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September 2008
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S E P T E M B E R 2 0 0 8 n ° 1 2 M O M A V O I C E M A G A Z I N E
I R O N I AI R O N Y
Eccolo qua. Un ex copywriter con delle velleità da scrittore, culminate con una partecipazione al programma di Dacia Maraini “Io scrivo, tu scrivi” alla RAI. Poi, abbandonata la scrittura, alcuni tentativi con la tela e i pennelli, stroncati da una stancante, travagliata quotidianità. Espressionismo demenziale può forse essere definita l’opera pittorica di Renzo Mengoni. Un senso di inquietudine sottile emana dai volti sogghignanti dei personaggi creati dalla fantasia senz’altro malata di un pittore che chiaramente non sa dipingere. Tuttavia, nella sua ingenua volontà di volersi esprimere a qualunque costo, il Mengoni riesce perfettamente nel suo intento: creare in chi guarda un senso di profonda pena sia per l’autore, sia per quelle teste che si protendono nel
nulla tramite i loro assurdi colli di lombrico, per quelle bocche paralizzate in una smorfia patetica, per quei nasi gocciolanti, per quelle figurine che sembrano uscite dal quaderno di un bambino traumatizzato. Forse a qualche originale potrà piacere la stupidità disarmante e senza senso di cui è pregna l’opera nel suo insieme, perché assomiglia tragicamente a una certa realtà contemporanea. Renzo, come un nuovo Don Chisciotte, va avanti a tentoni per una strada piena di tanti, troppi mulini a vento. Sicuramente non gli impediranno di sfuggire a un destino purtroppo chiaramente segnato: la pazzia, il ricovero in una clinica psichiatrica, la cintura di forza, la lobotomizzazione.
P R E F A Z I O N E
LA VOLONTÀ DI ESPRIMERSI A QUALSIASI COSTO
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Questo numero diMOMA VOICE
è dedicato all’IRONIA
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Ogni sei mesi dedichiamo questo magazine alla creatività
Every six months we want to dedicate this magazine to Creativity
2
d iR e n z o M e n g o n i
Scarpe. Piedi. Storie. Ne ho sentite tante. Quella terribile del naufrago che se le è mangiate per sopravvivere. Quella fantastica della serva che aveva perduto la scarpina prima di mezzanotte. Quella a luci rosse di uno studente giapponese che ci aveva piazzato una microcamera per riprendere da sotto la gonna le mutandine della professoressa. Quella banale del cornuto a cui l’amico gli aveva fatto le scarpe.Ma la più assurda e incomprensibile è senz’altro questa. Questa che è successa a me. A me che me ne stavo da giorni e giorni tranquillamente disteso sul letto, a pensare beatamente a niente, contemplando la bellezza del vivere alle spalle dell’assegno di disoccupazione generosamente erogato dall’INPS. Cosa poteva succedermi di male? Non appena le erogazioni sarebbero terminate, avrei trovato sicuramente un ottimo lavoro, adeguato alle mie capacità. E poi i parenti non avrebbero permesso che continuassi a vivere di espedienti. La mia vita, quindi, scorreva tranquilla e spensierata.Quel giorno, però, era accaduto qualcosa di inaspettato. Si vede che i tempi stavano diventando duri. Ero andato in piscina a fare una nuotatina e quando mi andai a rivestire le mie scarpe nuove, nuovissime, appena comprate, non c’erano più! Al loro posto, dei vecchi scarponi bucati numero quarantacinque. Che disastro Le avevo comprate appena il giorno prima. Tutta colpa di una telefonata del mio amico Gianni: “Ehi, mi accompagni a vedere le vetrine?” “Certo, sono disoccupato, non ho niente da fare.” Eravamo entrati in un negozio di un certo livello. Beh, io avevo pochi soldi in tasca, ma la vista di quelle bellissime calzature era stata irresistibile. Avevo pensato: ”Ho bisogno di trovarmi un nuovo lavoro. Forse un bel paio di scarpe nuove mi serviranno a presentarmi meglio e a migliorare l’autostima.” Così, mentre Gianni che è ingegnere non comprava niente, io me ne ero ritornato a casa con delle fantastiche scarpe che, devo ammetterlo, erano anche abbastanza costose. Ed erano sparite.Me ne stetti per un po’ pensieroso. Sarei dovuto andare a denunciare il furto dai Carabinieri? E se quelli si mettevano a ridere? Mi immaginavo la scena: “Signor Mengoni, è sicuro che questi scarponi non siano suoi? Qui dentro c’è la sua impronta, come si spiega?”“Me li sono messi per ritornare a casa! E poi guardate, sono quarantacinque, io ho quarantuno!” “Allora favorisca patente e libretto… cioè… piede e calzetto… procederemo a un controllo. Mi può descrivere le generalità delle presunte scarpe scomparse?”“Ma che scomparse, rubate! Ru-ba-te! O pensate che se la siano svignata da sole?”“Embè? Non si sa mai… con tutto quello che succede oggigiorno, signò…”No, no. Niente denuncia, decisi.E allora? “Ehi, qualcuno ha visto un paio di bellissime calzature numero quarantuno? Oppure un tipo sospetto camminare sulle punte come se portasse delle scarpe troppo strette?” Chiesi a voce alta, più rivolto a me stesso che a qualcuno in particolare.“Ma… veramente il tipo sospetto mi sembra lei, con quegli scarponi palesemente troppo grandi! Non li avrà mica rubati?” Mi disse l’addetta alla reception. “Ma guarda te, adesso va a finire che il ladro sono io”.Decisi che era meglio uscire da lì. Certo che quel furfante aveva avuto la vista lunga. Chissà se era un professionista oppure qualcuno attratto talmente tanto da non aver saputo resistere. In preda a una certa confusione portai gli scarponi a casa e li misi in uno scaffale. Nei giorni seguenti cominciai a fare dei
ragionamenti filosofici, chiedendomi ad esempio in che percentuale le scarpe possano determinare l’immagine complessiva di una persona. Il quattro per cento? Il dieci? Il venti? Il trenta? Sono solo un dettaglio, o hanno una funzione decisiva? Chissà se la mia vita avrebbe avuto un cambiamento con quelle scarpe nuove? Non l’avrei mai saputo, purtroppo. Non avrei dovuto portarmele in piscina, questa era la verità. Oppure avrei dovuto metterle dentro uno zainetto impermeabile per non separarmene neanche dentro la vasca. Conclusi che era inutile piangere sul latte versato.Ogni volta però che vedevo gli scarponi sullo scaffale, avevo la netta sensazione che non fossero al loro posto. Che si trovassero, se possibile, a disagio. Il fatto mi metteva un po’ di ansia. Immaginavo che fossero appartenuti a qualche boscaiolo russo o polacco, che fossero abituati ai rigidi inverni sottozero della tundra, pensavo che avessero calcato le rigide steppe una volta visitate da Gengis Khan. E allora che cosa ci facevano rinchiusi in un appartamento a Tolentino, in provincia di Macerata? Cominciai a sentirmi in colpa. Così, per cercare di risollevare il morale agli scarponi, un giorno me li portai in montagna. Li caricai dentro lo zaino e poi, arrivato sul monte Canfaito, li lasciai sul prato, a godersi l’aria pura, all’ombra dei faggi secolari. Io me ne andai a porcini per i boschi. Quando li ripresi per metterli nello zaino, mi accorsi che sulla suola di uno c’era appiccicato un pezzetto di carta con un numero. Sembrava di un cellulare. Non ci avevo fatto caso, prima. Quella sera, non so perché, composi il numero.
Qualcuno mi rispose: “Ciao, la aspettavo, allora quando passa alla Studio Press in via Garibaldi tre?” “Quando?” “Va bene glielo dico io, amico,
passi subito!” “Ma… ma…” “Niente ma, lo so benissimo chi le ha dato il numero… Chieda di Anacleto Rossi” Andai, chiesi di
lui che si dimostrò gentilissimo e mi offrì un lavoro. Dovevo andare allo Studio Press tre volte a settimana per quattro ore a leggere delle bozze di fumetti per bambini. Poi dovevo scrivere
cinque o sei righe di commento con le mie impressioni. Era tutto. Avevo a disposizione la
macchinetta del caffè, un cellulare e un massaggiatore personale. Mi offrivano seimila euro al mese. Accettai. Così, grazie agli scarponi, non ebbi più il problema del lavoro. Da quel giorno li portai sempre con me. Devo confessare con un certo imbarazzo che iniziai anche a dormirci insieme. Naturalmente, continuai ad andare in montagna.Un giorno, ritornando da un lungo giro, constatai che gli scarponi non c’erano più. Spariti, volatilizzati. Non c’erano tracce di altre macchine nel prato in cui avevo parcheggiato, né sulla strada. Solo i soliti, enormi escrementi di mucca. Cercai per un’ora, guardando dappertutto: sotto la macchina, dietro i sedili, dentro il motore, sugli alberi, dentro i cespugli di pungitopo, tra l’erba più alta e le felci. Arrivai persino a chiamarli, cinguettando come un uccellino. “Cip cip… Scarponcini belli dove siete? Cip cip… Tornate qui, tornate dal paparino vostro…Rimasi come inebetito e me ne ritornai a casa a piedi, sperando di incontrarli da qualche parte. Poi, per vincere la tristezza mi ubriacai per tre giorni e tre notti di seguito. Sono trascorsi già un paio d’anni dalla dolorosa separazione, anche se sembra ieri. Sto ancora cercando di farmene una ragione. A me piace pensare, e ne ho quasi la certezza, che gli scarponi abbiano ritrovato la loro strada da soli, riappropriandosi della loro intima natura, grazie alla mia romantica, disinteressata e un po’ ingenua complicità.
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Clic
Quando riagganciava la cornetta del telefono sentendomi dire ciao.
Clic
Sentire quel rumore è
Una bastonata sulla capoccia a pera
Che ti fa cadere per terra
Senza lasciare il tempo di capire
Cosa è stato?
Cosa è accaduto?
Clic
Sentire quel rumore
Una mazzata sulla gobba dura
Che toglie il respiro
Fa mordere la lingua
E ti fa gridare
Aaaglia, la lingua!
Clic
Sentire quel rumore è
Una manganellata sulla lingua ferita
Che ti paralizza
E ti rende
Senza credo
Né fidanzata.
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Correva correva. Mordeva i binari. Destinazione Catania. Il tempo passava. Il treno veloce. Mi ricorda qualcosa. Pensavi distratto.
Lei venne all’improvviso, come un incidente o un terremoto. Lei venne con la zia. Aveva unghie viola. Indossava pantaloni attillati. Portava una maglia di lana.
Tu eri seduto proprio di fronte. Eri seduto a meno di un metro. Meno di un metro fra te e lei.
Il treno ripartiva e tu e la zia eravate lì. Anche lei era lì. E parlava. Dalla sua bocca usciva una voce. Una voce che formava parole.
Meravigliato. Sei rimasto meravigliato. Come faceva ad essere com’era. Come faceva ad essere proprio lì. Che incredibile circostanza della vita. Che miracolo.
Il treno andava andava e tu origliavi.
Origliavi ed origliavi ed origliavi. Lei e la zia logorroica. Parole nel treno. Parole che volavano intorno. Lei parlava con accento romagnolo. Lei aveva un’aria sognante allegra malinconica. Lei aveva capelli bocca narici cuore fegato naso lingua denti guance mignoli pancreas ginocchia indici vertebre anulari medi palpebre gambe reni pollici mani piedi.
Lei ha chiuso il mignolo della mano sinistra. Tu hai chiuso il mignolo della mano sinistra. Lei ha osservato un albero dal finestrino. Tu hai osservato un albero dal finestrino. Lei ha alzato il volto di sedici gradi. Tu hai alzato il volto di sedici gradi. Lei ha inspirato. Tu hai inspirato. Lei ha espirato. Tu hai ispirato. Lei ha mosso un orecchio. Tu hai mosso un orecchio. Lei ha abbassato una palpebra di mezzo millimetro. Tu hai abbassato una palpebra di mezzo millimetro.
Lei ti ha guardato negli occhi.
Tu hai avuto un sussulto. Tu hai ricevuto una sciabolata nel cervello. Tu hai intravisto un futuro impossibile. Tu hai tremato di paura. Tu hai chiesto a te stesso qualcosa.
Quante probabilità avevi di fuggirci insieme su un’isola deserta.
Unasumilleunasuunmilioneunasuduemilioniunasutremilioniunasuquindicimilioniunasucentosettantamilioniunasuseicentotredicimilioniunasuunmiliardotrecentomilioniunasuduemiliardi.
Una su cento miliardi.
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Maledetti. È da quando sono nato che mi perseguitano. A cinque anni erano
troppi, e venivo scambiato per una femminuccia. A tredici diventarono crespi,
e passavo ore davanti allo specchio cercando di pettinarli. A diciannove
cominciarono a cadere.
Provai con l’agopuntura. La dottoressa Pappalà mi conficcava aghi acuminati sul
cranio, dietro le ginocchia, nella schiena, nei piedi, negli zigomi, nel pancreas.
”Quando avremo finito il trattamento ne faremo un altro, e poi un altro, un altro
e un altro ancora...”
”E i capelli, quando smetteranno di cadere?”
”Se continueremo anni ed anni ed anni ed anni,
alla fine sicuramente smetteranno. Smetteranno
insieme a te.”
Fuggii via. Cominciai a vivere di espedienti. Un anno dopo
trovai una banconota da centomila per terra. Forse la fortuna
stava cominciando a girare dalla mia: la raccolsi. C’era
scritto “Il mago del Vulcano guarisce tutto, anche malocchi
- pidocchi - malattie - pene d’amore.”
”Pronto, è il mago del Vulcano?”
”In persona. Cosa la affligge?”
”Potrei parlarle a quattr’occhi?”
Presi un volo per Catania. Arrivai nella sala d’aspetto del
mago in via Cristoforo Colombo. Davanti a me sostavano
vecchie zitelle in cerca del primo amore, giovani gigolò
in cerca di vecchie zitelle, giocolieri con le vertigini,
calciatori con troppo cervello, cantanti di cabaret senza
lingua, spogliarelliste senza tette, dromedari senza gobba,
pescispada senza naso. Arrivò il mio turno. Non feci in
tempo ad entrare che quello con un’abile
rotazione dei bulbi oculari mi ipnotizzò. “Tu
ora sei un capellone... Sei un capellone... Sei un capellone...” Uscii dopo dieci
minuti, credendo di essere un lupo mannaro. In tasca mi e ra rimasto soltanto
un vecchio capello.
Andai a vivere sul cratere dell’Etna, ululando nelle notti di luna piena e
mangiando vermi, ragni e locuste. Dopo sei mesi l’effetto dell’ipnosi era
terminato. I capelli avevano continuato a cadere, fregandosene di tutto. La mia
capacità di intendere e di volere era però stata minata per sempre. Così decisi di
iscrivermi all’università. Una buona iniezione di cultura forse avrebbe rafforzato
il cervello e di conseguenza le preziose radici a contatto.
A lezione di antropologia appresi che la calvizie è causata da un eccesso di
ormoni maschili. Bisognava cercare di diminuirne la concentrazione in qualche
modo.
Cominciai ad assumere ormoni femminili per via orale. Mi ero rivolto ai viados
del porto: loro ne prendevano in continuazione. Ne avevo comprati sette chili
selezionati della Patagonia. Mi crebbero due belle tettine a punta. L’organo di
piacere diventò p iccolo come un fiammifero. I capelli continuarono a cadere:
oramai la chierica era evidente. Per non pensarci mi rifugiai nell’alcool. Una
sera all’osteria incontrai il mio amico Alessandro.
”L’analisi tricologica pone fine al settantacinque per cento dei casi di alopecia!
L’ho letto sulla pubblicità dell’Istituto Canadese Hudson! Devi andarci
subito!”
L’Istituto Canadese Hudson era un posto impeccabile: infermieri in livrea,
porte damascate, bisturi di platino, analisi computerizzata del capello, del
follicolo e del bulbo pilifero. Cominciarono gli esami. Per mezzo di 0,0001
milligrammi di azoto liquido venne incapsulato un capello. Fu poi tagliato in
microsezioni del diametro di 0,00001 millimetri, messo a bollire in un decotto
con aglio, olio, rosmarino, cipolle e venne dato in pasto ai topi.
Dopo tre mesi di analisi sroboscopico-monoscopico-organolettiche dei residui
contenuti nelle feci dei roditori si appur&ogr ave; che:
1° - mio nonno materno era calvo;
2° - mio nonno paterno era calvo;
3° - mio padre è calvo;
4° - il mio cane sta perdendo il pelo;
5° - le probabilità che io diventi completamente calvo prima dei quarant’anni
sono pari al novantacinque virgola settantaquattro per cento.
Così, decisi di farla finita. La strage fu compiuta a mezzanotte, dopo aver
ripensato alla dottoressa Pappalà, al mago del Vulcano, ai viados spacciatori di
ormoni ed aver maledetto gli specialisti dell’istituto canadese Hudson.
Con una lama acuminata li feci fuori tutti quanti. La mia testa diventò più liscia
di una palla di biliardo. Finalmente mi sentii libero e bello.
E il Minoxidil?
Ora per lavoro faccio il rappresentante del miracoloso liquido che fa ricrescere
i capelli.
Il mondo è pieno di gente terrorizzata dalla calvizie.
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8
Arco aveva trascorso le giornate di quella primavera tropicale giocando con le
meduse e le seppie. Ogni tanto si mescolava a qualche branco di delfini, per
fare a gara a chi saltava più in alto. Le giornate di quel piccolo baleno erano
state felici ma anche un po’ noiose, da quando aveva smarrito il branco. Fino
all’incontro con quella petroliera che solcava le onde tutta fiera. Arco ne rimase
subito affascinato: com’era bella, e che camini alti aveva. E mandava quel canto
armonioso: “Tuu! Tuuu! Tuuuu!” Sembrava quasi volesse dire: “Vieni con
me, vieni con me”. Il piccolo non seppe resisterere, e cominciò a seguire la
grande nave. Quando quella se ne accorse fece: “Perché
mi vieni dietro? Sono tre giorni e tre notti che mi stai
appiccicato alle calcagna. Vuoi forse rubarmi il carico che porto
nel ventre?”
“Oh no, mia bella petroliera... Veramente... Veramente mi sono un
po’ infatuato di te. Canti così bene!”
Era la prima volta che una creatura marina le si rivolgeva con parole
affettuose. Quanti insulti invece aveva dovuto sopportare nella
sua biasimata carriera! E sempre perché qualche capitano troppo
sbadato aveva fatto disperdere il carico in mare. Ma io e le mie
colleghe che c’entriamo? - ragionava lei - noi facciamo soltanto
il nostro dovere di brave navi, mica ce l’abbiamo con gli abitanti
dell’acqua!
Ma senza il petrolio lei stessa non avrebbe potuto muoversi. Il
suo motore usava un derivato di quella sostanza, non il vento o la
forza delle onde come le sue antenate. Gli uomini l’avevano fatta
diventare una nemica del mare, e per quello, in fondo, si sentiva
in colpa. Una volta, come le aveva raccontato nonna Caravella, le
cicogne usavano i pennoni più alti per costruire i nidi, i polipi si
rifugiavano tra le assi e i pesci più piccoli, le cozze e le
vongole si stabilivano al sicuro delle chiglie. I gabbiani e
gli uccelli migratori, inoltre, usavano le imbarcazioni per ripararsi o riposarsi
tra una traversata oceanica e l’altra. Ora, invece, con quel terribile petrolio,
nessuno osava più avvicinarsi!
“Grazie, piccolo balenottero, sono commossa. Erano dieci anni che nessuno
mi rivolgeva più la parola. Cosa posso fare per te?”
“Fammi venire sulla tua scia alla scoperta del mondo, ti prego!”
“Oh, ben volentieri, carino. Ma, ti avverto, può essere molto pericoloso.”
“Quali pericoli potrò mai correre accanto ad una creatura forte e grande come
te?”
La petroliera avrebbe voluto mandare via Arco, ma erano tanti anni che si
sentiva sola e triste e non ne ebbe il coraggio.
Così i due nuovi amici navigarono e visitarono nuovi mari per intere settimane.
Incontrarono tante creature e videro molte cose. Attraversarono le acque
radioattive di Mururoa e quelle asfissiate dalle alghe dell’Adriatico; solcarono
i mari al carbonio del Giappone e i golfi al nitrato di sodio
degli Stati Uniti. Arco imparò così che gli esseri più
pericolosi di tutti erano gli uomini. Però era felice lo stesso,
perché aveva incontrato un’amica sincera.
Ma un giorno una tempesta mandò la petroliera ad infrangersi sugli
scogli delle isole Shetland. Una intera fiancata rimase squarciata,
e tutto il carico andò in mare. Il povero Arco si ritrovò così tutto
coperto da una sostanza nera ed appiccicosa. Era dunque quello,
il famigerato petrolio! Diventato tutto sporco, non riusciva più a
nuotare, e sudava in abbondanza.
“Ah, se fossi stato più attento, e più svelto a scappare! Fra poco
morirò come quei gamberetti laggiù, per colpa di questa cattiva
sostanza maleodorante!”
Lo sfortunato balenottero aveva già cominciato a recitare le sue
ultime preghiere. All’improvviso, invece, arrivarono degli uomini
su una nave verde che lo ripulirono da cima a fondo. Poi, con
una pompa, gli spruzzarono intorno tanta acqua pulita. Evviva!
Allora esistevano anche delle persone per bene! Quelli, con delle
bandierine, gli indicarono gentilmente la strada; e lui poté nuotare
fino ad una baia amena. Lì fu delicatamente preso e
trasportato in una grande fabbrica. Degli operai laboriosi
lo tagliarono a fettine, che furono messe diligentemente a bollire. Fu quindi
trasformato in buon mangime alimentare di marca ‘Pescibel’, ingrediente
basilare per una corretta nutrizione dei pesci rossi.
Arco così aveva contribuito a rendere felici tanti pesciolini d’appartamento,
che se ne mangiarono ogni volta qualche milligrammo, leccandosi i baffi tutti
contenti.
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Pioveva a dirotto quel sabato pomeriggio di febbraio; era freddo, stava per
nevicare da un momento all’altro e c’era pure la nebbia. Ci eravamo ritrovati
così soltanto in un centinaio alla partenza di quella gara sui dieci chilometri di
inizio stagione. A me non importava niente delle condizioni meteorologiche
avverse, ho sempre amato correre col tempo brutto. Mi è sempre piaciuto
sfidare la natura e poter affermare il mio ego su di essa fino al punto di dire:
“Correrò lo stesso, niente mi potrà fermare.”
Così fu anche quella volta. Molti rimasero rintanati dentro le loro auto ma
io no, pioveva diluviava grandinava e mi presentai lo stesso alla partenza
insieme agli altri fanatici. Venne dato il via; poco dopo si formò un gruppetto
di cinque o sei concorrenti in testa e poi dietro un altro comprendente anche
me. Sì, facevo parte di quella schiera di podisti che azzeccano una gara ogni
cinquanta, ma che godono e soffrono veramente correndo.
Ho sempre preferito procedere così, in gruppo, all’inseguimento di quelli
davanti, sperando nel sorpasso come il malato spera nella guarigione o il
giocatore di tombola nella cinquina.
Di solito mi piazzo qualche metro dietro un altro concorrente per sfruttarne
la scia, cercando di concentrarmi sul ritmo e non pensare a nient’altro.
Quella volta, come tante altre, poco dopo la partenza ero riuscito ad evadere
completamente dalla realtà.
Ero di colpo diventato un lupo: intorno a me c’erano altri lupi, eravamo un
branco di bestie feroci all’inseguimento del drappello di uomini lì davanti.
Tutto intorno c’erano le desolate terre del grande nord, soltanto la nebbia e
la bufera ci accompagnavano. Stavamo correndo per sopravvivere, eravamo
affamati e crudeli. Non ci saremmo fermati prima di aver raggiunto l’uomo
più debole del gruppo davanti, che sarebbe inesorabilmente diventato il
nostro pasto.
Mario Verdi, ex-pugile, del club “Maratoneti Forti” di Terrascola aveva
sbagliato tattica: era partito troppo forte e stava perdendo terreno rispetto
agli altri battistrada.
Non appena fu chiaro che quell’uomo era in difficoltà subentrarono in noi
lupi gli stimoli e le energie necessari per aumentare l’andatura. Correvamo
tutti con la lingua di fuori e la bava alla bocca; nessuno ululava. Eravamo
silenziosi e concentrati, avevamo gli occhi sbarrati, fissi sulla preda.
Ci sentivamo tutti fratelli, accomunati da un solo obbiettivo: mangiare
quell’uomo per sopravvivere. Ora l’uno, ora l’altro ci alternavamo in testa a
fare l’andatura con fluide falcate.
Tra di noi si era instaurata un’intesa perfetta, formavamo una cosa sola,
ognuno si era dissolto per identificarsi completamente nel branco.
L’uomo davanti era evidentemente in difficoltà. La sua corsa era diventata
scomposta. Dimenava le braccia in maniera anomala, sbagliava traiettoria
nel prendere le curve, sputava in continuazione.
La distanza diminuiva sempre più. La nostra eccitazione era aumentata a
dismisura, avevamo già l’acquolina in bocca. Passavamo la lingua sui denti
pregustando il lauto pasto oramai a portata di zampa.
Mario Verdi imprecava. Aveva da poco superato il settimo chilometro ed era
completamente scoppiato.
Un vecchio lupo dal pelo rado fece un allungo, evidentemente eccitato
dall’odore umano divenuto fortissimo.
Lo seguii: volevo avere il privilegio di dare il primo morso. Eravamo giunti
a pochi metri dalla succulenta preda, scattai ancora: “WOOF! WOOF!”,
ululando in maniera bestiale con un balzo gli fui sopra. E, SGNAC!, lo
azzannai sul collo.
“Porc... che cavolo fai? Ma che, sei scemo?”
Intesi confusamente queste esclamazioni, poi fui colpito da un tremendo
pugno nell’occhio sinistro. Caddi riverso sull’asfalto.
“Ma io ti faccio a striscioline, pezzo d’un imbecille!”
Ritornai alla realtà: Mario Verdi, fuori di sé dalla rabbia, era trattenuto da
tre dei miei compagni di branco, cioè di gruppo, che avevano assistito alla
scena.
A quel punto cercai di giustificarmi.
“Scusa, sai... il branco, i lupi, la caccia...”
Quello invece diventò ancora più furioso di prima.
“Ah, mi pigli anche in giro? Ma io ti ammazzo!”
Soltanto con l’intervento dei Carabinieri riuscii a scamparla, ma da allora
sono conosciuto nell’ambiente come Giacinto, il maratoneta-lupo e per
partecipare alle gare gli organizzatori mi costringono invariabilmente ad
indossare una museruola rinforzata, pena la squalifica.
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È il sogno della mia vita.
Da più di dieci anni ho in mente di scrivere questo bellissimo romanzo.
Ma sono così pigr
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Grunt si svegliò all’alba per andare al lavoro come al solito. Preparò gli attrezzi
in silenzio, per non svegliare la moglie Brontola e la figlioletta Saura. Poi,
sistemando il giaciglio, diede loro un’ultima tenera occhiata. Era fiero della
sua famiglia, era fiero del suo possente torace e delle muscolose braccia con le
quali si procurava da vivere. Quel giorno i colleghi lo lasciarono in pace, così
il risultato fu più buono che mai. Con il frutto di quella giornata sarebbero
andati avanti per almeno sei mesi. incredibile, non gli era mai successo di fare
una caccia così abbondante. Ma ora lo aspettava la parte più difficile,
cioé trasportare i cinque bisonti a casa. Si prospettava una faticaccia
incredibile. Grunt pensò di concedersi un meritato riposino, e si sdraiò
sull’erba accanto ad una pietra di forma circolare. Ma la fatica era stata
tanta, la stanchezza ebbe il sopravvento e Grunt si addormentò come
un sasso. Quandò si risvegliò il sole stava per tramontare. Maledizione,
come avrebbe fatto a trasportare i cinque bisonti alla caverna prima che
fosse notte? Aveva promesso a Brontola che sarebbe ritornato prima
del tramonto! Di passare la notte all’addiaccio per fare la guardia ai bisonti,
nemmeno a pensarci. Ci voleva un’idea. Ma Grunt non era abituato a lavorare
con il cervello, l’unica cosa che sapeva fare era andare a caccia di bisonti.
Pensando e ripensando, inciampò e cadde per terra. Rialzandosi, guardò in
alto e vide le foglie degli alberi sopra di lui. All’improvviso gli venne quell’idea
rivoluzionaria.
Così, presentandosi la sera alla moglie, esclamò tutto
contento:
“Cara, se le piante si nutrono, crescono e vivono cibandosi d’aria,
possiamo farlo anche noi!”
Aveva inventato la dieta.
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