). L’ipotesi del nesso “necessario” tra crisi e rivoluzione non trovò alcuna
conferma: ma sotto la spinta della crisi (come tonificato dall’attesa della rivoluzione) Marx
impresse un’accelerazione al suo lavoro di critica dell’economia politica, di cui tentò di fissare tra il
1857 e il 1859 i “lineamenti fondamentali” (Grundrisse). Ne derivarono una serie di manoscritti
destinati a giacere tra le tante bozze provvisorie di Marx fino alla pubblicazione nel 1939 (ma solo
con la ristampa del 1953 cominciò la vera e propria ricezione dell’“opera”).
In questi manoscritti troviamo alcune delle formulazioni più suggestive per chi voglia leggere Marx
alla luce della problematica della “produzione di soggettività”. “La produzione di capitalisti e di
operai salariati”, leggiamo ad esempio nella sezione nota come “forme che precedono la
produzione capitalistica”, “è dunque un prodotto fondamentale del processo di valorizzazione del
capitale” (G, II, p. 145). Si badi, per anticipare un problema che verrà affrontato più avanti: il
processo di valorizzazione del capitale produce le figure soggettive del capitalista e dell’operaio
salariato, ma al tempo stesso non è logicamente possibile senza queste stesse figure – che appaiono
quindi, al tempo stesso, come suo presupposto. La produzione di soggettività (e la riproduzione
delle sue figure) appare in ogni caso collocata al centro dell’analisi del processo di valorizzazione
del capitale. Il problema che Marx aveva affrontato in gioventù sotto la rubrica della
“estraneazione” si ripresenta in questo brano nei termini di un processo di “oggettivazione” del
lavoro. Quest’ultimo, che occupa ormai il campo dell’“attività pratica degli individui”, si traduce in
prodotti (in oggetti) la cui appropriazione e accumulazione in mani diverse rispetto a quelle
dell’individuo che lavora dà luogo al sorgere di una potenza a lui estranea e ostile. È in questo
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processo che sorge il capitale, letteralmente impensabile per Marx al di fuori di un rapporto
antagonistico nella cui definizione è immediatamente in gioco il significato stesso assunto dai
termini “oggettività” e “soggettività”. Scrive Marx: “poiché in questo processo il lavoro oggettivato
è posto al tempo stesso come non oggettività dell’operaio, come oggettività di una soggettività
contrapposta all’operaio, come proprietà di una volontà a lui estranea, il capitale è necessariamente
al tempo stesso capitalista” (G, II, pp. 145 s.). E ancora: “nel concetto di capitale è insito che le
condizioni oggettive del lavoro – e queste sono il prodotto vero e proprio – assumano una
personalità (Persönlichkeit) contrapposta al lavoro o, che è lo stesso, che esse siano poste come
proprietà di una personalità estranea al capitale” (G, II, p. 146). Il capitale “non è una cosa, ma un
rapporto sociale tra persone mediato da cose”, avrebbe scritto Marx nelle ultime pagine del primo
libro del Capitale (C, I, p. 941; cfr. anche C, III, p. pp. 1095 s.). Leggere questa definizione alla
luce del brano dei Grundrisse che abbiamo appena commentato ci consente di fissare due punti
importanti. In primo luogo, le figure soggettive tra cui si determina il rapporto sociale che il capitale
è non sono “date”: devono essere piuttosto prodotte e continuamente riprodotte dal processo di
valorizzazione del capitale. In secondo luogo, la mediazione delle cose agisce in modo
essenzialmente diverso ai due estremi “soggettivi” del rapporto: la “personalità” del capitalista si
definisce come una sorta di supporto (Träger, “portatore”, è termine centrale in Marx proprio a
proposito dell’analisi della soggettività) delle “condizioni oggettive del lavoro” prodotte
dall’operaio. Non pare esservi più alcuno spazio per una figura unitaria di soggettività all’interno di
un campo che è piuttosto segnato da una radicale asimmetria (ed è questo il significato ultimo del
congedo marxiano dall’“umanismo”).
Lo stesso concetto di lavoro, di cui si ricorderà la definizione marxiana nel 1844 come “vita che
produce la vita”, conosce all’interno del laboratorio della critica dell’economia politica, una serie di
trasformazioni e di dislocazioni fondamentali. Si scompone, o meglio si scinde, in una serie di
coppie concettuali attraversate anch’esse dall’antagonismo: lavoro vivo e lavoro morto, lavoro
presente e lavoro passato, lavoro astratto e lavoro concreto, forza lavoro e lavoro, lavoro produttivo
e lavoro improduttivo, lavoro necessario e pluslavoro, per ricordarne alcune delle più significative.
Quello che tuttavia Marx tiene fermo della sua folgorante definizione giovanile è che il lavoro
indica una soggettività di massa che attraverso la produzione di “oggetti” dà avvio al processo al cui
interno il capitale emerge appropriandosi (in forme mutevoli) di questi “oggetti”. Il capitale si
presenta dunque sulla scena come una sorta di oggettività alla seconda potenza, contrapponendosi ai
lavoratori, convertendo gli “oggetti” appropriati e accumulati in qualcosa di fondamentalmente
diverso, in “condizioni oggettive del lavoro” stesso (G, II, p. 133). Il capitalista sorge, lo si è visto,
come “personificazione” di queste condizioni oggettive. D’altro canto, abbiamo qui soltanto uno
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schema formale dell’origine e del funzionamento del rapporto sociale capitalistico: nel suo
distendersi nella storia, nel suo farsi “modo di produzione” dominante, questo rapporto continua a
produrre e riprodurre le sue figure di soggettività. Lo sviluppo del capitalismo da una parte è
inconcepibile senza l’azione di questi soggetti – e in primo luogo del lavoro, che ha nella
prospettiva marxiana una vera e propria priorità “ontologica” sul capitale: le stesse forme di
soggettivazione del lavoro, i suoi movimenti e le sue lotte svolgono un ruolo fondamentale nello
spingere innanzi lo sviluppo capitalistico. Ma d’altra parte quest’ultimo “retroagisce” per così dire
tanto sulle figure soggettive del lavoro quanto su quelle del capitale, modificandone la
composizione e riproducendone su scala allargata il rapporto.
“Il movimento del capitale è senza misura” (C, I, p. 184), è “un processo infinito” (G, I, p. 250);
l’accumulazione capitalistica non conosce limiti, né sociali né geografici: abbiamo imparato quanto
Marx avesse ragione su questo punto. Il capitalismo non è, al contrario di quanto ancora oggi si
sente ripetere, la logica di uno dei “sistemi” in cui si articola la società nazionale o mondiale,
ovvero del sistema “economico”. In quanto rapporto sociale tende a strutturare l’insieme della
società in modo coerente con la propria razionalità – con la valorizzazione e l’accumulazione senza
limiti di capitale. Riproducendosi su scala sempre più allargata, del resto, il modo di produzione
capitalistico non produce soltanto “merce” e “plusvalore”, bensì - Marx lo ripete nel primo libro del
Capitale – “produce e riproduce il rapporto capitalistico stesso: da una parte il capitalista, dall’altra
l’operaio salariato” (C, I, p. 710). Produzione e riproduzione di un rapporto, ovvero delle due
figure in cui la soggettività si presenta scissa all’interno del capitalismo: è un’indicazione di
metodo, quella che deriviamo dai testi di Marx, che ci consente anche, una volta assunta nella sua
rilevanza costitutiva per la critica dell’economia politica, di spiazzare le discussioni sul rapporto tra
“struttura” e “sovrastruttura”. E ci suggerisce piuttosto di analizzare dal punto di vista della
produzione di soggettività lo scomporsi e il ricomporsi in mutevoli assemblaggi dei fattori
economici, politici, giuridici, culturali etc. (cfr. S. Mezzadra, Bringing Capital Back In: A
Materialist Turn in Postcolonial Studies?, in «Inter-Asia Cultural Studies», XII [2011], 1).
“Oggetto della nostra analisi”, si legge all’inizio della cosiddetta Introduzione del 1857 ai
Grundrisse, “è innanzitutto la produzione materiale” (G, I, p. 3). Ma Marx non torna indietro
rispetto allo scarto determinato dal “nuovo materialismo” degli anni giovanili nella stessa
definizione della “materia”. E nella produzione materiale, rinnovandone in profondità il concetto,
disloca l’insieme delle acquisizioni filosofiche che abbiamo cercato di leggere alla luce della
problematica contemporanea della produzione di soggettività. Un principio di indeterminazione
agisce così sul terreno della produzione materiale (ancora: la “vita che produce la vita”), aprendola
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costitutivamente in direzione di una serie di dimensioni che solo in apparenza (agli occhi del
materialista “volgare”) si presentano come “immateriali”.
E tuttavia rimane vero che ormai, in Marx, “non c’è categoria che possa essere definita fuori dalla
potenzialità della scissione” (cfr. Negri, Marx oltre Marx, cit., p. 56). La “vita” è ora interamente
collocata sul versante del lavoro, e quest’ultimo appare come l’unico soggetto, di fronte a un
capitale che acquisisce soggettività soltanto in una sorta di gioco di specchi (Marx parla di
“transustanziazione” [G, I, p. 296]), in quanto immagine rovesciata dell’oggettività, della morte e
del passato: “l’unica cosa differente dal lavoro oggettivato è il lavoro non oggettivato ma ancora da
oggettivare, il lavoro come soggettività. Oppure: il lavoro oggettivato, ossia spazialmente presente
(räumlich vorhanden), può essere anche contrapposto, come lavoro passato, al lavoro
temporalmente presente (zeitlich vorhanden). Nella misura in cui deve essere presente
temporalmente, come lavoro vivo, esso può esserlo soltanto come soggetto vivo, in cui esiste come
capacità (Fähigkeit), come possibilità (Möglichkeit); perciò come operaio” (G, I, pp. 251 s.). Non
solo asimmetria, dunque: eccedenza costitutiva del lavoro nel rapporto di capitale. E tuttavia questo
rapporto lo stringe con quelle che potremmo definire – variando una formula utilizzata in
precedenza – come le condizioni non soggettive della sua soggettività materialmente rappresentate
dal capitale. Nel corpo a corpo con il lavoro “passato”, “morto”, ovvero con le macchine, il “lavoro
come soggettività”, il “lavoro vivo” è sottoposto esso stesso alla potenza materiale della scissione.
Nell’età della “grande industria”, in particolare, il corpo operaio collettivo è amputato del suo
cervello: “la scissione fra le potenze mentali del processo di produzione e il lavoro manuale, la
trasformazione di quelle in poteri del capitale sul lavoro, si compie […] nella grande industria
edificata sulle macchine” (C, I, p. 518). Certo, questa espropriazione non è senza resti, il cervello
operaio si ricostruisce nella cooperazione sovversiva e nelle lotte contro l’organizzazione
capitalistica del lavoro in fabbrica. Dentro lo sviluppo capitalistico, e sotto la pressione di queste
lotte, la figura soggettiva del lavoro sfruttato dal capitale conoscerà trasformazioni profondissime, e
sarà ben lungi dal limitarsi al “lavoro manuale”. “Dispendio di cervello, nervi, muscoli, organi
sensoriali, ecc. umani” (C, I, p. 87): l’insieme delle attività corrispondenti a questo succinto elenco
marxiano sarà (è) coinvolto in questo processo. Diverso sarà di volta in volta il rapporto tra il
“lavoro vivo” e le “condizioni oggettive del lavoro” (tra il soggetto e le condizioni non soggettive
della soggettività), il general intellect di cui Marx parla in un passo celebre dei Grundrisse (G, II, p.
403) diventerà esso stesso terreno di antagonismo. Ma la “scissione” si riprodurrà sempre, in forme
che si tratta di indagare anche nel nostro presente.
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È bene del resto seguire l’indicazione di Dipesh Chakrabarty e leggere il concetto di lavoro vivo
alla luce di un’altra essenziale categoria marxiana, ovvero quella di lavoro astratto (cfr. D.
Chakrabarty, Provincializing Europe. Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton,
NJ, Princeton University Press, 2000, cap. 2). Marx propone in primo luogo, di questo concetto,
un’apologia: il lavoro che si contrappone al capitale è “lavoro astratto” in quanto “lavoro puro e
semplice”, “assolutamente indifferente a una particolare determinatezza, ma capace di ogni
determinatezza”. Se nel capitale “la ricchezza generale esiste oggettivamente, come realtà”, questo
lavoro è anch’esso “la ricchezza generale ma come sua possibilità generale, che si conferma
nell’attività come tale” (G, I, p. 280). Pura potenza sociale appare qui il lavoro astratto, e la sua
indifferenza a ogni determinatezza (cioè ai contenuti “concreti” del lavoro) pone le condizioni per
la soggettivazione antagonistica del lavoro stesso. Ma il lavoro astratto è anche quello su cui si
esercita la misura capitalistica, è il modo in cui il capitale rappresenta il lavoro, prima di tutto
attraverso il salario e poi nelle dimensioni sociali su cui si esercita la sua produttività. “Un valore
d’uso o bene”, scrive Marx nel capitolo sulla merce del primo libro del Capitale, “ha valore
soltanto perché in esso viene oggettivato, o materializzato, lavoro astrattamente umano” (C, I, p.
47). Il lavoro astratto è la produttività generale del lavoro così come appare attraverso la norma
della valorizzazione del capitale. È il criterio di disciplinamento che vive al cuore del “lavoro vivo”
– l’interiorizzazione del vampiro, per richiamare un’altra immagine utilizzata da Marx per definire
il capitale (cfr. M. Neocleus, Il mostro e la morte. Funzione politica della mostruosità [2005], trad.
it Roma, DeriveApprodi, 2008, cap. 2).
6. Spettri hobbesiani
“Il segno che contraddistingue la società borghese al suo tramonto è
proprio questa contraddizione: da un lato, il crescente svuotamento
delle forme della reificazione – si potrebbe dire il lacerarsi della loro
crosta per via del loro vuoto interno –, la loro crescente incapacità di
comprendere i fenomeni, sia pure nella loro singolarità e secondo
modi calcolistico-riflessivi; dall’altro, la loro crescita quantitativa, il
loro vuoto diffondersi estensivamente sull’intera superficie dei
fenomeni”
(György Lukács, Storia e coscienza di classe [1923], trad. it. Milano,
SugarCo, 1978, p. 274).
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È noto: la distinzione tra valore d’uso e valore di scambio delle merci, non certo inventata da Marx,
trova uno sviluppo vertiginoso nelle prime pagine del Capitale, fino a culminare nelle acrobazie
concettuali della sezione intitolata “il carattere di feticcio della merce e il suo arcano” (in buona
misura aggiunta alla seconda edizione dell’opera, del 1873). Grilli sgomitolati dalla testa di legno di
un tavolo, trasformato in “una cosa sensibilmente soprasensibile”, ci avvertono del “carattere
mistico” della merce (C, I, p. 87): quest’ultima, una volta che l’attenzione si sia fissata sulla sua
forma, risulta “una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici”
(C, I, p. 86), un “geroglifico sociale” (C, I, p. 90). Pagine celebri, queste di Marx, e a loro volta
“imbrogliatissime”. Il problema “teologico-politico” che abbiamo visto in La questione ebraica
ritorna qui disseminando spettri nel mondo delle cose e nella loro vita sociale (“cose sociali” sono
infatti le merci, C, I, p. 88). Marx stesso nota del resto che qui, “per trovare un’analogia, dobbiamo
involarci nella regione nebulosa del mondo religioso” (C, I, p. 88). In un altro contesto (nel capitolo
del terzo libro del Capitale dedicato alla “formula trinitaria”) introduce l’immagine di una
“religione della vita quotidiana” (C, III, p. 1115; cfr. L. Basso, Agire in comune. Antropologia e
politica nell’ultimo Marx, Verona, Ombre corte, 2012, cap. I). Una chiave concettuale per leggere
queste pagine dal punto di vista della produzione di soggettività ci è offerta dalla semantica
(eminentemente teologico-politica) della rappresentanza, di cui è bene assumere l’intero spettro dei
significati. “Qualcosa di comune (ein Gemeinsames)” costituisce il sostrato del mondo delle merci,
caratterizzato da una “spettrale oggettività” (C, I, pp. 46 s.). Le merci rappresentano questo
“qualcosa di comune”, la “sostanza” dei loro valori, hanno anzi in generale valore (di scambio)
soltanto perché in esse “viene oggettivato, o materializzato, lavoro astrattamente umano” (C, I, p.
47). Quando Marx parla del lavoro rappresentato nelle merci, usa il verbo darstellen, e non
vertreten o repräsentieren, i due verbi solitamente utilizzati per indicare la dimensione politica
della rappresentanza. Ma il problema di fondo che a partire da Hobbes sta al cuore di quest’ultima
(la produzione sovrana dell’unità politica e del “popolo”, di un ordine sovra-individuale
riconoscendosi nel quale gli individui divengono cittadini) è ben presente nell’analisi di Marx.
Rappresentato nelle merci, quel “qualcosa di comune” che costituisce la sostanza dei loro valori
esibisce lo stesso scarto tra individuale e collettivo che segna la sovranità e il popolo costruiti dalla
teoria politica moderna. Scrive Marx: “la forza lavoro complessiva della società che si presenta nei
valori del mondo delle merci vale qui come unica e identica forza lavoro umana, benché consista di
innumerevoli forze lavoro individuali” (C, I. p. 48). La cittadinanza nel mondo delle merci si
acquista partecipando a un gioco dello scambio in cui continuamente quello che gli uomini hanno in
comune si presenta ai singoli nella forma di un’oggettività separata, cosificata.
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L’estraneazione politica analizzata criticamente da Marx in La questione ebraica si presenta così
dislocata rispetto al terreno classico dello Stato, della sovranità e della cittadinanza, per infiltrarsi
nei più minuti rapporti di scambio che tessono la trama della quotidianità nella società delle merci.
Acquisisce così tutto il suo significato, ai fini dell’analisi che si sta conducendo, il feticismo delle
merci: il suo arcano, scrive Marx, consiste nel fatto che la forma merce, “come uno specchio,
restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire
come caratteri oggettivi di quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del rapporto sociale
tra produttori e lavoro complessivo (Gesamtarbeit), facendolo apparire come un rapporto sociale fra
oggetti esistente al di fuori di essi produttori” (C, I, p. 88). Non insisto sul parallelo con la teoria
hobbesiana della rappresentanza, che dovrebbe essere a questo punto evidente (e il rilievo
dell’immagine in quella teoria è stato opportunamente segnalato, all’interno di un dibattito
filosofico-politico che sul tema è stato molto intenso in Italia negli anni Ottanta del Novecento, da
Carlo Galli: si veda il secondo capitolo del suo Modernità. Categorie e profili critici, Bologna, il
Mulino, 1988). È il caso di sottolineare come il “carattere di feticcio della merce” consista
essenzialmente in una specifica produzione di soggettività, ovvero nella separazione degli individui
come produttori dal “lavoro complessivo” – e dunque nel “congelamento” della produttività di
quest’ultimo, dei suoi caratteri sociali e “comuni”, in una dimensione sottratta alla disponibilità da
parte dei singoli. D’altro canto, “le merci non possono andarsene da sole al mercato e non possono
scambiarsi da sole”. L’indagine marxiana non può dunque procedere altrimenti che concentrandosi
sui loro “tutori”, ovvero sui “possessori di merci”. Questi ultimi si pongono l’uno di fronte all’altro
come persone, si riconoscono reciprocamente come proprietari privati attraverso il rapporto
giuridico del contratto (C, I, p. 103). Il termine “persona” è qui utilizzato da Marx in senso tecnico
giuridico, e la migliore critica marxista del diritto ha preso le mosse proprio da questa inestricabile
implicazione di forma merce e forma giuridica per mostrare come la persona diventi nel diritto
borghese moderno “pura incarnazione di un soggetto di diritti, astratto e impersonale, un puro
prodotto di rapporti sociali” (E.B. Pasukanis, La teoria generale del diritto e il marxismo [1927],
trad. it. Bari, De Donato, 1975, p. 125). Seguiamo ancora il testo di Marx: “le persone esistono qui
l’una per l’altra soltanto come rappresentanti di merci. […] Le maschere teatrali economiche (die
ökonomischen Charaktermasken) delle persone sono soltanto le personificazioni di quei rapporti
economici come portatrici (Träger) dei quali esse si trovano l’una di fronte all’altra” (C, I, pp. 103
s., c.n. e trad. modificata).
Ho forzato il significato teatrale del termine Charaktermaske, la cui importanza all’interno del
Capitale non può essere sottovalutata (cfr. W.F. Haug, Charaktermaske, in Historisch-kritisches
Wörterbuch des Marxismus, a c. di W.F. Haug, Vol. 2. Berlin – Hamburg, Argument, 1995), e ho
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posto in corsivo “rappresentanti” per fare emergere più chiaramente come risuonino anche in questi
passi echi hobbesiani. Nel capitolo XVI del Leviatano (1651), Hobbes aveva infatti ricordato
l’originario significato teatrale del termine persona, centrale nella sua intera teoria della
rappresentanza e della sovranità, e l’aveva in particolare collegato alla maschera che traveste il
volto dell’attore sul palcoscenico. Anche in Hobbes il contratto – distinto dal “patto” da cui ha
origine il Leviatano – ha un ruolo essenziale nell’organizzare le relazioni sociali tra gli individui
“privati”. Queste relazioni diventano per lui relazioni tra individui proprietari con la nascita dello
Stato, e la sovranità (attraversata e strutturata da una specifica logica rappresentativa) costituisce
per così dire l’“a priori” di quelle stesse relazioni, nel senso che a rigore gli stessi soggetti tra cui si
determinano non sono possibili senza di essa. Nella prospettiva marxiana, questo stesso a priori si
sdoppia – e accanto alla sovranità dello Stato, in un equilibrio sempre instabile che si tratta di
indagare tanto storicamente quanto teoricamente, emerge la sovranità del denaro. Anche qui è in
questione un problema di rappresentanza: se nella merce è rappresentato, come sostanza del suo
valore, astratto lavoro umano, il valore della merce, affinché essa possa essere scambiata, deve
essere commisurato rispetto a un “equivalente generale” altrettanto astratto, capace appunto di
rappresentarlo. È stato in particolare Balibar a mostrare come – nel descrivere l’origine del denaro
come equivalente generale – Marx riformuli le logiche del contrattualismo moderno, ma come al
tempo stesso all’azione degli individui come possessori di merci si sostituiscano nel progredire
dell’analisi le forze “oggettive” che premono al di sotto della maschera delle persone (Balibar,
Citoyen sujet, cit., pp. 330-331). Costoro, scrive Marx, “possono riferire le loro merci come valori,
e quindi come merci, soltanto riferendole per opposizione, oggettivamente, a qualsiasi altra merce
quale equivalente generale”. L’emergere della convenzione dell’equivalente generale è un passaggio
essenziale per la generalizzazione dei rapporti di scambio, per uscire da una situazione in cui la
merce particolare può essere scambiata soltanto con un’altra merce particolare di cui il possessore
della prima ha bisogno – a condizione ovviamente che il possessore della seconda abbia a sua volta
bisogno della prima. Ma in teoria, come si è visto, “ogni altra merce” può svolgere la funzione di
equivalente generale: “soltanto l’azione sociale può fare d’una merce determinata l’equivalente
generale. Quindi l’azione sociale di tutte le merci esclude una merce determinata nella quale le altre
rappresentino universalmente i loro valori. Così la forma naturale di questa merce diventa forma di
equivalente socialmente valida. Mediante il processo sociale, l’esser equivalente generale diventa
funzione sociale specifica della merce esclusa. Così essa diventa – denaro” (C, I, pp. 105 s.).
Forma del valore, il denaro non si limita a mediare lo scambio (Marx parla a questo proposito di
“denaro come denaro”). Esso rende possibile anche la valorizzazione e l’accumulazione, la
trasformazione del valore in “valore in processo”: il denaro stesso diventa così “denaro in processo
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e, come tale, capitale” (C, I, p. 187). L’analisi della “formula generale del capitale” (D-M-D’, in cui
la somma di denaro originariamente anticipata per l’acquisto di una merce ritorna nella tasca del
capitalista con un incremento, un plusvalore, C, I, p. 182) conduce Marx a demistificare l’apparenza
di una “autovalorizzazione” del capitale (C, I, p. 186). Il capitale è un rapporto sociale nella misura
in cui l’incremento di valore, il “plusvalore” non si genera nella sfera della “circolazione” bensì in
quella della produzione, dove agisce il “lavoro vivo”. Anche il capitale del resto viene
scomponendosi nell’analisi marxiana: e il riferimento non è tanto qui ai capitali che operano in
diversi “settori” economici (capitale commerciale, capitale industriale, capitale finanziario) o ai
diversi “stadi” del processo ciclico del capitale (capitale monetario, capitale produttivo, capitale-
merce), bensì alla divisione dello stesso concetto di capitale. Quest’ultimo si scinde, nel processo di
valorizzazione, in una parte costante e una parte variabile, che corrisponde a quelli che, considerati
dal punto di vista del processo lavorativo, “si distinguono come fattori oggettivi e fattori soggettivi,
mezzi di produzione e forza lavoro” (C, I, p. 253). Qui dunque i “fattori soggettivi”, la forza lavoro,
sono rappresentati all’interno del capitale (come sua parte variabile nel senso che soltanto i fattori
soggettivi, soltanto il lavoro ha la capacità di produrre valore e dunque di determinare una
variazione incrementale del valore del capitale). La natura di rapporto sociale del capitale è qui al
tempo stesso espressa e mistificata, il “lavoro come soggettività” è come congelato e imbrigliato in
una oggettività contabile che è in realtà quella del dominio e dello sfruttamento.
La soggettività del capitalista, d’altro canto, agisce il dominio e lo sfruttamento, si costruisce a
partire da questi. Può accadere al capitalista di essere soddisfatto della vita che conduce. Ma sotto il
profilo concettuale la sua è una ben singolare soggettività: prima di tutto perché, come si è visto, si
costituisce come negativo di una vita non sua (della vita del “lavoro come soggettività”); ma anche
perché assai problematico è il problema della costruzione di una soggettività collettiva dei
capitalisti, di quello che Marx chiama il “capitale complessivo” (concetto di cui è opportuno
sottolineare la differenza rispetto a quello di “borghesia”). Ogni capitale, infatti, “deve essere
considerato come una frazione del capitale complessivo, e ogni capitalista non è in realtà che un
semplice azionista dell’impresa complessiva della società, che partecipa al profitto complessivo in
proporzione della sua quota di capitale” (C, III, p. 297). Il fatto è che le cose raramente funzionano
nel modo indicato da questo brano del terzo libro del Capitale, che sembra fissare in un modello
statico (non per questo meno rilevante per gli effetti che dispiega) la realtà del “capitale
complessivo”. In quanto movimento, il capitale non può essere infatti considerato come “cosa in
riposo”. I movimenti del capitale appaiono sì come “azioni del singolo capitalista”, scrive Marx nel
secondo libro: ma il movimento del valore tende ad autonomizzarsi dal capitale singolo, a porsi
come “astrazione in actu” che con l’allargarsi della scala di riproduzione del capitale si fissa come
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norma sociale indipendente dai singoli capitalisti. “Quanto più acute diventano le rivoluzioni di
valore, tanto più il movimento del capitale autonomizzato, operante con la violenza di un processo
elementare di natura, si fa valere contro la previsione e il calcolo del singolo capitalista, tanto più il
corso della produzione normale viene ad assoggettarsi alla speculazione anormale, tanto più grande
diviene il pericolo per l’esistenza dei capitali singoli” (C, II, p. 122).
7. Forza lavoro
“Il lavoro come lavoro astratto e quindi come forza-lavoro c’era già
in Hegel. La forza-lavoro – e non solo il lavoro – come merce c’era
già in Ricardo. La merce forza-lavoro come classe operaia: questa è
la scoperta di Marx. La duplice natura del lavoro è solo la premessa di
questo: non è la scoperta, ma solo la via per arrivarci. Dal lavoro non
si passa alla classe operaia, dalla forza-lavoro, sì”
(Mario Tronti, Operai e capitale [1966], Torino, Einaudi, 1971, p.
130).
Il concetto di forza lavoro (Arbeitskraft) figura marginalmente nei Grundrisse, mentre nel primo
libro del Capitale occupa una posizione strategica: su di esso (nonché sulla distinzione tra forza
lavoro e lavoro) si fonda l’intera teoria marxiana dello sfruttamento, nonché più in generale
l’immagine del soggetto operaio. Forza lavoro è certo concetto di una forza: ma di una forza che si
definisce in termini di “potenza” (il sintagma potrebbe tradursi anche come “facoltà di lavoro”, per
analogia con la Urteilskraft kantiana, “facoltà di giudizio”). “La forza lavoro”, ha scritto Paolo
Virno, “è pura potenza, ben distinta dagli atti corrispondenti” (P. Virno, Il ricordo del presente,
Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 121). Vediamone la definizione marxiana: “per forza lavoro o
capacità di lavoro (Arbeitsvermögen) intendiamo l’insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che
esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente di un uomo, e che egli mette in movimento
ogni volta che produce valori d’uso di qualsiasi genere” (C, I, pp. 201 s.). E ancora: “l’uso della
forza lavoro è il lavoro stesso. […] Attraverso tale processo [il ‘portatore’ di forza lavoro] diventa
actu quello che prima era solo potentia, forza lavoro in azione, lavoratore” (C, I, p. 215). V’è
intanto da osservare la prossimità, e al tempo stesso la differenza, tra il concetto di forza lavoro e
quello di lavoro astratto. Entrambi esprimono qualcosa di “generalmente umano”, ma la forza
lavoro vive come presupposto del processo di produzione, mentre il lavoro astratto, come misura
del dispendio della forza lavoro stessa, media e compone in unità processo lavorativo e processo di
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valorizzazione. E, una volta calcolato “il lavoro che è oggettivato in [un] prodotto” (C, I, p. 226), il
lavoro astratto si iscrive all’interno della sua forma di merce, la abita come spettro della sua
oggettività. Il punto è, tuttavia, che all’interno del modo di produzione capitalistico la forza lavoro è
essa stessa una merce (nel senso che tale modo di produzione si regge sull’esistenza di una classe di
individui costretti a rendere merce l’insieme delle proprie “attitudini fisiche e intellettuali” per poter
riprodurre le basi materiali della propria vita). Il lavoro astratto vive dunque anche nella forza
lavoro, come misura del suo valore, ovvero del salario che il capitalista paga al lavoratore
retribuendo il tempo di lavoro necessario a produrre la massa di valore consumando la quale il
lavoratore riproduce appunto le condizioni materiali della sua vita. Quello che caratterizza il modo
di produzione capitalistico, tuttavia, è che la giornata lavorativa non può esaurirsi in questo tempo:
al lavoro necessario si associa sempre un tempo di “pluslavoro”, in cui si produce una massa di
valore aggiuntivo (un plusvalore) di cui il capitalista si appropria senza corrispondere alcun
“equivalente”, sfruttando il lavoro.
Le pagine “dantesche” in cui Marx invita il suo lettore ad abbandonare il mondo degli scambi e
della circolazione, “questa sfera rumorosa che sta alla superficie ed è accessibile a tutti gli sguardi”,
per discendere nel “segreto laboratorio della produzione” e scoprire infine “non solo come produce
il capitale, ma anche come lo si produce, il capitale” (C, I, p. 212), sono tanto note quanto
straordinarie. Non le commenterò ulteriormente. Tratteniamoci piuttosto per un attimo sulla
“superificie”, dove il “possessore di denaro” incontra la “forza lavoro come merce” (C, I, p. 202). Il
verbo qui utilizzato è vorfinden, che indica un trovare davanti a sé, un incontrare qualcosa che viene
prima. E infatti Marx scrive che perché l’incontro tra le due dramatis personae (C, I, p. 213) del
rapporto di capitale sia possibile “debbono essere soddisfatte diverse condizioni” (C, I, p. 202).
Esse (le due figure soggettive di cui è qui in questione l’“incontro”) devono cioè essere prodotte: il
capitale nasce soltanto, come specifico rapporto sociale, dove il possessore di denaro (e dunque “di
mezzi di produzione e di sussistenza”) trova sul mercato il libero lavoratore come venditore della
sua forza lavoro e questa sola condizione storica comprende tutta una storia universale (eine
Weltgeschichte). Quindi il capitale annuncia fin da principio un’epoca del processo sociale di
produzione” (C, I, p. 205). Si vedrà nell’ultima parte di questo scritto come quest’epoca sia
cominciata attraverso l’immane violenza che caratterizza la “cosiddetta accumulazione originaria”,
in cui si producono appunto le “condizioni” dell’incontro tra possessore di denaro e possessore di
forza lavoro. Vale la pena intanto di segnalare un punto problematico nella costruzione teorica
marxiana: questo stesso incontro è descritto in una linea di perfetta continuità con gli scambi tra
privati possessori di merci che si sono visti in precedenza. Anche l’incontro tra possessore di denaro
e possessore di forza lavoro, cioè, è mediato dall’istituto giuridico del contratto (è questa la ragione
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dell’insistenza di Marx sul fatto che il possessore di forza lavoro si presenta come libero lavoratore
e non come servo o schiavo). Di più: da un contratto di compravendita (“compera e vendita della
forza lavoro” si intitola appunto la sezione del quarto capitolo del primo libro del Capitale da cui
sono tratte le ultime citazioni).
Ho mostrato altrove gli enormi problemi che tanto sotto il profilo storico quanto sotto il profilo
teorico questo aspetto della teoria marxiana pone: la “vendita” di forza lavoro presupporrebbe dal
secondo punto di vista una sua “alienazione” (in senso giuridico), impossibile nel caso della forza
lavoro se non a condizione di trasferire in proprietà altrui la “corporeità”, la “personalità vivente”
del lavoratore (che cesserebbe così di essere “libero”). Storicamente poi, una volta che sia
considerato nella scala mondiale che proprio Marx ha per primo evidenziato, il capitalismo
moderno è caratterizzato dalla continua riproduzione di forme di lavoro coatto che risulta davvero
arduo considerare come “anomalie” rispetto a una supposta norma del lavoro “libero”, salariato
(cfr. S. Mezzadra, How Many Histories of Labour? Towards a Theory of Postcolonial Capitalism,
in «Postcolonial Studies», XIV [2011], 2). Ribadisco qui che si tratta di liberare l’analisi
dell’“incontro” tra possessore di denaro e possessore di forza lavoro dall’immaginario giuridico che
ne plasma, attraverso l’istituto del contratto, la descrizione da parte di Marx. Una pluralità di
incontri e una pluralità di dispositivi di cattura (tanto in senso letterale quanto in senso metaforico)
della forza lavoro: non è forse quel che ci troviamo di fronte nel nostro stesso presente? Ma è il
caso ora di aggiungere qualcosa a proposito delle due figure di soggettività, il possessore di forza
lavoro e il possessore di denaro, la cui esistenza “comprende tutta una storia universale” (e si capirà
ora l’importanza del termine usato da Marx, Weltgeschichte: è una storia davvero mondiale quella
qui in questione). Il termine essenziale di confronto, per comprendere la radicalità dello scarto
prodotto da Marx con un’intera tradizione di pensiero, è indubbiamente John Locke, la cui teoria
della “proprietà di sé” resta fino a oggi uno dei capisaldi del liberalismo – e in particolare del modo
in cui esso immagina e costruisce il suo soggetto. Marx al tempo stesso accetta questo terreno e
opera su di esso un radicale spiazzamento: denaro e forza lavoro non sono soltanto categorie
economiche, sono anche categorie per così dire antropologiche (si riferiscono cioè al piano che la
filosofia europea ha definito della “natura umana”). E indicano in particolare le due modalità
essenziali attraverso cui l’individuo può essere costruito (prodotto) come proprietario di sé. Il
campo della soggettività moderna appare così, attraverso l’analisi di Marx, irrimediabilmente
soltanto (una volta di più) da una scissione. Alla potenza (forza lavoro) si oppone il potere (denaro).
Che la forza lavoro sia “potenza” lo si è visto. Che il denaro sia “potere” Marx lo afferma con
altrettanta nettezza in un passo dei Grundrisse che vale la pena citare per esteso: “la mutua e
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generale dipendenza degli individui reciprocamente indifferenti costituisce il loro nesso sociale.
Quest’ultimo è espresso nel valore di scambio, e solo in esso, per ogni individuo, la propria attività
o il proprio prodotto diventano un’attività o un’attività fine a se stessi; egli deve produrre un
prodotto generico – il valore di scambio o – considerato questo per sé isolatamente o e
individualizzato – denaro. D’altra parte il potere che ogni individuo esercita sull’attività degli altri o
sulle ricchezze sociali, egli lo possiede in quanto proprietario [Eigner] di valori di scambio, di
denaro. Il suo potere sociale, così come il suo nesso con la società, egli lo porta in tasca” (G, I, p.
97). Si vede bene, mi pare, come siano qui riepilogati una serie di temi su cui siamo venuti
ragionando nelle pagine precedenti (a partire dal rapporto tra isolamento e socialità). E si potrebbe a
lungo indugiare sulla categoria di “potere sociale” presentata da Marx in questo passo (cfr. in
merito M. Ricciardi, La società come ordine. Storia e teoria politica dei concetti sociali, Macerata,
eum, 2010). Cospicue sono del resto anche qui le tracce dei “classici” della filosofia politica
moderna, in particolare della definizione più generale, “antropologica” appunto, di potere offerta da
Hobbes nel capitolo X del Leviatano come l’insieme dei “mezzi che [un uomo] ha al presente per
ottenere qualche apparente bene futuro”. Questo dominio sul tempo che il denaro attribuisce a chi lo
possiede struttura l’“incontro” con il possessore di forza lavoro, distende sul “futuro” di
quest’ultimo l’ombra del potere del primo, in procinto di trasformarsi (lo si vedrà tra poco) in
comando. Ma più in generale fonda un rapporto di proprietà con il “sé” – e dunque un modo di
abitare il mondo – radicalmente diverso rispetto a quello che caratterizza il possessore di forza
lavoro, continuamente rinviato all’insieme delle sue “attitudini fisiche e intellettuali” per costruire e
riprodurre la propria soggettività, la propria vita. Ancora una radicale asimmetria, dunque. Ma non
meno netta appare da questo punto di vista quella che si è in precedenza definita l’eccedenza
costitutiva del lavoro nel rapporto di capitale. Il lavoro è l’unico fattore produttivo di nuovo valore
proprio perché la soggettività del singolo portatore di forza lavoro affonda le proprie radici in ciò
che gli uomini hanno in comune, in ciò che Marx, come si è visto, definisce un’“unica e identica
forza lavoro umana” (C, I, p., 48).
Anche se non mi pare di trovare riscontri testuali della differenza da lui postulata tra Arbeitskraft e
Arbeitsvermögen (né del resto dell’uso da parte di Marx del termine Vermögenskraft), Pierre
Macherey ha colto in modo molto preciso lo scarto che il concetto marxiano di forza lavoro, con
l’enfasi posta sulla sua natura potenziale, determina rispetto alla teoria ricardiana, nei cui confronti
Marx è per altri versi debitore: non essendo una “forza in atto” a venire mercificata, ma “una forza
in potenza, tale che essa ‘non è ancora’”, la forza lavoro si presenta come “portatrice di virtualità su
cui possono essere esercitati una pressione e un controllo che vanno nel senso della loro
intensificazione”. È la “plasticità”, la “flessibilità” della forza lavoro ciò che consente
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l’“intensificazione” di cui parla Macherey, che è anche immediatamente una forzatura dei confini
dell’individualità del singolo lavoratore, dei “limiti della sua propria esistenza” – una
trasformazione del singolo portatore di forza lavoro in un componente del “lavoro sociale”
(Macherey, Le sujet productif, cit.). Il lavoro sfruttato dal capitale è infatti sempre lavoro
combinato, da cui si sprigiona (moltiplicato dall’“aumento di rendimento individuale dei singoli”
che si genera per via del “semplice contatto sociale”) un differenziale di forza (forza produttiva,
“forza di massa”, dell’“operaio combinato o operaio complessivo”). “La somma meccanica delle
forze dei lavoratori singoli”, scrive Marx, “è sostanzialmente differente dal potenziale sociale di
forza che si sviluppa quando molte braccia cooperano contemporaneamente a una stessa
operazione indivisa” (C, I, p. 398). È la potenza sociale della cooperazione, che Marx descrive in
riferimento alla “grande industria” del suo tempo in termini in cui non è difficile vedere ancora una
volta “spettri hobbesiani”. Lo stesso “rapporto tra l’operaio e la sua associazione e cooperazione
con altri operai è un rapporto di estraneità, un rapporto con modi di operare del capitale”, si legge
nei Grundrisse (G, II, p. 242). Certo, Marx afferma esplicitamente che “nella cooperazione
pianificata con altri l’operaio si spoglia dei suoi limiti individuali e sviluppa la facoltà della sua
specie” (C, I, p. 402). Ma “la connessione delle loro funzioni e la loro unità come corpo produttivo
complessivo stanno al di fuori degli operai salariati, nel capitale che li riunisce e li tiene insieme.
Quindi agli operai salariati la connessione tra i loro lavori si contrappone, idealmente come piano,
praticamente come autorità del capitalista, come potenza di una volontà estranea che assoggetta al
proprio fine la loro attività” (C, I, p. 405).
Prende avvio da qui il ragionamento marxiano sul “dispotismo” del capitale, nonché su una
specifica tecnologia di potere disciplinare, quel comando (Kommando) che Marx definisce per
analogia con l’organizzazione di un esercito e che, mano a mano che si intensifica la cooperazione
diviene “condizione reale della produzione” (C, I, p. 404), assumendo di fronte ai lavoratori il
carattere “oggettivo” di una potenza estranea: entro questo processo, “il capitale stesso si presenta
come loro soggetto” (G, II, p. 241), nel senso che pretende di rappresentare e dominare l’intero
collettivo operaio, opponendo la soggettività di quest’ultimo all’individualità dei singoli lavoratori.
Sono pagine, queste di Marx, di straordinaria importanza per lo studio dell’organizzazione del
lavoro e delle tecnologie di potere che la innervano. Fondamentale, in ogni caso, è sottolineare che
la “pretesa” del capitale si scontra continuamente e necessariamente con la resistenza operaia, in cui
Marx stesso indica uno dei motori dell’intero processo: “con la massa degli operai simultaneamente
impiegati cresce la loro resistenza, e quindi necessariamente la pressione del capitale per superare
tale resistenza. La direzione del capitalista non è soltanto una funzione particolare derivante dalla
natura del processo lavorativo sociale e a tale processo pertinente: ma è insieme funzione di
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sfruttamento di un processo lavorativo sociale, ed è quindi un portato dell’inevitabile antagonismo
tra lo sfruttatore e la materia prima da lui sfruttata” (C, I, pp. 404 s.). La cooperazione comandata
dal capitale si trova di fronte una cooperazione antagonistica, in cui le “facoltà della specie” sono
sviluppate dai singoli operai in diverse figure di soggettività collettiva, in una diversa
interpretazione del “rapporto di estraneità”. Sotto la spinta di queste lotte il rapporto di capitale si
modifica profondamente nella storia, cambia il lavoro ma cambiano anche le sue “condizioni
oggettive” appropriate e rappresentate dal capitale. Quantum mutatus ab illo, scrive Marx con
qualche ironia concludendo un capitolo del primo libro del Capitale (“La giornata lavorativa”)
metodologicamente essenziale da questo punto di vista (C, I, p. 367). La cooperazione può
assumere caratteri di autonomia mano a mano che la produzione rompe le mura della fabbrica e si
distende nell’intera società, gli stessi mezzi di lavoro possono essere in parte incorporati nel
cervello sociale, perdendo la “fissità” che caratterizza il sistema delle macchine analizzato da Marx
(cfr. C, II, p. 189). Il “profitto” può certo allora, come ha sostenuto in particolare Carlo Vercellone
in riferimento alla situazione contemporanea (cfr. da ultimo C. Vercellone, La legge del valore nel
passaggio dal capitalismo industriale al nuovo capitalismo [2012],
http://uninomade.org/vercellone-legge-valore/), “divenire rendita”; il capitale può cioè sviluppare il
potere di “appropriarsi (aneignen)” e “impadronirsi (abfangen)” di “valori creati senza il suo
intervento”, che Marx indicava come caratteristica essenziale proprio della rendita fondiaria (C, III,
p. 869). Ma l’insieme dei problemi che si sono visti (il rapporto di “assoggettamento” dei singoli
lavoratori a una “volontà estranea”, la separatezza del criterio che regola la produzione e
riproduzione della loro unità collettiva) non può che riprodursi finché esiste il capitalismo,
dividendo e lacerando in ultima istanza la stessa soggettività del singolo.
Il processo di socializzazione del (rapporto di) capitale è tra l’altro descritto da Marx, in particolare
nei Grundrisse e nel cosiddetto capitolo VI inedito del Capitale, come un processo di sussunzione
(o sottomissione, come viene talvolta tradotto in italiano il termine Subsumption) del lavoro. Non è
questa la sede per tornare sul tema e sul significato della “sussunzione” (cfr. A. Negri, Spunti di
“critica preveggente” nel Capitolo VI inedito di Marx [2012], http://uninomade.org/critica-
preveggente-capitolo-sesto/). Basterà ricordare che la distinzione marxiana tra sussunzione
“formale” e sussunzione “reale” corrisponde alla distinzione tra le due forme di plusvalore
identificate da Marx: il plusvalore assoluto, ottenuto “prolungando il tempo di lavoro” nelle
condizioni della “sussunzione formale” (C, I, p. 1240), e il plusvalore relativo, ottenuto
modificando il rapporto tra tempo di lavoro necessario e pluslavoro, ovvero riducendo il primo e
ottenendo una estensione (appunto relativa) del secondo attraverso l’intervento delle macchine e il
potenziamento della cooperazione lavorativa (“sussunzione reale”, cfr. C, I, pp. 1255 s.). La
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socializzazione del capitale è certo descrivibile nei termini di un avanzamento della “sussunzione
reale”, ma la “sussunzione formale” – in quanto “forma generale di qualunque processo di
produzione capitalistico” (C, I, p. 1237) – si riproduce essa stessa continuamente su scala allargata,
così come il plusvalore relativo si combina con il plusvalore assoluto. Ne abbiamo avuto
un’evidenza empirica negli ultimi anni, caratterizzati a livello globale da una parte da una
“rivoluzione completa (che prosegue e si ripete costantemente) nel modo stesso di produzione, nella
produttività del lavoro e nel rapporto fra capitalisti e operai” (C, I, p. 1256) e dall’altra da un
allungamento della giornata lavorativa sociale che ha invertito una tendenza secolare, costruita
materialmente entro violente lotte di classe, alla sua riduzione. In ogni caso, la categoria di
“sussunzione reale” offre una chiave di lettura particolarmente efficace dell’intensità dello sviluppo
capitalistico (che sotto il profilo dell’“estensione”, come si è già detto e meglio si vedrà in seguito
ha come proprio orizzonte il “mercato mondiale”). La “produzione di plusvalore relativo”, infatti,
investe immediatamente la sfera dei consumi e dei bisogni, “esige la produzione di nuovi consumi”
attraverso un “ampliamento quantitativo del consumo esistente” ma soprattutto attraverso “la
produzione di bisogni nuovi e la scoperta e la creazione di nuovi valori d’uso”. Il lavoro stesso è
trasformato in questo processo, la “sfera delle differenze qualitative” che lo caratterizzano è
“costantemente ampliata, resa più varia e internamente differenziata” (G, II, pp. 9 s.). In una pagina
dei Manoscritti del 1844, Marx aveva scritto che con la soppressione “positiva” della proprietà
privata “l’uomo si appropria del suo essere onnilaterale in maniera onnilaterale, e quindi come
uomo totale”: ne sarebbe seguita la “completa emancipazione di tutti i sensi e di tutti gli attributi
umani” (MEF, pp. 116 s.). Se questo è il comunismo, i Grundrisse ci parlano del comunismo del
capitale: “la coltivazione di tutte le qualità dell’uomo sociale e la sua produzione come uomo per
quanto è possibile ricco di bisogni perché ricco di qualità e di relazioni; ossia la sua produzione
come prodotto per quanto è possibile totale e universale della società […]: tutto ciò è anch’esso una
condizione della produzione basata sul capitale” (G, pp. 10 s.). Produzione dell’uomo, produzione
di soggettività: è questo il terreno su cui insistono in ultima istanza gli antagonismi che segnano il
modo di produzione capitalistico.
8. (Lotta di) classe
“I lavoratori bianchi, mentre ricevevano un basso salario, erano in
parte compensati da una sorta di salario pubblico e psicologico.
Venivano loro riservati deferenza e titoli di cortesia proprio perché
erano bianchi, erano liberamente ammessi, con i bianchi di tutte le
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classi, alle funzioni pubbliche, ai parchi pubblici, alle migliori scuole.
La polizia era reclutata tra le loro fila, e i tribunali, che dipendevano
dai loro voti, li trattavano con tale indulgenza da incoraggiarli quasi
all’illegalità”
(W.E.B. Du Bois, Black Reconstruction in America 1860-1880
[1935], New York, The Free Press, 1998, p. 700).
Questi antagonismi sono per Marx antagonismi di classe. Ma che cos’è una “classe”? Le fonti
dell’uso marxiano di questo concetto sono state ampiamente studiate (da ultimi, cfr. Dardot – Laval,
Marx, prénom: Karl, cit., pp. 227 ss.), e in fondo – sulla base di quanto si è detto al punto
precedente su forza lavoro e denaro – sembrerebbe semplice definirlo. Assunta la scissione del
campo della soggettività attorno ai due “poli” indicati, gli individui che costruiscono la propria vita
attorno al possesso di “forza lavoro” formerebbero la classe contrapposta a quella degli individui
per cui decisivo è il possesso di “denaro”. Ma questa definizione delle “due grandi classe
contrapposte l’una all’altra” nella società capitalistica, per riprendere la definizione che si è
incontrata nel Manifesto, ha tutt’al più valore “logico”. Nulla dice sulla produzione di un soggetto
collettivo capace di azione in quanto tale (e si è visto quanto problematica sia da una parte la
relazione tra i singoli capitalisti e il “capitale complessivo”, dall’altra quella tra i singoli operai e
l’“operaio complessivo”). I due campi che abbiamo “logicamente” distinto sono del resto
internamente “stratificati”, per via di una molteplicità di condizioni che intervengono a mediare e
differenziare il rapporto che gli individui intrattengono da una parte con il denaro e dall’altra con la
forza lavoro. Non è qui solamente in questione la moltiplicazione delle classi sotto il profilo
dell’analisi sociologica (si pensi ai dibattiti sulla “classe media” che prendono avvio già nel primo
Novecento). Fattori come il genere e la razza dividono originariamente il campo della classe,
introducendovi essenziali differenziali di potere e dispositivi di gerarchizzazione. Originariamente,
ho scritto: nel senso che strutturano quello che si è appena definito il rapporto che gli individui
intrattengono con il denaro e la forza lavoro. Le contraddizioni che attorno a genere e razza si
determinano non possono dunque essere considerate “secondarie” rispetto a una contraddizione di
classe qualificata come “fondamentale”. Un secolo di lotte e di sviluppi teorici su questi terreni
dovrebbe ormai avercelo insegnato. Lungi dal poter trovare una soluzione “semplice”, quello della
definizione del concetto di classe resta dunque un problema aperto, e come tale ce lo consegna
l’insieme della riflessione marxiana. È noto che il cinquantaduesimo capitolo del terzo libro del
Capitale, intitolato “Le classi”, è rimasto poco più che un abbozzo. Marx si limita qui a impostare il
problema e a presentare una ipotesi di soluzione altrettanto “semplice” di quella da cui siamo qui
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partiti: l’ipotesi che all’origine delle classi (qui indicate nel numero di tre, per l’inserimento di
quella dei “proprietari fondiari”) vi sia cioè “l’identità dei loro redditi e delle loro fonti di reddito”.
Ma questa ipotesi è subito scartata, con le ultime righe scritte prima dell’interruzione del
manoscritto: “tuttavia, da questo punto di vista, anche i medici, ad es., e gli impiegati verrebbero a
costituire due classi, poiché essi appartengono a due distinti gruppi sociali, e i redditi di ognuno di
questi gruppi affluiscono da una stessa fonte. Lo stesso varrebbe per l’infinito frazionamento di
interessi e di posizioni, creato dalla divisione sociale del lavoro fra gli operai, i capitalisti e i
proprietari fondiari. Questi ultimi, ad es., divisi in possessori di vigneti, possessori di terreni arativi,
di foreste, di miniere, di riserve di pesca” (C, III, p. 1188).
Che cosa possiamo derivare da questo momento di vera e propria vertigine concettuale di fronte allo
scomporsi dell’oggetto classe per via dell’infinito “frazionamento di interessi e di posizioni”?
Quantomeno un’indicazione in negativo: la “classe”, per Marx, non è riducibile a concetto
“sociologico”, si costituisce in eccedenza rispetto a una semplice “cartografia” della stratificazione
sociale (cfr. S. Aronowitz, How Class Works: Power and Social Movement, Yale, Yale University
Press, 2003). Una volta posta in questi termini la questione, tuttavia, si è semplicemente qualificato
il “problema” posto dalla classe, non se ne è certo approssimata la “soluzione”. D’altro canto quella
di classe è anche, evidentemente, “una categoria sociologica”, oltre che allo stesso tempo “un
concetto politico, una congiuntura storica, una parola d’ordine militante”: il punto è, tuttavia, che
come ha scritto di recente Frederic Jameson “una definizione nei termini di una sola di queste
prospettive non potrà che risultare insoddisfacente” (F. Jameson, Representing Capital. A Reading
of Volume One, London, Verso, 2011, p. 7). Tutti questi usi (e pure qualcun altro) sono ampiamente
documentabili nei testi di Marx, con il risultato che la classe sembra definire una costellazione
concettuale al cui interno rientrano valenze e stratificazioni di significato che è davvero difficile
(anzi: è sbagliato) tentare di ricondurre a unità. In termini generali, tuttavia, è il caso di sottolineare
che la violenta oscillazione che si è riscontrata a proposito della storia si riproduce anche negli usi
più significativi da parte di Marx del concetto di classe: quest’ultimo appare anch’esso diviso tra
l’azione degli uomini e le “circostanze”, tra una connotazione soggettiva (inseparabile dalla “lotta
di classe”) e una connotazione oggettiva, “strutturale”. Un brano dell’Ideologia tedesca è a questo
riguardo esemplare: “i singoli individui”, leggiamo, “formano una classe solo in quanto debbono
condurre una lotta comune contro un’altra classe; per il resto essi si trovano l’uno di fronte all’altro
come nemici, nella concorrenza. D’altra parte la classe acquista a sua volta autonomia di contro agli
individui, cosicché questi trovano predestinate le loro condizioni di vita, hanno assegnata dalla
classe la loro posizione nella vita e con essa il loro sviluppo personale, e sono sussunti sotto di essa”
(IT, p. 63). In un altro scritto dello stesso periodo, Miseria della filosofia (1847), Marx sviluppa
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ulteriormente i termini di questa “divisione” del concetto di classe, scrivendo che “la dominazione
del capitale ha creato a questa massa [di lavoratori] una situazione comune, interessi comuni. Così
questa massa è già una classe nei confronti del capitale, ma non ancora per se stessa. Nella lotta
[…] questa massa si riunisce, si costituisce in classe per se stessa. Gli interessi che essa difende
diventano interessi di classe. Ma la lotta di classe contro classe è lotta politica” (MF, p. 120).
Per quanto non sia stata successivamente ripresa da Marx, la distinzione qui accennata tra “classe in
sé” e “classe per sé” è stata straordinariamente influente all’interno del marxismo proprio perché è
parsa dare plastica espressione all’oscillazione tra dimensione soggettiva e dimensione oggettiva
che si è in precedenza richiamata. Ha del resto anche aperto lo spazio concettuale per l’elaborazione
del concetto di “coscienza di classe”, di cui invano si cercherebbe una fondazione teorica in Marx
ma che tuttavia ha giocato un ruolo essenziale nei molteplici tentativi di colmare lo “scarto” tra le
due dimensioni indicate. Intrecciandosi con il dibattito sul partito e con quello sull’ideologia, lo
sviluppo delle controversie attorno alla “coscienza di classe” costituisce un capitolo fondamentale
della storia del marxismo e dei movimenti che a esso si sono richiamati. È difficile oggi proporne
un bilancio positivo: l’obiettivo di dissipare le nebbie delle rappresentazioni ideologiche di cui sono
prigionieri i singoli membri della classe operaia, rendendo “trasparente” il loro rapporto con la
“verità” dei rapporti sociali di produzione e aprendo il processo di formazione della “classe per sé”,
appare troppo pesantemente gravato da intenti pedagogici e da un’eredità illuministica che per mille
ragioni non ci appare riproponibile. L’azione del partito, inteso come portatore di una coscienza
rivoluzionaria esterna alla classe operaia, era certo stata pensata originariamente (da Lenin, in primo
luogo) in un rapporto dialettico che doveva esaltare la spontaneità operaia, ma si è troppo spesso
fissata in un ulteriore “rapporto di estraneità” (per richiamare i Grundrisse) con i singoli operai. E
l’espressione della “spontaneità”, dell’autonomia di classe, si è continuamente determinata – dopo
Marx – in forme e secondo una temporalità che sembrano contraddire il carattere lineare e
progressivo della maturazione di una “coscienza” – per strappi e cesure successive. È bene dunque
accantonare, almeno in via di ipotesi di lavoro, il concetto di “coscienza di classe”, e in generale –
coerentemente con il dibattito contemporaneo a cui si è accennato al punto 2 – la filosofia della
“coscienza” come terreno privilegiato su cui svolgere il tema della “produzione di soggettività”.
Indicazioni preziose potranno semmai venire dalle ricerche di coloro che, come E.P. Thompson e il
movimento della history from below, hanno insistito sulla necessità di analizzare i complessi
processi del farsi (making) della classe, o dal grande lavoro svolto attorno alla nozione di
“composizione di classe” all’interno dell’operaismo italiano. In forme diverse (e ciascuna
scontando specifici limiti), queste due correnti teoriche hanno dato un contributo essenziale alla
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“dinamizzazione” del concetto di classe, allargandone i contorni senza scioglierne il carattere
politico.
“La dominazione del capitale”, abbiamo letto nella Miseria della filosofia, “ha creato a questa
massa [di lavoratori] una situazione comune”, ponendo le basi per la costituzione, nella lotta, della
“classe per sé” come soggetto politico. Indipendentemente dal lessico hegeliano utilizzato in questo
passo (“in sé”, “per sé”), troviamo qui formulata un’idea spesso ripresa da Marx negli anni
successivi, quella cioè secondo cui il capitale prepara le condizioni per l’insorgere della lotta
operaia: come afferma icasticamente il Manifesto, “la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi
che le porteranno la morte; ha anche generato gli uomini che impugneranno queste armi: gli operai
moderni, i proletari” (108). I due termini qui utilizzati come sinonimi, come diversi nomi dello
stesso soggetto, si separeranno successivamente, e nel Capitale saranno gli “operai” a occupare
interamente la scena, mentre i “proletari” – come si vedrà al prossimo punto – risulteranno
sostanzialmente assenti. Resterà tuttavia ferma in Marx l’idea secondo cui il modo di produzione
capitalistico, per le sue stesse modalità materiali di funzionamento, è caratterizzato da una tendenza
a intensificare la cooperazione produttiva e a spogliare di ogni “differenza” il lavoro, rendendolo
astratto e omogeneo. Su queste basi diventa possibile (quando non necessario) il rovesciamento del
rapporto stesso di capitale, attraverso l’azione di una classe operaia disciplinata e unificata dallo
stesso comando capitalistico. Sono molti i passi marxiani che potrebbero essere convocati a
sostegno di questa lettura del rapporto tra sviluppo capitalistico e formazione della classe operaia
(mentre va detto che altri passi, a cominciare da quelli sulla cooperazione che si sono visti in
precedenza, sembrano smentire ogni ipotesi di semplice e lineare “rovesciamento” del rapporto di
capitale). Siamo qui di fronte a un’ipotesi che ha spesso trovato conferma in passaggi storici
determinati (per fare solo due esempi: dalle grandi lotte operaie degli anni Trenta negli USA a
quelle degli anni Sessanta in Italia), ma che – occorre riconoscerlo – non funziona in quanto teoria
generale. Si deve anzi qui rinvenire l’origine di un secondo problema (dopo quello a cui si è alluso
attraverso il riferimento alla “coscienza”) inerente al concetto di classe nel marxismo: assunto come
concetto di una omogeneità, esso ha spesso chiuso lo spazio della soggettivazione ritagliandolo
sull’immagine rovesciata della rappresentazione dell’unità del lavoro operata dal capitale (e spesso
“adottata” dal partito quando non dallo Stato operaio). Ne sono derivati enormi problemi e conflitti,
a cui allude il riferimento che si è fatto all’inizio di questo punto a genere e razza (ma si dovrebbero
qui richiamare le controversie relative al concetto di “lavoro produttivo” nonché il protagonismo e
le lotte, tanto al di fuori quanto all’interno dell’Occidente, di soggetti non riconducibili
all’immagine tradizionale di quest’ultimo).
41
D’altro canto, restando all’interno di uno schema “lineare” come quello appena presentato, è
difficile evitare il problema che Lenin, genialmente, affrontò nel 1902 sotto le rubriche di
“economicismo” e “tradeunionismo”, intendendo con queste formule una politica essenzialmente
sindacale, che si riferisce “unicamente ai rapporti tra gli operai di una data categoria e i loro
padroni e non [ha] altro risultato che d’insegnare ai venditori di forza lavoro come vendere più
vantaggiosamente questa ‘merce’ e come lottare contro l’acquirente sul piano puramente
commerciale” (V.I. Lenin, Che fare? [1902], trad. it. in Id., Opere scelte, cit., vol. I, p. 288). Nelle
condizioni dell’offensiva operaia degli anni Sessanta, in Italia così come in altri Paesi occidentali,
affermare il carattere direttamente politico della lotta sul salario ha avuto un effetto dirompente, da
non dimenticare. Possono certo verificarsi anche oggi situazioni in cui quell’affermazione trova
importanti verifiche. Ma di nuovo: ricavarne una “teoria generale” sarebbe errato. Negli ultimi anni,
muovendoci sul terreno del precariato sociale, abbiamo piuttosto continuamente assistito al
riproporsi del “tradeunionismo”, alla ricerca di forme associative che, per citare una pagina di Marx
sui sindacati, cercassero di stabilire un “piano di parità” nella negoziazione del “valore” della forza
lavoro, agendo come “società di assicurazione” (C, I, pp. 1335 s.). Non si tratta certo di
stigmatizzare questa ricerca, ma non si può neppure negare che essa abbia nutrito (e continui a
nutrire) tendenze “corporative” che militano contro una politica di classe del lavoro vivo
contemporaneo. D’altro canto, questa politica non può che formarsi dentro e contro il rapporto di
capitale, non può dunque che investire una serie di determinazioni che si presentano come
“economiche”. Nell’ottavo capitolo del primo libro del Capitale, Marx ha analizzato le più rilevanti
“riforme” strappate dalla lotta operaia nel corso dell’Ottocento: la legislazione di fabbrica e la
limitazione della giornata lavorativa. Sono tra le pagine più intensamente “politiche” dell’intera
opera, in cui Marx mostra come gli operai siano riusciti a “ottenere a viva forza, come classe, una
legge dello Stato, una barriera sociale potentissima, che impedisca a loro stessi di vender sé e la
loro schiatta alla morte e alla schiavitù, per mezzo di un volontario contratto con il capitale” (C, I,
p. 367). Lo Stato si mostra qui percorso dalla lotta operaia, che vi inscrive una propria essenziale
conquista e lo piega ai propri bisogni. Ma al tempo stesso Marx mostra in questo capitolo una
trasformazione essenziale della stessa classe operaia determinata non dall’azione del capitale, ma
dalla lotta. Precisiamo: da una lotta che si sviluppa attorno all’“antinomia” fondamentale che
costituisce il rapporto di capitale – e che dunque investe quest’ultimo nella sua interezza. Nella lotta
attorno alla giornata lavorativa, scrive Marx, il possessore di denaro e il possessore di forza lavoro
si fronteggiano dotati di uguali diritti: e “fra diritti eguali decide la forza. Così nella storia della
produzione capitalistica la regolazione della giornata lavorativa si presenta come lotta per i limiti
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della giornata lavorativa – lotta fra il capitalista collettivo, cioè la classe dei capitalisti, e l’operaio
collettivo, cioè la classe operaia” (C, I, p. 284).
9. “La forma politica finalmente scoperta”
“La democrazia in una situazione rivoluzionaria, la democrazia sotto
la pressione di un proletariato rivoluzionario armato, la democrazia
che nel processo rivoluzionario si trasforma da strumento
dell’egemonia di classe della borghesia in strumento del proletariato
per sconfiggere e neutralizzare la borghesia, per spezzare con la
violenza la sua resistenza, per confiscare la sua proprietà, per
distruggere il suo ordine sociale: ecco qual era l’idea della dittatura
del proletariato per il socialismo più antico”
(Otto Bauer, Tra due guerre mondiali? La crisi dell'economia
mondiale, della democrazia e del socialismo [1936], trad. it. Torino,
Einaudi, 1979, p. 134).
In particolare se la leggiamo dal punto di vista della problematica della produzione di soggettività,
la critica marxiana dell’economia politica determina una serie di dislocazioni del politico, che
abbiamo ad esempio analizzato a proposito della forma merce, della cooperazione e del “comando”
all’interno della fabbrica. Categorie politiche essenziali, relative alla natura del potere così come al
rapporto tra dimensioni individuali e dimensioni collettive dell’esperienza e dell’azione, sono state
da Marx strappate al riferimento privilegiato allo Stato, private di autonomia e purezza e
felicemente “contaminate” attraverso l’immersione nel mondo “profano” dell’economia e della
società. Il concetto di sfruttamento, colto nella sua differenza specifica rispetto al piano su cui si
svolge tanto la storia dello Stato moderno quanto quella dei diritti, indica nel suo insieme la
radicalità di queste dislocazioni. La critica giovanile dell’emancipazione politica trova qui un
maturo svolgimento. Se ne possono ora ricapitolare i termini essenziali (pur ricordando che nelle
pagine del Capitale non si trovano riferimenti espliciti all’“emancipazione”). Le teorie
dell’emancipazione non fanno i conti con il problema assolutamente materiale dell’articolazione tra
gli effetti di dominazione e di produzione di soggettività che fanno capo all’azione dello Stato con
quelli che fanno capo all’azione del capitale. Pongo l’accento sull’“articolazione” per sottolineare
che in gioco non è qui semplicemente la contrapposizione tra una dimensione “materiale” e una
dimensione “formale”. Dal punto di vista della critica marxiana, la politica moderna si costituisce in
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una strutturale eteronomia, nel senso che appare originariamente stretta in un rapporto di co-
implicazione con il capitale che la apre in direzione dell’economia e della società. Non è un
rapporto di identità o di mera funzionalità, ma è un rapporto originario, nel senso che non v’è nella
modernità concetto o istituto politico che non sia costretto a misurarsi con esso. Lo svolgimento
della critica dell’economia politica, del resto, riqualifica quello che si è in precedenza ridefinito il
rompicapo della liberazione. Sono gli antagonismi costituitivi del modo di produzione capitalistico
a determinare la scena in cui questo rompicapo ora si presenta. E sono quegli stessi antagonismi a
guidare la ricerca e la fondazione del soggetto di una politica della liberazione. Se in Marx la
politica (ricordiamolo: messa in “dissolvenza” negli anni giovanili) conosce un momento di
autonomia in senso forte, è di questa politica che si parla. Di una politica che si definisce a fronte di
un problema enunciato da Marx con parole tanto semplici quanto impegnative: “la liberazione
(Befreiung) della classe operaia deve essere opera della classe operaia stessa” (MEW, XIX, p. 165).
Una volta “contaminata” la politica con l’economia e la società, del resto, i movimenti e le lotte di
questo soggetto – della classe operaia – si collocano in un contesto in cui “tradeunionismo” ed
“economicismo”, come si è detto, sono tendenze in qualche modo oggettivamente presenti. E in cui
si pone comunque il problema di distinguere e articolare “lotta economica” e “lotta politica”. Ma al
tempo stesso, una volta “politicizzato” l’economico, questa distinzione non potrà certo assumere
come riferimento l’esistenza di “ambiti” separati e autonomi. Abbiamo appena visto, con l’esempio
della lotta sulla giornata lavorativa, come uno scontro su temi “economici” si carichi di valenze
profondamente politiche nel senso che finisce per investire lo stesso rapporto di capitale e la sua
giuntura con la forma Stato. Di più: quella lotta trasforma le stesse figure soggettive del rapporto di
capitale (quantum mutatus ab illo, come si è ricordato più sopra, è il motto virgiliano con cui si
conclude il capitolo di Marx sulla giornata lavorativa). Essa entra cioè a far parte di quell’altra
storia di cui si è parlato a proposito del ’48 proprio in quanto è contraddistinta da una specifica
produzione di soggettività. Modificando la soggettività operaia (quella che l’operaismo italiano ha
definito la composizione politica di classe), una lotta vittoriosa come quella per la regolazione della
giornata lavorativa contribuisce a trasformare materialmente le condizioni della lotta di classe,
spostandola su un terreno tendenzialmente più favorevole per gli sfruttati. Al tempo stesso costringe
il capitale a collocarsi su questo terreno, a produrre cambiamenti nella sua “composizione organica”
(il rapporto tra capitale costante e variabile, nonché “fra la massa dei mezzi di produzione usati da
una parte e della quantità di lavoro necessaria per il loro uso dall’altra”, C, I, p. 753): a innovare
cioè le basi tecniche e organizzative della produzione, con conseguenze di fondamentale importanza
per la “composizione tecnica” di classe (per continuare a utilizzare il lessico operaista). Il soggetto
della politica della liberazione cambia nella storia, al ritmo di questi processi, ed è fondamentale
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porre in evidenza il fatto che essi (così come lo sviluppo capitalistico nel suo complesso), lungi
dall’essere riducibili a una razionalità tecnica o meramente “economica”, sono attraversati e segnati
da momenti politici (da lotte) che ne scandiscono il ritmo e ne condizionano la direzione. Nel
Capitale abbiamo altri esempi di lotte di questo genere, ad esempio a proposito della storia della
“legislazione di fabbrica” inglese. Proprio parlando della limitazione della giornata lavorativa,
nell’Indirizzo inaugurale dell’Associazione internazionale degli operai (1864), Marx arriva a
postulare l’esistenza di un antagonismo tra l’economia politica della borghesia e l’“economia
politica della classe operaia” (MEW, XVI, p. 11), una formulazione suggestiva nella misura in cui
sembra fondare l’idea di un’autonomia sociale ed economica della classe operaia (fatta non solo di
grandi lotte, ma anche di una molteplicità di conflitti, pratiche di resistenza e insubordinazione,
comportamenti quotidiani di rifiuto e sabotaggio del comando capitalistico). D’altro canto, in un
testo di un anno successivo (Salario, prezzo e profitto), ancora in riferimento alla giornata
lavorativa Marx spiega che la sua limitazione non si sarebbe mai verificata senza “la pressione
costante degli operai dall’esterno” dello Stato. È aggiunge: “è proprio questa necessità di una azione
politica generale che ci fornisce la prova che nella lotta puramente economica il capitale è il più
forte” (SPF, pp. 108 s.).
Si legge ancora, in Salario, prezzo e profitto, che la classe operaia non deve “lasciarsi assorbire
esclusivamente” dall’“inevitabile guerriglia che scaturisce dagli attacchi continui del capitale o dai
mutamenti del mercato”. La distinzione tra lotta economica e lotta politica sembra qui formulata in
modo netto: “invece della parola d’ordine conservatrice: ‘Un equo salario per un’equa giornata di
lavoro’, gli operai devono scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario: ‘Soppressione del
sistema del lavoro salariato’” (SPF, p. 113). È una distinzione netta, ma difficilmente la si può
considerare soddisfacente sotto il profilo teorico (ed è importante ricordare che Salario, prezzo e
profitto è il testo preparato da Marx per un’esposizione divulgativa delle sue teorie al Consiglio
generale dell’Internazionale). Anche a prescindere da quanto si diceva in precedenza sul carattere
politico della lotta sul salario, è immaginabile che “gli operai” arrivino a lottare per la
“soppressione del sistema del lavoro salariato” senza passare attraverso un insieme di lotte sulle
proprie condizioni materiali che necessariamente assume anche caratteri “economici”? E non è
all’interno di queste lotte che maturano quelle esperienze, quelle forme di organizzazione attraverso
cui la classe operaia comincia a cimentarsi con l’immane compito di essere protagonista della
propria liberazione, per riprendere la formula marxiana? Marx stesso avverte che “se la classe
operaia cedesse per viltà nel suo conflitto quotidiano con il capitale, si priverebbe essa stessa della
capacità di intraprendere un qualsiasi movimento più grande” (SPF, pp. 112 s.). Più che
considerare la lotta “economica” di per sé come espressione di “economicismo” e
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“tradeunionismo”, conviene allora assumere come criterio di misurazione della politicità delle lotte
l’intensità con cui queste ultime investono e riqualificano quello che si è più volte definito il
rompicapo della liberazione. D’altronde Marx, nel postulare il carattere intrinsecamente politico
della lotta di classe, non si riferiva certamente soltanto a lotte che, come quella sulla giornata
lavorativa, richiedessero “una azione politica generale” o a un’iniziativa esplicitamente
rivoluzionaria. “Ogni movimento di classe (Klassenbewegung)”, scriveva ad esempio alla figlia
Laura e a Paul Lafargue nel 1870, “in quanto movimento di classe è ed è sempre stato
necessariamente un movimento politico” (MEW, XXXII, p. 675). In questo riconoscimento Marx
indica qui la questione essenziale al centro del suo scontro con Bakunin e l’anarchismo, che si
qualifica dunque come uno scontro attorno al significato stesso della politica. Considerato dal punto
di vista delle lotte e dei “movimenti di classe”, il concetto della politica sembra dividersi nel Marx
critico dell’economia politica. Da una parte un elemento essenziale di politicità contraddistingue
“ogni movimento di classe” nella misura in cui esso insorge e si sviluppa dentro un campo
presidiato dai dispositivi di produzione di soggettività che fanno capo allo Stato e al capitale,
contestandone gli effetti di assoggettamento. Dall’altra parte l’intensità politica di una lotta è
determinata dalla forza con cui giunge a investire il rompicapo della liberazione, contribuendo a
ridefinirne i termini e a farne emergere l’urgenza (attraverso un movimento che si può definire di
“politicizzazione”, ovvero di soggettivazione). Trasversalmente, rispetto a questi due poli del
concetto di una politica di classe che mi pare di potere estrapolare dalla critica marxiana
dell’economia politica, agiscono le tendenze all’“economicismo” e al “tradeunionismo”. Ma
possono anche determinarsi dinamiche di accumulo di forza e di generalizzazione del tipo che Marx
ha analizzato in particolare nel caso della lotta per la regolazione della giornata lavorativa, esempio
classico (e tutt’ora metodologicamente attuale) di uno scontro su questioni “economiche” che
giunge ad avere un significato politico generale – a modificare cioè i rapporti di forza tra le classi
(e dunque, come si è detto, a costruire un terreno più favorevole su cui affrontare il rompicapo della
liberazione).
La critica dell’economia politica, scrive Marx nel poscritto alla seconda edizione del primo libro del
Capitale (1873), esprime un punto di vista di parte. Essa può infatti “rappresentare solo la classe la
cui funzione storica è il rovesciamento del modo capitalistico di produzione, e, a conclusione,
l’abolizione delle classi: cioè il proletariato” (C, I, p. 14, c.n.). Già, il proletariato. In realtà, nella
critica marxiana dell’economia politica, “il nome stesso di proletariato è assente” (É. Balibar, La
paura delle masse. Politica e filosofia prima e dopo Marx [1997], trad. it. Milano, Mimesis, 2001,
p. 123). Grande questione, quella del “nome” del soggetto dal cui punto di vista (nel cui nome,
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possiamo dire) la critica dell’economia politica viene svolgendosi. Nel primo libro del Capitale, quel
soggetto è sostanzialmente la classe operaia industriale: tanto le condizioni del suo sfruttamento
quanto le sue lotte sono analizzate da Marx attraverso un riferimento privilegiato al caso inglese,
ritenuto quello più “avanzato” dal punto di vista dello sviluppo capitalistico e dunque per certi
aspetti paradigmatico. C’è qui una prima ragione che suggerisce di non considerare sinonimi “classe
operaia” e “proletariato”. Conviene anzi, certo forzando la lettera dei testi marxiani, assumere la
tensione tra questi due termini come essenziale istanza critica da far lavorare nell’analisi della
produzione di soggettività nel capitalismo (tanto per quel che riguarda la polarità
dell’“assoggettamento”, ovvero l’eterogeneità delle forme assunte dallo sfruttamento, quanto per
quel che riguarda la polarità della “soggettivazione”, ovvero delle pratiche e delle lotte in cui si
esprime la tensione alla “liberazione”). Ma la seconda ragione, direttamente legata all’interpretazione
dei testi di Marx, consiste nel fatto che, dal punto di vista politico, il concetto di proletariato sembra
far riferimento a forme di azione collettiva, a pratiche di insorgenza rivoluzionaria, piuttosto diverse
rispetto a quelle discusse da Marx nel primo libro del Capitale a proposito della classe operaia
inglese. Dietro il riferimento al proletariato nel poscritto alla seconda edizione, è difficile non vedere
il ritorno degli “spettri” delle vittime dell’insurrezione parigina del giugno del ’48 (GCF, p. 71),
l’esperienza vittoriosa (ancorché di breve durata) della Comune nel 1871. Certo, Marx la presenta
(in La guerra civile in Francia, l’Indirizzo che scrisse alla fine di maggio di quell’anno per conto del
Consiglio generale dell’Internazionale) come “un governo della classe operaia” (GCF, p. 85). Ma è
facile notare che la composizione del proletariato parigino in armi protagonista della Comune era
assai diversa da quella della “classe operaia” descritta nelle pagine del primo libro del Capitale (cfr.
da ultimi Dardot – Laval, Marx, prénom: Karl, cit., cap. V): il riferimento al proletariato nel
poscritto del 1873 potrebbe perfino apparire in questo senso come una sorta di lapsus di Marx,
come espressione della sua consapevolezza della natura interamente politica del gesto con cui aveva
nominato come classe operaia il soggetto della Comune, all’interno di una dura polemica con
blanquisti e proudhoniani.
Leggendo La guerra civile in Francia, del resto, si incontrano nuovamente i problemi
(essenzialmente politici in senso classico) confrontandosi con i quali il giovane Marx aveva
introdotto il concetto di proletariato dall’interno del suo confronto critico con la filosofia hegeliana
del diritto pubblico. La scansione teorica del testo ruota attorno alla figura dello Stato (e dunque alla
specifica produzione di soggettività ad essa collegata, assai più che a quella collegata al capitale),
giungendo a innovare in profondità il modo in cui lo Stato stesso era stato considerato in uno scritto
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fondamentale come il Manifesto del partito comunista (si veda la prefazione all’edizione tedesca
del 1872, MPC, pp. 308 s.). La Comune appare a Marx come “la forma politica finalmente scoperta
nella quale si poteva compiere l’emancipazione economica del lavoro”, come “una forma politica
fondamentalmente espansiva, mentre tutte le precedenti forme di governo erano state
unilateralmente repressive” (GCF, p. 85). Al centro del dibattito marxista sullo Stato nel Novecento
soprattutto per via dell’interpretazione offertane da Lenin alla vigilia dell’insurrezione d’ottobre in
Stato e rivoluzione, l’analisi marxiana della Comune riprende, pur in un diverso contesto (si tratta
qui del resto dell’“indirizzo” di un’organizzazione politica “internazionale”), alcuni dei temi al
centro dei suoi scritti sugli anni attorno al ’48. In sede di bilancio, quasi ricollegandosi al passo del
18 brumaio su ci siamo soffermati nel paragrafo 4, Marx scrive ad esempio che la lotta di classe
operaia “dovrà passare per lunghe lotte, per una serie di processi storici che trasformeranno le
circostanze e gli uomini” (GCF, p. 87). Ma la Comune ha in particolare a suo giudizio determinato
un gigantesco salto in avanti nella storia politica del proletariato, nella misura in cui ha
rappresentato e affermato “la forma positiva” di quella “repubblica sociale” che all’inizio della
rivoluzione di febbraio aveva rappresentato per il proletariato parigino soltanto “una vaga
aspirazione” (GCF, p. 80). È la stessa forma politica della repubblica a scindersi nelle pagine di
Marx di fronte all’irruzione nella storia di una “forma politica fondamentalmente espansiva” che
scompagina il piano delle tradizionali forme di Stato e di governo al cui interno si colloca la
repubblica “borghese” e “parlamentare” analizzata nel 18 brumaio. Ma definitiva è anche la
separazione, che si compie in Marx di fronte alla Comune, tra la politica comunista e lo Stato
moderno: la classe operaia, infatti (ecco il passo richiamato nella prefazione all’edizione del 1872
del Manifesto), “non può mettere la mano semplicemente sulla macchina dello Stato bella e pronta,
e metterla in movimento per i propri fini” (GCF, p. 76). È una separazione che va intesa in senso
letterale, non solo metaforico (e nessuno meglio di Lenin lo comprese sotto il profilo teorico): nel
senso che la politica comunista si definisce come azione di massa che punta a separare le funzioni
“comuni” (nel senso di quel Gemeinwesen con cui Engels, in una lettera del 1875 ad August Bebel
propone di sostituire il termine “Stato”, MEW, XXXIV, p. 129) svolte dallo Stato dal suo apparato
repressivo, appropriandosi delle prime e distruggendo il secondo. “Dittatura del proletariato” indica
originariamente la forma politica di questa azione di massa. Scrive Marx nel 1875, criticando il
“programma di Gotha” varato dalla socialdemocrazia tedesca sotto l’influenza di Lassalle: “non è
assolutamente compito degli operai, che si sono liberati del gretto spirito di sudditanza, rendere
‘libero’ lo Stato” (CPG, p. 51). Né la classe operaia ha da liberare il “lavoro”, visto che ha da
liberare se stessa (CPG, p. 44). Ancora il rompicapo della liberazione, come tema essenziale su cui
si determina la costituzione della classe operaia e del proletariato in soggetto politico. Nel corso
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della storia successiva sarà spesso qualcun altro (un partito, uno Stato) a pretendere di agire in
luogo e in nome dei proletari e degli operai, rappresentandoli. Ma la politica comunista, in quanto
politica di una auto-liberazione, non potrà che rivolgersi criticamente contro ogni dispositivo di
rappresentanza, perfino quando, all’interno di circostanze specifiche, ne deve riconoscere la
necessità.
10. Marx ad Algeri
“Il capitalismo nasce storicamente in un ambiente sociale non-
capitalistico. […] All’interno di quest’ambiente il processo di
accumulazione del capitale si apre una strada. […] In realtà,
l’accumulazione capitalistica non solo non può, nel suo espandersi a
balzi, contare sul semplice incremento naturale della popolazione
lavoratrice, ma non può neppure attendere la lenta decomposizione
naturale delle forme non-capitalistiche e il loro pacifico trapasso
all’economia mercantile. Il capitale non conosce altra soluzione al
problema che la violenza: metodo costante dell’accumulazione del
capitale, non solo al suo primo nascere, ma anche oggi”
(Rosa Luxemburg, L’accumulazione del capitale [1913], trad. it.
Torino, Einaudi, 1968, pp. 365 s.).
Lenin non è mai stato in Inghilterra, Marx non è mai stato a Detroit e, per quel che conta, Adam
Smith non è mai stato a Pechino. Ad Algeri, invece, Marx c’è stato davvero, sul finire della sua
vita: per un paio di mesi all’inizio del 1882, per cercare (invano) ristoro dal rigido inverno
londinese, seguendo le raccomandazioni dei medici. Il titolo di quest’ultimo paragrafo, come quelli
celebri che si sono appena evocati (di Mario Tronti, in primo luogo, ma anche di Giovanni Arrighi),
non deve tuttavia essere inteso in termini letterali. Per quanto non manchino, nel soggiorno di Marx
ad Algeri, elementi di interesse, non è alla ricostruzione di quel soggiorno che sono dedicate le
pagine che seguono (cfr. in questo senso M. Vesper, Marx in Algier, Bonn, Pahl-Rugenstein, 1995).
Il passaggio a “oriente” di un Marx duramente provato non solo dalla malattia ma anche dalla
morte, l’anno precedente, della moglie Jenny verrà piuttosto assunto come metafora, molto allusiva
in verità, di una serie di spiazzamenti che si producono nel suo pensiero dopo la pubblicazione del
primo libro del Capitale. Vale la pena, in questo senso, di forzare il senso di un enigma a proposito
della vera e propria sospensione dei lavori per la conclusione della sua opera di critica
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dell’economia politica che si verifica dopo il 1870. “Cattivo stato di salute”, ci informa Engels (C,
II, p. 6). È certo vero, e tuttavia pensando alla passione con cui Marx si impegnò a fianco della
Comune e negli scontri interni all’Internazionale, risulta difficile credere che non sarebbe riuscito a
trovare le energie per riordinare sistematicamente la gran mole di manoscritti che aveva approntato
per il secondo e terzo libro del Capitale già prima della pubblicazione del primo. Forzare il senso di
un enigma, come si diceva, significa dunque formulare l’ipotesi che una serie di blocchi teorici si
fossero presentati a interrompere l’ordine dell’“esposizione” (Darstellung), imponendo a Marx la
riapertura della “ricerca” (Forschung) (sul rapporto tra questi termini, si veda Negri, Marx oltre
Marx, cit., p. 24). Negli ultimi anni della sua vita egli si immerse nello studio delle scienze naturali
del suo tempo (dalla chimica alla geologia), certamente anche per via dell’influenza di Darwin,
accumulò materiali attorno al tema di una “storia critica della tecnologia” (C, I, p. 454, n. 89), si
confrontò intensamente con antropologi ed etnologi, riempiendo fitti taccuini d’appunti.
Quest’ultimo aspetto delle ricerche marxiane degli ultimi anni è particolarmente importante,
combinandosi con l’intensificazione dell’interesse per realtà e aree del mondo diverse rispetto a
quelle su cui Marx aveva fino a quel momento costruito le proprie teorie del capitalismo
(l’Inghilterra) e della rivoluzione proletaria (la Francia).
Già si è richiamata l’attenzione (nel paragrafo 7) sull’importanza che in Marx assume il concetto di
Weltgeschichte, con quel riferimento al “mondo” che si perde nella traduzione italiana canonica con
“storia universale”. Non è una questione meramente terminologica. Fin dagli anni giovanili, Marx
prende sul serio il riferimento “spaziale” contenuto nel sintagma Weltgeschichte, entrato nell’uso
filosofico di lingua tedesca nel XVIII secolo, e lo fa consapevolmente interagire con il riferimento
“temporale”. Si legge ad esempio nell’Ideologia tedesca: “è certo un fatto empirico che i singoli
individui, con l’allargarsi dell’attività sul piano storico mondiale (mit der Ausdehnung der Tätigkeit
zur Weltgeschichtlichen), sono stati sempre asserviti a un potere loro estraneo […], a un potere che
è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale
(Weltmarkt)” (IT, p. 36, trad. modificata). Si vede bene qui, mi pare, il significato spaziale
assolutamente concreto che assume in Marx la formula Weltgeschichte, fino a indicare il tempo
storico dominato da una potenza (Macht) che assume il mondo come ambito della propria azione. È
un altro punto di straordinaria originalità della riflessione di Marx, che si tratta di valorizzare anche
dal punto di vista della produzione di soggettività. In un’epoca storica in cui era ben lungi
dall’essersi concluso in Europa il processo di affermazione degli Stati nazionali e di rottura delle
appartenenze “locali”, il suo sforzo è interamente teso a cogliere l’azione di forze la cui costituzione
e la cui efficacia si collocano all’interno di coordinate “mondiali”. E queste forze determinano la
stessa produzione ed esperienza quotidiana di soggetti che, come già si è visto, proprio per questo
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vengono definiti “individui empiricamente universali” (IT, p. 34). Con una radicalità che non trova
riscontro in nessun esponente dell’“economia classica”, Marx individua nella scala fin da principio
mondiale delle sue operazioni uno dei caratteri distintivi del moderno modo di produzione
capitalistico. Leggiamo un brano tratto dai manoscritti marxiani pubblicati postumi da Karl Kautsky
con il titolo Theorien über den Mehrwert (“Teorie sul plusvalore”): “è soltanto il commercio estero,
lo sviluppo del mercato in mercato mondiale che trasforma il denaro in denaro mondiale e il lavoro
astratto in lavoro sociale. La ricchezza astratta, il valore, il denaro, cioè il lavoro astratto, si
sviluppano nella misura in cui il lavoro concreto si sviluppa in una totalità di differenti specie di
lavoro che abbraccia il mercato mondiale. La produzione capitalistica si basa sul valore o sullo
sviluppo del lavoro contenuto nel prodotto in lavoro sociale. Ma ciò non è [possibile] che sulla base
del commercio estero e del mercato mondiale. Questo è dunque, nello stesso tempo, presupposto e
risultato della produzione capitalistica” (SDE, III, p. 274).
Il mercato mondiale è dunque per Marx, secondo una formulazione da lui spesso ripetuta in
particolare nei Grundrisse, “presupposto e risultato della produzione capitalistica”. “La tendenza
(Tendenz) a creare il mercato mondiale è data immediatamente con il concetto stesso di capitale.
Ogni limite (Grenze) si presenta qui come un ostacolo (Schranke) da superare” (G, II, p. 9). Se il
capitale non può esistere al di fuori dell’orizzonte del mercato mondiale, questo stesso orizzonte
deve tuttavia essere continuamente prodotto e affermato. L’importanza del colonialismo e della
conquista all’origine del moderno modo di produzione capitalistico, sottolineata da Marx nella sua
analisi della “cosiddetta accumulazione originaria”, trova qui le proprie ragioni teoriche di fondo.
Ma più in generale, una volta aperto lo spazio del mercato mondiale, quest’ultimo ha caratteri che si
potrebbero definire “formali”. Nel senso che può essere materialmente articolato e organizzato in
modi molto diversi, secondo geometrie variabili di egemonia, dominazione e dipendenza: se il
capitale è “rivoluzione permanente” (G, II, p. 12) lo è anche sotto il profilo della produzione degli
spazi al cui interno si determinano la sua valorizzazione e la sua accumulazione. Il grande dibattito
di inizio Novecento attorno all’imperialismo registra precisamente questo problema, che Marx colse
distinguendo il mercato mondiale dai rapporti “internazionali” (cfr. L. Ferrari Bravo, vecchie e
nuove questioni nella teoria dell’imperialismo, in Id., a cura di, Imperialismo e classe operaia
multinazionale, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 7-67). Quel che qui vorrei sostenere è che in un primo
momento Marx è stato come abbagliato da quelli che ho definito i caratteri “formali” del mercato
mondiale, e vi ha costruito attorno un’immagine lineare della tendenza del capitale ad affermare in
modo necessario e senza resti la propria logica, secondo un modello sostanzialmente unitario e
omogeneo. Indipendentemente dalla loro efficacia retorica (in primo luogo per quel che riguarda la
critica del socialismo utopistico), i toni apologetici sul ruolo rivoluzionario della borghesia nella
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storia moderna nel Manifesto, così come sul colonialismo inglese in India in uno scritto del 1853
(La dominazione britannica in India), possono essere considerati anche come sintomi di uno
sbilanciamento tra i due aspetti – temporale e spaziale, per così dire – della comprensione marxiana
della Weltgeschichte. Una certa idea di progresso come necessità storica si infiltra indubbiamente in
queste come in altre pagine marxiane, “disincarnandosi” per così dire dall’effetto di concretezza
potenzialmente prodotto dal riferimento spaziale.
Analogo discorso, del resto, può essere fatto per le sezioni dei Grundrisse dedicate alle “forme che
precedono le società capitalistiche”, complessivamente dominate da una lettura retrospettiva volta a
evidenziare i caratteri distintivi (e la “superiorità”) del modo di produzione capitalistico. Se
l’interesse per gli sviluppi dell’etnologia e dell’antropologia a lui contemporanee mostra come
Marx abbia sentito negli ultimi anni della sua vita l’esigenza di problematizzare questa lettura, fin
dagli anni Cinquanta (in particolare attraverso il lavoro giornalistico per la “New York Daily
Tribune”) l’accumulo di letture e riflessioni su società diverse da quelle europee occidentali,
sull’India e sulla Cina, sulla schiavitù negli Stati Uniti, sui nazionalismi irlandese e polacco gli
consentì di riempire di determinazioni materiali il concetto di “mercato mondiale” (cfr. in
particolare K.B. Anderson, Marx at the Margins. On Nationalism, Ethnicity, and Non-Western
Societies, Chicago – London, University of Chicago Press, 2010). È bene non sopravvalutare gli
effetti di spiazzamento e di revisione che da questo insieme di letture, riflessioni e ricerche
derivarono all’interno della riflessione marxiana, soprattutto dopo la pubblicazione del primo libro
del Capitale. Lettere, abbozzi di lettere, quaderni di appunti vanno letti con una qualche cautela, e
supportano al più la formulazione di ipotesi. Quel che mi pare plausibile è in ogni caso affermare
che Marx si mosse nella prospettiva di un approccio “multilineare” alla storia e allo sviluppo del
capitalismo, considerando cioè la possibilità di una molteplicità di forme eterogenee, calibrate su
diverse scale storiche e geografiche, di imposizione e organizzazione del rapporto sociale
costitutivo del capitale (cfr. ad es. Anderson, Marx at the Margins, ma anche E. Dussel, L’ultimo
Marx, Roma, Manifestolibri, 2009, in specie p. 230). È Marx stesso ad affermarlo a proposito della
sua analisi della “cosiddetta accumulazione originaria”: “la ‘fatalità storica’” del movimento di
transizione al capitalismo, scrive a Vera Zasulic nel marzo del 1881, è “espressamente limitata ai
paesi dell’Europa occidentale” (ICR, p. 237), mentre poco più di tre anni prima – in una lettera alla
redazione di una rivista russa – aveva messo in guardia dal trasformare la sua analisi in “una teoria
storico-filosofica della marcia generale fatalmente imposta a tutti i popoli” (ICR, p. 236).
In termini teorici, vale la pena riprendere a questo punto il passo dei Grundrisse citato in
precedenza: “la tendenza a creare il mercato mondiale è data immediatamente con il concetto stesso
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di capitale. Ogni limite si presenta qui come un ostacolo da superare” (G, II, p. 9). Se la “tendenza”
indica il momento “universale” che inerisce tanto al concetto di capitale quanto alla sua azione,
l’incontro con il “limite” (definito tanto dal punto di vista dell’estensione geografica quando dal
punto di vista dell’insieme delle condizioni storiche, sociali e culturali che determinano tra l’altro il
“lavoro vivo”) è all’origine della profonda eterogeneità del capitalismo – tanto storico quanto
contemporaneo (si veda, pur all’interno di una diversa prospettiva, Th.C. Petterson, Karl Marx,
Anthropologist, Oxford – New York, Berg, 2009, p. 144; ma centrale, su questi passaggi, continua a
essere per me il lavoro di Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, cit.). È interessante notare come
in questo passo Marx combini i due significati del “limite” che si sono appena richiamati – quello
“geografico”, immediatamente associato alla “tendenza a creare il mercato mondiale” (nonché
all’uso del termine Grenze, che indica il confine), e quello “sociale”, al centro delle righe
immediatamente successive. La tendenza del capitale, prosegue infatti Marx, “è di subordinare
anzitutto ogni momento della produzione stessa allo scambio, e di sopprimere la produzione di
valori d’uso immediati che non rientrino nello scambio, ossia appunto di sostituire una produzione
basata sul capitale ai modi di produzione precedenti e, dal suo punto di vista, primitivi” (G, II, p. 9).
Tanto sul limite della sua “estensione” geografica quanto sul limite della sua penetrazione
“intensiva” all’interno di formazioni sociali determinate (per richiamare i termini utilizzati nel
paragrafo 7), il capitale si trova di fronte, in questo passo dei Grundrisse, spazi “non capitalistici”.
È il problema della transizione al capitalismo, classicamente analizzato da Marx – come più volte si
è detto – nel capitolo 24 del primo libro del Capitale, dedicato alla “cosiddetta accumulazione
originaria”. Mi sono ampiamente occupato di questo testo in un libro di qualche anno fa (S.
Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Verona, ombre corte,
2008, appendice), e non vi tornerò qui se non per ribadire la mia convinzione – condivisa con molti
studiosi e molte studiose – che si debbano ritenere i problemi e i “procedimenti” studiati da Marx a
proposito della “cosiddetta accumulazione originaria” come caratteristici, certo in forme di volta in
volta rinnovate, dell’intero arco storico di sviluppo del modo di produzione capitalistico. La
produzione di quelli che appaiono al tempo stesso come “presupposti e risultati della produzione
capitalistica” – il mercato mondiale, certo, ma anche e soprattutto i soggetti che al suo interno si
muovono – si ripropone continuamente come problema che interrompe la linearità storica dello
sviluppo, in particolare in quei momenti di crisi in cui il capitale dispiega al massimo grado la
propria natura di “rivoluzione permanente”. In questi momenti si ripresenta anche il problema del
“limite”, della trasformazione di una serie di rapporti sociali, di processi produttivi, di forme di
organizzazione politica, di specifici assetti spaziali in “ostacoli” da superare. La situazione
contemporanea mostra chiaramente (ad esempio attraverso l’attacco al welfare) come questi
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“ostacoli” non siano necessariamente ambienti “non capitalistici”, ma possano essere costruiti come
“esterni” al capitale (dal suo interno, se è concesso il gioco di parole) per aprire nuove frontiere alla
sua valorizzazione. A me pare che questa dinamica di “apertura”, immediatamente presidiata da
precisi dispositivi di “chiusura” (si pensi, per rimanere all’esempio del welfare, alla
generalizzazione del debito), sia un tratto strutturale del modo di produzione capitalistico, un suo
momento “universale” da comprendere criticamente nelle circostanze specifiche in cui si produce. È
del resto accompagnato da una specifica produzione di soggettività e da specifici conflitti, non
riducibili allo standard del lavoro salariato né alle due immagini fondamentali attorno a cui viene
svolgendosi l’immaginazione rivoluzionaria di Marx – quella della classe operaia industriale e
quella del proletariato insorto nelle strade di Parigi.
In questi processi e in questi conflitti, come del resto nella scena della “cosiddetta accumulazione
originaria”, le diverse forme della proprietà comune e del rapporto comunitario non possono che
rivestire ruoli centrali – tanto come “punto d’attacco” per il capitale quanto come base per la
resistenza. Se si accetta l’ipotesi che Marx avesse sviluppato negli ultimi anni della sua vita
un’acuta consapevolezza dell’importanza di questi problemi su scala globale, il suo confronto con
gli antropologi e gli etnologi (documentato dai taccuini del 1880-1882) si carica di significati
ulteriori rispetto a quelli indicati da Engels nella prefazione a L’origine della famiglia, della
proprietà privata e dello Stato (1884). Marx, in altri termini, non sarebbe stato soltanto alla ricerca
delle origini storiche di una serie di criteri di gerarchia sociale, ma avrebbe anche lavorato alla
costruzione di un archivio di forme del “comune” con cui leggere politicamente alcuni dei conflitti
più significativi determinati nel presente dall’espansione mondiale del capitalismo. È in particolare
attorno al caso russo, alla possibilità che l’obscina, la comunità rurale, potesse rappresentare la base
per un passaggio diretto al comunismo, che Marx ragionò negli ultimi anni della sua vita (cfr.
Basso, Agire in comune, cit., pp. 94-117). Anche in questo caso, i testi di cui disponiamo
frammentari, e i tentativi che sono stati fatti in questi anni di ricavarne un Marx “comunitarista”
sono decisamente poco convincenti (si vedano per un bilancio i saggi raccolti in A. Curcio, a cura
di, Comune, comunità, comunismo, Verona, ombre corte, 2011). Quel che mi interessa estrapolare
dall’ultimo Marx non è una revisione teorica e neppure la soluzione delle aporie del suo pensiero. È
piuttosto la tensione a riqualificare continuamente i termini di un problema – quello della
liberazione – rimasto costante fin dagli anni della sua riflessione giovanile. E certo, nell’intensità
del confronto con le forme della proprietà comune e del rapporto comunitario si può leggere in
filigrana la tensione a riavviare la ricerca proprio sul tema della produzione di soggettività
all’interno di un capitalismo definitivamente e materialmente pensato nella sua dimensione
mondiale. Possiamo immaginare che fosse questa la sua preoccupazione mentre camminava per le
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strade di Algeri in quell’inizio del 1882, mentre raccoglieva informazioni sui muratori che, “per
quanto sani e autoctoni”, si ammalavano di febbri violente dopo tre giorni di lavoro e ricevevano
come parte del salario “una dose quotidiana di chinino” (Vesper, Marx in Algier, cit., p. 190) o
mentre sorseggiava un caffé in un locale “moresco”, affascinato dallo spirito di “assoluta
uguaglianza” che osservava tra i frequentatori arabi. Riferendone alla figlia Laura il 13 aprile,
aggiungeva tuttavia a scanso di equivoci, nel suo caratteristico impasto di tedesco e inglese: und
dennoch gehen sie zum Teufel without a revolutionary movement, “e tuttavia sono fottuti senza un
movimento rivoluzionario” (Vesper, Marx in Algier, cit., p. 200).
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Opere di Marx citate (sigle)
18B = Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, in K. Marx, Rivoluzione e reazione in Francia 1848-1850,
Torino, Eianudi, 1976.
C, I = Il capitale. Critica dell’economia politica, libro primo, Il processo di produzione del
capitale, Torino, Einaudi, 1975.
C, II = Il capitale. Critica dell’economia politica, Libro secondo, Il processo di circolazione del
capitale, Torino, Einaudi, 1975.
C, III = Il capitale. Critica dell’economia politica, Libro terzo, Il processo complessivo della
produzione capitalistica, Torino, Einaudi, 1975.
CPG = Critica del programma di Gotha, Roma, Savelli, 1975.
G = Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 2 voll., Firenze, La Nuova Italia,
1978.
GCF = La guerra civile in Francia, Roma, Editori Riuniti, 1977.
HF = K. Marx – F. Engels, Die Heilige Familie, oder Kritik der kritischen Kritik. Bruno Bauer und
Konsorten, in MEW, 2.
ICR = K. Marx – F. Engels, India, Cina, Russia, Milano, Il Saggiatore, 1976.
IT = K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, in Opere, vol. V, Roma, Editori Riuniti, 1972
LCF = Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, in K. Marx, Rivoluzione e reazione in
Francia 1848-1850, Torino, Eianudi, 1976.
MEF = Manoscritti economico-filosofici del 1844, Torino, Einaudi, 1980.
MEW = K. Marx – F. Engels, Werke, 39 Bde. und 2 Erg.Bde., Berlin, Dietz, 1958-1971.
MF = Miseria della filosofia. Risposta alla “Filosofia della miseria” del signor Proudhon, Roma,
Editori Riuniti, 1993.
MPC = K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, Torino, Einaudi, 1979.
QE = La questione ebraica, Roma, Editori Riuniti, 1978.
SDE = Storia delle teorie economiche, 3 voll., Torino, Einaudi, 1954.
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SPF = Salario, prezzo e profitto, Roma, Editori Riuniti, 1977.