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1 Nei cantieri marxiani: il soggetto e la sua produzione. Prime approssimazioni di Sandro Mezzadra Questo testo è stato scritto originariamente come “dispensa” per il corso universitario di “Frontiere della cittadinanza”, che tengo presso l’Università di Bologna (anno accademico 2012- 2013). Va dunque letto come tentativo di indicare alcune ipotesi di lavoro, una serie di problemi e di riferimenti da sviluppare durante le lezioni. Bologna, febbraio 2013 1. Marx oltre il marxismo “Accade oggi alla dottrina di Marx quel che è spesso accaduto nella storia alle dottrine dei pensatori rivoluzionari e dei capi delle classi oppresse in lotta per la loro liberazione. Le classi dominanti hanno sempre ricompensato i grandi rivoluzionari, durante la loro vita, con implacabili persecuzioni; la loro dottrina è stata sempre accolta con il più selvaggio furore, con l’odio più accanito e con le più impudenti campagne di menzogne e di diffamazioni. Ma, dopo morti, si cerca di trasformarli in icone inoffensive, di canonizzarli, per così dire, di cingere di una certa aureola di gloria il loro nome(Vladimir Ilic Lenin, Stato e rivoluzione [1917], trad. it. in Id., Opere scelte in sei volumi, Roma-Mosca, Editori Riuniti- Progress, vol. IV, p. 235). In verità, scrisse Marx alla figlia Laura nel 1868, “io sono una macchina condannata a divorare libri per vomitarli in una nuova forma, come concime sulla terra della storia”. Prende avvio da questa immagine la lettura di Marx recentemente proposta da Pierre Dardot e Christian Laval in un libro tanto ponderoso quanto importante (Marx, prénom: Karl, Paris, Gallimard, 2012). Singolare metabolismo, quello qui delineato: libri, autori e teorie macinati da una macchina di lettura che li restituisce “in una nuova forma” alla storia, per renderla più fertile. Un continuum di variazioni e di ripetizioni su temi ereditati dalla storia per produrre dal loro interno quell’innovazione che alla

Nei Cantieri Marxiani

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saggio di Mezzadra

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Nei cantieri marxiani: il soggetto e la sua produzione.

Prime approssimazioni

di Sandro Mezzadra

Questo testo è stato scritto originariamente come “dispensa” per il corso universitario di

“Frontiere della cittadinanza”, che tengo presso l’Università di Bologna (anno accademico 2012-

2013). Va dunque letto come tentativo di indicare alcune ipotesi di lavoro, una serie di problemi e

di riferimenti da sviluppare durante le lezioni.

Bologna, febbraio 2013

1. Marx oltre il marxismo

“Accade oggi alla dottrina di Marx quel che è spesso accaduto nella

storia alle dottrine dei pensatori rivoluzionari e dei capi delle classi

oppresse in lotta per la loro liberazione. Le classi dominanti hanno

sempre ricompensato i grandi rivoluzionari, durante la loro vita, con

implacabili persecuzioni; la loro dottrina è stata sempre accolta con il

più selvaggio furore, con l’odio più accanito e con le più impudenti

campagne di menzogne e di diffamazioni. Ma, dopo morti, si cerca di

trasformarli in icone inoffensive, di canonizzarli, per così dire, di

cingere di una certa aureola di gloria il loro nome”

(Vladimir Ilic Lenin, Stato e rivoluzione [1917], trad. it. in Id., Opere

scelte in sei volumi, Roma-Mosca, Editori Riuniti- Progress, vol. IV,

p. 235).

In verità, scrisse Marx alla figlia Laura nel 1868, “io sono una macchina condannata a divorare libri

per vomitarli in una nuova forma, come concime sulla terra della storia”. Prende avvio da questa

immagine la lettura di Marx recentemente proposta da Pierre Dardot e Christian Laval in un libro

tanto ponderoso quanto importante (Marx, prénom: Karl, Paris, Gallimard, 2012). Singolare

metabolismo, quello qui delineato: libri, autori e teorie macinati da una macchina di lettura che li

restituisce “in una nuova forma” alla storia, per renderla più fertile. Un continuum di variazioni e di

ripetizioni su temi ereditati dalla storia per produrre dal loro interno quell’innovazione che alla

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storia deve tornare. È bene non esagerare, sia chiaro, il significato di questa privata “confessione” di

Marx alla figlia nell’anno del suo matrimonio con Paul Lafargue: e tuttavia essa ci offre una traccia

che vale la pena seguire per tornare a leggere Marx, oggi. Fin dalla prefazione di Engels al secondo

libro del Capitale (1885), il marxismo ha costruito di Marx un’immagine ben diversa: quella

dell’assoluto novatore, “che forniva la chiave per la comprensione dell’intera produzione

capitalistica, per chi avesse saputo utilizzarla” (C, II, p. 20). Il pensiero di Marx prese così a essere

considerato come un compatto sistema, costruito sulla base di una serie di “scoperte” (della lotta di

classe, della forza-lavoro, del plusvalore, di leggi) e di una serie di radicali “cesure” con tutto ciò

che lo aveva preceduto – e in particolare con le sue “tre fonti” fondamentali: la filosofia tedesca,

l’economia politica inglese e il socialismo francese.

È da questo Marx che dobbiamo prendere congedo. Certo, abbiamo spesso ripetuto la frase che

Marx avrebbe pronunciato, secondo lo stesso Engels, verso la fine degli anni Settanta

dell’Ottocento: tout ce que je sais, c’est que je ne suis pas Marxiste (MEW, XXXVII, p. 436). Si

tratta tuttavia oggi di affermare qualcosa di più radicale: ovvero che, a dispetto dei molti tentativi di

rianimarlo, il marxismo è finito. È bene parlarne con rispetto, ma rigorosamente al passato. Quello

che chiamiamo marxismo è stato un formidabile edificio di pensiero, costruito storicamente a

partire dal lavoro di Engels sui manoscritti del secondo e del terzo libro del Capitale, consolidatosi

nella polemica di fine secolo attorno al “revisionismo” e poi assestatosi dopo l’Ottobre sovietico e

la divisione del movimento operaio. Il marxismo è vissuto nelle lotte, nelle insurrezioni e nei sogni

di grandi masse, nell’azione di movimenti, partiti e regimi. Non è stato soltanto un edificio di

pensiero, dunque; è stato anche una forza materiale che ha contribuito a costruire il mondo che

abitiamo. Di per sé, tuttavia, il marxismo appartiene al “mondo di ieri”. Non è solo la fine del

socialismo reale, di quello che Rita di Leo (L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e

viceversa, Roma, Ediesse, 2012) ha recentemente definito “l’esperimento profano”, e del

movimento operaio a decretare il suo esaurimento. Tanto nella filosofia quanto nella politica, tanto

nell’insorgenza anticoloniale quanto sulle barricate del maggio francese e nelle officine di

Mirafiori, tanto nella presa di parola delle donne quanto in quella delle “minoranze”, una serie di

movimenti e di lotte si costituisce a partire dalla metà del Novecento in eccedenza rispetto al

marxismo; prima lo attraversa problematicamente e poi contribuisce a farlo esplodere. Diceva

Sartre, sul finire degli anni Cinquanta dello scorso secolo, che il marxismo è “l’orizzonte

insuperabile del nostro tempo”. Non è più così.

Conviene considerare il marxismo come un “sistema di pensiero”, nel senso che Michel Foucault

assegnò a questa formula al momento di assumere il suo incarico al Collège de France. Anche nel

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marxismo, cioè, “la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e

distribuita tramite un certo numero di procedure” (M. Foucault, L’ordine del discorso [1970],

Torino, Einaudi, 1972, p. 9). Non si tratta di riprendere l’affermazione di Foucault di qualche anno

prima, secondo cui “il marxismo è nel pensiero del XIX secolo come un pesce nell’acqua: cioè,

fuori di lì cessa ovunque di respirare” (M. Foucault, Le parole e le cose [1966], trad. it. Milano,

Rizzoli, 1978, p. 283). Di questa affermazione si potrebbe anzi mostrare la posizione di paradossale

internità, ancorché liminare, al “campo discorsivo” del marxismo. È piuttosto la definizione di

questo campo che Foucault ci aiuta a cogliere. Studiando in particolare i tre momenti “fondativi”

che si sono precedentemente indicati, credo che sarebbe possibile tracciare in modo quasi

cartografico le regole di enunciazione e le problematiche che, in modo relativamente costante –

combinando le funzioni che ancora Foucault ha definito in termini di “persistenza”, “additività” e

“ricorrenza” (L’archeologia del sapere [1969], trad. it. Milano, Rizzoli, 1980, pp. 166 s.) –, hanno

governato la produzione e la riproduzione del marxismo come “sistema di pensiero”. Anche

all’interno di quest’ultimo, si può insomma dire, “‘chiunque parla’, ma quello che dice non lo dice

da una posizione qualunque. È necessariamente implicato nel meccanismo di una esteriorità” (ivi, p.

165). Già sento le obiezioni: non vi sono state all’interno del marxismo straordinarie “eresie”?

Dobbiamo forse confondere il “marxismo-leninismo” con il black Marxism e con l’operaismo

italiano, Stalin con Trotski, il “marxismo occidentale” con il “dispotismo orientale”? Non

scherziamo. La fine del marxismo ci consente piuttosto di riaprire l’archivio marxista, di

apprezzarne come mai in passato la polifonia e la ricchezza di alternative. Di rileggere un’intera

schiera di classici, senza limitarci a quelli che una lunga storia ha canonizzato come eretici. Per

dirla in modo provocatorio: non è escluso che in qualche pagina di Stalin vi siano formulazioni da

riscoprire… Ma l’essenziale è formulare un principio di metodo: la condizione per riaprire

produttivamente l’archivio marxista è la sospensione, la disattivazione delle regole di enunciazione

che hanno governato la sua formazione. Nella prospettiva di dare un primo, modestissimo

contributo a questa impresa necessariamente collettiva, lascio risuonare all’inizio di ogni paragrafo

di questo testo, in forma di epigrafe e senza commentarle, una serie di citazioni “marxiste”.

Partiamo dunque dalla prima, che si è da poco letta, e facciamo un’eccezione commentandola

brevemente. Quando Lenin, alla vigilia dell’insurrezione di ottobre, parla della trasformazione di

Marx in un’“icona inoffensiva” pone in fondo un problema che ci riguarda, nel tempo in cui

l’Economist dedica copertine a Marx come geniale profeta della globalizzazione (e in fondo come

apologeta del capitalismo). Ma anche il marxismo, quello stesso marxismo-leninismo che si è

richiamato nei decenni successivi a Stato e rivoluzione, ha trasformato Marx in un’“icona” – spesso

anche se non sempre “inoffensiva”, ma comunque in un’“icona”. Non è accaduto lo stesso a Lenin?

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I versi di Majakovskij, scritti all’indomani della morte di Lenin, sono troppo noti per essere citati al

di là di qualche riga: “ho paura che una corona sulla sua testa / possa nascondere la sua fronte / così

umana e geniale, così vera…”. Ma restiamo a Marx: il marxismo, novella patristica, si è costituito

essenzialmente attraverso il commento ai suoi testi, e ha così costruito di Marx una specifica

immagine in primo luogo forgiando un corpus di opere che ha valorizzato l’istanza di sistema e

scientificità. Il lavoro di Engels attorno al secondo e al terzo libro del Capitale è da questo punto di

vista esemplare. Sia chiaro: non si tratta qui di proporre l’ennesima contrapposizione tra Marx ed

Engels, tra la genialità del primo e la pedanteria del secondo. Engels fece un lavoro straordinario,

coniugando dedizione amicale, cura filologica e spirito militante, “di partito”! Ma impose unitarietà

e sistematicità a un pensiero che dopo la pubblicazione del primo libro del Capitale (1867) si era

mosso in direzioni complesse e spesso contraddittorie, senza più riuscire ad assestarsi in una sintesi.

La pubblicazione dei manoscritti marxiani nella nuova edizione critica delle opere (la cosiddetta

MEGA2) ci consente di apprezzare la frammentarietà ma anche la ricchezza di questo pensiero: e ci

offre nuove chiavi di accesso ai cantieri marxiani.

Tocca dire una volta di più “sia chiaro”: l’istanza di sistema e scientificità è propria di Marx fin

dagli anni della sua formazione. Ma quel che oggi vale la pena di sottolineare è il continuo urto di

questa istanza con la materialità della storia, della politica, dello stesso sviluppo dei suoi studi e

della sua riflessione. I “sentieri interrotti”, se è consentita la battuta, sono innumerevoli nei cantieri

marxiano. Se la MEGA2 ha contribuito a rinnovare l’immagine di Marx, e a stabilire un nuovo

terreno su cui studiarlo, non è tanto per gli “inediti” che ha portato alla luce quanto perché ha

mostrato l’enorme sproporzione – difficilmente riscontrabile in un altro “classico” – tra quanto

Marx ha scritto e quanto Marx ha pubblicato. E ha in fondo offerto qualche argomento a chi, come

Dardot e Laval, valorizza la metafora della “macchina” da cui si sono prese le mosse. La fine del

marxismo ci consente di apprezzare in modo nuovo il carattere frammentario dell’opera marxiana,

di esplorarne i cantieri sulla base delle nuove acquisizioni delle lotte e degli sviluppi teorici degli

ultimi decenni. Non è quello che è avvenuto all’interno del marxismo, il cui sviluppo è stato

periodicamente caratterizzato dalla pubblicazione di “inediti” attorno a cui si sono accese

polemiche che hanno considerato quaderni di appunti e frammenti di teoria come opere a sé stanti.

È accaduto con i Manoscritti economico-filosofici del 1844, è accaduto – sia pure secondo modalità

e in condizioni diverse – con i Grundrisse, come ha mostrato di recente ad esempio Marcello Musto

(Ripensare Marx e i marxismi. Studi e saggi, Roma, Carocci, 2011). Anche qui si tratta dunque di

disattivare e sospendere le regole di enunciazione e le problematiche che hanno governato, in quel

Novecento che è stato anche il “secolo marxista” (G. Arrighi, Marxist Century, American Century.

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The Marking and Remaking of the World Labour Movement, “New Left Review”, 179, January-

February 1990), la lettura di Marx.

Addentriamoci dunque nei cantieri marxiani. Leggiamo di nuovo i suoi testi senza dimenticare che

la storia di cui sono intrisi non è solo storia di teorie ma anche storia di lotte e di combattimenti di

strada, della violenza del dominio e dello sfruttamento, della faticosa conquista e della materiale

costruzione di libertà e di uguaglianza da parte degli sfruttati. È storia vissuta nella luce incerta e

tuttavia mai spenta di quello che Marx, in una lettera a Ruge del settembre 1843, chiamò il “sogno

di una cosa” (Traum von einer Sache, MEW, I, p. 346), e che avrebbe assunto il nome di

comunismo. Vale in fondo anche qui, per apporre una seconda epigrafe marxista a questo incipit,

quel che Ernst Bloch scriveva di Thomas Münzer nel 1921, all’indomani della fatale sconfitta della

rivoluzione in Germania: “noi vogliamo essere sempre con noi. Così anche qui noi non guardiamo

assolutamente indietro. Ma vivi noi stessi ci mescoliamo. Ed anche gli altri si volgono di nuovo

trasformati, i morti tornano di nuovo, la loro azione vuole compiersi ancora una volta con noi”.

Anche Marx, insomma, è per noi “anzitutto storia in senso fecondo, egli e ciò che è suo e tutto il

passato che merita essere trascritto è qui per impegnarci, per entusiasmarci, per sostenere sempre in

modo più ampio ciò che è da noi continuamente inteso” (E. Bloch, Thomas Münzer teologo della

rivoluzione, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1980, p. 29). Affermare la fine del marxismo e la necessità

del ritorno a Marx, come dovrebbe essere chiaro a questo punto, è un gesto teorico che punta a

riscoprire e a riattivare nel presente la radicalità, il portato sovversivo e rivoluzionario del suo

pensiero e del suo desiderio comunista.

2. Produzione di soggettività

“L’uomo è da concepire come blocco storico di elementi puramente

individuali e soggettivi e di elementi di massa e oggettivi o materiali

coi quali l’individuo è in rapporto attivo. Trasformare il mondo

esterno, i rapporti generali, significa potenziare se stesso, sviluppare

se stesso. […] Perciò si può dire che l’uomo è essenzialmente

‘politico’, perché l’attività per trasformare e dirigere coscientemente

gli altri uomini realizza la sua ‘umanità’, la sua ‘natura umana’”

(Antonio Gramsci, Quaderni del carcere [Quaderno 10, “La filosofia

di B. Croce II”, 1932-1935], Torino, Einaudi, 1975, p. 1338).

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“Noi vogliamo essere sempre con noi”, scriveva Bloch. Nelle nostre esplorazioni dei cantieri

marxiani siamo dunque orientati dai temi su cui ragioniamo e discutiamo nel nostro presente.

Avviamo con questi appunti il primo di una serie di sondaggi, e scegliamo di farlo seguendo il filo

offerto dalla formula “produzione di soggettività”. È una formula attorno a cui si è in qualche modo

riorganizzata negli ultimi trent’anni la riflessione sul soggetto, in filosofia come in psicoanalisi, nel

femminismo come negli studi culturali e postcoloniali (e si potrebbe continuare a lungo elencando

campi e province del sapere). Alle spalle di questa vicenda teorica non vi sono soltanto i dibattiti sul

“postmoderno” tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo, quando pareva a

molti – anche in Italia – che occorresse andare “al di là del soggetto”, magari per indebolire il

pensiero, raffreddare le passioni e comodamente accasarsi nei “tempi nuovi” (cfr. G. Vattimo, Al di

là del soggetto. Nietzsche, Heidegger e l’ermeneutica, Milano, Feltrinelli, 1981). Agiva certo con

forza una stagione di lotte che aveva fatto esplodere le figure della soggettività politica costruite

nell’arco di tre secoli dalla modernità. Ma la formula “produzione di soggettività” fa anche i conti

con l’insieme degli sviluppi teorici che tra Otto e Novecento, tra Marx e Freud, tra Nietzsche e

Heidegger, aveva in effetti prodotto e consumato la crisi di un’immagine del soggetto che aveva più

in generale orientato gli sviluppi della filosofia europea tra Descartes e Kant. È bene non

dimenticarlo quand’anche si sia maturata una notevole insofferenza (come nel caso di chi scrive)

per la stanca ripetizione e per la riduzione a vuoto slogan del sintagma “soggetto cartesiano” in

troppi scritti contemporanei. L’annuncio foucaultiano della morte dell’uomo, destinato a essere

“cancellato, come sull’orlo del mare un volto di sabbia” (Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 414),

non è ovviamente comprensibile al di fuori di questa vicenda di lungo periodo, e intrattiene un

rapporto non occasionale, in particolare, con quanto aveva scritto Martin Heidegger a proposito di

un subjectum che, “traduzione del greco hypokemeinon, […], ciò che sta-prima, ciò che raccoglie

tutto in sé come fondamento”, aveva trovato la propria incarnazione proprio nell’“uomo”:

l’“essenza stessa” di quest’ultimo, chiosava Heidegger in L’epoca dell’immagine del mondo (1938),

“subisce una trasformazione col costituirsi dell’uomo a soggetto” (M. Heidegger, Sentieri interrotti,

trad. it. Firenze, La Nuova Italia, 1984, pp. 85 s.).

Dunque, morto l’uomo è tramontato anche il soggetto? Non è detto. La morte spesso si accompagna

alla nascita, a molte nascite. Che so, si potrebbe dire con qualcosa di più di una battuta: morto

l’uomo, nasce la donna. Il fatto è che anche la donna sarebbe stata di lì a poco investita da una serie

di tensioni che se non ne avrebbero determinato la morte, forse per via di una diversa relazione con

la vita che da sempre la donna intrattiene a differenza dell’“uomo”, avrebbe comunque lacerato il

suo profilo unitario. La storia del femminismo afro-americano e postcoloniale, che la recente

pubblicazione di una silloge italiana degli scritti di Chandra Talpade Mohanty (Femminismo senza

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frontiere. Teorie, differenze, conflitti, Verona, ombre corte, 2012) consente di rivisitare, ha in fondo

questo significato: la “donna nera”, la “donna del Terzo mondo”, la donna “subalterna” sono segni

di questo proliferare di differenze e parzialità che non si lasciano ricondurre a un unico significante.

Di questo proliferare, in ultima istanza, di figure della soggettività nel punto d’incrocio tra

dispositivi di assoggettamento e pratiche di soggettivazione. Ecco delineato in poche battute il

significato generale che assume per me la formula “produzione di soggettività”, come ho anche di

recente sostenuto in un saggio scritto con Sandro Chignola (Fuori dalla pura politica. Laboratori

globali della soggettività, in «Filosofia politica», XXVI [2012], 1). L’uso che così propongo di fare

del concetto di soggettivazione, anch’esso centrale nei dibattiti critici contemporanei (si pensi, per

fare solo due nomi, ai lavori di Étienne Balibar e Jacques Rancière), ne fa uno dei due poli –

accanto all’“assoggettamento” – attorno a cui si determina la “produzione di soggettività”. Ma quel

che conta è precisamente la tensione tra questi due poli, la loro reciproca implicazione in mutevoli

costellazioni storiche, politiche, sociali e culturali (anche qui gli aggettivi si potrebbero moltiplicare

a piacere, ma lasciamo perdere). Diciamolo anzi in termini più netti: lo stesso soggetto diviene

impensabile al di fuori di questo campo di tensione, è esso stesso questo campo di tensione e di

battaglia.

Una ricostruzione genealogica della formula “produzione di soggettività” dovrebbe fare i conti con

due dei più importanti movimenti di pensiero del Novecento, tanto importanti – occorre subito

aggiungere – quanto elusivi, nebulosi: lo “strutturalismo” e il “post-strutturalismo”. Elusivi e

nebulosi, questi movimenti di pensiero, lo sono per ragioni molto semplici: gli autori più importanti

che allo “strutturalismo” sono stati via via associati (da Althusser a Lévi-Strauss, da Lacan a

Foucault) hanno fatto a gara, quantomeno a partire dalla fine degli anni Sessanta, nel dichiarare che

con esso non avevano avuto niente a che fare; il “post-strutturalismo”, per parte sua, prende forma a

partire dalla lettura statunitense di una serie di pensatori francesi che si sarebbero a dir poco

sorpresi di vedere accostati i loro nomi all’interno di un’unica corrente di pensiero. E tuttavia vale

forse la pena di valorizzare proprio quelli che si sono definiti caratteri elusivi e nebulosi di

strutturalismo e post-strutturalismo per accumulare qualche traccia e per arricchire il nostro

riferimento alla “produzione di soggettività”. Interroghiamo intanto il senso del “post” in

poststrutturalismo. “Dopo” che cosa viene quest’ultimo? Soltanto dopo lo strutturalismo? In un

saggio del 1973, intitolato Da che cosa si riconosce lo strutturalismo?, Gilles Deleuze lasciava

intendere fin dalle prime righe la sua risposta: “il punto d’arrivo di questo studio è l’anno 1967” (F.

Chatelet (a cura di), Storia della filosofia, vol. VIII, trad. it. Milano, Rizzoli, 1975, p. 194). Il

corsivo deleuziano non lascia spazio a dubbi sulla natura periodizzante del Sessantotto, crinale su

cui lo strutturalismo non può che aprirsi al suo “post” senza tuttavia smettere di avere “una

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produttività che è quella della nostra epoca” (ivi, p. 216). E questo crinale, attorno a cui si ponevano

in modo nuovo i problemi del “mutamento strutturale” o della “transizione da una struttura

all’altra”, è anche quello su cui riemerge con prepotenza non solo la questione della “prassi” ma

anche quella del soggetto. Lo strutturalismo, scriveva Deleuze, “non è affatto un pensiero che

sopprime il soggetto, bensì un pensiero che lo sbriciola e lo distribuisce in modo sistematico, che

contesta l’identità del soggetto, che lo dissipa e lo fa passare da un posto all’altro, soggetto sempre

nomade, fatto di individuazioni ma impersonali, o di singolarità ma preindividuali” (ivi, p. 214).

Ecco delineati, per quel che ci interessa, l’orizzonte e la problematica del “poststrutturalismo”: lo

studio delle forme di assoggettamento e dei processi di soggettivazione, della “produzione di

soggettività”, dopo la fine del soggetto come hypokeimenon e dopo la “morte dell’uomo”. Lo stesso

lavoro di Deleuze attorno alla categoria di “desoggettivazione” e “asoggettivo” (in particolare nei

libri nati dalla collaborazione con Felix Guattari) si sarebbe collocato all’interno di questo campo.

Il soggetto (la sua produzione) è comunque il tema essenziale attorno a cui ruota dopo il Sessantotto

il lavoro di molti autori associati in un modo o nell’altro allo strutturalismo nel decennio

precedente. Vale ad esempio per Althusser, in particolare per i suoi scritti sugli “apparati ideologici

di Stato” e sul “divenire soggetto” dell’individuo a partire da un’interpellazione esemplificata dal

“banale” richiamo poliziesco: “ehi! Lei, laggiù!” (L. Althusser, Lo Stato e i suoi apparati [1969-

1970], trad. it. Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 193). Non è il caso di ricordare le molte critiche,

spesso del tutto condivisibili, che a questa riformulazione della teoria dell’ideologia attraverso la

categoria di interpellazione sono state rivolte. L’intera questione non figura del resto se non per

accenni nelle pagine che seguono, in attesa eventualmente di tornarvi in una prossima occasione.

Ma era intanto importante segnalare l’intensità di una riflessione che mostra intera la “materialità”

dell’ideologia nel momento stesso in cui colloca la produzione di soggettività sul terreno

dell’“immaginario” (di un immaginario certo riletto attraverso la lezione lacaniana ma dall’interno

di una densa trama spinoziana e marxiana). Più direttamente agiscono nell’impostazione del

problema che qui si propone le sollecitazioni di Michel Foucault, che alla discussione

contemporanea ha offerto del resto buona parte del suo lessico (assoggettamento, soggettivazione,

dispositivi etc.). Non è questa la sede per ricostruire il percorso che ha condotto Foucault a

installare il soggetto e la sua produzione al centro della sua ricerca (si veda comunque, per un

riferimento canonico, M. Foucault, Perché studiare il potere: la questione del soggetto [1983], in

Id., Poteri e strategie, trad. it. Milano, Mimesis, 1994). Io e Brett Neilson, in un libro da poco

terminato (Border as Method, or, the Multiplication of Labor, Durham, NC, Duke University Press,

2013), abbiamo cercato di evidenziare l’importanza in questo percorso del confronto sotterraneo

instaurato da Foucault con Marx. E abbiamo in particolare richiamato l’attenzione su una

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conferenza tenuta a Bahia il primo novembre del 1976, in cui Marx è esplicitamente discusso. Ci

sembrava, e ne abbiamo trovato conferma in un recente e importante intervento di Pierre Macherey

(Le sujet productif [2012], http://uninomade.org/le-sujet-productif/), che Foucault stesse lì seguendo

la traccia offerta dai due lati (individuale e sociale) del concetto marxiano di forza lavoro,

attribuendo al primo (quello individuale) le tecnologie “atomo-politiche” di potere minuziosamente

analizzate in Sorvegliare e punire (1975) e proponendosi di approfondire la ricerca su quelle

corrispondenti al secondo lato, indicate con il termine “bio-politica” – di cui si ha in questo testo

una delle prime occorrenze in Foucault (M. Foucault, Le maglie del potere, trad. it. in Archivio

Foucault. Interventi, colloqui, interviste, 3, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 164).

Individualizzazione e socializzazione: due assi attorno a cui seguire, storicamente e teoricamente, la

produzione di soggettività. In un libro che non è tra i suoi più noti, Antonio Negri collocava del

resto già nel 1987 in modo molto preciso questa problematica in un contesto marxiano,

riformulando una serie di temi e concetti classici: “la società della sussunzione reale”, scriveva

Negri, “si caratterizza anche come tentativo di produzione diretta della soggettività”. La categoria di

“sussunzione reale” era del resto già stata al centro della lettura negriana dei Grundrisse (A. Negri,

Marx oltre Marx, Milano, Feltrinelli, 1979). Qui Negri la collegava direttamente alla produzione di

soggettività e allo scompaginamento del nesso tra “determinazioni strutturali e determinazioni

sovrastrutturali, che attraversa la soggettività”. “È come una nuova accumulazione primitiva”,

aggiungeva: “come in quella, in questa fase di sussunzione reale si costruiscono non solo le

condizioni della riproduzione sociale, ma anche gli attori, i portatori, i soggetti di questa

produzione” (A. Negri, Fabbriche del soggetto, Livorno, 1987, pp. 76 s.). Ecco nominati alcuni dei

concetti e dei problemi essenziali con cui ci confronteremo nelle pagine che seguono. Senza

dimenticare che la formula “produzione di soggettività” ha in riferimento a Marx sempre un duplice

significato, ovvero che doppio (soggettivo e oggettivo) è il significato del genitivo che la

costituisce: all’interno del modo di produzione capitalistico, in altri termini, essa indica al contempo

“la costituzione della soggettività, di uno specifico comportamento soggettivo, e la potenza

produttiva della soggettività, la sua facoltà di produrre ricchezza” (J. Read, The Micro-Politics of

Capital. Marx and the Prehistory of the Present, Albany, State University of New York Press,

2003, p. 153). È dall’interno di questa duplicità, come ha ricordato di recente Ranabir Samaddar,

che Marx pone il problema della “liberazione della soggettività, ovvero della soggettività

rivoluzionaria” (R. Samaddar, The Emergence of the Political Subject, New Delhi, Sage, 2010, p.

xxviii).

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3. Un doppio inizio

“La situazione particolare, che rende tanto difficile la comprensione

teorica del problema marxismo e filosofia, consiste nel fatto che

apparentemente questo travalicare i limiti del punto di vista borghese

– e solo esso trasforma il contenuto essenzialmente nuovo del

marxismo in oggetto comprensibile – porterebbe in pari tempo alla

soppressione e alla distruzione dell’oggetto in quanto filosofico”

(Karl Korsch, Marxismo e filosofia [1923], trad. it. Milano, SugarCo,

1978, p. 48).

Una volta segnato, sia pure per accenni, il campo teorico contemporaneo al cui interno si pone il

problema della “produzione di soggettività” è opportuno dire qualcosa sul modo in cui questo stesso

problema, diversamente nominato, si presentava al giovane Marx. Tanto sotto il profilo dei concetti

politici quanto sotto il profilo dei concetti filosofici, il confronto con Hegel è qui ineludibile. Per la

semplice ragione che era lo stesso Marx a considerarlo tale in quello che solo per comodità analitica

possiamo chiamare un “doppio inizio”: inestricabile è infatti da subito, per Marx, il nesso che

stringe politica e filosofia in termini tanto concettuali quanto storici. Tanto più dopo Hegel. “La

nostra epoca è politica; la nostra politica vuole la libertà di questo mondo”, aveva scritto nel 1842

Arnold Ruge, dando lapidaria espressione a questo incrocio di politica e filosofia nella storia (A.

Ruge, La filosofia hegeliana del diritto e la politica del nostro tempo [1842], trad. it. in “Annali di

Halle” e “Annali tedeschi” [1838-1843], Firenze, La Nuova Italia, 1981, p. 205). Limitiamoci – a

proposito di Hegel – a pochi cenni, anche qui con l’obiettivo di segnare un campo e di delineare i

contorni di una problematica. È negli anni di Jena che Hegel porta logicamente a compimento lo

sviluppo del contrattualismo moderno nel momento stesso in cui ne articola una critica rigorosa e

definitiva (cfr. G. Duso, La critica hegeliana del giusnaturalismo nel periodo di Jena, in Id., a cura

di, Il contratto sociale nella filosofia politica moderna, Bologna, Il Mulino, 1987). Si potrebbe così

riassumere il punto che maggiormente mi interessa: il problema delle condizioni non individuali

dell’individualità, presente sotto traccia nel pensiero politico moderno fin da Hobbes (non vi sono

individui senza sovranità, per quanto il patto produca l’illusione ottica della pre-esistenza degli

individui al Leviatano), è assunto con decisione da Hegel come tema fondamentale della sua

riflessione. Ne deriva un essenziale movimento, che investe l’insieme dei concetti e degli istituti in

cui la politica è stata modernamente pensata e articolata. “Si incontra innanzitutto la vana astrazione

di un concetto dell’universale libertà di tutti, la quale sarebbe separata dalla libertà dei singoli”,

scrive Hegel nel 1802 con trasparente riferimento a Rousseau; “poi, d’altro lato, appunto questa

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libertà dei singoli, parimenti isolata” (G.W.F. Hegel, Scritti di filosofia del diritto [1802-1803],

trad. it. Bari, Laterza, 1962, p. 57). È questa opposizione astratta tra i “singoli” e i “tutti” che deve

essere superata.

Importa qui più la posizione (o la riapertura) del problema da parte di Hegel di quanto non

importino le soluzioni – che già in questi anni egli comincia a cercare in un nuovo concetto di

“costituzione” (Verfassung) e sul piano dell’“eticità”. L’opposizione tra individuo e potere sovrano,

attorno a cui si era sviluppato l’intero giusnaturalismo, appare spezzata, l’individuale e il collettivo

(il singolare e il comune, per usare termini che ricorrono negli scritti hegeliani, non sempre con il

medesimo significato di particolare e universale) si presentano come figurazioni non

necessariamente stabili prodotte da un movimento che conosce sì i propri “momenti” e la propria

articolazione ma che ha anche, filosoficamente e politicamente, una sua propria autonoma

consistenza come movimento produttivo. In un libro dedicato alla ricostruzione storico-filosofica

della figura del “cittadino/soggetto”, Étienne Balibar ha mostrato lo svolgimento di questa

problematica hegeliana nella Fenomenologia dello spirito. “Io che è Noi, e Noi che è Io” (Ich, das

Wir, und Wir, das Ich ist”) e “l’attività di tutti e di ciascuno” (das Tun aller und jeder): sono queste

le due formule su cui maggiormente lavora Balibar. Ancora l’individuale e il collettivo, stretti in un

nesso che impedisce di pensarli come termini opposti e sembra piuttosto indicare in una

problematica “messa in comune” il luogo della soggettività (É. Balibar, Citoyen sujet et autres

essais de anthropologie philosophique, Paris, PUF, 2011, in specie p. 238). E d’altro canto: lo

stesso concetto di universale pare a Balibar aprirsi in direzione del comune, nella filigrana

dell’Allgemeinheit traspare ciò che è all(en) gemein, a tutti comune (ivi, p. 269). Leggiamo il brano

in cui compare la seconda delle formule hegeliane richiamate (e conviene farlo tenendo a mente il

marxiano “sogno di una cosa”): “la Cosa stessa è un’essenza il cui essere consiste, a un tempo,

nell’attività del singolo individuo e in quella di tutti gli individui, e la cui attività è immediatamente

per altri, è una Cosa; essa è cosa soltanto come attività di Tutti e di Ciascuno, è l’essenza che

costituisce l’essenza delle essenza: la cosa stessa è l’essenza spirituale” (G.W.F. Hegel,

Fenomenologia dello spirito, ed. it. con testo tedesco a fronte, Milano, Bompiani, 2000, p. 565).

Die Sache selbst, la cosa stessa, vale qui la “causa” o “l’affare comune”, come Balibar afferma

convocando l’autorità di traduttori e grandi interpreti francesi di Hegel (J.-P. Lefebvre, J.

Hyppolite). Viene così meglio in luce lo spiazzamento operato da Hegel rispetto alla questione

aristotelica di ciò che costituisce il “proprio dell’uomo”: “l’ergon idion, l’opera propria che è anche

l’‘opera particolare’, deve divenire anche un koinon ergon, ‘una causa comune che si realizza in

un’opera’, attraverso cui l’attività individuale comunica con l’universale” (Balibar, Citoyen sujet,

cit., pp. 271 s.). È nello spazio aperto da questo spiazzamento che si colloca il doppio inizio di

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Marx, nella filosofia e nella politica, nell’unità che le stringe e che proprio attorno al problema del

soggetto si dà a vedere nel modo più chiaro.

Leggiamo da questo punto di vista un passo di quelli che conosciamo come Manoscritti economico-

filosofici del 1844: “il lavoro, l’attività vitale, la vita produttiva stessa appaiono all’uomo in primo

luogo soltanto come un mezzo per la soddisfazione di un bisogno, del bisogno di conservare

l’esistenza fisica. Ma la vita produttiva è la vita della specie. È la vita che produce la vita (das

Leben erzeugende Leben). In una determinata attività vitale sta interamente il carattere di una

‘species’, sta il suo carattere specifico; e l’attività libera e cosciente è il carattere dell’uomo. La vita

stessa appare soltanto come mezzo di vita” (MEF, pp. 77 s.). “La produzione produce l’uomo”,

dunque (MEF, p. 90). Produzione di vita, produzione dell’uomo, la “creazione pratica di un mondo

oggettivo” (MEF, p. 78): ecco delineata, in poche battute, la problematica marxiana. Nell’enfasi

posta sul momento della produzione, su una “creazione” spogliata di ogni carattere trascendente,

possiamo ascoltare echi epicurei e lucreziani, possiamo vedere la traccia delle grandi tradizioni del

materialismo rinascimentale. Ma lo scarto con quello che si presentava a Marx come materialismo

all’indomani della morte di Hegel non potrebbe essere più netto. Prima tesi su Feuerbach (1845): “il

difetto principale d’ogni materialismo fino a oggi (compreso quello di Feuerbach) è che l’oggetto,

la realtà, la sensibilità, vengono concepiti solo sotto la forma dell’obietto o dell’intuizione; ma non

come attività sensibile umana (sinnlich menschliche Tätigkeit), prassi; non soggettivamente (nicht

subjektiv)”. Fissiamo questo punto: non v’è materialismo, per Marx, se non superando

l’opposizione di soggetto e oggetto e la mediazione del loro rapporto attraverso l’“intuizione” –

ovvero rinnovando profondamente l’immagine stessa del soggetto. Hegel dovrà certo essere

“rovesciato”, perché, come si legge ancora nella prima tesi su Feuerbach, “il lato attivo fu

sviluppato astrattamente, in opposizione al materialismo, dall’idealismo – che naturalmente non

conosce l’attività reale, sensibile in quanto tale”. L’intensità della riflessione marxiana di questi

anni sull’“estraneazione”, sull’“alienazione” (categorie, lo si ricordi, hegeliane) segnala del resto,

per riprendere i termini impiegati da Balibar, una radicale interruzione nella “comunicazione”

dell’attività individuale con l’“universale”. Ma il “materialismo nuovo” che Marx annuncia nelle

tesi su Feuerbach non tornerà indietro rispetto a Hegel. E avrà piuttosto il suo punto d’onore nel

tenere ferma – come chiave di una complessiva ricostruzione dell’ontologia – la centralità

dell’“attività sensibile umana”: di quella “attività pratica degli individui” che spiazza le alternative

che dividevano la filosofia tedesca post-hegeliana, quella tra “reale” e “razionale” non meno di

quella tra “sostanza” e “coscienza” (cfr. Dardot – Laval, Marx, prénom: Karl, cit., cap. II).

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Ontologia, si è detto, dottrina dell’essere. L’essere appare in questi anni, a Marx, come “essere di

massa” (massenhaftes Sein), in cui l’uomo è immerso (HF, p. 56). Ontologia dell’immanenza,

ontologia dell’essere sociale, ontologia delle relazioni attraverso cui sempre di nuovo l’uomo

costruisce la sua storia e produce la sua “natura”: l’“esserci dell’uomo per l’altro uomo, la sua

relazione umana con l’altro uomo, il rapportarsi sociale dell’uomo all’uomo” (HF, p. 44). È celebre

del resto l’affermazione contenuta nella sesta tesi su Feuerbach: “l’essenza umana non è qualcosa di

astratto che sia immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà essa è l’insieme dei rapporti

sociali (in seiner Wirklichkeit ist es das ensemble der gesellschaftlichen Verhältnisse)” (se ne veda

il commento in É. Balibar, La filosofia di Marx, trad. it. Roma, Manifestolibri, 1994, pp. 32 ss.).

Meno commentato è un altro passo di questi stessi anni, in cui la critica dell’astrazione si carica di

valenze ulteriori. In questione è qui, in La sacra famiglia (1845), la critica della “critica critica” di

Bruno Bauer “e consorti”. Questa critica, scrivono Marx ed Engels, “troneggia nella solitudine

dell’astrazione; essa pare occuparsi di un oggetto, ma non esce dalla sua solitudine priva d’oggetto

per entrare in un rapporto realmente sociale con un oggetto reale, perché il suo oggetto è soltanto

l’oggetto della sua immaginazione, è soltanto un oggetto immaginato” (HF, p. 167). La critica

dell’astrazione è qui critica della “solitudine”, di un soggetto che afferma la propria sovranità (che

“troneggia”) soltanto nella misura in cui si erge solo al di sopra del mondo delle cose e degli uomini

– per ritrovarsi a maneggiare soltanto un “oggetto immaginato”. Una mera apologia di questa

solitudine appare conseguentemente a Marx l’immagine degli individui che abitano la società

borghese come “atomi”, condannati a muoversi irrelati in un mondo “vuoto” (cfr. HF, pp. 127 s.).

Essi sono piuttosto, per riprendere una grande immagine dall’Ideologia tedesca (1845-1846),

“individui empiricamente universali” (IT, p. 34), uomini che sono sì diventati “individui astratti, ma

proprio per questo e solo per questo sono messi in condizione di entrare come individui in

collegamento tra loro” (IT, p. 72). Il massimo di isolamento coincide qui con il massimo di socialità

(cfr. L. Basso, Socialità e isolamento: la singolarità in Marx, Roma, Carocci, 2008). È all’interno

di questo nesso che occorre collocarsi, per studiare le condizioni che hanno condotto a strappare

l’individuo all’insieme di condizioni (evidentemente non individuali, bensì “universali”) che pure,

“empiricamente”, ne determinano l’esistenza – e ne producono la soggettività. Contro la “critica

critica” si tratta di mettere al centro della ricerca “l’attività essenziale del soggetto reale, che vive e

soffre nella società presente, partecipando dei suoi tormenti e delle sue gioie” (HF, 169).

Siamo così passati, quasi senza accorgercene, dal primo inizio, quello filosofico, al secondo, quello

politico: sono del resto lo Stato e la proprietà privata i dispositivi, come oggi diremmo, che

“trasformano gli uomini in astrazioni” in quanto essi stessi “prodotti dell’uomo astratto” (HF, p.

204). Si vede bene come il tema che si è scelto come filo conduttore di questa esplorazione dei

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cantieri marxiani – la produzione di soggettività – illumini fin dalle opere giovanili la “specularità”

di Stato e proprietà privata. Nel punto d’incrocio tra i due inizi di Marx c’è poi necessariamente la

religione, terreno eminente di esercizio della critica nella filosofia post-hegeliana. Sarebbe

interessante mostrare come Marx assuma anche qui una posizione di grande originalità, seguendo

una traccia essenzialmente spinoziana (cfr. K. Marx, Quaderno Spinoza 1841, trad. it. Torino,

Bollati Boringieri, 1987). Emergerebbe così – rispetto ai passi che si sono appena visti della Sacra

Famiglia – una diversa valenza, affatto materiale e incardinata nei processi di produzione storica

della soggettività, dell’immaginazione. Il punto che qui maggiormente rileva è tuttavia un altro:

ancora polemizzando con Bruno Bauer, in La questione ebraica (1844) Marx determina uno

spiazzamento della politica moderna che ne investe in profondità le logiche e le categorie. Al centro

del suo ragionamento è nuovamente la figura di soggettività corrispondente allo Stato moderno,

solcata da una radicale scissione (Spaltung) tra il lato pubblico e il lato privato della sua esistenza,

tra “la vita nella comunità politica (im politischen Gemeinwesen)” e “la vita nella società civile”

(QE, p. 58). Il riconoscimento da parte di Marx di quella che altri avrebbe chiamato la struttura

“teologico-politica” della moderna forma Stato è netto: “la religione è il riconoscersi dell’uomo per

via indiretta. Attraverso un mediatore. Lo Stato è il mediatore tra l’uomo e la libertà dell’uomo”

(QE, p. 56). Quanto più “il mediatore” si perfeziona, quanto più “lo Stato politico perfetto (der

vollendete politische Staat)” dà espressione, rappresentandola, alla “vita generica (Gattungsleben)

dell’uomo”, tanto più si approfondisce la scissione tra quest’ultima e la “vita materiale” dell’uomo

stesso (QE, p. 57). Al contrario della “critica critica” di Bauer, la critica marxiana non può dunque

arrestarsi al terreno della “pura politica”: l’analisi dell’“emancipazione degli ebrei” diventa anzi

occasione per una critica complessiva dell’“emancipazione politica”, nonché di concetti come

democrazia e cittadinanza. Il movimento della critica va del resto apprezzato nella sua specificità: la

politica è innanzitutto assunta da Marx nei suoi effetti di realtà, a loro volta descritti sotto il profilo

della produzione di una figura specifica della soggettività nel tempo storico in cui lo Stato si è

affermato come monopolista della politica stessa. Non è qui, dall’interno di questa “politica”, che si

può muovere verso il superamento della “scissione” sopra indicata. L’orizzonte è dunque segnato:

quella che Marx chiama in La questione ebraica “emancipazione umana” (QE, p. 66) indica lo

scarto che si è comunque prodotto rispetto alla politica moderna. L’aggettivo, “umana”, sarà messo

a dura prova dagli sviluppi degli anni successivi, sia per la progressiva presa di distanza di Marx

dall’“umanesimo giovanile” sia per il peso che assumerà in modo sempre più deciso nel suo lavoro,

accanto allo Stato, un’altra potenza storica caratterizzata da precise modalità di produzione di

soggettività: il Capitale. Ma al centro del pensiero e dell’azione di Marx resterà il rompicapo della

liberazione. Per intanto, la politica è per così dire messa in dissolvenza.

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Ma non è quel che accade anche con la filosofia? Non v’è in Marx un urto continuo, in questi anni,

contro il limite della filosofia? Non avvia il “nuovo materialismo”, quantomeno nelle intenzioni, la

dissolvenza della filosofia stessa? A me pare evidente che le cose stiano così. Non dimentichiamo le

difficoltà, le vere e proprie aporie che segnano il programma di Marx tanto in politica quanto in

filosofia. Mi interessa di più, tuttavia, segnalare che, pensato insieme, questo doppio movimento di

dissolvenza sembra indicare un rapporto tra filosofia e politica decisamente diverso da quello che

Jacques Rancière ha definito in riferimento a Marx con la formula “meta-politica” (J. Rancière, La

Mésentente. Politique et philosophie, Paris, Galilée, 1995, pp. 118 ss.). Decisiva non è in Marx,

neppure in La questione ebraica, la denuncia della “non-verità” della politica, la scoperta del

sociale come “verità del politico”. Una volta presi sul serio gli “effetti di realtà” della politica

moderna, e una volta misurati questi effetti sul terreno specifico della produzione di soggettività, il

“sociale” non può in particolare, se non per un’illusione ottica, essere pensato come altro dalla

politica, appunto come sua “verità”. Quella di Marx è semmai, se vogliamo giocare con le formule,

una “anti-politica”, nel senso preciso di una politica che incorpora al proprio interno l’elemento che

la eccede e ne mostra continuamente il limite.

4. Il soggetto della storia, il soggetto nella storia

“E molti di noi affondarono nei pressi

delle coste, dopo lunga notte, alla prima aurora.

Verrebbero, dicevamo, se solo sapessero.

Che sapevano, noi non lo sapevamo ancora”

(Bertold Brecht, L’abicì della guerra [1945], n. 48, trad. it. in

Poesie, vol. II, Torino, Einaudi, 2005, p. 509).

Il “nuovo materialismo” è prima di tutto materialismo storico. E la storia si presenta prima di tutto a

Marx come regno della libertà: “la storia non fa nulla”, leggiamo ancora in La sacra famiglia, “è

l’uomo, l’uomo reale, vivo, che fa tutto, che possiede, che lotta. Non è ad esempio la ‘Storia’ che ha

bisogno dell’uomo come mezzo, per realizzare i suoi scopi, come se fosse una persona originale: al

contrario essa non è null’altro che l’attività degli uomini che perseguono i propri scopi” (HF, p.

98). Durerà poco questa inebriatura di libertà, l’ombra della “necessità” si distenderà

progressivamente sulla storia nella stessa riflessione marxiana. L’ineluttabilità della rivoluzione

verrà ammantandosi in molte pagine di Marx (per tacere dei marxismi) di un carattere “oggettivo”,

il movimento della “struttura” sembrerà esso stesso il soggetto della storia, a cui si affiderà il

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“maturare” delle condizioni per il superamento del capitale. In un testo tanto breve quanto celebre,

la prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica, la successione dei modi di

produzione (“asiatico, antico, feudale, borghese”) è presentata come successione di “epoche che

marcano il progresso della formazione economica della società”. E Marx scrive: “una formazione

sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dar corso; nuovi

e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla

vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza” (C, I, p. 958). Certo, il Manifesto del

partito comunista (1848) aveva proclamato fin dalle prime sue righe: “la storia di ogni società

esistita fino a questo momento è storia di lotte di classi” (MPC, p. 100). Ma qual è il ruolo della

lotta di classe nel “maturare” delle condizioni di “nuovi e superiori rapporti di produzione”? Come

interviene la soggettività dentro e contro questo processo? E di quale soggettività stiamo parlando,

della “classe” o forse di un’avanguardia, di un “partito”? Sono domande che, indipendentemente

dagli sviluppi teorici e politici successivi alla sua morte, interpellano radicalmente il pensiero di

Marx, attraversato da una continua oscillazione e da formidabili tensioni rispetto al problema che

quelle stesse domande pongono. In una pagina del 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852), i termini

di questo problema sono fissati in modo tanto preciso quanto impegnativo dal punto di vista teorico:

“gli uomini fanno la storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi,

bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla

tradizione” (18B, p. 172). Si deve qui cogliere un elemento di “pessimismo” marxiano, dovuto agli

sviluppi della rivoluzione del ’48, bagnati del sangue degli insorti di giugno a Parigi? Non parrebbe,

se è vero che già in L’ideologia tedesca possiamo rinvenire formulazioni che anticipano quella che

si è appena citata (cfr. ad es. IT, pp. 35 s.), a partire da una riflessione sull’“estraneazione” (IT, p.

33). È più corretto vedervi lo svolgimento di un problema interno allo stesso “nuovo materialismo”

di Marx, del problema cioè del rapporto, costitutivo dell’“attività pratica degli individui”, che

quest’ultima intrattiene tanto con “le condizioni determinate al cui interno essa si svolge quanto con

quelle che essa stessa produce: ogni attività è condizionata e produce delle nuove condizioni

trasformando quelle che essa ha dapprima ‘incontrato’ davanti a sé, come ‘date’ al di fuori di sé e

indipendentemente da sé” (Dardot – Laval, Marx, prénom: Karl, cit., p. 139).

Restiamo alla formulazione del 18 brumaio. Vi si può vedere enunciato un tema che segnerà, in

particolare in Germania, la grande cultura “borghese” dei decenni successivi, tra storicismo (W.

Dilthey), “sociologia classica” (G. Simmel, M. Weber) ed ermeneutica filosofica (H.G. Gadamer).

Si tratta di sviluppi in cui prevarranno progressivamente tonalità “tragiche” nella descrizione della

“gabbia d’acciaio” che progressivamente si stringe attorno alla libertà del soggetto nella storia:

l’ultimo Simmel, quello della “tragedia della cultura”, è da questo punto di vista esemplare. La

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pagina marxiana appare più controllata, anche se l’immagine con cui prosegue il passo citato non è

delle più rassicuranti: “la tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul

cervello dei viventi…” (18B, p. 172). Ciò nondimeno, per quanto non “in modo arbitrario”, sono

pur sempre “gli uomini” che “fanno la storia”. Si sarebbe tentati di parlare di equilibrio marxiano. E

tuttavia credo che nulla sarebbe più sbagliato: in questione non è qui una semplice opposizione tra

le “circostanze” oggettive e gli “uomini”, bensì un’altra lacerazione che attraversa il soggetto.

Gayatri Spivak, commentando un altro passo del 18 brumaio, ha scritto che “Marx è obbligato a

costruire i modelli di un soggetto diviso e dislocato, le cui parti non sono continue e coerenti tra

loro” (G. Ch. Spivak, Critica della ragione postcoloniale (1999), trad. it. Roma, Meltemi, 2004, p.

271). Il punto è che il soggetto è al tempo stesso prodotto dalle “circostanze” che gli si presentano

come esterne, come “oggettive”, e produttore di quelle medesime circostanze, tanto nel senso che

esse nulla hanno di naturale (essendo state a loro volta prodotte da uomini che hanno fatto la storia)

quanto nel senso che, sapendole costruite, il soggetto può trasformarle o distruggerle. La

“divisione”, come sottolinea Spivak, attraversa il soggetto stesso, non scinde soggetto e oggetto. Più

che alla ricerca dei passi marxiani in cui l’“oggettivismo” che dominerebbe la critica dell’economia

politica cede il campo alla “logica della guerra di classe” (questa, un poco semplificando, è l’ipotesi

su cui lavorano Dardot e Laval nel libro più volte citato), si tratta allora di forzare l’analisi proprio

sul terreno della produzione di soggettività. E qui l’“equilibrio”, nella prospettiva marxiana, non

potrà che apparire come forma della dominazione, come capacità – per riprendere due categorie che

si sono già incontrate (e che Marx utilizza anche prima del ’48 [cfr. MF, p. 79] – dei “rapporti di

produzione” di contenere al proprio interno le “forze produttive”. A ben vedere, il brano del 18

brumaio anticipa sul terreno della storia la tensione e l’antagonismo tra queste categorie cruciali

della critica dell’economia politica, riformulando una classica problematica machiavelliana.

“Fortuna” (le “circostanze”) e “virtù” (la capacità degli uomini di “fare la storia”) vengono qui a

indicare i due poli attorno a cui si determina materialmente la costituzione del soggetto. La

riflessione marxiana terrà fermo questo schema analitico negli anni successivi, e il problema che ne

occuperà il centro – minacciando di tanto in tanto di trasformarsi in un rompicapo – sarà la

fondazione teorica (e al tempo stesso necessariamente politica) di quello che possiamo chiamare il

momento dell’eccedenza soggettiva. Detto in altri termini: di una libertà materialisticamente

rinnovata nella storia.

Nella storia, in ogni caso, gli “uomini reali” (noi aggiungeremmo “e le donne reali”, ma non usava

ai tempi di Marx…) vivono e soffrono, lottano e fanno i conti con le “circostanze” in cui si trovano

ad agire. Lo stesso Marx, in quanto “uomo reale”, partecipò intensamente tanto dei “tormenti”

quanto delle “gioie” della porzione di storia che gli capitò di vivere. Il ’48, in questo senso, fu per

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lui – come del resto per l’intera Europa – un tornante decisivo. All’inizio di quell’anno usciva il

Manifesto del partito comunista, con l’obiettivo di “farla finita con la favola dello spettro del

comunismo” e di esporre “apertamente in faccia a tutto il mondo” il programma dei comunisti

(MPC, pp. 64 s.). Di questo testo, pamphlet politico tra i più straordinari e influenti che siano mai

stati scritti, conviene qui evidenziare un unico punto: la potenza di anticipazione teorica di una

presa di parola che diventa immediatamente politica. Gli anni Quaranta dell’Ottocento erano stati

caratterizzati da grandi dibattiti sulla “questione sociale”, su cui appunto aleggiava lo “spettro” del

comunismo. La rivolta dei canut (i tessitori di seta) di Lione del 1831 aveva prefigurato l’irruzione

sulla scena europea di un nuovo e minaccioso soggetto, che l’anno successivo Blanqui avrebbe

nominato con un termine antico: proletario. Ma certo, all’inizio del 1848 non erano in molti a

pensare che nel corso di quell’anno i “due grandi campi nemici”, le “due grandi classe contrapposte

l’una all’altra”, “borghesi e proletari” (MPC, p. 101) si sarebbero scontrati armi in pugno. Non

sembravano esservene le “condizioni oggettive”, per riprendere il tema appena trattato, e ancora a

febbraio, a Parigi, borghesi e proletari avevano lottato fianco a fianco contro la monarchia di luglio

e per la repubblica. Poi venne giugno, “la terribile insurrezione in cui venne combattuta la prima

grande battaglia tra le due classi in cui è divisa la società moderna” (LCF, p. 44). Alexis de

Tocqueville riconobbe nei suoi Ricordi (1851), da posizioni politiche antitetiche rispetto a quelle di

Marx, la cesura che questa insurrezione determinò rispetto alla moderna storia delle rivoluzioni:

“gli insorti combatterono senza grido di guerra, senza capi, senza bandiere, e tuttavia presentando

un insieme meraviglioso e un’esperienza militare che meravigliò i più vecchi ufficiali. Quello che la

distinse ancor più tra gli avvenimenti del genere accaduti da sessant’anni a questa parte tra noi, fu il

fatto che essa non ebbe per iscopo quello di cambiare la forma di governo, ma di alterare l’ordine

della società. A dir la verità non fu una lotta politica (nel senso che avevano dato fino allora a

questa parola), ma una lotta di classe, una specie di guerra servile” (A. de Tocqueville, Scritti

politici, vol. I, Torino, Utet, p. 422). Marx, questa cesura, la aveva anticipata.

“Le locomotive della storia”: così Marx, in Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 (una serie

di articoli “storici” scritti in presa diretta sugli eventi), definisce le rivoluzioni (LCM, p. 132). Ci

sono momenti, nella storia, in cui il tempo accelera vertiginosamente. Ma in quale direzione? In

quella “oggettivamente” stabilita dalla “ragione”, dal “progresso” o dalle “leggi di movimento”

della struttura economica? Conviene leggere sulla base di questa domanda gli scritti marxiani sul

’48. A me pare che si debba parlare, a questo proposito, di una concentrazione nel tempo di una

serie di vettori di sviluppo, di una loro scomposizione e di una tendenziale esplosione dell’unità

della storia stessa. Certo, la pagina marxiana spesso ci rassicura sull’esito di questo complesso

movimento. Quando leggiamo che “la rivoluzione va fino in fondo alle cose”, che “lavora con

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metodo”, intravediamo il sicuro riscatto della sconfitta di giugno, nel giorno in cui “l’Europa

balzerà fuori dal suo seggio è griderà: ben scavato, vecchia talpa!” (18B, pp. 300 s.). Ma dovrebbe

forse stupirci questa “rassicurazione” nello scritto di un rivoluzionario non pentito? Evidentemente

no: si renda piuttosto l’onore delle armi al vecchio Karl! Ciò che mi interessa di più, sotto il profilo

teorico, è quello che ho chiamato il movimento di scomposizione e la tendenziale esplosione dei

diversi sviluppi ricostruiti da Marx negli scritti sul ’48 – nonché dei tempi storici che li

caratterizzano. Da una parte almeno due storie di lungo periodo conoscono, passando attraverso

l’“imbuto” della rivoluzione del ’48, un’accelerazione che non sembra alterarne il corso da tempo

intrapreso: quella della moderna forma Stato (“tutti i rivolgimenti politici non fecero che

perfezionare questa macchina, invece di spezzarla”, 18B, p. 302) e quella del capitale

(“l’aristocrazia finanziaria non solo non è stata abbattuta dalla rivoluzione, ma anzi ne ha tratto

maggior forza”, LCF, p. 150). C’è però almeno una terza storia che corre parallela a queste, le

attraversa e le condiziona acquisendo progressivamente autonomia: è quella che potremmo

chiamare la storia politica dei subalterni (termine che Marx non usa e che provvisoriamente

adottiamo, seguendo più Spivak che Gramsci, per enfatizzare la problematicità della “nominazione”

dei suoi soggetti). È una storia contraddistinta da uno specifico regime di accumulazione di

esperienze, di invenzione di istituti, di linguaggi, di rapporti, da tempi propri e da originali

dispositivi di produzione di soggettività. “La rivoluzione di febbraio era stata la bella rivoluzione”,

scrive Marx, “la rivoluzione della simpatia generale, perché gli antagonismi che erano scoppiati in

essa contro la monarchia sonnecchiavano tranquilli l’uno accanto all’altro, non ancora sviluppati”.

Ecco nuovamente posto il problema delle “circostanze”, della “maturazione” delle condizioni

“oggettive” della rivoluzione. Il punto è che qui i tempi di maturazione sono bruciati, non passano

che quattro mesi e subentra la rivoluzione di giugno, “la rivoluzione brutta, la rivoluzione

ripugnante, perché al posto della frase è subentrata la cosa, perché la repubblica stessa ha svelato la

testa del mostro, abbattendo la corona che la proteggeva e la copriva” (LCF, p. 45).

Nello scarto tra febbraio e giugno intravediamo dunque i lineamenti di un’altra storia. E nell’analisi

marxiana cogliamo preziose indicazioni di metodo per ricostruire in chiave genealogica la forza con

cui le lotte e i movimenti dei subalterni fanno la (propria) storia: si pensi all’analisi dei “club”, in

cui Marx vede “altrettante Assemblee costituenti del proletariato” (LCF, p. 84), ma anche

all’insistenza sulla capacità dell’autonoma iniziativa proletaria di dettare il ritmo dello sviluppo

delle forme istituzionali borghesi, dapprima elaborando “alla perfezione il potere parlamentare, per

poterlo rovesciare”, poi spingendo “alla perfezione il potere esecutivo” per “concentrare contro di

esso tutte le sue forze di distruzione” (18B, pp. 300 s.). Sarà bene non dimenticare che su questa

storia incombe il massacro degli insorti di giugno. E sarà dunque il caso, una volta riconosciuta la

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sua autonomia, di non isolare analiticamente la storia politica dei subalterni dalla costellazione più

generale in cui si inserisce. A me pare tuttavia che l’indicazione marxiana sia preziosa, tanto per il

lavoro storiografico quanto per quello teorico-politico. Possiamo scorgervi del resto, sia pure in

frammenti, una traccia di riflessione non soltanto su un’“altra storia” ma anche su un’“altra

politica”, che emerge nella dissolvenza di quella costruita dallo Stato moderno. Già nei Manoscritti

del 1844, del resto, Marx aveva cercato di fissare questa traccia, alludendo a quello che possiamo

chiamare un momento di eccedenza strutturale della lotta proletaria rispetto ai suoi obiettivi

immediati. “Quando gli operai comunisti si riuniscono”, aveva annotato, “essi hanno primamente

come scopo la dottrina, la propaganda, ecc. Ma con ciò si appropriano immediatamente di un nuovo

bisogno, del bisogno della società, e ciò che sembra un mezzo è diventato scopo”. E aveva

aggiunto: “questo movimento pratico può essere osservato nei suoi risultati più luminosi, se si

guarda a una riunione di ‘ouvriers’ socialisti francesi. Fumare, bere, mangiare, ecc. non sono più

puri mezzi per stare uniti, mezzi di unione” (MEF, p. 137). Ripetiamolo: è un’annotazione. Che può

tuttavia rivelarsi preziosa.

5. Lavoro vivo

“Se l’alienazione del lavoro significa un totale annullamento ed

estraneazione della natura umana, lo stesso lavoro deve essere allora

inteso come espressione e realizzazione propria e peculiare della

natura umana. Ma ciò significa che esso è concepito come una

categoria filosofica.

Anche se le cose stanno, dunque, nel modo che abbiamo cercato di

spiegare, non oseremmo tuttavia usare a proposito della teoria

marxiana un termine di cui è stato fatto così cattivo uso come quello

di ontologia, se non lo usasse esplicitamente Marx”

(Herbert Marcuse, Nuove fonti per la fondazione del materialismo

storico [1932], trad. it. in Id., Marxismo e rivoluzione, Torino,

Einaudi, 1975, p. 73).

Passarono solo pochi anni dalle rivoluzioni del ’48, e già queste ultime venivano definite da Marx

“soltanto dei poveri episodi – piccole rotture e crepe nella dura crosta della società europea”.

“Eppure”, aggiungeva, “esse resero visibile una voragine. Esse rivelarono, al di sotto della

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superficie apparentemente solida, un mare di materia fluida, che aveva solo bisogno di espandersi

per mandare in frantumi continenti di roccia compatta” (MEW, XII, p. 3). Al momento di scrivere

queste righe, nel 1856, Marx viveva ormai da diversi anni in esilio a Londra, in quell’Inghilterra

che, in quanto “domina il mercato mondiale”, gli appariva già in Le lotte di classe in Francia come

il paese in cui la prossima rivoluzione avrebbe dovuto trovare il proprio “inizio di organizzazione”

(LCF, p. 124). Intanto si era immerso nel “mare di materia fluida” della critica dell’economia

politica, intraprendendo un itinerario di ricerca che soltanto con la pubblicazione del primo libro del

Capitale (1867) avrebbe trovato una provvisoria conclusione. “Una nuova rivoluzione”, aveva

scritto dopo il ’48, “non è possibile se non in seguito a una nuova crisi. L’una però è altrettanto

sicura quanto l’altra” (LCF, p. 152). In condizioni di estrema povertà, tormentato da problemi di

salute e da stenti di ogni genere, Marx scrutava in questi anni l’orizzonte alla ricerca dei segni della

crisi che doveva arrivare. Quando cominciò la grande recessione degli anni 1856-1858, egli ne fu

analista e cronista straordinariamente acuto (cfr. S. Bologna, Moneta e crisi: Marx corrispondente

della “New York Daily Tribune”, 1856-57, in AA.VV., Crisi e organizzazione operaia, Milano,

Feltrinelli, 1974). L’ipotesi del nesso “necessario” tra crisi e rivoluzione non trovò alcuna

conferma: ma sotto la spinta della crisi (come tonificato dall’attesa della rivoluzione) Marx

impresse un’accelerazione al suo lavoro di critica dell’economia politica, di cui tentò di fissare tra il

1857 e il 1859 i “lineamenti fondamentali” (Grundrisse). Ne derivarono una serie di manoscritti

destinati a giacere tra le tante bozze provvisorie di Marx fino alla pubblicazione nel 1939 (ma solo

con la ristampa del 1953 cominciò la vera e propria ricezione dell’“opera”).

In questi manoscritti troviamo alcune delle formulazioni più suggestive per chi voglia leggere Marx

alla luce della problematica della “produzione di soggettività”. “La produzione di capitalisti e di

operai salariati”, leggiamo ad esempio nella sezione nota come “forme che precedono la

produzione capitalistica”, “è dunque un prodotto fondamentale del processo di valorizzazione del

capitale” (G, II, p. 145). Si badi, per anticipare un problema che verrà affrontato più avanti: il

processo di valorizzazione del capitale produce le figure soggettive del capitalista e dell’operaio

salariato, ma al tempo stesso non è logicamente possibile senza queste stesse figure – che appaiono

quindi, al tempo stesso, come suo presupposto. La produzione di soggettività (e la riproduzione

delle sue figure) appare in ogni caso collocata al centro dell’analisi del processo di valorizzazione

del capitale. Il problema che Marx aveva affrontato in gioventù sotto la rubrica della

“estraneazione” si ripresenta in questo brano nei termini di un processo di “oggettivazione” del

lavoro. Quest’ultimo, che occupa ormai il campo dell’“attività pratica degli individui”, si traduce in

prodotti (in oggetti) la cui appropriazione e accumulazione in mani diverse rispetto a quelle

dell’individuo che lavora dà luogo al sorgere di una potenza a lui estranea e ostile. È in questo

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processo che sorge il capitale, letteralmente impensabile per Marx al di fuori di un rapporto

antagonistico nella cui definizione è immediatamente in gioco il significato stesso assunto dai

termini “oggettività” e “soggettività”. Scrive Marx: “poiché in questo processo il lavoro oggettivato

è posto al tempo stesso come non oggettività dell’operaio, come oggettività di una soggettività

contrapposta all’operaio, come proprietà di una volontà a lui estranea, il capitale è necessariamente

al tempo stesso capitalista” (G, II, pp. 145 s.). E ancora: “nel concetto di capitale è insito che le

condizioni oggettive del lavoro – e queste sono il prodotto vero e proprio – assumano una

personalità (Persönlichkeit) contrapposta al lavoro o, che è lo stesso, che esse siano poste come

proprietà di una personalità estranea al capitale” (G, II, p. 146). Il capitale “non è una cosa, ma un

rapporto sociale tra persone mediato da cose”, avrebbe scritto Marx nelle ultime pagine del primo

libro del Capitale (C, I, p. 941; cfr. anche C, III, p. pp. 1095 s.). Leggere questa definizione alla

luce del brano dei Grundrisse che abbiamo appena commentato ci consente di fissare due punti

importanti. In primo luogo, le figure soggettive tra cui si determina il rapporto sociale che il capitale

è non sono “date”: devono essere piuttosto prodotte e continuamente riprodotte dal processo di

valorizzazione del capitale. In secondo luogo, la mediazione delle cose agisce in modo

essenzialmente diverso ai due estremi “soggettivi” del rapporto: la “personalità” del capitalista si

definisce come una sorta di supporto (Träger, “portatore”, è termine centrale in Marx proprio a

proposito dell’analisi della soggettività) delle “condizioni oggettive del lavoro” prodotte

dall’operaio. Non pare esservi più alcuno spazio per una figura unitaria di soggettività all’interno di

un campo che è piuttosto segnato da una radicale asimmetria (ed è questo il significato ultimo del

congedo marxiano dall’“umanismo”).

Lo stesso concetto di lavoro, di cui si ricorderà la definizione marxiana nel 1844 come “vita che

produce la vita”, conosce all’interno del laboratorio della critica dell’economia politica, una serie di

trasformazioni e di dislocazioni fondamentali. Si scompone, o meglio si scinde, in una serie di

coppie concettuali attraversate anch’esse dall’antagonismo: lavoro vivo e lavoro morto, lavoro

presente e lavoro passato, lavoro astratto e lavoro concreto, forza lavoro e lavoro, lavoro produttivo

e lavoro improduttivo, lavoro necessario e pluslavoro, per ricordarne alcune delle più significative.

Quello che tuttavia Marx tiene fermo della sua folgorante definizione giovanile è che il lavoro

indica una soggettività di massa che attraverso la produzione di “oggetti” dà avvio al processo al cui

interno il capitale emerge appropriandosi (in forme mutevoli) di questi “oggetti”. Il capitale si

presenta dunque sulla scena come una sorta di oggettività alla seconda potenza, contrapponendosi ai

lavoratori, convertendo gli “oggetti” appropriati e accumulati in qualcosa di fondamentalmente

diverso, in “condizioni oggettive del lavoro” stesso (G, II, p. 133). Il capitalista sorge, lo si è visto,

come “personificazione” di queste condizioni oggettive. D’altro canto, abbiamo qui soltanto uno

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schema formale dell’origine e del funzionamento del rapporto sociale capitalistico: nel suo

distendersi nella storia, nel suo farsi “modo di produzione” dominante, questo rapporto continua a

produrre e riprodurre le sue figure di soggettività. Lo sviluppo del capitalismo da una parte è

inconcepibile senza l’azione di questi soggetti – e in primo luogo del lavoro, che ha nella

prospettiva marxiana una vera e propria priorità “ontologica” sul capitale: le stesse forme di

soggettivazione del lavoro, i suoi movimenti e le sue lotte svolgono un ruolo fondamentale nello

spingere innanzi lo sviluppo capitalistico. Ma d’altra parte quest’ultimo “retroagisce” per così dire

tanto sulle figure soggettive del lavoro quanto su quelle del capitale, modificandone la

composizione e riproducendone su scala allargata il rapporto.

“Il movimento del capitale è senza misura” (C, I, p. 184), è “un processo infinito” (G, I, p. 250);

l’accumulazione capitalistica non conosce limiti, né sociali né geografici: abbiamo imparato quanto

Marx avesse ragione su questo punto. Il capitalismo non è, al contrario di quanto ancora oggi si

sente ripetere, la logica di uno dei “sistemi” in cui si articola la società nazionale o mondiale,

ovvero del sistema “economico”. In quanto rapporto sociale tende a strutturare l’insieme della

società in modo coerente con la propria razionalità – con la valorizzazione e l’accumulazione senza

limiti di capitale. Riproducendosi su scala sempre più allargata, del resto, il modo di produzione

capitalistico non produce soltanto “merce” e “plusvalore”, bensì - Marx lo ripete nel primo libro del

Capitale – “produce e riproduce il rapporto capitalistico stesso: da una parte il capitalista, dall’altra

l’operaio salariato” (C, I, p. 710). Produzione e riproduzione di un rapporto, ovvero delle due

figure in cui la soggettività si presenta scissa all’interno del capitalismo: è un’indicazione di

metodo, quella che deriviamo dai testi di Marx, che ci consente anche, una volta assunta nella sua

rilevanza costitutiva per la critica dell’economia politica, di spiazzare le discussioni sul rapporto tra

“struttura” e “sovrastruttura”. E ci suggerisce piuttosto di analizzare dal punto di vista della

produzione di soggettività lo scomporsi e il ricomporsi in mutevoli assemblaggi dei fattori

economici, politici, giuridici, culturali etc. (cfr. S. Mezzadra, Bringing Capital Back In: A

Materialist Turn in Postcolonial Studies?, in «Inter-Asia Cultural Studies», XII [2011], 1).

“Oggetto della nostra analisi”, si legge all’inizio della cosiddetta Introduzione del 1857 ai

Grundrisse, “è innanzitutto la produzione materiale” (G, I, p. 3). Ma Marx non torna indietro

rispetto allo scarto determinato dal “nuovo materialismo” degli anni giovanili nella stessa

definizione della “materia”. E nella produzione materiale, rinnovandone in profondità il concetto,

disloca l’insieme delle acquisizioni filosofiche che abbiamo cercato di leggere alla luce della

problematica contemporanea della produzione di soggettività. Un principio di indeterminazione

agisce così sul terreno della produzione materiale (ancora: la “vita che produce la vita”), aprendola

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costitutivamente in direzione di una serie di dimensioni che solo in apparenza (agli occhi del

materialista “volgare”) si presentano come “immateriali”.

E tuttavia rimane vero che ormai, in Marx, “non c’è categoria che possa essere definita fuori dalla

potenzialità della scissione” (cfr. Negri, Marx oltre Marx, cit., p. 56). La “vita” è ora interamente

collocata sul versante del lavoro, e quest’ultimo appare come l’unico soggetto, di fronte a un

capitale che acquisisce soggettività soltanto in una sorta di gioco di specchi (Marx parla di

“transustanziazione” [G, I, p. 296]), in quanto immagine rovesciata dell’oggettività, della morte e

del passato: “l’unica cosa differente dal lavoro oggettivato è il lavoro non oggettivato ma ancora da

oggettivare, il lavoro come soggettività. Oppure: il lavoro oggettivato, ossia spazialmente presente

(räumlich vorhanden), può essere anche contrapposto, come lavoro passato, al lavoro

temporalmente presente (zeitlich vorhanden). Nella misura in cui deve essere presente

temporalmente, come lavoro vivo, esso può esserlo soltanto come soggetto vivo, in cui esiste come

capacità (Fähigkeit), come possibilità (Möglichkeit); perciò come operaio” (G, I, pp. 251 s.). Non

solo asimmetria, dunque: eccedenza costitutiva del lavoro nel rapporto di capitale. E tuttavia questo

rapporto lo stringe con quelle che potremmo definire – variando una formula utilizzata in

precedenza – come le condizioni non soggettive della sua soggettività materialmente rappresentate

dal capitale. Nel corpo a corpo con il lavoro “passato”, “morto”, ovvero con le macchine, il “lavoro

come soggettività”, il “lavoro vivo” è sottoposto esso stesso alla potenza materiale della scissione.

Nell’età della “grande industria”, in particolare, il corpo operaio collettivo è amputato del suo

cervello: “la scissione fra le potenze mentali del processo di produzione e il lavoro manuale, la

trasformazione di quelle in poteri del capitale sul lavoro, si compie […] nella grande industria

edificata sulle macchine” (C, I, p. 518). Certo, questa espropriazione non è senza resti, il cervello

operaio si ricostruisce nella cooperazione sovversiva e nelle lotte contro l’organizzazione

capitalistica del lavoro in fabbrica. Dentro lo sviluppo capitalistico, e sotto la pressione di queste

lotte, la figura soggettiva del lavoro sfruttato dal capitale conoscerà trasformazioni profondissime, e

sarà ben lungi dal limitarsi al “lavoro manuale”. “Dispendio di cervello, nervi, muscoli, organi

sensoriali, ecc. umani” (C, I, p. 87): l’insieme delle attività corrispondenti a questo succinto elenco

marxiano sarà (è) coinvolto in questo processo. Diverso sarà di volta in volta il rapporto tra il

“lavoro vivo” e le “condizioni oggettive del lavoro” (tra il soggetto e le condizioni non soggettive

della soggettività), il general intellect di cui Marx parla in un passo celebre dei Grundrisse (G, II, p.

403) diventerà esso stesso terreno di antagonismo. Ma la “scissione” si riprodurrà sempre, in forme

che si tratta di indagare anche nel nostro presente.

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È bene del resto seguire l’indicazione di Dipesh Chakrabarty e leggere il concetto di lavoro vivo

alla luce di un’altra essenziale categoria marxiana, ovvero quella di lavoro astratto (cfr. D.

Chakrabarty, Provincializing Europe. Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton,

NJ, Princeton University Press, 2000, cap. 2). Marx propone in primo luogo, di questo concetto,

un’apologia: il lavoro che si contrappone al capitale è “lavoro astratto” in quanto “lavoro puro e

semplice”, “assolutamente indifferente a una particolare determinatezza, ma capace di ogni

determinatezza”. Se nel capitale “la ricchezza generale esiste oggettivamente, come realtà”, questo

lavoro è anch’esso “la ricchezza generale ma come sua possibilità generale, che si conferma

nell’attività come tale” (G, I, p. 280). Pura potenza sociale appare qui il lavoro astratto, e la sua

indifferenza a ogni determinatezza (cioè ai contenuti “concreti” del lavoro) pone le condizioni per

la soggettivazione antagonistica del lavoro stesso. Ma il lavoro astratto è anche quello su cui si

esercita la misura capitalistica, è il modo in cui il capitale rappresenta il lavoro, prima di tutto

attraverso il salario e poi nelle dimensioni sociali su cui si esercita la sua produttività. “Un valore

d’uso o bene”, scrive Marx nel capitolo sulla merce del primo libro del Capitale, “ha valore

soltanto perché in esso viene oggettivato, o materializzato, lavoro astrattamente umano” (C, I, p.

47). Il lavoro astratto è la produttività generale del lavoro così come appare attraverso la norma

della valorizzazione del capitale. È il criterio di disciplinamento che vive al cuore del “lavoro vivo”

– l’interiorizzazione del vampiro, per richiamare un’altra immagine utilizzata da Marx per definire

il capitale (cfr. M. Neocleus, Il mostro e la morte. Funzione politica della mostruosità [2005], trad.

it Roma, DeriveApprodi, 2008, cap. 2).

6. Spettri hobbesiani

“Il segno che contraddistingue la società borghese al suo tramonto è

proprio questa contraddizione: da un lato, il crescente svuotamento

delle forme della reificazione – si potrebbe dire il lacerarsi della loro

crosta per via del loro vuoto interno –, la loro crescente incapacità di

comprendere i fenomeni, sia pure nella loro singolarità e secondo

modi calcolistico-riflessivi; dall’altro, la loro crescita quantitativa, il

loro vuoto diffondersi estensivamente sull’intera superficie dei

fenomeni”

(György Lukács, Storia e coscienza di classe [1923], trad. it. Milano,

SugarCo, 1978, p. 274).

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È noto: la distinzione tra valore d’uso e valore di scambio delle merci, non certo inventata da Marx,

trova uno sviluppo vertiginoso nelle prime pagine del Capitale, fino a culminare nelle acrobazie

concettuali della sezione intitolata “il carattere di feticcio della merce e il suo arcano” (in buona

misura aggiunta alla seconda edizione dell’opera, del 1873). Grilli sgomitolati dalla testa di legno di

un tavolo, trasformato in “una cosa sensibilmente soprasensibile”, ci avvertono del “carattere

mistico” della merce (C, I, p. 87): quest’ultima, una volta che l’attenzione si sia fissata sulla sua

forma, risulta “una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici”

(C, I, p. 86), un “geroglifico sociale” (C, I, p. 90). Pagine celebri, queste di Marx, e a loro volta

“imbrogliatissime”. Il problema “teologico-politico” che abbiamo visto in La questione ebraica

ritorna qui disseminando spettri nel mondo delle cose e nella loro vita sociale (“cose sociali” sono

infatti le merci, C, I, p. 88). Marx stesso nota del resto che qui, “per trovare un’analogia, dobbiamo

involarci nella regione nebulosa del mondo religioso” (C, I, p. 88). In un altro contesto (nel capitolo

del terzo libro del Capitale dedicato alla “formula trinitaria”) introduce l’immagine di una

“religione della vita quotidiana” (C, III, p. 1115; cfr. L. Basso, Agire in comune. Antropologia e

politica nell’ultimo Marx, Verona, Ombre corte, 2012, cap. I). Una chiave concettuale per leggere

queste pagine dal punto di vista della produzione di soggettività ci è offerta dalla semantica

(eminentemente teologico-politica) della rappresentanza, di cui è bene assumere l’intero spettro dei

significati. “Qualcosa di comune (ein Gemeinsames)” costituisce il sostrato del mondo delle merci,

caratterizzato da una “spettrale oggettività” (C, I, pp. 46 s.). Le merci rappresentano questo

“qualcosa di comune”, la “sostanza” dei loro valori, hanno anzi in generale valore (di scambio)

soltanto perché in esse “viene oggettivato, o materializzato, lavoro astrattamente umano” (C, I, p.

47). Quando Marx parla del lavoro rappresentato nelle merci, usa il verbo darstellen, e non

vertreten o repräsentieren, i due verbi solitamente utilizzati per indicare la dimensione politica

della rappresentanza. Ma il problema di fondo che a partire da Hobbes sta al cuore di quest’ultima

(la produzione sovrana dell’unità politica e del “popolo”, di un ordine sovra-individuale

riconoscendosi nel quale gli individui divengono cittadini) è ben presente nell’analisi di Marx.

Rappresentato nelle merci, quel “qualcosa di comune” che costituisce la sostanza dei loro valori

esibisce lo stesso scarto tra individuale e collettivo che segna la sovranità e il popolo costruiti dalla

teoria politica moderna. Scrive Marx: “la forza lavoro complessiva della società che si presenta nei

valori del mondo delle merci vale qui come unica e identica forza lavoro umana, benché consista di

innumerevoli forze lavoro individuali” (C, I. p. 48). La cittadinanza nel mondo delle merci si

acquista partecipando a un gioco dello scambio in cui continuamente quello che gli uomini hanno in

comune si presenta ai singoli nella forma di un’oggettività separata, cosificata.

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L’estraneazione politica analizzata criticamente da Marx in La questione ebraica si presenta così

dislocata rispetto al terreno classico dello Stato, della sovranità e della cittadinanza, per infiltrarsi

nei più minuti rapporti di scambio che tessono la trama della quotidianità nella società delle merci.

Acquisisce così tutto il suo significato, ai fini dell’analisi che si sta conducendo, il feticismo delle

merci: il suo arcano, scrive Marx, consiste nel fatto che la forma merce, “come uno specchio,

restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire

come caratteri oggettivi di quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del rapporto sociale

tra produttori e lavoro complessivo (Gesamtarbeit), facendolo apparire come un rapporto sociale fra

oggetti esistente al di fuori di essi produttori” (C, I, p. 88). Non insisto sul parallelo con la teoria

hobbesiana della rappresentanza, che dovrebbe essere a questo punto evidente (e il rilievo

dell’immagine in quella teoria è stato opportunamente segnalato, all’interno di un dibattito

filosofico-politico che sul tema è stato molto intenso in Italia negli anni Ottanta del Novecento, da

Carlo Galli: si veda il secondo capitolo del suo Modernità. Categorie e profili critici, Bologna, il

Mulino, 1988). È il caso di sottolineare come il “carattere di feticcio della merce” consista

essenzialmente in una specifica produzione di soggettività, ovvero nella separazione degli individui

come produttori dal “lavoro complessivo” – e dunque nel “congelamento” della produttività di

quest’ultimo, dei suoi caratteri sociali e “comuni”, in una dimensione sottratta alla disponibilità da

parte dei singoli. D’altro canto, “le merci non possono andarsene da sole al mercato e non possono

scambiarsi da sole”. L’indagine marxiana non può dunque procedere altrimenti che concentrandosi

sui loro “tutori”, ovvero sui “possessori di merci”. Questi ultimi si pongono l’uno di fronte all’altro

come persone, si riconoscono reciprocamente come proprietari privati attraverso il rapporto

giuridico del contratto (C, I, p. 103). Il termine “persona” è qui utilizzato da Marx in senso tecnico

giuridico, e la migliore critica marxista del diritto ha preso le mosse proprio da questa inestricabile

implicazione di forma merce e forma giuridica per mostrare come la persona diventi nel diritto

borghese moderno “pura incarnazione di un soggetto di diritti, astratto e impersonale, un puro

prodotto di rapporti sociali” (E.B. Pasukanis, La teoria generale del diritto e il marxismo [1927],

trad. it. Bari, De Donato, 1975, p. 125). Seguiamo ancora il testo di Marx: “le persone esistono qui

l’una per l’altra soltanto come rappresentanti di merci. […] Le maschere teatrali economiche (die

ökonomischen Charaktermasken) delle persone sono soltanto le personificazioni di quei rapporti

economici come portatrici (Träger) dei quali esse si trovano l’una di fronte all’altra” (C, I, pp. 103

s., c.n. e trad. modificata).

Ho forzato il significato teatrale del termine Charaktermaske, la cui importanza all’interno del

Capitale non può essere sottovalutata (cfr. W.F. Haug, Charaktermaske, in Historisch-kritisches

Wörterbuch des Marxismus, a c. di W.F. Haug, Vol. 2. Berlin – Hamburg, Argument, 1995), e ho

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posto in corsivo “rappresentanti” per fare emergere più chiaramente come risuonino anche in questi

passi echi hobbesiani. Nel capitolo XVI del Leviatano (1651), Hobbes aveva infatti ricordato

l’originario significato teatrale del termine persona, centrale nella sua intera teoria della

rappresentanza e della sovranità, e l’aveva in particolare collegato alla maschera che traveste il

volto dell’attore sul palcoscenico. Anche in Hobbes il contratto – distinto dal “patto” da cui ha

origine il Leviatano – ha un ruolo essenziale nell’organizzare le relazioni sociali tra gli individui

“privati”. Queste relazioni diventano per lui relazioni tra individui proprietari con la nascita dello

Stato, e la sovranità (attraversata e strutturata da una specifica logica rappresentativa) costituisce

per così dire l’“a priori” di quelle stesse relazioni, nel senso che a rigore gli stessi soggetti tra cui si

determinano non sono possibili senza di essa. Nella prospettiva marxiana, questo stesso a priori si

sdoppia – e accanto alla sovranità dello Stato, in un equilibrio sempre instabile che si tratta di

indagare tanto storicamente quanto teoricamente, emerge la sovranità del denaro. Anche qui è in

questione un problema di rappresentanza: se nella merce è rappresentato, come sostanza del suo

valore, astratto lavoro umano, il valore della merce, affinché essa possa essere scambiata, deve

essere commisurato rispetto a un “equivalente generale” altrettanto astratto, capace appunto di

rappresentarlo. È stato in particolare Balibar a mostrare come – nel descrivere l’origine del denaro

come equivalente generale – Marx riformuli le logiche del contrattualismo moderno, ma come al

tempo stesso all’azione degli individui come possessori di merci si sostituiscano nel progredire

dell’analisi le forze “oggettive” che premono al di sotto della maschera delle persone (Balibar,

Citoyen sujet, cit., pp. 330-331). Costoro, scrive Marx, “possono riferire le loro merci come valori,

e quindi come merci, soltanto riferendole per opposizione, oggettivamente, a qualsiasi altra merce

quale equivalente generale”. L’emergere della convenzione dell’equivalente generale è un passaggio

essenziale per la generalizzazione dei rapporti di scambio, per uscire da una situazione in cui la

merce particolare può essere scambiata soltanto con un’altra merce particolare di cui il possessore

della prima ha bisogno – a condizione ovviamente che il possessore della seconda abbia a sua volta

bisogno della prima. Ma in teoria, come si è visto, “ogni altra merce” può svolgere la funzione di

equivalente generale: “soltanto l’azione sociale può fare d’una merce determinata l’equivalente

generale. Quindi l’azione sociale di tutte le merci esclude una merce determinata nella quale le altre

rappresentino universalmente i loro valori. Così la forma naturale di questa merce diventa forma di

equivalente socialmente valida. Mediante il processo sociale, l’esser equivalente generale diventa

funzione sociale specifica della merce esclusa. Così essa diventa – denaro” (C, I, pp. 105 s.).

Forma del valore, il denaro non si limita a mediare lo scambio (Marx parla a questo proposito di

“denaro come denaro”). Esso rende possibile anche la valorizzazione e l’accumulazione, la

trasformazione del valore in “valore in processo”: il denaro stesso diventa così “denaro in processo

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e, come tale, capitale” (C, I, p. 187). L’analisi della “formula generale del capitale” (D-M-D’, in cui

la somma di denaro originariamente anticipata per l’acquisto di una merce ritorna nella tasca del

capitalista con un incremento, un plusvalore, C, I, p. 182) conduce Marx a demistificare l’apparenza

di una “autovalorizzazione” del capitale (C, I, p. 186). Il capitale è un rapporto sociale nella misura

in cui l’incremento di valore, il “plusvalore” non si genera nella sfera della “circolazione” bensì in

quella della produzione, dove agisce il “lavoro vivo”. Anche il capitale del resto viene

scomponendosi nell’analisi marxiana: e il riferimento non è tanto qui ai capitali che operano in

diversi “settori” economici (capitale commerciale, capitale industriale, capitale finanziario) o ai

diversi “stadi” del processo ciclico del capitale (capitale monetario, capitale produttivo, capitale-

merce), bensì alla divisione dello stesso concetto di capitale. Quest’ultimo si scinde, nel processo di

valorizzazione, in una parte costante e una parte variabile, che corrisponde a quelli che, considerati

dal punto di vista del processo lavorativo, “si distinguono come fattori oggettivi e fattori soggettivi,

mezzi di produzione e forza lavoro” (C, I, p. 253). Qui dunque i “fattori soggettivi”, la forza lavoro,

sono rappresentati all’interno del capitale (come sua parte variabile nel senso che soltanto i fattori

soggettivi, soltanto il lavoro ha la capacità di produrre valore e dunque di determinare una

variazione incrementale del valore del capitale). La natura di rapporto sociale del capitale è qui al

tempo stesso espressa e mistificata, il “lavoro come soggettività” è come congelato e imbrigliato in

una oggettività contabile che è in realtà quella del dominio e dello sfruttamento.

La soggettività del capitalista, d’altro canto, agisce il dominio e lo sfruttamento, si costruisce a

partire da questi. Può accadere al capitalista di essere soddisfatto della vita che conduce. Ma sotto il

profilo concettuale la sua è una ben singolare soggettività: prima di tutto perché, come si è visto, si

costituisce come negativo di una vita non sua (della vita del “lavoro come soggettività”); ma anche

perché assai problematico è il problema della costruzione di una soggettività collettiva dei

capitalisti, di quello che Marx chiama il “capitale complessivo” (concetto di cui è opportuno

sottolineare la differenza rispetto a quello di “borghesia”). Ogni capitale, infatti, “deve essere

considerato come una frazione del capitale complessivo, e ogni capitalista non è in realtà che un

semplice azionista dell’impresa complessiva della società, che partecipa al profitto complessivo in

proporzione della sua quota di capitale” (C, III, p. 297). Il fatto è che le cose raramente funzionano

nel modo indicato da questo brano del terzo libro del Capitale, che sembra fissare in un modello

statico (non per questo meno rilevante per gli effetti che dispiega) la realtà del “capitale

complessivo”. In quanto movimento, il capitale non può essere infatti considerato come “cosa in

riposo”. I movimenti del capitale appaiono sì come “azioni del singolo capitalista”, scrive Marx nel

secondo libro: ma il movimento del valore tende ad autonomizzarsi dal capitale singolo, a porsi

come “astrazione in actu” che con l’allargarsi della scala di riproduzione del capitale si fissa come

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30

norma sociale indipendente dai singoli capitalisti. “Quanto più acute diventano le rivoluzioni di

valore, tanto più il movimento del capitale autonomizzato, operante con la violenza di un processo

elementare di natura, si fa valere contro la previsione e il calcolo del singolo capitalista, tanto più il

corso della produzione normale viene ad assoggettarsi alla speculazione anormale, tanto più grande

diviene il pericolo per l’esistenza dei capitali singoli” (C, II, p. 122).

7. Forza lavoro

“Il lavoro come lavoro astratto e quindi come forza-lavoro c’era già

in Hegel. La forza-lavoro – e non solo il lavoro – come merce c’era

già in Ricardo. La merce forza-lavoro come classe operaia: questa è

la scoperta di Marx. La duplice natura del lavoro è solo la premessa di

questo: non è la scoperta, ma solo la via per arrivarci. Dal lavoro non

si passa alla classe operaia, dalla forza-lavoro, sì”

(Mario Tronti, Operai e capitale [1966], Torino, Einaudi, 1971, p.

130).

Il concetto di forza lavoro (Arbeitskraft) figura marginalmente nei Grundrisse, mentre nel primo

libro del Capitale occupa una posizione strategica: su di esso (nonché sulla distinzione tra forza

lavoro e lavoro) si fonda l’intera teoria marxiana dello sfruttamento, nonché più in generale

l’immagine del soggetto operaio. Forza lavoro è certo concetto di una forza: ma di una forza che si

definisce in termini di “potenza” (il sintagma potrebbe tradursi anche come “facoltà di lavoro”, per

analogia con la Urteilskraft kantiana, “facoltà di giudizio”). “La forza lavoro”, ha scritto Paolo

Virno, “è pura potenza, ben distinta dagli atti corrispondenti” (P. Virno, Il ricordo del presente,

Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 121). Vediamone la definizione marxiana: “per forza lavoro o

capacità di lavoro (Arbeitsvermögen) intendiamo l’insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che

esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente di un uomo, e che egli mette in movimento

ogni volta che produce valori d’uso di qualsiasi genere” (C, I, pp. 201 s.). E ancora: “l’uso della

forza lavoro è il lavoro stesso. […] Attraverso tale processo [il ‘portatore’ di forza lavoro] diventa

actu quello che prima era solo potentia, forza lavoro in azione, lavoratore” (C, I, p. 215). V’è

intanto da osservare la prossimità, e al tempo stesso la differenza, tra il concetto di forza lavoro e

quello di lavoro astratto. Entrambi esprimono qualcosa di “generalmente umano”, ma la forza

lavoro vive come presupposto del processo di produzione, mentre il lavoro astratto, come misura

del dispendio della forza lavoro stessa, media e compone in unità processo lavorativo e processo di

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valorizzazione. E, una volta calcolato “il lavoro che è oggettivato in [un] prodotto” (C, I, p. 226), il

lavoro astratto si iscrive all’interno della sua forma di merce, la abita come spettro della sua

oggettività. Il punto è, tuttavia, che all’interno del modo di produzione capitalistico la forza lavoro è

essa stessa una merce (nel senso che tale modo di produzione si regge sull’esistenza di una classe di

individui costretti a rendere merce l’insieme delle proprie “attitudini fisiche e intellettuali” per poter

riprodurre le basi materiali della propria vita). Il lavoro astratto vive dunque anche nella forza

lavoro, come misura del suo valore, ovvero del salario che il capitalista paga al lavoratore

retribuendo il tempo di lavoro necessario a produrre la massa di valore consumando la quale il

lavoratore riproduce appunto le condizioni materiali della sua vita. Quello che caratterizza il modo

di produzione capitalistico, tuttavia, è che la giornata lavorativa non può esaurirsi in questo tempo:

al lavoro necessario si associa sempre un tempo di “pluslavoro”, in cui si produce una massa di

valore aggiuntivo (un plusvalore) di cui il capitalista si appropria senza corrispondere alcun

“equivalente”, sfruttando il lavoro.

Le pagine “dantesche” in cui Marx invita il suo lettore ad abbandonare il mondo degli scambi e

della circolazione, “questa sfera rumorosa che sta alla superficie ed è accessibile a tutti gli sguardi”,

per discendere nel “segreto laboratorio della produzione” e scoprire infine “non solo come produce

il capitale, ma anche come lo si produce, il capitale” (C, I, p. 212), sono tanto note quanto

straordinarie. Non le commenterò ulteriormente. Tratteniamoci piuttosto per un attimo sulla

“superificie”, dove il “possessore di denaro” incontra la “forza lavoro come merce” (C, I, p. 202). Il

verbo qui utilizzato è vorfinden, che indica un trovare davanti a sé, un incontrare qualcosa che viene

prima. E infatti Marx scrive che perché l’incontro tra le due dramatis personae (C, I, p. 213) del

rapporto di capitale sia possibile “debbono essere soddisfatte diverse condizioni” (C, I, p. 202).

Esse (le due figure soggettive di cui è qui in questione l’“incontro”) devono cioè essere prodotte: il

capitale nasce soltanto, come specifico rapporto sociale, dove il possessore di denaro (e dunque “di

mezzi di produzione e di sussistenza”) trova sul mercato il libero lavoratore come venditore della

sua forza lavoro e questa sola condizione storica comprende tutta una storia universale (eine

Weltgeschichte). Quindi il capitale annuncia fin da principio un’epoca del processo sociale di

produzione” (C, I, p. 205). Si vedrà nell’ultima parte di questo scritto come quest’epoca sia

cominciata attraverso l’immane violenza che caratterizza la “cosiddetta accumulazione originaria”,

in cui si producono appunto le “condizioni” dell’incontro tra possessore di denaro e possessore di

forza lavoro. Vale la pena intanto di segnalare un punto problematico nella costruzione teorica

marxiana: questo stesso incontro è descritto in una linea di perfetta continuità con gli scambi tra

privati possessori di merci che si sono visti in precedenza. Anche l’incontro tra possessore di denaro

e possessore di forza lavoro, cioè, è mediato dall’istituto giuridico del contratto (è questa la ragione

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dell’insistenza di Marx sul fatto che il possessore di forza lavoro si presenta come libero lavoratore

e non come servo o schiavo). Di più: da un contratto di compravendita (“compera e vendita della

forza lavoro” si intitola appunto la sezione del quarto capitolo del primo libro del Capitale da cui

sono tratte le ultime citazioni).

Ho mostrato altrove gli enormi problemi che tanto sotto il profilo storico quanto sotto il profilo

teorico questo aspetto della teoria marxiana pone: la “vendita” di forza lavoro presupporrebbe dal

secondo punto di vista una sua “alienazione” (in senso giuridico), impossibile nel caso della forza

lavoro se non a condizione di trasferire in proprietà altrui la “corporeità”, la “personalità vivente”

del lavoratore (che cesserebbe così di essere “libero”). Storicamente poi, una volta che sia

considerato nella scala mondiale che proprio Marx ha per primo evidenziato, il capitalismo

moderno è caratterizzato dalla continua riproduzione di forme di lavoro coatto che risulta davvero

arduo considerare come “anomalie” rispetto a una supposta norma del lavoro “libero”, salariato

(cfr. S. Mezzadra, How Many Histories of Labour? Towards a Theory of Postcolonial Capitalism,

in «Postcolonial Studies», XIV [2011], 2). Ribadisco qui che si tratta di liberare l’analisi

dell’“incontro” tra possessore di denaro e possessore di forza lavoro dall’immaginario giuridico che

ne plasma, attraverso l’istituto del contratto, la descrizione da parte di Marx. Una pluralità di

incontri e una pluralità di dispositivi di cattura (tanto in senso letterale quanto in senso metaforico)

della forza lavoro: non è forse quel che ci troviamo di fronte nel nostro stesso presente? Ma è il

caso ora di aggiungere qualcosa a proposito delle due figure di soggettività, il possessore di forza

lavoro e il possessore di denaro, la cui esistenza “comprende tutta una storia universale” (e si capirà

ora l’importanza del termine usato da Marx, Weltgeschichte: è una storia davvero mondiale quella

qui in questione). Il termine essenziale di confronto, per comprendere la radicalità dello scarto

prodotto da Marx con un’intera tradizione di pensiero, è indubbiamente John Locke, la cui teoria

della “proprietà di sé” resta fino a oggi uno dei capisaldi del liberalismo – e in particolare del modo

in cui esso immagina e costruisce il suo soggetto. Marx al tempo stesso accetta questo terreno e

opera su di esso un radicale spiazzamento: denaro e forza lavoro non sono soltanto categorie

economiche, sono anche categorie per così dire antropologiche (si riferiscono cioè al piano che la

filosofia europea ha definito della “natura umana”). E indicano in particolare le due modalità

essenziali attraverso cui l’individuo può essere costruito (prodotto) come proprietario di sé. Il

campo della soggettività moderna appare così, attraverso l’analisi di Marx, irrimediabilmente

soltanto (una volta di più) da una scissione. Alla potenza (forza lavoro) si oppone il potere (denaro).

Che la forza lavoro sia “potenza” lo si è visto. Che il denaro sia “potere” Marx lo afferma con

altrettanta nettezza in un passo dei Grundrisse che vale la pena citare per esteso: “la mutua e

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generale dipendenza degli individui reciprocamente indifferenti costituisce il loro nesso sociale.

Quest’ultimo è espresso nel valore di scambio, e solo in esso, per ogni individuo, la propria attività

o il proprio prodotto diventano un’attività o un’attività fine a se stessi; egli deve produrre un

prodotto generico – il valore di scambio o – considerato questo per sé isolatamente o e

individualizzato – denaro. D’altra parte il potere che ogni individuo esercita sull’attività degli altri o

sulle ricchezze sociali, egli lo possiede in quanto proprietario [Eigner] di valori di scambio, di

denaro. Il suo potere sociale, così come il suo nesso con la società, egli lo porta in tasca” (G, I, p.

97). Si vede bene, mi pare, come siano qui riepilogati una serie di temi su cui siamo venuti

ragionando nelle pagine precedenti (a partire dal rapporto tra isolamento e socialità). E si potrebbe a

lungo indugiare sulla categoria di “potere sociale” presentata da Marx in questo passo (cfr. in

merito M. Ricciardi, La società come ordine. Storia e teoria politica dei concetti sociali, Macerata,

eum, 2010). Cospicue sono del resto anche qui le tracce dei “classici” della filosofia politica

moderna, in particolare della definizione più generale, “antropologica” appunto, di potere offerta da

Hobbes nel capitolo X del Leviatano come l’insieme dei “mezzi che [un uomo] ha al presente per

ottenere qualche apparente bene futuro”. Questo dominio sul tempo che il denaro attribuisce a chi lo

possiede struttura l’“incontro” con il possessore di forza lavoro, distende sul “futuro” di

quest’ultimo l’ombra del potere del primo, in procinto di trasformarsi (lo si vedrà tra poco) in

comando. Ma più in generale fonda un rapporto di proprietà con il “sé” – e dunque un modo di

abitare il mondo – radicalmente diverso rispetto a quello che caratterizza il possessore di forza

lavoro, continuamente rinviato all’insieme delle sue “attitudini fisiche e intellettuali” per costruire e

riprodurre la propria soggettività, la propria vita. Ancora una radicale asimmetria, dunque. Ma non

meno netta appare da questo punto di vista quella che si è in precedenza definita l’eccedenza

costitutiva del lavoro nel rapporto di capitale. Il lavoro è l’unico fattore produttivo di nuovo valore

proprio perché la soggettività del singolo portatore di forza lavoro affonda le proprie radici in ciò

che gli uomini hanno in comune, in ciò che Marx, come si è visto, definisce un’“unica e identica

forza lavoro umana” (C, I, p., 48).

Anche se non mi pare di trovare riscontri testuali della differenza da lui postulata tra Arbeitskraft e

Arbeitsvermögen (né del resto dell’uso da parte di Marx del termine Vermögenskraft), Pierre

Macherey ha colto in modo molto preciso lo scarto che il concetto marxiano di forza lavoro, con

l’enfasi posta sulla sua natura potenziale, determina rispetto alla teoria ricardiana, nei cui confronti

Marx è per altri versi debitore: non essendo una “forza in atto” a venire mercificata, ma “una forza

in potenza, tale che essa ‘non è ancora’”, la forza lavoro si presenta come “portatrice di virtualità su

cui possono essere esercitati una pressione e un controllo che vanno nel senso della loro

intensificazione”. È la “plasticità”, la “flessibilità” della forza lavoro ciò che consente

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l’“intensificazione” di cui parla Macherey, che è anche immediatamente una forzatura dei confini

dell’individualità del singolo lavoratore, dei “limiti della sua propria esistenza” – una

trasformazione del singolo portatore di forza lavoro in un componente del “lavoro sociale”

(Macherey, Le sujet productif, cit.). Il lavoro sfruttato dal capitale è infatti sempre lavoro

combinato, da cui si sprigiona (moltiplicato dall’“aumento di rendimento individuale dei singoli”

che si genera per via del “semplice contatto sociale”) un differenziale di forza (forza produttiva,

“forza di massa”, dell’“operaio combinato o operaio complessivo”). “La somma meccanica delle

forze dei lavoratori singoli”, scrive Marx, “è sostanzialmente differente dal potenziale sociale di

forza che si sviluppa quando molte braccia cooperano contemporaneamente a una stessa

operazione indivisa” (C, I, p. 398). È la potenza sociale della cooperazione, che Marx descrive in

riferimento alla “grande industria” del suo tempo in termini in cui non è difficile vedere ancora una

volta “spettri hobbesiani”. Lo stesso “rapporto tra l’operaio e la sua associazione e cooperazione

con altri operai è un rapporto di estraneità, un rapporto con modi di operare del capitale”, si legge

nei Grundrisse (G, II, p. 242). Certo, Marx afferma esplicitamente che “nella cooperazione

pianificata con altri l’operaio si spoglia dei suoi limiti individuali e sviluppa la facoltà della sua

specie” (C, I, p. 402). Ma “la connessione delle loro funzioni e la loro unità come corpo produttivo

complessivo stanno al di fuori degli operai salariati, nel capitale che li riunisce e li tiene insieme.

Quindi agli operai salariati la connessione tra i loro lavori si contrappone, idealmente come piano,

praticamente come autorità del capitalista, come potenza di una volontà estranea che assoggetta al

proprio fine la loro attività” (C, I, p. 405).

Prende avvio da qui il ragionamento marxiano sul “dispotismo” del capitale, nonché su una

specifica tecnologia di potere disciplinare, quel comando (Kommando) che Marx definisce per

analogia con l’organizzazione di un esercito e che, mano a mano che si intensifica la cooperazione

diviene “condizione reale della produzione” (C, I, p. 404), assumendo di fronte ai lavoratori il

carattere “oggettivo” di una potenza estranea: entro questo processo, “il capitale stesso si presenta

come loro soggetto” (G, II, p. 241), nel senso che pretende di rappresentare e dominare l’intero

collettivo operaio, opponendo la soggettività di quest’ultimo all’individualità dei singoli lavoratori.

Sono pagine, queste di Marx, di straordinaria importanza per lo studio dell’organizzazione del

lavoro e delle tecnologie di potere che la innervano. Fondamentale, in ogni caso, è sottolineare che

la “pretesa” del capitale si scontra continuamente e necessariamente con la resistenza operaia, in cui

Marx stesso indica uno dei motori dell’intero processo: “con la massa degli operai simultaneamente

impiegati cresce la loro resistenza, e quindi necessariamente la pressione del capitale per superare

tale resistenza. La direzione del capitalista non è soltanto una funzione particolare derivante dalla

natura del processo lavorativo sociale e a tale processo pertinente: ma è insieme funzione di

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sfruttamento di un processo lavorativo sociale, ed è quindi un portato dell’inevitabile antagonismo

tra lo sfruttatore e la materia prima da lui sfruttata” (C, I, pp. 404 s.). La cooperazione comandata

dal capitale si trova di fronte una cooperazione antagonistica, in cui le “facoltà della specie” sono

sviluppate dai singoli operai in diverse figure di soggettività collettiva, in una diversa

interpretazione del “rapporto di estraneità”. Sotto la spinta di queste lotte il rapporto di capitale si

modifica profondamente nella storia, cambia il lavoro ma cambiano anche le sue “condizioni

oggettive” appropriate e rappresentate dal capitale. Quantum mutatus ab illo, scrive Marx con

qualche ironia concludendo un capitolo del primo libro del Capitale (“La giornata lavorativa”)

metodologicamente essenziale da questo punto di vista (C, I, p. 367). La cooperazione può

assumere caratteri di autonomia mano a mano che la produzione rompe le mura della fabbrica e si

distende nell’intera società, gli stessi mezzi di lavoro possono essere in parte incorporati nel

cervello sociale, perdendo la “fissità” che caratterizza il sistema delle macchine analizzato da Marx

(cfr. C, II, p. 189). Il “profitto” può certo allora, come ha sostenuto in particolare Carlo Vercellone

in riferimento alla situazione contemporanea (cfr. da ultimo C. Vercellone, La legge del valore nel

passaggio dal capitalismo industriale al nuovo capitalismo [2012],

http://uninomade.org/vercellone-legge-valore/), “divenire rendita”; il capitale può cioè sviluppare il

potere di “appropriarsi (aneignen)” e “impadronirsi (abfangen)” di “valori creati senza il suo

intervento”, che Marx indicava come caratteristica essenziale proprio della rendita fondiaria (C, III,

p. 869). Ma l’insieme dei problemi che si sono visti (il rapporto di “assoggettamento” dei singoli

lavoratori a una “volontà estranea”, la separatezza del criterio che regola la produzione e

riproduzione della loro unità collettiva) non può che riprodursi finché esiste il capitalismo,

dividendo e lacerando in ultima istanza la stessa soggettività del singolo.

Il processo di socializzazione del (rapporto di) capitale è tra l’altro descritto da Marx, in particolare

nei Grundrisse e nel cosiddetto capitolo VI inedito del Capitale, come un processo di sussunzione

(o sottomissione, come viene talvolta tradotto in italiano il termine Subsumption) del lavoro. Non è

questa la sede per tornare sul tema e sul significato della “sussunzione” (cfr. A. Negri, Spunti di

“critica preveggente” nel Capitolo VI inedito di Marx [2012], http://uninomade.org/critica-

preveggente-capitolo-sesto/). Basterà ricordare che la distinzione marxiana tra sussunzione

“formale” e sussunzione “reale” corrisponde alla distinzione tra le due forme di plusvalore

identificate da Marx: il plusvalore assoluto, ottenuto “prolungando il tempo di lavoro” nelle

condizioni della “sussunzione formale” (C, I, p. 1240), e il plusvalore relativo, ottenuto

modificando il rapporto tra tempo di lavoro necessario e pluslavoro, ovvero riducendo il primo e

ottenendo una estensione (appunto relativa) del secondo attraverso l’intervento delle macchine e il

potenziamento della cooperazione lavorativa (“sussunzione reale”, cfr. C, I, pp. 1255 s.). La

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socializzazione del capitale è certo descrivibile nei termini di un avanzamento della “sussunzione

reale”, ma la “sussunzione formale” – in quanto “forma generale di qualunque processo di

produzione capitalistico” (C, I, p. 1237) – si riproduce essa stessa continuamente su scala allargata,

così come il plusvalore relativo si combina con il plusvalore assoluto. Ne abbiamo avuto

un’evidenza empirica negli ultimi anni, caratterizzati a livello globale da una parte da una

“rivoluzione completa (che prosegue e si ripete costantemente) nel modo stesso di produzione, nella

produttività del lavoro e nel rapporto fra capitalisti e operai” (C, I, p. 1256) e dall’altra da un

allungamento della giornata lavorativa sociale che ha invertito una tendenza secolare, costruita

materialmente entro violente lotte di classe, alla sua riduzione. In ogni caso, la categoria di

“sussunzione reale” offre una chiave di lettura particolarmente efficace dell’intensità dello sviluppo

capitalistico (che sotto il profilo dell’“estensione”, come si è già detto e meglio si vedrà in seguito

ha come proprio orizzonte il “mercato mondiale”). La “produzione di plusvalore relativo”, infatti,

investe immediatamente la sfera dei consumi e dei bisogni, “esige la produzione di nuovi consumi”

attraverso un “ampliamento quantitativo del consumo esistente” ma soprattutto attraverso “la

produzione di bisogni nuovi e la scoperta e la creazione di nuovi valori d’uso”. Il lavoro stesso è

trasformato in questo processo, la “sfera delle differenze qualitative” che lo caratterizzano è

“costantemente ampliata, resa più varia e internamente differenziata” (G, II, pp. 9 s.). In una pagina

dei Manoscritti del 1844, Marx aveva scritto che con la soppressione “positiva” della proprietà

privata “l’uomo si appropria del suo essere onnilaterale in maniera onnilaterale, e quindi come

uomo totale”: ne sarebbe seguita la “completa emancipazione di tutti i sensi e di tutti gli attributi

umani” (MEF, pp. 116 s.). Se questo è il comunismo, i Grundrisse ci parlano del comunismo del

capitale: “la coltivazione di tutte le qualità dell’uomo sociale e la sua produzione come uomo per

quanto è possibile ricco di bisogni perché ricco di qualità e di relazioni; ossia la sua produzione

come prodotto per quanto è possibile totale e universale della società […]: tutto ciò è anch’esso una

condizione della produzione basata sul capitale” (G, pp. 10 s.). Produzione dell’uomo, produzione

di soggettività: è questo il terreno su cui insistono in ultima istanza gli antagonismi che segnano il

modo di produzione capitalistico.

8. (Lotta di) classe

“I lavoratori bianchi, mentre ricevevano un basso salario, erano in

parte compensati da una sorta di salario pubblico e psicologico.

Venivano loro riservati deferenza e titoli di cortesia proprio perché

erano bianchi, erano liberamente ammessi, con i bianchi di tutte le

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classi, alle funzioni pubbliche, ai parchi pubblici, alle migliori scuole.

La polizia era reclutata tra le loro fila, e i tribunali, che dipendevano

dai loro voti, li trattavano con tale indulgenza da incoraggiarli quasi

all’illegalità”

(W.E.B. Du Bois, Black Reconstruction in America 1860-1880

[1935], New York, The Free Press, 1998, p. 700).

Questi antagonismi sono per Marx antagonismi di classe. Ma che cos’è una “classe”? Le fonti

dell’uso marxiano di questo concetto sono state ampiamente studiate (da ultimi, cfr. Dardot – Laval,

Marx, prénom: Karl, cit., pp. 227 ss.), e in fondo – sulla base di quanto si è detto al punto

precedente su forza lavoro e denaro – sembrerebbe semplice definirlo. Assunta la scissione del

campo della soggettività attorno ai due “poli” indicati, gli individui che costruiscono la propria vita

attorno al possesso di “forza lavoro” formerebbero la classe contrapposta a quella degli individui

per cui decisivo è il possesso di “denaro”. Ma questa definizione delle “due grandi classe

contrapposte l’una all’altra” nella società capitalistica, per riprendere la definizione che si è

incontrata nel Manifesto, ha tutt’al più valore “logico”. Nulla dice sulla produzione di un soggetto

collettivo capace di azione in quanto tale (e si è visto quanto problematica sia da una parte la

relazione tra i singoli capitalisti e il “capitale complessivo”, dall’altra quella tra i singoli operai e

l’“operaio complessivo”). I due campi che abbiamo “logicamente” distinto sono del resto

internamente “stratificati”, per via di una molteplicità di condizioni che intervengono a mediare e

differenziare il rapporto che gli individui intrattengono da una parte con il denaro e dall’altra con la

forza lavoro. Non è qui solamente in questione la moltiplicazione delle classi sotto il profilo

dell’analisi sociologica (si pensi ai dibattiti sulla “classe media” che prendono avvio già nel primo

Novecento). Fattori come il genere e la razza dividono originariamente il campo della classe,

introducendovi essenziali differenziali di potere e dispositivi di gerarchizzazione. Originariamente,

ho scritto: nel senso che strutturano quello che si è appena definito il rapporto che gli individui

intrattengono con il denaro e la forza lavoro. Le contraddizioni che attorno a genere e razza si

determinano non possono dunque essere considerate “secondarie” rispetto a una contraddizione di

classe qualificata come “fondamentale”. Un secolo di lotte e di sviluppi teorici su questi terreni

dovrebbe ormai avercelo insegnato. Lungi dal poter trovare una soluzione “semplice”, quello della

definizione del concetto di classe resta dunque un problema aperto, e come tale ce lo consegna

l’insieme della riflessione marxiana. È noto che il cinquantaduesimo capitolo del terzo libro del

Capitale, intitolato “Le classi”, è rimasto poco più che un abbozzo. Marx si limita qui a impostare il

problema e a presentare una ipotesi di soluzione altrettanto “semplice” di quella da cui siamo qui

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partiti: l’ipotesi che all’origine delle classi (qui indicate nel numero di tre, per l’inserimento di

quella dei “proprietari fondiari”) vi sia cioè “l’identità dei loro redditi e delle loro fonti di reddito”.

Ma questa ipotesi è subito scartata, con le ultime righe scritte prima dell’interruzione del

manoscritto: “tuttavia, da questo punto di vista, anche i medici, ad es., e gli impiegati verrebbero a

costituire due classi, poiché essi appartengono a due distinti gruppi sociali, e i redditi di ognuno di

questi gruppi affluiscono da una stessa fonte. Lo stesso varrebbe per l’infinito frazionamento di

interessi e di posizioni, creato dalla divisione sociale del lavoro fra gli operai, i capitalisti e i

proprietari fondiari. Questi ultimi, ad es., divisi in possessori di vigneti, possessori di terreni arativi,

di foreste, di miniere, di riserve di pesca” (C, III, p. 1188).

Che cosa possiamo derivare da questo momento di vera e propria vertigine concettuale di fronte allo

scomporsi dell’oggetto classe per via dell’infinito “frazionamento di interessi e di posizioni”?

Quantomeno un’indicazione in negativo: la “classe”, per Marx, non è riducibile a concetto

“sociologico”, si costituisce in eccedenza rispetto a una semplice “cartografia” della stratificazione

sociale (cfr. S. Aronowitz, How Class Works: Power and Social Movement, Yale, Yale University

Press, 2003). Una volta posta in questi termini la questione, tuttavia, si è semplicemente qualificato

il “problema” posto dalla classe, non se ne è certo approssimata la “soluzione”. D’altro canto quella

di classe è anche, evidentemente, “una categoria sociologica”, oltre che allo stesso tempo “un

concetto politico, una congiuntura storica, una parola d’ordine militante”: il punto è, tuttavia, che

come ha scritto di recente Frederic Jameson “una definizione nei termini di una sola di queste

prospettive non potrà che risultare insoddisfacente” (F. Jameson, Representing Capital. A Reading

of Volume One, London, Verso, 2011, p. 7). Tutti questi usi (e pure qualcun altro) sono ampiamente

documentabili nei testi di Marx, con il risultato che la classe sembra definire una costellazione

concettuale al cui interno rientrano valenze e stratificazioni di significato che è davvero difficile

(anzi: è sbagliato) tentare di ricondurre a unità. In termini generali, tuttavia, è il caso di sottolineare

che la violenta oscillazione che si è riscontrata a proposito della storia si riproduce anche negli usi

più significativi da parte di Marx del concetto di classe: quest’ultimo appare anch’esso diviso tra

l’azione degli uomini e le “circostanze”, tra una connotazione soggettiva (inseparabile dalla “lotta

di classe”) e una connotazione oggettiva, “strutturale”. Un brano dell’Ideologia tedesca è a questo

riguardo esemplare: “i singoli individui”, leggiamo, “formano una classe solo in quanto debbono

condurre una lotta comune contro un’altra classe; per il resto essi si trovano l’uno di fronte all’altro

come nemici, nella concorrenza. D’altra parte la classe acquista a sua volta autonomia di contro agli

individui, cosicché questi trovano predestinate le loro condizioni di vita, hanno assegnata dalla

classe la loro posizione nella vita e con essa il loro sviluppo personale, e sono sussunti sotto di essa”

(IT, p. 63). In un altro scritto dello stesso periodo, Miseria della filosofia (1847), Marx sviluppa

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ulteriormente i termini di questa “divisione” del concetto di classe, scrivendo che “la dominazione

del capitale ha creato a questa massa [di lavoratori] una situazione comune, interessi comuni. Così

questa massa è già una classe nei confronti del capitale, ma non ancora per se stessa. Nella lotta

[…] questa massa si riunisce, si costituisce in classe per se stessa. Gli interessi che essa difende

diventano interessi di classe. Ma la lotta di classe contro classe è lotta politica” (MF, p. 120).  

Per quanto non sia stata successivamente ripresa da Marx, la distinzione qui accennata tra “classe in

sé” e “classe per sé” è stata straordinariamente influente all’interno del marxismo proprio perché è

parsa dare plastica espressione all’oscillazione tra dimensione soggettiva e dimensione oggettiva

che si è in precedenza richiamata. Ha del resto anche aperto lo spazio concettuale per l’elaborazione

del concetto di “coscienza di classe”, di cui invano si cercherebbe una fondazione teorica in Marx

ma che tuttavia ha giocato un ruolo essenziale nei molteplici tentativi di colmare lo “scarto” tra le

due dimensioni indicate. Intrecciandosi con il dibattito sul partito e con quello sull’ideologia, lo

sviluppo delle controversie attorno alla “coscienza di classe” costituisce un capitolo fondamentale

della storia del marxismo e dei movimenti che a esso si sono richiamati. È difficile oggi proporne

un bilancio positivo: l’obiettivo di dissipare le nebbie delle rappresentazioni ideologiche di cui sono

prigionieri i singoli membri della classe operaia, rendendo “trasparente” il loro rapporto con la

“verità” dei rapporti sociali di produzione e aprendo il processo di formazione della “classe per sé”,

appare troppo pesantemente gravato da intenti pedagogici e da un’eredità illuministica che per mille

ragioni non ci appare riproponibile. L’azione del partito, inteso come portatore di una coscienza

rivoluzionaria esterna alla classe operaia, era certo stata pensata originariamente (da Lenin, in primo

luogo) in un rapporto dialettico che doveva esaltare la spontaneità operaia, ma si è troppo spesso

fissata in un ulteriore “rapporto di estraneità” (per richiamare i Grundrisse) con i singoli operai. E

l’espressione della “spontaneità”, dell’autonomia di classe, si è continuamente determinata – dopo

Marx – in forme e secondo una temporalità che sembrano contraddire il carattere lineare e

progressivo della maturazione di una “coscienza” – per strappi e cesure successive. È bene dunque

accantonare, almeno in via di ipotesi di lavoro, il concetto di “coscienza di classe”, e in generale –

coerentemente con il dibattito contemporaneo a cui si è accennato al punto 2 – la filosofia della

“coscienza” come terreno privilegiato su cui svolgere il tema della “produzione di soggettività”.

Indicazioni preziose potranno semmai venire dalle ricerche di coloro che, come E.P. Thompson e il

movimento della history from below, hanno insistito sulla necessità di analizzare i complessi

processi del farsi (making) della classe, o dal grande lavoro svolto attorno alla nozione di

“composizione di classe” all’interno dell’operaismo italiano. In forme diverse (e ciascuna

scontando specifici limiti), queste due correnti teoriche hanno dato un contributo essenziale alla

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“dinamizzazione” del concetto di classe, allargandone i contorni senza scioglierne il carattere

politico.

“La dominazione del capitale”, abbiamo letto nella Miseria della filosofia, “ha creato a questa

massa [di lavoratori] una situazione comune”, ponendo le basi per la costituzione, nella lotta, della

“classe per sé” come soggetto politico. Indipendentemente dal lessico hegeliano utilizzato in questo

passo (“in sé”, “per sé”), troviamo qui formulata un’idea spesso ripresa da Marx negli anni

successivi, quella cioè secondo cui il capitale prepara le condizioni per l’insorgere della lotta

operaia: come afferma icasticamente il Manifesto, “la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi

che le porteranno la morte; ha anche generato gli uomini che impugneranno queste armi: gli operai

moderni, i proletari” (108). I due termini qui utilizzati come sinonimi, come diversi nomi dello

stesso soggetto, si separeranno successivamente, e nel Capitale saranno gli “operai” a occupare

interamente la scena, mentre i “proletari” – come si vedrà al prossimo punto – risulteranno

sostanzialmente assenti. Resterà tuttavia ferma in Marx l’idea secondo cui il modo di produzione

capitalistico, per le sue stesse modalità materiali di funzionamento, è caratterizzato da una tendenza

a intensificare la cooperazione produttiva e a spogliare di ogni “differenza” il lavoro, rendendolo

astratto e omogeneo. Su queste basi diventa possibile (quando non necessario) il rovesciamento del

rapporto stesso di capitale, attraverso l’azione di una classe operaia disciplinata e unificata dallo

stesso comando capitalistico. Sono molti i passi marxiani che potrebbero essere convocati a

sostegno di questa lettura del rapporto tra sviluppo capitalistico e formazione della classe operaia

(mentre va detto che altri passi, a cominciare da quelli sulla cooperazione che si sono visti in

precedenza, sembrano smentire ogni ipotesi di semplice e lineare “rovesciamento” del rapporto di

capitale). Siamo qui di fronte a un’ipotesi che ha spesso trovato conferma in passaggi storici

determinati (per fare solo due esempi: dalle grandi lotte operaie degli anni Trenta negli USA a

quelle degli anni Sessanta in Italia), ma che – occorre riconoscerlo – non funziona in quanto teoria

generale. Si deve anzi qui rinvenire l’origine di un secondo problema (dopo quello a cui si è alluso

attraverso il riferimento alla “coscienza”) inerente al concetto di classe nel marxismo: assunto come

concetto di una omogeneità, esso ha spesso chiuso lo spazio della soggettivazione ritagliandolo

sull’immagine rovesciata della rappresentazione dell’unità del lavoro operata dal capitale (e spesso

“adottata” dal partito quando non dallo Stato operaio). Ne sono derivati enormi problemi e conflitti,

a cui allude il riferimento che si è fatto all’inizio di questo punto a genere e razza (ma si dovrebbero

qui richiamare le controversie relative al concetto di “lavoro produttivo” nonché il protagonismo e

le lotte, tanto al di fuori quanto all’interno dell’Occidente, di soggetti non riconducibili

all’immagine tradizionale di quest’ultimo).

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D’altro canto, restando all’interno di uno schema “lineare” come quello appena presentato, è

difficile evitare il problema che Lenin, genialmente, affrontò nel 1902 sotto le rubriche di

“economicismo” e “tradeunionismo”, intendendo con queste formule una politica essenzialmente

sindacale, che si riferisce “unicamente ai rapporti tra gli operai di una data categoria e i loro

padroni e non [ha] altro risultato che d’insegnare ai venditori di forza lavoro come vendere più

vantaggiosamente questa ‘merce’ e come lottare contro l’acquirente sul piano puramente

commerciale” (V.I. Lenin, Che fare? [1902], trad. it. in Id., Opere scelte, cit., vol. I, p. 288). Nelle

condizioni dell’offensiva operaia degli anni Sessanta, in Italia così come in altri Paesi occidentali,

affermare il carattere direttamente politico della lotta sul salario ha avuto un effetto dirompente, da

non dimenticare. Possono certo verificarsi anche oggi situazioni in cui quell’affermazione trova

importanti verifiche. Ma di nuovo: ricavarne una “teoria generale” sarebbe errato. Negli ultimi anni,

muovendoci sul terreno del precariato sociale, abbiamo piuttosto continuamente assistito al

riproporsi del “tradeunionismo”, alla ricerca di forme associative che, per citare una pagina di Marx

sui sindacati, cercassero di stabilire un “piano di parità” nella negoziazione del “valore” della forza

lavoro, agendo come “società di assicurazione” (C, I, pp. 1335 s.). Non si tratta certo di

stigmatizzare questa ricerca, ma non si può neppure negare che essa abbia nutrito (e continui a

nutrire) tendenze “corporative” che militano contro una politica di classe del lavoro vivo

contemporaneo. D’altro canto, questa politica non può che formarsi dentro e contro il rapporto di

capitale, non può dunque che investire una serie di determinazioni che si presentano come

“economiche”. Nell’ottavo capitolo del primo libro del Capitale, Marx ha analizzato le più rilevanti

“riforme” strappate dalla lotta operaia nel corso dell’Ottocento: la legislazione di fabbrica e la

limitazione della giornata lavorativa. Sono tra le pagine più intensamente “politiche” dell’intera

opera, in cui Marx mostra come gli operai siano riusciti a “ottenere a viva forza, come classe, una

legge dello Stato, una barriera sociale potentissima, che impedisca a loro stessi di vender sé e la

loro schiatta alla morte e alla schiavitù, per mezzo di un volontario contratto con il capitale” (C, I,

p. 367). Lo Stato si mostra qui percorso dalla lotta operaia, che vi inscrive una propria essenziale

conquista e lo piega ai propri bisogni. Ma al tempo stesso Marx mostra in questo capitolo una

trasformazione essenziale della stessa classe operaia determinata non dall’azione del capitale, ma

dalla lotta. Precisiamo: da una lotta che si sviluppa attorno all’“antinomia” fondamentale che

costituisce il rapporto di capitale – e che dunque investe quest’ultimo nella sua interezza. Nella lotta

attorno alla giornata lavorativa, scrive Marx, il possessore di denaro e il possessore di forza lavoro

si fronteggiano dotati di uguali diritti: e “fra diritti eguali decide la forza. Così nella storia della

produzione capitalistica la regolazione della giornata lavorativa si presenta come lotta per i limiti

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della giornata lavorativa – lotta fra il capitalista collettivo, cioè la classe dei capitalisti, e l’operaio

collettivo, cioè la classe operaia” (C, I, p. 284).

9. “La forma politica finalmente scoperta”

“La democrazia in una situazione rivoluzionaria, la democrazia sotto

la pressione di un proletariato rivoluzionario armato, la democrazia

che nel processo rivoluzionario si trasforma da strumento

dell’egemonia di classe della borghesia in strumento del proletariato

per sconfiggere e neutralizzare la borghesia, per spezzare con la

violenza la sua resistenza, per confiscare la sua proprietà, per

distruggere il suo ordine sociale: ecco qual era l’idea della dittatura

del proletariato per il socialismo più antico”

(Otto Bauer, Tra due guerre mondiali? La crisi dell'economia

mondiale, della democrazia e del socialismo [1936], trad. it. Torino,

Einaudi, 1979, p. 134).

In particolare se la leggiamo dal punto di vista della problematica della produzione di soggettività,

la critica marxiana dell’economia politica determina una serie di dislocazioni del politico, che

abbiamo ad esempio analizzato a proposito della forma merce, della cooperazione e del “comando”

all’interno della fabbrica. Categorie politiche essenziali, relative alla natura del potere così come al

rapporto tra dimensioni individuali e dimensioni collettive dell’esperienza e dell’azione, sono state

da Marx strappate al riferimento privilegiato allo Stato, private di autonomia e purezza e

felicemente “contaminate” attraverso l’immersione nel mondo “profano” dell’economia e della

società. Il concetto di sfruttamento, colto nella sua differenza specifica rispetto al piano su cui si

svolge tanto la storia dello Stato moderno quanto quella dei diritti, indica nel suo insieme la

radicalità di queste dislocazioni. La critica giovanile dell’emancipazione politica trova qui un

maturo svolgimento. Se ne possono ora ricapitolare i termini essenziali (pur ricordando che nelle

pagine del Capitale non si trovano riferimenti espliciti all’“emancipazione”). Le teorie

dell’emancipazione non fanno i conti con il problema assolutamente materiale dell’articolazione tra

gli effetti di dominazione e di produzione di soggettività che fanno capo all’azione dello Stato con

quelli che fanno capo all’azione del capitale. Pongo l’accento sull’“articolazione” per sottolineare

che in gioco non è qui semplicemente la contrapposizione tra una dimensione “materiale” e una

dimensione “formale”. Dal punto di vista della critica marxiana, la politica moderna si costituisce in

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una strutturale eteronomia, nel senso che appare originariamente stretta in un rapporto di co-

implicazione con il capitale che la apre in direzione dell’economia e della società. Non è un

rapporto di identità o di mera funzionalità, ma è un rapporto originario, nel senso che non v’è nella

modernità concetto o istituto politico che non sia costretto a misurarsi con esso. Lo svolgimento

della critica dell’economia politica, del resto, riqualifica quello che si è in precedenza ridefinito il

rompicapo della liberazione. Sono gli antagonismi costituitivi del modo di produzione capitalistico

a determinare la scena in cui questo rompicapo ora si presenta. E sono quegli stessi antagonismi a

guidare la ricerca e la fondazione del soggetto di una politica della liberazione. Se in Marx la

politica (ricordiamolo: messa in “dissolvenza” negli anni giovanili) conosce un momento di

autonomia in senso forte, è di questa politica che si parla. Di una politica che si definisce a fronte di

un problema enunciato da Marx con parole tanto semplici quanto impegnative: “la liberazione

(Befreiung) della classe operaia deve essere opera della classe operaia stessa” (MEW, XIX, p. 165).

Una volta “contaminata” la politica con l’economia e la società, del resto, i movimenti e le lotte di

questo soggetto – della classe operaia – si collocano in un contesto in cui “tradeunionismo” ed

“economicismo”, come si è detto, sono tendenze in qualche modo oggettivamente presenti. E in cui

si pone comunque il problema di distinguere e articolare “lotta economica” e “lotta politica”. Ma al

tempo stesso, una volta “politicizzato” l’economico, questa distinzione non potrà certo assumere

come riferimento l’esistenza di “ambiti” separati e autonomi. Abbiamo appena visto, con l’esempio

della lotta sulla giornata lavorativa, come uno scontro su temi “economici” si carichi di valenze

profondamente politiche nel senso che finisce per investire lo stesso rapporto di capitale e la sua

giuntura con la forma Stato. Di più: quella lotta trasforma le stesse figure soggettive del rapporto di

capitale (quantum mutatus ab illo, come si è ricordato più sopra, è il motto virgiliano con cui si

conclude il capitolo di Marx sulla giornata lavorativa). Essa entra cioè a far parte di quell’altra

storia di cui si è parlato a proposito del ’48 proprio in quanto è contraddistinta da una specifica

produzione di soggettività. Modificando la soggettività operaia (quella che l’operaismo italiano ha

definito la composizione politica di classe), una lotta vittoriosa come quella per la regolazione della

giornata lavorativa contribuisce a trasformare materialmente le condizioni della lotta di classe,

spostandola su un terreno tendenzialmente più favorevole per gli sfruttati. Al tempo stesso costringe

il capitale a collocarsi su questo terreno, a produrre cambiamenti nella sua “composizione organica”

(il rapporto tra capitale costante e variabile, nonché “fra la massa dei mezzi di produzione usati da

una parte e della quantità di lavoro necessaria per il loro uso dall’altra”, C, I, p. 753): a innovare

cioè le basi tecniche e organizzative della produzione, con conseguenze di fondamentale importanza

per la “composizione tecnica” di classe (per continuare a utilizzare il lessico operaista). Il soggetto

della politica della liberazione cambia nella storia, al ritmo di questi processi, ed è fondamentale

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porre in evidenza il fatto che essi (così come lo sviluppo capitalistico nel suo complesso), lungi

dall’essere riducibili a una razionalità tecnica o meramente “economica”, sono attraversati e segnati

da momenti politici (da lotte) che ne scandiscono il ritmo e ne condizionano la direzione. Nel

Capitale abbiamo altri esempi di lotte di questo genere, ad esempio a proposito della storia della

“legislazione di fabbrica” inglese. Proprio parlando della limitazione della giornata lavorativa,

nell’Indirizzo inaugurale dell’Associazione internazionale degli operai (1864), Marx arriva a

postulare l’esistenza di un antagonismo tra l’economia politica della borghesia e l’“economia

politica della classe operaia” (MEW, XVI, p. 11), una formulazione suggestiva nella misura in cui

sembra fondare l’idea di un’autonomia sociale ed economica della classe operaia (fatta non solo di

grandi lotte, ma anche di una molteplicità di conflitti, pratiche di resistenza e insubordinazione,

comportamenti quotidiani di rifiuto e sabotaggio del comando capitalistico). D’altro canto, in un

testo di un anno successivo (Salario, prezzo e profitto), ancora in riferimento alla giornata

lavorativa Marx spiega che la sua limitazione non si sarebbe mai verificata senza “la pressione

costante degli operai dall’esterno” dello Stato. È aggiunge: “è proprio questa necessità di una azione

politica generale che ci fornisce la prova che nella lotta puramente economica il capitale è il più

forte” (SPF, pp. 108 s.).

Si legge ancora, in Salario, prezzo e profitto, che la classe operaia non deve “lasciarsi assorbire

esclusivamente” dall’“inevitabile guerriglia che scaturisce dagli attacchi continui del capitale o dai

mutamenti del mercato”. La distinzione tra lotta economica e lotta politica sembra qui formulata in

modo netto: “invece della parola d’ordine conservatrice: ‘Un equo salario per un’equa giornata di

lavoro’, gli operai devono scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario: ‘Soppressione del

sistema del lavoro salariato’” (SPF, p. 113). È una distinzione netta, ma difficilmente la si può

considerare soddisfacente sotto il profilo teorico (ed è importante ricordare che Salario, prezzo e

profitto è il testo preparato da Marx per un’esposizione divulgativa delle sue teorie al Consiglio

generale dell’Internazionale). Anche a prescindere da quanto si diceva in precedenza sul carattere

politico della lotta sul salario, è immaginabile che “gli operai” arrivino a lottare per la

“soppressione del sistema del lavoro salariato” senza passare attraverso un insieme di lotte sulle

proprie condizioni materiali che necessariamente assume anche caratteri “economici”? E non è

all’interno di queste lotte che maturano quelle esperienze, quelle forme di organizzazione attraverso

cui la classe operaia comincia a cimentarsi con l’immane compito di essere protagonista della

propria liberazione, per riprendere la formula marxiana? Marx stesso avverte che “se la classe

operaia cedesse per viltà nel suo conflitto quotidiano con il capitale, si priverebbe essa stessa della

capacità di intraprendere un qualsiasi movimento più grande” (SPF, pp. 112 s.). Più che

considerare la lotta “economica” di per sé come espressione di “economicismo” e

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“tradeunionismo”, conviene allora assumere come criterio di misurazione della politicità delle lotte

l’intensità con cui queste ultime investono e riqualificano quello che si è più volte definito il

rompicapo della liberazione. D’altronde Marx, nel postulare il carattere intrinsecamente politico

della lotta di classe, non si riferiva certamente soltanto a lotte che, come quella sulla giornata

lavorativa, richiedessero “una azione politica generale” o a un’iniziativa esplicitamente

rivoluzionaria. “Ogni movimento di classe (Klassenbewegung)”, scriveva ad esempio alla figlia

Laura e a Paul Lafargue nel 1870, “in quanto movimento di classe è ed è sempre stato

necessariamente un movimento politico” (MEW, XXXII, p. 675). In questo riconoscimento Marx

indica qui la questione essenziale al centro del suo scontro con Bakunin e l’anarchismo, che si

qualifica dunque come uno scontro attorno al significato stesso della politica. Considerato dal punto

di vista delle lotte e dei “movimenti di classe”, il concetto della politica sembra dividersi nel Marx

critico dell’economia politica. Da una parte un elemento essenziale di politicità contraddistingue

“ogni movimento di classe” nella misura in cui esso insorge e si sviluppa dentro un campo

presidiato dai dispositivi di produzione di soggettività che fanno capo allo Stato e al capitale,

contestandone gli effetti di assoggettamento. Dall’altra parte l’intensità politica di una lotta è

determinata dalla forza con cui giunge a investire il rompicapo della liberazione, contribuendo a

ridefinirne i termini e a farne emergere l’urgenza (attraverso un movimento che si può definire di

“politicizzazione”, ovvero di soggettivazione). Trasversalmente, rispetto a questi due poli del

concetto di una politica di classe che mi pare di potere estrapolare dalla critica marxiana

dell’economia politica, agiscono le tendenze all’“economicismo” e al “tradeunionismo”. Ma

possono anche determinarsi dinamiche di accumulo di forza e di generalizzazione del tipo che Marx

ha analizzato in particolare nel caso della lotta per la regolazione della giornata lavorativa, esempio

classico (e tutt’ora metodologicamente attuale) di uno scontro su questioni “economiche” che

giunge ad avere un significato politico generale – a modificare cioè i rapporti di forza tra le classi

(e dunque, come si è detto, a costruire un terreno più favorevole su cui affrontare il rompicapo della

liberazione).

La critica dell’economia politica, scrive Marx nel poscritto alla seconda edizione del primo libro del

Capitale (1873), esprime un punto di vista di parte. Essa può infatti “rappresentare solo la classe la

cui funzione storica è il rovesciamento del modo capitalistico di produzione, e, a conclusione,

l’abolizione delle classi: cioè il proletariato” (C, I, p. 14, c.n.). Già, il proletariato. In realtà, nella

critica marxiana dell’economia politica, “il nome stesso di proletariato è assente” (É. Balibar, La

paura delle masse. Politica e filosofia prima e dopo Marx [1997], trad. it. Milano, Mimesis, 2001,

p. 123). Grande questione, quella del “nome” del soggetto dal cui punto di vista (nel cui nome,

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possiamo dire) la critica dell’economia politica viene svolgendosi. Nel primo libro del Capitale, quel

soggetto è sostanzialmente la classe operaia industriale: tanto le condizioni del suo sfruttamento

quanto le sue lotte sono analizzate da Marx attraverso un riferimento privilegiato al caso inglese,

ritenuto quello più “avanzato” dal punto di vista dello sviluppo capitalistico e dunque per certi

aspetti paradigmatico. C’è qui una prima ragione che suggerisce di non considerare sinonimi “classe

operaia” e “proletariato”. Conviene anzi, certo forzando la lettera dei testi marxiani, assumere la

tensione tra questi due termini come essenziale istanza critica da far lavorare nell’analisi della

produzione di soggettività nel capitalismo (tanto per quel che riguarda la polarità

dell’“assoggettamento”, ovvero l’eterogeneità delle forme assunte dallo sfruttamento, quanto per

quel che riguarda la polarità della “soggettivazione”, ovvero delle pratiche e delle lotte in cui si

esprime la tensione alla “liberazione”). Ma la seconda ragione, direttamente legata all’interpretazione

dei testi di Marx, consiste nel fatto che, dal punto di vista politico, il concetto di proletariato sembra

far riferimento a forme di azione collettiva, a pratiche di insorgenza rivoluzionaria, piuttosto diverse

rispetto a quelle discusse da Marx nel primo libro del Capitale a proposito della classe operaia

inglese. Dietro il riferimento al proletariato nel poscritto alla seconda edizione, è difficile non vedere

il ritorno degli “spettri” delle vittime dell’insurrezione parigina del giugno del ’48 (GCF, p. 71),

l’esperienza vittoriosa (ancorché di breve durata) della Comune nel 1871. Certo, Marx la presenta

(in La guerra civile in Francia, l’Indirizzo che scrisse alla fine di maggio di quell’anno per conto del

Consiglio generale dell’Internazionale) come “un governo della classe operaia” (GCF, p. 85). Ma è

facile notare che la composizione del proletariato parigino in armi protagonista della Comune era

assai diversa da quella della “classe operaia” descritta nelle pagine del primo libro del Capitale (cfr.

da ultimi Dardot – Laval, Marx, prénom: Karl, cit., cap. V): il riferimento al proletariato nel

poscritto del 1873 potrebbe perfino apparire in questo senso come una sorta di lapsus di Marx,

come espressione della sua consapevolezza della natura interamente politica del gesto con cui aveva

nominato come classe operaia il soggetto della Comune, all’interno di una dura polemica con

blanquisti e proudhoniani.

Leggendo La guerra civile in Francia, del resto, si incontrano nuovamente i problemi

(essenzialmente politici in senso classico) confrontandosi con i quali il giovane Marx aveva

introdotto il concetto di proletariato dall’interno del suo confronto critico con la filosofia hegeliana

del diritto pubblico. La scansione teorica del testo ruota attorno alla figura dello Stato (e dunque alla

specifica produzione di soggettività ad essa collegata, assai più che a quella collegata al capitale),

giungendo a innovare in profondità il modo in cui lo Stato stesso era stato considerato in uno scritto

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fondamentale come il Manifesto del partito comunista (si veda la prefazione all’edizione tedesca

del 1872, MPC, pp. 308 s.). La Comune appare a Marx come “la forma politica finalmente scoperta

nella quale si poteva compiere l’emancipazione economica del lavoro”, come “una forma politica

fondamentalmente espansiva, mentre tutte le precedenti forme di governo erano state

unilateralmente repressive” (GCF, p. 85). Al centro del dibattito marxista sullo Stato nel Novecento

soprattutto per via dell’interpretazione offertane da Lenin alla vigilia dell’insurrezione d’ottobre in

Stato e rivoluzione, l’analisi marxiana della Comune riprende, pur in un diverso contesto (si tratta

qui del resto dell’“indirizzo” di un’organizzazione politica “internazionale”), alcuni dei temi al

centro dei suoi scritti sugli anni attorno al ’48. In sede di bilancio, quasi ricollegandosi al passo del

18 brumaio su ci siamo soffermati nel paragrafo 4, Marx scrive ad esempio che la lotta di classe

operaia “dovrà passare per lunghe lotte, per una serie di processi storici che trasformeranno le

circostanze e gli uomini” (GCF, p. 87). Ma la Comune ha in particolare a suo giudizio determinato

un gigantesco salto in avanti nella storia politica del proletariato, nella misura in cui ha

rappresentato e affermato “la forma positiva” di quella “repubblica sociale” che all’inizio della

rivoluzione di febbraio aveva rappresentato per il proletariato parigino soltanto “una vaga

aspirazione” (GCF, p. 80). È la stessa forma politica della repubblica a scindersi nelle pagine di

Marx di fronte all’irruzione nella storia di una “forma politica fondamentalmente espansiva” che

scompagina il piano delle tradizionali forme di Stato e di governo al cui interno si colloca la

repubblica “borghese” e “parlamentare” analizzata nel 18 brumaio. Ma definitiva è anche la

separazione, che si compie in Marx di fronte alla Comune, tra la politica comunista e lo Stato

moderno: la classe operaia, infatti (ecco il passo richiamato nella prefazione all’edizione del 1872

del Manifesto), “non può mettere la mano semplicemente sulla macchina dello Stato bella e pronta,

e metterla in movimento per i propri fini” (GCF, p. 76). È una separazione che va intesa in senso

letterale, non solo metaforico (e nessuno meglio di Lenin lo comprese sotto il profilo teorico): nel

senso che la politica comunista si definisce come azione di massa che punta a separare le funzioni

“comuni” (nel senso di quel Gemeinwesen con cui Engels, in una lettera del 1875 ad August Bebel

propone di sostituire il termine “Stato”, MEW, XXXIV, p. 129) svolte dallo Stato dal suo apparato

repressivo, appropriandosi delle prime e distruggendo il secondo. “Dittatura del proletariato” indica

originariamente la forma politica di questa azione di massa. Scrive Marx nel 1875, criticando il

“programma di Gotha” varato dalla socialdemocrazia tedesca sotto l’influenza di Lassalle: “non è

assolutamente compito degli operai, che si sono liberati del gretto spirito di sudditanza, rendere

‘libero’ lo Stato” (CPG, p. 51). Né la classe operaia ha da liberare il “lavoro”, visto che ha da

liberare se stessa (CPG, p. 44). Ancora il rompicapo della liberazione, come tema essenziale su cui

si determina la costituzione della classe operaia e del proletariato in soggetto politico. Nel corso

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della storia successiva sarà spesso qualcun altro (un partito, uno Stato) a pretendere di agire in

luogo e in nome dei proletari e degli operai, rappresentandoli. Ma la politica comunista, in quanto

politica di una auto-liberazione, non potrà che rivolgersi criticamente contro ogni dispositivo di

rappresentanza, perfino quando, all’interno di circostanze specifiche, ne deve riconoscere la

necessità.

10. Marx ad Algeri

“Il capitalismo nasce storicamente in un ambiente sociale non-

capitalistico. […] All’interno di quest’ambiente il processo di

accumulazione del capitale si apre una strada. […] In realtà,

l’accumulazione capitalistica non solo non può, nel suo espandersi a

balzi, contare sul semplice incremento naturale della popolazione

lavoratrice, ma non può neppure attendere la lenta decomposizione

naturale delle forme non-capitalistiche e il loro pacifico trapasso

all’economia mercantile. Il capitale non conosce altra soluzione al

problema che la violenza: metodo costante dell’accumulazione del

capitale, non solo al suo primo nascere, ma anche oggi”

(Rosa Luxemburg, L’accumulazione del capitale [1913], trad. it.

Torino, Einaudi, 1968, pp. 365 s.).

Lenin non è mai stato in Inghilterra, Marx non è mai stato a Detroit e, per quel che conta, Adam

Smith non è mai stato a Pechino. Ad Algeri, invece, Marx c’è stato davvero, sul finire della sua

vita: per un paio di mesi all’inizio del 1882, per cercare (invano) ristoro dal rigido inverno

londinese, seguendo le raccomandazioni dei medici. Il titolo di quest’ultimo paragrafo, come quelli

celebri che si sono appena evocati (di Mario Tronti, in primo luogo, ma anche di Giovanni Arrighi),

non deve tuttavia essere inteso in termini letterali. Per quanto non manchino, nel soggiorno di Marx

ad Algeri, elementi di interesse, non è alla ricostruzione di quel soggiorno che sono dedicate le

pagine che seguono (cfr. in questo senso M. Vesper, Marx in Algier, Bonn, Pahl-Rugenstein, 1995).

Il passaggio a “oriente” di un Marx duramente provato non solo dalla malattia ma anche dalla

morte, l’anno precedente, della moglie Jenny verrà piuttosto assunto come metafora, molto allusiva

in verità, di una serie di spiazzamenti che si producono nel suo pensiero dopo la pubblicazione del

primo libro del Capitale. Vale la pena, in questo senso, di forzare il senso di un enigma a proposito

della vera e propria sospensione dei lavori per la conclusione della sua opera di critica

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dell’economia politica che si verifica dopo il 1870. “Cattivo stato di salute”, ci informa Engels (C,

II, p. 6). È certo vero, e tuttavia pensando alla passione con cui Marx si impegnò a fianco della

Comune e negli scontri interni all’Internazionale, risulta difficile credere che non sarebbe riuscito a

trovare le energie per riordinare sistematicamente la gran mole di manoscritti che aveva approntato

per il secondo e terzo libro del Capitale già prima della pubblicazione del primo. Forzare il senso di

un enigma, come si diceva, significa dunque formulare l’ipotesi che una serie di blocchi teorici si

fossero presentati a interrompere l’ordine dell’“esposizione” (Darstellung), imponendo a Marx la

riapertura della “ricerca” (Forschung) (sul rapporto tra questi termini, si veda Negri, Marx oltre

Marx, cit., p. 24). Negli ultimi anni della sua vita egli si immerse nello studio delle scienze naturali

del suo tempo (dalla chimica alla geologia), certamente anche per via dell’influenza di Darwin,

accumulò materiali attorno al tema di una “storia critica della tecnologia” (C, I, p. 454, n. 89), si

confrontò intensamente con antropologi ed etnologi, riempiendo fitti taccuini d’appunti.

Quest’ultimo aspetto delle ricerche marxiane degli ultimi anni è particolarmente importante,

combinandosi con l’intensificazione dell’interesse per realtà e aree del mondo diverse rispetto a

quelle su cui Marx aveva fino a quel momento costruito le proprie teorie del capitalismo

(l’Inghilterra) e della rivoluzione proletaria (la Francia).

Già si è richiamata l’attenzione (nel paragrafo 7) sull’importanza che in Marx assume il concetto di

Weltgeschichte, con quel riferimento al “mondo” che si perde nella traduzione italiana canonica con

“storia universale”. Non è una questione meramente terminologica. Fin dagli anni giovanili, Marx

prende sul serio il riferimento “spaziale” contenuto nel sintagma Weltgeschichte, entrato nell’uso

filosofico di lingua tedesca nel XVIII secolo, e lo fa consapevolmente interagire con il riferimento

“temporale”. Si legge ad esempio nell’Ideologia tedesca: “è certo un fatto empirico che i singoli

individui, con l’allargarsi dell’attività sul piano storico mondiale (mit der Ausdehnung der Tätigkeit

zur Weltgeschichtlichen), sono stati sempre asserviti a un potere loro estraneo […], a un potere che

è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale

(Weltmarkt)” (IT, p. 36, trad. modificata). Si vede bene qui, mi pare, il significato spaziale

assolutamente concreto che assume in Marx la formula Weltgeschichte, fino a indicare il tempo

storico dominato da una potenza (Macht) che assume il mondo come ambito della propria azione. È

un altro punto di straordinaria originalità della riflessione di Marx, che si tratta di valorizzare anche

dal punto di vista della produzione di soggettività. In un’epoca storica in cui era ben lungi

dall’essersi concluso in Europa il processo di affermazione degli Stati nazionali e di rottura delle

appartenenze “locali”, il suo sforzo è interamente teso a cogliere l’azione di forze la cui costituzione

e la cui efficacia si collocano all’interno di coordinate “mondiali”. E queste forze determinano la

stessa produzione ed esperienza quotidiana di soggetti che, come già si è visto, proprio per questo

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vengono definiti “individui empiricamente universali” (IT, p. 34). Con una radicalità che non trova

riscontro in nessun esponente dell’“economia classica”, Marx individua nella scala fin da principio

mondiale delle sue operazioni uno dei caratteri distintivi del moderno modo di produzione

capitalistico. Leggiamo un brano tratto dai manoscritti marxiani pubblicati postumi da Karl Kautsky

con il titolo Theorien über den Mehrwert (“Teorie sul plusvalore”): “è soltanto il commercio estero,

lo sviluppo del mercato in mercato mondiale che trasforma il denaro in denaro mondiale e il lavoro

astratto in lavoro sociale. La ricchezza astratta, il valore, il denaro, cioè il lavoro astratto, si

sviluppano nella misura in cui il lavoro concreto si sviluppa in una totalità di differenti specie di

lavoro che abbraccia il mercato mondiale. La produzione capitalistica si basa sul valore o sullo

sviluppo del lavoro contenuto nel prodotto in lavoro sociale. Ma ciò non è [possibile] che sulla base

del commercio estero e del mercato mondiale. Questo è dunque, nello stesso tempo, presupposto e

risultato della produzione capitalistica” (SDE, III, p. 274).

Il mercato mondiale è dunque per Marx, secondo una formulazione da lui spesso ripetuta in

particolare nei Grundrisse, “presupposto e risultato della produzione capitalistica”. “La tendenza

(Tendenz) a creare il mercato mondiale è data immediatamente con il concetto stesso di capitale.

Ogni limite (Grenze) si presenta qui come un ostacolo (Schranke) da superare” (G, II, p. 9). Se il

capitale non può esistere al di fuori dell’orizzonte del mercato mondiale, questo stesso orizzonte

deve tuttavia essere continuamente prodotto e affermato. L’importanza del colonialismo e della

conquista all’origine del moderno modo di produzione capitalistico, sottolineata da Marx nella sua

analisi della “cosiddetta accumulazione originaria”, trova qui le proprie ragioni teoriche di fondo.

Ma più in generale, una volta aperto lo spazio del mercato mondiale, quest’ultimo ha caratteri che si

potrebbero definire “formali”. Nel senso che può essere materialmente articolato e organizzato in

modi molto diversi, secondo geometrie variabili di egemonia, dominazione e dipendenza: se il

capitale è “rivoluzione permanente” (G, II, p. 12) lo è anche sotto il profilo della produzione degli

spazi al cui interno si determinano la sua valorizzazione e la sua accumulazione. Il grande dibattito

di inizio Novecento attorno all’imperialismo registra precisamente questo problema, che Marx colse

distinguendo il mercato mondiale dai rapporti “internazionali” (cfr. L. Ferrari Bravo, vecchie e

nuove questioni nella teoria dell’imperialismo, in Id., a cura di, Imperialismo e classe operaia

multinazionale, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 7-67). Quel che qui vorrei sostenere è che in un primo

momento Marx è stato come abbagliato da quelli che ho definito i caratteri “formali” del mercato

mondiale, e vi ha costruito attorno un’immagine lineare della tendenza del capitale ad affermare in

modo necessario e senza resti la propria logica, secondo un modello sostanzialmente unitario e

omogeneo. Indipendentemente dalla loro efficacia retorica (in primo luogo per quel che riguarda la

critica del socialismo utopistico), i toni apologetici sul ruolo rivoluzionario della borghesia nella

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storia moderna nel Manifesto, così come sul colonialismo inglese in India in uno scritto del 1853

(La dominazione britannica in India), possono essere considerati anche come sintomi di uno

sbilanciamento tra i due aspetti – temporale e spaziale, per così dire – della comprensione marxiana

della Weltgeschichte. Una certa idea di progresso come necessità storica si infiltra indubbiamente in

queste come in altre pagine marxiane, “disincarnandosi” per così dire dall’effetto di concretezza

potenzialmente prodotto dal riferimento spaziale.

Analogo discorso, del resto, può essere fatto per le sezioni dei Grundrisse dedicate alle “forme che

precedono le società capitalistiche”, complessivamente dominate da una lettura retrospettiva volta a

evidenziare i caratteri distintivi (e la “superiorità”) del modo di produzione capitalistico. Se

l’interesse per gli sviluppi dell’etnologia e dell’antropologia a lui contemporanee mostra come

Marx abbia sentito negli ultimi anni della sua vita l’esigenza di problematizzare questa lettura, fin

dagli anni Cinquanta (in particolare attraverso il lavoro giornalistico per la “New York Daily

Tribune”) l’accumulo di letture e riflessioni su società diverse da quelle europee occidentali,

sull’India e sulla Cina, sulla schiavitù negli Stati Uniti, sui nazionalismi irlandese e polacco gli

consentì di riempire di determinazioni materiali il concetto di “mercato mondiale” (cfr. in

particolare K.B. Anderson, Marx at the Margins. On Nationalism, Ethnicity, and Non-Western

Societies, Chicago – London, University of Chicago Press, 2010). È bene non sopravvalutare gli

effetti di spiazzamento e di revisione che da questo insieme di letture, riflessioni e ricerche

derivarono all’interno della riflessione marxiana, soprattutto dopo la pubblicazione del primo libro

del Capitale. Lettere, abbozzi di lettere, quaderni di appunti vanno letti con una qualche cautela, e

supportano al più la formulazione di ipotesi. Quel che mi pare plausibile è in ogni caso affermare

che Marx si mosse nella prospettiva di un approccio “multilineare” alla storia e allo sviluppo del

capitalismo, considerando cioè la possibilità di una molteplicità di forme eterogenee, calibrate su

diverse scale storiche e geografiche, di imposizione e organizzazione del rapporto sociale

costitutivo del capitale (cfr. ad es. Anderson, Marx at the Margins, ma anche E. Dussel, L’ultimo

Marx, Roma, Manifestolibri, 2009, in specie p. 230). È Marx stesso ad affermarlo a proposito della

sua analisi della “cosiddetta accumulazione originaria”: “la ‘fatalità storica’” del movimento di

transizione al capitalismo, scrive a Vera Zasulic nel marzo del 1881, è “espressamente limitata ai

paesi dell’Europa occidentale” (ICR, p. 237), mentre poco più di tre anni prima – in una lettera alla

redazione di una rivista russa – aveva messo in guardia dal trasformare la sua analisi in “una teoria

storico-filosofica della marcia generale fatalmente imposta a tutti i popoli” (ICR, p. 236).

In termini teorici, vale la pena riprendere a questo punto il passo dei Grundrisse citato in

precedenza: “la tendenza a creare il mercato mondiale è data immediatamente con il concetto stesso

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di capitale. Ogni limite si presenta qui come un ostacolo da superare” (G, II, p. 9). Se la “tendenza”

indica il momento “universale” che inerisce tanto al concetto di capitale quanto alla sua azione,

l’incontro con il “limite” (definito tanto dal punto di vista dell’estensione geografica quando dal

punto di vista dell’insieme delle condizioni storiche, sociali e culturali che determinano tra l’altro il

“lavoro vivo”) è all’origine della profonda eterogeneità del capitalismo – tanto storico quanto

contemporaneo (si veda, pur all’interno di una diversa prospettiva, Th.C. Petterson, Karl Marx,

Anthropologist, Oxford – New York, Berg, 2009, p. 144; ma centrale, su questi passaggi, continua a

essere per me il lavoro di Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, cit.). È interessante notare come

in questo passo Marx combini i due significati del “limite” che si sono appena richiamati – quello

“geografico”, immediatamente associato alla “tendenza a creare il mercato mondiale” (nonché

all’uso del termine Grenze, che indica il confine), e quello “sociale”, al centro delle righe

immediatamente successive. La tendenza del capitale, prosegue infatti Marx, “è di subordinare

anzitutto ogni momento della produzione stessa allo scambio, e di sopprimere la produzione di

valori d’uso immediati che non rientrino nello scambio, ossia appunto di sostituire una produzione

basata sul capitale ai modi di produzione precedenti e, dal suo punto di vista, primitivi” (G, II, p. 9).

Tanto sul limite della sua “estensione” geografica quanto sul limite della sua penetrazione

“intensiva” all’interno di formazioni sociali determinate (per richiamare i termini utilizzati nel

paragrafo 7), il capitale si trova di fronte, in questo passo dei Grundrisse, spazi “non capitalistici”.

È il problema della transizione al capitalismo, classicamente analizzato da Marx – come più volte si

è detto – nel capitolo 24 del primo libro del Capitale, dedicato alla “cosiddetta accumulazione

originaria”. Mi sono ampiamente occupato di questo testo in un libro di qualche anno fa (S.

Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Verona, ombre corte,

2008, appendice), e non vi tornerò qui se non per ribadire la mia convinzione – condivisa con molti

studiosi e molte studiose – che si debbano ritenere i problemi e i “procedimenti” studiati da Marx a

proposito della “cosiddetta accumulazione originaria” come caratteristici, certo in forme di volta in

volta rinnovate, dell’intero arco storico di sviluppo del modo di produzione capitalistico. La

produzione di quelli che appaiono al tempo stesso come “presupposti e risultati della produzione

capitalistica” – il mercato mondiale, certo, ma anche e soprattutto i soggetti che al suo interno si

muovono – si ripropone continuamente come problema che interrompe la linearità storica dello

sviluppo, in particolare in quei momenti di crisi in cui il capitale dispiega al massimo grado la

propria natura di “rivoluzione permanente”. In questi momenti si ripresenta anche il problema del

“limite”, della trasformazione di una serie di rapporti sociali, di processi produttivi, di forme di

organizzazione politica, di specifici assetti spaziali in “ostacoli” da superare. La situazione

contemporanea mostra chiaramente (ad esempio attraverso l’attacco al welfare) come questi

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“ostacoli” non siano necessariamente ambienti “non capitalistici”, ma possano essere costruiti come

“esterni” al capitale (dal suo interno, se è concesso il gioco di parole) per aprire nuove frontiere alla

sua valorizzazione. A me pare che questa dinamica di “apertura”, immediatamente presidiata da

precisi dispositivi di “chiusura” (si pensi, per rimanere all’esempio del welfare, alla

generalizzazione del debito), sia un tratto strutturale del modo di produzione capitalistico, un suo

momento “universale” da comprendere criticamente nelle circostanze specifiche in cui si produce. È

del resto accompagnato da una specifica produzione di soggettività e da specifici conflitti, non

riducibili allo standard del lavoro salariato né alle due immagini fondamentali attorno a cui viene

svolgendosi l’immaginazione rivoluzionaria di Marx – quella della classe operaia industriale e

quella del proletariato insorto nelle strade di Parigi.

In questi processi e in questi conflitti, come del resto nella scena della “cosiddetta accumulazione

originaria”, le diverse forme della proprietà comune e del rapporto comunitario non possono che

rivestire ruoli centrali – tanto come “punto d’attacco” per il capitale quanto come base per la

resistenza. Se si accetta l’ipotesi che Marx avesse sviluppato negli ultimi anni della sua vita

un’acuta consapevolezza dell’importanza di questi problemi su scala globale, il suo confronto con

gli antropologi e gli etnologi (documentato dai taccuini del 1880-1882) si carica di significati

ulteriori rispetto a quelli indicati da Engels nella prefazione a L’origine della famiglia, della

proprietà privata e dello Stato (1884). Marx, in altri termini, non sarebbe stato soltanto alla ricerca

delle origini storiche di una serie di criteri di gerarchia sociale, ma avrebbe anche lavorato alla

costruzione di un archivio di forme del “comune” con cui leggere politicamente alcuni dei conflitti

più significativi determinati nel presente dall’espansione mondiale del capitalismo. È in particolare

attorno al caso russo, alla possibilità che l’obscina, la comunità rurale, potesse rappresentare la base

per un passaggio diretto al comunismo, che Marx ragionò negli ultimi anni della sua vita (cfr.

Basso, Agire in comune, cit., pp. 94-117). Anche in questo caso, i testi di cui disponiamo

frammentari, e i tentativi che sono stati fatti in questi anni di ricavarne un Marx “comunitarista”

sono decisamente poco convincenti (si vedano per un bilancio i saggi raccolti in A. Curcio, a cura

di, Comune, comunità, comunismo, Verona, ombre corte, 2011). Quel che mi interessa estrapolare

dall’ultimo Marx non è una revisione teorica e neppure la soluzione delle aporie del suo pensiero. È

piuttosto la tensione a riqualificare continuamente i termini di un problema – quello della

liberazione – rimasto costante fin dagli anni della sua riflessione giovanile. E certo, nell’intensità

del confronto con le forme della proprietà comune e del rapporto comunitario si può leggere in

filigrana la tensione a riavviare la ricerca proprio sul tema della produzione di soggettività

all’interno di un capitalismo definitivamente e materialmente pensato nella sua dimensione

mondiale. Possiamo immaginare che fosse questa la sua preoccupazione mentre camminava per le

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strade di Algeri in quell’inizio del 1882, mentre raccoglieva informazioni sui muratori che, “per

quanto sani e autoctoni”, si ammalavano di febbri violente dopo tre giorni di lavoro e ricevevano

come parte del salario “una dose quotidiana di chinino” (Vesper, Marx in Algier, cit., p. 190) o

mentre sorseggiava un caffé in un locale “moresco”, affascinato dallo spirito di “assoluta

uguaglianza” che osservava tra i frequentatori arabi. Riferendone alla figlia Laura il 13 aprile,

aggiungeva tuttavia a scanso di equivoci, nel suo caratteristico impasto di tedesco e inglese: und

dennoch gehen sie zum Teufel without a revolutionary movement, “e tuttavia sono fottuti senza un

movimento rivoluzionario” (Vesper, Marx in Algier, cit., p. 200).

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Opere di Marx citate (sigle)

18B = Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, in K. Marx, Rivoluzione e reazione in Francia 1848-1850,

Torino, Eianudi, 1976.

C, I = Il capitale. Critica dell’economia politica, libro primo, Il processo di produzione del

capitale, Torino, Einaudi, 1975.

C, II = Il capitale. Critica dell’economia politica, Libro secondo, Il processo di circolazione del

capitale, Torino, Einaudi, 1975.

C, III = Il capitale. Critica dell’economia politica, Libro terzo, Il processo complessivo della

produzione capitalistica, Torino, Einaudi, 1975.

CPG = Critica del programma di Gotha, Roma, Savelli, 1975.

G = Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 2 voll., Firenze, La Nuova Italia,

1978.

GCF = La guerra civile in Francia, Roma, Editori Riuniti, 1977.

HF = K. Marx – F. Engels, Die Heilige Familie, oder Kritik der kritischen Kritik. Bruno Bauer und

Konsorten, in MEW, 2.

ICR = K. Marx – F. Engels, India, Cina, Russia, Milano, Il Saggiatore, 1976.

IT = K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, in Opere, vol. V, Roma, Editori Riuniti, 1972

LCF = Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, in K. Marx, Rivoluzione e reazione in

Francia 1848-1850, Torino, Eianudi, 1976.

MEF = Manoscritti economico-filosofici del 1844, Torino, Einaudi, 1980.

MEW = K. Marx – F. Engels, Werke, 39 Bde. und 2 Erg.Bde., Berlin, Dietz, 1958-1971.

MF = Miseria della filosofia. Risposta alla “Filosofia della miseria” del signor Proudhon, Roma,

Editori Riuniti, 1993.

MPC = K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, Torino, Einaudi, 1979.

QE = La questione ebraica, Roma, Editori Riuniti, 1978.

SDE = Storia delle teorie economiche, 3 voll., Torino, Einaudi, 1954.

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SPF = Salario, prezzo e profitto, Roma, Editori Riuniti, 1977.