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FANHS FANHS FANHS LE DEE E LE ACQUE I CELTI E LASTRONOMIA THE LINDOW MAN AQUAE SULIS CARMINA GAELICA NAVAGRAHAS CASTA DIVA “O MOON!” . SERAPIDE ISIDE IN APULEIO FANUM APOLLINIS INNO AD ISIDE UNA PREGHIERA A ZEUS I SERAPEIA FRAMMENTI ORFICI LE RELIGIONI DEI MISTERI Rivista elettronica mensile “Phanes”, num. 0, Luglio 2011, Roma. Tutti i diritti riservati al sito www.phanes.jimdo.it, Roma 15 Luglio 2011. N. 0 Personaggio del mese: GIULIANO IMPERATORE Rivista di cultura e religiosità pagana

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LE DEE E LE ACQUE

I CELTI E

L’ASTRONOMIA

THE LINDOW MAN

AQUAE SULIS

CARMINA GAELICA

NAVAGRAHAS

CASTA DIVA

“O MOON!” .

SERAPIDE

ISIDE IN APULEIO

FANUM APOLLINIS

INNO AD ISIDE

UNA PREGHIERA A ZEUS

I SERAPEIA

FRAMMENTI

ORFICI

LE RELIGIONI DEI MISTERI

Rivista elettronica mensile “Phanes”, num. 0, Luglio 2011, Roma. Tutti i diritti riservati al sito www.phanes.jimdo.it, Roma 15 Luglio 2011.

N. 0

Personaggio del mese: GIULIANO IMPERATORE

Rivista di cultura e religiosità pagana

PHANES rivista di cultura e religiosità pagana

rivista mensile elettronica

Redazione:

Caporedattore

Jonathan Righi. [J.R.]

Redattore

Lorenzo Abbate. [L.A.]

Recapiti

www.phanes.jimdo.com

[email protected]

Tutti i diritti sono riservati agli autori dei singoli contributi ed al sito www.phanes.jimdo.com. Ogni violazione del copyright e dei diritti di riproduzione saranno perseguiti a norma di legge. La riproduzione è vietata, anche se parziale, se non previo accordo con il sito, che si occuperà di contattare gli aventi diritto.

Roma 15. Luglio 2011.

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Tutti i diritti riservati a www.phanes.jimdo.com

Editoriale Tutti i diritti riservati a www.phanes.jimdo.com

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Dopo giorni, settimane, ore, incontri, pianificazioni, finalmente il nostro progetto prende la sua forma finale: tutto nacque gli ultimi giorni di Maggio, durante una passeggiata lungo Via Nomentana, a Roma. L’idea che si delineò chiara fin da subito è che si sarebbe dovuto gettare un ponte, di rado presente, fra spiritualità e serietà nozionistica. Nella vastità del panorama “pagano” italiano, ci siamo trovati spesso davanti ad altri esempi di divulgazione, fortemente mancanti del giusto background che potesse giustificare contenuti e scelte editoriali. Questa rivista nasce con l’obiettivo di chiarire le più svariate tematiche inerenti ai vari percorsi spirituali definiti “pagani”, affiancando un’opera di ricerca letteraria e storica, a nostro parere imprescindibile per coloro che desiderano riscoprire realmente le radici degli Antichi Culti. Proprio in questo senso si muove la struttura degli articoli, fornendo delle bibliografie esaustive, rimanendo coerenti a metodi di citazione scientificamente validi, e puntando sulla condivisione e la collaborazione con i lettori. Per la perfetta riuscita di questo progetto, abbiamo pesato ad una distribuzione elettronica, pur rimanendo nell’obiettivo di alimentare l’aspetto “cartaceo”; www.phanes.jimdo.com è appunto il sito che funge da base principale per la rivista. Ogni numero di questa rivista mensile, sarà disponibile al download, e sarà affiancato da aggiornamenti ed approfondimenti reperibili sulla suddetta piattaforma web; questa soluzione permetterà il totale svolgimento di ogni tematica, senza dover rimanere vincolati alle esigenze spaziali dell’impaginazione. Phanes, la protogena divinità della cosmogonia orfica, ci ha ispirato e guidato nella compilazione e nella determinazione per la riuscita di ogni articolo; le vibrazioni del primigenio creatore nato dall’uovo cosmico, predecessore di ogni genealogia e stirpe, sono le energie dalle quali cerchiamo di trarre lo spirito con il quale affrontare questo progetto. Proprio in virtù di queste considerazioni, abbiamo dato alla rivista, il nome di questo meraviglioso principio divino. Apparirà subito chiara la divisione degli articoli in quattro sezioni principali: la Sezione Celtica, la Sezione Greco-Romana, la Miscellanea, e l’“Omnia Altera”. Le prime due grandi sezioni, sono state scelte sulla forte inclinazione

che la Redazione ha per questi due cammini, chi per studio, chi per passione, la comune preparazione più vicina alla filologia che al misticismo ci ha permesso di eleggere queste culture a rappresentanti principali della rivista. Il passo successivo è stato creare la Sezione Miscellanea, per poter includere ogni altra tradizione, ogni altra cosmogonia, o manifestazione filo-pagana sorta nel corso della storia. In ultimo, nella sezione Omnia Altera, abbiamo dato spazio ad articoli che potessero risultare più “pratici” ed utili ai fini di una riscoperta anche fisica della spiritualità: quindi libri, reperti archeologici, luoghi inerenti e preghiere. Ogni uscita della rivista sarà dedicata ad un personaggio storico, importante a nostro parere, in positivo o in negativo, nella costruzione di un pensiero intellettualmente coerente. Detto questo, ci proponiamo in ultima analisi di poter aprire un dialogo attivo con i lettori, ed anzi, apriamo la possibilità di poter partecipare dinamicamente, proponendoci migliorie, tematiche, o vostri articoli. Rimane chiara la nostra dissociazione da ogni proposito di far divenire questi articoli alla stregua di comizi ex-cathedra, non essendo né professori universitari, né comunque interessati ad una pseudo-apoteosi sociale. Su questi binari si muove il nostro spirito di collaborazione e divulgazione. [J.R.]

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INDICE:

Giuliano: Il Personaggio del mese 2 Le Dee e le Acque 5 Nomi e luoghi delle Dee celtiche dell’acqua. I Celti e l’Astronomia 12 Così in cielo come in terra. Serapide 19 Cenni su una divinità dimenticata. Iside in Apuleio 25 Casta Diva 31 Il Belcanto della Dea Madre. Il « Fanum Apollinis » di Giovanni 32 Pascoli Navagrahas 37 Il Cosmo in un Mantra. Carmina Gadelica 41 Frammenti di un’antica tradizione. La preghiera di un iniziato ad Iside 44 La preghiera di Apuleio. « O Moon! » 46 Un amato alla Luna. Una preghiera a Zeus 48 Aquae Sulis 49 Le acque della conciliazione.

I Serapeia 52 Itinerari italiani per il culto di Serapide. The Lindow Man 55 Il sacrifico nel rito. Frammenti Orfici 57 Le religioni dei misteri 59 Bibliografia generale 60

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Individuare e convergere su un unico personaggio al quale dedicare il numero zero di una rivista, è operazione non da poco, ma davanti a personaggi come Giuliano, ogni difficoltà e trattenimento di una redazione pagan-oriented scema miseramente. Nato a Costantinopoli nel 331 d.C. Giuliano vide la sua vita costellata, sin da giovanissimo, da uccisioni e massacri all'interno del nucleo familiare, tanto da fargli pensare di essere stato salvato da chissà quale forza celeste. Era destinato a regnare, ma altamente temuto dal

detentore del potere, Costanzo II, che lo tenne fino al 347 segregato nell'esilio dorato della villa imperiale di Nicomedia, dove ebbe modo di studiare ardentemente la filosofia e la letteratura, lontano dalle tendenze cristiane della corte imperiale, ma pur sempre sottoposto a maestri della nuova fede. Alla fine del 360 si ritrovò imperatore. La sua politica religiosa fu orientata verso un ristabilimento di quegli equilibri tra fede pagana e fede cristiana, ormai da cinquanta anni assurta a religione di corte. L'editto del 4 febbraio 362 proclamò la libertà di culto, non concessa dai predecessori, e negata fortemente dai successori. Le proprietà dei collegi sacerdotali e dei templi furono restituite, i templi riaperti, mentre quelli distrutti furono ricostruiti con sussidi statali. Verso i Cristiani si rivelò molto tollerante: pur togliendo loro sovvenzioni statali, favorì il loro rappacificamento interno, deprecando e perseguitando le scissioni e le eresie. Giuliano tentò di fornire alla religione classica, una sistemazione teologica forte come quella dei cristiani, ferrati in retorica e filosofia e con alle loro spalle padri della chiesa agguerriti e ben armati, esponendo egli stesso un piano teologico molto fine: accentrando la religiosità pagana a due figure pricipali, come Cibele ed Helios, Giuliano era certo di poter meglio contrastare la teologia monoteista. Il tentativo di Giuliano ebbe una grande eco: i pagani, che si erano prudentemente ritirati, colla loro spiritualità, nelle cupe latebre delle proprie case, riemersero e sperarono fortemente che l'imperatore potesse ristabilire l'ordine storico e religioso. La popolazione cristiana non subendo danni, non

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GIULIANO L'imperatore della convivenza.

Il Personaggio del Mese:

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proruppe in manifestazioni di ostilità, mentre la popolazione pagana acclamò l'imperatore, difensore dei propri diritti di fede, in maniera decisa. L'operato dell'imperatore ebbe seguito anche negli ambienti più eletti della letteratura e della filosofia: appoggiato fortemente da Libanio, viene descritto in maniera più che positiva da Ammiano Marcellino, esenti ambedue dalle mistificazioni che sulla sua figura vennero proposte da ambienti cristiani successivi agli anni di regno. Nel pieno 363 Giuliano fu costretto ad affrontare le ostilità persiane, lasciate irrisolte dal suo predecessore: la campagna dapprima risultò un successo, ma poi, dopo la battaglia di Manrosa, durante un impovviso attacco persiano, Giuliano, sprovvisto di corazza scese in campo, e cadde colpito da una lancia, confitta nel fegato: morì poche ore dopo, era il 26 giugno 363. I successori di Giuliano rinnegarono tutto il suo operato a favore della pacifica convivenza di due fedi predominanti all'interno dell'impero: sconfessato il credo classico, venne riaffermato e sostenuto solo quello cristiano. Giuliano venne tacciato di apostasia, ovvero di distaccamento dall'unica vera fede, quella cristiana, solo nel medioevo; proprio tramite un nomignolo è passato alla storia, dissacrante come una energia demoniaca carica della forza del proprio credo: “Giuliano l'apostata”,'imperatore di tutti i pagani. [L.A.]

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A cura di Jonathan Righi

SEZIONE CELTICA

LE DEE E LE ACQUE

I CELTI E L’ASTRONOMIA

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Scandinavia, Francia, Danimarca, Britannia, Germania, Irlanda, tutte terre nelle quali si ritrovano antichi culti dedicati a divinità e spiriti acquatici. Queste Dee hanno lasciato un’impronta indelebile che continua nei nomi e nelle tradizioni della nostra Europa. L’acqua, datrice di vita, generatrice e nutrice, diviene per i Celti, espressione di una Dea che soccorre il proprio popolo fornendo cibo, guarigione, presagi e trasporto. Nello stesso tempo però, rimane alta l’attenzione verso le forme distruttive che questo liquido può assumere, diluvi,

tempeste, trombe marine, continuano a instillare quel timore che solo un popolo assolutamente sincronizzato con i fenomeni naturali può sviluppare. Già dalla metà dell’Età del Bronzo si iniziano ad avere le prime prove di un contatto uomo-divinità, per mezzo di laghi, fiumi, mari. Il clima, la prosperità delle terre, si interconnettono agli spiriti che popolano le acque, ed allora cominciano i riti propiziatori, le offerte, gettate in questi bacini in guisa di dono e richiesta. In una società nella quale la classe dei guerrieri era presumibilmente la seconda più

LE DEE E LE ACQUE Nomi e luoghi delle Dee celtiche dell’acqua.

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importante, l’offerta più gradita diviene l’oggetto militare: il Tamigi si popola di manifatture metalliche, spade e scudi di bronzo(1). Col passare del tempo sempre più armi, piccole navi, stocchi, vengono offerti alle acque, dal sotterraneo Walbrook (Londra) fino a Lichterfelde (Berlino), sino a che nel VIII-VII sec. a.C. quest’usanza si fa diffusissima, probabilmente per sopperire a condizioni climatiche pessime propiziandosi gli spiriti delle acque. Ancora non si delinea una

divisione fra “spirito” e “divinità” in queste pratiche, ed ancora queste Dee rimangono senza nome, sebbene non ci vorrà molto perché assumano quei celeberrimi nomi

che ancora oggi i grandi fiumi mantengono in loro memoria. L’avvento dei Romani in seguito segnerà sovente la canonizzazione di questi culti e la loro maggiore definizione rituale e morfologica. Orosio ci aiuta a ricostruire la battaglia di Orange (Francia) del 105 a.C. tenutasi fra Cimbri, Teutoni e Romani: dopo la vittoria sui Romani, i due popoli gettarono in un fiume tutto il loro bottino di guerra, poiché avevano ricevuto un presagio(2). Molte erano le divinità fluviali,

la maggior parte delle quali di sesso femminile: Sequana(3) per la Senna, Nantosuelta(4) consorte di Sucellus, Verbeia(5) per il Wharfe (Inghilterra).

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Molte di queste Dee possedevano dei santuari a loro dedicati, principalmente risalenti all’epoca coeva ai Romani. E’ chiaro tuttavia che questi culti debbano aver avuto un mantenimento ed un decorso storico ben precedente a quello dell’avvento romano; a Chedworth (Inghilterra) e Coln (Inghilterra) sorgevano due santuari, quello del Dio Condatis(6) invece si trovava nella contea di Durham (Inghilterra). Anche per sorgenti e laghi vigeva la stessa usanza di offrire oggetti metallici o lignei fra i flutti. A Duchcov in Cecoslovacchia nella “Gigante Sorgente” fu ritrovato un calderone contenente più di 2000 oggetti di bronzo, molti fra i quali spille e bracciali, questi reperti sono datati al III-II sec. a.C. Vari archeologi concordano sulla particolarità di questo tipo di offerte rispetto a quelle di natura militare, probabilmente dovute ad una diversità in termini di polarità sessuale degli spiriti associati alle acque. Offerte di manufatti militari saranno collegate a divinità maschili, offerte di gioielleria saranno invece collegate a divinità femminili. Strabone ci informa su come Cepione nel 106 a.C. sottrasse un enorme tesoro in oro e argento nell’area di Tolosa, tesoro lì deposto in segno di offerta(7). Da qui un nuovo ragionamento su queste “immersioni” di offerte: il dono, essendo accolto dalle acque, sarebbe divenuto intoccabile, non sarebbe stato rubato e sarebbe sempre stato a contatto con la

divinità lì cultuata. I ritrovamenti più ingenti risalgono comunque all’età di La Tène(8), come ad esempio i tesori del lago Neuchatel (100 a.C.), in Svizzera. Una piattaforma di legno permetteva di poter gettare le offerte direttamente ad un buon livello di profondità nelle acque; in questo lago sono state rinvenute 400 spille, 270 lance, 27 scudi di legno e 170 spade. Per quanto riguarda i pozzi, il discorso diviene più complesso, soprattutto per il difficile riconoscimento dopo tanti secoli, profonde buche potrebbero essere infatti stati pozzi, oppure no. A WiIlsford nel Wiltshire si trova il pozzo più importante di tutta l’Inghilterra, profondo più di 30 metri, sul fondo del quale sono stati ritrovati secchi di legno e corde. La vicinanza di questo

pozzo a Stonehenge e la sua profondità possono suggerire qualche tipo di correlazione rituale; penetrando infatti all’interno della terra, richiama ed evoca un insieme di collegamenti con

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l’Oltretomba e con le forze ctonie, notoriamente riconosciute e venerate dalle popolazioni celtiche(9). La grande attenzione nei confronti di laghi, sorgenti, fiumi e pozzi, lascia trapelare un’ampia partecipazione degli Dei acquatici al panorama religioso dei Celti. Come abbiamo detto, solo in epoca romana vi fu una vera e propria canonizzazione di questi culti locali, che chiaramente risalivano a secoli prima, legati ad un retroterra tribale condiviso tuttavia comunitariamente dalle varie popolazioni. Ad ogni luogo rilevante, o per morfologia o per posizione, vengono associati degli spiriti divini, ai quali sono offerti oggetti di varia natura. L’analisi della società del tempo chiarisce il perché di determinati “regali”: in una società basata principalmente sulla classe militare, l’arma diviene l’oggetto eletto a rappresentare l’intera società. Lo stesso discorso sarà da ritenersi valido per le spille, i bracciali, per i sacrifici animali, e per quelli umani(10). Spesso queste località acquatiche si sono trasformate in vere e proprie mete di pellegrinaggi locali, nei quali si viaggiava sino al santuario o alla fonte, che pareva possedere proprietà terapeutiche. Il Dio o la Dea in questo caso divengono guaritori, il che è chiaramente confermato dalla presenza di ex-voto in moltissime località(11); questo interessantissimo argomento tuttavia è molto vasto e merita una trattazione a parte. Altri nomi divini

tornano a ricordare il loro antico culto, come Damona(12), che spesso è associata a Bormo, Sirona(13) e Moritasgus, oppure Icovellauna regina del ninfeo termale di Sablon. Ed ancora, Ritona, Coventina, Arnemetia, Sulis, le Matres Comedovae, le Matres Nemausicae (a Nîmes), le Matres Glanicae (a Glan), le Treveres (a Trir), e moltissime altre(14). [J.R.]

NOTE:

1. Conservati al British Musem.

2. OROS. V, 16, 2-5.

3. Sequana: Dea celtica collegata al fiume Senna, a lei è stata dedicata una sorgente a Digione sempre in Francia, la sua iconografia la vede in piedi in una barca uccelliforme, con una corona sul capo, ad indicare la sua regalità.

4. Il nome Nantosuelta deriva da *nant (tr. torrente), e si completa come “torrente sinuoso”. Adorata sotto l’aspetto di una Dea-corvo, è consorte di Sucellus, viene solitamente rappresentata con in mano una colombiera (presumibilmente), ed una patera; in altre raffigurazioni invece, soprattutto in Alsazia, al posto della patera è presente un alveare con sopra appollaiato un corvo. Alcuni studiosi teorizzano la simbologia della colombiera come indice di un dominio domiciliare della Dea.

5. Verbeia: è conosciuta solo tramite una singola iscrizione [RIB 635], trovata a Ilkley, il suo nome deriva dal lessico proto-celtico

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*wera (tr. pioggia) e *beja (tr. rumore).

6. Condatis: Dio delle confluenze fluviali, pervenutoci grazie a varie iscrizioni, fra cui una ad Alonnes in Francia. Viene quasi sempre associato a Marte, anche se come detto sopra, il suo aspetto guerresco è un’aggiunta meno pregnante della radice stessa del nome che significa appunto “Dio delle confluenze”, quindi delle fonti termali sotterranee.

7. STRAB. IV 1, 3. Si riteneva che quell’oro fosse l’Oro di Delfi, trasportato a Tolosa dai Celti dopo il loro saccheggio in Grecia nel II sec. a.C.; Cesare sull’usanza di sottrarre tesori appartenenti a divinità scrive: “Non è accaduto spesso che un uomo osasse, malgrado la legge religiosa, nascondere presso di sé il proprio bottino o toccare le offerte riservate agli Dei; un simile crimine è punito con un orribile morte, tra i peggiori tormenti.” CAES. De bel. Gal. VI, 17. L’ammontare del tesoro rubato da Cepione sarebbe stato di 15000 talenti, ossia trecento tonnellate d’oro. Cepione da quel momento non ebbe vita facile, e il prezioso oro venne rinominato “l’Oro maledetto di Delfi”. Tutto ciò sarebbe in perfetta continuità con l’ipotesi che per un Celta, un oggetto offerto agli Dei, sale a rango divino in quanto diviene loro proprietà.

8. La Tène ebbe il suo massimo sviluppo tra il 450 a.C. ed il 50 a.C., si sviluppò dalla precedente cultura di Halstatt dell’Età del Ferro, grazie agli scambi culturali con greci ed etruschi. È caratterizzata da una produzione metallurgica molto complessa, dal passaggio da fortezze collinari ad oppida, e da nuovi tipi di sepoltura.

9. LUC. Phars. vv. 450-1; CAES. De bel. Gal. VI, 14; POMP. MEL. III, 3; MARKALE 1971, p. 120.

10. Si veda l’articolo sull’uomo di Lindow, “The Lindow Man”, a p. 55 e sgg.

11. Museo di Alise-Sainte-Reine, Museo Bourgoin a Clermont-Ferrand.

12. Damona: “tr. grande mucca”, è una Dea legata alle sorgenti termali, spesso associata ad Apollo nel suo aspetto di Borvo (tr. acqua bollente), come ad esempio nelle iscrizioni ad Alesia in Francia, nei pressi di una piccola sorgente meta di pellegrinaggi a fini guaritori. A Bourbonne-Lacy in Francia sono state ritrovate delle iscrizioni che collegano D a m o n a a l l a p ra t i c a g u a r i t r i c e dell’”incubazione”, nella quale il paziente, dopo aver dormito all’interno del santuario, avrebbe ricevuto dalla Dea durante il sonno una soluzione per il suo male, o direttamente la completa guarigione alla malattia.

13. Sirona: il suo nome significa presumibilmente “astro”, sebbene il suo collegamento con la sfera celeste non sia stato ancora chiarito. Appartiene al territorio della Gallia Cisalpina, dove viene associata spesso a Grannus, o ad Apollo Grannus, appare affiancata da un cane che le lecca la mano, spesso presente nelle Dee legate a funzioni guaritrici. Altre rappresentazioni la vedono con tre uova nella mano sinistra, e con un serpente attorcigliato attorno al braccio destro che è sospeso sopra le tre uova. Questa posizione delle braccia unita a grappoli, viti e grano presente in altre immagini, la connotano fortemente come datrice di abbondanza e fertilità.

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14. Moritasgus: Dio giunto sino a noi da un’iscrizione ad Alise-Sainte-Reine (CIL XIII 02873, 11240, 22141 ed AE 1965, 181), è il protettore della sorgente di Alesia, consorte della Dea Damona. Il suo nome potrebbe derivare dal proto-celtico *mƒro- (tr. grande) e *tazgo (tr. tasso), più il suffisso latinizzante us. Il tasso è un animale prettamente sotterraneo collegato quindi sia alle profondità della terra che alla divinazione, oltre che alla poesia (poeta infatti si traduce in proto-celtico con *tadg). Viene sincretizzato spesso con l’Apollo gallico, ed inserito in contesti guaritori.

Ritona: iscrizioni col suo nome sono state trovate a Trier (DEA RITONA PRITONA, AE 1928:00185), ed a Pachten (PRITONAE DIVINAE SIVE CA[...]IONI, AE 1959:00076), in quest’ultima località il santuario era provvisto anche di un tempio, utilizzato per gli spettacoli connessi al suo culto. Questa Dea governa sui guadi, sulle abitazioni e su specifiche aree territoriali, come testimoniano le sue iscrizioni, che la chiamano per il benessere di piccole regioni. (vd. WIGHTMAN 1970.)

Coventina: testimonianze su questa Dea provengono dalla contea di Northumberland, nei pressi del Vallo di Adriano, nelle raffigurazione compare in triplice aspetto, mentre regge un vaso con una mano e con l’altra versa il contenuto di un secondo vaso.(vd. ALLASON-JONES 1985.)

Arnemetia: conosciuta tramite il suo tempio a Buxton, Derbyshire in Inghilterra, il suo nome deriva da ar (tr. sopra o dentro) e da nemeton (tr. bosco sacro). È la patrona delle Aquae

Arnemetiae e si crede sia stata venerata dalla tribù dei Corieltauvi, nelle vicinanze del suo tempio.

Sulis: era la Dea venerata a Bath da Celti e Romani, da quest’ultimi sincretizzata come Minerva-Sulis. Le tavolette e le lamine ritrovate a Bath mostrano come la Dea fosse chiamata nel suo aspetto di nutrice, di datrice di vita, ma anche per le defixiones, molte infatti erano le richieste di vendetta e di giustizia nei confronti di ladri e nemici, a lei poste (si veda l’articolo Aquae Sulis a p. 49 e sgg.). (vd. REYNOLDS-TERENCE 1990.) Altre Dee: Matrona nel fiume Marna, Souconna nel fiume Saone, Sabrina nel fiume Severn, Boann nel Boyne. [J.R.]

SCIOGLIMENTO DELLE SIGLE:

-ALLASON-JONES 1985: Allason-Jones, Linday & McKay, Bruce, Coventina's Well, a shrine on Hadrians Wall, Trustees of the Clayton Collection, Chesters Museum, Londra, 1985.

-MARKALE 1971: J.Markale, L’Epopée Celtique en Bretagne, Parigi, 1971.

-REYNOLDS-TERENCE 1990: J. Reynolds , T. Volk, "Review: Gifts, Curses, Cult and Society at Bath", reviewing The Temple of Sulis Minerva at Bath: vol. 2 The Finds from the Sacred Spring, in Britannia.

-WIGHTMAN 1970: E. M. Wightman, Roman Trier and the Treveri. Rupert Hart-Davis, Londra, 1970.

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Immagini:

p.5, Coventina, pozzo di Coventina, Carrawbough. .

p. 6, col. 1: Sequana, Musée Archéologique de Dijon; col. 2: Nantosuelta-Sucellus, Sarrebourg.

p.7, Apollo Sucellus-Sirona, Musée Archéologique de Dijon.

p.11, acque sacre alla Dea Brighit a Kildare, Irlanda.

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I CELTI E L’ASTRONOMIA Così in cielo come in terra.

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A lungo si è discusso sulle ipotetiche conoscenze che i Celti ed i loro sacerdoti, i Druidi, possedevano riguardo all’astrologia: alcune voci ridimensionano questo tema a pura casualità, altri, come gli archeoastronomi, danno delle versioni più complete e articolate dell’argomento(1). Cercheremo in questo articolo di sondare le fonti principali, e le vastissime influenze che il popolo dei Celti ha praticato su gran parte dell’Europa. Abbiamo alcune certezze per questa trattazione, provenienti dagli autori classici dell’epoca, e da osservazioni empiriche su ciò che questi popoli ci hanno lasciato. Pomponio Mela ci

informa su come i Druidi conoscessero forma e dimensione della Terra, il movimento degli astri ed il volere degli Dei(2). Anche Cesare, in un momento di interesse, riporta un dato interessante: nel bagaglio di conoscenze che nel sacerdozio druidico un allievo acquisiva, era compresa l ’erudizione riguardo all’indistruttibilità dell’Universo e delle anime(3). Lo stesso Cesare, nel 45 a.C. incaricò Sosigene di riformare il calendario del tempo, esattamente dopo le Guerre Galliche. Altri autori parlano di scambi e contatti fra la dottrina pitagorica e quella druidica, scambi che indubbiamente avrebbero riguardato

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anche le teorie astronomiche(4). Di sicuro è che nel IV sec. a.C.. i Druidi erano a conoscenza del Ciclo di Metone, ossia il ciclo che permette alla Luna di tornare nella stessa fase e nello stesso punto del cielo ogni 19 anni. Presso i Geti, secondo Iordanes(5), visse il Druido Deceneo, durante il I sec. a.C., il quale anche secondo Strabone(6), dimostrava di conoscere esistenza e motivi dei dodici segni celesti oltre alle nozioni tutte dell’Astronomia nota a quel tempo. Dove ci portano tut te queste testimonianze? Cosa vedevano i Druidi nel cielo, e in cosa questa osservazione ha arricchito la loro pratica religiosa? l cielo che oggi possiamo contemplare sulle nostre teste è ben diverso da quello che un Celta osservava nel

500 a.C., questo per l’esistenza della Precessione equinoziale(7). Supponendo la mancanza di strumenti di osservazione di natura tecnologica, dobbiamo rifarci ad ipotesi che vedano l’occhio umano come “strumento primo” di analisi dei cieli. Premesso ciò, l’occhio umano riesce a percepire le stelle che arrivano ad un grado di luminosità detto magnitudine 4(8). Immaginate che utilità per gli studiosi di questi campi, possa aver avuto la scoperta del Calendario di Coligny nel 1897: in

questo calendario l’anno era diviso secondo il cadere di quattro festività principali: Samhain, Imbolc, Beltaine e Lughnasad. Secondo quale criterio sono state definite queste festività? Grazie ad A. Duval ed ai suoi successori, nonché grazie ai computer ed a

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programmi che sono in grado di simulare i cieli dell’epoca, ora sappiamo qualcosa di più: è apparsa subito lampante la corrispondenza fra le date di queste festività e particolari attività di alcune stelle visibili nei corrispondenti periodi dell’anno. Durante l’alba di Samhain, che cadeva il 16 Novembre, avveniva la levata eliaca di Antares, stella principale della c os t e l l a z i o ne d e l l o Sc or p io ne , caratterizzata da un forte colore rosso, inoltre si verificava anche il sorgere di Vega, appartenente alla costellazione della Lyra, nel primo cielo mattutino. Ad Imbolc corrispondeva, il 18 Marzo, la levata eliaca di Capella, della costellazione dell’auriga, di colore giallo. Il mattino di Beltaine, il 7 Giugno, era caratterizzato dal sorgere assieme al sole, di Aldebaran, della costellazione del Toro, di colore rosso. Infine a Lughnasad, il 25 Luglio, avveniva all’alba la levata eliaca di Sirio, costellazione del Cane Maggiore, di colore bianco; sebbene Sirio nel 500 a.C. non fosse, come oggi, la stella più vicina al polo nord celeste. Al posto di Sirio infatti stava Kochab, dell’Orsa Minore. Possiamo definire queste corrispondenze come casualità? Mi sembra azzardato e riduttivo, e così sembro anche a A. Duval, che riformò totalmente le teorie di E. Mc Neill, formulate negli anni ’20, che vedevano nel Sole, il discriminante di scelta per ogni festività celtica, dando importanza e rilevanza quindi, a solstizi ed equinozi. Le

teorie di Duval, oggi comprovate, sottolineano una visione siderocentrica nella pratica druidica, tanto più che solstizi ed equinozi non avrebbero avuto modo di essere presi in considerazione nel 500 a.C., quando il cambio stagionale non avveniva durante queste ricorrenze solari. La stessa attenzione alle configurazioni stellari la ritroviamo fra gli Egizi, che calcolavano la lunghezza del proprio anno come l’intervallo di tempo fra le due levate eliache di Sirio (Alpha Canis Majoris), dimostrando così di aver adottato un anno definito come “siderale”. I Celti conoscevano bene equinozi e solstizi, tuttavia non li collegarono alla loro vita sociale poiché non avevano difatti influenza sulla stessa: esempio contrario è Samhain, il 16 Novembre era infatti la notte più oscura dell’anno ed il Calendario di Coligny sottolinea che la festività era da

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celebrarsi durante l’ultimo quarto di Luna, o in Luna Nuova, chiara specifica per rendere quei giorni di festa i più adatti a simboleggiare l’oscurità massima. Sempre riguardo alla Luna sappiamo che potevano prevedere le eclissi lunari, grazie al calendario ed a semplici calcoli mnemonici. Per capire bene quanto le popolazioni celtiche avessero improntato i loro costumi in sintonia con i movimenti siderali è necessario considerare il Nemeton di Libenice, vicino Praga. La scoperta risale al 1962, da parte degli archeologi Ribova e Soudsky, quando venne dissotterrato un recinto (24m per 80m) contornato da fossato, risalente al 500 a.C., proprietà della tribù dei Boi. Nel lato sud-est si trova un menhir alto 2m, circondato da altri menhir più piccoli. L’asse del recinto è inclinata di 24o a Sud rispetto alla direzione equinoziale Est-Ovest; la stessa inclinazione nella quale si levavano Rigel e Saiph, due stelle della Cintura di Orione. Durante Samhain, anche Antares, stella precedentemente trattata, aveva la sua levata eliaca lungo lo stesso asse. Al centro del tempio è stata ritrovata una tomba appartenente ad una donna dal cui corredo si evince la sua appartenenza ad una classe sacerdotale, quindi probabilmente una druidessa. La suddetta tomba è orientata secondo la direzione Nord-Sud, e la testa della donna diretta verso Nord. Possono essere queste solo casualità? Vediamo altri particolari:

attorno al santuario si trovano 35 buche, che accolsero altrettanti pali di legno, si osservò che avevano un addensamento regolare lungo alcuni tratti. La spiegazione come al solito proviene dal cielo: ogni buca corrisponde alla levata o al tramonto della stella Mira, appartenente alla costellazione della Balena. In un’altra parte del santuario, dove le buche appaiono più irregolari, si riconosce la loro esatta disposizione secondo forma e direzione della costellazione del Cigno: questa assumeva una inclinazione parallela sia all’asse della tomba sia all’asse terrestre. Il complesso religioso in questo senso assume

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tutti i connotati di un calendario s i d e r a l e “ r a p p r e s e n t a t o ” . L’attenzione dei Celti per le stelle si riscontra persino nella numismatica: le serie Armoricane e Coriosoliti raccolte da De Beuliau nel 1973 ne sono forte comprova. Fra i vari esemplari, sono numerosi quelli che sul dritto presentano ritratti vari, sul rovescio cinghiali a tre zampe, cavalli, o comete. Secondo le ricostruzioni degli antichi quadri celesti, nell’87 a.C., durante il mese di Luglio, fu visibile la cometa di Halley, esattamente in corrispondenza della festività di Lughnasad. In una società nella quale l’osservazione del cielo detta il ritmo del vivere, è indubbio che il passaggio di questa cometa debba aver assunto un significato incontestabile (vd. fig. 6). Altre monete, come quelle delle Isole del Canale, che spaziano dal 100 a.C. al 60 a.C., presentano sul rovescio un cavallo sotto il quale c’è una cometa interposta fra due stelle (vd. fig. 1). Un aiuto per spiegare questa scelta viene dagli annali cinesi, nei quali è registrato nel 69 a.C. il passaggio di una cometa fra le stelle (allora visibili anche in Europa) Alpha e Gamma Virginis, tutto durante il mese di Luglio. Dopo tutte queste osservazioni come p r e s c i n d e r e d a l l ’ a s s i m i l a r e l e considerazioni astronomiche nell’analisi della cultura celtica? Gli studi a riguardo purtroppo scarseggiano, eppure tutti i dati raccolti evidenziano senza dubbi questa

simbiosi fra società e cielo; le domande sorgono spontanee, come conciliare quelle correlazioni siderali oggigiorno? Ancora oggi i segni celesti, la stella polare, e varie costellazioni, continuano a scandire

alcune, molte, festività, seppure in un calendario solare; la costruzione di usanze e luoghi in armonia con le pulsazioni ed movimenti siderali apre nuove frontiere su un nuovo tipo di condivisione spirituale, contemporanea e successiva al decorso biologico di ogni essere vivente. [J.R.]

NOTE:

1. L’archeoastronomia combina lo studio degli antichi eventi astronomici con i dati archeologici, utilizzando in gran percentuale le moderne tecnologie di analisi dei cieli. Alexander Thom è il pioniere di questa materia, per quanto riguarda il panorama celtico e pre-celtico.

2. POMP. MEL. Chor. 3, 2, 18.

3. CAES. De bel. Gal. VI, 14.

4. AMM. MARC. XV, 9-8; IPPOLITO ROMANO, Philosophumena, I, 2, 17; I, 25, 1; CLEM. ALEX. Strom. I, XV, 71, 3, sgg.

5. IORD. De Origine Actibusque Getarum 5, 39.

6. STRAB. VII, 3, 5, 11 ; XVI, 2, 39.

7. La Precessione degli Equinozi è un movimento della Terra, questo le permette di modificare molto lentamente la direzione del

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suo asse di rotazione (rispetto alla posizione ideale delle stelle fisse). Uno dei risultati di questo “spostamento” è per esempio che fra 13000 anni circa non sarà più la Stella Polare a rimanere ferma nei nostri cieli, bensì Vega. Altro effetto è lo spostamento degli equinozi di 1° ogni 71,6 anni circa. Ciò significa che ogni 28500 anni l’equinozio cadrà nello stesso punto.

8. La Magnitudine, in questo caso Magnitudine Apparente, è la misura della luminosità di una stella dipendentemente dal punto dove la si osserva. Questo metodo di misura risale a Tolomeo, che lo “sponsorizza” nel suo Almagesto, e si crede sia una scoperta di Ipparco. La scala di misura si muove da una magnitudine prima (m = +1), che appartiene alle stelle più luminose, e termina a magnitudine sesta (m = +6), per le stelle scarsamente visibili ad occhio nudo.

Immagini:

p.12, Carro solare Trundholm, Nationalmuseet di Copenaghen. Datato alla Tarda Età del Bronzo, fu scoperto nel 1902 in Danimarca, è composto da un cavallo su quattro ruote, un asse, e da un sole su due ruote. Il sole è ricoperto d’oro solo su un lato, lo stesso lato che indica il movimento del carro da Est ad Ovest, ossia il sorgere del sole. L’altra faccia del sole è scura, ed indica il movimento del carro da Ovest ad Est, quando il sole non è visibile.

p.13, dall’alto verso il basso: Calendario di Coligny, Museo della Civiltà gallo-romana di Lione; stella Antares, della costellazione dello

Scorpione.

p.14, levata eliaca di Sirio nelle raffigurazioni egizie, riproduzione.

p.15, esemplari di monete celtiche delle serie Armoricane, delle Isole del Canale e Coriosoliti.

p.16, esemplare di moneta delle Isole del Canale.

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A cura di Lorenzo Abbate

SEZIONE GRECO ROMANA

SERAPIDE

ISIDE IN APULEIO

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È s t r a n o constatare come una delle divinità che più riscosse interessamento e proselito di fedeli nel mondo alessandrino prima, romano e tardo-antico poi, allo stato attuale, abbia un così scarso seguito di studiosi e fedeli. S i c u r a m e n t e l a difficoltà di reperire fonti certe, escluse f o r s e q u e l l e iconografiche, ne è la c a u s a p r i m a r i a . Internet non aiuta, i libri disponibili sull’argomento hanno dei forti limiti: volumi specialistici, costosissimi, e spesso introvabili, e praticamente sempre in lingue straniere. Il culto di Serapide, si è spesso detto, essere stato “inventato”(1) dalla corte tolemaica, basandosi sul fatto che questa divinità non ha alcuna parte nella mitologia greca antica, e nessun autore di periodo classico ne fa menzione. Sarà però decisamente più corretto accreditare alla dinastia tolemaica il merito di aver

“ i n t r o d o t t o ” e “grecizzato” ( o meglio “ellenizzato”) u n a d i v i n i t à preesistente, piuttosto che aggravarla con il demerito di aver creato ex novo una divinità congeniale al loro progetto politico. Tolomeo I (le fonti sembrano propense ad identificare in lui s o v r a n o “importatore”, non senza dubbi e difficoltà) ebbe due sogni rivelatori, nei

quali incontrò la divinità, che chiedeva di essere cultuata ad Alessandria, e di avere come proprio simulacro, una precisa immagine custodita a Sinope(2). Tolomeo, obbedendo al volere divino, istallò quindi sulla collina di Rhacotis ad Alessandria un tempio dedicato a Serapide, che nei secoli a venire, divenne uno dei più splendidi, e dei più rappresentativi della fede pagana, tanto da essere uno degli ultimi avamposti della religione classica, sottoposto alla distruzione solo dal patriarca Teofilo e i

SERAPIDE Cenni su una divinità dimenticata.

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suoi “maritiri-picchiatori”(3). Le fonti antiche concordano nel vedere in Serapide una divinità molto antica: Tacito(4) e Plutarco(5) in particolar modo insistono sul fatto che la statua importata da Sinope fosse quella di una divinità egiziana, Osiride-Apis, in vesti e forme simili a quelle di Ade, in modo tale da essere più facilmente accetta alla popolazione greca di Alessandria. Anche Alessandro magno ebbe parte nel suscitare l’attenzione verso questa divinità: pare infatti che Alessandro nel 323 a.C., ridotto sul letto di morte, a v e s s e f a t t o consultare un oracolo di una divinità locale di Babilonia, che le fonti greche indicano p r o p r i o c o m e Serapide(6) (ma in realtà, forse, Ea); inoltre Alessandro si sarebbe dato pensiero di commissionare al proprio architetto un tempio per la divinità durante la fondazione di Alessandria(7). Gli antichi dimostrarono un certo “imbarazzo” nell’identificare la divinità, tanto da incorrere in molte sviste e divergenze, cercando di paragonare, e quindi assimilare, la divinità ora ad una, ora ad un’altra divinità. Diodoro Siculo cerca di spiegare in questo modo l’origine di

Serapide: “Alcuni sono dell’opinione che Osiride sia Serapide, altrei che questi sia Dioniso, Ade, o Ammone; altri, che egli sia Zeus; altri ancora che questi sia Pan.(8)”, Tacito invece: “Il Dio stesso molti ritengono essere Esculapio, perché questi ha curato dei corpi malati; alcuni, che sia Osiride,la più antica dvinità che questo popolo [gli Egizi ndr.] abbiano; un gran numero, che questi sia Giove, sulla base che la sua capacità di azione sia estesa ad ogni cosa; ed un’altra grande parte, che

questi sia il Dio Padre, traendo questa conclusione dalle caratteristiche che gli appartengono, o da astruse congetture.( 9 ) ” ; Ciri l lo di Alessandria (Adv. Iul. I, 13) invece tende a identificare Serapide con Osirapis(10), un insieme di Osiride ed A p i s a p p u n t o . P r o p r i o q u e s t a

divinità, Osiris-Apis (egiziano Wsir-Hp), sarebbe all’origine del nome Serapide/Serapide. Osiris-Apis fu una divinità cultuata nel tempio funebre del toro Apis a Menfi. Però molti aspetti, e soprattutto i campi di azione divina di Serapide, e della sua stessa iconografia, non possono trovare riscontro nel divino toro di Memfi(11). Prima di analizzare singolarmente le

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diverse analogie e differenze con le divinità alle quali Serapide fu spesso accostato nell’antichità, credo sarà utile introdurre precisamente l’iconografia del Dio, sfatando fraintendimenti comuni. La rappresentazione maggiormente familiare di Serapide presenta una figura seduta, con indosso una tunica larga, simile ad un chitone, ed un copricapo, chiamato “colato”, inoppugnabile simbolo di fertilità. La mano sinistra solitamente tiene uno scettro o un bastone, mentre la destra si propende, o scende giù verso un animale con tre teste, seduto vicino al trono, o vicino alla divinità diritta. Proprio su questo animale si sono fondate le associazioni di chi ha visto in Serapide una divinità prettamente ctonia: il cane con tre teste sarebbe quindi Cerbero? È stata però espressa una differente teoria(12), interpretando l’animale come un semplice simbolo dello scorrere del tempo. Secondo questa teoria, l’animale sarebbe connesso altresì ad un aspetto solare di Serapide, sulla base che il sole, Helios, sincretizzato spesso con Serapide, presiedesse allo

scorrere del tempo. Petazzoni, lo studioso propugnatore di questa diversa interpretazione dell’animale connesso al dio, nega che questo sia il mostro dell’oltretomba greco, ma crede si tratti di un leone con ulteriori due teste: una di un

lupo, e l’altra di un cane, e addita nelle statue superstiti una maggior somiglianza del corpo dell’animale a quello di un leone piuttosto che ad un cane. L’identificazione de l l ’ an imale c on Cerbero ci riporta in ambito ctonio, e i n t r o d u c e l’identificazione di Serapide con Ade: la differenza ed il p r o b l e m a d i identificazione sta proprio nella natura benigna di Serapide, spesso invocato per questioni di salute e di benessere personale

(tanto che Elio Aristide, XLV, 25 lo definisce “salvatore”), una divinità, insomma, con appiglio e capacità di interazione col mondo dei vivi e sugli eventi, al contrario di Ade, considerato una divinità terribile e limitata, anzi votata, alla distruzione(13). L’identificazione

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di Serapide con Osiride presenta le stesse d i f f i c o l t à d i a c c e t t a z i o n e dell’identificazione con Ade: gli antichi non riconobbero o identificarono mai alcuna loro divinità ctonia nel pantheon egizio. Erodoto identifica la coppia Osiride/Iside con Dioniso e Demetra(14). Le testimonianze propendono invece per l’identificazione Serapide con Osiride solo in un periodo tardo: da Plutarco(15) come maggior esponente, fino a Minucio Felice(16) che utilizza i nomi delle due divinità in maniera intercambiabile. L’identificazione con Osiride portò a Serapide, probabilmente, il dominio su una branca dei suoi poteri: la fertilità, i cui attributi, il colato e la cornucopia, spesso porta nelle rappresentazioni di piccole dimensioni(17). Altre identificazioni o sincretismi minoritari, comprendono e coinvolgono divinità come Dioniso, il toro Apis ed il re Apis, Asclepio fino ad arrivare a Pan, Helios, Aion, ed Ammone. Proprio questa sua natura indefinita, misteriosa, panthea, permise ad una pluralità di genti, di fedeli, di uomini, di trovare in Serapide una divinità protettrice, degna di ricevere immensi onori, ed essere tenuta in considerazione pari, ed a volte superiore agli dei tradizionali: genti della Grecia, di Roma, Egiziani, sudditi e padroni caricarono questa divinità di una mole di prerogative basate, spesso, solo sulla propria esperienza, sulla propria devozione, sulle proprie aspettative,

speranze e bisogni. Molti fedeli tardoantichi preferirono votarsi a divinità vastissime come Serapide ed Iside, compiendo, forse in maniera incosciente, un ricongiungimento di tutti gli aspetti divini derivanti dai due archetipi: quello maschile e quello femminile. La difficoltà di cultuare e prediligere al giorno d’oggi una divinità simile risiede in due punti fondamentali: l’assoluta assenza di testimonianze rituali, e la discrepanza delle fonti sulla sua natura divina; ma, forse, proprio questa vastità di possibilità di intendere ed inquadrare la natura divina del dio, il suo essere sempre stato visto in maniera benigna e generosa verso i fedeli, rende Serapide ancora appetibile, essendo un bacino immenso e multiforme per le richieste e per le visioni dei singoli campi divini d’azione. Certamente, a chi volesse avvicinarsi a questa divinità con sguardo serio, rispettoso e religioso, non basterà questo breve e sommario articolo, ma necessiterà di un approfondimento difficoltoso e faticoso, che mi auguro, verrà ripagato dalla potenza del Dio, della quale infinite prove ebbero gli antichi. Infine mi fa piacere riportare le parole di Aristide, che dedicò un inno a Serapide, tardo, ma che ben riassume l’interesse, il sentimento e la devozione del periodo ellenistico verso questa divinità: “Lui solo è onorato sia da re che da privati cittadini, sia dai saggi che dai semplici, dal grande e dal piccolo, sia da coloro che prosperano

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che dagli indigenti donando a coloro che richiedono la soddisfazione della loro felicità e provando a tutti gli altri di essere la sola salvezza dalle forze negative. La seconda cosa dopo la salute fisica alla quale gli uomini più zelantemente aspirano è la possessione di proprietà; a questo Serapide provvede anche, senza guerre, battaglie e pericolo. Lui ci assiste al nostro fianco in ogni circostanza della nostra vita, e non c’è posto che sia non influenzato dal lavorare di questo Dio, per tutto il resto, in qualsiasi materia la mente umana si interessi, egli anche acquista un interesse, e distribuisce ogni sorta di benedizione, iniziando coll’anima e terminando col benessere materiale.” [L.A.]

NOTE:

1. STAMBAUGH 1972, p. 6.

2. PLUT. De Iside 361-2.

3. SOCRAT. Schol. Hist. Eccl. V, 17.

4. TAC. Hist. IV, 83-4.

5. PLUT. De Iside 361-2.

6. PLUT. Alex. 76; Arr. Anab. VII, 26, 2. Il problema è però grande: Alessandro importò Serapide in Persia, o lo importò ad Alessandria da Babilonia, indipendentemente dal contatto con le forme di riferimento egizie della divinità?

7. PS. CALLIST. I, 30-33. A complicare le cose, un papiro rinvenuto a Tebtynis, ci attesta che il Serapeo dovette esistere già nel 245 a.C.

(PCairoZenon, III, 59355, 102-3).

8. DIOD. SIC. I, 25, 2.

9. TACIT. Hist. IV, 84, 5.

10. Le fonti oscillano, infatti, tra la forma Osirapis, Osarapis, Oserapis.

11. STAMBAUGH 1972, p. 16.

12. PETAZZONI 1948; la teoria si basa sull’interpretazione di un passo di Macrobio (Saturn. I, 20). Purtroppo però questa teoria è confermata solo da alcune rappresentazioni superstiti del Dio, mentre altre, lasciano palesemente intravedere solo una figura canina a tre teste, frutto del fraintendimento già degli antichi dell’originale statua di culto o semplice eccesso di zelo ed attenzione dello studioso?

13. HOM. Il, I, 3; XV, 191. La natura ctonia, non totalizzante, di Serapide, potrebbe essere però supportata proprio da questa sua ambivalenza: sentito dagli antichi sia come divinità “solare” che come divinità ctonia, ben si prestava come surrogato dell’archetipo divino di Ade, che per la sua natura, non era oggetto di culto diretto, se non ad Elide. In sostituzione di Ade venivano invocate divinità come Zeus, in sue manifestazioni ctonie: Zeus Milichio, molto il voga nella Magna Grecia, o Zeus Catactonio, divinità queste molto più “abbordabili” da un comune fedele, rimandando comunque soltato ad un aspetto ctonio di una divinità che rimaneva olimpica e vitale.

14. HER. II, 123.

15. PLUT. De Iside, 326B.

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16. MIN. FEL. Oct. 21, 12.

17. Il fatto che Serapide venga spesso associato nelle rappresentazioni ad Iside, essendo queste le due divinità egizieggianti di maggior peso nel mondo greco-romano, favorì l’identificazione di Serapide con Osiride, marito della dea.

SCIOGLIMENTO DELLE SIGLE:

-PETAZZONI 1948: R. Petazzoni, Il “Cerbero” di Serapide, in Mélanges Ch. Picard, RA, 6a Sér., XXIX-XXXI (1948), pp. 803-9.

-STAMBAUGH 1972: J. Stambaugh, Sarapis under the early ptolemies, Leiden, Brill, 1972.

Immagini:

p.19, Busto di Serapide, da collezione privata.

p.20, Moneta con ritratti Iside e Serapide, da collezione privata.

p.21, Cerbero, particolare di statua di Serapide a Gortina.

p.24, Serapide di Cortina.

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Le metamorfosi di Apuleio possono, a differenza di molti altri classici latini e greci, attirare un pubblico vasto: la qualità dell'opera ed il genere che segue ne fanno una perfetta fonte di svago anche per il lettore meno attento, preparato e propenso ai classici(1). Le “Metamorfosi” o “L'asino d'oro”(2), opera in undici libri, fu stesa in un periodo imprecisato successivo al 158 d.C. L'opera narra delle peripezie di un giovane, Lucio, che, spinto dalla sua curiosità, entra in contatto con le figure magiche meno raccomandabili e più temute dell'intera Grecia antica: le maghe della Tessaglia. Il risultato di questa curiosità applicata alle arti magiche e metamorfiche della maga Panfile, lo porta a ritrovarsi, perfettamente raziocinante, trasformato in asino. Le avventure che seguiranno lo porteranno però a trovare e conseguire l'unica possibilità di salvezza

che gli era stata paventata sin dall'inizio: mangiare delle rose. Le rose che però Lucio mangerà, erano le rose che decoravano il sistro di un sacerdote di Iside durante una processione dedicata alla Dea, la quale, in sogno, aveva suggerito a Lucio, quell'atto come unica possibilità di salvezza. L'ultimo libro, lo si evince, è il libro più strettamente isiaco, anche se, è curiosa la c o i n c i d e n z a c h e ricollegando la prima sillaba del romanzo, con l'ultima,

invertita, si ricostruisca la parola MAAT(3), l'ordine cosmico appunto, in questo caso, contemplato, dopo l'iniziazione ai misteri isiaci, dei quali, Lucio, diventa un sacerdote ed officiante. Analizzare l'ultimo libro delle Metamorfosi ci spinge alla lettura di alcune delle più belle pagine della letteratura latina a sfondo religioso. Le invocazioni contenute sono ancora attuali, pulsanti di vita, e pronte ad

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accogliere le più disparate tendenze e credenze religiose. Iside parla a Lucio, che ne sarà sacerdote, e tramite lui a noi: “Eccomi a te, Lucio, giacché le tue preghiere mi hanno commossa. Io sono la madre dell'universo, la regina di tutti gli elementi, l'origine prima dei tempi, la regina delle ombre, la prima dei divini, io riassumo nel mio volto l'aspetto di tutte le divinità maschili e femminili […] Invisibile è la mia essenza divina, ma nel mondo io sono cultuata ovunque sotto molte forme, con riti diversi e differenti nomi”(4). È la natura panthea dell'Iside tolemaica, spesso associata come principio femminile a Sarapide, come vedremo, a generare quel fenomeno alessandrino prima, e romano poi, di sincretismo impazzito: ogni divinità conosciuta altro non era che una manifestazione della stessa Dea suprema, un principio divino femminile preciso eppure multiforme: “I

Frigi, i più antichi abitatori della terra, mi chiamano madre degli Dei, venerata a Pessinunte; gli Attici nativi, [mi chiamano] Minerva Cecropia; gli abitatori di Cipro, bagnati dal mare, Venere Pafia; i Cretesi, arcieri valorosi, Diana Dictinna; i Siciliani dalle tre lingue, Proserpina Stigia; gli abitanti dell'antica Eleusi, Cerere Attea; alcuni Giunone, altri Bellona; gli uni Ecate, gli altri Ramnusia. […] gli Egiziani, cui l'antico sapere conferisce valore, mi rendono onore con riti che solo a me sono dedicati, e mi chiamano col mio reale nome: Iside Regina.(5)”. La benevolenza, e la capacità di azione, il suo potere insomma, sono ben spiegati da lei stessa, madre e Dea allo stesso tempo: “Io vengo a te, in quanto impietosita dalle tue disgrazie, io vengo a te, benigna e favorevole. Poni ormai fine al piangere, sospendi i lamenti, caccia l'angoscia; grazie alla mia provvidenza

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rifulge ormai per te il giorno della salvezza.”. La Dea però non intende donare incondizionatamente, per giunta ad un ragazzo assai lontano dal suo culto e dalla sua venerazione, i proprio favori e doni: “In cambio tu ricorderai scrupolosamente, e terrai ben presente che lo spazio della vita che ancora ti rimane da percorrere sarà a me consacrato, fino al tuo ultimo r e s p i r o . E ragionevolmente tu sarai debitore del resto della tua vita a colei che ti ha fatto la grazia di tornare tra gli uomini. A parte questo tu vivrai felice, vivrai pieno di gloria protetto da me: e quando poi avrai compiuto il tempo della tua esistenza mortale, e scenderai agli inferi, anche lì, in quel sotterraneo emisfero, mi troverai, come ora mi vedi, cosparsa di luce tra le tenebre dell'Acheronte e regina delle dimore dello Stige.(6)” Il voto alla Dea però non si dovrà limitare alla semplice adorazione, ma prevederà precisi punti da osservare sia in vita, che dopo la morte(7), quando Lucio, non sarà sollevato dal prestarle obbedienza e fede: “Se poi tu con

una vita di scrupolosa obbedienza, di dedizione al mio culto, di castità tenacemente osservata, ti meriterai la mia benigna benevolenza, capirai che a me solamente è riservato il potere di prolungare la tua vita oltre i confini che la

sorte ti ha donato.”. Una domanda che potrebbe sorgere leggendo queste parole, o più in generale i passi i s i a c i d e l l e metamorfosi, è quanto dell'Iside egizia sopravviva nei culti isiaci post tolemaici. I rituali f a r a o n i c i concernenti la divinità erano strettamente legati alla questione della s u c c e s s i o n e

dinastica, orientati cioè a legittimare il ruolo del nuovo regnante tramite l'associazione del predecessore ad Osiride(8). I rituali ellenistici assunsero, invece, una connotazione misterica, escatologica, che propugnava agli iniziati la possibilità del raggiungimento dell'immortalità. Il processo che portò la divinità egiziana, madre di Horus e moglie/sorella di Osiride, a fagocitare dentro di se tutte le caratteristiche delle

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divinità femminili ebbe inizio nel periodo Tolemaico: la dinastia regnante favorì la fusione etnica tra greci ed egizi appoggiando un culto comune sovranazionale come quello di Serapide, che venne presto riconosciuto, più o meno giustamente, come “grecizzazione” di Osiride, e di conseguenza accoppiato ad Iside, che divenne, regina di un dualismo religioso maschile/femminile. Il germe della sincretizzazione trovò poi terreno fertile nell'ideologia imperiale romana, dove il culto venne a diffondersi rapidamente dagli ambienti aristocratici, più controllati e controllabili, agli ambienti della devozione del popolino, incontrollabile e dirompente. Della potenza e del proselitismo che questo culto raccolse è testimonianza la descrizione della processione sacra ad Iside che Apuleio ci illustra. La processione/sfilata si teneva il 5 marzo, giorno di apertura della navigazione nel mediterraneo: il rito culminava quando una zattera accoglieva le offerte per la Dea portate dai fedeli, e veniva spinta a largo. La sfilata era tutt'altro che seria e contristata: gruppi di partecipanti erano travestiti, chi da senatore, chi da soldato, da cacciatore, da pescatore ed assieme a loro sfilavano asini travestiti da Pegaso ed orse addomesticate vestite da matrone: il sentimento popolare e carnascialesco trionfava, ma la divinità, madre e signora, non poteva vedere in questo una

mancanza di rispetto. Proprio questa estrema flessibilità del culto antico, che attraverso secoli e differenti ambiti sociali e politici, è stato il quid che gli ha permesso di sopravvivere, e di attirare sempre maggiori fasce di fedeli. Oggi, questa tendenza rilassata e distesa del culto di Iside in epoca greco-romana potrebbe essere un ottimo stimolo per chi volesse avvicinarsi ad un culto simile, carico del fascino di secoli. Le difficoltà sicuramente saranno non poche: le prescrizioni che la Dea riporta a Lucio, per quanto le si voglia intendere e leggere come letterarie e plasmate dalla fantasia, dovevano avere un fondamento nella reale pratica sacerdotale e dei fedeli. La ricostruzione del culto tramite le fonti è possibile, con approssimazione s'intende, grazie ad un'ampia messe di materiali, a partire da Apuleio per arrivare a Plutarco(9), passando per gli Inni di Isidoro(10): tutto ciò è fortunatamente sopravvissuto, segno forse, di un desiderio di venerazione e proselitismo della divinità ininterrotto da millenni. [L.A.]

NOTE:

1. Le Metamorfosi, precisamente Metamorphoseon Libri XI , sono propriamente classificabili come “romanzo”: le differenze tra romanzo antico e moderno risiedono sopratutto nella struttura, quasi sempre canonica e canonizzata: un ragazzo

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attraverso molteplici peripezie, ed infiniti colpi di scena arriva alla felicità.

2. L’opera è leggibile in innumerevoli traduzioni, una per tutte ANNARATONE 2000; l’edizione scientifica di riferimento è GIARRATANO 1960.

3. L’opera inizia con le parole “AT ego tibi isto sermone …” e finisce con “gaudens obidAM”

4. APUL. Met. XI, 5.

5. APUL. Met. XI, 5.

6. APUL, Met. XI, 7.

7. APUL, Met. XI, 7: “colà tu abiterai i campi Elisi e di frequente farai atto di adorazione alla mia benigna divinità.”.

8. SABBATUCCI 1978, pp. 258-72.

9. Plutarco, De Iside et Osiride. Si segnala l’edizione con traduzione CILENTO 1962 disponibile anche in una moderna ristampa senza data.

10. Isidoro scrisse quattro Inni, che ci sono giunti per via epigrafica incisi sulle pareti del tempio isiaco di Philae in Egitto. È in dubbio quanto il nome dell’autore possa essere vero o uno pseudonimo, significando appunto “Dono di Iside”. Non esistono traduzioni integrali italiane degli Inni, si rimanda quindi a VANDERLIP 1972. L’inno primo è invece tradotto SCARPI 2008.

SCIOGLIMENTO DELLE SIGLE:

-ANNARATONE 2000: Apuleio, Le metamorfosi o l’asino d’oro, a c. di C. Annaratone, Bur, Milano 2000.

-CILENTO 1962: Plutarco, Diatriba Isiaca e Dialoghi delfini, a c. di V. Cilento, Firenze, Stianti 1962.

-GIARRATANO 1960: C. Giarratano, P. Frassinetti, Apulei Metamorphoseon libri XI, Torino 1960.

-SABBATUCCI 1978: D. Sabbatucci, Il mito, il rito e la storia, Roma 1978.

-SCARPI 2008 : Le Religioni dei Misteri, vol. 2. a c. di P. Scarpi, Milano, Mondadori 2008.

-VANDERLIP 1972: V. Vanderlip, The four greek Hymns of Isidorus and the Cultus of Isis.

Immagini:

p.25, Iside-Afrodite, Parigi, Louvre. (I. sec. d. C.).

p.26, Libro dei morti, Cairo, Museo egizio.

p.27, Iside e Serapide con Cerbero, Cortina, Museo Archeologico.

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A cura di Lorenzo Abbate

SEZIONE MISCELLANEA

CASTA DIVA

FANUM

APOLLINIS

NAVAGRAHAS

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A M i l a n o , l ’ a n t i c a Mediolanum, nel 1831, sul palcoscenico della Scala, si sentì risuonare dopo secoli, un inno dedicato alla Casta Diva, la Madre del Cielo, la Vergine Luna. Vincenzo Bellini, su libretto di Felice Romani, compose Norma, un’opera in due atti la cui vicenda si svolge nella Gallia romana: la rivolta dei druidi è imminente, e la druidessa Norma si scopre innamorata di Pollione, proconsole romano, dal quale poi avrà due figli. Dopo aver infranto i voti sacerdotali di castità, la sacerdotessa scopre il tradimento di Pollione, segretamente in intimità con Adalgisa, una delle sottoposte di Norma. Corrosa dal dolore, Norma tenta di vendicarsi condannando al rogo Adalgisa, e successivamente, dopo aver affidato i due figli al padre Oroveso, confessa la sua colpa ai sacerdoti. Norma perirà assieme a Pollione fra le fiamme. L’opera è uno dei più grandi e commoventi capolavori operistici della prima metà dell’Ottocento; nell’intreccio musicale la forza drammatica della trama si fonde con una riscoperta complessità strumentale e

completezza armonica. L’apice della purezza lirica belliniana è raggiunto nell’aria che più rappresenta il candore religioso dell’intera opera; citando da libretto:

«“(Falcia il vischio; le Sacerdotesse lo raccolgono in canestri di vimini. Norma si avanza e stende le braccia al cielo. La Luna splende in tutta la sua luce. Tutti si prostrano.)”

Preghiera.

Nor. e MINIS. Casta Diva che inargenti

Queste sacre antiche piante,

A noi volgi il bel sembiante

Senza nube e senza vel.

Tempra tu de’ cori ardenti,

Tempra ancor lo zelo audace,

Spargi in terra quella pace

Che regnar tu fai nel ciel. TUTTI A noi volgi il bel sembiante

Senza nube e senza vel.» [J.R.]

CASTA DIVA Il Belcanto della Dea Madre.

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Apparirà quantomeno strano al lettore di trovare fra i titoli di una rivista di ispirazione pagana il nome di Giovanni Pascoli, sicuramente legato per molti a sbiaditi ricordi scolastici. Una parte della produzione del poeta però, forse la m e n o i n d a g a t a e frequentata, è quella in versi latini, che maggiormente potrà interessare un lettore alla ricerca di suggestioni su tematiche religiose e storiche classiche. Difatti grande spazio nella produzione latina di Pascoli è dato sia al periodo di lenta affermazione del cristianesimo, sia a quello di decadenza, e soppressione poi, del paganesimo, in un crescendo di mimesi, ora colla fazione vincitrice, ora colla nostalgica e adirata visione degli agonizzanti pagani. In particolar modo i Poemata Christiana(1) (che, come vedremo, di cristiano, in alcuni punti hanno ben poco) sono legati a questo periodo di transizione, presentando sia

figure di cristiani, che di pagani di forte intensità. Thalusa( 2 ) , Etrio( 3 ) , Pomponia Graecina(4) e Alessamano e Careio(5), sono personaggi che sv i s ceran o tut t e l e problematiche legate alla convivenza tra due fedi, dal punto di vista cristiano inconciliabili, in un unico stato: le repressioni della fede e gli ultimi istanti di vivacità e vitalità del mondo pagano sono lo sfondo dolce-amaro per le

storie personali. Ma il poemetto che più porta il nostalgico Pascoli a prendere le difese della ormai piccola minoranza pagana, ed a presentare gli atti di empietà e di intolleranza dei cristiani, è appunto il Fanum Apollinis(6). Questo poemetto, letteralmente “Il tempio di Apollo”, ripercorre l'ultima giornata del sacerdote del Dio prima della sostanziale distruzione del tempio del quale era il solitario custode. Ripercorriamo questa storia carica di pathos, dove sin dai primi versi,

IL “FANUM APOLLINIS” DI GIOVANNI PASCOLI.

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viene presentata la vicenda e l'ambientazione del poemetto: “Un tempio logoro invecchiava su di una spiaggia deserta . Le colonne, semidistrutte, erano tenute ancora diritte dall'abbraccio dell'edera, ed in terra il muschio copriva i triglifi e le lastre del pavimento, ed anche l'ingresso era stato riempito da soffici erbette, mentre i rovi avevano invaso il bosco sacro con fitte ramificazioni. A guardia del tempio diroccato c'era un uomo, ormai vicino alla morte, vecchio tra vecchie rovine. Ma nel mezzo della cella, come incosciente allo scorrere tacito del tempo, vi era un Apollo, da poco adolescente, appoggiato al tronco di un albero. Già da molto ormai gli Dei avevano abbandonato i loro antichi templi, e questi erano a loro volta crollati: allontanati dalla terra e dal cielo, erravano come demoni, sospinti dal vento e dalle nuvole. […] Solo quell'Apollo fanciullo rimaneva dritto nella parte più nascosta del tempio, occupandosi di tutt'altro: guardava minaccioso una lucertola che si arrampicava sul tronco. Con la mano destra il Dio mantiene alzata una freccia, sta in silenzio: la lucertola è ormai alla portata del colpo.”(7). Il sacerdote, tutto intento a spazzare la cella, rimane sorpreso, quasi incredulo, nel sentire che qualcuno bussa alle porte del tempio: la sua incredulità è però dissipata dalla visione di un devoto, venuto per sacrificare un capretto, tutto costretto tra

le corde che lo legano. Il devoto incita allora il sacerdote a celebrare il rituale di sacrificio, ma questi si defila dicendo: “Perchè ci sarebbe bisogno del capretto? Apollo, governatore della vita, rifugge dai coltelli [sacrificali] . […] perchè non ci rechiamo nel bosco a raccogliere le verbene?”(8). Nel recarsi a cogliere dal bosco sacro l'occorrente per preparare l’offerta al Dio giovinetto, portano con loro il capretto, stremato dal lungo viaggio, assetato ed affamato. “I due ritornano al tempio traendo con loro fiori e rami, il custode davanti e dietro il pastore. Apollo era ancora in agguato del piccolo animale. Nelle cella si poteva sentire il leggero anelito del mare. Il ragazzo respira, il petto si gonfia: eccolo, è sotto tiro! Apre la bocca: nella rosea luce del sole il suo corpo sembra sbocciare e sembra irrorato da un fluire di sangue eterno. Il pastore si arrestò, titubante, all'ingresso, allora il sacerdote sottovoce disse: « Non temere: il dio è un fanciullo, ed allo stesso tempo pastore, quindi ogni pastore può placarlo con la supplica e con le verbene purificate. Tutto ciò che di avverso e dannoso si è infiltrato in casa e nel tuo gregge, lo vedi?, è questa lucertola, che, puoi credermi, Apollo sta per trafiggere.»(9) . Il sacerdote si prepara dunque al sacrificio, invitando al silenzio il pastore, ma proprio quel silenzio imposto viene spezzato dal vociare del console del villaggio accompagnato da una

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folla tumultuosa: “Chi vive ancora qui dentro? Forse dei fantasmi e delle streghe vi sono rimasti, qui, presso l'altare del demonio, lungi da tutti i viventi? ”(10); i presenti si stupiscono di vedere ancora persone intente agli antichi riti, e le ulteriori parole del console sono piene di tracotanza, tanto da intimare all'anziano sacerdote di abbandonare il tempio, ed ai concittadini di chiamare un prete per purificare il l u o g o e consacrar lo a Cristo. Le ultime commosse parole che il sacerdote di Apollo rivolge al simulacro, sono strazianti, ma allo s t e s s o t e m p o lucide e razionali: “Mio Dio, ecco che mi allontano, io che ti ho servito fin da quando ero fanciullo; ma ora, troppo vecchio, sono costretto a lasciarti ed a morire senza di te. E tu Apollo, sarai sottoposto ai colpi del martello, e i cunei smembreranno il tuo corpo. Perché? […] Ti sbalzeranno con la forza dal tuo trono e ti scacceranno dal tempio nel mentre giochi e non arrechi danno a nessuno; loro invece ti faranno del male con gli scalpelli, ti spaccheranno il volto con picconi e poi ti interreranno […] Ma sarà inutile! Tu ugualmente

risplendi dall’alto dei cieli, tu cuor del cielo, che nutri ogni cosa di sangue immortale; intelligenza del mondo, tu che emani da te le anime, come fossero scintille che saltano fuori da un fuoco che non si spegne mai; tu, ragazzo, mantieni in ordine gli astri, tu sei il pastore che riporta le stelle che vagano all’ovile e spazi per l’infinita selva del cielo, o

S o l e ! ” ( 1 1 ) . A l termine dell’intimo e vibrante congedo d e l s a c e r d o t e d’Apollo, il prete entra nella cella, e mette in luce quanto a suo avviso sia la verità religiosa, ottenendo una sconcertante r i s p o s t a d a l vecchio: “Straniero,

tu dici quello che dico anche io!”(12). Il sacerdote di Apollo però ha riconosciuto nella figura adulta del prete quella del suo compagno di scuola, del suo compagno di infanzia, del suo vecchio amico, ormai lontano dai comuni insegnamenti ricevuti. “Il fanciullo di marmo resta immobile sul piedistallo, incombendo sui vecchi abbracciati: è tutto preso dal suo gioco e non bada a questi. Ma il custode lo scorge attraverso le lacrime che gli velano gli occhi […]”(13). Le parole che il sacerdote di Apollo rivolge all’amico prete

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sono commoventi: il tono della supplica è mescolato a quello del ricordo, e quello del ricordo, a sua volta, rimanda ad un comune sentire, un sentire religioso e reverenziale, affievolito ma non scomparso nell’amico convertito al nuovo culto. “Allora [ai tempi della scuola ndr.] era bello calmare con il canto il dio che nasconde e svela il giorno, che nasce sempre uguale e sempre diverso, che regna su ogni cosa, quello che la terra rigogliosa è ben felice di rivedere, vestita di fiori, di erbe e di alberi, con il suo sorriso, come genitore, colui per il quale cantano le fonti ed i fiumi con il proprio gorgoglio ed il mare coll’alternato movimento delle onde. E noi, preceduti da nulla in perfezione, beati in ogni singola cosa, noi uomini, vogliamo privare il Sole dell’onore che gli è dovuto?”(14). A queste parole, Eone, il prete, risponde mettendo in luce quelle che a lui sembrano delle inadeguatezze rispetto al nuovo sentimento religioso. Le suppliche del sacerdote di Apollo si fanno più esplicite: chiede di risparmiare il simulacro del Dio fanciullo, innocente, a costo anche di doverlo nascondere in qualsiasi altro luogo, oppure di vederlo mutato nel suo vero nome. Le preghiere del sacerdote riescono a far breccia nel cuore dell’amico cristiano, ma non nelle menti, ottenebrate da un odio ed un risentimento difficilmente concepibili, della folla: il simulacro del Dio subisce la

pena che il sacerdote gli aveva predetto. “Ma ecco che una folla immensa irrompe, facendo un terribile fracasso; abbattono la statua, la distruggono, ne raccolgono i pezzi e si arrampicano su di uno scoglio. Gettano l’idolo tra i flutti: le acque lo sommergono e gli si richiudono sopra.”(15). Il destino del vecchio sacerdote è dettato dallo sconforto: la sua vita ormai è privata del suo scopo e della sua ragion d’essere. “Il Sole ritirò i suoi raggi dalle onde tinte di rosa: gli occhi del vecchio videro così, per l’ultima volta, il tramonto del sole.”(16). L’ultima immagine che si presenta ai suoi occhi è la più disarmante: dove c’era Apollo, ora c’è Cristo, dove c’erano fedeli devoti al Sole, ora ci sono cristiani che inneggiano al loro dio. Non c’è più spazio in quella civiltà per l’ultimo dei sacerdoti del Dio: mentre Apollo entra a far parte del numero dei demoni notturni, scacciati dai loro antichi templi, il vecchio, è facile immaginarlo, si sottopone ad una fine poco dolorosa, quasi doverosa: una scelta quella della morte, resa ancor più semplice dalla mancanza di motivazioni per restare. “Poi il silenzio, il tempio scompare nell’oscuro e le stelle percorrono, silenziose, la volta celeste.”(17). [L.A.]

NOTE:

1. Poemata Christiana è una raccolta (non curata e non dipendente da Pascoli) di alcuni

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poemetti latini, composti in occasioni e periodi differenti (tra il 1901 e il 1911), tutti inerenti al periodo di propagazione ed affermazione del cristianesimo. Il titolo è stato proposto, e poi universalmente accettato da Gandiglio.

2. Thalusa, poemetto in esametri e saffiche per un totale di 194 versi, composto nel 1911, racconta la storia di una giovane schiava che deve affrontare il trauma della vendita ad un nuovo padrone.

3. Centurio, poemetto in 186 esametri, composto nel 1901, presenta la figura del centurione Eretrio, alle prese con il voler conciliare il suo passato di combattente ed il messaggio di pace di Cristo.

4. Pomponia Graecina, racconta la storia di una schiva, sottoposta la dramma della separazione e della vendita dalla famiglia nella quale prestava servizio.

5. Sono i due protagonisti del poemetto Pedagogium, nel quale si racconta la storia di Alessameno, deriso per la sua fede cristiana, e morto in nome di questa assieme al suo amico e derisore Careio, ormai convertito anch'esso.

6. Il Fanum Apollinis fu composto nel 1904 e l'anno successivo premiato ad un certamen di poesia latina di Amsterdam col primo premio. L'idea della composizione però risale al 1897 quando Pascoli, in viaggio per Messina, vide i resti dei templi di Paestum e pensò di stendere un romanzo dal titolo L'ultimo sacerdote di Apollo.

7. Fanum Apollinis, vv. 1-18.

8. Fanum Apollinis, vv. 64-7.

9. Fanum Apollinis, vv. 89-102.

10. Fanum Apollinis, vv. 104-6.

11. Fanum Apollinis, vv. 135-51.

12. Fanum Apollinis, v. 155.

13. Fanum Apollinis, vv. 171-74.

14. Fanum Apollinis, vv. 186-193.

15. Fanum Apollinis, vv. 214-17

16. Fanum Apollinis, vv. 223-6.

17. Fanum Apollinis, vv. 231-3.

Immagini:

p.32, Apollo Sauroktonos, copia romana da originale di Prassitele, Parigi, Louvre [Inv Mr. 78 (Ma. 441)].

p.34, particolare dell’Apollo Sauroktonos (vd. immagine precedente).

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Pagina 37 Phanes n.0

La venerazione delle nove divinità planetarie è generalmente diffusa fra gli Hindu, e proprio questo si intende col termine Navagraha che deriva da graha ossia “pianeti”, e nava, ossia “nove”. Queste divinità comprendono i sette pianeti tradizionali : Mercurio, Sole, Luna, Marte, Saturno, Giove, Venere, con l’aggiunta di Ketu e Rahu. Questi ultimi due un tempo erano parte dello stesso demone che fece eclissare Sole e Luna, e che successivamente venne separato, in Rahu ossia la metà superiore, e Ketu, ossia la coda. Ad ogni pianeta è assegnato un giorno della settimana, tranne che a Rahu e Ketu.(1) I Navagrahas vennero, con l’approfondirsi di queste usanze, venerati come veri e propri Dei, come testimoniato nei Veda.(2) Gli Hindu che venerano queste divinità sono anche convinti che i pianeti influenzino la vita di ogni uomo, così ritengono importante equilibrare e placare le energie dei nove

Dei, per poterne ricevere armonia e realizzazione. Il più potente fra i pianeti è il Sole, chiamato Surya, o Ravi, impersona i l p r i n c i p i o c r e a t o r e maschile, datore di prosperità e potenza. Poi abbiamo la Luna, detta Chandra, o Soma, è descritta come un giovane Dio, occasionalmente come una Dea: presiede

sulle acque e sulla vegetazione, dona all’uomo sensibilità, senso artistico e bellezza. Il successivo pianeta in importanza è Marte, Mangala, si dice sia nato dal sudore della fronte di Shiva(3), è una divinità biliosa, ama le armi e dona capacità di comando. Successivamente abbiamo Mercurio, ossia Buddha, figlio della Luna, è descritto come privo di connotat i sessual i , è patrono dell’intelletto, dell’insegnamento e governa sulle scienze. È raffigurato mentre cavalca un leone provvisto di una proboscide sul muso. Uno dei più importanti graha è Giove, chiamato

NAVAGRAHAS Il Cosmo in un Mantra.

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Brahaspati, o Guru, è impersonato in varie divinità come Ganesh e Vishnu(4), nello Skanda Purana si dice che Brahaspati venerò Shiva per duecento anni, e fu premiato dallo stesso essendo trasformato in pianeta. Governa su onore, successo, fama, favore e religione. Il successivo pianeta è Venere, impersonato dal Dio Sukra, si dice sia figlio del Saggio Bhrigu, è associato alla sensualità, ai gioielli, alla danza alla primavera, ed è ritenuto fondamentale nella recitazione dei mantra, e nelle pratiche spirituali. Shani è Saturno, il “nefasto fra i nefasti”, è dipinto come un uomo crucciato, vestito di nero, mentre cavalca un enorme corvo. Gli influssi di questo graha sono considerati malefici, ed la gran parte delle cerimonie vengono dedicate proprio a placare la cattiva indole di Shani. Gli ultimi due dei Navagrahas sono Rahu e Ketu: Rahu è il pianeta del “Nodo ascendente”(5), è chiamato per combattere gli spiriti malefici, durante i terremoti e specialmente nelle eclissi; Ketu invece è il pianeta del “nodo discendente”(6), è descritto come senza testa. Si pensa infatti che Rahu sia il capo, e Ketu la coda, di uno stesso antico mostro ormai diviso. In molti templi indiani si trova un altare dedicato ai nove devatās, ognuno dei quali si trova direzionato secondo un punto cardinale ben preciso: a Nord abbiamo Guru, ad Est Buddha, Sukra e Surya, a Sud Ketu, Rahu, Chandra e Mangala, ad Ovest Shani. Prima di lasciare

i templi dei Navagrahas, il cultuante depone le sue offerte e circuambula nove volte l’altare cantando il Navagraha Stotram, oppure la seguente preghiera:

“Ārogyam pradadātu no dinakarah candro yaśo nirmalam/

Bhūtim bhūmisutah sudhāmśu-tanayah prajñām gurur-gauravam/

Kāvyah komalavāgvilāsamatulam mando mudam sarvadā/

Rāhurbāhubalam virodhaśamanam ketuh kulasyonnatim.”

“Possa il Sole darci lunga vita e buona salute; la Luna fama duratura; il figlio della Terra (Marte), carisma e prosperità; il figlio della Luna (Mercurio), intelligenza; Giove, rispettabilità; colui che possiede le qualità del poeta (Venere), possa darci la capacità di

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tenere discorsi melodiosi ed indimenticabili; colui dalla lenta andatura (Saturno), possa darci gioia continua e piacere; Rahu, forza e distruzione dei nemici; e Ketu, benessere familiare.” (Trad. a c. d. r.) [J.R.]

NOTE:

1. YANO 2005.

2. DAS 1936.

3. COLEMAN 1995.

4. Brihat Parasara Hora, 1.26.31.

5. COLEMAN 1995.

6. COLEMAN 1995.

SCIOGLIMENTO DELLE SIGLE:

-YANO 2005: P. Yano, Calendar, Astrology, and Astronomy, nel The Blackwell Companion to Hinduism, Blackwell Publishing, 2005.

-COLEMAN 1995: C. Coleman, The Mythology of the Hindus, Asian Educational Services, New Delhi, 1995.

-DAS 1936: R. Das, Scope and Development of Indian Astronomy, St. Catherine Press, 1936.

Immagini:

p.37, raffigurazione di Shani, Saturno.

p.38, Surya, di Pieter Weltevrede.

p.39, altare ai Navagrahas, si noti la disposizione secondo I punti cardinali propria ad ognuno dei nove pianeti.

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A cura di Jonathan Righi

SEZIONE OMNIA ALTERA

CARMINA GAELICA AQUAE SULIS

INNO AD ISIDE I SERAPEIA

“O MOON!” THE LINDOW MAN

UNA PREGHIERA A ZEUS RECENSIONI

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“Questi canti e questi versi hanno avuto una profonda influenza educativa su di me. E così la conoscenza degli uomini e delle donne sotto la dettatura dei quali li ho scritti. Essi sono quasi tutti morti adesso, e senza lasciare successori. Con mano reverente e cuore grato io poggio questo sasso sulla pietra funebre di tutti quelli che composero e perpetuarono queste creazioni.”(1)

Con queste parole Alexander Carmichael dedicò la sua opera ricostruttiva ai creatori ed agli eredi degli antichi insegnamenti popolari scozzesi. I primi due volumi dei suoi Ortha nan Gaidheal, I Canti dei Galli, furono pubblicati nel 1889 ad Edimburgo: Carmichael viaggiò in lungo e in largo per le Highlands, raccogliendo e trascrivendo i canti, le invocazioni ed i sortilegi fino a quei tempi tramandati solo oralmente. La radice di questi testi è da cercare nella storia dell’antico popolo celtico: la successione delle invasioni, il passaggio e la

mescolanza delle culture, a partire dagli antichi Pitti, sino alle invasioni vichinghe, la tradizione bardica portata sin nelle Highlands e poi lo s rad icamento pa rz ia le operato dalla lingua inglese; queste sono le premesse che

rendono complesse ed interessantissime tali testimonianze. Sebbene Carmichael non fosse un filologo, la sua opera ha aperto un nuovo ampio spettro di ricerca sul popolo celtico; appare chiarissima infatti la tenace persistenza delle antiche tradizioni pre-cristiane, sebbene le influenze del cattolicesimo siano spesso presenti e talvolta onnicomprensive. Uno dei brani che più evidenzia e sottolinea i vari sincretismi e le interazioni religioso-culturali è la Beannaich a Triath (Invocazione), che qui vi riporto in traduzione italiana:

“Benedici, o Capo dei Generosi Capi,/ Me, che ti prego, e quello che mi è caro/ Benedici tutte le mie azioni/ In eterno e per sempre dammi la salvezza.

CARMINA GADELICA Frammenti di un’antica tradizione.

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Mettiti sempre tra me ed ogni folletto,/ Tra me e la banshee(2), che la morte canta,/ Sii scudo al turbamento e alla tristezza/ Proteggimi dallo spettro che sul fondo delle acque nuota/ Da ogni bestia che la donna del Sidh(3) abbia toccato/ Da ogni essere malvagio che nell’erba si contorce.

Da ogni Troll(4) delle colline,/ Da ogni/ Ondina(5) che da presso mi stringa,/ Da ogni Ghoul(6) delle paludi,/ Proteggimi fino al giorno della morte,/ Proteggimi fino al giorno della morte.”(7) [J.R.]

NOTE:

1. Frase pronunciata durante il Giorno di San Michele del 1899 da Alexander Carmichael durante la sua “dedica” dei Canti dei Galli.

2. Il termine banshee deriva dal gaelico bean, (tr. "donna"), e sidhe, che derivando da sith (tr. "fata") o sid ("montagna delle fate"), permette di tradurre Banshee con “donna delle fate”. È una creatura propria del folklore irlandese e scozzese, descritta come una bella donna vestita a lutto con gli occhi costantemente arrossati dal pianto. Secondo la tradizione le banshee sono visibili solo da chi è in procinto di morire, e sono spiriti legati ad alcune famiglie aristocratiche, per le quali svolgono il compito di avvertire riguardo alle morti imminenti. Negli anni successivi sono state demonizzate dalla visione cattolica e degradate a spiriti infausti. SORLIN 1991.

3. Il Sidhe è il regno dove vivono i Tuatha de

Danaan, ossia le divinità irlandesi capeggiate dalla dea Dana. Con “donna del Sidh”, si intendono appunto le creature femminili appartenenti a questa stirpe divina; nel folklore furono trasformate in fanciulle portatrici di disgrazia, rapitrici di bambini, incantatrici nefaste e temibili ingannatrici.

4. Nelle varie tradizioni i Troll sono creature umanoidi che viviono nel Nord Europa: sono descritti come giganti e dal comportamento maligno, pelosi, ruvidi e dotati di una coda irsuta. Questi mostri sono riscontrabili sia nelle tradizioni norvegesi, che in quelle anglosassoni, nonché nei racconti scozzesi, nei quali però appaiono come piccoli ed invisibili. I danni di cui spesso si macchiano i Troll sono furto, e rapimento di bambini umani, che prontamente sostituiscono con i loro figli. È interessante come anche per le donne del Sidh sia descritto un comportamento identico: si evince che entrambe queste figure folkloristiche possano derivare dalla medesima antica tradizione pagana, per la quale non erano che spiriti semidivini o divinità vere e proprie.

5. Paracelso inserisce le Ondine nei suoi scritti sull’alchimia, queste creature sono iconograficamente assimilabili alle fate, pur avendo come habitat naturale gli specchi d’acqua ed i fiumi. Le Ondine sono descritte dal folklore anglosassone come prive di anima, mancanza colmabile col matrimonio con un essere umano, e sono dette essere causa degli annegamenti lungo i corsi d’acqua.

6. I ghoul sono descritti per la prima volta nelle tradizioni arabe, in particolare ne “le

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Mille e una Notte”, sono mangiatori di carne umana, spiriti non-morti che vivono in cripte e luoghi cimiteriali. Il loro nome deriva dall’arabo al-ghūl, che significa “il demone”.

7. Trad. R. Camerlengo.

SCIOGLIMENTO DELLE SIGLE:

-SORLIN 1991: E. Sorlin, Cris de vie, cris de mort: les fées du destin dans les pays celtiques, Suomalainen Tiedeakatemia, Helsinki, 1991.

Immagini:

p.41. Riders of the sidhe (particolare), John Duncan.

p.43, Riders of the sidhe, John Duncan.

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LA PREGHIERA DI UN INIZIATO AD ISIDE: La preghiera di Apuleio.

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“Regina caeli, sive tu Ceres alma frugum parens originalis, quae, repertu laetata filiae, vetustatae glandis ferino remoto pabulo, miti commostrato cibo nunc Eleusiniam glebam percolis; seu tu caelestis Venus, quae primis rerum exordiis sexuum diversitatem generato Amore sociasti et aeterna subole humano genere propagato nunc circumfluo Paphii sacrario coleris; seu Phoebi soror, quae partu fetarum medelis lenientibus recreato populos tantos educasti praeclarisque nunc veneraris delubris Ephesi; seu nocturnis ululatibus horrenda Proserpina triformi facie larvales impetus comprimens terraeque claustra cohibens lucos diversos inerrans vario cultu propitiaris; ista luce feminea conlustrans cuncta moenia et udis ignibus nutriens laeta semina et solis ambagibus dispensas incerta lumina; quoque nomine, quoque ritu, quaqua facie te fas est invocare: tu meis iam nunc extremis aerumnis subsiste, tu fortunam conlapsam adfirma, tu saevis exanclatis casibus pausam pacem tribue.”

Traduzione:

“O Regina del cielo: tu Cerere casta, prima creatrice delle messi, che, nella felicità del ritrovamento di tua figlia eliminasti l'antica usanza di mangiare ghiande come gli animali rendendo noto all'umanità un cibo più gradevole, ora dimori nella terra di Eleusi; tu Venere Urania, che al principio del mondo unisti la diversità dei sessi avendo generato Amore, e propagando l'eterna stirpe del genere umano, ora sei venerata nel tempio di Pafo che il mare circonda; tu sorella di Apollo, che alleviando colle tue cure il parto delle donne gravide hai fatto nascere molti popoli, ora sei venerata nel tempio famoso di Efeso; tu Proserpina, che di notte, con le tue urla spaventose e con il tuo aspetto tripartito, fermi l'irruenza degli spettri e sbarri le porte del mondo sotterraneo, errando qui e lì per i boschi, accogli favorevole le varie cerimonie del culto; e tu che con la tua luce femminea porti chiarore ovunque alle mura delle città e colla tua rugiadosa bellezza alimenti la rigogliosa semente e con i tuoi solitari vagabondaggi spandi il tuo timido chiarore; con qualsiasi nome, con qualsiasi rito, sotto qualsiasi aspetto sia lecito invocarti: concedimi il tuo aiuto nel momento delle estreme tribolazioni, risana la mia fortuna avversa, e dopo tante disgrazie che ho sofferto, donami pace e riposo.”

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La presente preghiera, in prosa, tratta dal libro XI delle Metamorfosi di Apuleio, presenta chiaramente una struttura bipartita: invocazione e supplica. L'invocazione a sua volta è divisa in cinque parti, una per ogni nome/aspetto nel quale si invoca la Dea Iside: Cerere, Venere, Diana, Proserpina, Selene. La supplica, quantitativamente molto minore rispetto all'invocazione, occupa la parte finale del testo, e presenta un contenuto piuttosto vago e quindi adattabile a qualsiasi fedele. [L.A.]

Immagini:

p.45, Iside, Roma, Museo Nazionale delle Terme di Diocleziano.

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O Moon! The oldest shades ‘mong oldest trees

Feel palpitations when thou lookest in:

O Moon! Old boughs lisp forth a holier din

(55) The while they feel thine airy fellowship

Thou dost bless everywhere, with silver lip

Kissing dead things to life. The sleeping kine,

Couched in thy brightness, dream of fields divine:

Innumerable mountains rise, and rise,

(60) Ambitious for the hallowing of thine eyes;

And yet thy benediction passeth not

One obscure hiding-place, one little spot

Where pleasure may be sent. The nested wren

Has thy fair face within its tranquil ken,

(65) And from beneath a sheltering ivy leaf

Takes glimpses of thee; thou art a relief

To the poor patient oyster, where it sleeps

Within its pearly house. The mighty deeps,

The monstrous sea is thine – the myriad sea!

(70) O Moon! far-spooming Ocean bows to thee,

And Tellus feels his forehead’s cumbrous load.

O MOON! Un amato alla Luna.

O Luna! Le antichissime ombre tra antichissimi alberi palpitano quan-do tra di esse guardi: O Luna! I vecchi rami frusciano più santi (55) quando sentono la tua presen-za d’aria. Tu benedici ogni luogo, con labbro d’argento morte cose baciando alla vita. La mandria dor-miente, accovacciata alla tua luce, sogna pascoli divini: monti innu-merevoli s’ergono, alti e più alti, (60) anelanti alla santificazione del tuo sguardo; ma la tua benedizione non sorvola nessun recondito re-cesso, nessun angolo minuscolo dove il piacere giunga. L’innidiato scricciolo ha il tuo bel volto quie-tamente in vista, (65) e da sotto la schermante fogl ia d ’edera t’occhieggia; tu sei il conforto della povera paziente ostrica, dov’ella dorme nella sua perlacea casa. I possenti abissi, il mare dei mostri è tuo - il mare miriade! (70) O Luna! Oceano lungi-spumeggiante a te s’inchina, e Terra sente il grave peso della sua fronte.

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Questo inno a Selene viene recitato da Endimione nel III Libro dell’opera Endymion, di John Keats. Questo terzo libro fu scritto ad Oxford nel 1817; nel mentre l’autore leggeva il celeberrimo Paradise Lost di Milton. Come meglio descrivere la trama del libro se non con le parole che Keats scrisse alla sorella Fanny: “Molti anni fa c’era un pastore giovane e bello che pascolava il suo gregge sui pendii d’una montagna chiamata Latmo. Era un contemplativo e viveva solitario in foreste e pianure, mai pensando che una creatura leggiadra come la Luna fosse pazza d’amore per lui. Comunque, le cose stavano così, e quando dormiva sdraiato sull’erba, lei scendeva dal cielo ad ammirarlo troppo e troppo a lungo; e alla fine non riuscì a frenarsi: lo prese fra le braccia e, addormentato, lo trasportò in cima all’alta montagna di Latmo…” Lettera del 10 Sett. 1817, I, pp. 153-56. J.R.

Immagini:

p.46, Selene ed Endimione, affresco (da Pompei), Napoli Museo Nazionale.

p.47, Manoscritto autografo di John Keats.

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Segnaliamo e riportiamo qui di seguito il testo e la traduzione (di E. Verzura) di due frammenti orfici inneggianti a Zeus, re dell'Olimpo: le invocazioni, sopratutto la prima, potranno risultare alquanto oscure, ma proprio in questo risiede il loro fascino. Zeus è visto come fondatore dell'universo e come rettore del mondo, che altro non sarebbe se non una sua benevola emanazione. I frammenti sono rispettivamente i frammenti 21 e 21a dell'edizione Kern.

Il frammento 21 Kern è spiegato bene nelle parole che lo precedono nel testo dello pseudo Aristotele, Sul mondo (cap. 7): In conclusione, celeste e sotterraneo, in quanto dà il suo nome a tutti gli esseri e ad ogni evento, poiché è la causa di tutte le cose; perciò, anche nei testi orfici a ragione si dice:

“Zeus nacque per primo, Zeus dalla fulgente folgore per ultimo;/ Zeus la testa, Zeus sta nel mezzo; tutto è da Zeus compiuto;/ Zeus sostegno della terra e del cielo stellato;/ Zeus nacque maschio; Zeus fu immortale fanciulla;/ Zeus soffio di tutte le cose, Zeus slancio del fuoco indefesso./ Zeus la radice del mare; Zeus il sole e la luna;/ Zeus il re, Zeus dalla fulgente folgore il signore di tutte le cose:/ Infatti, dopo aver celato tutti, di nuovo alla luce colma di gioia/ dal cuore sacro li ricondusse, compiendo ardue imprese.”

Il frammento 21 a. Kern riassume

sostanzialmente quanto detto prima in due esametri pregnanti:

“Zeus è l'etere, Zeus la terra, Zeus il cielo,/ Zeus tutte le cose e quanto è più in alto di esse.”

Ci piace infine ricordare i templi maggiori dedicati a Zeus presenti sul suolo italiano sono quelli di Siracusa (IV sec. a.C.) ed Agrigento. Ben più numerosi, e difficilmente elencabili, quelli di epoca romana dedicati a Giove. [L.A.]

Immagine:

p.48, statua di Zeus con aquila.

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UNA PREGHIERA A ZEUS

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Vicino al fiume Avon, ad Aquae Sulis (Bath), sorge la più importante fonte termale dell’Inghilterra; già centro di pellegrinaggi e luogo di culto per i Celti, divenne fra il 60 ed il 7 5 d . C . , p e r o p e r a dell’ingegneria romana, un complesso molto articolato di strutture, provviste di una p i sc ina ornamenta le ad architettura classica. I Romani arrivarono nel 43 d.C. a Bath, durante il regno di Nerone, ed installarono nella fonte vari templi oltre a quello di Sulis-Minerva: lì erano gli altari al Mercurio celtico, a Rosmerta, a Marte Loucetius, alle Dee Suleviae ed ai Genii Cucullati. La Dea che presiedeva alla fonte era chiamata Sulis, nome ricollegabile al Sole, probabilmente a causa del calore sprigionato dalle sorgenti. Questa Dea venne equiparata ad un aspetto della Minerva Romana, quello di guaritrice, ed infatti il luogo divenne meta

famosissima in tutto l’Impero per tutti coloro che afflitti da malanni volevano ricevere guarigione. Della Sulis Minerva è rimasto poco, eppure la testa in bronzo dorato della Dea ci suggerisce la b e l l e z z a d e l l e s u e rappresentazioni. Le acque termali a Bath contengono molti metalli al loro interno, fra i quali rame, potassio, radio, ferro e magnesio e la quantità di acqua generata dall’intero complesso termale è stupefacente: circa 2.250.000 litri al giorno, ad una temperatura di 46oC. Nelle vasche

sono state ritrovate una grande varietà di offerte fra le quali, le più numerose, monete: gran parte delle offerte appaiono rovinate di proposito, si suppone questo avvenisse proprio durante l’atto d’offerta.

Questo danneggiamento sarebbe potuto essere stato fatto o per preservare gli oggetti dall’azione dei ladri, svalutandoli, o proprio per rendere i doni esclusiva proprietà della

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AQUAE SULIS

Le acque della conciliazione.

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Dea grazie a queste piccole mutilazioni. Sono state trovate anche delle defixiones in piombo, vergate in un corsivo grossolano e recanti suppliche di vendetta per i torti subiti. Il declino di Bath in epoca romana avvenne intorno al 410 d.C., probabilmente in seguito ad invasioni

sassoni; le legioni imperiali iniziarono ad abbandonare i territori, e le città iniziarono a subire razzie e scorribande. Questo segnò la fine della popolarità delle Aquae Sulis, delle quali si hanno cenni storici solo durante il sec. VIII d.C., quando venne costruita un’abbazia sullo stesso terreno al tempo inutilizzato. Nel 1775 quindi furono ritrovate le rovine della un tempo florida architettura

termale, ma ancora una volta al sito non venne data l’attenzione che meritava. Solo nel 1878, durante dei lavori di scavo, si comprese l’importanza archeologico-culturale di queste terme, le quali assunsero la duratura fama che oggi hanno, durante i successivi 100 anni. Il complesso

architettonico era costituito da tre aree collegate dalla vasca principale, posta al centro; probabilmente la vasca centrale, chiamata Great Bath, non era accessibile a chiunque, ed era adibita esclusivamente a luogo di culto e venerazione di Sulis-Minerva. Sono ancora intuibili la varietà e lo sfarzo delle decorazioni interne, le quali lasciano intendere l’importanza che questo luogo doveva avere per Celti e Romani. La

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Great Bath è lunga 24 m, larga 12 m e profonda oltre 1 m, è lastricata con pannelli molto pesanti, alcuni dei quali, sul bordo esterno della vasca, presentano scanalature che riforniscono di acqua calda il bacino termale. Oltre a questa vasca ve ne sono altre tre, l’ultima in ordine di grandezza è un frigidarium, nel quale i bagnanti solevano sciacquarsi dopo aver terminato le varie immersioni. Il resto della struttura comprende stanze per sauna, massaggi, palestra, e varie altre attività usuali durante soggiorni salubri. Queste acque ancora oggi rimangono vive e calde per coloro che cercano guarigione e contatto con quell’antica Madre che per secoli ha sempre accolto i suoi figli nel suo ventre. Le sue acque continuano a curare e nutrire il corpo e lo spirito di coloro che vi si affidano, consapevolmente o meno. [J.R.]

Immagini:

p.49, dall’alto verso il basso: testa dorata di Sulis-Minerva; ara dedicata alla Dea Sulis; Great Bath, vasca centrale.

p.50, piantina del complesso termale di Bath.

p.51, defixio ritrovata nelle acque di Bath: l’iscrizione prega la Dea di compiere giustizia contro Vilbia, rea di furto, si richiede che essa si sciolga come sciolte sono le acque della fonte termale.

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I l t e r m i n e serapeum indica propriamente uno s p a z i o s a c r o dedicato al culto del dio Serapide. Con la fine del regno tolemaico, e le sempre maggiori influenze culturali egiziane sull'impero romano, si andarono diffondendo anche i culti tipici, o resi tali, di questo impero dalla storia millenaria: il culto di Serapide aveva sede principale nel Serapeion di Alessandria, centro culturale e religioso della dinastia tolemaica, dove trovava il coronamento maggiore la politica di conciliazione tra etnia greca ed egiziana. I serapeia principali in suolo italiano dei quali ci rimangono cospicue fonti letterarie, descrizione, o e v i d e n t i r e s t i archeologici sono quelli di Roma, Villa Adriana a Tivoli, Pozzuoli e Ostia.

Il serapeo più antico costruito a Roma risale al I sec. a.C. e fu costruito nella terza regione, per iniz iat iva di Quinto Cecilio Metello, regione questa, che prese

proprio il nome dal tempio: “Isis et Serapis” appunto. Successivamente venne edificato un altro luogo di culto dedicato a divinità egiziane ed egizieggianti: il tempio di Iside in campo marzio era il tempio più grande della città, lungo 240 m e largo 60, e venne decorato con obelischi,

d e i q u a l i a l c u n i sopravvissuti, ed una mole infinita di statue egizie d'importazione o furto, e di decorazione in stile egiziano. Distrutto nell'80 d. C. il serapeo campense venne subito ricostruito da Domiziano e modificato infine da Adriano: a questo complesso appartengono gli

I SERAPEIA Itinerari italiani per il culto di Serapide

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obelischi di piazza del Pantheon, di Santa Maria sopra Minerva e quello in Piazza dei Cinquecento, assieme alla statua di Iside Sothis in Piazza Venezia, davanti alla basilica di S. Marco. Un altro serapeo molto famoso a Roma fu costruito, per una ampiezza ragguardevole, ma ipotetica, di 135x100 metri, da Caracalla; nei giardini di palazzo Colonna sopravvivono ancora oggi dei resti delle antiche sostruzioni del tempio, che doveva articolarsi in un imponente colonnato e nel tempio vero e proprio. Il serapeo però meglio conservato è a Tivoli, nel complesso di Villa Adriana. L'imperatore Adriano volle riprodurre, in dimensioni decisamente minori, ma c o m u n q u e impressionanti ed imponent i , i l complesso del serapeo di Canopo: una immensa vasca di 190 metri c o n d u c e a l l a s t r u t t u r a d e l santuario vera e p r o p r i a .

Probabilmente diviso in una parte di culto, nascosta, ed una parte riconducibile ad ambienti molto meno “ r e l i g i o s i ” : dotata di z a m p i l l i

d'acqua era forse adibita a sala da pranzo. La destinazione al culto di questo complesso è ancora dibattuta. Il serapeo di Ostia è un autentico gioiello: ben conservato è costruito in una struttura templare tipicamente romana. Due colonne sulla fronte restano ancora innalzate, e un delizioso mosaico rappresentante il toro Apis da accesso alla cella, dedicata a Giove Serapide, sincretismo tra Giove, re degli dei, e Serapide, anch'esso re degli dei, e per definizione “il più grande di tutti gli dei”.

Non più di un c e n n o m e r i t a invece il così detto tempio di Serapide a Pozzuoli, famoso per i fenomeni di bradisismo a cui è sottoposto, è però in dubbio se fosse una tholos dedicata al culto del Dio, o

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un edificio di utilizzo costruito nell'ambito del macellum cittadino. [L.A.]

Immagini:

p.52, dall’alto verso il basso: Serapeo del Quirinale, in una ricostruzione immaginaria del 1700; Iseo Campense, piantina ricostruttiva riscontrabile sull’abitato moderno.

p.53, dall’alto verso il basso: Serapeo di Villa Adriana, Tivoli; “Serapeo” di Pozzuoli.

p.54, piantina del Serapeo di Villa Adriana nel Canopo.

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Cesare, Diodoro Siculo(1), Strabone(2), tutti autori a cui fu molto a cuore descrivere le usanze sacrificali del popolo dei Celti(3). Eppure qualcun altro sembra essere stato il vero appassionato di questi temi: si suppone che tutti e tre i grandi uomini abbiano preso spunto da un certo Posidonio, vissuto 50 anni prima dello sbarco di Cesare in Britannia, durante il II sec a.C. circa. Lo scrittore descrisse, secondo la summa delle varie integrazioni dei sopra citati tre autori, l’usanza di sacrificare ogni cinque anni un uomo, che veniva inserito in un’enorme bambola antropomorfa di vimini intrecciati. Il fuoco sarebbe stato il mezzo finale per consumare i l sacri f icio . Mannhardt considera la costruzione dell’uomo di vimini come il compimento simbolico del sacrificio dello spirito del grano e della vegetazione, r a p pr e se nta t o d a l l ’u o m o (talvolta da un animale), contenuto nell’omino. Ancora o g g i i n a l c u n e p a r t i

d e l l ’ I n g h i l t e r r a e dell’Irlanda rimane l’uso di bruciare bambole di paglia in determinati periodi dell’anno, chiara

reminiscenza degli antichi riti di fecondità e prosperità del luogo(4). Altri autori divergono da queste tesi, più reticenti sulla possibilità che potessero essere compiuti sacrifici umani, eppure i ritrovamenti dell’Età del Bronzo Swanwick e dell’Età del Ferro Holzhausen sono abbastanza chiari. Qui entra di gran lena il nostro Uomo di Lindow, scoperto il 1 Agosto del 1984 in una palude a Lindow Moss, vicino Wilmslow nel Cheshire. Datato al 300 a.c. circa, era alto fra 1.60 e 1.73 per 60 kg di peso, e venne ritrovato

accovacciato a testa in giù nello specchio d’acqua sopra citato. Le circostanze della morte sono peculiari, fu colpito due volte sulla nuca, impalato, soffocato e poi sgozzato; sicuramente apparteneva ad un alto rango sociale, vista la cura dei baffi e delle mani, e la presenza di bracciali di pelliccia(5). Uno

THE LINDOW MAN Il sacrificio nel rito.

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studio di Pyatt confermato poi da Cowell ha rilevato tracce di rame su pelle e capelli, probabilmente dovuti a pitture ornamentali avvenute pre-morte(6). L’elemento più curioso è la presenza di vischio nello stomaco dell’uomo, e da qui una serie di ragionamenti su sue implicazioni in rituali druidici si fa d’obbligo. Casi simili si ritrovano con l’uomo di Tollund, con il Borre Fen, il Grauballe e lo Juthe Fen. Probabilmente la funzione di questi sacrifici era propiziare le divinità acquatiche/ctonie del luogo, e come spesso succede, l’acqua rimane il mezzo prediletto per “inviare” le offerte sacrificali agli Dei. [J.R.]

NOTE:

1. DIOD. SIC. V, 31.

2. STRAB. IV, 5.

3. POMP. MEL. III, 2; LUC. Phars. v. 451.

4. FRAZER 1992.

5. ROSS 1989.

6. COWELL 1995, p. 74-5.

SCIOGLIMENTO DELLE SIGLE:

-COWELL 1995: M. R. Cowell, P.T. Craddock, "Addendum: Copper in the Skin of Lindow Man", Bog Bodies: New Discoveries and New Perspectives, British Musem Press, Londra, 1995.

-FRAZER 1992: J. G. Frazer, Il ramo d’oro,

Newton & Compton editori, 1992.

-PRAG. NEAVE. 1997: J. Prag, R.Neave, Making faces: using forensic and archaeological evidence, Londra, British Museum, 1997.

-ROSS 1989: A. Ross, D. Robins, The Life and Death of a Druid Prince, New York, Simon & Schuster, 1989.

Immagini:

p.55, dall’alto verso il basso: Uomo di Lindow al British Museum; ricostruzione facciale dell’Uomo di Lindow ottenuta tramite analisi radiografiche. PRAG. NEAVE. 1997, pp. 157–171.

p. 56, volto dell’uomo di Tollund.

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La riedizione proposta dalla Bompiani della canonica edizione degli orphicorum fragmenta di Kern ha un intento decisamente lodevole, quello di rendere accessibile alla massa di lettori colti, ma non specializzati, la mole dei frammenti e delle testimonianze inerenti l'orfismo. La ristampa, in anastasi, dell'edizione Kern è infatti affiancata da una traduzione italiana, la prima integrale, che rende facilmente fruibili i testi. Le sezioni sono le seguenti: 1. Testimonianze di maggior valore (il mito di Orfeo, gli orfici e gli orfeotelesti, gli scritti orfici, gli antichi scrittori, appendice su Orfeo celebrato in poesia); 2. Frammenti degli orfici (frammenti più antichi, componimenti poetici sul rapimento e il ritorno di Proserpina, Teogonia di Ieronimo e di Ellanico, Discorsi sacri in ventiquattro rapsodie,

bacchiche, testamenti, etc). L'edizione è corredata dagli indici approntati da Kern, che però risultano ad un semplice lettore poco utili e fruibili, essendo stesi, come da tradizione delle edizioni critiche, in l a t i n o . L ' i n t e n t o divulgativo appare però smorzato quando ci si addentra nella lettura del volume: si capirà fin da

subito che i frammenti raccolti dal Kern non sono stati raccolti con intento filosofico, letterario e tanto meno religioso, ma con intento strettamente filologico, il che rende la maggior parte dei frammenti di scarso o minimo interesse per un lettore medio, non interessato o non addentro alla questione orfica. Si aggiunga inoltre che l'edizione Kern, in quanto edizione critica, mira a raccogliere la totalità delle testimonianze ed a fornirle di un apparato critico, ma non tenta minimamente di spiegarle o

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Orfici, testimonianze e frammenti nell'edizione di Otto Kern, a c. di E. Verzura, pref. di G. Reale, Milano, Bompiani 2011. [pp. 815, euro 28]

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commentarle, cerca al più di catalogarle: la curatrice della traduzione italiana segue i principi editoriali di Kern, non arricchendo il testo con note di commento o di spiegazione. Così strutturata l'edizione con traduzione appare fortemente limitata nella sua utilità: una edizione destinata ad un pubblico di specialisti male adattata ad un pubblico di lettori bisognosi della traduzione italiana, ma perfettamente capaci di intendere e comprendere quanto tradotto? Nonostante le perplessità di presentazione di tali testi che noi possiamo nutrire l'edizione dei frammenti orfici di Kern non dovrebbe mancare nella biblioteca di nessun pagano classicista alquanto addentro al pantheon greco: spunti di riflessione infiniti e verità rivelate colpiscono chiunque con un fascino misterico totalmente autentico e genuino. Ci auguriamo però che possano uscire al più presto i restanti volumi promessi dalla Bompiani sull'orfismo: ovvero la traduzione dei ben più succosi e voluminosi frammenti dell'edizione Bernabè, contenenti in quattro volumi le opere epiche di impronta religiosa orfica, che a tutt'ora non sono stati ancora mai tradotti integralmente in italiano. [L.A.]

Immagini:

p.58, Giovane tracia recante la testa di Orfeo, Gustave Moreau.

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Parlare di una edizione della fondazione Lorenzo Valla equivale pressochè sempre a stendere un elogio del volume. L'opera in questione, seguito di un primo fortunatissimo, ed ahimè esaurito, volume sullo stesso argomento cerca di mettere assieme i tasselli inerenti alle i n i z i a z i o n i a n t i c h e misteriche più famose. In questo volume sono affrontate alcune delle iniziazioni più misteriose e meno conosciute, come quelle al mitraismo, o quelle ai misteri di Andania, o quelle alla Grande Madre Cibele. Scarpi premette al volume una stringata introduzione, rimandando alle introduzioni particolari gli argomenti inerenti ai singoli temi affrontati. La raccolta dei frammenti è molto intelligente, specie nel caso dei misteri di Cibele, sconosciuti anche agli specialisti di ambito classicistico; su Iside invece lascia a desiderare, appoggiandosi pesantemente alle fonti maggiormente note, il De Iside et Osiride plutarcheo ed il libro XI delle metamorfosi di Apuleio, escludendo la grande mole di attestazioni epigrafiche

che tanto avrebbero potuto arricchire il già vasto repertorio del volume (nella sezione Iside però vanno sottolineati e segnalati i due frammenti di aretalogie isiache, per la prima volta tradotti in italiano). Ad una prima lettura, magari ingenua, potrebbe apparire molto deludente la sezione mitraica, presentando solo frammenti e citazioni di lieve o minima estensione: il problema questa volta è però addebitabile alle

fonti, le quali già all'epoca dimostravano di conoscere ben poco dell'iniziazione e dei culti di Mitra. Assolutamente sorprendente e di una rara utilità è il commento, ampio e particolareggiato, che Scarpi allega in fine del volume ad ogni singolo frammento. Nel consigliare caldamente l'acquisto del volume a chiunque abbia interesse verso argomenti come le iniziazioni, i misteri iniziatici e le religioni orientali, dichiariamo di averne messo molto a frutto il contenuto e di averne tratto non pochi spunti di lettura e di approfondimento riscontrabili anche nel presente numero della rivista. [L.A.]

Le religioni dei misteri, vol. 2 Samotracia, Andania, Iside, Cibele e Attis, Mitraismo, a c. di P. Scarpi, Milano, Mondadori 2008. [pp. 6-16, euro 27.]

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BIBLIOGRAFIE GENERALI:

LE DEE E LE ACQUE:

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GIULIANO:

-GIULIANO IMPERATORE, Alla madre degli Dei e altri discorsi, a c. di J. Fontaine, Milano, Mondadori 2006.

-P. ATHANASSIADI-FOWDEN, L'imperatore Giuliano. Milano 1984.

I CELTI E L’ASTRONOMIA:

-P. LAMBERT, La langue gauloise, Editions Errance, Parigi, 2003, cap. 9.

-D. R. LEHOUX, Parapegmata: or Astrology, Weather, and Calendars in the Ancient World, PhD Dissertation, University of Toronto, Toronto, 2000.

-JAMES SIMON, Exploring the World of the Celts, Thames and Hudson, Londra, 1993.

-M. HOSKIN, Tombs, Temples, and Their Orientations: A New Perspective on Mediterranean Prehistory, Ocarina Books, Bognor Regis, 2001.

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-A. ROSS, Pagan Celtic Britain: Studies in Iconography and Tradition, Columbia University Press, New York, 1967.

-R.A.L SMITH, Bath, B.T. Basford Ltd., Londra, 1944.

-A. TAYLOR, The Roman Baths of Bath, Chronicle and Herald Press, Bath, Inghilterra, 1928.

FANUM APOLLINIS:

-IOHANNIS PASCOLI, Carmina, recognoscenda curavit Maria soror, Appendicem criticam addidit A. GANDIGLIO, Bononiae, in aedibus N. Zanichelli, 1930, 2 voll.

-E. PARATORE, La cronologia dei «Carmina» pascoliani e il suo significato, in Giovanni Pascoli. Poesia e poetica. Atti del convegno di studi pascoliani (San Mauro, 1-2-3 aprile 1982), a cura di E. SANGUINETI, Rimini, Maggioli, 1984.

-A. TRAINA, Il latino del Pascoli. Saggio sul bilinguismo poetico, Firenze, Le Monnier, 1971.

SERAPIDE::

-J. STAMBAUGH, Sarapis under the early ptolemies, Leiden, Brill, 1972.

-T. BRADY, The reception of the Egyptian Cults by the Greeks (130-30 b. C.), Columbia, Missouri, 1935.

-CASTIGLIONE, Les statues de culte hellènisitique du Sarapieion d’Alexandriet, in Bullettin du Musèe National Hongrois des Beaux-Arts, XII (1952), pp. 17-39.

I SERAPEIA:

-SERENA ENSOLI, I santuari di Iside e Serapide a Roma e la resistenza pagana in età tardoantica in Aurea Roma, 273-282. Roma, L'Erma di Bretschneider, 2000 .

UNA PREGHIERA A ZEUS:

-Orfici, testimonianze e frammenti nell'edizione di Otto Kern, a c. di E. Verzura, pref. di G. Reale, Milano, Bompiani 2011.

Phanes n.0

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SERAPIDE:

-J. STAMBAUGH, Sarapis under the early ptolemies, Leiden, Brill, 1972.

-T. BRADY, The reception of the Egyptian Cults by the Greeks (130-30 b. C.), Columbia, Missouri, 1935.

-CASTIGLIONE, Les statues de culte hellènisitique du Sarapieion d’Alexandriet, in Bullettin du Musèe National Hongrois des Beaux-Arts, XII (1952), pp. 17-39.

Phanes n.0

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