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Modelli organizzativi e politiche del personale nelle pubbliche amministrazioni regionali e locali Nicola Bellé e Stefano Olmeti

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Modelli organizzativi e politiche del personale nelle pubbliche amministrazioni regionali e locali

Nicola Bellé e Stefano Olmeti

The views expressed do not imply the expression of any opinion whatsoever on the part of the United Nations and of Italian Department for Public Administration and Formez.

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1. Premessa: obiettivi ed articolazione dell’analisi 2

2. Modelli organizzativi e politiche del personale tradizionali: tra

tradizione ed incoerenza sopravvenuta 4

2.1. Le caratteristiche del modello tradizionale di organizzazione e delle

politiche del personale 4

2.2. I fenomeni di crisi emergenti 11

2.3. L’evoluzione del contesto, del ruolo degli enti e la staticità relativa dei

modelli organizzativi e delle politiche del personale 13

2.4. Gli interventi di riorganizzazione degli anni ’90 14

2.5. Le tappe essenziali di revisione del quadro normativo a supporto della

riforma organizzativa degli anni ’90 17

3. L’adeguamento dei modelli organizzativi: struttura, regole, procedure

e processi, ruoli, relazioni interorganizzative 26

3.1. Gli interventi generali sugli assetti organizzativi e l’adeguamento dei

sistemi di gestione 26

3.2. L’adeguamento dei regolamenti di organizzazione 34

3.3. Il ridisegno dei processi e delle procedure 39

3.4. La ridefinizione dei ruoli dirigenziali 42

3.5. Le politiche di esternalizzazione dei servizi e la partnership pubblico-

privato 45

3.6. La cooperazione interistituzionale 55

3.7. Le agenzie 60

4. L’adeguamento delle politiche del personale: elementi strutturali,

sistemi di gestione e aspetti soft 65

4.1. Il dimensionamento e la composizione degli organici 65

4.2. La flessibilizzazione del rapporto di lavoro 67

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4.3. I sistemi di programmazione del personale 72

4.4. La revisione dei profili professionali e le nuove professionalità 73

4.5. I sistemi di reclutamento e selezione 76

4.6. La gestione delle carriere e il riconoscimento della professionalità 77

4.7. I sistemi di valutazione, le retribuzioni e gli incentivi 78

4.8. La mobilità 81

4.9. La formazione e lo sviluppo della professionalità 83

4.10. I sistemi informativi sul personale e la gestione delle competenze 85

4.11. La revisione del sistema delle relazioni sindacali e l’esperienza dei

contratti integrativi aziendali 87

4.12. La gestione delle conoscenze 89

4.13. Il benessere organizzativo 92

4.14. Il contenzioso 97

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1. Premessa: obiettivi ed articolazione dell’analisi L’evoluzione negli assetti organizzativi degli istituti pubblici

territoriali rappresenta una dimensione qualificante del processo di riforma in atto nella pubblica amministrazione italiana.

Il presente lavoro costituisce una ricognizione dei cambiamenti organizzativi che hanno investito Regioni ed autonomie locali nel corso degli ultimi vent’anni. La scelta di quest’orizzonte temporale è dettata dalla portata innovativa e dalla densità delle riforme che hanno scandito gli ultimi due decenni. Obiettivi di questo rapporto sono la ricostruzione e la sistematizzazione di tale percorso, con una focalizzazione specifica sulla dimensione organizzativa.

Dal punto di vista metodologico, l’analisi è declinata e condotta in parallelo su due livelli complementari: i modelli organizzativi e le politiche di gestione del personale.

Il piano di lavoro prevede una rassegna preliminare delle caratteristiche dell’approccio burocratico all’organizzazione, che ha ispirato i modelli e le politiche del personale tradizionali. La mappatura delle fragilità del paradigma weberiano costituisce una premessa imprescindibile per tentare di comprenderne la sopravvenuta incoerenza: a fronte di un graduale mutamento del ruolo attribuito agli istituti pubblici territoriali, la staticità dei modelli e delle politiche del personale tradizionali ha generato crescenti fenomeni di crisi organizzativa, con una forte accelerazione a partire dagli anni ’80.

Alla progressiva inadeguatezza dell’approccio burocratico-formale sono riconducibili le riforme organizzative degli anni ’90, qui rilette lungo due dimensioni complementari: l’evoluzione del quadro normativo e la revisione delle prassi gestionali.

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Attraverso la ricostruzione delle differenti traiettorie di rinnovamento organizzativo seguite dai vari enti, si compie una fotografia dei modelli organizzativi e delle politiche del personale emergenti. A tal fine si passano in rassegna alcuni esempi ritenuti particolarmente emblematici delle tendenze in atto. I casi individuati sono sistematizzati sulla base di categorie logiche differenziate per le due aree indagate, ovvero i modelli organizzativi e le politiche del personale, con il duplice scopo di fotografare lo stato di avanzamento delle riforme organizzative avviate nel corso dell’ultimo decennio e di individuare l’attuale collocazione della frontiera dell’innovazione organizzativa.

Nella fase di ricognizione di esperienze concrete di gestione del cambiamento organizzativo, ci si è avvalsi anche della banca dati Buoni esempi curata dal Formez, riportando la descrizione sintetica di alcuni progetti in essa contenuti.

Gli obiettivi appena richiamati riflettono l’intento di queste Note e commenti: mappare le dinamiche organizzative emergenti e fornire una visione organica delle tendenze evolutive in atto nelle Regioni e negli enti locali.

Esula dallo spirito di questa prima parte del lavoro il tentativo di fornire una lettura prospettica dei fenomeni passati in rassegna. Per questo, si rimanda alle Indicazioni finali contenute nel secondo tomo nel quale si fornisce una chiave interpretativa dell’evoluzione in atto. Anche sulla base dei dati raccolti in questa prima parte, le Indicazioni finali sono focalizzate su alcune scelte qualificanti e di respiro strategico, cui gli istituti pubblici locali sono chiamati in questo momento nodale della loro evoluzione.

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2. Le caratteristiche essenziali dei modelli organizzativi e delle politiche del personale tradizionali: l’incoerenza sopravvenuta

2.1. Le caratteristiche del modello tradizionale di organizzazione e delle politiche del personale

Il processo di consolidamento dei moderni sistemi di pubblica

amministrazione si è fondato sull’adozione diffusa del «modello burocratico» di derivazione weberiana. Pur trattandosi di una tendenza comune alla quasi totalità degli Stati moderni, tale fenomeno ha inciso in misura più significativa sull’evoluzione dei sistemi amministrativi dei Paesi con una tradizione di civil law.

L’affermazione di principi organizzativi a prevalente connotazione istituzionale è riconducibile, in prima approssimazione, a due motivazioni.

La prima è che la neutralità della funzione di governo rispetto alla funzione amministrativa, presupposto logico e politico dello Stato moderno, ha trovato garanzia, almeno formale, nei principi di oggettività e di chiusura rispetto alle pressioni ambientali sui quali si fonda il modello burocratico puro.

La seconda è che la costituzione dei moderni sistemi di pubblica amministrazione ha coinciso con la fase di consolidamento dello Stato di diritto, fondato sulla sovranità del principio di legalità; quest’ultimo presenta un’evidente contiguità logica con l’oggettività, o, più propriamente, con la minimizzazione della soggettività imprevedibile degl’individui, perseguita dal modello burocratico.

L’organizzazione della macchina amministrativa secondo il paradigma burocratico ha determinato una netta prevalenza della

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dimensione istituzionale sulla dimensione aziendale1 e sui principi di funzionalità2 a questa correlati. Tale sbilanciamento ha fortemente condizionato le caratteristiche dei modelli organizzativi tradizionali e delle politiche del personale che hanno contraddistinto le fasi di costituzione e consolidamento dell’attuale sistema di pubblica amministrazione.

Dal punto di vista strutturale, l’adozione del modello burocratico ha tradizionalmente prodotto una segmentazione spinta dei processi amministrativi in fasi rigidamente proceduralizzate, un’aggregazione di compiti e mansioni secondo omogeneità di tipo tecnico-operativo o in base all’attribuzione della titolarità degli atti formali ad essi correlati.

L’approccio burocratico all’organizzazione si fonda su una logica rigidamente sequenziale: la focalizzazione è più sulla correttezza procedurale delle singole operazioni, che sulla coerenza delle relazioni che sussistono tra le stesse. La razionalità e la funzionalità di tali relazioni è considerata un corollario della correttezza delle procedure che regolano le singole fasi. Ne discende un modello fortemente autoreferenziale, scarsamente orientato agli obiettivi e, per questo, poco reattivo agli scostamenti rispetto ai risultati attesi o socialmente auspicabili.

Al principio di impermeabilità è riconducibile la forte incidenza dei controlli esterni di legittimità, che connota i sistemi burocratici: una volta stabilite le regole di funzionamento della macchina, non resta che verificarne il rispetto. Postulando una razionalità assoluta nella fase di progettazione delle procedure, l’approccio burocratico puro giunge ad affermare l’identità tra correttezza formale ed efficacia/efficienza dell’azione amministrativa.

Nella traduzione dall’ideale al reale, la debolezza dei meccanismi di autoregolazione della macchina amministrativa ha storicamente indotto

1 Per azienda si intende qui l’ordine economico di un istituto. 2 «Mentre, nella realtà delle imprese, la natura strumentale dell’attività “aziendale”

è stata da tempo riconosciuta e accettata nella pratica e nella teoria, il che ha consentito il prevalere di principi funzionali dell’organizzazione, nella realtà dell’amministrazione pubblica la strumentalità dell’attività aziendale è stata a lungo negata ed è stata riconosciuta solo recentemente, il che ha favorito il consolidamento di principi organizzativi a forte connotazione istituzionale e consolidati in modo compiuto e organico nel “modello burocratico”» (E. Borgonovi, Principi e sistemi aziendali per le amministrazioni pubbliche, Egea, Milano, 2002, p. 166).

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continui interventi di correzione della rotta verso risultati non solo formalmente legittimi, ma anche socialmente auspicabili. Questa falla del modello genera alcune delle più tipiche patologie di funzionamento riscontrabili nei modelli organizzativi tradizionali. La frequente inconciliabilità tra rigidità della logica procedurale ed efficacia dell’azione amministrativa ha storicamente indotto una moltiplicazione di interventi “per atti singoli”, spesso sfociati in una sostanziale sostituzione degli amministratori da parte dei politici. L’abdicazione dell’amministrazione nei confronti della politica e la confusione tra funzioni di governo e funzioni gestionali hanno portato ad una evoluzione del sistema amministrativo per sedimentazioni successive: secondo una logica tipicamente incrementale, la struttura organizzativa è il risultato di successive proiezioni di equilibri politici temporanei. Da qui, molte delle distorsioni rilevabili nel sistema amministrativo: aggregazione di attività non omogenee, non sulla base di valutazioni tecniche, organizzative od economiche, ma per ragioni di opportunità politica; specularmente, esplosione di processi unitari e riattribuzione della responsabilità formale sulle singole fasi per moltiplicare gli spazi d’influenza e di rappresentanza politica; evoluzione a strappi della struttura, per sovrapposizione di modelli ideologici successivi e disomogenei.

Si tratta di una dinamica in parte fisiologica, connessa alla duplice fonte del potere organizzativo nelle amministrazioni pubbliche: da una parte il consenso politico, per la componente di nomina elettiva e dall’altra le competenze tecnico-professionali, per i titolari di posizioni all’interno dell’apparato amministrativo.

La complessità organizzativa è, pertanto, incrementata dalla presenza di una duplice struttura3: quella di governo, diretta espressione del ciclo politico ed articolata nella distribuzione delle deleghe politiche per

3 «(…) l’esistenza delle due differenti strutture pone esigenze “di raccordo”, a cui si è cercato di dare risposta tramite l’istituzione di specifiche figure e posizioni quali quelle del Capo di gabinetto del Ministro o del Segretario particolare del Sindaco o del Presidente della Giunta (provinciale o regionale). Si tratta di posizioni cui possono accedere persone “nominate discrezionalmente” dall’amministratore elettivo in virtù di un rapporto fiduciario, ma che devono avere una professionalità tale da consentire loro di colloquiare con la struttura amministrativa, di tradurre gli indirizzi e le scelte politiche in indirizzi organizzativi e controllare il funzionamento organizzativo» (Borgonovi, Principi e sistemi aziendali, cit., p. 172).

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materie da parte del sindaco e del presidente della giunta agli assessori (regionali e provinciali) e quella amministrativa in senso stretto, formalmente svincolata dal ciclo politico e a più forte connotazione professionale e burocratica.

I due binari rispondono a due logiche non sempre conciliabili e difficilmente sovrapponibili: una prevalentemente esterna, fondata sulle regole del confronto politico e della rappresentanza di gruppi di interessi particolari; l’altra logica è interne al modello organizzativo e quindi a più elevata connotazione aziendale.

Alcune delle più ricorrenti patologie del modello burocratico sono riconducibili proprio ad una non chiara separazione tra funzione di governo e funzione professionale/burocratica.

Dalla commistione tra le due discendono frequenti interferenze della politica sul funzionamento della macchina organizzativa, attraverso interventi su aspetti di ordine gestionale e, specularmente, atti d’esercizio strumentale delle prerogative di natura tecnico-amministrativa, con finalità di condizionamento delle scelte di indirizzo politico.

La focalizzazione sulla correttezza procedurale, l’elevata incidenza dei controlli di legittimità, la frammentazione spinta dei processi amministrativi, l’elevata specializzazione tecnico-formale, l’attribuzione del potere-responsabilità in base alla titolarità degli atti formali, hanno tradizionalmente causato un allungamento in verticale della struttura organizzativa. Il modello burocratico tende a rispondere ad un aumento della complessità con la moltiplicazione dei livelli di coordinamento. Tale dinamica genera una struttura a canne d’organo, nella quale le singole fasi del processo amministrativo, considerate in se stesse compiute ed autonome, sono tra loro coordinate solo attraverso l’intervento formale degli organi che ne rappresentano i vertici comuni. A fronte di un problema di coordinamento non previsto e non codificato nelle procedure, una simile organizzazione richiede di percorrere ogni volta tutta la catena gerarchica, con evidenti disfunzioni e dispersioni.

La logica burocratica influenza anche la dinamica evolutiva della struttura organizzativa. Mentre nei modelli aperti le variazioni strutturali – sia qualitative (tipologia di posizioni di lavoro), sia quantitative (numero di persone necessarie per ogni posizione) – discendono dalle scelte strategiche di posizionamento rispetto all’ambiente, nei sistemi burocratici prevalgono meccanismi di evoluzione della struttura

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fortemente inerziali, spesso svincolati dall’evoluzione dei bisogni della comunità di riferimento, e fortemente condizionati da fattori politici, più o meno estranei ad una razionalità aziendale in senso stretto. L’origine di questa caratteristica del sistema amministrativo è ascrivibile a due elementi: alla divaricazione tra tipologia e numero di posizioni di lavoro idealmente necessarie per garantire soddisfacenti livelli di funzionalità del sistema amministrativo e posizioni concretamente istituibili in applicazione delle norme, e alla definizione del contenuto delle posizioni prevalentemente in base all’analisi dei processi di applicazione delle norme ed alle esigenze di bilanciamento dei poteri, piuttosto che come risposta all’analisi dei bisogni.

La focalizzazione sui controlli di legittimità e correttezza procedurale induce una proliferazione delle posizioni di coordinamento, supervisione, valutazione. Il modello burocratico risponde alla complessità aumentando gli organi di controllo procedurale. Si innesca così un circolo vizioso, che causa distrazione di risorse dalle posizioni di produzione. Questo circuito genera entropia organizzativa: risorse crescenti vengono destinate al funzionamento di un apparato fine a se stesso. La dinamica appena richiamata produce, tipicamente un’illusione di controllo e un’accentuata divaricazione tra razionalità legale-burocratica e razionalità economico-aziendale.

La funzione di controllo della dinamica dimensionale delle organizzazioni pubbliche è stata storicamente affidata alle piante organiche4. Prima delle riforme degli anni ’90, esse definivano tipologia e numero di posizioni organizzative: nuove assunzioni a tempo indeterminato erano possibili solo nei limiti previsti dalla pianta. Le decisioni di variazioni della pianta organica erano di competenza degli organi elettivi, dunque del Consiglio comunale, provinciale e regionale, Governo o Parlamento in occasione dell’istituzione di un nuovo ministero, ed erano subordinate al vaglio di organi esterni, primariamente deputati alla verifica delle compatibilità economiche di lungo periodo.

Funzione primaria delle piante organiche era quella di evitare un’espansione incontrollata della struttura organizzativa ed un ampliamento eccessivo dell’organismo personale. Negli enti pubblici, tale rischio è riconducibile all’effetto congiunto di due fattori: il primo è

4 Le piante organiche sono state abolite dall’articolo 6 del d.lgs. 29/1993.

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che il “posto pubblico” rappresenta un potente strumento di gestione del consenso; il secondo è che l’azienda composta-pubblica, in quanto ordine economico di istituti che non possono di fatto essere sanzionati con l’uscita dal mercato, è sottoposta a vincoli di economicità di breve periodo meno stringenti di quelli che gravano sulle aziende di produzione: i soggetti che, pro tempore, si trovano ad esercitare il potere decisionale sono meno responsabilizzati riguardo agli effetti di lungo periodo di un incremento stabile dell’organismo personale.

Le regole di elaborazione e variazione delle piante organiche hanno subito nel tempo trasformazioni riconducibili alle fasi seguenti.

Fino agli inizi degli anni ’80, il sistema dei ruoli e delle carriere prevedeva, per ciascun settore di attività, la definizione di posizioni di lavoro caratterizzate da specifici contenuti di base, compensi accessori di vario tipo come le indennità, orari di lavoro differenziati, eccetera; per posizioni simili, poteva essere previsto un trattamento economico e normativo significativamente differenziato.

Negli anni ’80, con l’introduzione del sistema della qualifica unica funzionale si è mirato ad omogeneizzare il trattamento economico e normativo di figure professionali simili appartenenti a differenti settori di attività, inserendo le posizioni di lavoro in fasce, i cosiddetti livelli funzionali, sottoposti a trattamento uniforme.

A metà degli anni ’90, al precedente sistema delle qualifiche sono state apportate modifiche che consentissero una maggiore differenziazione del trattamento economico delle diverse posizioni, in funzione dei compiti, delle mansioni e dei contenuti di responsabilità.

La complessità formale delle procedure di variazione delle piante organiche ha a lungo rappresentato un elemento di forte rigidità ai fini di una gestione funzionale. In una situazione di risorse decrescenti e di vincoli alla spesa pubblica sempre più stringenti, lo strumento della pianta organica ha originato alcune distorsioni tipiche del sistema di pubblico impiego. Innanzitutto evidenti differenze tra pianta organica formalmente approvata e dimensioni e composizione effettive dell’organismo personale, posti di pianta organica non coperti e contemporanea presenza di personale non inquadrato stabilmente, frequente impiego di personale nello svolgimento di compiti, mansioni e funzioni diverse rispetto ai profili professionali di inquadramento, tendenza al sovradimensionamento della pianta organica in occasione delle sue periodiche modificazioni, al fine di anticipare futuri fabbisogni

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di personale o di conservare i margini di discrezionalità acquisiti nel tempo, utilizzo delle variazioni della pianta organica come terreno di negoziazione politica tra diversi organi e diversi livelli di governo, incremento del precariato, attraverso l’attivazione di rapporti di lavoro atipici. In passato tutto ciò ha generato attese e pressioni sociali, spesso sfociate in sanatorie ed inserimenti in ruolo ope legis. Infine creazione di enti strumentali ed affidamento di incarichi a terzi, non sulla base di valutazione di convenienza economica dell’outsourcing, ma per superare il vincolo formale della pianta organica.

Ai limiti strutturali dei modelli organizzativi generali si aggiungono le peculiari caratteristiche del rapporto di pubblico impiego e delle correlate politiche del personale.

In ambito pubblico, l’efficacia della gestione del personale è stata tradizionalmente condizionata dall’applicazione meccanicistica del principio di impersonalità, alla base del modello burocratico. La sostanziale impossibilità di differenziare il trattamento economico dei dipendenti ha generato una patologia organizzativa: in assenza di sistemi di ricompensa ancorati ad un reale sistema di valutazione, l’unico strumento di gestione del personale è stato, per lungo tempo, la modifica della struttura organizzativa.

A fronte di un sistema che collegava la ricompensa esclusivamente al livello gerarchico della posizione, le modifiche alla struttura erano l’unica via per creare opportunità di sviluppo per le persone.

Alla commistione tra gestione della struttura e politiche del personale, sono riconducibili alcune patologie organizzative ricorrenti: le modifiche alla struttura organizzativa apportate non per esigenze di funzionalità e razionalizzazione della stessa, ma per creare spazi di sviluppo professionale; l’allungamento della scala gerarchica e la proliferazione delle posizioni di livello superiore, con un corrispondente incremento dei costi di coordinamento; le variazioni dei contenuti di posizioni e profili professionali non corrispondenti a reali variazioni nelle responsabilità e nei contenuti di lavoro, ma finalizzate a collocare i dipendenti in un livello retributivo più elevato; infine la dipendenza delle progressioni retributive, di carriera e professionali, non tanto dalle qualità e meriti dei dipendenti, quanto dalle opportunità consentite dalla struttura.

La confusione tra dimensione strutturale dell’organizzazione ed aspetti di gestione del personale è in realtà solo uno degli effetti di una serie di anomalie e rigidità che hanno storicamente connotato il rapporto

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di pubblico impiego, determinandone significative differenze rispetto al rapporto di lavoro privato. Tali differenze sono riconducibili, in primo luogo ai principi del modello burocratico, come più sopra analizzato e alle origini del rapporto di pubblico impiego: differenze queste rintracciabili nella figura del pubblico ufficiale.

Inoltre la progressiva estensione all’intero settore pubblico di una serie di tutele specificamente previste per garantire la neutralità ed imparzialità di tali soggetti, deputati allo svolgimento di funzioni sovraordinate, ha prodotto la progressiva stratificazione di privilegi ingiustificati e l’elaborazione di un apparato regolamentare del tutto disomogeneo rispetto all’omologo privato, ed ha condotto alla funzione sociale del pubblico impiego, tradizionalmente utilizzato quale volano occupazione per l’attuazione di politiche economiche anticongiunturali e di politiche di perequazione territoriale.

A tali caratteristiche è riconducibile la centralità del principio d’imparzialità di trattamento che tradizionalmente ha informato le politiche di gestione dei dipendenti pubblici. In ottica gestionale, il principio di imparzialità e le tutele ad esso connesse hanno in molti casi provocato una deriva egalitaristica, che ha negato le potenzialità di una differenziazione equa e motivante.

2.2. I fenomeni di crisi emergenti

L’applicazione del paradigma burocratico al sistema amministrativo ha innegabilmente generato malfunzionamenti e patologie organizzative ricorrenti. La crescente inadeguatezza del modello organizzativo tradizionale sembra potersi ricondurre, in prima approssimazione, a due differenti ordini di motivazioni: una prima si richiama ai limiti intrinseci al modello burocratico; in particolare, la critica teorica ha da tempo dimostrato come una rigorosa applicazione dei principi burocratici induca frequenti scostamenti nei comportamenti e nelle logiche operative reali, sino a produrre effetti non previsti e distorti5; una seconda riconduce il fallimento del modello organizzativo tradizionale

5 G. Valotti, La riforma delle autonomie locali: dal sistema all’azienda, Egea,

Milano, 2000.

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all’incremento della complessità di contesto ed interna alle aziende pubbliche6.

Fanno capo al primo filone teorico gli studi organizzativi che, negli ultimi cinquant’anni, hanno evidenziato alcune incoerenze nell’impianto teorico burocratico, ritenute all’origine dei cosiddetti “circoli viziosi” della burocrazia. A tali falle del modello sono riconducibili alcune delle patologie più frequentemente osservabili nel funzionamento degli istituti pubblici: un allontanamento degli enti dai fini istituzionali ed un rafforzamento delle difese degli interessi interni7; una strutturale incapacità al perseguimento dei risultati ed al miglioramento degli stessi8; eccessi di specializzazione e rischi di frantumazione dell’unitarietà aziendale9; difficoltà di adattamento dinamico dell’azienda pubblica10; bassa propensione alla valorizzazione e allo sviluppo professionale del personale11; un’eccessiva articolazione e rigidità delle procedure, un appesantimento dei meccanismi e delle strutture di coordinamento, una perdita di efficienza nelle relazioni tra livelli istituzionali e nei rapporti con altre aziende12.

Il secondo ordine di motivazioni si richiama al filone delle cosiddette contingency theory13. La sopravvenuta inadeguatezza del modello burocratico sarebbe riconducibile, in primis, alla variazione delle condizioni di contesto ed interne alle aziende pubbliche. Al crescere dei livelli di complessità, il paradigma burocratico, che ben si presta a governare il funzionamento di aziende che operano in condizioni di relativa semplicità, diviene sempre più inefficiente ed inefficace. Ad

6 J. R. Galbraith, Organizational design, Addison Wesley, New York, 1977. 7 R. K. Merton, Teoria e struttura sociale, il Mulino, Bologna, 1959. 8 A. W. Gouldner, Pattern of industrial democracy, The Free Press, New York,

1954. 9 P. Selznick, TVA and the grass roots - A study in the sociology of formal

organization, University of California Press, Berkeley and Los Angeles, 1949. 10 M. Crozier, Il fenomeno burocratico, Etas, Milano, 1963. 11 R. Normann, La gestione strategica dei servizi, Etas, Milano, 1985. 12 G. Rebora, Organizzazione e direzione dell’ente locale, Giuffré, Milano, 1983. 13 Per contingency theory si intende un filone di studi organizzativi che contestano

la validità di modelli teorici di validità universali per focalizzarsi sulla ricerca di soluzioni organizzative contingenti, ossia progettate tenendo conto in primo luogo delle condizioni ambientali specifiche e generali.

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entrare in crisi sono, in particolare, in condizioni di complessità, due dei pilastri del modello: il sistema delle regole e la gerarchia, che tendono a degenerare verso l’iper-regolamentazione ed il collasso gerarchico. Al venir meno di condizioni di programmabilità tali da consentire un buon funzionamento delle procedure, la gestione di eccezioni sempre più numerose e rilevanti si trasferisce sui ruoli direzionali. Si innesca un circolo vizioso: i ruoli direzionali, assorbiti dalla risoluzione di problemi operativi e contingenti, finiscono per divenire un collo di bottiglia per le decisioni ed il funzionamento aziendale. Secondo una logica autoreferenziale, il modello tenta di trasferire sul sistema di regole e procedure una quota dell’attività non presidiata di governo dell’organizzazione. Ciò produce ulteriori rigidità procedurali, richiedendo l’intervento dei ruoli direzionali.

2.3. L’evoluzione del contesto, del ruolo degli enti locali e la staticità relativa dei modelli organizzativi e delle politiche del personale

A partire dagli anni ’90, l’obsolescenza dell’approccio burocratico all’organizzazione degli enti locali è divenuta più evidente, a fronte di radicali trasformazioni delle relazioni interistituzionali e finanziarie tra i diversi livelli di governo sopranazionale, nazionale, regionale e locale, dell’assetto istituzionale e del modello generale di Stato; delle dinamiche di spesa pubblica, anche in considerazione dei vincoli che discendono dall’appartenenza all’Unione monetaria e di una maggiore apertura del sistema pubblico a condizioni di mercato o quasi mercato – forme di concorrenza, forme di tutela degli utenti e dei cittadini.

Tali mutamenti, prevalentemente esogeni, si sono combinati con i processi di rinnovamento interni agli enti locali, più diretta espressione di nuove istanze ed esigenze delle comunità di riferimento.

La forte pressione verso il cambiamento degli anni ’90 è dunque la risultante di due spinte convergenti di top-down – vincoli di appartenenza all’Unione europea, istanze di revisione del modello di Stato, processi di decentramento – e di bottom-up – rivendicazione di un più diretto controllo e di maggiore trasparenza circa l’uso delle risorse pubbliche, progressivo spostamento del baricentro competitivo a livello di sistemi economici locali, nuove istanze e bisogni connessi

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all’accelerazione dei mutamenti economico-sociali generali, ovvero processi di globalizzazione, e-economy, eccetera.

A fronte dei fenomeni ora sommariamente richiamati, gli enti locali sono stati chiamati ad un cambiamento di ruolo, per il quale, in molti casi, non erano attrezzati. Pur con notevoli disomogeneità, su base sia dimensionale, sia geografica. le spinte al cambiamento hanno mostrato alcune criticità ricorrenti. Queste sono: la staticità dei modelli organizzativi e delle politiche del personale tradizionali rispetto alle rinnovate esigenze di flessibilità della macchina amministrativa; la conseguente difficoltà di declinazione delle leve gestionali disponibili all’esercizio del nuovo ruolo e delle nuove funzioni; la tendenza alla gestione emergenziale attraverso l’aumento d’interventi per atti singoli; la commistione tra responsabilità politiche e gestionali; l’assorbimento della dirigenza in attività operative; la sclerotizzazione dei circoli viziosi congeniti al modello burocratico; la crescente divaricazione tra obiettivi sociali e risultati gestionali; la progressiva riduzione del grado di efficacia sociale dell’azione amministrativa e conseguente perdita di legittimazione; la difficoltà di indirizzo della macchina amministrativa verso i rinnovati obiettivi strategici; la prevalenza di logiche incrementali e scarsa capacità di lettura strategica degli spazi d’azione comunque consentiti dalle innovazioni normative.

La crescente incoerenza tra evoluzione del ruolo delle autonomie locali, da un lato, e la staticità dei modelli organizzativi e delle politiche del personale tradizionali dall’altro, hanno innescato un processo di revisione degli assetti organizzativi degli enti. Tale processo di rinnovamento, che ha avuto una significativa accelerazione nel corso degli anni ’90, si è articolato in due dimensioni: nella riforma dell’apparato normativo che regolamenta il funzionamento degli enti locali e nel ripensamento delle pratiche gestionali e delle logiche di lettura manageriale degli spazi consentiti dalle norme.

2.4. Gli interventi di riorganizzazione degli anni ’90

Nell’ultimo decennio l’evidente inadeguatezza dei modelli tradizionali di organizzazione ha reso necessario accelerare il processo di revisione degli stessi e delle correlate politiche di gestione del personale.

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Gli interventi di riorganizzazione degli anni ’90 hanno segnato un momento di significativa discontinuità rispetto alle logiche incrementali e fortemente inerziali che avevano ispirato le prime ristrutturazioni organiche, attivate all’interno degli enti pubblici territoriali a partire dalla fine degli anni ’70. Queste ultime rispondevano prevalentemente ad esigenze di adeguamento al dettato normativo e si traducevano in atti di riorganizzazione di natura straordinaria, in un’ottica di adempimento formale. Ne discendeva una focalizzazione sugli aspetti procedurali del cambiamento, piuttosto che sull’impatto sostanziale sul funzionamento delle aziende pubbliche.

Gli atti di riorganizzazione della fine degli anni ’70 si limitavano, di fatto, ad interventi di rideterminazione degli organici ed al ridisegno delle connesse componenti strutturali. Tali interventi si inserivano in un contesto caratterizzato da una limitata autonomia degli enti territoriali, da un’estrema rigidità del rapporto di pubblico impiego, da un controllo centralizzato della spesa per il personale – ad esempio la Commissione centrale per la finanza locale –, da un blocco sistematico del turnover aziendale attraverso le leggi finanziarie annuali e da una debole cultura organizzativa degli enti.

A partire dalla seconda metà degli anni ’80, gli interventi di riorganizzazione hanno assunto caratteristiche di maggiore sistematicità, anche in virtù di un più solido ancoraggio ad approfonditi studi organizzativi, solitamente commissionati a soggetti esterni agli enti. In questa fase, a fronte della diffusione di una cultura organizzativa meno autoreferenziale, si è registrata una notevole difficoltà di traduzione dei nuovi modelli teorici generali in concreti interventi applicativi. Si è trattato di un fenomeno imputabile principalmente ad una fragilità della cultura e delle competenze organizzative dei soggetti che avrebbero dovuto promuovere il cambiamento, quali amministratori, dirigenti e quadri, e al permanere di forti vincoli normativi all’autonomia organizzativa degli enti.

In questa fase prevaleva un’impostazione ancora marcatamente meccanicistica del funzionamento delle aziende pubbliche14, fondata su

14 È significativa, a questo proposito, la vicenda dei carichi di lavoro, ovvero

l’elaborazione a livello centrale di un metodo analitico e prescrittivo per la determinazione dei fabbisogni quali-quantitativi di ore di lavoro per la produzione di

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una puntuale codificazione di tutti gli accadimenti aziendali e su una misurazione degli scostamenti in un’ottica di controllo di legittimità e di efficienza.

I tentativi di revisione dell’approccio all’organizzazione intrapresi alla fine degli anni ’80 hanno di fatto iniziato a dispiegare i loro effetti negli anni ’90. Solo nel decennio scorso, infatti, l’esigenza di riorganizzare la macchina pubblica ha trovato una legittimazione anche normativa, nel quadro di un più ampio processo di revisione degli assetti istituzionali e dei rapporti tra i livelli di governo. In questo periodo l’impulso al cambiamento si è tradotto in vere e proprie sperimentazioni organizzative, all’interno dei nuovi margini di autonomia riconosciuti agli enti. Almeno nelle realtà più avanzate, tali interventi hanno assunto un carattere sistematico ed organico, dando vita ad una sorta di cantieri permanenti di riorganizzazione. A differenza degli atti di riorganizzazione di fine anni ’80, gli interventi degli anni ’90 hanno interessato le differenti dimensioni dell’assetto organizzativo degli enti, i particolare: la struttura macro e micro, i ruoli e le responsabilità, i sistemi di gestione e le politiche del personale, il clima organizzativo, i valori e la cultura aziendale.

Tali interventi di riorganizzazione hanno assecondato due tendenze generali riscontrabili a livello di settore pubblico. La prima è l’abbandono progressivo della logica di controllo centralistico degli organici, e la responsabilizzazione degli enti sulla determinazione degli stessi, nei soli limiti imposti dalle compatibilità di carattere economico-finanziario. La seconda è la progressiva riduzione del numero di dipendenti, anche attraverso l’introduzione di strumenti più flessibili d’impiego per la gestione del turnover.

Dall’osservazione degli interventi di riorganizzazione degli anni ’90, emerge come la reale portata del cambiamento sia dipesa dalla qualità dell’interazione tra due categorie di fattori. Da una parte la coerenza complessiva dell’apparato normativo, nonché la sua traducibilità in buone prassi gestionali: si tratta del versante di competenza prioritaria del legislatore e quindi da considerarsi in parte una variabile esogena per i singoli enti. Dall’altra la capacità di rileggere in chiave manageriale gli

determinati output, intesi come risultati di fasi di attività (Valotti, La riforma delle autonomie locali, cit., p. 218).

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strumenti e i gli spazi consentiti dalla normativa; il presidio di questa dimensione è competenza distintiva degli enti e ne qualifica l’azione.

2.5. Le tappe essenziali di revisione del quadro normativo a supporto della riforma organizzativa degli anni ’90

Il processo di modernizzazione dei modelli organizzativi ha certamente trovato in parte impulso e in parte ratifica nell’evoluzione del quadro normativo di riferimento. Di seguito si richiamano le principali tappe di tale evoluzione.

• D.lgs. 29/1993: Razionalizzazione dell’organizzazione delle

amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego15. Sul fronte normativo, la pietra angolare del processo di riforma è

individuabile nel d.lgs. 29/1993. Il legislatore ha voluto sostanzialmente indicare due linee guida: la contrattualizzazione del rapporto di pubblico impiego e la distinzione tra responsabilità politiche e ruoli gestionali.

In merito al primo punto, la disciplina introdotta dal d.lgs. 29/1993 ha promosso una riqualificazione dei modelli organizzativi e delle politiche del personale. Attraverso l’adozione di strumenti di derivazione privatistica, si è mirato ad estendere al rapporto di pubblico impiego i principi della produttività, della managerialità e dell’efficienza aziendale. Per quanto riguarda la distinzione tra responsabilità politiche e ruoli gestionali, il d.lgs. 29/1993 ha contribuito a definire un nuovo sistema di corporate governance, affidando univocamente ai politici il compito di definire gli indirizzi strategici, dare impulso alla loro realizzazione e controllare l’efficacia sociale dell’azione pubblica; affidando ai dirigenti la responsabilità di realizzare la strategia, attraverso il presidio autonomo dell’efficacia e dell’efficienza gestionali.

La riforma introdotta dal d.lgs. 29/1993 ha preso le mosse dall’esigenza di correggere alcune criticità del sistema previdente.

15 La disciplina introdotta dal d.lgs. 29/1993 e le successive modifiche (in

particolare, d.lgs. 396/1997 e d.lgs. 80/1998) sono state trasfuse nel d.lgs. 165/2001 Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche).

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Queste erano: la fragilità degli strumenti di responsabilizzazione formale e sostanziale degli amministratori pubblici; la confusione tra responsabilità d’indirizzo strategico e ruoli gestionali; l’assorbimento della dirigenza nella gestione emergenziale delle eccezioni; l’assenza di meccanismi trasparenti di valutazione e garanzia dell’efficienza dell’azione pubblica e dei dipendenti pubblici.

Tra le innovazioni qualificanti introdotte dal d.lgs. 29/1993, si rilevano: la progressiva convergenza del rapporto di pubblico impiego verso un modello di tipo privatistico, con il conseguente assoggettamento dello stesso alle regole dettate dal codice civile e dalla legislazione speciale in campo lavoristico, l’adozione, anche in ambito pubblico, dell’istituto della contrattazione collettiva, così come prevista per il settore privato (peraltro già sperimentata secondo le regole della legge 93/1983); il conseguente passaggio della giurisdizione dal giudice amministrativo al giudice ordinario; la previsione di poche eccezioni alla privatizzazione del pubblico impiego: magistrati, militari, professori universitari, funzionari prefettizi e diplomatici, eccetera; la conservazione della giurisdizione amministrativa per quei pochi atti afferenti all’organizzazione non del singolo rapporto, ma della struttura amministrativa, che conservano ancora carattere pubblicistico.

La disciplina del d.lgs. 29/1993 ha inciso in misura rilevante sull’assetto della dirigenza, promuovendone la managerializzazione, nel quadro di una ridefinizione degli equilibri tra sfera politica e sfera gestionale. Tra i punti qualificanti vanno sottolineati: l’ampliamento degli spazi di autonomia decisionale dei dirigenti e la conseguente responsabilizzazione sui risultati; lo stretto collegamento dell’attività dirigenziale al ciclo di programmazione e controllo e l’utilizzo di strutture flessibili volte a promuovere la negoziazione nei momenti qualificanti di confronto tra politici e amministratori.

I principi ispiratori della riforma delle politiche della dirigenza introdotta dal d.lgs. 29/1993 sono sostanzialmente quattro.

Il primo è l’affermazione dell’autonomia gestionale dei dirigenti: questa è declinabile in autonomia organizzativa, finanziaria, amministrativa e tecnica.

Il secondo è la distinzione tra ruoli politici e ruoli gestionali: ai dirigenti è attribuita la titolarità dell’attività gestionale; agli organi politici il potere di indirizzo e coordinamento. In particolare, a questi ultimi è riconosciuto il potere d’individuare gli obiettivi generali ed i

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programmi, nonché la verifica della corrispondenza dei risultati ai programmi e agli indirizzi; alla dirigenza è riservata la completa gestione finanziaria, tecnica e di controllo, con la possibilità di adottare tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno.

Il terzo è l’affermazione del principio di responsabilità della dirigenza, con riferimento alla verifica dell’effettiva realizzazione dei programmi e degli obiettivi, nonché con l’instaurazione di un’efficiente rete di controlli. Infine il quarto principio è che tra dirigenza e organo di governo non sussiste una relazione di tipo gerarchico, ma una forma di sopraordinazione meno intensa, inquadrabile nel ruolo della direzione, cioè non già il potere di dare ordini puntuali, bensì quello di indicare linee programmatiche entro le quali il dirigente può muoversi autonomamente, con verifica dell’osservanza delle stesse e dei risultati finali.

• Legge 142/1990.

La svolta apportata dal d.lgs. 29/1993, pensato, nella sua versione originaria, sul contesto delle amministrazioni statali, secondo il modello organizzativo ministeriale, era stata anticipata, a livello di autonomie locali, dalla legge 142/1990. Essa ha soppiantato quasi totalmente i precedenti testi unici, fornendo agli enti locali nuove regole, strutture e procedure, e proiettandoli all’avanguardia del processo d’innovazione delle pubbliche amministrazioni italiane.

La legge n. 142 ha contribuito a ridisegnare il profilo esterno degl’istituti pubblici territoriali, con consistenti innovazioni strutturali per gli enti già esistenti (Comuni, Province, Comunità montane, Città metropolitane) e forme associative nuove (le convenzioni, i consorzi, le unioni di Comuni, le fusioni).

Sul fronte della struttura interna, spicca il riconoscimento dell’autonomia statutaria. Altre innovazioni hanno riguardato i processi deliberativi in un’ottica di semplificazione e snellimento, con riduzione drastica delle funzioni dell’organo consiliare e attribuzione di maggiori poteri agli esecutivi, cui è stata assegnata in via residuale l’attribuzione dei compiti non espressamente riservati ai consigli. Peraltro la posizione degli organi politici esecutivi è stata rafforzata dalla legge n. 81 del 25 marzo 1993, che ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle Province.

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La legge n. 142 ha innovato profondamente anche le funzioni del segretario comunale e provinciale, riconoscendogli legislativamente il ruolo di capo della struttura organizzativa dell’amministrazione locale, ricoperto di fatto da decenni, aggiuntosi alla tradizionale veste notarile dello stesso.

Per quanto riguarda il personale dipendente, gli articoli 51 e 53 hanno operato le prime riserve di competenze a favore dei cosiddetti responsabili dei servizi, cioè i funzionari, ovvero nei piccoli enti gli impiegati, cui fanno capo i servizi di maggior rilievo, tecnico e contabile, attribuendo loro, fra l’altro, il compito di esprimere pareri tecnici sulle deliberazioni giuntali e consiliari.

Quest’ultima non era ancora una vera netta separazione di funzioni tra politici e amministrativi, con attribuzione a questi di poteri autonomi, ma la distinzione interverrà dopo appena tre anni.

Nel frattempo i contratti collettivi del settore avevano istituito figure apicali paragonabili alla dirigenza statale, i cosiddetti decimi livelli, introdotti dalla contrattazione collettiva dei primi anni ’80, con compiti di coordinamento di una o più unità organizzative, ma ancora privi di effettiva autonomia e di rilievo esterno all’ente.

La legge n. 142, preso atto dell’esistenza delle nuove figure professionali, anticipa ancora una volta la disciplina per la dirigenza statale e le altre dirigenze pubbliche, attribuendo poteri autonomi e rilevanza esterna alla dirigenza locale.

L’articolo 51, in particolare, prevede che «spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettate dagli statuti e dai regolamenti che si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo spettano agli organi elettivi, mentre la gestione amministrativa è attribuita ai dirigenti»; ed ancora, che «spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l’adozione di atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, che la legge e lo statuto espressamente non riservino agli organi di governo dell’ente».

La dirigenza degli enti locali è stata istituita con la legge 142/1990: l’articolo

51 ne ha tracciato le prime linee fondamentali. Con tale legge i dirigenti sono passati dalla precedente qualifica funzionale alla nuova figura professionale, dotata di una propria sfera di autonomia decisionale, gestionale e operativa, acquistando compiutamente funzioni con rilevanza esterna, cioè la competenza diretta alla manifestazione all’esterno della volontà dell’ente. Si è costituito in tal modo un vero e proprio spartiacque tra sfera politica e sfera gestionale,

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riconoscendo due distinti apparati: quello politico e quello tecnico-gestionale, entrambi garantiti dalla non interferenza nella reciproca attività, ancorché legati da un rapporto di negoziazione.

Tappa fondamentale dell’evoluzione della disciplina sulla dirigenza è rappresentata dal d.lgs. 29/1993, che ha introdotto:

Il nuovo sistema di corporate governance negli enti locali Il d.lgs. 29/1993 ha meglio definito gli equilibri tra sfera politica e sfera

dirigenziale, fondati su mutua autonomia e non interferenza reciproca; distinzione dei ruoli e univoca ripartizione delle responsabilità; centralità del processo di negoziazione nei momenti qualificanti del ciclo di programmazione.

L’architettura del nuovo sistema di corporate governance introdotto dal d.lgs. 29/1993 si fonda su una più chiara declinazione dell’unitaria funzione di governo dell’azienda pubblica in: dimensione istituzionale, di competenza politica; dimensione direzionale, attribuita dalla normativa ai soli dirigenti, ma auspicabilmente da interpretarsi quale funzione diffusa di governo aziendale.

Il nuovo sistema attribuisce ai politici: la definizione degli indirizzi (definizione della strategia); la definizione degli obiettivi e dei programmi da attuare (impulso all’attuazione della strategia); la verifica della rispondenza dei risultati della gestione agli indirizzi dati (controllo dell’efficacia sociale)

Attribuisce ai dirigenti: la responsabilità esclusiva dell’attività amministrativa; il presidio autonomo della sfera gestionale (l’autonomia gestionale dei dirigenti si declina in autonomia finanziaria, tecnica, amministrativa e organizzativa); la responsabilità del raggiungimento dei risultati (efficacia gestionale); l’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse assegnate (efficienza gestionale).

La qualifica unica funzionale ed il sistema degli incarichi. Il d.lgs. 29/1993 ha flessibilizzato il sistema di inquadramento e carriera dei

dirigenti, introducendo la qualifica unica funzionale, una maggiore articolazione delle posizioni economiche, il meccanismo degli incarichi.

Prima del d.lgs. 29/1993 esistevano due livelli dirigenziali; l’accesso per concorso al primo livello e passaggio per concorso dal primo al secondo; il concorso consentiva l’accesso ad una specifica posizione. Esistevano inoltre ruoli “a vita”, percorsi di carriera bloccati e appiattimento retributivo.

Dopo il d.lgs. 29/1993 si ha invece: la qualifica unica dirigenziale; accesso non alla singola posizione, ma allo status di dirigente; la destinazione dei singoli dirigenti alle differenti posizioni avviene per incarico; i dirigenti divengono una competenza a disposizione dell’azienda, svincolata da una posizione specifica; ad inizio mandato, i singoli dirigenti ricevono dal Sindaco/Presidente l’incarico a ricoprire una specifica posizione; tale incarico è revocabile alla fine di ciascun anno e spira comunque al termine del mandato; gli incarichi sono conferiti in base a alla natura e alle caratteristiche dei programmi; alle attitudini e capacità professionali; ai risultati conseguiti.

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Esiste infine una pluralità di posizioni economiche; la rotazione dei dirigenti; la fiduciarietà del rapporto; la responsabilizzazione dei dirigenti sui risultati; la maggiore articolazione e flessibilità dei percorsi di carriera.

Il sistema di responsabilizzazione della dirigenza L’attribuzione dell’incarico d’inizio mandato è contestuale all’assegnazione

di risorse ed obiettivi, che vengono declinati in obiettivi annuali. La valutazione del grado di raggiungimento di questi ultimi produce tre possibili effetti: l’attribuzione della retribuzione di risultato; la revoca dell’incarico e la risoluzione del rapporto di lavoro.

La responsabilizzazione è focalizzata su due dimensioni: il conseguimento dei risultati e la condotta generale e modalità d’esercizio del ruolo.

La verifica di tali condizioni è demandata al sistema di valutazione, collegato al sistema di programmazione e controllo.

Il sistema retributivo La riforma ha prodotto una moltiplicazione delle posizioni economiche ed

un più stretto collegamento della retribuzione alla tipologia ed alla qualità delle attività svolte.

Il d.lgs. 29/1993 ha previsto la seguente tripartizione: la retribuzione di base: quota fissa, uguale per tutti i dirigenti, svincolata dalla posizione e dai risultati; la retribuzione di posizione: quota semivariabile, connessa alla complessità e responsabilità della posizione, che viene meno con la revoca dell’incarico; la retribuzione di risultato: quota variabile in proporzione al grado di raggiungimento degli obiettivi assegnati.

I nuovi criteri di accesso ed uscita La riforma introdotta dal d.lgs. 29/1993, come successivamente modificato

ed integrato, va nella direzione di una progressiva contrattualizzazione e di un’evoluzione di natura fiduciaria del rapporto di pubblico impiego.

L’introduzione di istituti di matrice privatistica ha prodotto significative novità nei criteri di accesso ed uscita dei dirigenti, creando un “duplice binario”:

a) rapporti a tempo indeterminato: livelli retributivi definiti in sede di contrattazione collettiva (nazionale e decentrata); accesso per concorso pubblico, riservato a dipendenti pubblici con diploma di laurea ed un’esperienza di almeno 5 anni in posizioni per le quali sia richiesta la laurea; laureati con specializzazione, dottorato o titolo postuniversitario; dirigenti privati laureati con 5 anni di esperienza come dirigenti.

b) rapporti a tempo determinato: maggiori spazi di negoziazione ad personam dei livelli retributivi; selezione pubblica secondo modalità assimilabili a quelle tradizionali, anche se più destrutturate e caratterizzate da maggiore discrezionalità; chiamata diretta del direttore generale, figura di vertice della macchina amministrativa, legata al sindaco/presidente da un rapporto fiduciario.

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L’evoluzione privatistica del ruolo dirigenziale ha determinato la nascita di un “mercato della dirigenza”. La riforma ha indotto una crescente permeabilità tra mercato del lavoro pubblico e privato e la mobilità interente dei dirigenti.

Nel quadro di un generale processo di omogeneizzazione rispetto alla disciplina privatistica del rapporto di lavoro, il d.lgs. 29/1993 ha previsto infine nuovi meccanismi d’uscita: la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro; il licenziamento o messa a disposizione del rapporto di lavoro; la mobilità ad altro ente.

L’articolo 107 del nuovo Testo unico degli enti locali, approvato con d.lgs. 267/2000 completa questo processo; mentre il successivo articolo 109 sancisce il generale principio del conferimento degli incarichi dirigenziali a tempo determinato, con provvedimento motivato e con le modalità fissate dal regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza professionale, in relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o del presidente della Provincia.

La revoca avviene nel caso d’inosservanza delle direttive del sindaco, del presidente della Provincia, della giunta o dell’assessore di riferimento; ovvero di mancato raggiungimento al termine di ciascun anno finanziario degli obiettivi assegnati nel piano esecutivo di gestione; o per responsabilità particolarmente gravi e reiterate; nonché negli altri casi disciplinati dal contratto di lavoro.

Il comma 3 dell’articolo 107 del Testo unico enti locali contiene un’elencazione esemplificativa e non tassativa i seguenti compiti specifici di pertinenza dirigenziale: la presidenza delle commissioni di gara e di concorso; la responsabilità delle relative procedure; la stipulazione dei contratti; gli atti di gestione finanziaria, compresa l’assunzione di impegni di spesa; gli atti di amministrazione e gestione del personale; i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi; altri ancora.

La revisione della normativa generale sul pubblico impiego si è

innestata sul parallelo processo di riforma delle autonomie locali, all’interno di un più ampio quadro di riforma dell’architettura istituzionale e dei rapporti tra i livelli di governo.

• Legge 127/1997, Bassanini bis

Ulteriore tappa del processo di riforma è rappresentata dalla legge n. 127 del 15 maggio 1997, cosiddetta Bassanini bis, che ha declinato i principi della distinzione fra indirizzo politico e gestione amministrativa fino al livello dei Comuni più piccoli, privi di personale dirigenziale. In questi ultimi le funzioni decisionali riservate alla dirigenza sono state attribuite ai responsabili dei servizi, ancorché privi di qualifica dirigenziale.

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Tra le altre innovazioni introdotte dalla legge 127/1997: l’attribuzione agli enti locali di maggiori poteri in materia di potestà organizzativa e di gestione del personale; un’ulteriore riduzione dell’ambito di competenza dei consigli comunali e provinciali, il cui ruolo si circoscrive con maggiore chiarezza alle funzioni d’indirizzo e di controllo politico, spogliato di ogni ingerenza nella gestione burocratica dell’ente; l’attribuzione di maggiori poteri al sindaco rispetto alla giunta, fra cui il nuovo potere di scelta discrezionale del segretario dell’ente; la piena attuazione del principio di separazione fra politica ed amministrazione, che si realizza pienamente al momento solo negli enti locali, nei quali gli organi politici stabiliscono gli obiettivi da raggiungere ed individuano e stanziano le risorse necessarie, assegnando gli uni e le altre ai singoli dirigenti ratione materiae; la riforma della dirigenza degli enti locali, che viene resa maggiormente autonoma rispetto agli organi politici; ma, nel contempo, subisce una riduzione di garanzie ed un incremento di responsabilità manageriali. I dirigenti sono chiamati ad operare in piena autonomia gestionale e di spesa, salvi i controlli di gestione durante l’esercizio amministrativo annuale e l’obbligo di raggiungimento degli obiettivi già assegnati alla fine dello stesso. Molte competenze operative, prima attribuite al sindaco o alla giunta, spettano ora ai dirigenti, ad esempio il rilascio delle concessioni edilizie, la stipula dei contratti, eccetera; la ridefinizione della figura del direttore generale, del quale possono dotarsi i Comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, salva la possibilità di nominare direttore generale il segretario dell’ente; la riforma della disciplina relativa ai segretari comunali e provinciali, i quali sono scelti ora dai sindaci e dai presidenti delle Province in un albo nazionale, amministrato dall’agenzia autonoma di gestione. La legge 127/1997 modifica anche profondamente le competenze e il ruolo del segretario; la drastica riduzione dei controlli amministrativi regionali sugli enti locali; il bilancio, già profondamente rinnovato con l’introduzione della contabilità economica dal d.lgs. 77 del 25 febbraio 1995, è ulteriormente adeguato alle mutate necessità, con la previsione di un piano esecutivo di gestione (piano risorse-obiettivi nei piccoli comuni), di competenza della giunta, che dispone ogni anno l’attribuzione delle risorse, non soltanto finanziarie ma anche strumentali e umane, ai responsabili di servizio. Si realizza così pienamente il modello di distinzione dei compiti fra politica e amministrazione, con una giunta che determina gli obiettivi dell’azione amministrativa e

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assegna le risorse ai dirigenti e funzionari i quali, poi, perseguono i risultati attesi in piena autonomia.

• d.lgs. 286/1999

Con il venir meno dei controlli esterni che ritardavano l’azione amministrativa, è stata data maggiore importanza e valorizzazione ai controlli interni, ora disciplinati dal d.lgs. n. 286 del 30 luglio 1999.

Quest’ultimo prevede quattro tipi di controllo interno. Il primo è il controllo di regolarità amministrativa e contabile.

Trattasi di controllo successivo da operare secondo le regole della legittimità e conformità agli strumenti di programmazione amministrativa e contabile.

Il secondo è il controllo di gestione. È diretto a verificare l’efficienza, l’efficacia e l’economicità dell’azione amministrativa al fine di ottimizzare il rapporto tra costi e risultati.

Il terzo è il controllo strategico. Mentre il controllo di gestione è parcellizzato sulla singola unità organizzativa, ed opera quindi una valutazione settoriale, quello strategico ha come parametro di riferimento l’amministrazione nella sua interezza. Inoltre mentre nel controllo di gestione assume rilievo centrale il profilo dell’economicità, in quello strategico assume rilievo il raggiungimento degli obiettivi individuati in sede politica e, quindi, il profilo dell’efficacia dell’azione amministrativa.

Il quarto è la valutazione dei dirigenti. È un controllo ad personam, diretto ad esaminare l’operato del singolo e a valutare la sua responsabilità o il suo merito per il raggiungimento degli obiettivi e la realizzazione dei programmi.

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3. L’adeguamento dei modelli organizzativi: azioni su struttura, regole, procedure e processi, ruoli, relazioni interorganizzative

All’interno di questo capitolo si svolge una sintetica disamina dei

principali piani di adeguamento dei modelli organizzativi degli enti territoriali, anche richiamando significative esperienze applicative tratte dalla banca dati dei Buoni esempi del Formez16, in grado di far toccare con mano un cambiamento reale in atto.

Non si ha la pretesa di un’analisi sistematica, ma semplicemente s’intende mettere sul tavolo un insieme di spunti che troveranno più organica sistematizzazione, in chiave prospettica, nell’ambito delle Indicazioni finali della presente ricerca.

3.1. Gli interventi generali sugli assetti organizzativi e l’adeguamento dei sistemi di gestione

A partire dai primi anni ’90 in Italia ha preso avvio un processo di graduale e progressivo rinnovamento della pubblica amministrazione, sia a livello centrale sia periferico, avente lo scopo di modernizzare e mettere gli enti nelle condizioni di rispondere alle sempre più numerose e pressanti istanze dei cittadini e dell’opinione pubblica in generale.

Soprattutto gli enti locali hanno svolto funzione di pionieri: la maggiore agilità operativa e la vicinanza ai reali fabbisogni della comunità rappresentata hanno consentito lo sviluppo di veri e propri laboratori di esperienze e fornito un decisivo impulso al processo di rinnovamento innescato dalle riforme legislative, non ultima la modifica del titolo V della Costituzione.

16 <http:// www.buoniesempi.it> 20/04/2004.

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Principi di legge, indirizzi consiliari e regolamenti sull’ordinamento degli uffici e dei servizi hanno segnato le principali tappe del processo di riorganizzazione, agendo sulle componenti organizzative fondamentali rappresentate dalla struttura, l’organigramma, dai prodotti, il funzionigramma, e dalle risorse umane, la dotazione organica, degli enti.

Si è passati da un modello di organizzazione17 burocratico funzionale, con una struttura fortemente gerarchizzata, articolata per competenze tecnico-specialistiche, a strutture lineari o a matrice; in tempi più recenti sono emersi il modello dell’organizzazione decentrata per unità semiautonome e della direzione per obiettivi18, che ben si attaglia ai diversi livelli di complessità, operativa e strategica, che le amministrazioni si trovano quotidianamente a dover fronteggiare, e il modello a rete, in cui l’ente è una vera e propria holding che gestisce i servizi per mezzo di una rete di aziende esterne partecipate o controllate, in grado di essere più efficaci ed efficienti o, alternativamente, persegue una politica di sviluppo fondata su accordi variamente configurati con altre amministrazioni, imprese private e aziende no profit19.

All’atto pratico tutti gli enti che sono stati al passo coi tempi hanno affrontato una ridefinizione della struttura attraverso una semplificazione dell’organigramma, ridisegnato secondo la linea strategica prevista nel programma di mandato, per consentire un elevato grado di flessibilità delle scelte d’innovazione, che devono permettere all’ente di adattarsi in brevissimo tempo, e nella maniera più efficiente, ai mutamenti del contesto territoriale, culturale, sociale ed economico di riferimento. Altro aspetto emerso con forza nelle esperienze di modernizzazione è la crescente apertura delle organizzazioni al dialogo con le principali categorie di portatori di interessi. Negli anni più recenti, in effetti, si è assistito a una sempre maggiore adozione di strumenti che consentono la partecipazione degli stakeholder ai processi di gestione della pubblica

17 Si veda anche N. Falcone, P. Monea, M. Mordenti, Le risorse umane negli Enti

locali, Maggioli, Rimini, 2002. 18 Per una trattazione più diffusa dell’argomento si veda G. Rebora, Un decennio di

riforme, Guerini e Associati, Milano, 1999. 19 L’amministrazione comunale di Campobello di Licata ha voluto ripensare il

proprio modello organizzativo interno, sollecitata dalle molteplici spinte provenienti dai mutevoli bisogni ed esigenze tipici della crescente complessità sociale. Per approfondimenti, si rimanda alla banca dati Buoni esempi del Formez, cit.

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amministrazione, e si sono avuti interessanti esempi di predisposizione di bilanci partecipati e bilanci sociali.

Un caso di scuola è il “Bilancio sociale” della Provincia di Parma. La Direzione generale nel corso del 2001 propose e promosse l’idea di

applicare la tematica della Corporate Social Responsibility (CSR) in ambito pubblico attraverso la realizzazione di una rendicontazione sociale di tutta l’attività dell’ente – esistevano fino ad allora solo esperienze di bilancio sociale settoriale – che fosse in grado di comunicare secondo criteri di chiarezza e trasparenza i risultati dell’azione provinciale sul territorio di riferimento. La Provincia, quale ente di programmazione e coordinamento, sentiva infatti in modo forte l’esigenza di comunicare ai cittadini la propria azione, non sempre riscontrabile in maniera chiara e tangibile. Il bilancio sociale diveniva esternamente una sorta di strumento di valutazione da fornire alla collettività per la verifica di coerenza tra gli obiettivi dichiarati e i risultati raggiunti ed una nuova e validissima forma di comunicazione agli stakeholder. Internamente un tale strumento si poneva come un formidabile trait d’union fra il bilancio consuntivo dal quale ricavava il fondamento oggettivo e scientifico dei dati e il bilancio preventivo al quale si anteponeva quale eventuale fonte di elementi informativi per predisporre cambiamenti in corso e miglioramenti nella programmazione annuale. La possibilità d’implementare un tale processo all’interno dell’ente traeva origine dal livello di maturità dell’organizzazione, che presentava un sistema economico finanziario patrimoniale ed informatico completo, integrato e trasparente. I vertici politici condivisero il progetto, ritenendolo un valido strumento di controllo strategico dei risultati. Il bilancio sociale divenne un obiettivo condiviso dai vertici amministrativi e dal gruppo dirigenziale, per il raggiungimento del quale si costituirono due gruppi di lavoro dedicati: uno direzionale a composizione politico-dirigenziale, l’altro operativo. La Provincia di Parma realizzò il suo primo bilancio sociale relativo all’anno di esercizio 2001 nel corso del 2002, e presentò il progetto nell’ambito di un convegno pubblico nel giugno del 2002. Dalla redazione zero all’edizione, relativa all’anno 2002. il processo bilancio sociale si è arricchito ed evoluto in termini di contenuti, impostazione e metodologia. La rendicontazione economica finanziaria è attualmente infatti impostata secondo classificazione d’area d’intervento, secondo portatori d’interesse e logica geografica (individuazione di quattro aree territoriali). Le informazioni sono arricchite da indicatori d’impatto sociale per una misurazione più efficace dell’effetto delle politiche sul territorio. Le risorse umane dell’ente, coinvolte nel progetto e nella raccolta dei dati e delle informazioni, risultano in aumento (17% nel bilancio sociale 2002) e gran parte dei dipendenti hanno partecipato ad un corso di formazione sul tema (43% delle risorse totali). Anche l’aspetto comunicativo del processo è stato trattato nella seconda edizione in modo più completo e pianificato, attraverso la produzione di diversi prodotti comunicativi destinati ai diversi target di riferimento: cittadini, stakeholder diretti, esperti del settore. Risulta chiaro che il progetto “Bilancio sociale” è un processo dinamico

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destinato ad un’evoluzione continua e costante, in linea con il mutamento degli scenari istituzionali, economici e sociali. In questa prima fase del 2004 l’amministrazione sta avviando il progetto di “Bilancio sociale di mandato”: un bilancio sociale non più in forma annuale, ma relativo al periodo di mandato. La nuova dimensione temporale implicherà una nuova impostazione del progetto ed uno sforzo maggiore di incisività nelle azioni di comunicazione20.

Diventa indispensabile, in questo contesto, che gli enti siano anche in

grado di comunicare agli stakeholder le proprie iniziative e i propri interventi21; tanto più i Comuni, che per la complessità della struttura organizzativa e la multiformità dei servizi e delle competenze, hanno la necessità ed il dovere di affrontare la questione della propria capacità di comunicare e relazionarsi con i cittadini. Il presupposto che una corretta comunicazione ed un efficace sistema relazionale siano alla base della qualità dei servizi erogati costituisce infatti un elemento fondamentale per la creazione della percezione positiva dei cittadini relativamente alla propria amministrazione locale.

Sono certamente interventi di carattere strutturale, ma devono fornire agli amministratori e ai dirigenti gli strumenti normativi per scegliere e definire, di volta in volta, il modello organizzativo più coerente con i programmi e i progetti ritenuti strategici per l’ente.

Dal punto di vista del coordinamento interno degli enti, sono stati rivisti il disegno di regole e procedure, la definizione degli obiettivi e dei meccanismi di misurazione, i sistemi di formazione, di impiego e di incentivazione del personale, la ridefinizione dei flussi informativi. In particolare le funzioni di staff22 (programmazione e controllo, ragioneria,

20 Fonte SDA Bocconi – Network Province a Confronto 2003-2004. 21 Significativa, al riguardo, l’esperienza del Comune di Cremona, che, con il

progetto “La comunicazione strategica di un Comune”, ha tentato di sostituire l’idea essenzialmente burocratica della struttura comunale, che svolge un ruolo principalmente autorizzativo, con un concetto di amministrazione che ascolta i propri cittadini e che svolge un ruolo di programmazione dello sviluppo della città. Per approfondimenti, si rimanda alla banca dati Buoni esempi del Formez, cit.

22 Il Comune di Ravenna ha avviato il progetto “Creazione di un sistema di controllo di gestione decentrato, attraverso la costituzione degli uffici di budget di area”, che prevede l’introduzione, attraverso istituzione di uffici di budget di area, di un controllo di gestione sistemico e decentrato. Lo scopo è quello di offrire ai dirigenti e agli amministratori strumenti a supporto del loro operato e migliorare i servizi ai cittadini. Per approfondimenti, si rimanda alla banca dati Buoni esempi del Formez, cit.

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personale, sistemi informativi) si vengono a configurare come strumenti di supporto alle decisioni e di orientamento dei comportamenti individuali all’interno di un processo di progressiva delega e di responsabilizzazione a tutti i livelli (project management, knowledge management e adozione delle nuove tecnologie).

L’azione sulle strutture può contribuire solo in parte all’evoluzione e crescita degli enti. Essa rappresenta la componente statica dell’organizzazione: chiarisce i criteri di suddivisione delle competenze e le principali relazioni tra organi, ma è di poca utilità nel presidiare gli aspetti dinamici del funzionamento. Occorre, a sostegno delle strutture, una revisione dei sistemi operativi, con riferimento a quelli di pianificazione, programmazione e controllo del personale. Il controllo di gestione e/o delle partecipate è un prerequisito essenziale per ogni successiva azione di miglioramento, che richiede l’impiego di nuovi e più complessi criteri organizzativi e gestionali, che devono essere introdotti tentando di realizzare una crescita armoniosa, coerente e compatibile con lo specifico contesto aziendale. Fanno inoltre parte delle scelte operative di riorganizzazione la definizione del contenuto e delle modalità tecniche di relazione con altre aziende, oltre che l’eventuale attivazione di organismi ad hoc di presidio delle stesse e l’introduzione di opportuni software gestionali.

Particolarmente interessanti, al riguardo, sono le esperienze avviate dalla Provincia regionale di Trapani e dal Comune di Forlì-Cesena23.

La Provincia regionale di Trapani, con il progetto “Comunicazione informatica agli utenti”, ha mirato alla realizzazione di un sistema informativo integrato, finalizzato al miglioramento dell’efficienza degli uffici, back office, e della comunicazione con cittadini ed imprese, front office. L’adozione delle tecnologie informatiche e telematiche nella gestione amministrativa dell’ente ha generato un incremento dell’efficienza, con aumento dell’efficacia dell’azione amministrativa, mentre il monitoraggio continuo delle varie attività ha consentito l’utilizzo di strumenti di verifica dei risultati, in modo da razionalizzare la distribuzione delle risorse a livello centrale e l’assegnazione dei compiti a livello dei singoli settori/uffici.

Con il progetto “Comune in mano: un personal computer palmare a chi lavora in strada”, il Comune di Forlì-Cesena ha adottato uno

23 Per approfondimenti, si rimanda alla banca dati Buoni esempi del Formez, cit.

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strumento di consultazione ed invio di informazioni al personale che svolge la propria attività sul territorio, portando sul personal computer palmare tutti i dati relativi alla cartografia numerica del territorio del Comune di Forlì e di quello delle due Comunità montane forlivesi. Si è favorita la comunicazione e l’interdisciplinarietà fra i soggetti coinvolti, anche di più enti dello Stato. Si aggiornano in tempo reale le basi informative, che richiedono interventi di manutenzione straordinaria, anche urgente, e si velocizzano le comunicazioni fra gli operatori localizzati sul territorio (satelliti) e le rispettive sedi.

Il cambiamento auspicato non poteva prescindere da un altrettanto grande cambiamento del modo in cui i soggetti pubblici erano abituati ad operare al proprio interno: a partire dal 1993, fino ai Ccnl più recenti, si è assistito a un epocale processo di privatizzazione del rapporto di lavoro, che si è innestato sui rami della riforma dell’ordinamento giuridico pubblico, a partire dalla separazione delle competenze e delle responsabilità tra organi politici e organi di gestione degli enti, fino al riconoscimento della piena autonomia in materia di organizzazione. Non si è trattato di un percorso agevole e in discesa: occorreva scardinare una cultura da sempre basata sul rispetto della legittimità formale degli atti, e affrontare la naturale resistenza delle strutture e delle persone, politici e operatori, all’introduzione di strumenti innovativi, potenzialmente destabilizzanti di uno status quo guadagnato nel corso degli anni. Accanto a scelte di mutamento strutturale era quindi d’obbligo agire sulla microstruttura e perciò effettuare anche nuove politiche di gestione del personale e configurare un’altrettanto dinamica e flessibile gestione di ruoli e competenze.

Da un’accurata indagine tra i Comuni di medie dimensioni, recentemente condotta nell’ambito del network Città medie a confronto24, promosso da SDA Bocconi, ciò che emerge è una riduzione delle unità di vertice dell’organizzazione (dirigenti di area e/o di settore), la tendenza a ridurre al minimo le unità destinate a compiti operativi (personale di categoria A, B, C), un’intensa focalizzazione sullo

24 Si tratta di un percorso formativo integrato, animato nell’edizione 2003 da 12

Comuni di medie dimensioni (Ancona, Asti, Cesena, Gorizia, Lucca, Monza, Pesaro, Piacenza, Pordenone, Rivoli, Trieste e Verona), avente l’obiettivo di confrontarsi sullo stato di sviluppo dei processi di cambiamento, attraverso il confronto tra i partecipanti al network e lo scambio di esperienze.

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sviluppo delle figure intermedie, conseguenza inevitabile dell’accorpamento delle funzioni di vertice in un numero ristretto di responsabili.

Si è assistito, progressivamente, a un marcato orientamento in favore dell’autonomia degli organi dirigenziali nelle scelte organizzative, e del maggior potere dell’esecutivo rispetto all’assemblea elettiva. Il rapporto tra dirigenza ed esecutivo è l’ambito oggetto di più profondo rinnovamento: i dirigenti hanno piena responsabilità di gestione, le risorse professionali diventano più mobili e prende forma una sorta di mercato del lavoro degli enti locali, almeno per le figure più qualificate.

Un ruolo di rilevanza crescente assumono strumenti di integrazione quali il Comitato di direzione e la Conferenza dei dirigenti: il primo è un organo collegiale di consultazione, analisi, elaborazione e concertazione delle decisioni della dirigenza, composto dal direttore generale, dal segretario generale e dai dirigenti di area/settore, ed è anche uno dei principali strumenti a disposizione del direttore generale per svolgere le sue funzioni di coordinamento e di cinghia di trasmissione degli impulsi politici; la seconda, composta da tutti i dirigenti dell’ente, ha il compito di formulare proposte e pareri agli organi di governo in relazione al ruolo ed alla funzione dirigenziale.

In questo nuovo assetto ciascuna amministrazione può non solo costruire ad hoc un proprio modello organizzativo, ma anche realizzarlo, grazie all’autonomia statutaria e regolamentare, attraverso una selezione delle risorse professionali necessarie che possono provenire sia dal mercato interno degli enti locali, sia dal mondo delle professioni, sia dal più largo mercato del lavoro nazionale.

Si favoriscono, con adeguati incentivi individuali e di gruppo, il team working, la nascita di task force per il perseguimento di particolari obiettivi, e la formazione continua dei dipendenti che solo così potranno facilmente adattarsi a un ambiente di lavoro eccezionalmente mutevole e dinamico.

La formazione, rispondente a standard elevati di qualità, assume infatti un connotato strategico, per garantire la realizzazione degli obiettivi selezionati e programmati, e diventa metodo permanente di

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adeguamento delle nuove competenze professionali alla nuova cultura gestionale degli enti25.

A parte i Comuni più piccoli, con un assetto ancora relativamente semplice, per adeguarsi alle nuove necessità normative e di contesto gli enti di maggiori dimensioni dovranno adattare il proprio assetto organizzativo a un modello che consenta maggiore efficienza di gestione e migliori risposte ai bisogni della collettività.

Le Regioni si distinguono per la presenza di una spiccata componente legislativa, per la natura strutturale degli interventi – che hanno effetti esterni di ampia diffusione, mediati dagli enti locali del territorio prima della diretta ricaduta sugli utenti finali –, per la parte corrente del bilancio costituita per lo più da trasferimenti, per la necessità di figure professionali altamente qualificate perché destinate a definire politiche piuttosto che a compiti esecutivi26.

I Comuni hanno una competenza di amministrazione generale, responsabilità su un’amplissima gamma di interventi, prestazioni e servizi, per di più direttamente fruibili dagli utenti, fabbisogni di risorse professionali estremamente differenziate e specializzate.

25 Di particolare rilievo è, al riguardo, il progetto “FO.C.U.S. (Piano di formazione,

continua, ultronea e strategica)”. Si tratta del documento prospettico di formazione per il personale dipendente della Provincia di Varese e di Comuni limitrofi, rinnovato ogni tre anni ed articolato in obiettivi annuali. Un’interessante novità è rappresentata dalla formazione spontanea, che permette ai dipendenti di segnalare e di usufruire di iniziative formative di proprio interesse, previa verifica della congruità del corso rispetto al ruolo ricoperto e alle mansioni svolte dallo stesso all’interno dell’amministrazione, mediante una formula di compartecipazione alle spese tra l’ente e l’interessato. Per approfondimenti, si rimanda alla banca dati Buoni esempi del Formez, cit.

26 La Regione Emilia Romagna ha promosso il programma “Agenda per la modernizzazione”, allo scopo d’innovare concretamente la macchina organizzativa ed amministrativa regionale e il suo modus operandi, adeguandolo al nuovo ruolo politico istituzionale dell’ente e alle mutate esigenze della società. Il progetto si sviluppa secondo tre direttrici principali: la costituzione e l’attivazione di laboratori per l’innovazione; la costituzione di punti di ascolto e la realizzazione di forum per il cambiamento. I laboratori hanno due funzioni principali: studiare innovazioni fattibili di impatto e sperimentarle in applicazioni pilota, costruendo i mattoni della nuova Regione. Sono gruppi di lavoro, spesso intersettoriali, che operano con logica di progetto in un arco di tempo definito. Per approfondimenti, si rimanda alla banca dati Buoni esempi del Formez, cit.

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Le Province sono per tradizione l’ente di livello intermedio: a seguito del processo di decentramento e della recente riforma costituzionale, tuttavia, già cominciano a svolgere nuove funzioni sia di carattere programmatico, sia di amministrazione e gestione di servizi di area vasta e, soprattutto, ad assumere il ruolo di mediatore tra le Regioni e gli interessi e le esigenze dei comuni del territorio27.

3.2. L’adeguamento dei regolamenti di organizzazione

La legge 142/1990, con l’attribuzione del potere di darsi norme proprie, aveva di fatto contribuito a trasformare gli enti locali da enti fortemente vincolati in enti autonomi. La riforma del titolo V della Costituzione ha completato, integrato e ampliato il percorso.

Unico limite consistente alla potestà regionale e statale è la potestà regolamentare degli enti locali ai quali è riconosciuta, a norma della disposizione generale dell’articolo 114 della Costituzione, pari dignità costituzionale rispetto alle Regioni.

27 Due progetti significativi sono stati realizzati dalle Province di Macerata e di

Piacenza. Il “SINP (Sistema informativo della Provincia di Macerata)” vuole essere una

risposta efficace alle sempre più pressanti esigenze delle imprese e dei cittadini di disporre in tempo reale delle informazioni e di poter usufruire di servizi indispensabili senza doversi spostare. Attraverso un’articolata fase di progettazione organizzativa ed infrastrutturale si è pervenuti alla realizzazione di una rete telematica che vede connessi numerosi enti locali, scuole, istituzioni ed associazioni al fine di erogare servizi ed informazioni in formato telematico.

Il progetto “Sviluppo qualità del sistema pubblico locale”, intrapreso dalla Provincia di Piacenza in collaborazione con tutti i Comuni del territorio provinciale, prevede la creazione di un nuovo modello di piano di azione locale, basato sull’efficienza e semplificazione amministrativa e sul collegamento telematico tra gli enti. In tal senso il progetto, attraverso la realizzazione di numerose iniziative quali la progettazione degli Urp comunali e dei Suap e la creazione di una spa pubblica/privata per la realizzazione dei supporti tecnologici, ha comportato l’introduzione di un nuovo metodo di collaborazione tra le amministrazioni locali, il tessuto economico e la Provincia. Per approfondimenti, si rimanda alla banca dati Buoni esempi del Formez, cit.

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Se l’articolo 114 garantisce l’autonomia statutaria28, l’articolo 117, 6° comma, assicura infatti agli enti locali l’autonoma potestà normativa delimitata solo dai principi direttamente fissati dalla Costituzione: Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni dovranno disciplinare con propri regolamenti la loro organizzazione e l’esercizio delle funzioni loro attribuite.

Novità dirompente se si pensa che nelle città di grandi dimensioni i regolamenti sono numerosi, da 30 a 50, e riguardano quasi tutti gli ambiti di attività: organizzazione degli uffici e dei servizi, ma anche urbanistica, istruzione, servizi pubblici.

Va quindi sottolineato che i regolamenti sono l’emblema della nuova potestà normativa attribuita all’amministrazione, secondaria soltanto alla potestà legislativa e statutaria, e disciplinano in astratto alcuni tipi di rapporti giuridici attuando o integrando la volontà legislativa, pur innovando nell’ordinamento vigente, con disposizioni generali e astratte che, di conseguenza, ne consentono l’applicazione ad un’ampia gamma di casi concreti29.

Col passaggio da una cultura organizzativa squisitamente burocratica a una basata sui risultati e sulla responsabilità dei soggetti sui risultati medesimi è necessaria una riscrittura del quadro delle regole, che non devono essere dettagliate tanto da rendere statica l’organizzazione, né così vaghe da prospettare un’eccessiva flessibilità che, alla lunga, potrebbe rivelarsi destabilizzante per gli enti. I regolamenti in generale, e quelli di organizzazione in particolare, devono garantire all’organizzazione i necessari requisiti di adattabilità, cioè delineare i principi ispiratori del modello organizzativo, favorire una chiara

28 «I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi

con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione» (articolo 114, comma 2, Costituzione). Solo per completezza si riporta inoltre l’articolo 6, comma 2, Testo unico enti locali: «Lo Statuto, nell’ambito dei principi fissati dal presente Testo unico, stabilisce le norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente e, in particolare, specifica le attribuzioni degli organi e le forme di garanzia e partecipazione delle minoranze, i modi di esercizio della rappresentanza legale dell’ente, anche in giudizio. Lo Statuto stabilisce, altresì, i criteri generali in materia di organizzazione dell’ente, le forma di collaborazione fra comuni e province, della partecipazione popolare, del decentramento, dell’accesso dei cittadini alle informazioni e ai procedimenti amministrativi (…)».

29 Guida normativa, ed. Cel, Gorle, 2004, p. 20.

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distinzione di ruoli e responsabilità a partire dai risultati che si vogliono raggiungere e non già dalle competenze delineate per un certo profilo, assicurare un impiego flessibile delle risorse e razionale delle tecnologie, lasciare spazio a quei poteri organizzativi che il datore di lavoro pubblico ormai esercita come il privato imprenditore.

Il Regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, disciplinato dall’articolo 89 Testo unico enti locali, unico “atto normativo locale” di competenza della giunta, deve essere ispirato ai criteri di autonomia, funzionalità, economicità di gestione e ai principi di professionalità e responsabilità. Il Testo unico enti lcocali conferisce le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro ai «soggetti preposti alla gestione». È come dire che a dirigenti, funzionari apicali responsabili di uffici e servizi negli enti privi di dirigenza, incaricati di posizione organizzativa di particolare complessità spettano gli atti di microorganizzazione, per esempio di amministrazione e gestione del personale, mentre all’organo politico spettano gli atti di macroorganizzazione come la definizione degli incarichi dirigenziali. Il regolamento di organizzazione dovrebbe allora attribuire importanza centrale al contenuto e alle modalità di esercizio della funzione direzionale, che rappresenta il volano del nuovo sistema di governo degli enti e del modello organizzativo costruito per consentire un’efficace ed efficiente attuazione delle politiche.

Oltre alle finalità dettate dalla norma, un numero sempre maggiore di enti conforma il proprio regolamento all’integrazione delle esigenze di tutti gli attori coinvolti nell’attività dell’ente e a tutti gli stimoli derivanti dal contesto.

Il regolamento Ordinamento generale degli uffici e dei servizi della

Provincia di Parma, per esempio, disciplina e persegue, tra le altre, le seguenti finalità: realizzare un sistema funzionale di relazioni tra i diversi organi dell’ente favorendo il lavoro per gruppi di progetto focalizzati al perseguimento di specifici risultati, ed unificando sugli obiettivi prefissati competenze e risorse; assicurare snellezza e flessibilità dell’organizzazione per accrescere la capacità di innovazione e di adattamento ai bisogni del territorio; garantire, anche attraverso il pieno utilizzo dei sistemi informatici, l’attivazione di flussi di comunicazione sia interni all’ente, funzionali alla semplificazione dei procedimenti, che nei confronti dell’utenza, per assicurare l’effettivo diritto di accesso, nell’ambito di un corretto equilibrio fra gli obblighi istituzionali di trasparenza, e la tutela della riservatezza per i privati; promuovere l’autonomia funzionale e decisionale, la professionalità, la responsabilizzazione del

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personale, con particolare riguardo all’area della dirigenza, applicando criteri di “direzione per obiettivi”, e stimolando stili di direzione fondati su informazione, indirizzo, formazione, progettazione concertata, pianificazione e monitoraggio nei confronti dei collaboratori30.

Il Regolamento di organizzazione della Provincia di Macerata rappresenta un

buon modello di efficace integrazione tra esigenze di regolazione, imposte dalla normativa e dal sistema istituzionale, e di regole organizzative richieste dal “sistema aziendale”.

Pensato e strutturato dopo le recenti modifiche normative, e dopo profondi mutamenti interni successivi alla delega di funzioni dalla Regione, decentramento, il regolamento è imperniato sul contenuto e sulle modalità di esercizio della funzione direzionale e sulla definizione dei ruoli istituzionali allo scopo di favorire non solo la separazione, ma soprattutto una proficua integrazione tra momento di definizione delle politiche dell’ente e un’efficiente attuazione delle stesse.

L’attuale Regolamento di organizzazione è stato approvato il 21 luglio 2003, disciplina l’ordinamento generale degli uffici e dei servizi e gli ambiti dell’autonomia organizzativa e funzionale della Provincia di Macerata, nonché definisce l’assetto della struttura organizzativa ed i metodi per la sua gestione operativa.

Esso si ispira ai principi della responsabilità, della partecipazione, della trasparenza, del pieno utilizzo della potenzialità professionale del personale (favorendone la massima flessibilità e mobilità operativa), dello sviluppo della flessibilità aziendale, della progettualità, dello sviluppo quali-quantitativo della produttività e del controllo della spesa del personale. Valorizza il risultato quale elemento privilegiato di valutazione dell’operato; il ricorso al lavoro di gruppo intersettoriale su obiettivi prefissati; la partecipazione collegiale allo studio dei problemi ed alla definizione delle soluzioni prescelte. Prevede l’aggiornamento professionale di tutto il personale, compreso quello funzionalmente assegnato all’amministrazione ma inquadrato in altri comparti, e l’organizzazione e coordinamento dell’attività dell’ente attraverso il sistema informativo e la interconnessione in rete delle sue strutture informatiche.

I criteri generali cui si ispira l’organizzazione burocratica dell’ente sono indicati nell’articolo 62 dello statuto provinciale, e integrati dai seguenti:

- strumentalità e congruità delle risorse impiegate rispetto al conseguimento degli scopi istituzionali ed alla realizzazione degli indirizzi, programmi ed obiettivi determinati dagli organi, nel rispetto dei principi del buon andamento, imparzialità, economicità, efficacia ed efficienza;

- responsabilità della gestione affidata alla dirigenza, nell’ambito delle competenze previste dal presente regolamento di organizzazione e secondo gli indirizzi programmatici stabiliti dall’amministrazione, garantendone l’autonomia ed i mezzi necessari all’espletamento dei propri compiti;

30 Fonte SDA Bocconi – Network Province a Confronto 2003-2004.

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- inquadramento del personale nei ruoli organici dell’ente nelle categorie contrattuali nonché nei relativi profili professionali secondo criteri di funzionalità, flessibilità operativa, professionalità e responsabilità.

Il modello di organizzazione a cui si ispira la Provincia di Macerata prevede un’articolazione che coinvolge sia gli organi politici che quelli burocratici dell’ente secondo i principi generali stabiliti nello statuto provinciale nonché scaturenti dal vigente quadro normativo di riferimento.

Al fine di istituzionalizzare momenti e strumenti di formalizzazione delle strategie e di traduzione delle stesse in obiettivi di gestione, viene istituito il Comitato di pianificazione quale organo composto dal presidente della Provincia, dagli assessori, dal direttore generale e dai dirigenti di dipartimento, con funzioni di programmazione e di pianificazione strategica dell’attività della Provincia. Il Comitato di pianificazione costituisce momento di filtro dei programmi e degli indirizzi politici di lungo periodo rispetto alla struttura operativa dell’ente e rappresenta momento di raccordo dei programmi definiti dalle strutture operative.

Il coordinamento delle problematiche generali inerenti l’organizzazione, la funzionalità e la gestione dei settori e dei dipartimenti è realizzato mediante la Conferenza dei dirigenti che, sulla base degli obiettivi fissati dall’amministrazione, promuove ed attua una serie di attività programmatorie e di raccordo.

La struttura organica dell’ente, nell’ambito dei principi contrattuali e normativi di riferimento, è ordinata ed articolata in dipartimenti, in settori, in servizi o unità operative complesse ed in uffici o unità operative semplici.

Potenzialità dell’attuale assetto organizzativo: maggiore presenza di unità dirigenziali rispetto a prima che consentiranno di raggiungere un maggior livello di specializzazione nei diversi compiti e attività assegnati; maggior potenziamento delle unità lavorative di categoria direttiva, sia tecnica sia amministrativa, attraverso una più adeguata e puntuale ripartizione delle funzioni di competenza.

Criticità dell’attuale assetto organizzativo: difficoltà di adeguamento della struttura di rete informatica in relazione alla dislocazione degli uffici e servizi nell’ambito del territorio provinciale, nonché delle varie sedi dove risultano ubicati alcuni settori dell’ente31.

Ci si augura, tuttavia, che l’elaborazione di regolamenti ad hoc da

parte di tutti gli enti non si trasformi in un mero esercizio di stile, in una operazione tecnica e giuridica fine a se stessa e non in grado di favorire l’introduzione di modelli organizzativi realmente innovativi.

31 Fonte SDA Bocconi – Network Province a Confronto 2003-2004.

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3.3. Il ridisegno dei processi e delle procedure

La pubblica amministrazione italiana degli ultimi 15 anni è un cantiere aperto e in continua evoluzione: la ventata normativa a partire dalla legge 142/1990 ha cominciato a scardinare l’impostazione burocratica del sistema, basata su processi complessi, caratterizzati da una serie innumerevole di procedure. A partire dalla seconda metà degli anni ’90, più precisamente, la parola d’ordine è stata “semplificare” processi e procedure, con l’obiettivo di aiutare gli utenti interni ed esterni a comprenderne la sequenzialità, ma anche di associare attività, fasi e azioni alle specifiche responsabilità organizzative. Questo si è verificato con maggiore facilità in quelle organizzazioni e in quelle realtà cresciute in contesti dinamici, complessi, multidimensionali e technology oriented.

Una delle metodologie che ha trovato maggior favore in ambito pubblico è il Businnes Process Reengineering (BPR)32, un approccio manageriale per la gestione del cambiamento organizzativo basato sulla logica per processi, con lo scopo di migliorare decisamente le prestazioni di alcuni processi critici.

Per processo si intende un insieme di attività tra loro interconnesse e tali che si possa individuare un input e un output. Destinatari dell’output del processo possono essere utenti interni – unità organizzative, uffici – ovvero esterni – cittadini, imprese, altre pubbliche amministrazioni – e proprio l’orientamento all’utente dovrebbe garantire la finalizzazione di tutte le attività alla realizzazione di prodotti e/o servizi di effettivo interesse dell’utente.

La logica per processi si presta ad interventi molto ampi di sviluppo organizzativo, essendo sostanzialmente un modello di rappresentazione del funzionamento dell’organizzazione, finalizzato all’individuazione degli interventi più efficaci per il miglioramento della stessa.

Principali obiettivi di un intervento di Businnes Process Reengineering possono essere: aumento dell’efficienza quali-quantitativa dei servizi prodotti ed erogati all’utenza; miglioramento dei processi, con conseguenze sia sulla qualità del contenuto e delle condizioni di lavoro, sia sulla soddisfazione del personale; riduzione del

32 Si richiama, in particolare, E. Ongaro, La logica per processi strumento per lo sviluppo organizzativo delle amministrazioni pubbliche, SDA Bocconi, Milano, 2002.

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numero delle procedure e quindi del tempo medio di durata dei processi, con snellimento del funzionamento interno e aumento della customer satisfaction; possibili risparmi, anche se non sempre effettivi a causa dei vincoli che irrigidiscono l’utilizzo delle risorse.

L’intervento di Businnes Process Reengineering può perseguire solo uno o, più spesso, tutti questi obiettivi e opera congiuntamente sulla pluralità di leve che definiscono il cambiamento organizzativo: macrostruttura, microstruttura, sistemi informativi e, soprattutto, tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

La classificazione dei processi33 attivi nell’ente aiuta ad individuare la categoria di soggetti beneficiaria degli interventi di reingegnerizzazione, quindi fornisce un utile strumento di supporto decisionale grazie al contributo conoscitivo apportato, ma non fornisce alcuna diretta indicazione nella selezione dei processi sui quali intervenire.

L’entità delle risorse da impiegare per attuare un progetto di reingegnerizzazione, la radicalità di questi interventi, che si propongono di raggiungere significativi miglioramenti nelle prestazioni in tempi relativamente ridotti, a scapito di uno shock organizzativo abbastanza forte, il committement del vertice, che è chiamato ad esporsi in prima persona in modo significativo, sono tutti fattori che suggeriscono di porre in essere un intervento di Businnes Process Reengineering solo per processi di rilevanza per l’ente. Risulta ragionevole, inoltre, focalizzare gli sforzi dove maggiori sono le carenze.

Una volta selezionati i processi da sottoporre a Businnes Process Reengineering, occorre sviluppare il nuovo modello di funzionamento del processo. In generale è possibile adottare criteri relativi all’output, ridefinendo le attività e la loro sequenza in base agli output intermedi e finali del processo; criteri relativi alla struttura del processo, ridefinendo le attività a partire dalle caratteristiche del processo; criteri relativi all’organizzazione, in base al contesto organizzativo in cui il processo si colloca; criteri relativi alla gestione, operando sui sistemi e sui metodi

33 Una possibile classificazione dei processi distingue tra: processi finali od

operativi (erogano output direttamente fruito dall’utente), processi politico-strategici o direzionali (attraverso cui l’organizzazione pianifica e sviluppa il proprio futuro), processi di supporto (il cui output consente il funzionamento di tutti gli altri processi), processi di funzionamento (che provvedono all’acquisizione delle risorse per il proprio o gli altri enti del sistema pubblico).

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adottati per coordinare le attività; criteri relativi all’adozione di nuove tecnologie, ridefinendo le attività alla luce delle opportunità offerte dalle nuove risorse tecnologiche, in special modo informatiche.

Nel modello teorico di riferimento le attività di ridisegno del processo si svolgono pressoché contemporaneamente all’analisi del processo esistente. Quello che si riscontra nella pratica, invece, è che la mappatura del processo esistente è una fase sempre svolta, cui il vertice dirigenziale è molto interessato; la valutazione delle alternative di reingegnerizzazione spesso avviene ricorrendo ad approcci e modelli quantitativi che implicano l’utilizzo di software di mappatura e simulazione, dal momento che gli interessi in gioco e le caratteristiche del sistema di potere delle organizzazioni pubbliche rendono indispensabile supportare con la maggior mole possibile di dati quantitativi la decisione in merito all’alternativa da implementare; un intervento pilota viene in genere attuato prima di procedere su più vasta scala, per ottenere risultati concreti, seppur piccoli, e generare il consenso necessario per attivare le successive fasi dell’intervento34.

Il progetto “Introduzione e certificazione del sistema qualità nel servizio

commercio e licenze” del Comune di Faenza è nato con l’obiettivo di migliorare le prestazioni del servizio commercio, un servizio di primaria importanza per il coordinamento dello sviluppo locale, per quanto riguarda i procedimenti di certificazione e autorizzazione rivolti alle imprese, che ammontano a circa 7.000 l’anno.

La gestione di tali procedimenti presentava un serie di criticità sia di tipo normativo che organizzativo. Con l’aiuto di una consulenza specializzata, fra il 1997 ed il 1998, sono stati analizzati e proposti i miglioramenti da apportare a tali procedimenti, ricostruendoli attraverso diagrammi di flusso, riformulando e uniformando la modulistica, predisponendo schede di contabilizzazione dei benefici per gli utenti e per i lavoratori.

Allo stesso tempo sono stati avviati interventi formativi sul personale al fine di avviare i dipendenti alla cultura della qualità e dell’analisi dei processi.

34 Sono stati definiti 3 possibili livelli di intervento: miglioramento del processo

(miglioramento d quella parte del processo di pertinenza di una particolare unità organizzativa, ha minore impatto sull’efficienza ed efficacia complessiva dell’organizzazione); reingegnerizzazione del processo (ridisegna il processo dall’inizio alla fine, con grande impatto sulle prestazioni, sulle risorse da investire e con maggiori rischi di insuccesso); cambiamento organizzativo (ha l’obiettivo di ridisegnare tutti i processi core).

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Sono state realizzate giornate formative rivolte al personale del Settore sviluppo economico, aventi per tema: le norme ISO 9000; i sistemi di gestione per la qualità; il lavoro di gruppo; l’analisi Businnes Process Reengineering; la comunicazione.

Successivamente è stato redatto e applicato il Manuale della qualità e introdotto il controllo di gestione e, nel 1998, si è ottenuta la certificazione ISO 9000. Nel 2001, sono state conseguite la certificazione ISO 9001, la Vision 2000 ed è stata approvata la carta del servizio. È stata, infine, anche avviata un’attività di benchmarking che ha interessato principalmente i Comuni di Roma, Novara e Spoleto.

L’amministrazione ha realizzato il Manuale qualità e procedure organizzative, che può essere un valido strumento al fine di razionalizzare l’organizzazione del lavoro. È riuscita inoltre ad analizzare e standardizzare i principali procedimenti e a predisporre la Carta del servizio35.

3.4. La ridefinizione dei ruoli dirigenziali

Il censimento effettuato dal ministero dell’Interno sul personale degli enti locali, pur descrivendo un quadro globale cristallizzato al 31 dicembre 2002, stigmatizza una situazione in cui a un esercito di dipendenti, seppure ridotto del 6,5% negli ultimi cinque anni, corrispondono pochissimi generali: i dirigenti sono infatti appena l’1,6% del personale censito. In compenso, accanto al 45% delle amministrazioni che ha assegnato al segretario generale anche funzioni di direttore generale, il 28,2% delle amministrazioni ha adottato la figura del city manager esterno, che è diventato l’icona della modernizzazione e della privatizzazione del pubblico impiego.

È stata rilevata anche una nuova situazione, la copertura dei posti di responsabili di servizi o uffici, di qualifiche dirigenziali e di alta specializzazione con contratti a tempo determinato legati alle scadenze elettorali. È stato cioè misurato il peso, inferiore alle aspettative, dello spoil system: i contratti a tempo determinato sono appena il 2,2% del campione censito, i posti aggiuntivi al di fuori della pianta organica, istituiti nel limite del 5% dell’organico complessivo, coprono appena lo 0,6%. È cresciuto il segmento dei quadri della pubblica amministrazione: hanno la posizione organizzativa circa 17.000 funzionari, vale a dire il 3,8% dei dipendenti in servizio.

35 Banca dati Buoni esempi del Formez, cit.

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Gli anni che vanno dal 1996 – firma del primo Ccnl dell’area dirigenziale delle autonomie locali – ad oggi hanno visto svilupparsi un modello contrattuale nazionale e decentrato nel quale il riconoscimento economico della funzione dirigenziale si è accompagnato all’introduzione di forti elementi di responsabilizzazione e di variabilità negli istituti economici, a partire dal peso sempre maggiore attribuito alla retribuzione di risultato.

Gli ultimi Ccnl comparto Regioni ed enti locali hanno consentito di ridefinire i ruoli del personale della pubblica amministrazione, in particolare di individuare posizioni organizzative con responsabilità di prodotto o di risultato e di attribuirle anche a personale non dirigente. Processi di riorganizzazione basati sull’orientamento all’utente, in particolare, spingono verso l’adozione di sistemi di management che accrescono il livello di delega e la possibilità di attribuire responsabilità di prodotto e risultato anche a figure non dirigenziali, sul piano giuridico amplia notevolmente il ventaglio di possibilità offerte alla definizione delle alternative di reingegnerizzazione.

Il principio base dei nuovi assetti organizzativi delle pubbliche amministrazioni consiste nell’affidamento ai dirigenti di una piena responsabilità gestionale, ben distinta dalla funzione di indirizzo politico che, invece, spetta agli organi elettivi dell’amministrazione.

Il binomio sindaco (o presidente o governatore) - direttore generale rappresenta la linea forte della gerarchia dell’ente. Il politico nomina i dirigenti, il direttore generale è il braccio operativo, consapevole che la cultura organizzativa non può essere pietrificata in qualcosa di immutabile né trasformata in maniera troppo rapida e disinvolta, con funzioni di coordinamento e di traduzione della pianificazione strategica in programmazione gestionale, per progetti e obiettivi. Non è un caso se, nell’ambito della qualifica unica dirigenziale, a fare la differenza sia proprio la componente relativa alla retribuzione di risultato, termometro della capacità del dirigente di saper lavorare in un’ottica di processo e della presa di coscienza della responsabilizzazione sui risultati del suo lavoro.

Emerge il ruolo del direttore generale, istituito in quasi tutti gli enti, anche di piccole dimensioni, che diventa il tramite fra vertice politico e organi di gestione dell’ente, colui che indica come trasformare gli indirizzi strategici in programmi e progetti di gestione dell’ente.

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Un ruolo variegato ricopre il segretario generale, le cui mansioni possono spaziare dall’alta dirigenza (funzioni di direttore generale), al coordinamento e/o all’assunzione di responsabilità di uffici e servizi, fino alla semplice consulenza giuridico-amministrativa alle attività dell’ente.

Accanto ai tradizionali incarichi di responsabilità di un’area o di un settore, elementi statici dell’organizzazione, in un numero crescente di enti si attribuiscono responsabilità di processo e progetto (project management) per l’attuazione di specifici obiettivi, limitati nel tempo36, e si sfruttano tutte le opportunità offerte dalla privatizzazione del rapporto di lavoro e dalle innovazioni contrattuali.

Nell’ottica di riduzione e ridefinizione dell’organico, anche per effetto delle recenti leggi sul contenimento della spesa, gli enti negli ultimi 5 anni hanno ridotto di circa il 20% il numero dei dirigenti, potenziando le funzioni di responsabilità intermedia con l’attribuzione di posizioni organizzative ai funzionari di categoria D – che diventano molto simili ai quadri delle aziende private – o con l’introduzione delle alte specializzazioni. È in rapida crescita l’attribuzione di posizioni organizzative: si tratta di conferire, per un periodo di tempo limitato, incarichi e responsabilità relativi alla direzione di unità organizzative complesse, caratterizzate da autonomia gestionale e operativa, o a funzioni di staff e/o di studio e ricerca. Il vantaggio per l’amministrazione è duplice: le posizioni organizzative costano meno dei dirigenti e l’incarico può essere più facilmente revocato. Da un punto di vista più gestionale, inoltre, consentono un maggior decentramento delle responsabilità di gestione degli obiettivi dell’ente, garantendo disponibilità costante di risorse professionali, con competenze qualitativamente elevate, idonee a perseguire con continuità i percorsi di sviluppo previsti.

Lo strumento ideale per identificare ruoli, regole e responsabilità dovrebbe essere il “regolamento di organizzazione”. Infatti la funzione direzionale è esercitabile con modalità e intensità differenti a seconda del contenuto e delle specifiche responsabilità attribuite alle diverse

36 È il caso, per esempio, del Comune di Milano, dove sono state istituite alcune

unità di progetto avente durata limitata e pari a quella dell’esecuzione dello stesso. Alcune di queste, come il progetto “Periferie”, sono state in seguito trasformate in settori stabili all’interno della struttura dell’ente.

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posizioni di lavoro. Coerentemente con le scelte organizzative relative alla struttura, pertanto, bisognerebbe prevedere le varie tipologie di ruoli direzionali, distinte in relazione alla responsabilità su diverse unità organizzative, aree, settori e servizi, nell’ambito del ruolo unico del dirigente.

Il ruolo dei dirigenti, comunque, non è interpretabile solo nei termini rigorosi definiti da leggi e regolamenti, che evidenziano e chiariscono prerogative responsabilità formali. In un assetto organizzativo che è possibile definire di corporate governance, i dirigenti devono essere in grado di integrare gli aspetti statici e formali del ruolo che ricoprono con i meccanismi dinamici di gestione e relazione con l’ambiente esterno di riferimento, per garantire flessibilità e respiro strategico alle scelte politiche e alla loro declinazione gestionale.

3.5. Le politiche di esternalizzazione dei servizi e le partnership pubblico-privato

Un’organizzazione pubblica sempre più flessibile e dinamica non può prescindere dai legami, anche stretti, con la comunità che rappresenta. Si tratta di elementi di carattere sociale, economico, culturale, che influenzano le strategie politiche degli enti e si riverberano, per conseguenza, sull’organizzazione degli stessi. Si viene a presentare un sistema di cosiddetta corporate governance in cui le pubbliche amministrazioni devono condurre i propri assetti istituzionali alla tutela degli interessi e dei fini collettivi.

Gli enti non possono fare a meno di ascoltare le istanze della collettività che rappresentano e di fornire risposte adeguate secondo criteri di efficacia, efficienza, economicità e qualità. Le comunità passano dal ruolo di utenti a quello di clienti delle amministrazioni pubbliche che, per mezzo di diversi strumenti predisposti dalla legislazione a partire dagli anni ’90, diventano vere e proprie aziende di produzione di beni e servizi per la comunità. Si allargano così i confini dell’organizzazione pubblica tradizionalmente intesa, che diviene un network in cui si incrociano le voci di cittadini, imprese, associazioni, altri istituti pubblici e privati presenti sul territorio di competenza e tutti in grado di influenzare gli interessi collettivi e i fini pubblici.

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È in questo contesto che le amministrazioni pubbliche hanno il dovere d’intervenire, attraverso la definizione di adeguate forme di gestione, per indirizzare gli interessi dei vari stakeholders a quelli più alti di tutta la comunità territoriale rappresentata.

Le forme di gestione dei servizi pubblici sono state individuate già dalla legge 142/1990, ribadite dalle Bassanini, riversate nel Testo unico enti locali e modificate periodicamente con le leggi finanziarie.

L’articolo 35 della legge 448/2001 (legge finanziaria 2002) riforma in modo significativo il comparto dei servizi pubblici locali con l’introduzione dell’articolo 113 bis del Testo unico enti locali e, in particolare: separa la disciplina dei servizi “a rilevanza industriale”37 da quelli “privi di rilevanza industriale”; distingue tra chi è proprietario di reti ed impianti dei servizi industriali, chi ne esercita la gestione e chi è gestore del servizio; inserisce l’obbligo di esternalizzare la gestione dei servizi a rilevanza industriale e la “residualità” della gestione in economia per gli altri; afferma il concetto della “concorrenza per il mercato” tramite il ricorso al meccanismo di gara ad evidenza pubblica.

Il presupposto normativo della separazione tra proprietà dell’assetto tecnico necessario per l’erogazione del servizio e la gestione di quest’ultimo trova fondamento in un contesto europeo volto alla liberalizzazione dell’intero comparto dei servizi pubblici: con la separazione di chi ha la proprietà degli impianti da chi li utilizza per erogare il servizio, si stabilisce il presupposto per la creazione di un sistema concorrenziale e per l’acquisizione di un nuovo mercato.

Tutti gli enti, in primo periodo, hanno deciso di affidare all’esterno i servizi di rete – acqua, luce, gas, rifiuti –, adottando formule societarie (spa o srl) e detenendone una partecipazione o il controllo.

37 Devono intendersi industriali quei servizi che, per la complessità del loro

processo di erogazione, vedono un diffuso utilizzo degli assetti patrimoniali, mentre dovranno considerarsi non industriali quelli che fanno leva principalmente sulle condizioni produttive più direttamente riconducibili all’organismo personale ed in particolare al personale di contatto. In questo senso la distinzione posta può essere genericamente ricondotta alla necessità di utilizzo di rilevanti reti distributive e impianti produttivi. Secondo questa logica possono allora classificarsi come industriali i servizi riguardanti l’erogazione di energia e di gas, il ciclo integrato delle acque, la gestione dei rifiuti e il trasporto pubblico; possono definirsi non industriali tutti gli altri.

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Il Comune di Rivoli gestiva direttamente quattro farmacie, che nel corso del tempo avevano via via ampliato l’offerta di servizi all’utenza, passando dalla semplice misurazione della pressione arteriosa a servizi di autodiagnostica, test di durezza delle acque, di gravidanza, test di ricerca di droghe nelle urine, test del capello. Negli ultimi tempi erano stati messi anche a disposizione i servizi di prenotazione di visite specialistiche e diagnosi strumentale, nonché la consegna di farmaci a domicilio.

Le farmacie comunali avevano perciò seguito la dinamica di trasformazione del modo di operare di tutte le farmacie e cioè luogo non più solo di vendita del prodotto specifico, ma, in qualche misura, esercizio commerciale in cui l’avvio dell’offerta di servizi era anche veicolo tipo commerciale.

Alle farmacie erano addetti 13 dipendenti con costi e ricavi variabili da 2.600.000 € a 3.330.000 € nel periodo 1999/2000 con incrementi annui di circa 200.000 € ed una rimanenza di magazzino pressoché costante equivalente a 500.000 €.

Ma rimaneva il problema fondamentale e cioè la non congruità di un’attività ormai tipicamente commerciale, con le regole e le condizioni di un ente pubblico territoriale.

Il programma politico amministrativo del sindaco aveva indicato un percorso di esternalizzazione per le farmacie comunali con lo scopo di recuperare efficienza ed efficacia, ma soprattutto per trasformare il servizio in una risorsa per il Comune.

La strada scelta dal Comune di Rivoli è stata quella di non vendere queste farmacie, pur avendo ricevuto una serie di offerte, mantenendole nel proprio patrimonio, e di avviare una trattativa con un’azienda pubblica multiservizi finalizzata alla gestione, per 10 anni, a partire dal 1 marzo del 2003.

Il corrispettivo annuo concordato per la gestione delle farmacie stesse è di € 413.165, aggiornato a partire dal sesto anno.

Condizione essenziale per la conclusione dell’operazione era l’assunzione del personale con qualifica di farmacista da parte dell’azienda contraente e che allo stesso venisse garantito un trattamento economico almeno pari a quanto previsto dal contratto degli enti locali. Il tutto si è concluso con accordo con le organizzazioni sindacali sottoscritto anche da tutti i dipendenti interessati.

A distanza di alcuni mesi i primi risultati confermano tutte le aspettative riposte nella decisione di esternalizzare il servizio, sia sotto il profilo della maggior funzionalità del servizio ai cittadini, sia sotto il profilo economico per le finanze comunali38.

I provvedimenti legislativi di riforma che hanno interessato il settore dei

servizi pubblici locali hanno disegnato per l’ente locale una funzione governo complessivo del sistema, di regolazione delle dinamiche di funzionamento e di sviluppo dello stesso, di messa a punto delle regole di comportamento dei soggetti che si troveranno ad operare nel sistema, di sviluppo del sistema di

38 Fonte SDA Bocconi– Network Città Medie a Confronto 2003.

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garanzia nei confronti dei cittadini. Nel corso del 2000, ancor prima dell’approvazione del testo di riforma generale, il Comune di Pesaro ha compiuto rilevanti scelte strategiche ed organizzative in merito ai propri servizi, dando avvio di fatto ad un processo di forte innovazione del quadro istituzionale di sistema.

Il fine ultimo del progetto è stato quello di arrivare, fermo restando il mantenimento di elevate condizioni di qualità per i cittadini-utenti, alla definizione di un nuovo quadro organizzativo, maggiormente idoneo a valorizzare settori strategici, a creare le condizioni per una gestione integrata dei servizi, a rafforzare il ruolo di decisore politico dell’amministrazione comunale, a creare le condizioni per una maggiore efficienza gestionale attraverso il coinvolgimento di partner strategici, a valorizzare la partecipazione pubblica, a massimizzare gli introiti.

Tali obiettivi strategici sono stati approvati a larghissima maggioranza in una deliberazione consiliare di indirizzo nella quale si sono chiaramente prefigurate le strategie per la propria società di servizi ed esplicitate le fasi del percorso di riorganizzazione.

Sin dall’approvazione di tale atto, avvenuta nel luglio del 2000, è apparso in tutta la sua chiarezza il disegno perseguito dal Comune di Pesaro in merito a scelte fondamentali quali: l’equilibrio tra intervento pubblico e intervento privato, il ruolo delle regole, il grado di autonomia da garantire ai diversi attori, l’orizzonte temporale da assumere a riferimento.

Il Comune di Pesaro e gli altri dieci Comuni consorziati hanno di fatto anticipato le previsioni dell’articolo 35 della legge 448/2001: creando società separate per la gestione patrimoniale delle reti e infrastrutture da una parte e per l’erogazione dei servizi dall’altra; affidando la proprietà e la gestione patrimoniale delle reti e delle infrastrutture ad una società controllata al 100% dai Comuni; deliberando una procedura di privatizzazione, in misura proporzionale al capitale sociale di ciascuno dei comuni soci, al fine di garantire alla società di gestione prospettive di crescita e redditività, condividere con il bacino di utenza della società i benefici della privatizzazione, aumentare la fidelizzazione dei dipendenti/clienti e sensibilizzare gli azionisti sulle strategie di sviluppo della società.

La procedura di privatizzazione è stata articolata in due fasi: dismissione del 24% attraverso l’ingresso nel capitale sociale di un partner industriale, selezionato tramite procedura ad evidenza pubblica. La procedura si è conclusa nel settembre 2002 con aggiudicazione da parte di Hera, per un prezzo di € 6,03 per azione; dismissione del 41% del capitale sociale della società mediante offerta pubblica di vendita riservata ai cittadini residenti nella Provincia di Pesaro Urbino ed ai dipendenti di Aspes Multiservizi. Ai destinatari del collocamento sono state assicurate particolari garanzie, attraverso il riconoscimento agli stessi di un rendimento garantito da attuarsi mediante diritto di opzione a vendere ai Comuni ad un prezzo predefinito superiore a quello d’acquisto entro un determinato periodo di tempo.

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Il nuovo quadro ha posto nuove e rilevanti questioni, di ordine concettuale e operativo, in merito alle esigenze di equilibrata tutela degli interessi, non sempre convergenti, di tutti i soggetti in gioco. Ciò ha significato affrontare i temi relativi all’identificazione delle prerogative e delle responsabilità dei nuovi soggetti, all’introduzione di logiche e metodologie di indirizzo e di controllo sui risultati, alla definizione dei meccanismi e strumenti di regolazione delle relazioni. Non c’e dubbio che tale fronte ha rappresentato uno dei nodi più problematici in questi anni. Le soluzioni adottate dal Comune di Pesaro e formalizzate nei diversi documenti predisposti (contratti di servizio, patti parasociali, convenzioni di diritto pubblico, statuti societari) costituiscono in questo senso il punto di forza dell’intera operazione.

Nell’ambito delle logiche appena delineate si è arrivati alla elaborazione di un adeguato sistema di corporate governance procedendo in modo strettamente correlato lungo due direzioni: la ridefinizione dei ruoli e delle prerogative dei diversi soggetti coinvolti; l’impostazione dei meccanismi operativi e degli strumenti volti a favorire l’integrazione e il raccordo tra l’ente locale e le società controllate.

Tali elementi sono stati definiti in contratti di servizio che hanno previsto: - la specificazione del ruolo del Comune che, attraverso gli organi statutari,

partecipa alla determinazione degli indirizzi ed effettua il controllo sui servizi e la spa cui spettano le funzioni di gestione di impresa ed organizzazione operativa del servizio;

- la specificazione degli impegni delle parti con particolare riferimento a quelli assunti dal gestore in materia di qualità dei servizi, tariffari ed investimenti;

- la specificazione dei flussi finanziari fra Comune e gestore; - la previsione di un comitato tecnico di gestione del contratto quale organo

del Comune e del gestore a garanzia della corretta applicazione del contratto; - la previsione di un sistema di sanzioni in caso di inadempimenti da parte

del gestore e di un sistema di incentivi in caso di raggiungimento di determinati obiettivi e/o di un significativo incremento del livello di soddisfazione dell’utenza.

Infine la redazione e la stipula dei contratti per la concessione dell’uso delle reti, degli impianti e delle dotazioni patrimoniali hanno consentito di definire per la prima volta l’ammontare minimo di risorse finanziarie da destinare ad investimenti per il miglioramento delle infrastrutture stesse39.

Nell’ultimo quinquennio il Comune di Ancona ha conosciuto un incremento

notevole nel campo delle attività culturali soprattutto grazie alla restituzione alla città di due grandi e prestigiosi “contenitori”: la Mole Vanvitelliana, un monumento settecentesco progettato da Van Wittel e adibito a spazio espositivo, e il Teatro delle muse, inaugurato oltre un anno fa dopo circa sessant’anni di forzata chiusura.

39 Fonte SDA Bocconi – Network Città Medie a Confronto 2003.

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Questa nuova realtà ha costretto ad un’ampia riflessione sugli strumenti di gestione più adatti per raggiungere i migliori risultati sia dal punto di vista culturale, sia dal punto di vista del reperimento di risorse economiche aggiuntive a quelle degli enti locali e del settore pubblico, sia infine dal punto di vista dell’efficienza di gestione; aspetto quest’ultimo difficile da perseguire all’interno della struttura pubblica dove l’insieme di regole e di “lacci e lacciuoli” rendono estremamente rigida l’attività operativa, soprattutto nel campo della gestione dei servizi.

La scelta è caduta sullo strumento della fondazione di partecipazione per il suo carattere di struttura “privatistica”, essa infatti consente una duttilità operativa indispensabile e quasi obbligata per una attività particolarissima come quella della produzione di spettacoli e inoltre consente l’adesione di altri partecipanti sostenitori anche privati.

L’attività legata alla produzione di spettacoli e segnatamente agli allestimenti di opere liriche, richiede infatti una capacità di “impresa” che deve affrontare problematiche di norma completamente estranee all’ente pubblico tradizionale; si pensi solo ai rapporti contrattuali con i vari cast artistici, le masse artistiche, le gestioni delle partite previdenziali e via dicendo.

La riapertura del teatro dopo sessant’anni poneva alla città di Ancona anche un problema di ordine più generale, un particolare problema di politica culturale: riportare nella città un’attività teatrale piena ed integrale dal momento che fino ad allora la città disponeva di un piccolo teatro di soli 450 posti dove era preclusa una vasta tipologia di allestimenti.

Si trattava dunque di ricollegarsi ad una tradizione teatrale e musicale che ad Ancona era stata particolarmente ricca e prestigiosa. Era dunque indispensabile la creazione di uno strumento che avesse come “missione” esclusiva la risposta ad una “assenza” durata sessant’anni e si desse una strategia di ampio respiro.

A poco più di un anno della costituzione della “Fondazione Teatro delle muse” la scelta è risultata senz’altro giusta ed opportuna e i risultati ottenuti, sia sul piano artistico e culturale sia su quello dell’ efficienza e del coinvolgimento di nuovi soggetti pubblici e privati, sono andati ben oltre le previsioni.

Dalla firma dell’atto costitutivo, il 5 agosto 2002, che vedeva il Comune di Ancona unico fondatore, si sono aggiunti con questa qualifica due enti pubblici, l’amministrazione provinciale e la Camera di commercio, due importanti istituti bancari, come la Banca popolare di Ancona e la Fondazione Cariverona e due importanti partner privati, L’Acraf(Gruppo Angelini) e la Fineldo (Gruppo Vittorio Merloni).

A questi si sono aggiunti circa cento “partecipanti” tra associazioni di categoria, aziende e singoli cittadini che costituiranno una sorta di associazione che contribuirà, con risorse e idee, all’attività della Fondazione e alla sua promozione.

Il bilancio è più che positivo anche dal punto di vista della gestione. Nella prima stagione compresa tra il dicembre 2002 e il luglio 2003, la Fondazione ha prodotto un cartellone operistico con cinque titoli per undici recite e il teatro ha

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ospitato altre 34 recite, tra prosa, musica sinfonica e jazz, con 41.500 spettatori complessivi40.

Oltre alle public utilities, grazie alle novità introdotte dalla legge

finanziaria per il 2002 gli enti costituiscono istituzioni, fondazioni, consorzi e società soprattutto per la gestione della cultura, dello sport e di tutti i servizi non industriali, aprendo la gestione a società di capitali partecipate e a terzi attraverso il meccanismo della gara pubblica. L’Unione europea ha visto nella disciplina una violazione delle norme sulla concorrenza sicché, con il d.l. 26/2003, di accompagnamento alla finanziaria 2004, il Governo vieta l’assegnazione di questi servizi a terzi tramite gara e consente l’affidamento diretto a società solo se interamente pubbliche.

Il Rapporto Federculture41 2004 ha evidenziato che per la gestione dei servizi per il tempo libero i Comuni hanno privilegiato i seguenti modelli:

Figura 1 -

associazioni 11%

fondazioni 13%

aziende speciali 13%

consorzi 13% srl 5%

istituzioni 27%

spa 18%

Fonte:

Con la legge finanziaria per il 2004 la normativa sui servizi pubblici locali è stata ulteriormente modificata: viene abolita la distinzione tra servizi a rilevanza industriale e non industriale e introdotta quella tra servizi a rilevanza economica e servizi a rilevanza non economica; entro il 31 dicembre 2006 cesseranno tutte le concessioni in essere affidate

40 Fonte SDA Bocconi – Network Città Medie a Confronto 2003. 41 I risultati dell’indagine sono stati pubblicati su «Il sole 24 ore», 19 aprile 2004.

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senza procedura ad evidenza pubblica; vengono ammesse a proseguire negli affidamenti già ricevuti; le società a capitale misto in cui il socio privato sia stato scelto con procedura ad evidenza pubblica o quotate in borsa dal 1° ottobre 2003; le società a capitale interamente pubblico, a condizione che gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la maggior parte della propria attività con l’ente o con gli enti pubblici che la controllano.

Per i servizi a rilevanza economica esistono tre possibili modalità di affidamento: gara per il servizio; gara per il socio privato; affidamento diretto in house42.

Il problema sarà ancora più presente per le Regioni, perché all’intensificarsi del processo federalista e di decentramento questi enti dovranno decidere come allocare non solo i servizi, ma anche e soprattutto le funzioni: gestione in economia, ovvero decentrata, con la costituzione di aziende uniche regionali o di molte aziende regionali, ovvero delegando alle province che, a loro volta, potranno delegare ai comuni. Si profila anche un nuovo ruolo per le Province, chiamate a favorire i comuni ad operare su area vasta e in network perché ciò favorirebbe tutti gli attori del territorio, e anche i conti della spesa pubblica. Posto di considerare le moderne pubbliche amministrazioni in ottica di governance, la loro funzione cardine diviene quella di stipulare e garantire contratti affidabili, efficienti, che soddisfino tutti gli stakeholders. In questo contesto cambiano radicalmente le scelte strategiche, dal momento che l’ente può optare se produrre al suo interno in gestione diretta (to make) oppure se comprare sul mercato esterno (to buy), oppure ancora se partecipare o se controllare il processo di produzione (società miste).

La decisione tra gestione diretta, acquisto sul mercato esterno, costituzione di una società mista o di una rete selezionata di fornitori di fiducia ha una rilevanza contemporaneamente economica e organizzativa per gli enti. Con la produzione/gestione diretta si sceglie di avere molto personale dipendente il cui lavoro va controllato e coordinato per via gerarchica; costituendo una società si sceglie di avere poco personale ma qualificato e specializzato nella conduzione di trattative tecnico-commerciali; nelle restanti ipotesi si fa una scelta intermedia, con

42 S. Dota, in «Il sole 24 ore», 1 marzo 2004.

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personale altamente professionalizzato nel controllo di gestione e delle partecipate e in grado di organizzare gruppi di lavoro con i referenti delle imprese appartenenti alla holding.

Per il corretto funzionamento dei meccanismi giuridici di garanzia e, più in generale, per il conseguimento dell’efficacia e dell’equità nella cooperazione tra operatori privati e pubblici, è indispensabile la presenza di adeguate capacità organizzative della pubblica amministrazione. Questo deve verificarsi non tanto rispetto alle funzioni di gestione, di cui si fa carico il partner privato, quanto piuttosto alle funzioni proprie e caratteristiche della pubblica amministrazione in quanto tale, e cioè la promozione delle attività nel senso della fissazione degli obiettivi e del controllo del loro raggiungimento. Di qui la funzione del controllo strategico e del controllo di gestione e la necessità d potenziare le professionalità adeguate all’interno dell’ente. Senza la fissazione e la pratica delle regole di buon governo, tramite la sottoscrizione di contratti di servizio e carte dei servizi, la cooperazione tra pubblico e privato anziché una scelta ottimale rischia di diventare controproducente, perché non riesce a gestire i processi, né a garantire alla collettività la qualità e quantità di servizi che si attende43.

È fondamentale per l’ente identificare quali servizi sia bene esternalizzare o gestire in forma mista e attivare i meccanismi organizzativi interni che consentano il controllo sui processi di gestione ed erogazione dati all’esterno. Scegliere di mantenere in gestione diretta le attività di core business è strategicamente rilevante e perciò gli enti devono essere in grado di analizzare le tendenze strutturali dell’ambiente di riferimento, comprendere le attese degli utenti, elaborare strategie di cambiamento coerenti con le strategie di intervento, attivare risorse

43 Il Comune di Arezzo ha avviato il progetto “Controllo di qualità sui servizi dati

all’esterno della P.A.”. L’esternalizzazione di servizi e funzioni da parte del Comune ha creato inevitabilmente nell’ente locale la perdita delle conoscenze e competenze di natura tecnica e programmatoria sulla gestione del servizio esternalizzato. Il Comune di Arezzo ha quindi inteso, con tale progetto, superare le tradizionali forme di controllo di tipo prettamente amministrativo e/o societario effettuate sugli enti che gestiscono i servizi, sviluppando e privilegiando modalità di controllo più efficaci ed incisive, poiché legate alla titolarità del servizio e quindi improntate al monitoraggio ed alla regolazione del livello di efficienza e della qualità dei servizi resi. Per approfondimenti, si rimanda alla banca dati Buoni esempi del Formez, cit.

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finanziarie e umane nei tempi e modi richiesti dalla natura dei problemi da risolvere.

D’altra parte la recente Circolare della funzione pubblica identifica il cittadino come protagonista dell’azione amministrativa, in quanto destinatario dei servizi pubblici e metro di giudizio per la qualità degli stessi, e sollecita l’attuazione di sistemi per la rilevazione della customer satisfaction. Attraverso un costante monitoraggio del gap tra l’efficacia dell’erogazione e i reali bisogni dei cittadini, infatti, è possibile non solo definire le politiche d’intervento nella fase di pianificazione strategica e di individuazione delle scelte, ma soprattutto impostare appropriati ed efficaci strumenti interni di valutazione e controllo. Di conseguenza gli enti saranno in grado di riprogettare le politiche pubbliche e i sistemi di fornitura del servizio, calibrandoli sulla base dei bisogni e dei suggerimenti dei destinatari finali.

Il progetto “Impostazione e consolidamento del tavolo di concertazione per

la promozione all’export”, promosso dalla Regione Piemonte, è il frutto di forti elementi di sollecitazione interni ed esterni all’amministrazione regionale. Consiste nel programmare e nel gestire un luogo d’incontro e di discussione in cui mettere a punto le strategie regionali di promozione commerciale, rivolte soprattutto all’estero.

Attraverso periodiche riunioni del tavolo di concertazione è stato possibile concludere importanti progetti promozionali ed apportare, alle preesistenti modalità di svolgimento dell’attività di promozione del commercio, un elevato grado di innovazione.

Nel progetto sono coinvolte altri enti pubblici e privati: Istituto nazionale commercio estero, Unioncamere Piemonte, Camere di commercio piemontesi, Amministrazioni provinciali, Centro estero Camere di commercio piemontesi, Associazioni di categoria, Finpiemonte, Sace, Simest, Consorzi all’export, Consorzi di tutela e valorizzazione, Itp, Politecnico, Facoltà di economia dell’Università di Torino.

Il personale si è specializzato in aree-Paese e aree-settore, diventando in tal modo interlocutore esperto di ciascun ente. Le sinergie hanno permesso di ottimizzare le risorse umane e finanziarie, e di concentrare gran parte dell’attività nella fondamentale funzione della circolazione delle informazioni. Si è anche riscontrata una maggiore fiducia da parte degli interlocutori sull’imparzialità delle scelte, l’aumento della velocità d’azione, l’aumento della soddisfazione delle aspettative.

Le procedure amministrative sono state razionalizzate, grazie all’invio, prevalentemente in forma telematica, all’ufficio dei progetti promozionali ed alla loro discussione nel corso delle riunioni periodiche. Tale nuova procedura ha garantito agli interlocutori risposte più tempestive e soddisfacenti. Infine, si

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sono instaurati nuovi modelli di rapporti di collaborazione con altre amministrazioni e/o con soggetti privati che hanno consentito il coinvolgimento di più enti nel ruolo di protagonisti, a beneficio di una maggiore incisività ed efficacia dell’azione44.

Lo sviluppo e l’equilibrio dipenderà dalla capacità di gestire i diversi

contesti di riferimento, adeguando le scelte strategiche di evoluzione e l’assetto interno. Occorre allora superare il modello strutturale basato sulla specializzazione tecnico-produttiva, avviare processi di riorganizzazione orientati ad accrescere la flessibilità, la semplificazione e l’adattabilità, con il conseguente passaggio a forme organizzative sempre meno strutturate45, con la gestione delle attività per processi.

Ad ogni modo, qualunque sia la forma di gestione per attuare la governance sul territorio – gestione in economia, conferenze e tavoli politici, aziende pubbliche preesistenti o società miste di nuova costituzione, consorzi – l’importante è che si costituisca una rete, definendo le singole mission dei diversi soggetti aderenti e le attività sulla base di una univoca visione strategica.

3.6. La cooperazione interistituzionale46

Dal censimento Istat 2001 risulta che degli oltre 8.000 Comuni italiani più del 72% ha una popolazione inferiore ai 5.000 abitanti e, nonostante siano l’ente pubblico a più diretto contatto con i cittadini e il riferimento per la gestione di tutti i servizi di base, scontano tutta una serie di criticità strutturali, dalla scarsità di risorse finanziarie, umane e strumentali alla modesta capacità progettuale e di innovazione, al debole potere negoziale nei confronti degli altri soggetti pubblici e privati.

44 Banca dati Buoni esempi del Formez, cit. 45 Il progetto “A.S.P.eF. (Azienda servizi alla persona e alla famiglia )” è nato dalla

volontà del Comune di Mantova di creare un’impresa sociale territoriale che operi in modo innovativo nell’ambito della promozione ed erogazione dei servizi sociali di tradizionale appartenenza pubblica ed in particolare comunale. Per approfondimenti, si rimanda alla banca dati Buoni esempi del Formez, cit.

46 Per la stesura di questo paragrafo si è fatto riferimento, tra gli altri, a E. e P. Racca, «Guida agli Enti locali», inserto settimanale de «Il sole24 ore», n. 9, 2004.

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Associandosi e cooperando questi enti potrebbero superare le difficoltà create dall’eccessiva frammentazione territoriale.

Protocolli d’intesa, accordi di programma, consorzi, Comunità montane, convenzioni, funzioni associate, unioni di Comuni, fusioni, sono le forme d’integrazione fra enti locali previste dall’ordinamento: tutte rispondono alla medesima esigenza di individuare il modello più conveniente per gestire le funzioni e i servizi pubblici locali.

Protocolli d’intesa, convenzioni e accordi di programma rappresentano partnership di natura contrattuale, che non incidono sulle strutture dimensionali locali e necessitano della sottoscrizione di una convenzione per la gestione condivisa delle funzioni e dei servizi; i rischi sono il free-riding, cioè il comportamento opportunistico da parte di qualcuno degli enti, che potrebbe giovarsi dei benefici dell’associazione senza sopportarne i costi, e i costi del processo di negoziazione, che potrebbero essere troppo onerosi per contesti notoriamente caratterizzati da scarsità di risorse.

La fusione di Comuni rappresenta l’unica forma di partnership di natura istituzionale: è la più vincolante e difficile da realizzare, non fosse altro per l’ostacolo rappresentato dal campanilismo dei cittadini dei singoli Comuni.

L’esercizio associato di funzioni, i consorzi, le unioni di Comuni e le Comunità montane sono forme di partnership che potremmo definire miste.

Un’indagine di alcune significative esperienze di associazionismo consente l’individuazione delle principali condizioni che favoriscono la nascita, lo sviluppo e la durata delle partnership locali. Sono potenziali fattori che agevolano la collaborazione istituzionale: una salda volontà politica, la coerenza fra tutti gli elementi costitutivi della partnership, il ruolo assunto da personale tecnico-amministrativo, una sviluppata cultura amministrativa orientata alla collaborazione, l’investimento in tecnologie dell’informazione e della comunicazione, l’adozione di una logica della gradualità, la presenza di condizioni d’ambiente favorevoli, una relativa uniformità delle caratteristiche geografiche, economiche, politiche e sociali degli enti coinvolti.

È necessaria una ferma volontà politica affinché l’esigenza gestionale di associarsi si traduca in realtà. La questione è delicata e va affrontata congiuntamente sul piano istituzionale, sul piano gestionale e sul piano politico.

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Le strategie di collaborazione trovano attuazione, dopo una necessaria fase di convergenza di intenti fra gli amministratori degli enti partecipanti, nell’adozione di modelli organizzativi a rete, in grado di conciliare i vantaggi del coordinamento con il rispetto delle caratteristiche peculiari di ciascun ente.

Prerequisiti fondamentali sono un’adeguata strumentazione informatica e risorse umane in grado di utilizzarla al meglio: l’integrazione fra uffici, l’erogazione di servizi on line o la distribuzione capillare sul territorio di servizi fortemente automatizzati, devono essere supportate dalla tecnologia informatica, insieme al ricorso a linguaggi comuni, competenze omogenee, flussi informativi e procedure. D’altra parte le novità introdotte, per esempio, dall’e-government richiedono considerevoli investimenti e per i Comuni più piccoli l’associazionismo diventa quasi una scelta obbligata per implementare le previsioni normative.

Semplificando, le tipologie politiche sottese a funzioni e servizi da conferire all’esercizio associato sono riconducibili a tre: politiche amministrative miranti al funzionamento di uffici e settori interni all’ente (anagrafe, economato, tributi, ufficio tecnico, nucleo di valutazione), politiche rivolte a determinati utenti sociali (trasporto scolastico, handicap), politiche pubbliche rivolte all’intera collettività (polizia municipale, raccolta e smaltimento rifiuti).

Di particolare rilievo sono due progetti promossi dall’associazione intercomunale “Bassa Romagna” e dalla Provincia di Livorno47.

L’Associazione intercomunale “Bassa Romagna”, costituita da dieci Comuni in Provincia di Ravenna, ha realizzato il progetto “Un solo ufficio personale per un’associazione intercomunale” con lo scopo di creare una rete di rapporti tra gli enti locali del territorio per gestire servizi comuni, razionalizzando costi ed erogazione dei servizi, ottenendo una qualità più elevata e soprattutto condivisa sia dal personale interno che dalle strutture esterne coinvolte. La formazione e l’aggiornamento del personale sono gestite centralmente nell’ambito di piani di ente che attuano gli indirizzi della Commissione assessori al personale dell’Associazione. Le decisioni sono assunte dai responsabili che dipendono da tutti i dieci sindaci, direttori, ragionieri, anche se operano a 15/20 km di distanza. Il controllo reciproco è affidato alle

47 Per approfondimenti, si rimanda alla banca dati Buoni esempi del Formez, cit.

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figure dei referenti che, pur continuando a lavorare nella propria sede di lavoro, dipendono, con rapporto di telelavoro, direttamente dai responsabili degli uffici associati.

Con il progetto “Un esempio di federalismo cooperativo: Circondario della Val di Cornia” la Provincia di Livorno ha voluto dare attuazione a quanto disposto dalla legge 142/1990 e dalla legge regionale 77/1995 in merito alla possibilità di suddividere il territorio provinciale in Circondari, al fine di organizzare gli uffici e i servizi ai quali delegare, d’intesa con la Regione e con i Comuni, l’esercizio di funzioni amministrative di competenza regionale e provinciale. Tra i cambiamenti generati dal progetto vanno segnalati: la graduale assunzione di competenza da parte del Circondario nelle materie (agricoltura, aree protette, rifiuti, lavoro formazione, cultura e beni culturali); la nascita di nuovi rapporti tra giunta e consiglio (Comandi provinciali e regionali) nell’ottica di una concreta sussidiarietà, così come con le parti sociali e imprenditoriali; una maggiore apertura e una migliore capacità da parte della Val di Cornia di dialogare con gli altri livelli istituzionali.

Nella realtà si riscontra che gli enti sono più aperti alla gestione integrata dei servizi alla collettività, ma decisamente restii alla gestione associata di settori amministrativi.

I principali vantaggi derivanti da una gestione associata sono di carattere economico (economie di scala, di raggio d’azione, di specializzazione e di apprendimento), di impatto sull’offerta dei servizi (in termini di numero di servizi offerti e di miglioramento qualitativo degli stessi), di ordine organizzativo (maggiore flessibilità e creazione di maggiori opportunità professionali e di ambiti di lavoro più qualificanti per i dipendenti), di ordine strategico (trasferimento di buone prassi e di competenze), di ordine politico e sociale (maggior potere contrattuale nei confronti degli altri attori del territorio, pubblici e privati).

Vanno sottolineate inoltre la possibilità di sinergie di approvvigionamento e l’aumento di potere contrattuale nei confronti dei fornitori, l’elaborazione di una visione integrata del territorio e delle sue potenzialità – marketing territoriale –, la creazione di opportunità di governance, l’acquisizione di maggior peso politico nel dialogo e nelle negoziazioni con i livelli di governo superiori.

È possibile ipotizzare un’evoluzione della collaborazione sia dal punto di vista della natura delle funzioni associate, sia sotto il profilo

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della veste istituzionale scelta dalla partnership: importante è mantenere il consenso più ampio possibile affinché l’iniziativa risulti efficace e produca effetti positivi di lunga durata.

Il processo non è semplice né in discesa. Le difficoltà maggiori sono ascrivibili all’identificazione delle reali finalità perseguite dai singoli enti, al contemperamento degli interessi delle diverse amministrazioni, alla definizione di un nuovo modello organizzativo condiviso e fruibile per tutti, alla carenza di competenze professionali adeguate, all’inesistenza di indicatori per misurare le performance. A queste si aggiungono l’acceso campanilismo tipico dei piccoli enti, le difficoltà di instaurare reciproci rapporti di fiducia fra gli amministratori, il timore dei sindaci di perdere il contatto diretto con i propri cittadini e il controllo del territorio, le resistenze a un’ipotetica perdita di autonomia nella decisione delle linee di indirizzo politico.

Particolarmente critico è il momento di definizione del nuovo assetto organizzativo che assume la collaborazione. Numerose esperienze attestano le difficoltà nel realizzare un efficace, se non efficiente, coordinamento delle strutture organizzative, dei sistemi operativi e delle singole prassi consolidate presso ciascun ente.

Nel caso dell’esercizio associato di funzioni, per esempio, una prima difficile opzione è quella fra la creazione di uffici comuni e la creazione di un Comune capofila. Nel primo caso il processo è lungo e assorbe molte energie e risorse, ma favorisce la specializzazione e valorizzazione delle risorse, lo sviluppo del lavoro di gruppo e di collaborazioni più stabili nel tempo; per contro un ufficio intercomunale necessita della preventiva coordinazione fra gli enti sulle politiche di formazione, il distacco di parte del personale dagli enti di appartenenza, di cui continua a essere dipendente, l’attivazione di un nuovo rapporto funzionale nei confronti dei responsabili dell’ufficio comune. La seconda ipotesi risponde alla logica della rete organizzativa: si individua, per ciascun servizio associato, un’amministrazione referente, nella quale già esistono le competenze e le risorse necessarie alla corretta ed efficiente gestione (Comune capofila), come responsabile della gestione del servizio anche per conto delle altre; il rischio è che il Comune capofila non condivida il proprio know-how con gli altri, con la conseguenza che, qualora si dovesse pervenire allo scioglimento dell’accordo o al recesso da parte del capofila, i restanti Comuni non avrebbero né le risorse, né le competenze per gestire il servizio.

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Le riforme che si propongono l’obiettivo di risolvere in maniera semplicistica le criticità connesse al processo di integrazione fra gli enti non sono utili allo scopo né sufficienti: l’adozione di forme di gestione associativa ha inoltre forti ripercussioni sull’organizzazione del personale e di natura patrimoniale e contabile e il legislatore dovrebbe premurarsi di indicare agli enti il percorso migliore da seguire, le procedure da porre in essere, gli atti e i modelli da adottare.

È particolarmente interessante l’attenzione del nuovo Ccnl per le unioni di Comuni e le associazioni intercomunali, tanto che un intero capo viene loro dedicato, testimonianza di una realtà in espansione e di una rinnovata attenzione per forme istituzionali che potrebbero determinare esperienze significative e di rilievo, se opportunamente progettate e fortemente integrate48.

3.7. Le agenzie

In un assetto organizzativo che tenta di integrare elementi statici (definizione di ruoli e prerogative) con aspetti dinamici (strumenti e meccanismi di governance) occorre creare strumenti di connessione istituzionale, soprattutto a livello regionale e provinciale, che costituiscano una sorta di scatola di raccordo delle istanze e degli interessi pubblici e degli stakeholder territoriali, governata da regole certe, chiare e partecipate a tutti, che distingua il livello politico da quello tecnico-gestionale in modo da offrire un valido strumento di arbitrato in caso di malumori e dissonanza d’intenti. È questo il ruolo che svolgono anche agenzie ed enti strumentali.

Se in altri Paesi europei le agenzie sono un modello diverso dalle autorità indipendenti, diretto a organizzare e svolgere funzioni di informazione, controllo e coordinamento, in applicazione dei principi di cooperazione e sussidiarietà, in Italia le agenzie vengono ancora a configurarsi come enti strumentali, dirette perciò a svolgere attività

48 L’articolo 13 prevede che le unioni di Comuni, dotate di autonomia, hanno titolo

a gestire direttamente il proprio personale e a dare autonoma applicazione alle disposizioni dei contratti di lavoro; l’articolo 14 estende queste previsioni anche agli enti che utilizzino personale adibito alla gestione di funzioni o di servizi nell’ambito di una convenzione che definisca modi e tempi per un corretto «utilizzo del lavoratore».

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tecnico-gestionali e operative che l’apparato organizzativo ordinario non è in grado di soddisfare direttamente, ma con margini di autonomia ristretta e sotto la diretta vigilanza dell’amministrazione da cui dipendono.

Nascono essenzialmente per garantire correttezza e completezza di informazioni e conoscenze tecniche sia per utenti pubblici sia per privati, per assicurare e attivare istituti in grado di rendere effettivo il diritto all’informazione e di partecipazione a tutti i soggetti interessati ai processi decisionali, attraverso un accesso incondizionato alle conoscenze e alle informazioni tecniche; infine per la necessità di regolare ambiti di attività, investiti da processi dinamici, rispetto ai quali la struttura amministrativa e decisionale tradizionale non è in grado di assicurare un intervento tempestivo.

In Italia l’agenzia è un ente strumentale di carattere tecnico-conoscitivo e tecnico-operativo. Deve contribuire a costruire strumenti conoscitivi e informativi ad ampio spettro e tasso di completezza.

Le difficoltà di inquadramento e di concreto avvio delle agenzie è conseguenza della necessità di effettuare scelte organizzative di ben più vasta portata, che definiscono le nuove relazioni tra il livello politico delle decisioni dirette a governare un particolare ambito (ministeri, Regioni, Province, Comuni), il livello tecnico-scientifico (agenzie nazionali e regionali) e il livello tecnico-operativo (agenzie locali). In particolare va definito il ruolo delle agenzie per ciascun livello di governo interessato. A livello nazionale si definiscono i contenuti e le linee guida generali, gli interessi e i valori rilevanti sul piano costituzionale, i programmi e gli obiettivi rilevanti a livello macro, gli standard minimi dell’attività e/o servizio. Le Regioni affrontano la gestione, la disciplina di dettaglio, l’adattamento alle esigenze locali degli obiettivi e dei principi definiti a livello superiore, i piani e i livelli degli interventi. In particolare a livello regionale si crea e definisce un metodo di lavoro, per consentire una elaborazione tecnico-scientifica di volta in volta corrispondente ai diversi livelli di governo, secondo criteri di flessibilità nell’individuazione delle competenze specifiche per i vari settori, da attribuire a gruppi di lavoro e alle articolazioni decentrate. È il caso dell’Agenzia delle entrate o delle agenzie per la formazione professionale.

Sotto l’unica etichetta di agenzia si sviluppano differenti tipologie di enti, per esempio l’agenzia che verifica e regolamenta, ovvero che fa da

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supporto tecnico-scientifico all’amministrazione attiva, ovvero che gestisce il sistema dell’informazione in un dato ambito (Agenzia per l’impiego); o ancora che promuove e svolge attività di ricerca.

Vincoli ad uno sviluppo effettivo di questi enti sono l’assenza di forme di autofinanziamento, la difficoltà degli enti locali a imporre tasse di scopo, la mancata attivazione di forti strutture di supporto.

Anche i margini di autonomia organizzativa sono piuttosto ristretti, elemento tanto più negativo se si pensa che le agenzie hanno usualmente natura multireferenziale. La capacità di autonoma legittimazione delle agenzie sarà tanto più sviluppata ai diversi livelli di governo quanto più le stesse, nel rapportarsi a loro, saranno in grado di svolgere un’efficace azione di coordinamento delle competenze presenti negli apparati amministrativi che ne costituiscono l’ossatura.

L’autonomia gestionale delle agenzie è poi decisamente condizionata dai forti poteri di vigilanza e indirizzo esercitati dalle amministrazioni competenti in sede di approvazione dei bilanci, e quindi della struttura organizzativa dell’agenzia, di approvazione dei programmi e di elaborazione di puntuali indirizzi.

La natura di ente strumentale emerge in particolare nel momento in cui l’amministrazione nomina i direttori, la cui durata in carica è simile al mandato del sindaco, del presidente o del governatore, sulla base di requisiti piuttosto generici e intuitu personae.

La creazione di agenzie ed enti strumentali non deve costituire una fuga dall’assunzione di responsabilità politiche in ambito di conoscenze e informazioni settoriali specifiche; anzi, le stesse possono contribuire all’integrazione tra conoscenze e regole tecniche, da un lato, e opzioni strategiche e decisioni politiche, dall’altro. Cioè possono divenire sedi per la negoziazione di regole tecniche specifiche e specialistiche se si trasformano in strumenti nei quali, attraverso un processo di partecipazione e d’informazione diffusa di tutti i soggetti interessati, i processi decisionali e le scelte di discrezionalità politico-amministrativa sono trasparenti.

D’altra parte le agenzie non possono essere configurate come enti indipendenti la cui legittimazione tecnica sottrae sfere di responsabilità agli organi di amministrazione attiva.

Possono invece rappresentare un ottimo laboratorio di esperienze per un nuovo modo di amministrare, in cui il momento dell’informazione e della partecipazione all’individuazione dei problemi e delle direzioni

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nelle quali svolgere l’azione amministrativa diviene trasparente e consapevole.

Da qui il fatto che sempre più spesso le agenzie hanno spiccate competenze tecniche, con un’apertura alla formazione e al dialogo con la comunità scientifica, da un lato, e un’accentuazione dell’autonomia organizzativa e dell’indipendenza del personale amministrativo che ne viene a far parte dall’altro punto.

L’Agenzia milanese mobilità e ambiente é la struttura che, per conto del

Comune di Milano, svolge attività tecniche, conoscitive e di studio, relative alla mobilità e all’ambiente; offre supporto e assistenza per la pianificazione in materia di mobilità (traffico e parcheggi) e ambiente (aria, rumore, elettromagnetismo ed energia), la pianificazione, il controllo e la regolazione del trasporto pubblico locale, lo sviluppo di sistemi infrastrutturali. È una srl avviata a diventare spa, con socio la Metropolitana milanese spa, di cui è prossima la scissione della quota al Comune di Milano, oggi suo cliente principale e con il quale ha siglato un contratto di servizio. Tale contratto assegna all’agenzia il ruolo di società a supporto dell’amministrazione, per conto della quale è tenuta a svolgere la gran parte della propria attività; alle iniziative esterne viene riservata una quota del 20% del fatturato. Viene così sottolineata la stretta relazione fra i due enti e, nel contempo, la possibilità ad allargare gli orizzonti operativi dell’agenzia.

L’agenzia ha una struttura operativa snella, con un organico stabile, relativamente contenuto, e una quota variabile di risorse umane, strettamente collegata ai progetti, costituita da esperti nelle varie materie. L’organigramma dell’Agenzia milanese mobilità e ambiente prevede: 1 direzione operativa dell’agenzia affidata all’amministratore unico; 4 direzioni che riguardano la mobilità; 1 direzione che riguarda l’ambiente; 1 direzione sistemi informativi e modellistica,che lavora a supporto delle altre direzioni.

Alle attività delle direzioni si affianca il lavoro degli uffici che si occupano rispettivamente dell’amministrazione, della sicurezza interna e del sistema qualità.

Nello svolgimento dei suoi programmi l’agenzia si avvale di una vasta rete di collaborazioni con aziende e istituzioni (Atm, Arpa, Enea, Acinnova, Aicq, Polis, Politecnico di Milano, Asstra) una struttura di convenzioni e collaborazioni in continua espansione, che va ad arricchire il patrimonio tecnico-scientifico dell’Agenzia.

L’Agenzia ha il compito di coordinare le attività del Comitato intersettoriale per la mobilità e l’ambiente, che rappresenta uno dei principali momenti di confronto collegiale tra i diversi settori comunali, gli enti, le aziende che sono coinvolti nella pianificazione, nella progettazione e nella gestione della mobilità, osservando anche lo stato dell’ambiente nell’area metropolitana.

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Le attività istituzionali dell’Agenzia esprimono la capacità progettuale e produttiva permanente della società e, in quanto tali, trovano copertura finanziaria nella spesa corrente del bilancio del Comune di Milano49.

Non mancano poi casi in cui sotto l’etichetta di “agenzia” si ritrovano

realtà affatto differenti. L’Agenzia di assistenza tecnica agli enti locali è un’istituzione costituita

dalla Provincia di Lecce per: la promozione di corsi di formazione e qualificazione professionale diretti a migliorare l’abilità, l’attenzione ai risultati e le conoscenze dei singoli profili professionali; la realizzazione di uno spazio di comunicazione telematica per offrire agli enti locali del territorio consulenza normativa e operativa; la creazione di una biblioteca di documentazione amministrativa al servizio degli enti interessati; il coordinamento in ambito provinciale di attività finalizzate all’introduzione di innovazioni procedimentali e allo scambio di esperienze organizzative; la promozione dell’istituzione di una Scuola permanente di studi e ricerche nei settori di intervento delle autonomie locali; l’organizzazione, in collaborazione con l’Università di Lecce, di convegni di studio, master e corsi di formazione di eccellenza nel settore dell’organizzazione degli enti locali; la stipula di convenzioni per attuare forme di cooperazione bilaterale con Comuni singoli o associati50.

49 Fonte <http://www.ama-mi.it>, 20/04/2004. 50 Fonte Provincia di Lecce – Intervista.

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4. L’adeguamento delle politiche del personale: azioni su elementi strutturali, sistemi di gestione e aspetti soft

Il ridisegno dei modelli organizzativi trova necessario completamento

nell’adeguamento delle politiche e delle scelte di gestione del personale. Come nel precedente capitolo, anche in questa parte si procede

all’evidenziazione di alcuni piani fondamentali di cambiamento attivati dagli enti negli ultimi anni, anche attraverso il riferimento a concrete esperienze tratte dalla banca dati dei Buoni esempi del Formez.

I principali aspetti di seguito evidenziati trovano sintesi e sistematizzazione in chiave propositiva all’interno delle Indicazioni finali, contenute nel secondo tomo di questo volume.

4.1. Il dimensionamento e la composizione degli organici

Il problema della sostenibilità della spesa ed il blocco alle assunzioni previsto dalle due ultime leggi finanziarie51 hanno imposto alle amministrazioni una particolare attenzione al ridimensionamento e modellamento dell’organico in funzione strategica, agendo sia sulla dimensione (quantità di dipendenti), sia sulla composizione (distribuzione sulle diverse categorie professionali) dello stesso.

In un contesto caratterizzato da forti vincoli all’azione e risorse scarse, che rendono non più sostenibili inefficienze, diviene fondamentale che la spesa, in particolare quella per il personale, sia di qualità.

51 Articolo 34 legge finanziara per il 2003 e articolo 53 legge finanziaria per il

2004.

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In merito a questo tema, gli enti, negli ultimi anni, hanno puntato soprattutto a: contenere/ridurre il numero di persone dipendenti, in particolare perseguendo indirizzi, rispettando imposizioni, di non reintegro del personale uscente; qualificare l’organico, modificandone la distribuzione per categoria di inquadramento e puntando su un miglioramento delle professionalità.

La azioni di qualificazione attivate dagli enti sono inquadrabili in quattro principali tipologie di intervento: esternalizzazione di numerose attività a “basso contenuto professionale” e, quindi, poco qualificanti; attività di formazione collegate a progressioni verticali, per il passaggio di categoria soprattutto dei profili più bassi; azioni di ridefinizione delle unità di vertice e dei ruoli dirigenziali; azioni di valorizzazione delle posizioni organizzative.

Gli effetti di tali azioni hanno consentito di ridurre – in alcuni casi addirittura eliminare dalla dotazione organica – i dipendenti appartenenti alla categoria A; di incrementare, sia pure in misura contenuta, il numero dei dipendenti collocati in categoria B e C; di rendere sempre più rilevante, in percentuale sul totale dell’organico, il numero dei dipendenti di categoria D; di snellire l’apparato dirigenziale.

Una testimonianza interessante dell’esito di queste politiche sulla

composizione degli organici è rintracciabile nei recenti lavori finali di due percorsi svolti in network che fanno riferimento alla SDA Bocconi: Le medie città a confronto, Le province a confronto, Le regioni a confronto.

Si tratta di iniziative a cui partecipano enti, circa 15 per ogni network, raggruppati per appartenenza allo stesso livello amministrativo e per dimensione territoriale simile. In particolare, rispetto all’analisi svolta presso gli enti aderenti, la composizione percentuale dell’organico, per categorie professionali, risulta essere, in media, la seguente:

Tabella 1 – La composizione percentuale dell’organico per categorie professionali Tipologia ente Anno Cat. A Cat. B Cat. C Cat. D Dir. Città medie 2002 4,6 33,7 37,6 21,2 2,9 Province 2003 3,6 33,7 30,1 29,5 3,0 Regioni 2002 3,6 23,4 25,0 39,1 8,9 Fonte: SDA Bocconi – Le medie Città a confronto

Questo a conferma di una dotazione organica costituita principalmente da

personale appartenente alle categorie centrali (B e C) e alla categoria D (in percentuale significativamente più elevata per Regioni e Province, impegnati

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più in attività di programmazione e meno in attività di produzione di servizi) e da pochi dirigenti.

Pur non rappresentando questo un campione statisticamente significativo, si ritiene che possa comunque rendere conto dell’evoluzione generale in atto negli enti territoriali del nostro Paese52.

4.2. La flessibilizzazione del rapporto di lavoro

Tre fattori hanno fatto da volano alla riforma del pubblico impiego: - la necessità di superare l’inefficienza dell’apparato pubblico legata

alla rigidità della specifica disciplina del rapporto di lavoro, ostacolo al pieno raggiungimento degli obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità dell’amministrazione;

- la necessità di utilizzare al meglio e in maniera più duttile le risorse umane in un contesto in cui la tensione sul controllo generale della spesa pubblica e, più in particolare, la pressione sulla parte rilevante della spesa rappresentata dalle remunerazioni dei dipendenti, hanno, di fatto, definito un blocco pressoché totale di assunzioni a livello di sistema;

- la necessità di potersi comunque assicurare risorse umane maggiormente qualificate, rispetto alle quali il pubblico impiego rischia di essere scarsamente attrattivo, con il pericolo di indurre una preoccupante dequalificazione dell’amministrazione nel suo complesso.

Il criterio ispiratore della riforma del pubblico impiego è stato l’avvicinamento tra la disciplina pubblica, caratterizzata da elevata rigidità di regole e procedure decisionali, e quella del lavoro subordinato nel settore privato, caratterizzato da strumenti decisionali più snelli e rapidi.

Tra le opportunità che questa trasformazione ha offerto – basti pensare al solo passaggio del contenzioso del pubblico impiego dalla giurisdizione amministrativa a quella ordinaria – c’è soprattutto l’estensione anche al settore pubblico delle formule lavorative flessibili già introdotte nel settore privato.

Le nuove tipologie di rapporto lavorativo, correntemente definite atipiche, si differenziano dalla disciplina del rapporto a tempo indeterminato relativamente a:

52 Fonte SDA Bocconi.

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- durata del rapporto: molte delle nuove tipologie lavorative prevedono un termine di scadenza, pur essendo l’assunzione definitiva variamente incentivata dalla legge;

- vincolo di subordinazione: è il caso dei cosiddetti co.co.co., ora sostituiti dai contratti a progetto previsti dalla cosiddetta legge Biagi (d.lgs. 276/2003);

- continuità della prestazione lavorativa: è il caso del lavoro intermittente, detto anche lavoro “a chiamata”, mediante il quale il lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa in modo discontinuo secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi;

- individualità della prestazione: è il caso del cosiddetto job sharing, in base al quale due lavoratori assumono solidalmente l’obbligo di adempiere la medesima prestazione lavorativa, in cambio di un solo stipendio;

- divieto di intermediazione del lavoro: un principio del diritto del lavoro ante-riforma vietava al datore di lavoro di utilizzare la forza lavoro di un’altra impresa, remunerando quest’ultima per il servizio ottenuto (il cosiddetto affitto della braccia); l’introduzione del lavoro interinale ha segnato, nei fatti, una rivisitazione di questo principio;

- modalità di svolgimento della prestazione: ad esempio, con il lavoro a distanza (telelavoro) si arriva alla delocalizzazione della prestazione lavorativa: il lavoratore, utilizzando le nuove tecnologie di comunicazione, effettua, in tutto o in parte, la propria attività lavorativa non più in azienda, ma dalla propria abitazione o in appositi centri delocalizzati;

- enfasi sugli aspetti formativi nell’inserimento al lavoro: si pensi all’introduzione del contratto di formazione-lavoro.

Le formule contrattuali sommariamente descritte introducono elementi di flessibilità nel rapporto di lavoro, intendendo con questo termine la possibilità, per i datori di lavoro, di reperire e utilizzare risorse umane con modalità più duttili rispetto al passato, vale a dire rispetto a quando l’assunzione a tempo indeterminato costituiva, salve limitate eccezioni, praticamente l’unico mezzo di acquisizione di personale.

La riforma del pubblico impiego, quindi, apre la porta alle nuove tipologie di lavoro anche nel settore pubblico: l’articolo del d.lgs. 29/1993, come modificato dall’articolo 22 d.lgs. 80/1998, dispone che le

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pubbliche amministrazioni «si avvalgono delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa». In realtà, la cosiddetta “legge Biagi” si applica solo parzialmente, e con non pochi problemi applicativi, alla pubblica amministrazione. Un ruolo di notevole rilievo ha, inoltre, la contrattazione collettiva che, di fatto, definisce la disciplina del lavoro flessibile nell’amministrazione.

L’impatto di queste innovazioni normative ha assunto una certa rilevanza solo negli ultimi anni, come risulta da una rilevazione dell’Aran effettuata nel 2001, di cui più sotto sono riportati alcuni dati sintetici. Cresce il numero delle amministrazioni che utilizzano le tipologie contrattuali atipiche: alla data della rilevazione, si riscontra che i tre quarti delle amministrazioni italiane fanno uso di contratti flessibili; ma, se si va ad analizzare il rapporto tra dipendenti immessi in organico mediante contratti atipici e quelli assunti a tempo indeterminato, si constata che questo rapporto è ancora piuttosto basso; allo stesso modo, il numero di lavoratori flessibili nel settore pubblico è molto più basso che nel privato.

Se, in termini assoluti, la diffusione nella pubblica amministrazione degli strumenti di flessibilità è ancora esigua, la tendenza è però verso la crescita53. Anche i dati del 2002 del Conto annuale del pubblico impiego della Ragioneria generale dello Stato evidenziano un incremento pari al 36,9% dei rapporti a tempo a parziale rispetto all’anno precedente.

La tipologia contrattuale, tra quelle flessibili, cui si fa maggiormente ricorso è il rapporto a tempo determinato. In crescita sono anche le collaborazioni coordinate e continuative: nel 2002 i co.co.co. alle

53 In tema di flessibilizzazione del rapporto di lavoro, la Regione Toscana ha avviato un progetto volto a creare i presupposti tecnologici e organizzativi per sperimentare il telelavoro come forma di flessibilità nell’organizzazione.

Altra esperienza articolata e di rilievo è quella della Regione Emilia Romagna, che ha promosso l’avvio e la sperimentazione di rapporti di lavoro a distanza, coinvolgendo alcuni dipendenti in varie attività quali inserimento dati, ricerca attraverso fonti web, istruttoria e controllo di pratiche amministrative, attività redazionale e di ricerca, produzione di pagine web, ispezioni con relativa elaborazione di report. L’introduzione del telelavoro, attualmente sono coinvolti 68 dipendenti, ha prodotto una maggiore conoscenza ed un migliore utilizzo, da parte dei lavoratori coinvolti, della Ict; un modello più agile e più orientato ai risultati e meno alla presenza; un rapporto più professionale, con una forte componente di fiducia. Per approfondimenti, si rimanda alla banca dati Buoni esempi del Formez, cit.

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dipendenze della pubblica amministrazione costituivano il 4% dell’organico totale e il 30% del complesso dei rapporti flessibili.

Questi dati sono ancora più significativi se si tiene conto che il personale della pubblica amministrazione non è aumentato; pertanto, i rapporti flessibili non crescono solo in termini assoluti, ma anche in percentuale rispetto ai rapporti a tempo indeterminato.

Tabella 2 - Peso % di tipologie contrattuali flessibili impiegate nella pubblica amministrazione Forma contrattuale flessibile Peso % tempo determinato 27,5% formazione lavoro 0,4% Interinale 2,4% part time 25,4% co.co.co 44,3% Fonte: Aran (Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni), anno 2001.

I dati in tabella 2, seppure da leggersi con cautela54, consentono di cogliere

come co.co.co. e part-time siano in assoluto le due tipologie contrattuali più utilizzate tra quelle relative alle forme flessibili di impiego. In particolare, per il part-time non va dimenticato che il quadro normativo incentiva molto i lavoratori a ricorrervi, tanto che addirittura in alcuni casi l’ente “subisce” il part-time come scelta del lavoratore e non lo attiva come strumento di flessibilizzazione per l’impiego delle risorse. Una smentita sulle aspettative è invece costituita dalla bassa percentuale di contratti attivati come lavoro interinale e contratto di formazione lavoro, le cui modalità procedurali di attivazione, in alcuni casi, hanno fatto da deterrente alla relativa introduzione, ad esempio il lavoro interinale richiede un bando per l’individuazione della società fornitrice. Che il fenomeno sia recente lo confermano anche alcuni dati relativi alla variazione percentuale di attivazione di tipologie di contratti flessibili tra gli anni 2000 e 2001. Infatti, nell’anno 2001 le forme flessibili rappresentavano ormai il 20% del totale dei contratti, con una crescita rispetto all’anno precedente del 15%, così distribuita tra le varie tipologie contrattuali:

Tabella 3 – Variazione nel tempo dell’impiego di tipologie contrattuali flessibili Tipologia contrattuale Var. % 2001/2000

54 Soprattutto per le collaborazioni continuate e continuative, in alcuni casi ci si riferisce al numero di contratti attivati, in altri al numero di persone con cui sono attivati i contratti; inoltre, varia fortemente anche il contenuto dell’attività lavorativa.

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tempo determinato 15% formazione lavoro 95% Interinale 568% Fonte: Aran (Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni), anno 2001.

Infine, è interessante l’accordo sottoscritto tra la Provincia di Parma e le

organizzazioni sindacali, nel mese di dicembre 2003, per la definizione di un quadro normativo di tutela del lavoro atipico. L’accordo è volto ad affermare il riconoscimento di tutte le forme di impiego e contempla il miglioramento delle condizioni generali di lavoro e la costruzione di una rete di protezione sociale per tutti i lavoratori atipici, ad iniziare dai collaboratori coordinati e continuativi55. In particolare, l’accordo regolamenta i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa o a progetto, le prestazioni d’opera rese con o senza partita Iva e ad ogni altra prestazione resa in forma di lavoro non dipendente instaurati con l’Ente Provincia di Parma e disciplina le specifiche garanzie di tutela nei loro confronti, senza con ciò mutarne la natura giuridica propria. Le parti danno atto che le co.co.co. costituiscono un importante segmento dell’attuale mercato del lavoro, direttamente collegato alle dinamiche complessive che governano le modalità di organizzazione del lavoro e della produzione. La Provincia di Parma e le organizzazioni sindacali firmatarie dell’accordo considerano necessaria la definizione di un quadro normativo di tutela del lavoro atipico ampio ed articolato, volto ad affermare il riconoscimento di tutte le forme di lavoro, che contempli il miglioramento delle condizioni generali di lavoro e la costruzione di una rete di protezione sociale per tutti i lavoratori atipici, ad iniziare dai collaboratori coordinati e continuativi. Una meditata lettura dell’accordo consente di definire con chiarezza le seguenti aree: professionalità coinvolte e natura dell’incarico; tipologia e caratteristiche dei contratti individuali di collaborazione; modalità di esecuzione della collaborazione e modalità di gestione delle informazioni; durata del contratto e monitoraggio degli stati di avanzamento del progetto; collegamento funzionale del collaboratore con il datore di lavoro pubblico di riferimento; compenso e modalità di erogazione; disciplina applicata in materia di previdenza, assicurazioni e trasferte; tutela dei contraenti nel caso di impossibilità temporanea della prestazione, in caso di infortunio, malattia, maternità; sicurezza sul lavoro; formazione; costituzione di una commissione paritetica per la gestione dei diversi contratti in essere presso l’ente; diritti sindacali e modalità e condizioni per l’eventuale proroga del contratto.

Fonte: Provincia di Parma

55 Dettagli sull’iniziativa e testo del regolamento si trovano sul sito

<http://www.provincia.parma.it> (20/04/2004).

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4.3. I sistemi di programmazione del personale

In tema di programmazione degli organici, l’articolo 6 del d.lgs. 165/2001 prevede che, nelle amministrazioni pubbliche, l’organizzazione e la disciplina degli uffici, nonché la consistenza e la variazione delle dotazioni organiche, obbligatoriamente definite con cadenza almeno triennale, siano determinate al fine di: accrescere l’efficienza delle amministrazioni; razionalizzare il costo del lavoro pubblico, contenendo la spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli di finanza pubblica; realizzare la migliore utilizzazione delle risorse umane nelle pubbliche amministrazioni.

A tali principi, le ultime leggi finanziarie (articolo 34 legge finanziaria per il 2003 e articolo 53 legge finanziaria per il 2004) hanno affiancato alcune limitazioni all’autonomia organizzativa che dovrebbe caratterizzare gli enti locali.

In questo contesto è divenuto ancora più importante inquadrare le scelte relative alla dotazione organica in un’ottica di coerenza strategica rispetto al raggiungimento degli obiettivi di amministrazione56.

Peraltro, l’attività di programmazione degli organici non è volta alla sola individuazione di professionalità presenti o vacanti nell’organizzazione, ma diviene occasione di analisi della disponibilità di attitudini, capacità e cultura, potenzialità e aspettative di ciascun dipendente.

È il caso della Provincia di Venezia, che ha progettato un sistema per la

programmazione dell’organico secondo un approccio di tipo strategico, dove la strategicità è definita in relazione a:

- orizzonte temporale di medio-lungo periodo; - definizione di aree critiche e prioritarie di intervento; - legame con gli altri sistemi di gestione del personale. In particolare, la metodologia adottata prevede alcuni passaggi chiave: - l’esplicitazione degli orientamenti organizzativi generali di ente; - la mappatura delle attività e delle risorse assorbite dai settori per la

realizzazione delle attività; - l’analisi dell’evoluzione passata e futura dei singoli settori in termini di

mix di attività svolta; - l’analisi dell’evoluzione passata e futura dei singoli settori in termini di

composizione quali-quantitativa dell’organico;

56 Si cfr. il paragrafo 4.1.

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- tali analisi consentono di indagare le competenze chiave di cui l’ente deve dotarsi e di individuare le aree critiche su cui è necessario intervenire (la proposta delle azioni di intervento spetta ai dirigenti di settore).

Un sistema così strutturato consente di definire un piano “globale” di acquisizione delle nuove professionalità, sia tramite attivazione di rapporti di impiego, sia tramite la definizione di piani di formazione mirati. Il sistema, nello specifico, prevede il coinvolgimento di diversi soggetti (Direzione generale, Direzione del personale, Direzioni di settore) e l’impiego di strumenti (schede, fogli di lavoro ecc.) che consentano strutturare il processo di analisi e formulazione delle decisioni.

Fonte: SDA Bocconi

È importante evidenziare il fatto che l’attivazione di sistemi di rilevazione ed analisi a supporto della programmazione del personale consente di spostarsi da una visione meramente esecutiva di un obbligo normativo (logica dell’adempimento), alla creazione di un’opportunità per fare il punto sullo stato dell’organizzazione e, soprattutto, sulle sue prospettive future (logica dello sviluppo).

4.4. La revisione dei profili professionali e le nuove professionalità

Il processo di trasformazione degli enti locali, a seguito del cambiamento in atto delle relative funzioni, ha messo in evidenza l’esigenza di individuare i profili di competenze critici per l’esercizio delle nuove responsabilità.

Il passaggio dal concetto di “conoscenze detenute” a quello di “profilo di competenze” intende sottolineare gli aspetti di integrazione e complementarietà tra conoscenze, attitudini e abilità del prestatore di lavoro.

Da quanto detto, risulta chiaro come l’organizzazione possa dirsi efficace nel momento in cui valorizza le risorse in posizioni che richiedono l’attivazione di comportamenti e modalità di azione coerenti con le più profonde attitudini ed abilità espresse dalle stesse.

Nelle esperienze in cui è stata attivata, la riflessione sul collegamento tra nuove o rinnovate aree di attività e nuove professionalità necessarie al presidio delle stesse si è fondata sulla selezione delle aree di attività “strategiche”, sulla codificazione delle conoscenze e delle abilità critiche per l’ente, e sulla conseguente qualificazione del fabbisogno di professionalità, ovvero dei profili professionali cruciali per il futuro.

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La Regione Lombardia ha avviato, negli ultimi anni, diversi progetti e

attività per l’analisi del fabbisogno e l’adeguamento delle competenze del personale regionale. Tra questi, è di particolare interesse la “Mappa dei saperi”. L’attività di mappatura delle competenze interne è stata intrapresa, nel corso del 2002, con il duplice scopo di pervenire alla definizione di una metodologia (definizione di strumenti di indagine, ricerca e mappatura) per la rilevazione delle competenze ritenute critiche, in quanto maggiormente necessarie per “realizzare il nuovo modello di Governance regionale” e di individuare e rilevare le competenze trasversali (comuni a tutti i titolari della posizione organizzativa di “quadro”) e quelle specifiche collegate agli “Obiettivi di governo regionali (OGR)”57.

In realtà, il progetto è stato avviato per realizzare anche una serie di finalità di medio e lungo periodo consistenti nel «rendere disponibili informazioni attendibili sul personale relativamente alle competenze attualmente possedute e a quelle necessarie nel prossimo futuro»; nel favorire il conseguimento degli obiettivi di governo regionali: le indicazioni circa le opportunità di sviluppo di determinati profili di competenze che emergeranno dalla mappatura serviranno, anzitutto, a meglio presidiare lo svolgimento di quelle attività e modalità lavorative che sono in più stretta relazione con il conseguimento degli obiettivi gestionali regionali affidati alle diverse Direzioni; nel ripensare la configurazione di ruoli e posizioni, al fine di migliorare la coerenza tra competenze possedute e ruolo ricoperto; nell’incidere sui sistemi di progressioni orizzontali e verticali (e sui criteri adottati in tali ambiti), nonché sui meccanismi di attribuzione degli incarichi.

L’obiettivo ultimo è quello di favorire una più razionale programmazione dei percorsi di sviluppo professionale, come pure dei percorsi formativi dei dipendenti.

La prima sperimentazione è stata condotta nel periodo 2002-2003, in 15 delle 17 Direzioni generali regionali (le due escluse sono Presidenza e Affari generali) ed ha riguardato pressoché tutti i quadri (titolari di posizione organizzativa), in considerazione della centralità del ruolo giocato da questi ultimi nel promuovere ed attuare la realizzazione degli obiettivi di governo.

In totale, su 416 quadri assegnati nelle 15 Direzioni attivamente coinvolte su tutto il processo di rilevazione, 402 (96%) hanno partecipato alla mappatura delle competenze trasversali.

La parte di progetto svolta ad oggi è stata articolata in due fasi: 1) Identificazione dei repertori di competenze.

57 Considerata la natura di strumento gestionale a supporto dell’attività delle

Direzioni generali, la focalizzazione sugli obiettivi di governo regionale si è imposta quale scelta obbligata in quanto essi, insieme agli obiettivi del piano regionale di sviluppo, rappresentano le priorità fondamentali che dovrebbero orientare gli sforzi e ogni decisione di investimento di risorse economiche ed organizzative assunta dalle Direzioni generali.

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Per individuare le competenze di governo collegate agli obiettivi direzionali (obiettivi di governo regionali), si è seguita una logica di tipo bottom-up, attraverso il ricorso a focus group svolti con l’obiettivo di individuare un repertorio di competenze di cui andare poi a verificare la presenza nel personale delle direzioni regionali. Le competenze si distinguono in trasversali – comuni a tutti i quadri concorrenti al conseguimento degli obiettivi di governo regionali; ne sono state individuate sei (consapevolezza organizzativa, sintesi e comunicazione, analisi e orientamento al risultato, integrazione e relazione, disponibilità al cambiamento e innovazione, programmazione e controllo); per ciascuna è stata definita poi una declaratoria che esplicita i diversi gradi con cui la competenza può essere detenuta da un dipendente – e specifiche, collegate in maniera diretta alle specificità dell’obiettivo cui si riferiscono.

2) Autorilevazione del livello di possesso delle competenze. Nella fase successiva all’identificazione delle competenze legate agli

obiettivi di governo regionali, ogni quadro ha ricevuto i repertori delle competenze relativi agli obiettivi sui quali è coinvolto e, con il supporto e la supervisione del proprio dirigente di riferimento, ha rilevato il personale livello di possesso delle competenze.

Fonte: SDA Bocconi Altra esperienza interessante è quella della Provincia di Bologna, che ha

attivato un sistema di definizione dei profili professionali per razionalizzare le professionalità presenti nell’ente e favorire al massimo uno sviluppo professionale interno, dando spazio alle capacità e conoscenze acquisite dai dipendenti sul lavoro. Sono stati ridotti e razionalizzati i profili professionali esistenti, al fine di rendere più efficace il processo di reclutamento, di favorire la mobilità interna ed esterna del personale e di rendere più flessibile la gestione delle risorse umane. Nella fase finale del progetto, al concetto più generale di “profilo professionale” è stato aggiunto quello più specifico di “posizione lavorativa”, per descrivere i diversi ruoli all’interno dell’Ente, senza dover modificare il numero dei profili.

La realizzazione del progetto ha comportato maggiore flessibilità del personale all’interno e verso l’esterno dell’Ente, più motivazione e spinta al cambiamento ed alla crescita professionale. Inoltre ha determinato un miglioramento della mobilità interna e maggiore elasticità nelle mansioni da conseguire, una maggiore autonomia per i dirigenti nella gestione delle risorse umane affidate e maggiore consapevolezza della propria professionalità e del proprio potenziale da parte dei dipendenti. Tale progetto ha, quindi, consentito non solo una collocazione ottimale del personale nei vari posti e ruoli dell’ente, sia in fase di primo ingresso sia di successive mobilità o sviluppi di carriera, senza dover creare singoli profili per singoli posti, ma anche la semplificazione ed il miglioramento delle procedure di selezione, che vengono effettuate in maniera più mirata.

Fonte: Banca dati BuoniEsempi.it Formez

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4.5. I sistemi di reclutamento e selezione

I sistemi di reclutamento nella pubblica amministrazione si sono oggi in parte differenziati rispetto al profilo del dipendente (esempio chiamata diretta dalle liste di collocamento per le categorie A; ampi margini di libertà sulle nomine dei dirigenti, anche attingendo al mercato della dirigenza privata) e al tipo di contratto che si intende attivare58.

Ad oggi, comunque, è ancora la selezione tramite concorso pubblico la modalità più diffusa di reclutamento attuata dalle pubbliche amministrazioni.

Esiste però un nodo legato al concorso pubblico: le attuali modalità di svolgimento/strutturazione del concorso spesso non consentono la selezione del profilo adeguato a ricoprire il posto. Questo ha indotto alcuni enti a rivedere i sistemi di selezione tramite concorso pubblico, anche in ottica di semplificazione59. Gli interventi hanno riguardato soprattutto:

- il processo organizzativo che pone in essere la selezione: in molti casi, si è assistito al coinvolgimento di nuovi soggetti nella progettazione del bando, con creazione di team composti da persone della direzione del personale, del settore che ha richiesto il reclutamento ed eventuali esperti di selezione delle risorse umane;

- la semplificazione del processo, finalizzata alla velocizzazione dell’iter ed al rispetto di un tempo obiettivo per l’assunzione;

- la metodologia con cui la selezione viene realizzata; - la diversificazione delle prove in funzione del profilo professionale

ricercato; - l’introduzione di nuovi tipi di prove (esempio simulazioni), per

poter passare da una valutazione basata solo sulle conoscenze (aderente al modello burocratico di pubblica amministrazione, per cui il grado di

58 Si cfr. il paragrafo 4.2. 59 Il Comune di Ravenna ha attivato un progetto di modifica delle procedure di

selezione, introducendo una selezione sperimentale per i ragionieri, sostituendo alle tradizionali tre prove, due scritte ed una orale, un’unica prova scritta congegnata con spirito moderno, europeistico e finalizzata alla individuazione rapida ed economica della professionalità più adeguata e qualificata. Per approfondimenti, si rimanda alla banca dati Buoni esempi del Formez, cit.

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preparazione teorica è sufficiente a garantire la qualità della prestazione) alla valutazione integrata su più aree (competenze, conoscenze, attitudini, abilità, capacità organizzative, motivazione);

- la scelta di pubblicizzazione anche attraverso nuovi canali di comunicazione, quali ad esempio siti e portali.

La Provincia di Pordenone ha lavorato sulla semplificazione e accelerazione

delle procedure di reclutamento del personale, in particolare rivedendo le procedure relative all’espletamento dei concorsi pubblici e introducendo modalità nuove e semplificate che consentono di eliminare i formalismi non necessari e favoriscono la rapida conclusione del procedimento. In particolare, non è richiesta la presentazione della domanda di partecipazione. I candidati presenti nel giorno e all’ora stabilita dal Bando sono considerati tutti ammessi alla prova concorsuale.

La nuova procedura prevede la preventiva definizione dell’intero calendario delle prove concorsuali, nonostante alcuni problemi di implementazione, si è rivelata senza dubbio efficace ed efficiente (sono assicurati tempi brevi e certi per la conclusione del procedimento) e viene ora seguita in tutti i concorsi banditi dalla Provincia.

La procedura concorsuale è stata semplificata eliminando l’intera fase di ammissione dei candidati e i relativi adempimenti di rito, con impatto anche sull’utenza esterna.

La realizzazione del progetto ha indotto nel personale un atteggiamento di maggiore disponibilità verso l’utenza (interna e esterna). Inoltre è stata acquisita una maggiore capacità al lavoro di gruppo, rafforzando il senso di appartenenza all’ufficio e all’ente.

Il progetto ha contribuito ad incrementare la capacità del personale interessato ad operare in maniera flessibile e con particolare attenzione alle esigenze dell’utenza esterna (i candidati) e interna ( gli uffici interessati alle assunzioni). Inoltre il personale ha sviluppato una più ampia autonomia operativa dando risposte adeguate a situazioni non predefinite e affrontando problematiche non previste.

Fonte: Banca dati BuoniEsempi.it Formez

4.6. La gestione delle carriere e il riconoscimento della professionalità

Le leve a disposizione degli enti per l’attivazione di percorsi di carriera e il riconoscimento del grado di sviluppo professionale acquisito dai dipendenti sono costituite da progressioni economiche orizzontali, progressioni verticali, attribuzioni di ruoli in posizioni organizzative di

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responsabilità o di compiti di alta professionalità, definizione di sentieri di crescita professionale anche tramite percorsi di formazione.

Si è assistito, in passato, ad un’applicazione distorta di queste leve da parte di molti enti. Nel caso delle progressioni, sono state attuate politiche generalizzate di passaggio di categoria o di livello economico, senza una valutazione dell’impatto, anche in termini motivazionali. Spesso sono state la pressione di scelte politiche o le rivendicazioni sindacali a guidare l’impiego di questi istituti contrattuali, anziché politiche consapevoli di valorizzazione dell’organico nel medio termine. Nel caso dell’affidamento di particolari ruoli e responsabilità, spesso l’istituto è stato attuato in funzione di un riconoscimento economico al singolo individuo, depotenziandone l’impatto in chiave organizzativa più generale. Nel caso della formazione, essa è stata a volte vissuta come adempimento e non come esito di una riflessione sia sul percorso professionale delle persone all’interno dell’ente, sia sulle esigenze di professionalità dell’ente stesso.

Gli errori commessi in passato stanno ora spingendo alcuni enti a rivedere il proprio approccio a queste leve60.

4.7. I sistemi di valutazione, le retribuzioni e gli incentivi

Quello che accomuna le azioni degli enti negli ultimi anni è sicuramente il forte impegno profuso nella definizione e nell’attivazione di sistemi di valutazione.

Anche se spesso i sistemi di valutazione sono stati introdotti e vengono utilizzati esclusivamente per assolvere all’obbligo normativo dell’erogazione degli incentivi monetari collegati alla produttività, in alcuni casi tali sistemi costituiscono invece un supporto reale alla gestione del personale, sia per la gestione delle leve retributive e motivazionali, che per la definizione di percorsi di carriera.

60 Nel Comune di Pesaro Urbino un gruppo di lavoro interno all’ente, con il supporto di un consulente esterno, ha elaborato i criteri generali e le nuove modalità di cui devono tener conto le commissioni incaricate delle selezioni interne, adattandoli di volta in volta alle situazioni specifiche; per ogni profilo oggetto di selezione, le commissioni hanno definito le modalità da adottare ed il peso nella valutazione complessiva. Per approfondimenti, si rimanda alla banca dati Buoni esempi del Formez, cit.

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Il cammino di introduzione delle metodologie di valutazione negli enti è stato caratterizzato da tre differenti stadi di maturazione: negli anni ’80 i sistemi si sono caratterizzati soprattutto per una forte tensione alla oggettività, tanto da essere incentrati esclusivamente sulla rilevazione di dati oggettivi ancorché insignificanti ai fini della valutazione (esempio la presenza in servizio, parametrata alla categoria di appartenenza); dalla seconda metà degli anni ’80 e fino alla fine degli anni ’90, gli enti hanno iniziato ad ancorare l’oggetto dalla valutazione al conseguimento di obiettivi e risultati, attivando sistemi legati alla definizione di piani di lavoro piuttosto che a “progetti obiettivo”61; infine, negli anni 2000, si è assistito al consolidamento di metodologie ancorate a sistemi di valutazione permanente e inserite in politiche di valutazione fondate sulla logica del “premio”62.

In molti enti il volano del cambiamento è stata l’introduzione del nucleo di valutazione. Infatti, laddove non si è trattato di mero

61 Il Comune di Cinisello Balsamo ha elaborato un sistema di erogazione dei compensi incentivanti basato su progetti, in modo da evitare la distribuzione a pioggia dei compensi incentivanti. La valutazione individuale ha favorito la diffusione di un modo di lavorare orientato ai risultati ed un maggiore coinvolgimento di tutto il personale dell’ente in qualità di soggetti attivi dell’iniziativa. Tra i risultati conseguiti: la possibilità di verificare il grado e/o la qualità di raggiungimento degli obiettivi da parte dei dipendenti; la diminuzione delle contestazioni e del livello conflittuale nella trattativa sindacale; il deciso e progressivo miglioramento nei tempi di approvazione negli atti di programmazione dell’ente. Per approfondimenti, si rimanda alla banca dati Buoni esempi del Formez, cit.

62 La Provincia di Varese ha avviato il “Progetto P3” per il sistema di incentivazione delle risorse umane, quale uno dei molteplici strumenti per l’attivazione di un sistema qualità e di una serie di iniziative organizzate e finalizzate al miglioramento dell’attività dell’ente, introducendo i principi della qualità totale e del miglioramento continuo dell’attività.

L’associazione intercomunale “Bassa Romagna” ha avviato un sistema di valutazione dei responsabili dei servizi dei comuni aderenti, per gestire il sistema di valutazione, che supporta i nuclei di valutazione e gestisce il sistema di controllo collegato al piano esecutivo di gestione (peg), assicurando la verifica del grado di attuazione degli obiettivi dei responsabili dei servizi degli enti e si occupa della liquidazione delle indennità di posizione e risultato.

Il Comune di Rimini ha invece rivisto i propri strumenti di gestione delle risorse umane. In particolare, l’amministrazione comunale sta lavorando al «perfezionamento degli strumenti di gestione della valutazione delle posizioni di lavoro, dei risultati, delle prestazioni lavorative, del potenziale e della metodica applicativa».

Per approfondimenti, si rimanda alla banca dati Buoni esempi del Formez, cit.

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adempimento formale, il nucleo di valutazione ha rappresentato spesso l’agente di promozione dello sviluppo di nuovi metodi di valutazione. Questo ha consentito alla classe dirigente di sviluppare una nuova cultura della valutazione, non solo rispetto al proprio operato, ma anche e soprattutto rispetto al proprio ruolo di valutatore del personale dipendente.

Negli enti che più hanno investito nell’attivazione di logiche di valutazione, sono stati definiti sistemi articolati volti anche a salvaguardare la differenziazione di ruoli e prerogative tra personale dirigente e personale dipendente. Questo ha condotto, in particolare, all’impiego di strumenti e procedure diversificate per differenti categorie professionali interessate dal processo di valutazione: esempio schede differenziate per la valutazione sul risultato e sulla produttività, piuttosto che sui comportamenti e le capacità. Proprio l’impiego di questi sistemi articolati, peraltro impegnativi in sede di prime applicazioni, ha significato il passaggio da metodi il cui esito conduceva ad una retribuzione accessoria di fatto fissa ed uguale per tutti, alla implementazione della logica del “premio”, per cui la retribuzione accessoria legata alla valutazione è “non dovuta”, selettiva, differenziata ed è correlata all’effettivo merito e impegno dimostrato, di gruppo e/o individuale63.

Anche se, a tutt’oggi, permangono alcuni elementi di difficoltà, legati soprattutto ad una cultura ancora avversa al riconoscimento e alla valorizzazione della differenziazione, nelle migliori esperienze i sistemi di valutazione si sono ispirati ai principi guida della trasparenza, dell’equità, della coerenza e della continuità e sono ormai applicati per la verifica sia del raggiungimento degli obiettivi (valutazione sui risultati), sia delle capacità del singolo (valutazione sui comportamenti).

Come per la valutazione, anche per le retribuzioni le leve a disposizione degli enti si differenziano a seconda che si tratti di personale dipendente o dirigente. La differenziazione delle leve e della normativa di riferimento fa sì che l’ente abbia, per queste due categorie

63 Il consorzio per il distretto tecnologico del canavese ha attivato il nucleo di

valutazione in forma associata, al fine di realizzare un sistema di valutazione del personale efficace ed efficiente, anche grazie all’istituzione di forum periodici, quali strumenti di confronto professionale tra i dipendenti degli enti locali. Per approfondimenti, si rimanda alla banca dati Buoni esempi del Formez, cit.

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di personale, due diversi approcci e diversi gradi di libertà di azione per l’attivazione di politiche retributive differenziate.

Per la dirigenza, infatti, è decisamente ampio lo spazio di azione in cui l’ente può esprimersi in termini di politiche retributive: basti pensare al caso di dirigenti assunti dall’esterno per chiamata diretta con incarico a tempo determinato o, ancora, al peso della parte “flessibile” della retribuzione della dirigenza (quella su cui l’ente è “libero” di scegliere), che ormai può costituire una parte rilevante dello stipendio del dirigente (in alcuni casi anche superiore al 30%).

Per quanto concerne invece i sistemi retributivi relativi al personale dipendente, gli istituti contrattuali previsti sono, oltre alla retribuzione di base legata al sistema d’inquadramento, le posizioni organizzative e le alte professionalità, i compensi incentivanti produttività e miglioramento dei servizi, le progressioni economiche orizzontali, le progressione verticali, le indennità di comparto – introdotte con l’ultimo Ccnl 2004 e che, di fatto, stempera l’autonomia degli enti nell’impiego delle risorse accessorie –, e le altre indennità legate a particolari condizioni di prestazione del lavoro64.

4.8. La mobilità

Quando si parla di mobilità, occorre prioritariamente distinguere la mobilità interna, che opera all’interno del singolo ente, trasferendo il dipendente da una sede operativa o unità organizzativa ad un’altra, dalla

64 Per la retribuzione dei dirigenti, legata appunto alla retribuzione di risultato, nel

1999 la Provincia di Rimini ha predisposto, in collaborazione con il nucleo di valutazione dei dirigenti appositamente costituito, un modello di valutazione al fine di rendere meno soggettiva possibile la valutazione delle prestazioni dei dirigenti e la attribuzione della relativa retribuzione di risultato.

Il modello, attualmente in fase di revisione, è costituito da due griglie di indicatori, con peso diverso; la prima di tipo oggettivo, basata sul raggiungimento degli obiettivi e sul modo di raggiungerli, la seconda, di tipo soggettivo, relativa alle capacità gestionali dei dirigenti. Per approfondimenti, si rimanda alla banca dati Buoni esempi del Formez, cit.

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mobilità esterna, che comporta il passaggio dello stesso da una pubblica amministrazione ad un’altra65.

La mobilità è, pertanto, una procedura di reclutamento del personale, prevalente rispetto a quella concorsuale, avente il triplice pregio: di garantire l’acquisizione di personale già in possesso di esperienza professionale; di consentire un risparmio di spesa all’ente che evita così le procedure concorsuali; di accelerare il procedimento, in quanto si possono omettere le procedure concorsuali.

La disciplina della mobilità è contemplata dal d.lgs. n. 29 del 3 febbraio 1993 e successive modifiche ed integrazioni; in particolare, gli articoli 33, 34 e 35 fanno riferimento a diverse tipologie di mobilità: mobilità volontaria tra enti dello stesso comparto o tra enti appartenenti a comparti diversi; mobilità coattiva per effetto di trasferimento o conferimento di attività ad altri soggetti pubblici o privati; mobilità collettiva per eccedenza di personale.

L’articolo 7 della legge n. 3 del 16 gennaio 2003, recante “Disposizioni ordinamentali in materia di pubblica amministrazione” (S. O. n. 5/L alla G.U. n. 15 del 20 gennaio 2003), ha innovato il d.lgs. n. 165, 30 marzo 2001, introducendo l’articolo 34-bis in materia di mobilità del personale delle pubbliche amministrazioni.

Questa disposizione prevede che le amministrazioni pubbliche, prima di avviare le procedure di assunzione di personale con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, devono inviare una comunicazione contenente gli elementi conoscitivi relativi al concorso da bandire (l’area, il livello, la sede di destinazione dei posti da coprire, nonché, se necessario, le funzioni e le eventuali specifiche idoneità richieste) al Dipartimento della funzione pubblica, che forma e gestisce l’elenco del personale in disponibilità dipendente dalle amministrazioni dello Stato e dagli enti pubblici non economici nazionali (articolo 34, comma 2, d.lgs. 165/2001) e alle strutture regionali e provinciali (di cui al d.lgs. n. 469 del 23 dicembre 1997), che gestiscono l’elenco del personale in disponibilità dipendente dalle altre amministrazioni (articolo 34, comma 3, d.lgs. 165/2001).

65 Quest’ultima si concretizza in un vero e proprio trasferimento di personale dalle

dipendenze di un datore di lavoro a quelle di un altro datore di lavoro, mediante estinzione del precedente rapporto e la costituzione di un nuovo rapporto di impiego.

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La nuova normativa è volta ad agevolare la ricollocazione del personale collocato in disponibilità ai sensi degli articoli 33 e 34 del d.lgs. 165/2001 oppure in forza di specifiche disposizioni legislative, nonché del personale coinvolto da processi di mobilità collettiva (non quindi per i casi di mobilità volontaria), creando un ponte fatto di comunicazioni preventive tra le esigenze di assunzione delle amministrazioni e il riassorbimento del personale che si trovi in situazione di eccedenza, sia che si tratti di personale dello stesso comparto, che di un comparto differente.

Ad oggi la mobilità è ancora fenomeno poco diffuso66 nel nostro Paese: la mobilità interna, che dovrebbe rappresentare un fattore chiave per la flessibilità del modello organizzativo di ente, nonché una grande opportunità per i dipendenti, è spesso osteggiata da difficoltà legate alla cultura dei processi decisionali e dal sistema di relazioni sindacali degli enti; anche la mobilità tra enti rappresenta una leva positiva ed una buona opportunità sia per gli enti (ad oggi peraltro la mobilità coincide con l’unica possibilità di assunzione attuabile), che per di dipendenti (quale occasione di crescita professionale); tuttavia fatica ad affermarsi, soprattutto per la bassa propensione alla mobilità territoriale che ancora caratterizza i dipendenti pubblici.

4.9. La formazione e lo sviluppo della professionalità

Per la maggior parte degli enti quello della formazione è ormai un meccanismo permanente dell’attività amministrativa, come dimostrano i dati sulla quantità di formazione erogata, sempre in aumento, e sulla correlata spesa impegnata per tale voce, nonché le testimonianze relative alla sofisticazione di alcune attività di supporto alla pianificazione delle attività formative (ad esempio analisi fabbisogni, programmazione, valutazione di risultati).

66 Sono pochi gli enti che si sono espressamente occupati di mobilità, tra questi è

possibili ricordare il Comune di Venezia, che ha definito il regolamento per la mobilità interna e esterna, la Provincia di Alessandria, che ha steso il regolamento per la mobilità esterna, e la Provincia di Parma, che ha definito il regolamento per la mobilità interna.

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La formazione, quindi, sta via via dismettendo i panni di mero adempimento o di passaggio obbligato in vista di selezioni interne, per divenire un vero sistema operativo di gestione del personale, volto sia allo sviluppo e al mantenimento all’interno dell’ente di conoscenze e competenze strategiche, sia alla definizione di percorsi di crescita professionale dei singoli dipendenti.

La Direttiva del Dipartimento per la funzione pubblica del 13/02/2001 sulla formazione e la valorizzazione del personale delle pubbliche amministrazioni fornisce utili indirizzi per migliorare la qualità dei processi formativi e responsabilizzare i dirigenti sulla necessità di valorizzare le risorse umane e le risorse finanziarie destinate alla formazione.

In particolare, sono individuate tre sfide per la formazione: fronteggiare la domanda di nuove competenze derivanti dalla modernizzazione della pubblica amministrazione, dalle esigenze di imprese e cittadini, dalla necessità di meglio qualificare i profili attualmente esistenti (la formazione deve essere supportata da analisi aggiornate di profili professionali mancanti e dall’analisi della necessità di riqualificare il personale); l’informatizzazione della pubblica amministrazione e la conseguente riorganizzazione; la riforma della dirigenza, da supportare con un sistema di offerta di alta formazione continua.

Il Piano della formazione che ogni ente è tenuto a fare entro il 31 marzo di ogni anno deve quindi: tener conto dei fabbisogni rilevati, delle competenze necessarie in relazione agli obiettivi e ai nuovi compiti, della programmazione delle assunzioni e delle innovazioni normative e tecnologiche introdotte; indicare obiettivi e risorse finanziarie necessarie, prevedendo l’impiego di risorse sia interne, sia comunitarie; definire le metodologie formative da adottare, prevedendo anche il coinvolgimento di dirigenti e funzionari interni.

In conclusione si può constatare come l’evoluzione del quadro normativo degli ultimi anni e l’esperienza degli enti consentono di affermare che, nell’insieme, sembra essere maturata una maggiore consapevolezza del ruolo della formazione come leva strategica del cambiamento67.

67 La Provincia di Pisa ha realizzato una rete per l’assistenza all’informazione, all’attività tecnico-amministrativa e alla formazione dell’amministrazione pubblica

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4.10. I sistemi informativi sul personale e la gestione delle competenze

L’evoluzione dei sistemi informativi sul personale è un fenomeno che ha accompagnato, in molti enti, l’evoluzione della stessa funzione di direzione delle risorse umane da ambito di gestione amministrativa dei dipendenti a funzione di governo e gestione delle risorse umane dell’ente.

Purtroppo sono ancora pochi gli enti che hanno investito su questa funzione, limitandosi perlopiù al mantenimento di database sul personale attinenti al trattamento economico e giuridico degli stessi, senza evolvere verso una gestione del sistema informativo basata sulla creazione di database con curriculum vitae dei propri dipendenti.

La rilevanza di nuovi sistemi informativi sul personale è ancora più forte se si pensa a quanti sistemi operativi di gestione del personale di fatto necessitano di poggiare su sistemi informativi evoluti, che consentano sia la creazione di data base particolarmente ricchi di informazioni, sia la possibilità di incrociare e aggiornare le informazioni: si pensi ai sistemi di valutazione, alla definizione di percorsi di carriera che si basino anche sul potenziale dei propri dipendenti, alla definizione dei piani di formazione, all’attività di programmazione del personale. Il punto di partenza è, quindi, la classificazione e l’analisi dettagliata delle risorse umane disponibili nella consapevolezza che le decisioni che locale (Reform). Il progetto ha previsto l’ideazione e la realizzazione di un sito internet per l’assistenza e gli scambi di informazioni sulle attività tecnico-amministrative e la formazione dei dipendenti da parte di personale specificamente formato ed integrato con quello di una ditta informatica.

Il Comune di Colleferro ha realizzato il progetto “Apprendere per lavorare, lavorare per apprendere”, che nasce dalla cooperazione tra un istituto di formazione e due enti locali di Italia, Grecia e Bulgaria. Il progetto è basato sull’intento di scambiare e migliorare il know-how, skills e competenze di coloro che operano nel settore dell’impiego, della formazione e delle pari opportunità nel mercato del lavoro, nonché degli operatori dell’orientamento giovanile, con particolare attenzione ai giovani più disagiati. Il progetto, finanziato nel quadro del programma comunitario Socrates-Grundtvig 2, intende contribuire alla formazione di consulenti che devono rispondere ai bisogni di formazione degli adulti in diversi settori. Per approfondimenti, si rimanda alla banca dati Buoni esempi del Formez, cit.

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interessano il personale rappresentano poi un input del più generale sistema di politiche di lungo periodo dell’organizzazione.

Un sistema informativo evoluto consente di costituire per l’ente il cosiddetto manpower inventory: una collezione dei dati di tutte le unità organizzative, che permette di elaborare una sintesi delle caratteristiche della forza lavoro disponibile per l’intero Ente.

Il caso “Osservatorio delle competenze” (Regione Emilia-Romagna) In Regione Emilia Romagna con il CCIA 1998/2001 è stato avviato un

percorso sperimentale per la messa a punto un sistema di gestione del personale centrato da un lato sulle esigenze di sviluppo dell’organizzazione (competenze ricercate) e dall’altro sulla primaria valorizzazione e sviluppo delle competenze ed esperienze presenti nell’Ente o acquisibili dall’esterno.

La riflessione sulle competenze, sostanziata dal punto di vista operativo nella realizzazione di un “Osservatorio delle competenze” [sistema di analisi e valutazione permanente delle professionalità presenti presso la Regione], a regime dovrebbe costituire il perno di tutti i sistemi di gestione del personale, della programmazione e dimensionamento del personale in primis, in quanto in grado di rendere operativo il concetto di “fabbisogno quali-quantitativo di personale” ed evidenziare il “posizionamento” di questo fabbisogno nell’ambito della struttura organizzativa (aree critiche).

L’“Osservatorio delle competenze” rappresenta nel sistema “il luogo delle competenze certificate, sia che esse siano quelle ricercate o quelle possedute dai dipendenti”.

Il repertorio delle informazioni sulle posizioni lavorative è costituito di due parti distinte: quella delle posizioni ricoperte dai dipendenti, costituita dall’insieme delle biografie professionali dei dipendenti che, una volta certificate, sostituiscono qualsiasi altra forma di certificazione dei percorso professionali del personale; quella delle posizioni vacanti, oggetto della programmazione dei fabbisogni professionali.

L’obiettivo dell’intero percorso è l’ottimizzazione del nesso tra fabbisogni di competenze espresse dall’organizzazione e percorsi di sviluppo professionale dei dipendenti, anche tramite un sistema omogeneo di rappresentazione, valutazione, valorizzazione e normazione delle competenze richieste dall’organizzazione ed in possesso dei dipendenti.

A processo di sperimentazione concluso, l’Osservatorio delle competenze assumerà la forma di una grande banca dati che conterrà: le griglie di descrizione delle posizioni lavorative coperte e scoperte; le schede curriculum dei collaboratori regionali; le schede di valutazione dei dipendenti, relative ai laboratori per l’innovazione, ai progetti di miglioramento, alla valutazione del dirigente ai fini della progressione economica orizzontale, aggancio con altri sistemi di gestione del personale.

Gli elementi di valore del progetto “Osservatorio delle competenze” per l’amministrazione in esame sono così riassumibili:

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- esso propone un approccio strutturato, che definisce i nuovi fabbisogni professionali sulla base dei cambiamenti in atto nelle strategie e nei servizi regionali, i cui risultati si offrono ora nell’ambito della riflessione sul mercato del lavoro interno e sulle politiche di sviluppo del personale più idonee per sostenere il “nuovo ruolo“ dell’Amministrazione regionale;

- identificazione delle nuove competenze, necessarie a supportare i nuovi servizi, sulla base della quale orientare le scelte di gestione e sviluppo delle risorse umane;

- identificazione dei principali elementi di cambiamento del sistema professionale regionale, che metta in luce i fabbisogni professionali di breve/medio periodo e i criteri organizzativi e professionali su cui effettuare le scelte di natura gestionale;

- identificazione di ipotesi interpretative e indicazioni progettuali utili a impostare le azioni di sviluppo della “popolazione dirigenziale”, in coerenza e a supporto dei principali vettori di cambiamento strategico e di servizio regionale.

Fonte: SDA Bocconi Come dimostra anche l’esperienza evidenziata, il punto è

rappresentato da una gestione dinamica delle informazioni sul personale, finalizzata a supportare le decisioni in merito alle politiche di sviluppo dei dipendenti e dell’organizzazione nel suo insieme.

4.11. La revisione del sistema delle relazioni sindacali e l’esperienza dei contratti integrativi aziendali

Sono trascorsi ormai alcuni anni da quando il Ccnl ha previsto un ampliamento delle tematiche oggetto di confronto tra enti e delegazioni sindacali, nonché un allargamento degli spazi di azione a livello decentrato e, di conseguenza, del rilievo delle scelte di ente.

Ciò comporta che gli enti siano sempre più chiamati a definire una propria strategia di relazioni sindacali: proattiva, in grado cioè di gestire l’evoluzione del quadro delle relazioni sindacali minimizzando la conflittualità; propositiva, affinché la contrattazione decentrata possa diventare luogo reale di innovazione organizzativa (un approccio di tipo passivo, in questo caso, diminuirebbe la tutela del sistema, dato il rilievo delle decisioni che entrambe le parti devono assumere).

Sinora gli enti hanno incontrato parecchie difficoltà nel gestire questi spazi.

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Un primo problema è legato alla prassi diffusa per cui gli organi di direzione non sono soliti definire o esplicitare con chiarezza gli indirizzi politici cui la delegazione trattante di parte pubblica possa fare riferimento nel processo di confronto con le organizzazioni sindacali. Spesso, inoltre, gli enti non attribuiscono con chiarezza le responsabilità tecniche ai diversi soggetti coinvolti nel processo di contrattazione.

Un secondo fattore critico è relativo al basso livello qualitativo della contrattazione decentrata, riconducibile alla differente abilità e alla differente cultura del confronto detenute dagli enti e dalle organizzazioni sindacali. Spesso, infatti, gli Enti sono stati portatori di valori nuovi, ma si sono mossi con metodi e tecniche tradizionali; le organizzazioni sindacali, seppur ancorate a vecchie logiche di difesa dei diritti dei lavoratori, si sono invece presentate ai tavoli della contrattazione forti di professionalità negoziali sviluppate in anni di esperienza sul campo.

In alcuni casi, inoltre, gli enti hanno trovato difficoltà anche nel rispettare i dettami normativi; questo ha fatto sì che, di frequente, si sia verificato un allargamento della contrattazione a materie oggetto di concertazione, o informazione, o, addirittura, una violazione dei vincoli del Ccnl68, con conseguente illegittimità della contrattazione decentrata.

Infine, quello che forse rappresenta l’ostacolo più difficile da superare è la cultura dell’adempimento, che emerge anche nel caso della contrattazione decentrata: solo raramente i contratti decentrati sono inseriti in disegni reali di rinnovamento delle politiche del personale, secondo una visione di tipo più strategico e sistemico delle scelte di ente.

Il nuovo Ccnl, siglato il 22 gennaio 2004 per il personale dipendente del comparto Regioni e autonomie locali, al titolo II ha sottolineato e chiarito gli ambiti di applicazione dei diversi istituti relativi alle relazioni sindacali, esplicitando nuovamente le materie ed i casi per cui si attiva la contrattazione, quelli per cui è invece necessario avviare la concertazione, quelli, infine, per cui l’ente deve limitarsi alla semplice informazione nei confronti delle organizzazioni sindacali. Inoltre il contratto sottolinea con forza la necessità di rispettare il sistema delle relazioni sindacali, sia in termini di oggetto, sia di processo di attivazione delle relazioni stesse.

68 In merito a questo punto, il nuovo Ccnl ha ribadito la nullità di fatto di qualsiasi clausola contrattuale, presente nei contratti aziendali, che non rispetti quanto previsto dal contratto nazionale.

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Da quanto detto, è chiaro come molto resti ancora da fare in chiave di miglioramento e sviluppo, specialmente su due fronti: quello della struttura e dei contenuti del contratto decentrato, soprattutto in termini di rispetto delle materie oggetto di contrattazione; quello del processo di contrattazione, in particolare in merito alla composizione della delegazione trattante di parte pubblica, all’elaborazione ed acquisizione di indirizzi da parte dell’amministrazione, alla definizione e rispetto dei tempi di chiusura del processo di contrattazione.

4.12. La gestione delle conoscenze

Un elemento caratterizzante le pubbliche amministrazioni è la contrapposizione tra l’elevata capacità del sistema di produrre saperi, informazioni e dati, da un lato, e la bassa propensione alla diffusione della conoscenza69 all’interno del sistema stesso, dall’altro.

A questo si aggiunge anche una sorta di “amnesia organizzativa”, che consta nell’incapacità di valorizzare nel presente le conoscenze prodotte nel passato.

La tensione all’innovazione organizzativa e all’adattabilità dell’istituzione ai cambiamenti ambientali, quali fattori chiave dei processi di modernizzazione in atto nella pubblica amministrazione italiana, portano all’attenzione la leva dell’apprendimento dell’istituzione, articolabile nella creazione e raccolta di informazioni e nella trasformazione delle informazioni in sapere istituzionale, che, a sua volta, alimenta i processi decisionali del governo70.

In letteratura, i processi di valorizzazione della conoscenza sono raggruppati in tre differenti tipologie: processi di generazione, ossia

69 Molto spesso le singole amministrazioni pubbliche non sono in grado di individuare i centri di generazione/produzione di conoscenza e di trasferire al loro interno prassi e culture prodotte all’interno del sistema pubblico. Cfr. M. Meneguzzo e B. Della Piana, Knowledge management e p.a. Conciliare l’inconciliabile?, in «Azienda Pubblica», n. 4-5, 2002.

70 Questo è peraltro pienamente coerente con il quadro di riferimento emerso dai recenti studi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Cfr. Knowledge Management: Learning by Comparing. Experiences from Private Firms and Public Organisations. 2001 e KM Survey avviata nel 2002 e dai programmi del PUMA (Programma Ocse per public management and governance).

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creazione di nuova conoscenza; processi di utilizzo diretto e processi di movimento, ossia di condivisione e trasferimento.

Rispetto a questi tre processi, il knowledge management si colloca quale sistema di creazione e gestione del “sapere” attraverso forme organizzative, sociali e cognitive volte a consentire un rapido utilizzo della conoscenza e a trasformarla in competenze e processi realizzativi. In altri termini, il knowledge management diviene una modalità strategica di gestione del capitale intellettuale, orientata ad arricchire il capitale umano delle diverse organizzazioni. A tal fine diventa indispensabile che le istituzioni, il cui patrimonio non è dato solo dalle conoscenze prodotte, ma anche dalle competenze che generano conoscenze e che le traducono in prodotti e servizi, si adoperino per governare le infrastrutture e le reti di comunicazione e per progettare contesti sociali, organizzativi e di apprendimento al sostegno dello sviluppo e della valorizzazione delle competenze.

Alcune caratteristiche dei sistemi di pubblica amministrazione rappresentano un possibile ostacolo alla diffusione del knowledge management, basti pensare alla rigidità tipica della gestione delle attività e all’eccessiva spinta alla formalizzazione, che mal si conciliano con l’intangibilità delle conoscenze e dei relativi processi di formazione/diffusione e ai i tempi della vita politica, di breve e medio termine, che difficilmente coincidono con l’orizzonte temporale del knowledge management, tipicamente di lungo periodo.

D’altro canto, le aziende pubbliche, per la varietà di risorse materiali e immateriali che le caratterizzano, cui si accompagna la ricchezza dell’organismo personale, costituiscono un terreno molto fertile per i processi di generazione delle conoscenze, tanto più che specifiche spinte in tal senso derivano dalle numerose e diverse sollecitazioni che provengono dall’esterno; dall’incremento dell’ampiezza e del livello del sapere richiesto alle persone che operano nella pubblica amministrazione e dal focus sul miglioramento dei processi, che sposta i confini organizzativi (il knowledge management agevola la condivisione di prassi e procedure).

Due sono le iniziative di rilievo in atto nella pubblica amministrazione italiana in tema di knowledge management.

Una prima iniziativa è legata al Dipartimento della funzione pubblica, che ha definito un possibile modello di riferimento per il knowledge management, fondato su quattro dimensioni chiave:

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- Comunità: intesa come forma di aggregazione organizzativa informale, in cui le persone svolgono attività in comune sviluppando e condividendo modi di fare le cose, linguaggi, eccetera;

- Competenze: identificate come aree del know-how, contenuto della professione (cfr. gestione delle competenze);

- Cooperazione: intesa come metodo di lavoro per l’esplicitazione e la diffusione delle conoscenze;

- Canali: cioè i pezzi dell’infrastruttura di collegamento; Una seconda iniziativa è, invece, legata ad una ricerca svolta da SDA

Bocconi per conto di Formez, che ha definito un modello interpretativo di alcuni casi studio incentrato su 6 variabili chiave che caratterizzano le azioni e gli strumenti a supporto del knowledge management:

- Key Technology: presenza ed utilizzo di infrastruttura tecnologica; - Key Structure: presenza di ruoli e responsabilità esplicitamente

collegati all’attività e ai processi di knowledge management; - Key Assessment: presenza di logiche e strumenti di valutazione dei

risultati ed ai sistemi di knowledge management; - Key HRM: presenza di orientamenti knowledge based nei

meccanismi di gestione del personale; - Key Culture: presenza di una cultura knowledge driven (tolleranza

all’errore, integrazione); - Key Sponsorship: sostegno esplicito ai processi di knowledge

management, anche attraverso l’organizzazione di eventi, rituali e simboli organizzativi.

In tema di knowledge management, due interessanti esperienze71 sono state promosse dalla Regione Campania e dalla Regione Umbria.

La Regione Campania ha avviato un progetto di miglioramento

organizzativo e reingegnerizzazione dei processi per la gestione del POR 2000-2006 dell’Area generale di coordinamento e sviluppo attività settore primario. L’obiettivo è di incrementare la conoscenza relativamente a tutte le fasi del processo di gestione del POR con un impatto in termini di risultato atteso di riduzione dei tempi di istruttoria. La modalità d’intervento è incentrata sull’attivazione di gruppi di lavoro e sulla logica del learning by doing.

Fonte: Banca dati BuoniEsempi.it Formez La Regione Umbria, invece, ha attivato un progetto (VAL.E.R.I.A.) per

migliorare la conoscenza dei fabbisogni delle imprese manifatturiere coinvolte

71 Meneguzzo e Della Piana, Knowledge management e p.a., cit.

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in progetti di miglioramento tecnico e ridurre i tempi di erogazione degli aiuti. Il progetto si è sviluppato con la costituzione di un gruppo di lavoro con personale appartenente a diverse unità operative dell’ente, sono state determinate le quote di partecipazione della regione in termini di miglioramento organizzativo e sono state individuate le procedure di erogazione degli aiuti. L’obiettivo della Regione è di poter fronteggiare con consapevolezza l’ampliamento del numero di imprese manifatturiere presenti sul territorio.

Fonte: Banca dati BuoniEsempi.it Formez

Finora il tema del knowledge management non ha conosciuto grandi applicazioni nella realtà italiana; quello che conta è però rilevare il crescente interesse per il tema e la consapevolezza che si va diffondendo che, per il futuro, la gestione della conoscenza è una variabile chiave per la legittimazione e l’assolvimento della missione degli enti pubblici. Il knowledge management potrà quindi diventare in prospettiva un asse portante dei percorsi di modernizzazione della pubblica amministrazione.

4.13. Il benessere organizzativo

Secondo il Third European Survey on Working Conditions 2000 circa il 4% dei lavoratori italiani riferisce di aver subito azioni di mobbing nell’anno 2000; il 14% è dipendente di amministrazioni pubbliche72.

La sentenza n. 157/2003 del Tribunale di Tempio Pausania è, senza riserve e

senza sottintesi di alcun genere, il pronunciamento sulla concreta esistenza di mobbing in un ente locale da parte di un Giudice che ha liquidato alla vittima la cifra di diecimila Euro e ha anche dato alcune utili indicazioni a chi, nel futuro, voglia seguire la strada del processo civile per affrontare problemi analoghi.

Fonte: «Diritto & Diritti», Rivista giuridica on line

Il Ccnl del personale del comparto delle Regioni e delle autonomie locali, siglato il 22 gennaio 2004, per la prima volta inserisce la disciplina del mobbing, fenomeno di sempre maggior diffusione anche nel settore del lavoro pubblico, tanto da rendere necessaria la predisposizione di opportuni strumenti di tutela del lavoratore.

72 WHO (World Health Organisation), Raising awareness of Psychological Harassment at Work, Protecting Workers’ Health Series n° 4, ISPESL/ICP, Roma, 2003.

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L’articolo 8 comma 1, infatti, definisce73 il fenomeno del mobbing una forma di violenza morale o psichica, attuata dal datore di lavoro o da altri dipendenti, nei confronti del lavoratore che comporta un degrado delle condizioni di lavoro e compromette la salute o la professionalità o la dignità del lavoratore stesso nell’ambito dell’ufficio di appartenenza.

Per affrontare la problematica il contratto ha previsto che tutti gli enti costituiscano, entro 60 giorni dall’entrata in vigore, uno specifico comitato paritetico, i cui compiti sono espressamente indicati nel comma 3 e così sintetizzabili: raccolta di dati e informazioni sul mobbing presso ciascun ente; verifica e analisi del fenomeno, anche con riferimento alle sue possibili cause; formulazione di proposte di azioni positive per la prevenzione e repressione del fenomeno; elaborazione di specifici codici di condotta.

In particolare i comitati, a scopo di prevenzione e contenimento del mobbing, possono formulare proposte d’interventi formativi e di aggiornamento del personale sull’argomento e di diffusione di una maggiore conoscenza e consapevolezza dei ruoli dei singoli e dei rapporti interpersonali all’interno degli uffici, anche per recuperare e migliorare la motivazione e l’affezione dei dipendenti verso l’ambiente di lavoro.

La letteratura in materia74 descrive il terreno di coltura del mobbing come una micro società in cui ogni evento è il risultato di elementi culturali, umani, materiali e organizzativi; ma il mobbing non è che una

73 Contratto collettivo nazionale del lavoro, articolo 8: «Le parti prendono atto del fenomeno del mobbing, inteso come forma di violenza morale o psichica in occasione di lavoro – attuato dal datore di lavoro o da altri dipendenti – nei confronti del lavoratore. Esso è caratterizzato da una serie di atti, atteggiamenti o comportamenti, diversi e ripetuti nel tempo in modo sistematico ed abituale, aventi connotazioni aggressive, denigratorie e vessatorie tali da comportare un degrado delle condizioni di lavoro e idonei a compromettere la salute o la professionalità o la dignità del lavoratore stesso nell’ambito dell’ufficio di appartenenza o, addirittura, tali da escluderlo dal contesto lavorativo di riferimento (…)».

74 Per maggiori approfondimenti si rimanda a: AA.VV., Un nuovo rischio all’attenzione della medicina del lavoro: le molestie morali (mobbing), in «La medicina del lavoro», n. 1, 2001; ISPESL/ICP/CGIL, CISL, UIL Lombardia, Rischio mobbing, Milano, 2001; M. G. Cassitto, Molestie morali nei luoghi di lavoro: nuovi aspetti di un vecchio fenomeno, in «La medicina del lavoro», n. 1, 2001; E. Albini, M. G. Cassitto e altri, Organizzazione del lavoro disfunzionale e mobbing. Quattro casi emblematici, in «La medicina del lavoro», n. 5, 2003.

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delle distorsioni derivanti dai grandi cambiamenti che hanno pervaso le pubbliche amministrazioni negli anni recenti.

Le numerose leggi che hanno interessato il settore pubblico a partire dagli anni ’90 non hanno avuto conseguenze solo sulla struttura degli enti, ma anche sul modo di intendere il lavoro pubblico, sempre più orientato verso un modello professionale in cui le risorse umane non sono più, o non sono solo alcuni degli ingranaggi della “macchina burocratica”, ma persone con un elevato grado di cultura e professionalità, il motore stesso dell’organizzazione.

È per questo che accanto allo studio dei classici rischi fisici connessi alla sicurezza lavorativa è stato approfondito lo studio dei cosiddetti rischi psico-sociali e del benessere organizzativo, perché è ormai provato che un’organizzazione “in salute” è anche più efficace e produttiva.

Per “benessere organizzativo” possiamo intendere «l’insieme dei nuclei culturali, dei processi e delle pratiche organizzative che animano la dinamica della convivenza nei contesti di lavoro promuovendo, mantenendo e migliorando la qualità della vita e il grado di benessere fisico, psicologico e sociale delle comunità lavorative»75.

È soltanto negli anni ’80 del secolo scorso che l’interesse degli studiosi si sposta dalla prevenzione degli infortuni e delle malattie all’induzione dei lavoratori a fare scelte ragionate che migliorino la loro salute fisica e mentale (Terborg 1988) e si comincia a sottolineare l’importanza per il benessere delle organizzazioni di variabili quali il clima, la cultura organizzativa, lo stile di leadership. Meritano in particolare di essere ricordati i seguenti paradigmi di studio del benessere organizzativo76:

- paradigma dello stress lavorativo e del burnout: pone l’attenzione più sulle capacità dell’individuo di fronteggiare e gestire le situazioni di stress che sul tipo di contesti organizzativi che possono causare o alleviare lo stress;

- paradigma dello sviluppo organizzativo o della riprogettazione organizzativa: si focalizza sul creare luoghi di lavoro efficaci piuttosto

75 F. Avallone, M. Bonaretti (a cura di), Benessere organizzativo. Per migliorare la

qualità del lavoro nelle amministrazioni pubbliche, Rubbettino editore, Soveria Mannelli (CZ), 2003.

76 Per un’analisi più approfondita si rimanda a Avallone, Bonaretti, Benessere organizzativo, cit.

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che in salute e mira a comprendere quali forme specifiche di organizzazione, quali modelli e processi influenzano la motivazione, la soddisfazione e l’efficacia del lavoratore;

- paradigma delle politiche organizzative che promuovono la salute: evidenzia le politiche aziendali e la cultura sul posto di lavoro, da cui deriva la possibilità o meno di controllo e partecipazione da parte del lavoratore, di supporto sociale, di soddisfazione di bisogni, di salute delle persone e dell’organizzazione;

- lo studio psicodinamico dei manager: fa dipendere il benessere organizzativo dalle caratteristiche personali e dal livello di maturità dei leader, basandosi sul presupposto che sono le persone che influenzano le organizzazioni e non viceversa.

Nonostante si soffermino su aspetti diversi del benessere organizzativo i quattro paradigmi presentano numerosi punti di contatto e propongono modelli di organizzazione in cui i lavoratori sono persone rispettate, che possono gestire e controllare in libertà i propri compiti, dove viene fornito supporto sociale e sperimentato senso di appartenenza, dove il leader è in grado di fornire indicazioni chiare e di motivare i dipendenti.

Riuscire a valorizzare le persone come unità fondamentali della struttura nelle pubbliche amministrazioni consentirebbe il salto di qualità verso l’efficienza dell’intero sistema.

I risultati della ricerca condotta nell’ambito del Laboratorio sul benessere organizzativo, promossa dal Dipartimento della funzione pubblica, fanno emergere alcuni aspetti critici del lavoro pubblico, e in particolare: difficoltà a vedere valorizzate le peculiarità dei singoli lavoratori sia rispetto alle responsabilità assunte e alle prestazioni effettivamente rese, sia rispetto al potenziale in loro possesso; scarso coinvolgimento dei lavoratori da parte dei dirigenti nelle decisioni che li riguardano; comunicazione non lineare e non trasparente; difficoltà a trovare un senso nel lavoro che si svolge, con conseguente abbassamento della fiducia nelle proprie capacità e aumento dell’ansia da prestazione; scarsa motivazione dei lavoratori e bassa disponibilità all’ascolto da parte dei vertici dell’organizzazione.

Un ruolo chiave per superare l’impasse dovrà essere svolto dai dirigenti, chiamati a promuovere azioni che stimolino l’immedesimazione organica delle persone con l’ente di appartenenza, ad innescare meccanismi di ascolto dei bisogni dei lavoratori e ad

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agevolare la comunicazione orizzontale e verticale tra gli uffici, a diffondere un’univoca immagine aziendale in cui tutti si riconoscano come elementi essenziali per il buon funzionamento e la crescita dell’organizzazione. Dovranno essere capaci di empowerment, cioè di suscitare potenziali e di dotare di “potere” i propri collaboratori, e di delegare dando fiducia alle persone meritevoli e consentendo loro di crescere, di accumulare competenze ed esperienze pure, qualche volta, sbagliando.

In questa direzione si pone anche il disposto della direttiva 24 marzo 2004 del ministro della Funzione pubblica sulle Misure finalizzate al miglioramento del benessere organizzativo nelle pubbliche amministrazioni.

Obiettivo della direttiva è offrire agli operatori la possibilità di lavorare in contesti organizzativi che consentano di realizzare e mantenere il benessere fisico e psicologico delle persone, favoriscano gli scambi, la trasparenza e la visibilità dei risultati del lavoro, in ambienti dove esista un’adeguata attenzione agli spazi architettonici, ai rapporti tra le persone e allo sviluppo professionale.

La direttiva indica altresì alle amministrazioni le motivazioni per l’adozione di misure finalizzate ad accrescere il benessere organizzativo: valorizzare le risorse umane, aumentare la motivazione dei collaboratori, migliorare i rapporti tra dirigenti e operatori, accrescere il senso di appartenenza e di soddisfazione dei lavoratori per la propria amministrazione; rendere attrattive le amministrazioni pubbliche per i talenti migliori; migliorare l’immagine interna ed esterna e la qualità complessiva dei servizi forniti dall’amministrazione; promuovere la cultura della partecipazione, quale presupposto dell’orientamento al risultato, al posto della cultura dell’adempimento; realizzare sistemi di comunicazione interna; prevenire i rischi psico-sociali di cui al d.lgs. 626/1994. Le indicazioni da seguire per accrescere il benessere organizzativo: attenzione al benessere organizzativo come elemento di cambiamento culturale; attenzione alle variabili critiche77; il processo per

77 Sono ritenute variabili critiche per il benessere organizzativo delle

amministrazioni pubbliche: caratteristiche dell’ambiente nel quale il lavoro si svolge; chiarezza degli obiettivi organizzativi e coerenza tra enunciati e pratiche organizzative; riconoscimento e valorizzazione delle competenze; comunicazione intraorganizzativa circolare; circolazione delle informazioni; prevenzione degli infortuni e dei rischi

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la rilevazione e il miglioramento del benessere organizzativo; gli strumenti per l’attuazione della direttiva.

4.14. Il contenzioso

L’articolo 63 del d.lgs. 165/2001 del Testo unico per il pubblico impiego fa proprio uno dei punti cardine della privatizzazione del pubblico impiego, vale a dire il passaggio sotto la competenza del giudice ordinario delle controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni.

In particolare, è espressamente previsto che il giudice ordinario svolga funzione di giudice del lavoro nel caso di controversie concernenti l’assunzione al lavoro, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali, nonché quelli concernenti le indennità di fine rapporto.

Un aspetto particolare della gestione del contenzioso, su cui si intende qui concentrare l’attenzione, concerne l’obbligo del tentativo di conciliazione nelle controversie di lavoro (articoli 65 e 66 d.lgs. 165/2001), che prevede l’avvio della procedura stragiudiziale prima di poter richiedere l’intervento del giudice.

È evidente come l’innovazione legislativa legata alla privatizzazione del rapporto di lavoro sia finalizzata anzitutto alla semplificazione e riduzione dei tempi nella risoluzione delle controversie di lavoro per il pubblico impiego.

Purtroppo però, valutare la portata di tale innovazione non è semplice per due ordini di motivi: da un lato sono pochi i dati e le informazioni disponibili in merito alle controversie in atto e a quelle risolte secondo la nuova modalità prevista dalla norma; dall’altro vi è una difficoltà legata alla corretta interpretazione dei dati stessi, poiché non sempre è lineare e chiaramente definito il nesso di causa effetto tra numerosità e tempi

professionali; clima relazionale franco e collaborativo; scorrevolezza operativa e supporto verso gli obiettivi; giustizia organizzativa (intesa come equità di trattamento a livello retributivo, assegnazione di responsabilità, promozione del personale e attribuzione dei carichi di lavoro, nel rispetto del Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro); apertura all’innovazione; stress; conflittualità.

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delle controversie di lavoro e giustizia, amministrativa o ordinaria, titolare della risoluzione.

L’Osservatorio regionale sulla contrattazione del Veneto ha svolto

un’interessante ricerca sul contenzioso nelle pubbliche amministrazioni venete nel periodo 1 gennaio 2001 - 30 giugno 2003. L’analisi è stata condotta con l’obiettivo di testare la percezione diffusa che il tentativo obbligatorio di conciliazione non abbia sortito l’effetto sperato in termini di sgravio sulla giustizia ordinaria, causando, inoltre, un allungamento dei tempi della definizione delle vertenze.

Di seguito si propongo i principali risultati dell’indagine, utili alla riflessione sul fenomeno.

Anzitutto, dalla lettura dei dati raccolti dall’Osservatorio il passaggio dal giudice amministrativo al giudice ordinario è coinciso con un incremento della vertenzialità nel settore pubblico. In particolare, per il comparto Regioni e autonomie locali il numero delle vertenze instaurate è passato da 171 del primo semestre 2001 a 614 del primo semestre 2003, facendo registrare un incremento del 259%. La lettura di tale dato è ancor più interessante se letta in confronto a quanto accaduto nel comparto ministeriale (395 vertenze instaurate nel primo semestre 2001 e 1.283 nel primo semestre 2003, con incremento del 224%) al dato generale riferito al settore pubblico (1.048 vertenze instaurate nel primo semestre 2001 e 2.654 nel primo semestre 2003, con incremento del 153%).

Inoltre, guardando al complesso delle vertenze conciliate in sede di collegio, esse risultano nel periodo considerato pari a 395, rappresentando il 6,49% delle controversie instaurate e il 14,78% di quelle trattate.

Un numero decisamente ridotto se si pensa che nel settore privato la tendenza a risolvere le controversie in via conciliativa è pari al 22,80% del contenzioso attivato, corrispondente al 57,58% delle vertenze trattate.

È anche interessante notare come di queste 395 vertenze conciliate, il 36% faccia capo al comparto delle Regioni e autonomie locali, che sembra così risultare il comparto con il primato della conciliabilità (tabella 4).

Tabella 4 - Vertenze conciliate COMPARTO NUMERO % Ministeri 129 32,66 Enti Pubblici non economici 8 2,03 Regioni ed enti locali 142 35,95 Sanità 76 19,24 Università 29 7,34 Altri 11 2,78 TOTALE 395 100,00 Fonte: Osservatorio regionale sulla contrattazione del Veneto

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Tale dato, però, va letto in termini relativi, tenendo conto che questa incidenza è dovuta anche al maggior numero di dipendenti del comparto stesso.

Andando a vedere, infatti, la reale incidenza del fattore di conciliabilità sul contenzioso, nel comparto Regioni ed enti locali, l’incidenza supera di poco il 12% in rapporto alle vertenze instaurate, e circa il 25% di quelle trattate (tabella 5).

Tabella 5 – Incidenza del fattore di conciliabilità sul contenzioso COMPARTO % conciliate su instaurate % conciliate su trattate Ministeri 4,55 11,14 Enti pubblici non economici

1,24 3,07

Regioni ed enti locali 12,54 24,96 Sanità 7,00 16,89 Università 28,71 65,91 Altri 3,75 5,79 TOTALE 6,49 14,78 Fonte: Osservatorio regionale sulla contrattazione del Veneto

Ancor più emblematico è il dato sulla scarsa conciliabilità in fase

amministrativa, se si pensa che il 40,32% del contenzioso instaurato nel periodo considerato è costituito da vertenze non trattate. Confrontando i dati dei singoli comparti su base omogenea, e mettendo in relazione le controversie non trattate con quelle instaurate (tabella 6), è possibile cogliere le tendenze delle diverse amministrazioni.

Tabella 6 - Vertenze non trattate su vertenze instaurate COMPARTO % Ministeri 40,68 Enti pubblici non economici 51,63 Regioni ed enti locali 34,01 Sanità 44,48 Università 44,55 Altri 19,45 TOTALE 40,32 Fonte: Osservatorio regionale sulla contrattazione del Veneto

Esplicitando alcune prime considerazioni derivanti dai dati esposti e alcune

riflessioni condivise tra gli osservatori si potrebbe affermare che: le amministrazioni caratterizzate da una minor centralizzazione del potere decisorio dimostrano una maggior propensione alla negoziazione e ad evitare il

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confronto in sede di collegio di conciliazione amministrativa; la scarsa volontà conciliativa è spesso un effetto della specificità della materia del contendere, che di frequente concerne lo status stesso del dipendente (il che induce ad evitare di trovarsi in situazioni che possano avere un effetto domino sugli altri dipendenti); vi è comunque una differenza di rilievo con il settore privato che non va dimenticata: nel settore pubblico il datore di lavoro non ha pieno dominio sulla situazione e il delegato a trattare non ha effettivo potere di gestire la fase conciliativa nell’interesse dell’amministrazione resistente.

L’Osservatorio ha poi approfondito la ricerca focalizzandosi su due Province in particolare: Venezia e Treviso.

L’approfondimento è stato condotto entrando nel merito di quello che succede alla vertenza, ciò ha consentito di verificare che, conclusasi la fase amministrativa (tentativo obbligatorio di conciliazione), nell’attesa di quella giudiziale, buona parte (circa il 44%) delle controversie si concludono definitivamente o per abbandono della parte ricorrente (nel 30% dei casi) o perché conciliate tra le parti senza l’intervento dell’organo di terzietà (14% circa dei casi). Se a queste si aggiungono le vertenze conciliate anche nella fase preliminare del processo, la percentuale di conciliabilità tra le parti raggiunge circa il 50% delle vertenze che non hanno trovato soluzione in sede di collegio.

Questo risultato è particolarmente rilevante perché mina la fondatezza di alcuni pregiudizi sulla reale efficacia della fase stragiudiziale, che stando a questi ultimi dati potrebbe realmente essere un volano per dirimere buona parte della conflittualità con indubbi vantaggi per le parti in causa78.

Date le premesse sopra condivise e i dati riportati relativamente

all’esperienza del Veneto, è possibile formulare alcune prime considerazioni in merito all’impatto del passaggio del contenzioso di lavoro al giudice ordinario con l’obbligo del tentativo di conciliazione.

L’esperienza rileva uno scarso successo nell’applicazione della nuova norma, le cause di questo insuccesso possono essere molteplici, non ultimo il fatto che forse i tempi non sono ancora maturi per avanzare valutazioni su un’innovazione che è in grado di produrre effetti di rilievo nel medio-lungo periodo.

Inoltre, come spesso capita, non può bastare la sola modifica della normativa a cambiare una prassi consolidata nel tempo e a risolvere problemi strutturalmente connessi al funzionamento degli enti. È pertanto indispensabile lasciare agli enti il tempo necessario per sviluppare strumenti e maturare una cultura adatta all’applicazione efficace della nuova normativa.

78 Fonte: Osservatorio regionale sulla contrattazione del Veneto

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In particolare vale la pena sottolineare alcune possibili linee di intervento che potrebbero agevolare una applicazione di successo della nuova procedura di risoluzione delle controversie di lavoro:

- rendere effettiva la deresponsabilizzazione prevista nell’ultimo comma dell’articolo 66 del d.lgs. 165, consentendo così di gestire il contenzioso come vera fase negoziale, slegata da rischi e vincoli di controllo amministrativo: questo agevolerebbe l’impiego della conciliazione “reale” e consentirebbe di realizzare l’obiettivo di sgravare l’amministrazione giudiziaria dal contenzioso sul pubblico impiego;

- professionalizzare i delegati di ente, che di fatto si confrontano con avvocati o rappresentanti sindacali che, operando prevalentemente nell’ufficio vertenze, conoscono perfettamente la giurisprudenza giuslavoristica. Tale professionalizzazione potrebbe essere ottenuta sia con la formazione sia tramite la gestione in forma associata di queste materie concernenti il Personale79, sia istituendo istanze di raffreddamento da comporre in sede sindacale (potrebbero essere valorizzate le camere arbitrali stabili);

- attuare un’opera di sensibilizzazione sul contenzioso, sottolineando gli indubbi vantaggi che potrebbero derivare da una corretta applicazione della norma: la riduzione dei tempi del procedimento rispetto al rito della giustizia ordinaria; il contenimento dei costi; la possibilità di poter scegliere o rifiutare l’arbitro sapendo di poter contare su personale qualificato.

79 Un’esperienza interessante in merito è quella dell’associazione intercomunale

della “Bassa Romagna” che ha creato uffici unificati per la gestione in forma associata di tutte le funzioni del personale, tra questi anche uno ad hoc sulle relazioni sindacali e contenzioso del lavoro. Il progetto ha consentito da un lato di diminuire le risorse finanziare e umane impegnate per la gestione del personale nei singoli Comuni, dall’altro d’incrementare il numero e la qualità delle funzioni garantite ai singoli enti, fornendo anche agli enti più piccoli la possibilità di godere dei servizi più innovativi ed altamente professionali, quali appunto un supporto sui temi del diritto del lavoro e delle controversie sul pubblico impiego.