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1 ROBERTO MASCIOTTI La nascita e l’infanzia nella Roma imperiale La nascita. … Orgoglioso, il padre appende alla porta di casa ghirlande per festeggiare l’evento, e colmo di gioia fa pubblicare sul giornale “la prova della sua virilità” Giovenale, Satire, IX, 82 sgg. Ecco la nascita nella Roma dell’impero: un momento davvero felice per chi il figlio veramente lo desiderava, anche se offuscato dalla consapevolezza dell’altissima mortalità infantile; ma fonte di imbarazzo per chi il figlio non lo aveva voluto, soprattutto se la nuova nata era una femmina. Si, perché una figlia costava farla crescere, si sposava solo se era fornita di una dote e col matrimonio, passando in potestà del marito, era dal punto di vista economico una pura perdita. Nella stanza della nascita di norma entravano solo le donne; solo in casi eccezionali era presente il medico (Sorano di Efeso, Gynaecia, IV, 7, 1). Usualmente era la levatrice che gestiva la situazione, talora aiutata da una o più apprendiste. Tuttavia non era raro che la donna partorisse da sola, coricata o seduta sulla sedia ostetrica. Prima, durante e dopo il parto, venivano invocate tutte le divinità in qualche modo interessate all’evento e alla futura vita del nascituro; in special modo Carmenta, Giunone e Lucina, ma ne sono note altre 55, e di seguito ne diamo un esempio: Partula (al momento del parto), Lucina (porta i bimbi alla luce), Vagitanus (il dio del primo vagito), Edusa (libera dall’inappetenza), Potina (protegge l’atto del bere), Cunina (dona il sonno al fanciullo), Paventia (aiuta a superare gli spaventi), Carda (protegge il fisico), Stimula (affina i sensi), Sentia (aiuta lo sviluppo della mente), Fabulinus (aiuta il sorgere del linguaggio), Statulinus (aiuta la posizione eretta), ecc. Eseguite tutte le operazioni connesse con la nascita, la levatrice presentava il bimbo al padre e quando questi lo prendeva in braccio legittimava socialmente, per così dire, il figlio verso la società. Che fosse il padre a sollevare il figlio da terra per riconoscerlo come suo, è una leggenda diffusa da secoli, confutata però da Koves-Zulauf (Römische Geburtsriten, Munich: Beck, 1990). Subito dopo la nascita (per i maschi) o dopo sette giorni (per le femmine), veniva messo al collo del neonato una capsula contenente amuleti o testi di preghiere, fatta con una foglia d’oro nelle famiglie ricche (bulla aurea) o con un semplice pezzo di cuoio nelle famiglie povere (scortea). Essa restava al collo del nuovo nato fino all’ingresso nell’età virile (15-17 anni) per i maschi, o fino al matrimonio per le femmine. Dopo sette giorni per le femmine e otto per i maschi (non è noto il motivo di tale differenza), si faceva una grande festa durante la quale veniva

nascita e l’infanzia nella Roma imperiale Prima, durante e dopo il ... · Tuttavia non era raro che la donna partorisse da sola, coricata o seduta sulla sedia ostetrica. Prima,

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1

ROBERTO MASCIOTTI

La nascita e l’infanzia nella Roma imperiale

La nascita.

… Orgoglioso, il padre appende

alla porta di casa ghirlande per

festeggiare l’evento, e colmo di

gioia fa pubblicare sul giornale

“la prova della sua virilità”

Giovenale, Satire, IX, 82 sgg.

Ecco la nascita nella Roma dell’impero: un momento davvero felice

per chi il figlio veramente lo desiderava, anche se offuscato dalla

consapevolezza dell’altissima mortalità infantile; ma fonte di

imbarazzo per chi il figlio non lo aveva voluto, soprattutto se la nuova

nata era una femmina. Si, perché una figlia costava farla crescere, si

sposava solo se era fornita di una dote e col matrimonio, passando in

potestà del marito, era dal punto

di vista economico una pura

perdita.

Nella stanza della nascita di

norma entravano solo le donne;

solo in casi eccezionali era

presente il medico (Sorano di

Efeso, Gynaecia, IV, 7, 1).

Usualmente era la levatrice che

gestiva la situazione, talora

aiutata da una o più apprendiste.

Tuttavia non era raro che la donna partorisse da sola, coricata o seduta

sulla sedia ostetrica.

Prima, durante e dopo il parto, venivano invocate tutte le divinità in

qualche modo interessate all’evento e alla futura vita del nascituro;

in special modo Carmenta, Giunone e Lucina, ma ne sono note altre

55, e di seguito ne diamo un esempio: Partula (al momento del

parto), Lucina (porta i bimbi alla luce), Vagitanus (il dio del primo

vagito), Edusa (libera dall’inappetenza), Potina (protegge l’atto del

bere), Cunina (dona il sonno al fanciullo), Paventia (aiuta a superare

gli spaventi), Carda (protegge il fisico), Stimula (affina i sensi), Sentia

(aiuta lo sviluppo della mente), Fabulinus (aiuta il sorgere del

linguaggio), Statulinus (aiuta la posizione eretta), ecc.

Eseguite tutte le operazioni connesse con la nascita, la levatrice

presentava il bimbo al padre e quando questi lo prendeva in braccio

legittimava socialmente, per così dire, il figlio verso la società. Che

fosse il padre a sollevare il figlio da terra per riconoscerlo come suo, è

una leggenda diffusa da secoli, confutata però da Koves-Zulauf

(Römische Geburtsriten, Munich: Beck, 1990).

Subito dopo la nascita (per i maschi) o dopo sette giorni (per le femmine), veniva messo al collo del neonato una capsula contenente amuleti o testi di preghiere, fatta con una foglia d’oro nelle famiglie ricche (bulla aurea) o con un semplice pezzo di cuoio nelle famiglie povere (scortea). Essa restava al collo del nuovo nato fino all’ingresso nell’età virile (15-17 anni) per i maschi, o fino al matrimonio per le femmine.

Dopo sette giorni per le femmine e

otto per i maschi (non è noto il motivo

di tale differenza), si faceva una

grande festa durante la quale veniva

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effettuato il lavaggio rituale del neonato, gli si assegnava il nome (dies

lustricus/nominalia) e parenti ed amici portavano giochi e sonagli

(crepundia).

Il padre poi, a Roma e in Egitto, era obbligato da una norma augustea

a registrare ufficialmente i figli legittimi entro 30 giorni; tale

registrazione divenne obbligatoria in tutto l’impero e per tutti i nati

(di qualunque stato fossero) con l’imperatore Marco Aurelio. Un

esempio di ciò è dato dal testo sottoriportato, ritrovato fra i papiri di

Ossirinco, in Egitto:

Sotto i consoli Publio Salvio Giuliano e Bellicio

Calpurnio Torquato, nel 12° anno dell’impero

di Tito Elio Adriano Antonino Augusto Pio,

quando Petronio Onorato era prefetto d’Egitto:

Tito Giulio Dioscoride ha registrato sua figlia

Giulia Ammono nata da Giulia Ammonaro.

14 settembre 148

(seguono le firme di sette testimoni)

Abbandono dei neonati.

Nonostante non sia possibile fornire cifre o stilare statistiche,

l’abbandono dei neonati è ben documentato nel mondo antico, ed

era assai frequente; molto spesso usato come metodo

anticoncezionale, meno pericoloso dell’aborto, sia dal punto di vista

fisico, sia legale (solo in alcune situazioni l’aborto veniva seriamente

punito).

Si abbandonavano i neonati (molto più le femmine che i maschi) se

avevano malformazioni, a causa di problemi matrimoniali, per una

posizione sociale compromessa o semplicemente perché il bimbo

non era desiderato. Solitamente venivano lasciati in luoghi

frequentati: nei mercati, ai crocicchi delle strade, sui gradini dei

templi (presso il mercato

ortofrutticolo di Roma vi era una

colonna, detta columna lactaria, ai

piedi della quale venivano posti i

bimbi abbandonati). Vi era quindi la

possibilità che qualche passante

pietoso o qualche matrona senza figli

li raccogliesse, ma in generale molti

morivano di fame o di freddo. Inoltre

nessuno si faceva illusioni che i

sopravvissuti avessero un roseo futuro: ...vel ad servitutem, vel ad

lupanar …(Lattanzio, Div. Inst., IV, 20).

La legge prevedeva anche il caso che i genitori naturali potessero, con

prove inoppugnabili, riavere il figlio abbandonato. In tal caso colui

che l’aveva adottato doveva essere debitamente rimborsato delle

spese sostenute. È interessante leggere la lettera del salariato

Hilarion alla sposa e sorella Alsi (dell’anno 1 d.C.), lettera ritrovata

negli scavi della città romana di Ossirinco, in Egitto:

… io ti prego e ti ammonisco: provvedi all’infante; appena

percepisco il salario te lo farò avere. Quando partorisci, cosa

ormai assai probabile, lascialo in vita, se maschio; se

femmina, abbandonala ...

Papiro di Ossirinco, IV, 774

La morte dei bambini.

Nella letteratura romana si parla poco della sofferenza e della morte

dei bambini. L’altissima mortalità infantile ha imposto probabilmente

una sorta di pubblico pudore, una specie di distacco affettivo ed una

apparente insensibilità che nascondeva grande capacità di

autocontrollo, se non di fatalismo. Tuttavia esisteva una pena privata,

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che talora affiorava e si esprimeva con accenti dolorosi. Riporto qui

un epigramma di Marziale, composto per la morte della figlioletta

avuta da una schiava:

Frontone padre, madre Flaccilla, a te

affido questa bimba, bacio e carezze mie,

perché la tenera Erotion le nere ombre

e la gola mostruosa del cane tartareo

non riempiano di gelo e di paura.

Avrebbe compiuto il sesto dei suoi inverni

appena fosse vissuta altri sei giorni ancora

fra voi che la guardate così carichi d’anni

sconfinatamente libera giochi.

E l’immatura lingua cinguetti ancora il mio nome.

Le sue ossa così molli copra una zolla non dura

e com’ella a te, a lei sii, terra, leggera.

Marziale, Epigrammi, V, 34

Aspettative di vita

Calcolare l’aspettativa di vita nel mondo romano-imperiale

risulta assai difficile e soggetto a molti elementi di incertezza: gli unici

dati abbastanza affidabili sono le tabelle delle età di Ulpiano (Dig.,

XXXV, 2, 68), le iscrizioni sepolcrali e quanto riportato dai papiri

ritrovati negli scavi archeologici. Ma tali dati rappresentano solo una

parte della popolazione. Le epigrafi tombali, ad esempio, venivano di

certo commissionate solo da cittadini abbastanza abbienti ed inoltre

le età riportate non sono molto affidabili, dal momento che

nell’antichità non sempre era documentata con precisione la data di

nascita. Inoltre vi erano grandi differenze fra la popolazione urbana e

quella rurale: perlomeno a Roma, lo stress da rumore,

l’inquinamento, la vita in spazi ristretti e poco igienici e l’elevato

tasso di delinquenza, accorciavano notevolmente la vita. Per non

parlare degli schiavi, la vita dei quali, quasi del tutto priva di presidio

medico e soggetta a condizioni di vita notevolmente disagiate, era

assai più breve di quella dei normali cittadini.

Lo storico e demografo prof. B.W. Frier ha compilato la tabella

sottoriportata, che dà un’idea abbastanza precisa della popolazione

romana

TABELLA DELLE ASPETTATIVE DI VITA E DELLE ETA' SECONDO B.W. FRIER

ETÀ ASPETTATIVA Di VITA

MORTALITÀ POPOLAZIONE PROGRESSIVO

(su 1000) (percent.) (percent.) 0-1 21,1 466,9 3,6 3,6 1-5 31,7 70,2 10,3 13,9

5-10 37,1 13,2 11,2 25,1 10-15 34,5 9,9 10,6 35,7 15-20 31,1 15,4 9,9 45,6 20-25 28,4 17,2 9,2 54,8 25-30 25,7 19,5 8,4 63,2 30-35 23,1 22,3 7,5 70,7 35-40 20,6 25,9 6,7 77,4 40-45 18,0 30,6 5,8 83,2 45-50 15,6 37,3 4,9 88,1 50-55 13,3 47,4 4,0 92,1 55-60 11,2 57,3 3,1 95,2 60-65 9,1 78,4 2,2 97,4 65-70 7,4 104,2 1,4 98,8 70-75 5,8 143,4 0,8 99,6 75-80 4,5 203,9 0,3 99,9 >80 3,8 265,4 0,1 100

L’aborto

Nel diritto penale romano l’aborto non era un reato: il feto non era

considerato persona (Dig., XXV, 4, 1, 1 - XXXV, 2, 9, 1) e dunque,

durante l’età repubblicana, esso rimaneva impunito; tanto più che in

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antico il confine fra una prevenzione delle nascite “a posteriori” e

l’aborto era assai labile. Solo dopo il 200 d.C. un rescritto imperiale

comminava una sanzione legale (esilio) per la donna che avesse

abortito contro la volontà del marito (in quanto l’atto era lesivo del

diritto di quest’ultimo ad avere una prole legittima) (Dig., XLVII, 11

,4). Più severa era la punizione per coloro che avevano procurato

l’aborto, se la donna moriva o restava menomata: condanna ai lavori

forzati nelle miniere o all’esilio (Dig., XLVIII, 19, 38, 5).

Non sembra tuttavia che l’inasprimento delle pene abbia modificato

la situazione: l’aborto restava comunque uno strumento di

“pianificazione familiare” assai frequente, anche se non ci sono

statistiche in proposito. I metodi più utilizzati per abortire erano:

l’assunzione di emetici o purghe od altre bevande più o meno

efficaci, interventi chirurgici con sonde metalliche, sforzi gravosi o

movimenti violenti, lavande con pozioni che avrebbero dovuto

provocare l’espulsione del feto. La donna talora abortiva da sola;

spesso però si faceva aiutare, anche da medici coscienziosi, cui il

giuramento di Ippocrate non impediva di intervenire (tale

giuramento costituiva in realtà solo un impegno morale e nessun

medico era tenuto ad attenervisi con rigore).

La contraccezione

Nell’antichità non si distingueva tanto come oggi tra la prevenzione

del concepimento e l’aborto. Il terzo metodo di pianificazione

familiare era poi l’abbandono dei neonati. La mancata distinzione tra

le diverse pratiche per limitare il numero dei figli era dovuta alla

mancanza di cognizioni precise sul momento del concepimento.

Illuminante in tal senso è il fatto che in latino non esistano parole per

’concepimento’ o ’contraccezione’.

Le fonti sono assai scarse e da ricondurre prevalentemente ai ceti più

elevati della società romana. La contraccezione in senso stretto era

praticata, ma assai meno dell’aborto; divenne più importante a

partire dal II secolo, con l’incremento del benessere dei romani.

Augusto cercò con la sua legislazione di accrescere il numero dei nati,

che si era ridotto progressivamente a valori assai bassi; ma gli

incentivi economici per le famiglie numerose, le tasse più elevate per

le persone non sposate e senza figli ottennero assai scarsi risultati.

Quali metodi contraccettivi si faceva ricorso a resina di cedro, aceto,

acqua salata e olio d’oliva spalmati sugli organi sessuali, oppure a

lavande vaginali con le sostanze più strane; si usavano inoltre pessari

occlusivi di lana imbevuti di olio, resina, miele o vino. Si utilizzavano

inoltre amuleti con presunti effetti magici. Venivano anche

propagandati sistemi ‘naturali’, basati sull’astensione dai rapporti nei

giorni fertili del ciclo. Ma tale metodo non era molto efficace, data la

scarsa conoscenza in merito dei medici antichi (essi pensavano

erroneamente che la donna fosse particolarmente fertile

immediatamente dopo la mestruazione).

Tuttavia nella letteratura medica antica si trovano più ricette per

l’aborto, che per la contraccezione. Ad ogni modo le conoscenze

dell’antichità in questa materia si possono paragonare a quelle del

XIX secolo, fino al 1850.

Il “silfio” Una menzione speciale spetta a questa pianta, nel contesto della

contraccezione. Denominata nell’antichità ’silfio’, ’laserpicium’ o

semplicemente ’laser’ era una specie di finocchio selvatico che

cresceva spontaneo in Cirenaica e che, nonostante vari tentativi, non

fu mai possibile coltivare in maniera intensiva. Esso costituiva un

rimedio eccezionale per varie malattie, per la contraccezione e il

controllo delle nascite. E dunque era di importanza economica

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eccezionale, al punto che la monetazione dell’epoca ne riportava

l’immagine.

Simile ad un finocchio gigante, oltre

alle proprietà mediche il Silfio

possedeva un sapore eccezionale ed

infine una qualità unica e

incredibile, che anticipava di

duemila anni le moderne pillole

anticoncezionali. Secondo molti

studiosi del passato, infatti, questa

spezia, utilizzata con soddisfazione

come cibo, veniva ampiamente consumata anche per i suoi effetti

abortivi e antifecondativi, consentendo un significativo controllo

delle nascite. La produzione a Cirene e nelle città della provincia era

massiccia, al punto che quasi interamente l'economia della zona era

basata su questa pianta.

Secondo i commercianti romani, il Silfio era un dono del Dio Apollo,

valeva tanto oro quanto il suo peso e la resina gommosa che ne

veniva estratta, chiamata Laserpicium (o anche "Laser", "Lasar") era

esportata in tutto l'impero. Tracce di Silfio sono state trovate persino

in India e in Cina, anche se in quelle terre esistevano specie simili in

parte sovrapponibili come proprietà.

La moderna scienza erboristica considera il Silfio come una specie

appartenente alla famiglia delle piante Apiaceae, di cui fanno parte

moltissimi nomi noti presenti sulle nostre tavole: oltre al finocchio

comune ci sono tra gli altri anche la carota, il cumino, il prezzemolo, il

cerfoglio, il coriandolo, l'angelica, la pastinaca e l'aneto. Si tratta di

piante estremamente ricche di sostanze chimiche che hanno effetti

curativi sul corpo umano conosciuti fin dall'antichità, oltre ad avere

sapori gradevoli ampiamente usati in cucina.

Il Silfio più specificatamente apparteneva al genere ‘Ferula’ (noto

anche per le sue proprietà estrogeniche), di cui ancor oggi esiste un

rappresentante nella forma dell'Assafetida. Per la sua attività

anticoncezionale si è fatta anche l’ipotesi che la resina contenesse nel

suo interno insetti del genere ’Cantaride’ (la cantaridina è molto

velenosa), parassiti della pianta che venivano quindi inglobati nel

prodotto commercializzato.

Sulla sua estinzione (III - IV sec.) si sono fatte molteplici ipotesi, fra le

quali quella della distruzione delle piante da parte dei governatori

romani della Cirenaica (di religione cristiana), contrari a qualsiasi tipo

di controllo delle nascite. Ma l’ipotesi più plausibile resta il

mutamento del clima e il progressivo inaridirsi del suolo che non ha

più offerto le condizioni ottimali per la sua crescita, oltre

all’incontrollato consumo.

A titolo di curiosità, e a conferma della grandissima

importanza che ebbe tale pianta, è riportato a

fianco lo stemma di cui si fregiavano i nostri soldati

che avevano partecipato alla campagna d’Africa

nella seconda guerra mondiale: tale stemma riporta

la pianta di silfio stilizzata che ancora oggi è lo

stemma della Cirenaica.

I giochi dei fanciulli

I bambini romani, com’è naturale, dedicavano molto tempo al gioco,

come quelli odierni. Molti dei giochi oggi amati lo erano già allora:

bambole e pupazzi raffiguranti animali, cavallucci di legno, gioco del

cerchio, altalene e dondoli, aquiloni, trottole, nascondino, mosca

cieca, tiro alla fune, imitazione di mestieri (giudice, soldato, medico,

ecc.), gioco della palla, e, ovviamente, fare scherzi agli adulti: ad

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esempio incollare una moneta sul terreno e osservare i passanti

nell’inutile tentativo di prenderla (Pers., V, 111).

Molto comuni erano i giochi con le noci: nuces relinquere (“lasciare le

noci”) significava passare nell’età adulta (Pers., I, 10). Vi erano giochi

da tiro: nuces castellatae, il cui scopo era abbattere da una certa

distanza una “torretta” di noci in equilibrio, con una sola noce; il

gioco del delta che consisteva nel lanciare una noce il più vicino

possibile al vertice di un triangolo disegnato sul terreno; il gioco

dell’orca, in cui si tentava di lanciare, da una certa distanza, una noce

nella stretta imboccatura di un recipiente (orca). E ancora giochi in

cui si tentava di indovinare il numero di noci contenute in una mano

(o in un recipiente), oppure se il loro numero fosse pari o dispari

(par/impar); e giochi di abilità, come quello di far rotolare una noce

lungo un piano inclinato, cercando di colpire quelle che erano state

collocate alla base. Anche ossa di animali (tali) erano popolari come

materiale di gioco. Nelle cinque pietre l’abilità consisteva nel

realizzare una determinata successione gettando e acchiappando i

tali con palmo e dorso

della mano. Lanciare tali,

sui quali erano indicati

dei numeri, era invece

un gioco di pura fortuna.

Ma il gioco più comune e

popolare era senz’altro il

gioco con la palla. Non

era infatti prerogativa

solo dei fanciulli, ma

anche tra gli adulti era

molto popolare; essi giocavano al campo Marzio, nei Fori, nelle

strade, in parchi privati e alle Terme, prima di lavarsi. Vi erano vari

tipi di palle, a seconda dell’uso che se ne doveva fare: la più piccola

era la pila, rigida, imbottita di peli o piume, cucita con nastri colorati;

oppure la paganica, morbida, anch’essa imbottita di piume, la

trigonalis, rigida, più piccola, imbottita di crine. La più grande era la

follis, morbida, in genere una vescica di maiale o di manzo gonfiata

con aria.

A palla si poteva giocare da

soli o in piccoli gruppi (il

gioco più diffuso era il trigon,

in cui tre giocatori

formavano un triangolo e si

lanciavano la palla in una

successione casuale; i tiri non

acchiappati venivano contati

a sfavore). Il popolare

harpastum era una specie di

‘palla avvelenata’ in cui si

cercava di ingannare

7

l’avversario destinatario del lancio. Giocavano soprattutto i maschi,

ma vi sono mosaici d’epoca in cui si vedono giocare a palla anche

femmine (Piazza Armerina).

L’educazione

‘Moribus antiquis res stat Romana virisque’. Questa frase, tratta dal

‘De re publica’ di Cicerone e che si può tradurre “lo stato romano si

fonda sui suoi cittadini e sui costumi degli antichi”, sintetizza in modo

egregio il concetto di educazione dei romani: era la famiglia, scrigno

della tradizione di Roma, che impartiva ogni tipo di educazione. I

fanciulli, sia maschi che femmine, nella prima infanzia erano sotto il

controllo della madre; poi, verso i sei, sette anni, le femmine

continuavano in famiglia il loro apprendistato di ‘matrone’,

imparando dalla madre a cucire, a tessere, a gestire una casa, e ad

apprendere le nozioni basilari per poter leggere, scrivere e far di

conto. I maschi, invece, non appena ne erano in grado, seguivano il

padre nelle sue attività, imparando nei fatti come ci si comportava e

quali nozioni erano necessarie

per la vita che li aspettava in

futuro. Quando era più

grandicello, accompagnava il

padre al Foro, e veniva iniziato

alla vita di comunità, si

impadroniva dei rudimenti

della politica romana ed

imparava ad interessarsi della

vita pubblica.

Quindi, fino alla tarda

Repubblica, tutta l’educazione

del cittadino e l’apprendistato

culturale, era demandato alla

famiglia, contrariamente al mondo greco, nel quale la scuola e

l’educazione erano prerogativa dello stato, il quale si incaricava di

istruire in modo organico e uniforme i suoi cittadini. A Roma, solo

nella tarda Repubblica (fine del I sec. a.C.) compaiono vere e proprie

scuole, ma di tipo privato: i maestri venivano pagati dai familiari dei

fanciulli e venivano scelti molto spesso fra schiavi greci di discreta od

elevata cultura, a seconda del tipo di istruzione che si voleva

impartire. Ai maestri non solo spettava l’onere di stabilire il

contenuto ed il metodo di insegnamento, ma anche di trovare il

luogo in cui fare scuola (spesso il retrobottega buio e fuligginoso di

qualche osteria o sotto i colonnati dei templi nel rumore della folla,

oppure addirittura in qualche angolo all’aria aperta nel Foro).

Restavano però anche i precettori e maestri privati (soprattutto nelle

famiglie agiate), che operavano all’interno della famiglia stessa.

La scuola

Ce l’hai forse con me, disgraziato d’un maestro di scuola,

volto odiato dai ragazzi e dalle ragazze? I galli crestati non

hanno ancora rotto il silenzio notturno, e tu già fai rumore

con le urla e con lo schiocco della frusta …

Marziale, Ep., IX, 68

Così il poeta Marziale sintetizzava ironicamente la scuola romana del

primo livello nei primi tempi dell’impero: una scuola, come abbiamo

visto, praticamente nella strada, dove il maestro, per ottenere

attenzione e rispetto, usava spesso la frusta.

Quanto diverso il bassorilievo di Treviri, raffigurante una scuola del II

secolo, in cui il maestro con due allievi ne saluta un terzo che sembra

sia appena arrivato e saluta con cortesia e buona educazione! Il tutto

emana un’atmosfera di lavoro rilassata, circonfusa di vera umanità;

ma una situazione didattica tanto esemplare esisteva probabilmente

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solo in qualche casa privilegiata, dove vi era un pedagogo proprio ed

un ambiente dedicato. In realtà, poiché l’obbligo scolastico non

esisteva ed i genitori, come abbiamo detto, dovevano farsi carico di

tutte le spese, risparmiavano sull’onorario del maestro. Questo, per

poter vivere, doveva per lo meno avere 20 o 30 allievi (che

naturalmente doveva cercare) ed ancora con ciò poteva vivere assai

modestamente, tanto che spesso faceva un secondo lavoro

stendendo testamenti o facendo lo scrivano per altri.

Le lezioni iniziavano all’alba e duravano fino a mezzogiorno; quindi

riprendevano dopo la pausa pranzo. Le vacanze scolastiche erano di

pochi giorni all’anno, per i Saturnali e poche altre festività, anche se

genitori e scolari, in quanto paganti, erano liberi di prendersi dei

giorni di libertà.

L’istruzione veniva suddivisa in tre livelli: elementare, dai 7 agli 11

anni, gestita da un insegnante (ludimagister) che aveva l’obbiettivo di

portare i ragazzi a saper leggere, scrivere e far di conto. Il secondo

livello, medio (12/16 anni), gestito da un grammaticus, dava ai ragazzi

conoscenze grammaticali e letterarie, forniva elementi di conoscenza

di lingua greca e degli scrittori e poeti più importanti. Il terzo livello,

superiore (17/20 anni), in cui era presente un rhetor aiutato spesso

da collaboratori, era dedicato alla retorica, alla giurisprudenza,

filosofia, matematica, medicina, ecc., cioè a tutto quello che all’epoca

era noto delle scienze umane.

Quanto veniva imparato nei quattro anni del primo livello di

istruzione non era in realtà un granché; a malapena gli allievi

sapevano leggere e scrivere e far di conto, anche perché il metodo di

insegnamento era caratterizzato da una monotona scrupolosità e

lentezza.

Gli scolari imparavano a

leggere a piccoli passi:

prima le singole lettere

dell’alfabeto, avanti e

indietro, poi singole

associazioni di lettere,

sillabe, parole e piccole

frasi, prima che

finalmente potessero

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leggere interi brani. Per introdurli all’arte della scrittura, il maestro

guidava loro la mano per disegnare le lettere sulla tavoletta di cera,

oppure gli allievi dovevano ripercorrere lettere già incise su tavolette

di legno. I libri erano costosi e non facevano parte del materiale

scolastico: vi era molta dettatura, molta copiatura e molto esercizio

di memoria.

Un ostacolo per un apprendimento agile ed efficiente era costituito

dal fatto che perlopiù in un gruppo si trovavano ragazzi di età e livelli

diversi. Solo quando una scuola godeva di prestigio e quindi di una

grande affluenza, il maestro poteva permettersi degli aiutanti e

quindi di formare vere e proprie classi. Il tasso di alfabetizzazione

della popolazione urbana era relativamente alto; la maggioranza dei

bambini aveva frequentato una scuola elementare per circa quattro

anni, ma all’età di 11/12 anni la maggior parte di essi terminava la

propria esperienza scolastica.

Istruzione superiore significava prendere lezioni da un grammaticus

fino all’età di 16 anni circa. L’ambiente non era molto diverso da

quello della scuola elementare, e neppure il metodo, altrettanto

monotono. Oggetto delle lezioni era la costruzione di conoscenze

grammaticali e letterarie, oltre allo studio del greco che non riusciva

facile a tutti ed era dunque accompagnato da minacce e punizioni.

Il terzo ed ultimo livello del “sistema” scolastico romano prevedeva

l’intervento del rhetor, in una realtà che si configurava più come

college o università che come scuola. I rhetores (detti anche oratores)

insegnavano la retorica, quell’arte oratoria indispensabile per ogni

posizione sociale elevata, che consentiva in ogni occasione di

sostenere il proprio punto di vista in modo efficace. I giovanotti della

classe dirigente tra i 16 e i 20 anni (le ragazze, se c’erano,

costituivano una minoranza irrilevante) affinavano il loro

armamentario retorico con orazioni di esercizio (declamationes) note

perché prive di qualunque riferimento alla realtà. Col professore di

retorica collaboravano soprattutto giuristi, ma anche filosofi, medici,

matematici, insegnanti di musica, architettura e storia, nonché

docenti di geometria ed astronomia.

Come oggi, anche allora vi era chi criticava il metodo, affermando che

l’istruzione, impartita in determinate scuole accusate di essere

superficiali e fine a se stesse, fosse orientata “non al fine di imparare

per la vita, ma per la scuola medesima”

Il maestro

Il maestro, soprattutto quello elementare (ludimagister) che gestiva

la propria scuola da “professionista” indipendente, non se la passava

bene. Il suo prestigio sociale era abbastanza basso, tanto che un

collega di grado più elevato, il retore Floro, definisce questa attività

“mestiere del tutto indegno”: non meraviglia quindi che

all’insegnamento elementare si dedicassero solo schiavi, liberti e

provinciali (soprattutto dall’oriente greco). Dal momento che la

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reputazione era tanto bassa, non stupisce che il reddito bastasse a

malapena per un misero sostentamento, e che la puntualità dei

genitori nei pagamenti lasciasse spesso a desiderare. Alla fine del III

secolo d.C. un maestro di scuola elementare doveva avere una classe

di 30 allievi se voleva raggiungere (con i 50 denari che percepiva

mensilmente pro capite) il salario di un artigiano o di un operaio

specializzato. In una satira di Giovenale vi è la lamentela di un

maestro (vecchia quanto il mondo):

Voi genitori, però, avete pretese sconsiderate: il maestro

deve conoscere le regole della grammatica, sapere di storia

e conoscere tutti i nuovi autori come le proprie tasche … Voi

esigete che egli formi la morale giovanile … che prenda il

posto della figura paterna con tutto il gruppo affinché essi

non intraprendano giochi contrari al buoncostume. Non è

facile osservare le mani di tanti ragazzi e i loro occhi sempre

sfuggenti. Questi, mi dite, sono problemi tuoi; intanto, in un

anno, mi date quanto il popolo pretende per l’auriga in una

sola corsa

Giovenale, Satire, VII, 229 sgg.

Il fatto che le condizioni di lavoro della

maggior parte dei maestri (e non solo

alla scuola elementare) fossero

gravose fino all’inverosimile era

universalmente riconosciuto. Questa

attività comportava noie e fatica e

procurava ben poche soddisfazioni; a

ciò si aggiungeva il chiasso e la polvere

della strada, che solo una semplice

tenda separava da docente e discenti.

Infine, anche i maestri romani

conoscevano bene l’irrequietezza e la

disattenzione, la pigrizia e l’impertinenza di molti scolari. Essi erano

naturalmente vittime di molti scherzi, anche se in massima parte

cercavano di imporre una disciplina ferrea. Il fardello dei maestri era

tuttavia alleviato dal fatto che chiunque poteva aprire una scuola e

cercare di procurarsi scolari: tutto il resto era regolato dal “mercato”.

Il grammaticus aveva bisogno di maggiori qualifiche: era

indispensabile che conoscesse il greco e i più importanti classici latini

e greci, che costituivano la principale materia di insegnamento per gli

studenti di livello avanzato. Era dunque pagato assai di più ed alcuni

fra loro, vere star dell’insegnamento, divennero assai ricchi, anche se

erano eccezioni.

Tra tutti i maestri, quello che godeva della maggior considerazione

era tuttavia il rhetor, anche perché aveva a che fare soprattutto con

studenti adulti e spesso aveva la propria scuola, in cui si insegnava a

tenere discorsi giuridici e politici, per cui gli studenti ricevevano

anche una formazione in materia di diritto e filosofia. Le scuole dei

retori erano frequentatissime, ma anche molti maestri di retorica

dovevano condividere le amare esperienze dei colleghi impegnati

negli ordini inferiori di scuola; quando scadeva il termine fissato,

infatti, molti studenti cambiavano scuola, o addirittura confessavano

di aver sperperato in dadi e baldorie il denaro inviato dal padre e

destinato a pagare il docente.