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Ecologia dell menti - Smart City - Crescita senza futuro
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/ Ecologia delle menti / Smart City / Crescita senza futuro
micron ecologia, scienza, conoscenza
19
controllo
prevenzione
protezione
dell’ambiente
Direzione Generale Arpa UmbriaVia Pievaiola 207/B-3 San Sisto - 06132 PerugiaTel. 075 515961 / Fax 075 51596235
Dipartimento Provinciale di PerugiaVia Pievaiola 207/B-3 San Sisto - 06132 PerugiaTel. 075 515961 / Fax 075 51596354
Dipartimento Provinciale di TerniVia Carlo Alberto Dalla Chiesa - 05100 TerniTel. 0744 47961 / Fax 0744 4796228
Sezioni Territoriali del Dipartimento di Perugia
Sezione di Città di Castello - Gubbio
• Distretto di Città di Castello Via L. Angelini - Loc. Pedemontana06012 - Città di Castellotel. 075 8523170 / fax 075 8521784
• Distretto di Gubbio - Gualdo TadinoVia Cavour, 38 - 06024 - Gubbiotel. 075 9239626 / fax 075 918259Loc. Sassuolo - 06023 - Gualdo TadinoTel. / Fax 075 918259
Sezione di Perugia
• Distretto di Perugia Via Pievaiola 207/B-3 Loc. S. Sisto - 06132 - Perugia tel. 075 515961 / fax. 075 51596354
• Distretto del TrasimenoVia C. Pavese, 36 - 06061 - Castiglione del Lago tel. / fax 075 9652049
• Distretto di Assisi - Bastia Umbra Via De Gasperi, 4 - 06083 - Bastia Umbratel. / fax 075 8005306
• Distretto di Marsciano - Todi Frazione Pian di Porto - Loc. Bodoglie 180/506059 - Todi - tel. / fax 075 8945504
Sezione di Foligno - Spoleto
• Distretto di FolignoLocalità Portoni - 06037 - S.Eraclio tel. 0742 677009 / fax 0742 393293
• Distretto di Spoleto - Valnerina Via Dei Filosofi, 87 - 06049 - SpoletoTel. 0743 225554 / fax 0743 201217
Sezioni Territoriali del Dipartimento di Terni
Sezione di Terni - Orvieto
• Distretto di Terni Via Carlo Alberto Dalla Chiesa - 05100 - Terni tel. 0744 4796605 / fax 0744 4796228
• Distretto di OrvietoViale 1°Maggio, 73/BInterno 3/B - 05018 - Orvietotel. 0763 393716 / fax 0763 391989
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Direzione Generale
Dipartimenti ProvincialiLaboratorio Multisito
Sezioni Territoriali
Distretti Territoriali
Rivista bimestrale di Arpa Umbriaspedizione in abbonamento postale 70% DCB Perugia - supplemento al periodico www.arpa.umbria.it (Isc. Num. 362002 del registro dei periodici del Tribunale di Perugiain data 18/10/02). Autorizzazione al supplemento micron in data 31/10/03 DirettoreSvedo Piccioni
Direttore responsabileFabio Mariottini
Comitato di redazioneGiancarlo Marchetti, Fabio Mariottini, Alberto Micheli, Svedo Piccioni, Giovanna Saltalamacchia, Adriano Rossi
Segreteria di redazioneMarkos Charavgis
Comitato scientificoCoordinatoreGiancarlo Marchetti
Marcello Buiatti, Gianluca Bocchi, Doretta Canosci, Mauro Ceruti,Pietro Greco, Vito Mastrandea, Mario Mearelli, Carlo Modonesi,Francesco Pennacchi, Cristiana Pulcinelli,Gianni Tamino
Direzione e redazioneVia Pievaiola San Sisto 06132 Perugia Tel. 075 515961 - Fax 075 51596235www.arpa.umbria.it - [email protected]
Design / impaginazionePaolo Tramontana
FotografiaFabio Mariottini, Gianluca Paradisi,Giuseppe Rossi, Paolo Tramontana
StampaGrafiche Diemme
stampato su carta Fedrigoni FReelIFe CeNTo g 120con inchiostri K+e NoVAVIT 3000 eXTReMe
© Arpa Umbria 2012
InDICE
>AnnO IX . nUMErO 19 / FEBBrAIO 2012
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ControcorrenteSvedo Piccioni
Si fa presto a dire crescitaSilvia Zamboni
Smart City Cristiana Pulcinelli
Fragili cittàGiovanna Dall’Ongaro
Il lato oscuro della cittàTina Simoniello
Urbanizzazione e cambiamenti climaticiCristian Fuschetto
Qualcosa non è cambiatoFabio Mariottini
Il punto sulle energie rinnovabili in EuropaRomualdo Gianoli
Lefficienza energetica in ItaliaStefano Pisani
Ecologia delle mentiPietro Greco
Micron letture
micron ecologia, scienza, conoscenza
micron / editoriale
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ControcorrenteSvedo Piccioni
Nell’ultimo numero di micron avevo scritto che avremmo orga-nizzato, per la fine di gennaio, un convegno sui pericoli che mol-te aree industriali dismesse o in via di dismissione rappresentano per la salute umana e per l’ambiente, da tenersi nella nuova sede di Terni dell’Agenzia. Nel corso dei lavori, volevamo anche riflet-tere sulle soluzioni e i progetti che in alcune realtà urbane sono stati attuati per bonificare queste aree che rappresentano in totale quasi il 3% del nostro territorio. Per diversi motivi di carattere organizzativo e logistico, siamo stati costretti a spostare l’inizia-tiva al 22 e 23 marzo. Un rinvio del quale non siamo però riu-sciti a darvi conto, perché la periodicità della nostra rivista non contemplava l’attualità. La logica che ha contraddistinto micron in tutti questi anni, infatti, è sempre stata più connotata da ele-menti di riflessione che di commento. Oggi riteniamo, però, che sia necessario restituire alla variabile tempo una dimensione più adeguata alla vivacità che in questi anni ha assunto il dibattito che, in termini sociali e scientifici, sta maturando attorno alla questione ambientale. Perciò, da quest’anno, pur mantenendo la propria peculiarità di strumento di analisi, micron diventerà bimestrale. Senza cercare di inseguire la cronaca – non è nelle nostre possibilità né nelle nostre ambizioni –, vogliamo affrontare con maggiore continu-ità questioni come quelle legate all’attuale modello di sviluppo, alla green economy, al consumo del territorio e al nostro vivere urbano. Qualcosa è stato fatto anche per ciò che riguarda la gra-fica, nella speranza di dare un aspetto più gradevole alla rivista, e nel contenuto, con due pagine dedicate alle recensioni dei libri. E’ un progetto che richiede un certo sforzo economico, peral-tro in un momento in cui l’incalzare della crisi e la recessione sembrano pretendere solo tagli e sacrifici. Eppure riteniamo che proprio i questi momenti di difficoltà sia necessario investire nella promozione di progetti di divulgazione e diffusione della conoscenza. A questo proposito, con la presentazione di micron e in occasione del convegno di marzo inaugureremo a Terni la nuova bibliomediateca dell’Agenzia che, con la collaborazione dell’Icsim (Istituto per la Cultura e la Storia d’Impresa “Franco Momigliano”) si propone di diventare un punto di riferimento nazionale per ciò che riguarda lo studio e la ricerca sul rapporto fra ambiente e sviluppo. Insomma, vogliamo remare controcorrente e rispondere alle semplificazioni che il mondo economico quotidianamente ci propone, attraverso la complessità del pensiero ecologico.
Si fa presto a dire crescitaSilvia Zamboni
La crisi economica che stiamo vivendo intreccia la sua storia con la crisi ambientale che ha investito il pianeta e mette chia-ramente in luce tutti i limiti di un sistema che utilizza la crescita economica come unico parametro per misurare il benessere dei cit-tadini. La sfida, che alcuni Paesi stanno già iniziando a raccoglie-re, è quella di dare slancio a que-sta opportunità di cambiamento e intraprendere una strada diversa, indirizzata verso criteri di svilup-po ecologicamente e socialmente sostenibili
Di fronte alla crisi economica e occu-pazionale e al peso del debito pubblico che attanagliano il nostro Paese, la pa-rola ripetuta come un mantra salvifico è “crescita”. Quasi taciuto, invece, è il fatto che a questa fase di stallo economico, at-traversata anche da altri Paesi di vecchia industrializzazione, si accompagna la cri-si ecologica dovuta alla perdita di biodi-versità e al superamento della carrying ca-pacity1 del pianeta. Sarebbe interessante, dunque, che si stabilisse a quale crescita si punta, perché questo modello econo-mico-produttivo, che considera il Pil come l’unità di misura dello stato di sa-lute dell’economia, ci ha portati alla non meno drammatica crisi dei cambiamenti climatici. La crisi economica è intrecciata da un lato a quella energetica (è finita l’e-poca del greggio a basso costo e, in Italia, la bolletta energetica nel 2011 ha tocca-to i 62 miliardi di euro) e, dall’altro, a quella dei cambiamenti climatici: perché non coglierla come opportunità di cam-biamento in direzione della sostenibilità ambientale e sociale?Anche il parlamento tedesco ha recepito i segnali d’inquietudine verso la ripropo-sizione dell’idea di crescita tradizionale ed ha infatti istituito la commissione d’inchiesta “Crescita, benessere, qualità di vita”. Obiettivo della commissione è “lo sviluppo di un nuovo indicatore di progresso che, pur facendo ancora rife-rimento anche al Pil”, modifichi questa unità di misura del benessere sociale, “basata su criteri puramente economici e quantitativi”, includendo “criteri ecolo-gici, sociali e culturali”. “Riparare i buchi nelle strade fa aumentare il Pil, ma non rende le persone più felici, né contribu-isce al progresso della società”, ha dichia-rato la socialdemocratica Daniela Kolbe,
presidente della commissione. “Per que-sto sono rilevanti gli aspetti ambientali; ma anche l’accesso all’istruzione, la qua-lità del sistema sanitario e la redistribu-zione del reddito”. Parole che riecheggia-no ciò che Bob Kennedy sosteneva già nel 1968, ovvero che il Pil non bastava più per indicare il grado di benessere e di progresso di una società. Una conclusio-ne a cui è giunto anche il presidente fran-cese Nicholas Sarkozy, che nel 2008 ha insediato la “Commissione Sarkozy sulla misura della performance dell’economia e del progresso sociale”. Di questo pool di esperti, che aveva a capo i premi Nobel Joseph E. Stiglitz e Amartya Sen, insieme a Jean-Paul Fitous-si dell’Istituto di Studi Politici di Parigi (IEP), hanno fatto parte anche Nicholas Stern (che ha legato il suo nome al famo-so “Rapporto Stern” del 2006 sulle con-seguenze economiche dei cambiamenti climatici) ed Enrico Giovannini, presi-dente dell’Istat. Nel “Rapporto Stiglitz”, pubblicato a fine lavori nel novembre 2010, in riferimento all’inadeguatezza dei dati statistici che orientano analisi e valutazioni sullo stato di salute dell’e-conomia, si legge che “le statistiche di uso comune potrebbero non registrare alcuni fenomeni che hanno un crescente impatto sul benessere dei cittadini. Ad esempio, gli ingorghi di traffico possono aumentare il Pil a causa del maggiore uti-lizzo della benzina, ma ovviamente non la qualità della vita. Inoltre, se i cittadini sono preoccupati per la qualità dell’aria e l’inquinamento atmosferico è in aumen-to, le misure statistiche che ignorano l’in-quinamento atmosferico forniranno una stima imprecisa di ciò che sta accadendo al benessere dei cittadini”. E più avanti: “Siamo anche di fronte a una incomben-
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te crisi ambientale, in particolare associata al riscaldamento globale. I prezzi di mercato sono falsati dal fatto che non vi è alcun onere imposto alle emissioni di carbonio; e non si è fatto nessun calcolo del costo di tali emissioni nella contabilità standard del reddito nazionale. Chiaramente, le misure di performance economica che riflettono questi costi ambientali potrebbero essere molto diverse dalle mi-sure standard”. Raccogliendo l’invito rivolto dalla commissione a ogni Paese affinché ciascuno si doti di una “tavola rotonda sul progresso” – cui dovrebbero partecipare i rappresentanti di tutte le componenti della società –, l‘Istat e il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel) hanno fatto di quest’ultimo la sede della “tavola italiana”, con il compito di discutere sul modello di sviluppo da realizzare e sugli indicatori chiave da selezionare per monitorare i risultati
ottenuti. Richieste interne al mercato, incentivi nel settore delle energie pulite e vincoli di legge europei, in particolare per ridurre le emissioni di gas climalteranti, hanno spinto la green economy a cercare una risposta concreta sia alla crisi economica-occupazionale, sia a quella energetica e a quella climatica: per limitarci al nostro Paese, stando al rapporto “Green Italy 2011” della fondazione Symbola e di Union-camere, il 38% delle nuove assunzioni programmate l’anno scorso in Italia ha riguardato i settori dell’economia verde; mentre le imprese che tra il 2008 e il 2011 hanno investito o deciso di investire in tecnologie e prodotti green ammon-terebbero al 23,9%. Da parte sua, la fondazione Sviluppo Sostenibile, presieduta dall’ex ministro all’Ambiente Edo Ronchi, ha copromosso il “Manifesto per un futuro soste-nibile dell’Italia”, sottoscritto anche da decine di imprendi-tori: sette punti per affrontare la crisi economica e sociale insieme a quella ecologica, riqualificando il nostro sviluppo nella direzione della green economy.L’associazione tra crisi economica e crisi ecologica ha au-mentato, peraltro, le schiere di chi sostiene che è suonata l’ora della “decrescita felice”. Una sorta di self-fulfilling pro-
micron / scenari
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Già nel 1968 Bob Kennedy disse che il Pil non bastava più per indicare il grado di
benessere e progresso di una società
phecy (profezia autoavverantesi) alle nostre latitudi-ni. Resta però da dimostrare quanta felicità si possa produrre in questo modo: i grandi numeri di chi subisce la crisi vanno ben oltre le esperienze di pic-cole comunità-pilota che hanno scelto di uscire dal circuito classico dell’economia. È fuori dubbio, co-munque, che ci sono consumi che devono e possono essere felicemente ridimensionati senza ridurre i ser-vizi: basti pensare alla potente leva dell’uso efficiente delle risorse naturali e dell’energia (vedi il “fattore 5”2 tematizzato da Ernst Ulrich von Weiszäcker). Sull’impegnativo tema “Benessere senza crescita” si è cimentata l’edizione 2011 dei Colloqui di Dobbia-co (1-2 ottobre). Il punto è che il modello di società post-crescita non esiste ancora, ha ammesso all’a-pertura dei lavori il coordinatore dei Colloqui, Karl Ludwig Schibel. “La società della crescita è senza fu-turo”, ha ribadito, “ma chi pretende di conoscere la Gestalt [la forma] della Nuova Società post-crescita è piuttosto vittima di un’illusione che fonte di una visione”. Oggi, ha osservato, colpisce più che mai la solitudine dell’ambientalista, circondato dal coro generale di politici, sindacati, imprese e media che cantano “un solo motivo: crescita, crescita, cresci-ta”. Una crescita invocata ad “ogni costo e senza uno sguardo su che cosa cresce, chi ci guadagna, la quali-tà dei posti di lavoro che (forse) nascono, i costi per l’ambiente”. Agli occhi solitari dell’ecologista “quasi ogni notizia andrebbe riscritta. La Fiat ha venduto nel primo semestre il 15% di automobili in meno? Che bel risultato! Il caro benzina? Un piccolo passo
nella direzione giusta per far pagare agli automobili-sti il prezzo vero della mobilità motorizzata indivi-duale. I saldi non sono andati bene? Bene. Evidente-mente gli armadi sono pieni”. Ma poi, ha proseguito Schibel, sopraggiunge una profonda perplessità. “Il
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Bisogna capire se le soluzioni anti crisi sviluppate da piccole comunità-pilota
sono replicabili su larga scala
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calo delle vendite della Fiat ha un effetto benefico sull’ambiente ma minaccia anche posti di lavoro di migliaia di operai che difficilmente ne troveranno un altro, il calo degli acquisti nei saldi farà chiudere qualche negozio impoverendo ulteriormente il cen-tro storico”. Il modello di economia e di consumi che ha dominato negli ultimi duecento anni nei Paesi di più antica industrializzazione (e che è divenuto un riferimento per quelli emergenti), ha osservato Schibel, resta prevalente nell’immaginario e nei de-sideri, nonostante la crisi economica ed ecologica consiglino di seguire una strada diversa. “Manca una visione emotiva e identitaria di uscita dalla società della crescita. Ci sono singole esperienze di qualche quartiere senz’auto, di qualche città di transizione, di comunità ecologiche, d’imprese che hanno rea-lizzato un ciclo produttivo ‘dalla culla alla culla’, ma sono sconnesse e non hanno il respiro di una visione comprensiva di trasformazione economica e cultura-le della società della crescita”.A spegnere gli entusiasmi per l’economia verde ci ha pensato Tilman Santarius, responsabile clima e energia presso la fondazione Heinrich-Boell, legata ai Verdi tedeschi. Nel suo intervento ai Colloqui di Dobbiaco, Santarius si è concentrato sul cosiddetto “effetto rebound” (letteralmente effetto rimbalzo), ossia il paradosso per cui l’aumento dell’efficienza energetica produce un incremento della domanda di energia, vanificando a causa dell’aumento dei consu-mi, il risparmio energetico ottenuto. Le innovazioni tecnologiche, profetizza Santarius, miglioreranno l’attuale rendimento energetico delle fonti rinno-vabili; tuttavia non si apriranno dei margini di cre-scita infiniti. In conclusione, per arginare gli effetti rebound e far fronte al calo di rendimento energetico delle fonti pulite rispetto al petrolio, occorre cam-biare anche la mentalità ispirata finora alla crescita: il livello di benessere non deve essere calcolato sulla base dell’aumento del Pil, ma sul piacere di vivere meglio consumando meno risorse e meno energia.Anche secondo Ralf Fücks, presidente della fonda-zione Heinrich-Boell, “l’odierno modello di crescita non è capace di futuro”, perché impatta eccessiva-
mente sugli ecosistemi e non garantisce un benessere stabile. La crisi del debito pubblico e la crisi ecologi-ca sono due facce della medesima medaglia, frutto di una politica che ha sempre puntato sui prestiti sul futuro: di risorse finanziarie e di natura, producen-do due debiti che pesano sulle generazioni future”, ha detto intervenendo al convegno dell’Associazio-ne ecologisti democratici “La via italiana alla green economy” (Roma, 13 gennaio 2011). Parlare di fine della crescita economica, però, “è finzione allo stato puro, perché, al contrario, stiamo attraversando un gigantesco ciclo di crescita, destinato a proseguire nei prossimi decenni, alimentato da due potenti fat-tori: da un lato l’aumento della popolazione mon-diale dai circa 7 miliardi odierni di esseri umani ai nove miliardi previsti nel 2050, e dall’altro la pos-sibilità per la stragrande maggioranza degli abitanti della Terra di soddisfare finalmente i propri bisogni”. Mentre noi discutiamo di limiti della crescita, ha scritto Fücks, “le popolazioni di Asia, America Lati-na e Africa stanno per realizzare il sogno di una vita migliore, una vita simile a quella che conduciamo noi, con case moderne, alimenti differenziati, televi-sione, computer e telefoni, abiti alla moda e viaggi in Paesi stranieri. Niente e nessuno potrà distoglierli da questi obiettivi”. Se anche per lui è innegabile l’e-sistenza di limiti alla crescita di natura ecologica, a 40 anni dalla pubblicazione del rapporto del Club di Roma sui “Limiti dello sviluppo” (il titolo originale in inglese in realtà era “Limiti della crescita”), Fücks propone un’inversione di prospettiva e il passaggio
dal concetto di limiti alla crescita a quello di crescita dei limiti, possibile grazie, ad esempio, all’apporto delle nanotecnologie, all’inesauribile energia sola-re alla base di ogni processo produttivo in natura, al riciclo, alla bionica. Il rischio di perdere la corsa
micron / scenari
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La cooperazione fra Stati può portare l’Europa a produrre il 100% di elettricità
da fonti rinnovabili entro il 2050
contro la crisi climatica c’è, riconosce; ma c’è anche la possibilità di vincerla, se si riuscirà ad aumentare l’efficienza e a effettuare la transizione alla società delle energie e delle materie rinnovabili. Crescere con la natura: è in questo che consiste la rivoluzio-ne industriale verde. “Crescita zero in Europa non è la risposta alla crescita tumultuosa in corso nel resto del mondo”, sostiene Fücks. “Piuttosto, l’Europa dovrebbe investire il suo orgoglio nel porsi alla testa della modernizzazione ecologica”, mettendo in moto un Green New Deal europeo. A cominciare dalla re-alizzazione di una smart grid europea che metta in rete la produzione di elettricità pulita da varie fonti rinnovabili: quella eolica del Nord Europa con quel-la solare del Sud e con quella da biomasse di ampie regione dell’Est. Puntando alla completa autonomia e al 100% di elettricità da fonti rinnovabili nel 2050.
micron / scenari
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Riferimenti bibliografici
1 Letteralmente: capacità di carico. È la capacità dell’ambiente e delle sue ri-sorse di sostenere un certo numero di individui.
2 È il titolo di una ricerca che spiega come è possibile migliorare l’efficienza energetica e delle risorse.
Smart CityCristiana Pulcinelli
Il fenomeno dell’urbanizzazione riguarderà molto presto la gran parte della popolazione del nostro pianeta, con conseguenze impor-tanti in termini di vivibilità. Una soluzione a tutto ciò potreb-be venire, grazie alla tecnologia, dalla trasformazione delle aree urbane del nostro pianeta in real-tà sempre più efficienti, sostenibi-li, coese, in grado di ottimizzare i servizi, con una elevata partecipa-zione alla vita pubblica.In altre parole, dovremo rendere le nostre città sempre più “ intel-ligenti”
Il sorpasso è avvenuto nel 2008: in quell’anno gli abitanti delle città hanno superato per la prima volta nella storia quelli delle zone rurali. Ma il cammino non si è fermato e, secondo le previsioni delle Nazioni Unite, nel 2050 il 70% del-la popolazione umana sarà urbanizzata, il che vuol dire che due abitanti della Terra su tre affolleranno le città. Naturalmen-te questo cambierà anche l’aspetto delle metropoli che diventeranno sempre più grandi. Nel 1975 le megacities, con una popolazione superiore ai 10 milioni di abitanti, erano solo tre: Tokyo, New York e Città del Messico. Oggi sono più di venti e si ritiene che nel 2030 saranno circa trenta, sempre più concentrate in Asia, America Latina e Africa. I Paesi po-veri conosceranno quindi un’urbanizza-zione accelerata. Come si potrà rendere queste megalopoli vivibili?
NoN SoLo EDiFiCiC’è chi è convinto che la città del futuro non sia fatta solo di edifici, ponti, grat-tacieli, strade, ma anche di infrastrutture sociali e di una rete di comunicazione tra i cittadini. In queste metropoli del fu-turo la rete Internet connetterà tra loro tutte le infrastrutture e ottimizzerà i ser-vizi per i cittadini permettendo un’alta qualità della vita e bassi consumi. Ecco dunque le smart city, le città intelligenti. Secondo una definizione contenuta in un rapporto pubblicato nel 2007 da al-cune istituzioni scientifiche europee e in-titolato Smart cities. Ranking of european medium sized cities, l’intelligenza di una città si misura sulla base di sei caratteri-stiche: economia intelligente, persone intelligenti, governo intelligente, mobili-tà intelligente, ambiente intelligente, vita
intelligente. Un’economia intelligente è fatta di spirito innovativo, capacità di impresa, produttività. Persone intelli-genti vuol dire persone che sono creati-ve e partecipano alla vita pubblica. Un governo intelligente è un governo che fa partecipare i cittadini alle decisioni. Una mobilità intelligente è quella che si ottie-ne con un sistema di trasporti sostenibi-le, innovativo e sicuro ma anche con una rete di infrastrutture per le Information and Communication Technologies (ICT), ovvero per l’informatica e le tecnologie digitali. Infine, un ambiente intelligente è quello che si ottiene con una gestio-ne delle risorse sostenibile e con la lotta all’inquinamento, mentre una vita intel-ligente è quella che potrebbe avere un cit-tadino a cui sono garantite condizioni di salute buone, offerta culturale e di istru-zione, attrazioni turistiche e coesione so-ciale. Riassumendo, una città può essere definita intelligente quando gli investi-menti nel capitale umano e sociale e nelle infrastrutture delle reti di comunicazioni tradizionali (come i trasporti) e moderne (come le ICT) permettono uno sviluppo economico sostenibile e un’alta qualità della vita, con una gestione delle risorse saggia e partecipata.
Città LaBoratorioSi tratta di una nuova versione dell’U-topia di Tommaso Moro? Forse, però, alcune di queste città sono già in costru-zione. Create a tavolino. Un esempio di questa tipologia è Masdar, negli Emirati Arabi Uniti. Disegnata dallo studio di ar-chitettura londinese Foster and Partners, sarà terminata entro il 2020 nel deserto appena fuori Abu Dhabi: una vera città-fortezza protetta da bastioni. La costru-
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zione si articola in due fasi: si parte da una centrale fotovoltaica di 40 megawatt che produrrà energia senza CO2 per costruire, in un secondo momento, una città pronta ad ospitare 50mila abitanti. La cen-trale dovrebbe essere pronta entro il 2012. La città sorgerà su un’area di 6 chilometri quadrati. L’elet-tricità sarà fornita da impianti fotovoltaici, solari e a vento, l’acqua da un impianto di desalinazzazione alimentato dal sole. Il 99% dei rifiuti sarà riusato, ri-ciclato, finirà in compostaggio e termovalorizzatori, mentre per il trasporto sarà favorito quello pubblico, il car sharing e i mezzi a bassa emissione. A Masdar, che in arabo significa “sorgente”, saranno presenti numerosi centri di ricerca, formazione e, in parte, anche produzione nel campo delle energie alterna-tive, oltre a società di finanziamento e commercia-lizzazione specializzate nel settore, persino il Mit di Boston. Masdar sarà collegata ad Abu Dhabi e all’aeroporto mediante una nuova ed efficiente rete di ferrovia metropolitana, mentre al suo interno la massima distanza tra una fermata di mezzi pubblici e l’altra sarà di 200 metri. Nella seconda fase di costru-zione, lungo le mura della città verranno creati par-chi eolici, fattorie fotovoltaiche, coltivazioni speri-mentali e altre piantagioni, nell’intento di realizzare un sistema completamente autonomo. Ogni edificio, lampione e dispositivo elettronico di Masdar è stato preprogrammato con un equipaggiamento di alta tecnologia per massimizzare il rendimento energeti-co. Chi vuole andare a Masdar può già prenotare un ufficio (www.masdarcity.ae/en).C’è poi New Songdo City, in Corea del sud. La me-tropoli, che sorgerà su un’isola artificiale situata 40
miglia al largo di Seul, è pensata come un laboratorio vivente. Anche qui uno spazio di sei chilometri qua-drati (sarà la dimensione ideale degli urbanisti?) con grattacieli, parchi, servizi, campi da golf. Vi saranno
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alcune città interamente smart sono già in costruzione negli Emirati arabi
Uniti, in Corea del Sud e in Portogallo
ospitati 65mila abitanti. Wi-Fi e radiofrequenze ri-leveranno in modo automatico tutto, dai musei alle automobili e ai trasporti. Denaro e documenti non serviranno più ai cittadini di New Songdo: ogni loro azione sarà registrata, ogni servizio personalizzato.In Portogallo, distretto di Oporto, si sta costruendo PlanIT Valley. Un villaggio studiato da architetti, ingegneri e informatici per diventare un esempio di eco-sostenibilità. Entro il 2015, dicono gli architetti, tutto sarà pronto. Case dai tetti ricoperti di vegeta-zione per assorbire pioggia e sostanze inquinanti e scaldare di più; edifici a forma esagonale, per rispar-miare; un controllo a distanza del consumo di acqua ed energia elettrica per evitare sprechi; un computer in ogni casa per misurare i livelli di umidità, la tem-peratura e calcolare in che modo dispensare il calo-re o l’aria condizionata; un programma di riciclo di materiali, dall’acqua ai rifiuti solidi. E, soprattutto, un potente supercomputer che, come un cervello, regolerà da remoto tutte le attività delle case, per garantire risparmio, tutela dell’ambiente e consumo critico. E per cercare i bambini che si perderanno tra le vie ci sarà find my kid, un software collegato a un circuito di telecamere distribuite in tutto il Paese. Ma sono davvero queste le soluzioni per il futuro?
L’iNtELLiGENza CoLLEttivaC’è chi sostiene che questi progetti disegnati dall’al-to non funzionano: troppo concentrati sull’efficien-za, dimenticano altri valori fondamentali e presumo-no quello che le persone vogliono senza saperlo con esattezza. E poi, l’intelligenza collettiva che si può ottenere con una città costruita con un approccio “dall’alto verso il basso” è niente in confronto alla forma di intelligenza che sta emergendo da milioni di cittadini connessi in rete. Secondo questa diversa visione, le amministrazioni e le aziende tecnologiche possono sfruttare un approccio “dal basso verso l’al-to” per creare città intelligenti in cui siano gli abi-tanti a produrre i cambiamenti e non i progettisti ad imporglieli. Come scrivono Carlo Ratti e Anthony Townsend su uno speciale di Scientific American de-
dicato alle città, “con strutture di supporto adeguate, i cittadini possono affrontare problemi come il con-sumo energetico, il traffico, l’assistenza sanitaria e l’i-struzione in modo più efficace di quanto farebbero con norme centralizzate. Inoltre gli abitanti in rete possono usare l’intelligenza distribuita per dare for-ma a nuove attività e a un nuovo tipo di cittadinanza attiva”. L’idea è quella di sfruttare la rete che si è cre-ata negli ultimi anni grazie alle tecnologie digitali: fibre ottiche, banda larga e reti senza fili mettono in connessione smartphone, computer, tablet che sono sempre più alla portata di tutti. Allo stesso tempo ci sono sempre più banche dati accessibili a tutti. Tutto questo potrebbe ottimizzare la vita in città. Qualche esempio di progetti già in piedi? A Stoccolma le tele-camere del sistema di pagamento dei pedaggi identi-ficano la targa dei veicoli che entrano in centro e ad-debitano sul conto corrente degli automobilisti fino a 6 euro e 60 al giorno. Questo sistema ha ridotto del 50% il tempo di attesa dei veicoli che attraversano il centro e del 15% le emissioni inquinanti. Se, invece, si vuole vedere quanto traffico c’è a Roma e dove si concentra si può cliccare sulla funzione “traffico” di Google Maps. Pochi sanno però che invece di costru-ire una costosa rete di sensori lungo le strade, Goo-gle aggiorna la mappa grazie a una rete di volontari anonimi i cui dispositivi cellulari riportano le ultime novità in fatto di intasamenti di strade. E ancora, a Parigi per espandere i dati sul monitoraggio dell’ozo-no si è deciso di distribuire 200 apparecchi ad altret-tanti abitanti che possono essere inseriti su veicoli o telefoni e che sono in grado di rilevare il livello di ozono e di rumore. In un solo quartiere nel corso del
primo test sono state fatte 130.000 rilevazioni, a co-sto bassissimo. Anche la Commissione europea si è accorta delle potenzialità delle smart cities. In parti-colare, l’interesse dell’Europa è dettato dal fatto che
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La grande risorsa per migliorare le nostre realtà urbane è rappresentata
dalla connessione in rete dei cittadini
entro il 2020 bisogna risparmiare il 20% dell’energia consumata. Visto che il 70% dei consumi di energia del Vecchio Continente si concentrano nei centri ur-bani, si può partire da lì per ridurli rendendo la città un po’ più intelligente? Così, nel giugno 2011 è stata presentata un’iniziativa per favorire le smart cities: 80 milioni di euro da assegnare ad alcune città pilota tra quelle che si sono proposte. Non sappiamo se tra que-ste città ci sia qualche città italiana, però se si guarda alla mappa che accompagna il rapporto Networked Society City Index (Nsci) diffuso dalla Ericsson, si vede che nessuna delle città italiane rientra nella classifica delle 25 metropoli più smart al mondo. Le prime posizioni sono detenute dal gruppo delle “tre esse”: Stoccolma, Singapore e Seul. Tre città che negli ultimi anni hanno investito grandi energie e capitali nella realizzazione di progetti capaci di migliorare la qualità della vita dei cittadini. Intanto, in vista delle Olimpiadi, Londra prova a stare al passo e prepara la zona di Wi-Fi gratuito più grande d’Europa. La connessione internet wireless sarà alimentata da un sistema installato sull’arredo urbano.
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Fragili cittàGiovanna Dall’Ongaro
Vittime o carnefici? Le aree urbane del pianeta sono consi-derate le principali responsabili dei cambiamenti climatici, ma sono anche le prime a soffrirne le conseguenze. Oggi i cittadini che vivono in zone a rischio inonda-zione sono 40 milioni, nel 2070 arriveranno a 150. I costi per riparare ai danni provocati dalle catastrofi naturali sono divenuti esorbitanti. È tempo di correre ai ripari, intervenendo sulla capaci-tà strutturale delle città di reagire
“Niente panico… ok panico!”. Forse è poco ortodosso servirsene in questa sede, ma la celebre battuta del fi lm L’aereo più pazzo del mondo sembra perfetta per de-scrivere il tenore di due lettere consegna-te di recente al Wall Street Journal: nella prima, pubblicata il 27 gennaio 2012 con il titolo No need to panic about global warming e fi rmata da 16 scienziati (tra cui anche l’italiano Antonio Zichichi), leggiamo che il riscaldamento globale non deve allarmarci, perché, in sostanza, il fenomeno non è mai stato dimostra-to scientifi camente. Darlo per scontato equivarrebbe a pronunciare un atto di fede e, piuttosto che abbracciare il dog-ma del global warming, i 16 preferiscono far la parte degli eretici. Seguire, cioè, le orme del premio Nobel per la fi sica Ivar Giaever che si è congeda-to dall’American Physical Society (APS) con la domanda polemica: “come mai l’APS è disponibile a discutere se la massa del protone cambi col passare del tempo o come si comporta un multi-universo, ma ritiene le prove del riscaldamento globale incontrovertibili?” Nella seconda lettera, apparsa sul quo-tidiano americano lo scorso 1° febbraio con 37 fi rme in calce, si dice esattamente il contrario: il pianeta si sta riscaldando ed è urgente correre ai ripari. Lo scetti-cismo di chi ha sollevato la polemica, dicono senza mezzi termini i 37, deriva solo da una mancata conoscenza dei fat-ti. La maggior parte degli scienziati che hanno fi rmato la prima lettera non si oc-cupa di clima e i loro giudizi dovrebbero essere tenuti nella stessa considerazione di quelli di un dentista che parla di pato-logie cardiache. “Sarebbe sconsiderato da parte dei politici”, si legge in conclusione, “trascurare il peso dell’evidenza e ignora-
re i giganteschi rischi che il cambiamento climatico sta chiaramente provocando”. A chi dar retta? Alle preoccupanti previ-sioni dei 37 o alla rassicurante visione dei 16? Panico, o niente panico? A giudicare dai danni causati da tsunami, alluvioni e tempeste nel 2011, i motivi di preoccupazione non sembrano ingiu-stifi cati. La compagnia d’assicurazioni Munich Re, che ha calcolato i costi delle tragedie ambientali nel mondo dal 1980 a oggi, ha registrato per lo scorso anno la cifra record di 380 miliardi di dollari. Il rapporto è un susseguirsi di eloquen-ti grafi ci che mostrano una tendenza diffi cilmente contestabile: negli ultimi trent’anni i disastri naturali stanno au-mentando e ci costano sempre più. A cre-scere maggiormente sembra siano stati proprio i fenomeni legati ai cambiamenti climatici, come tempeste ed alluvioni.
RESILIENZA URBANAIl 5 ottobre del 2011, nonostante fos-se uscita indenne dall’uragano Irene, la società che gestisce la metropolitana di New York (Metropolitan Transportation Authority, MTA) ha consegnato all’am-ministrazione federale dei trasporti un rapporto dall’insolito titolo: State of good repair in the era of climate change. Si tratta di un programma di interven-ti, dalla realizzazione di pedane rialza-te all’ingresso delle stazioni, a barriere che trattengono l’acqua fi no a ulteriori vie di fuga, pensati insieme alla Colum-bia University per preparare la Grande Mela a un futuro che si presenta sempre più bagnato. Una ricerca dell’Università dell’Arizona del febbraio 2011 ha infatti calcolato che, entro il 2100, molte città che sorgono sulla costa degli Stati Uniti,
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come Boston, New York, Miami, New Orleans, potrebbero consegnare alle acque interi quartieri. Più precisamente: se il livello del mare si alzasse di un metro dovrebbero cedergli il 10% della loro superficie, se arrivasse a tre metri il 20%, mentre se raggiungesse i 6 metri dovrebbero rinunciare per sempre a un terzo del loro territorio. Stessa sorte, secondo il Rapporto delle Nazioni Unite Cities and Climate chan-ge 2011, toccherà ad altre città nel mondo: “le previsioni sull’innalzamento del livello del mare dal 2030 al 2050 indicano che le città egiziane sul delta del Nilo come Ales-sandria, Rosetta e Damietta saranno gravemente colpite.
Altre città costiere come Copenhagen saranno particolar-mente vulnerabili all’innalzamento del livello del mare”. Nello stesso Rapporto leggiamo anche che “disastri na-turali come l’uragano Katrina del 2005 diventeranno più frequenti e colpiranno migliaia di città della costa sia nei Paesi ricchi che in quelli poveri”. E che oggi già più di 360 milioni di cittadini vivono in aree urbane esposte a rischio di inondazioni.Stando così le cose, il documento della società metropoli-tana newyorchese si mostra in tutta la sua lungimiranza e dovrebbe essere d’esempio ad altre città del mondo meno inclini ad accettare l’antico adagio secondo cui la pruden-za non è mai troppa. L’invito a emulare New York viene dell’UNISDR (United Nations International Strategy for Disaster Reduction) e dalla sua campagna 2010-2015 inti-tolata Making cities resilient, rendere le città resilienti.La resilienza, che per la scienza dei materiali è la capacità di un corpo di resistere a impatti violenti e recuperare la forma originaria, si misura in questo caso nelle risorse che le città riescono a trovare per affrontare disastri naturali, come uragani e alluvioni. Fenomeni di cui, paradossalmen-te, hanno proprio loro molte colpe. Responsabili del 70% delle emissioni di gas serra, le città, in un mondo sempre più urbanizzato, sono le prime a pagare le conseguenze dei cambiamenti climatici. Diventando così prima carnefici e, poi, vittime.
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Entro il 2100 molte città costiere americane potrebbero essere costrette a cedere al
mare una parte del loro territorio
riNaSCErE DaLLE roviNEIl Palazzo Nazionale di Port au Prince, capitale di Haiti, è ancora quel cumulo di macerie in cui le scos-se di magnitudo 7 lo hanno ridotto il 12 gennaio del 2010. Ora la onlus inglese Article 25, organizzazione esperta nella ricostruzioni post catastrofe, lancia un bando internazionale di idee per dare un nuovo vol-to all’antica sede del governo. Il futuro edificio do-vrà essere simbolo allo stesso tempo della crisi, della democrazia, del potere e della sicurezza. A due anni di distanza dal sisma che provocò 260.000 morti e lasciò più di un milione di persone senza una casa, si cerca di individuare un punto di partenza da cui avviare la ricostruzione. Per Lawrence Vale, docen-te di pianificazione urbanistica al MIT di Boston e autore del libro The Resilient City: how modern ci-ties recover from disatser, la resilienza degli haitiani è profondamente legata alla fede. La ricostruzione sarebbe dovuta partire dalla cattedrale e dagli altri luoghi di culto. Di fronte alle macerie di tutte le cit-tà, ovunque nel mondo, ci si pone sempre le stesse domande: da dove cominciare? Come ricostruire? Innovare o conservare? Difficile trovare un’unica risposta. Mentre Klaus Jacob, geofisico dell’Earth Institute della Columbia University, fece di tutto per dissuadere il governo americano a far rinascere New Orleans negli stessi luoghi colpiti dall’uragano Ka-trina del 2005, in Italia l’atteggiamento più diffuso resta quello inaugurato nel 1976 con il terremoto del Friuli: “tutto com’era e dov’era”. “E’ impossibile individuare una strategia valida universalmente per
la ricostruzione post-catastrofe”, dice Walter Fabiet-ti professore di urbanistica all’Università di Pescara ed esperto di pianificazione sismica. “Quando si ha l’opportunità di ricostruire dalle macerie non basta assicurarsi che i singoli edifici siano sicuri. Bisogna
ripensare l’area urbana nel suo complesso. Nella nuova pianificazione urbanistica andrebbero indivi-duati gli elementi prioritari che si vogliono preserva-re nell’eventualità di una catastrofe. Quella struttura urbana minima che garantisce alla città di mantenere vitali alcune funzioni prioritarie”.
i Primi iNtErvENti E LE Loro CoNSEGUENzELe scelte che si compiono immediatamente dopo la catastrofe possono lasciare segni indelebili sul futuro volto delle città. Per questo la Banca Mondiale ha ri-tenuto utile pubblicare nel 2010 una guida dal titolo Handbook for reconstructing after natural disater. Vi troviamo una serie di principi generali che dovrebbe-ro aiutare i governi a fare le scelte giuste. Leggiamo per esempio che la decisione di trasferire le persone in luoghi lontani da quelli colpiti non è quasi mai la migliore: “Una delle principali ragioni per cui il tra-sferimento si rivela un insuccesso deriva dal fatto che viene sottovalutato il benessere della popolazione come criterio per la scelta dei luoghi. Zone inadatte potrebbero venire selezionate solo perché facilmente accessibili o perché adatte a venire edificate in tempi rapidi. Così le persone che sono state trasferite per venire protette da un rischio (tsunami per esempio) vanno incontro ad altri rischi (smarrimento, depres-sione, mancanza di servizi)”. Valutare le conseguen-ze a lungo termine dei primi interventi è l’obiettivo anche del rapporto Shelter report 2012 dell’associa-zione Habitat for Humanity, una Ong impegnata nell’accoglienza degli sfollati. Qui si parte da un assioma: “le strutture temporanee devono essere ciò che sono: temporanee”. Troppe volte, si legge nel rapporto, gli alloggi provvisori sono diventati defi-nitivi, imponendosi prepotentemente nella nuova pianificazione urbana. Sono diventati, cioè, parti in-tegranti della città. Il che può non essere un grande danno si tratta dei graziosi cottage di legno che gli abitanti di San Francisco hanno riadattato come ga-rage o trasformato in dependance dopo il terremoto del 1906. Ma sappiamo bene che non è sempre così.
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ricostruire non significa solo pensare alla sicurezza degli edifici, ma anche
restituire una fisionomia alla città
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Belle o brutte che siano, le strutture temporanee do-vrebbero rispettare alcuni criteri: “venire collocate il più possibile vicino ai luoghi d’origine delle famiglie, sia per evitare lo straniamento tipico di chi perde i punti di riferimento, sia per permettere ai proprie-tari delle abitazioni danneggiate di controllare i la-vori di ristrutturazione”. Se ciò non fosse possibile, si legge nel rapporto, nei dintorni delle strutture di accoglienza devono trovarsi “trasporti, uffi ci, negozi, servizi sociali, e il trasferimento non deve avvenire a danno della comunità che deve restare coesa”. Il pen-siero inevitabilmente corre a L’Aquila.
Il lato oscuro della cittàTina Simoniello
Da sempre il contesto urbano viene associato a patologie respi-ratorie, cardiovascolari e stress. Ma quanto incide la vita di città sull’equilibrio psichico? Alcuni studi mostrano che chi vive in città presenta un rischio maggio-re di sviluppare disturbi di ansia e dell’umore rispetto a chi vive in campagna. Jens Pruessner e alcuni suoi collaboratori, in una ricerca pubblicata recentemente su Nature, sono riusciti a dimo-strare che la vita in città, e addi-rittura il tempo di inurbamento, condizionano regioni cerebrali diverse
Il 75 % della popolazione europea vive in agglomerati urbani. una percentuale che, si prevede, nel 2020 salirà all’80%. La città, le nostre città, saranno – e già sono, per la verità – il milieu nel quale abita, si sposta, tesse relazioni umane e sociali, lavora e scambia idee la gran par-te degli uomini e delle donne del Vecchio Continente. Ma le città saranno – e sono – anche il contesto nel quale tutte que-ste persone “domanderanno salute”. E se è vero che la città offre più possibilità di cura di quanto non faccia la campagna, se non altro per la maggiore accessibili-tà alle strutture sanitarie di cui godono i suoi abitanti, è altrettanto vero che in città ci si ammala di più. E non parliamo qui di allergie o di patologie respiratorie, ascrivibili alla più scarsa qualità dell’a-ria dell’ambiente urbano. E neanche ci stiamo riferendo all’ipertensione o ai disturbi dell’apparato uditivo, tipici di una esposizione prolungata al rumore di chi risiede in centri densamente popola-ti e trafficati. Stiamo parlando di disagio mentale, di instabilità psichica.Che la città stressa lo sanno tutti. E so-prattutto ne parlano tutti, da decenni, tanto che ormai l’affermazione viene au-tomaticamente derubricata tra i luoghi comuni e le banalità da talk show. Ma un conto è parlare del logorio della vita mo-derna nelle metropoli, altro è misurare, cioè descrivere con i numeri, il disagio emotivo diffuso nei grandi agglomera-ti urbani. Insomma, una cosa è studiare tendenze, sebbene in modo scientifico (in passato il rapporto tra città e psiche è stato soprattutto argomento della socio-logia e della psicologia sociale), altra cosa è fornire le percentuali di un disagio (e siamo allora nell’epidemiologia), dimo-strando che la vita in città rappresenta un
fattore di rischio per la mente. Dati alla mano, è proprio quello che ha fatto una metanalisi pubblicata su Acta psichiatrica scandinavica nel 2010. Secondo la ricer-ca, chi risiede in città presenta un rischio del 21% più elevato di sviluppare distur-bi dell’ansia e del 39% di ammalarsi di disturbi dell’umore, rispetto a chi vive in campagna. Studi precedenti avevano inoltre già rilevato che, in città, l’inci-denza della schizofrenia è sensibilmente più alta di quella misurata nelle popola-zioni rurali. Ma sebbene questi risultati siano ampiamente attribuiti dalla comu-nità scientifica all’ambiente sociale urba-no, e quindi se un legame tra città e psiche c’è, la biologia di questa correlazione non è mai stata descritta.Tuttavia, una recente ricerca tedesco-canadese ha cominciato a fare luce sul-la questione. Con lo studio City living and urban upbringing affect neural social stress pubblicato su Nature il 23 giugno scorso, Jens Pruessner e altri suoi col-leghi, ricercatori dell’Istituto di salute mentale dell’Università di Mannheim e della McGill Universty di Montreal, hanno valutato l’attività cerebrale di due tipologie di volontari, nessuno dei quali a rischio o affetto da disordini mentali ma tutti cresciuti o residenti al momento dell’esperimento in contesti urbani op-pure rurali. E l’hanno fatto utilizzando il Mist (Montreal Imaging Stress Task), un protocollo che associa la Risonanza ma-gnetica funzionale a stimoli esterni che ricreano sperimentalmente situazioni di stress sociale1. Il senso dello studio era ca-pire se il cervello di persone che abitano in ambienti così diversi come sono i pic-coli centri e la città e, in particolare, se il cervello di chi in Paese e in città ci vive da poco e quello di chi vi è nato e cresciuto,
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processasse e valutasse diversamente gli stimoli stressogeni. Lo studio era piuttosto complesso e consisteva di diversi trials ma, semplificando e riassumendo molto, possiamo dire che le cose sono andate più o meno così: i ricercatori hanno affidato ai volontari il compito di risolvere test arit-metico/matematici in tempi stabiliti. Nel corso dei compi-ti, così come previsto dal Mist, a tutti i partecipanti tranne che al gruppo di controllo venivano forniti feedback nega-tivi (stimoli stressogeni). Allo scopo di verificare lo stato di stress di ciascuno, ai partecipanti venivano periodicamente effettuati prelievi del cortisolo salivare e misurati pressio-
ne arteriosa e battito. E tutto ciò, come detto, mentre la risonanza magnetica registrava quali fossero le diverse aree cerebrali stimolate e quanto lo fossero. Ebbene, dall’ana-lisi dei dati raccolti è risultato che la vita in città si associa all’attività di due precise regioni del cervello: l’amigdala (una zona coinvolta nella regolazione dell’umore e delle emozioni) e la corteccia cingolata anteriore (una regione coinvolta nella regolazione degli stati affettivi negativi e dello stress). Ma che, mentre chi risiede in città (city dwel-lers, li chiamano gli autori) mostra una più intensa risposta allo stress dell’amigdala, coloro che in città oltre a viverci sono anche nati e/o sono cresciuti, cioè vi hanno trascor-so una lunga e precoce fase della loro vita (city upbringing, secondo i ricercatori) rispondeva allo stress con una più marcata attività della corteccia cingolata anteriore. Come Jens Pruessner ha dichiarato alla stampa: “I risultati sug-geriscono che diverse regioni cerebrali sono sensibili all’e-sperienza di vivere in città per diversi periodi nel corso della vita”. Aggiungendo: “I dati ottenuti contribuiscono a migliorare la nostra comprensione dell’ambiente urbano come fattore di rischio per i disturbi mentali e la salute in generale”. Gli stessi autori, tuttavia, sebbene parlino della città come “fattore di rischio” per la salute, non si spingono oltre le osservazioni, ovvero non dicono secondo loro in che modo, e attraverso quali meccanismi, la città impatti sul benessere della mente. Una considerazione però la fan-
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Uno studo del Marmot Review Team, ipotizza l’introduzione di una “valutazione di salute”,
ogni volta che si progettano opere urbanistiche
no. Ancora Pruessner: “Il nostro lavoro è un punto di partenza per arrivare a un nuovo modello di in-terfaccia tra scienze sociali, neuroscienze e politiche sociali per rispondere ai problemi sanitari connessi ai fenomeni di urbanizzazione”. Una considerazione che potrebbe (dovrebbe?) suonare come un invito. Eh sì, perché il rapporto tra urbanizzazione e salu-te, o più in generale tra pianificazione territoriale e salute, non funziona granché. O almeno, tra i due si-stemi – sociosanitario e della pianificazione urbani-stica – non ci sono oggi relazioni che siano costanti e soprattutto sistematizzate. Non siamo però un caso unico, visto che altri si stanno ponendo il problema.
UNa via PEr La SaLUtE In Inghilterra il National Institute of Clinical Excel-lence ha pubblicato nel 2010 un report curato dal Marmot Review Team dal titolo Implications for Spa-tial Planning. Il lavoro2 – commissionato nel 2008 dal Segretario di Stato per la Salute – aveva lo scopo di indagare il rapporto fra sistemi di pianificazione territoriale e salute umana, riferendosi in particolare alle differenze di salute tra categorie socioeconomi-che diverse. Il documento ha confermato come le di-suguaglianze socioeconomiche, compreso l’ambien-te costruito, abbiano un chiaro effetto sulla salute delle popolazioni. Ma quello che è interessante è che nella review viene ipotizzata l’introduzione di una “valutazione di salute”, qualcosa di simile alla nostra Valutazione di impatto ambientale, ogni volta che si lavora alla progettazione di opere urbanistiche. Una Via sulla quale amministratori, policymakers e pro-fessionisti della salute farebbero bene a camminare insieme.
riferimenti bibliografici
1 Maggiori dettagli sul Mist sono disponibili ad esempio in www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC1197276/
2 Fonte: http://saluteinternazionale.info/2012/01/pianificazione-del-territorio-e-salute/
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Urbanizzazione e cambiamenti climaticiCristian Fuschetto
Le città più fragili da un punto di vista economico, sociale e dell’or-ganizzazione urbana sono anche quelle più esposte agli effetti dei disastri ambientali provocati dai cambiamenti climatici. Per contrastare questo fenomeno, è necessario fornire strumenti di conoscenza adeguati in grado di prevenire e mitigare il rischio. È l’obiettivo di “Cluva”, un progetto di cooperazione internazionale promosso e finanziato dall’Unio-ne Europea che si propone di for-mare in questo ambito gli studen-ti di alcune Università africane
Sono nove, si chiamano Timack, Augu-stino, Nebyou, Isidore, Christine, Ar-naud, Urbaine, Tekle, Oumar, e su di loro molti Paesi africani hanno fatto un’im-portante scommessa. Provengono dalla Tanzania, dal Senegal, dall’Ethiopia, dal Burkina Faso e dal Cameroun e sono stati scelti dalle rispettive Università per di-ventare degli specialisti nella prevenzione dei rischi ambientali. L’effetto combinato della fragilità dei sistemi economici e so-ciali, dei cambiamenti climatici e di una repentina quanto disordinata urbanizza-zione, rende gran parte delle città africa-ne particolarmente esposte al verificarsi di disastri ambientali. “Lì – spiega Paolo Gasparini, docente di Fisica Terrestre presso l’Università Federico II di Napoli e coordinatore scientifico di Amra, Cen-tro regionale di competenza per l’Analisi e il monitoraggio del rischio ambienta-le della Campania – anche dei piccoli cambiamenti nei rischi naturali possono provocare delle catastrofi, e ciò proprio a causa della debolezza del tessuto socio-economico. In questo tipo di ambiente anche un piccolo evento, per esempio una pioggia molto forte, invece di provocare 10 morti come a Genova, ne provoca cen-tinaia”. Per contrastare questo fenome-no, la Commissione Europea ha deciso di finanziare un progetto di studio e di prevenzione dei rischi ambientali indotti dai cambiamenti climatici su alcune del-le principali città africane. Il progetto si chiama Cluva (Impatto dei Cambiamenti Climatici sulla Vulnerabilità Urbana del-le Città Africane), ha un valore di oltre 4 milioni di euro e a guidarlo è l’Amra, in questi ultimi anni affermatosi come uno dei più importanti enti di ricerca inter-nazionali sui sistemi di mitigazione del rischio. Il progetto di cooperazione du-
rerà tre anni e vedrà lavorare insieme sei enti europei e sei enti africani. Da un lato l’Università di Copenaghen, l’Università di Manchester, il Politecnico di Monaco di Baviera, il Centro Euromediterraneo sui Cambiamenti Climatici, il Centro Helmholtz per la Ricerca Ambientale e l’Istituto Norvegese per la ricerca ur-bana e regionale; dall’altro l’Università “Gaston Berger” di St. Louis (Senegal), l’Università di Ouagadougou del Burki-na Faso, l’Università di Yaounde (Came-roun), l’Ardhi University e l’Università di Addis Abeba (Etiopia) e il Csir – Centro per la ricerca scientifica e industriale del Sud Africa. L’obiettivo è quello di favo-rire la gestione sostenibile dell’ambiente e delle risorse nei centri urbani africani, attraverso l’approfondimento delle co-noscenze sulle interazioni tra biosfera, ecosistemi e attività umane. “Lo scopo di Cluva – precisa Gasparini – è prevedere e verificare, entro il 2050, le variazioni nei rischi di natura ambientale causate dai cambiamenti climatici, e quindi forni-re agli amministratori delle diverse città campione delle indicazioni utili a preve-nire eventi che potrebbero rivelarsi disa-strosi. Abbiamo così proposto di riunire, insieme ai loro omologhi africani, alcuni dei maggiori esperti europei di cambia-menti climatici, di gestione del rischio, di urbanistica e di scienze sociali per dar vita a delle attività integrate di ricerca”. Nel corso dei prossimi tre anni verranno condotti studi prospettici per valutare i rischi e le vulnerabilità delle principa-li aree urbane africane, analizzando gli eventuali danni indotti in queste aree, a seconda dei casi, da inondazioni, innalza-mento del livello del mare, siccità, ondate di calore, desertificazione, tempeste e in-cendi. “In questo modo miriamo a svilup-
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pare delle innovative strategie di adattamento delle città ai cambiamenti climatici, in modo da renderle più preparate ai rischi che inevitabilmente ne conseguiranno”. Oggi in Afri-ca sono circa 297 milioni le persone che vivono nelle aree urbane, il 38% della popolazione totale, e si stima che entro il 2030 tale percentuale sia destinata a crescere arrivando a superare il 50%. Il continente fa infatti registrare un tasso di urbanizzazione pari al 3,5% annuo, il più alto al mondo. Basti pensare che da qui a tre anni sarà quasi raddoppiato il numero di città con una popolazione di oltre un milione di abitanti, passando dalle 40 attuali alle 70 del 2015. Com’è
facile immaginare, nella maggior parte dei casi alla crescita meramente numerica della popolazione non ha fatto segui-to e tuttora non fa seguito un adeguato sviluppo economico e infrastrutturale, il che si traduce in elevati livelli di disoc-cupazione e, per adoperare un eufemismo, in una organiz-zazione piuttosto debole degli alloggi e servizi da destinare alle crescenti masse di persone che dalle campagne si river-sano nelle città in cerca di un lavoro. A rendere ancora più complesso l’attuale stato dell’arte di quelle che potrebbero dirsi politiche di “protezione civile”, intervengono altri due fattori particolarmente significativi. Da un lato, si fanno sempre più numerose le catastrofi ambientali, responsabili di danni alla rete idrica (già scarsa in molti luoghi) e ad altre infrastrutture strategiche come la rete energetica, i trasporti e le telecomunicazioni; dall’altro, le previsioni di tali cata-strofi sono tuttora in gran parte inaffidabili, poiché basate su modelli di circolazione globale a bassa risoluzione e su scala molto ampia, quindi inadatte a rappresentare gli effetti che sulle aree urbane potranno avere i due più importanti attori della variabilità del clima africano, vale a dire la cosiddetta El Niño-Oscillazione Meridionale (ENSO - El Niño-Southern Oscillation) e il repentino cambiamento della copertura del suolo. Tutto questo determina una fragilità della geografia urbana, su cui è necessario agire immediatamente attraverso la programmazione di interventi che possano mitigare gli effetti di eventi climatici “anomali”. Ma per programmare
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Si stima che entro il 2030 più della metà della popolazione africana vivrà
nelle aree urbane
misure del genere è necessario innanzitutto formare figure professionali in grado di individuare i fattori di criticità delle nuove città africane in relazione agli effetti diretti e indiretti dei cambiamenti climatici in corso. Si fa cioè urgente il bisogno, per progettisti, manager e amministratori, di ricercatori in grado di formulare previsioni affidabili circa l’impatto locale del cambiamento climatico e, quindi, di fornire tutte le necessarie competenze per rafforzare e – nella mag-gior parte dei casi – fabbricare ex novo infrastrutture durevoli. Cluva serve esattamente a questo, a sfornare esperti in grado di intervenire sulla sicurezza delle cit-tà sempre più numerose del continente nero. Il primo step del progetto si è svolto a Napoli, dove lo scorso novembre i nove studenti africani sono sta-ti preparati dagli specialisti di Amra su quello che in gergo si chiama “multirischio”, ovvero nel monito-raggio, nella previsione e nella gestione della molte-plicità di effetti possibilmente causati da un evento. “Le fonti di rischio vengono considerate in modo armonico – dice Gasparini – quindi si fa un ranking, ovvero una graduatoria delle conseguenze che posso-no portare”. La graduatoria stilata dagli scienziati ha un valore strategico non solo e non tanto dal punto di vista scientifico, quanto dal punto di vista della governance. “Il ranking – continua Gasparini – può essere utilizzato dagli amministratori locali per capi-re dove agire prima o, nel caso di penuria di risorse, quali azioni mettere in pratica e quali no. Insomma, se si vuol davvero porre in essere una pianificazione urbanistica di nuova generazione non si può che par-
tire da qui”. Le città campione sono cinque: Addis Abeba (Ethiopia), Dar es Salaam (Tanzania), Doua-la (Cameroon), St. Louis (Senegal) e Ouagadougou (Burkina Faso). Ognuna di esse presenta problemi ambientali specifici. Tanto per farsi un’idea, basta
citare il caso di alcune. Addis Abeba, per esempio, è la più grande città dell’Etiopia e, tra le città d’Afri-ca, una delle più esposte alla pressione demografica. L’Etiopia fa registrare una crescita della popolazione del 6% annuo e la mancanza di terreni agricoli, som-mata alle numerose carestie, determina una crescente migrazione dei più giovani dalle zone rurali verso la capitale, dove peraltro non c’è la minima possibilità di trovare un lavoro. Addis Abeba, di cui si stima una popolazione di 5 milioni di persone con un reddito medio di circa 1 dollaro al giorno, è composta per circa l’80% del territorio da slums. Il sistema econo-mico della città dipende direttamente dalle stagioni piovose e il cambiamento climatico rischia di mettere in ginocchio una realtà urbana peraltro già fragilissi-ma. Douala presenta invece una morfologia che con-sente una grande crescita urbana territoriale. La città camerunense è alimentata principalmente dal fiume Wouri, attraverso un labirinto di insenature e lagune, e il rischio cui è maggiormente esposta è rappresen-tato dal possibile innalzamento del livello del mare, che a giudizio degli analisti esporrebbe innanzitutto l’intero sistema dei trasporti. Saint Louis, infine, na-sce e si sviluppa alla foce del fiume Senegal, in una zona paludosa che si estende per oltre 10 chilometri verso il lungomare fino a N’gallèle. In questo caso è tutto il perimetro cittadino ad essere soggetto a un rischio molto elevato di inondazione e ciò a causa della combinazione di una frequenza molto alta di precipitazioni, suolo impermeabile e reti di drenag-gio inadeguate. Se le ambizioni del progetto sono di rilievo, c’è tutta-via da dire che, al di là del livello scientifico dei sog-getti coinvolti, la strada da compiere è ancora lunga. L’obiettivo della cooperazione euro-africana è infatti inficiato dai sistemi di governance delle città. Un ma-nager specializzato nella prevenzione e nella mitiga-zione del rischio degli effetti causati sulle grandi aree urbane da fenomeni climatici anomali può intanto avere un senso se si presuppone l’esistenza di un ade-guato governo del territorio. In molti casi, purtrop-po, le cose non stanno così. Nei grandi agglomerati africani si formano spesso delle istituzioni informali e
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il progetto Cluva si propone di formare professionalità in grado di prevedere il
rischio e progettare interventi strutturali
spontanee di governo, la cui capacità di programmare di pianificazione urbana è pressoché inesistente. Un altro aspetto non secondario del problema è il fatto che questi insediamenti informali sono spesso loca-lizzati proprio nelle aree più a rischio, ovvero quelle caratterizzate da un livello di povertà superiore alla media, da una maggiore vulnerabilità e da una ridot-ta capacità di far fronte alle calamità già solo a livello domestico e di vicinato. “Si tratta di problemi am-piamente documentati in letteratura – spiega infine Gasparini – e non è certo un caso se i nove giovani ricercatori coinvolti in Cluva dovranno confrontar-si con l’analisi della governance delle città; insieme alle nozioni tra virgolette tecniche con cui dovranno confrontarsi, verranno loro forniti tutti gli elementi necessari per comprendere le gerarchie spesso intri-cate che caratterizzano i sistemi di governo delle aree urbane e, non ultimo, per fornire dei processi di sup-porto decisionale agli amministratori”. Il prossimo appuntamento è fissato a fine marzo a Pretoria, in Sud Africa, per il meeting annuale. Ma cosa ne pensano di Cluva i giovani studiosi africani? “Voglio esprimere la mia soddisfazione – dice Ar-naud Boris Ngosso dell’University of Yaounde, Ca-meroun – e ringraziare l’intero team di docenti del corso per il lavoro svolto. Penso sia stata un’opportu-nità importante per noi, che da questo punto di vista abbiamo molto da imparare, quella di acquisire cono-scenze sui metodi per la valutazione e l’applicazione dell’approccio multirischio”. “La mia impressione – aggiunge Nebyou Yonas Gabore, dell’Università di Addis Abeba – è che i cambiamenti climatici rap-presentino una problematica globale che richiede un alto livello di competenze, necessarie soprattutto per la valutazione dei pericoli naturali legati ai cambia-menti climatici che affliggono soprattutto i nostri Paesi. La lezione appresa qui in Italia grazie ad Amra ci ha dato un contributo essenziale per poter tentare di creare un futuro migliore. Ringrazio tutti i docenti e la Commissione Europea che ha reso possibile una tale cooperazione”. Ha ragione Nebyou, non c’è aiu-to più concreto che quello realizzato sul piano della conoscenza.
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Qualcosa non è cambiatoFabio Mariottini
Chiudevamo l’ultimo numero della no-stra rivista con l’auspicio che a Durban la politica, con un colpo d’ala, riuscisse a stupirci. Non c’è riuscita, e per di più ha evidenziato il gap tra la globalizzazione economico-fi nanziaria che detta l’agen-da planetaria e agisce in tempi reali, e la politica, che non riesce mai a trovare un momento di sintesi e di decisione. Qua-lunque sia la posta in gioco, siano confl it-ti internazionali, massacri etnici o deci-sioni sul clima, l’inadeguatezza dell’Onu è ormai acclarata. I tempi di risposta – nelle rare occasioni nelle quali viene formulata una risposta – sono geologici. Dopo il fallimento del vertice sui cam-biamenti climatici di Copenaghen del 2009 e gli accordi al ribasso del 2010 di Cancun, Durban era l’occasione buona per dimostrare che qualcosa stava cam-biando, almeno nel modo di interpretare il futuro del genere umano. La speran-za, seppure esile, derivava dal fatto che questa 17° Conferenza delle parti delle Nazioni Unite sui cambiamenti clima-tici (UNFCCC) andava ad incardinarsi su due questioni di eccezionale rilievo e attualità: la crisi economica che ha inve-stito con particolare violenza sopratutto i Paesi di prima industrializzazione e i nu-merosi rapporti del consesso scientifi co sul diretto rapporto tra eventi climatici estremi e riscaldamento globale. Due motivazioni forti, che avrebbero consi-gliato una presa di posizione più decisa e coraggiosa da parte del consesso interna-zionale. Così non è stato e dal Sud Africa sono usciti fuori molti buoni propositi, qualche dilazione e nessun impegno vincolante. Alla scadenza del Protocollo di Kyoto, nel 2012, i rappresentanti dei governi mondiali hanno risposto spo-stando al 2015 le decisioni da prendere
per la formulazione di un nuovo “trattato globale” del quale, però, non è stata for-nita alcuna indicazione né sul contenu-to, né sul valore giuridico, ma che è già stabilito che sarà applicato solo a partire dal 2020. Intanto Canada, Russia e Giap-pone hanno deciso di non impegnarsi in questa seconda fase del Protocollo di Kyoto, affi ancandosi agli Stati Uniti che non l’avevano mai ratifi cato. Di positivo, se così possiamo defi nirlo, il proposito, alquanto generico, di Cina, India e Sta-ti Uniti – produttori complessivamente del 47% della CO2 mondiale – di ridurre le emissioni. L’altro punto in questio-ne a Durban era il Fondo Verde, fi ssato a Cancun in 100 miliardi di dollari en-tro il 2020, da destinarsi ai Paesi poveri per sostenere le azioni di riduzione delle emissioni e l’adattamento ai cambiamen-ti climatici. Anche in questo caso, si è scelto di rimanere all’enunciato senza stabilire quote e procedure per alimen-tarlo. Così, anche il Green Climate Found sul quale si appuntavano le speranze dei Paesi più deboli, resta un contenitore vuoto. Chi ha voluto vedere il bicchiere mezzo pieno sostiene che Durban è stato un successo perché ha salvato il rapporto negoziale internazionale e ha rianimato una trattativa ormai agonizzante, Per di più, la proroga del protocollo di Kyoto che prolunga il Clean Development Me-chanism (CDM) permetterà all’Europa di mantenere una posizione di rilievo sul mercato del carbonio. Non è un risulta-to disprezzabile, ma si fonda comunque su un principio di “travaso” e non su un cambio di modello. E non è del tutto sba-gliato pensare che, pur con tutti i limiti intrinseci ai grandi appuntamenti mon-diali, l’”impegno” rappresenti comunque una precondizione per qualunque tipo
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L’ultimo vertice di Durban sui cambiamenti climatici si è con-cluso con tanti buoni propositi, ma senza una effettiva road map che indicasse con precisione tempi e risorse. Le cause di que-sto stallo che ormai è diventata una consuetudine per questi appuntamenti mondiali, sono da ricercarsi nella crisi economica che affligge in particolar modo i Paesi di prima industrializza-zione, ma in realtà affondano le radici nelle resistenze del mondo economico/finanziario a confron-tarsi con i nuovi paradigmi dello sviluppo
di accordo, ma è altrettanto evidente la necessità di commisurare i tempi alle esigenze. E i tempi della po-litica, in questo caso, sono troppo lunghi rispetto alle esigenze del Pianeta. Gli scienziati ci dicono che ne-gli ultimi due secoli, la concentrazione di CO2 in at-mosfera ha raggiunto le 386 ppmv (parti per milione in volume), con un valore superiore del 36% rispetto al periodo preindustriale, e che nel 2010 le emissioni in atmosfera sono cresciute del 5%. Le proiezioni de-gli esperti dell’Ipcc, intanto, mostrano gli effetti che potrebbe provocare un aumento globale della tem-peratura superiore a 2° centigradi: “riduzione dell’ac-qua potabile disponibile, estinzione del 30% delle specie viventi, diminuzione del rendimento agricolo, aumento delle catastrofi naturali, migrazione delle popolazioni, incremento dei vettori patogeni”. Per rimanere al di sotto della fatidica soglia dei 2° centi-gradi, gli stessi scienziati sostengono la necessità che le emissioni di anidride carbonica inizino a diminui-re a partire dal 2015. E’ chiaro che, nel caso dei siste-mi non lineari, le date e i numeri assumono un valore più qualitativo che quantitativo, ma è ugualmente evidente che i “limiti” individuano tendenze e indi-cano percorsi. La strada della politica, oggi, non in-crocia quella della scienza e neppure quella del buon senso. La crisi economica che ormai da qualche anno sta affliggendo l’occidente industrializzato, non ha messo sul banco degli imputati solo la debolezza dell’euro (nell’ultimo trimestre del 2011, in Europa, il Pil è sceso dell’ 0,3%) e le difficoltà di Grecia, Italia e Portogallo – tanto per citare alcuni dei protagoni-sti della nascita della moneta unica europea – ma, se la si legge con la dovuta attenzione, ha posto con
forza il problema della qualità del nostro sviluppo. O meglio, se vogliamo ridare senso proprio alle parole, della nostra crescita che non è – come erroneamente si vuole far credere – sinonimo di sviluppo. La cre-scita, infatti, è un mero prodotto numerico di beni e servizi, lo sviluppo, invece, implica anche benesse-re sociale e qualità della vita. La differenza non è di poco conto. Sono percorsi diversi e a volte conflig-genti. Un esempio attuale potrebbe essere rappresen-tato dalla Grecia, dove è sempre più evidente che la contrazione dei salari e il restringimento del welfare
(in pratica un peggioramento della qualità della vita) non sta portando alla diminuzione del debito e a un aumento del prodotto interno lordo. Ma la rifles-sione dovrebbe estendersi anche agli Stati Uniti, al Giappone e perfino alla Cina che, con la riduzione della domanda, ha visto scendere il Pil al 9,1%, dopo anni di crescita a due cifre. Se a tutto ciò si aggiun-gono le conclusioni del Rapporto Stern del 2006 che quantizzavano tra il 5% e il 20% il costo dell’immo-bilismo sul riscaldamento planetario, si riesce forse a comprendere meglio il giudizio negativo che molti osservatori hanno formulato sul vertice di Durban. Nel 2013 il Cop18 si terrà a Doha. Quasi una con-traddizione in termini, considerando che il Qatar è tra i principali produttori di petrolio. Continuiamo a sperare?
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L’appuntamento di Durban ha mostrato che, la politica guarda ancora al passato
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Il punto sulle energie rinnovabili in EuropaRomualdo Gianoli
Quanta dell’energia che consu-miamo deriva da fonti rinnova-bili? Quanto la crisi economica ha condizionato negli ultimi anni la produzione di energie rinnova-bili? E l’Italia è riuscita a colma-re il divario con i Paesi più vir-tuosi dell’Unione Europea? Dalle biomasse ai biocarburanti, dal solare all’eolico, un quadro della situazione attuale e delle pro-spettive di sviluppo di un settore sempre più strategico in termini economici ed ambientali
Come per tutti gli inizi d’anno, anche questi primi mesi del 2012 offrono l’oc-casione per fare un bilancio di quanto successo nei mesi passati e, magari, an-che per tentare qualche previsione per i prossimi. Quest’anno, poi, con la pe-sante crisi economica e finanziaria che sta investendo tutta l’area euro, tentare questa operazione potrebbe essere anco-ra più utile, specie se si tratta di prendere in considerazione un settore strategico come quello delle fonti energetiche e, più in particolare, di quelle rinnovabili. Prima di iniziare, però, è opportuno pre-cisare che quanto esposto dovrà per forza di cose riguardare soprattutto il 2010, poiché molti dei dati ufficiali disponibili, pur essendo stati rilasciati nel corso del 2011, fanno riferimento al 20101.
L’ENErGia Da FoNti riNNovaBiLi iN EUroPaGli ultimi dati ufficiali, relativi al 2010 e diffusi a dicembre 2011, fotografano l’andamento complessivo dell’intero settore delle fonti d’energia rinnovabili nell’Europa a 27. Il primo elemento in-teressante da notare è che, nel 2010, la quota di consumo finale di energia pro-veniente da fonti rinnovabili rispetto al totale consumato è stata pari al 12,4%, a fronte dell’11,5% del 2009. Per quanto riguarda la sola energia elettrica, invece, tale quota è passata dal 18,2% del 2009 al 19,8% del 2010. Questi dati evidenzia-no chiaramente un aumento, da un anno all’altro, del peso della quota di energia consumata proveniente da fonti rinno-vabili, rispetto al totale dell’energia con-sumata mediamente nei 27 Paesi. In ter-mini assoluti, dal 2009 al 2010 la quan-tità di energia consumata proveniente da
fonti rinnovabili è passata da 131,6 Mtoe (milione di tonnellate equivalenti di pe-trolio) a 145 Mtoe, con un aumento del 10,2%. Il dato più interessante, però, è che nello stesso periodo la quantità finale di energia consumata proveniente dalle altre fonti è aumentata solo del 2,1%. Insomma, una volta tanto, una forbice che sembra allargarsi in maniera virtuo-sa. Basta tuttavia fare due conti per ac-corgersi che, nonostante questa positiva performance, i Paesi dell’UE dovrebbe-ro produrre ancora una Mtoe di energia da fonti rinnovabili per raggiungere l’o-biettivo fissato dalla direttiva europea 2009/28/CE, che prevede per il 2020 che il consumo finale di energia da fonti rinnovabili arrivi al 20% del totale. Ciò singinfica un aumento medio di 10 Mtoe l’anno di energia da fonti rinnovabili, da produrre complessivamente nell’Europa dei 27. A questo proposito, è interessante guardare alla situazione dei singoli Paesi e dei loro obiettivi per il 2020 (Fig.1).
BiomaSSE SoLiDE: GLi EFFEtti virtUoSi DELLE taSSE “vErDi”I dati disponibili a novembre 2011 sul-l’uso delle biomasse solide in Europa (praticamente legno per la produzione di calore o energia elettrica) mettono bene in evidenza l’aumento incontrovertibile dell’uso di questa fonte durante tutto il 2010, con un incremento dell’8% cor-rispondente a una quantità passata dal-le 73,4 Mtoe del 2009 a 79,3 Mtoe del 2010. In pratica, il 2010 ha rappresenta-to l’anno in cui la scelta dei Paesi euro-pei di sfruttare con maggiore decisione le potenzialità della biomassa solida, ha iniziato a dare i suoi frutti. Frutti che si
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sono manifestati con un notevole aumento del tas-so di crescita di questa fonte come fonte di energia primaria. Basta osservare che, rispetto al 2008, l’au-mento nel 2009 era stato pari al 4%, praticamente la metà di quello registrato nel passaggio da 2009 a 2010. Una tendenza tanto più significativa perché
registrata durante un inverno (quello 2009-2010) particolarmente rigido in Europa, durante il quale la domanda di energia primaria per il riscaldamen-to è aumentata. Questo dato, in definitiva, dimo-stra come anche la crisi economica, che ha iniziato a manifestarsi già in quel periodo, non ha vanifica-to gli sforzi compiuti dai Paesi membri per rendere strutturale lo sfruttamento a scopi energetici delle biomasse. Anzi, il settore ha evidenziato una note-vole capacità di rispondere a significativi aumenti della richiesta di energia per il riscaldamento e per la produzione di energia elettrica, anche in un contesto economico segnato da grandi difficoltà o, addirittu-ra, da recessione. Come dimostra la la Fig. 2, negli ultimi dieci anni l’uso di questa fonte in Europa è costantemente aumentato, con due picchi tra il 2002 e il 2003 e tra il 2009 e il 2010. Interessante è an-che la classifica dei Paesi per produzione di energia primaria con biomasse solide: su tutte spicca la Ger-mania, seguita a breve distanza da Francia, Svezia e Finlandia. Se poi si va a guardare più in dettaglio la composizione dei dati, si scopre che quando si par-la di uso delle biomasse per la produzione di calore, la classifica cambia e Svezia, Finlandia e Danimarca balzano ai primi posti. La Finlandia, in particola-re, si segnala come il Paese europeo che fa più uso del legno a fini energetici, avendone aumentato lo sfruttamento in un solo anno (2009-2010) di ben il 18,6%. Non è un caso, quindi, che anche il consumo di questa risorsa per abitante sia il più alto d’Europa, addirittura pari a 1,4 toe. Un aumento molto proba-
bilmente dovuto all’impulso dato alla costruzione di molti nuovi impianti di cogenerazione, in linea con quanto avvenuto negli ultimi decenni in Finlandia, periodo nel quale sono stati costruiti 50 impianti di cogenerazione a biomassa e 300 impianti per il te-leriscaldamento, alimentati principalmente a torba e carbone. Lo spostamento dal carbone alle biomasse è anche conseguenza di una politica di tassazione sulle emissioni di CO2, introdotta a partire dal 1997, per la quale l’imposta è gradualmente aumentata dagli iniziali 1,12 €/ton.CO2 ai 20 €/ton.CO2 del 2010, per toccare addirittura i 50 €/ton.CO2 approvati nel 2011 sulla produzione mediante combustibili liqui-di, come il diesel. Un percorso in fin dei conti simile a quello che sta compiendo la Svezia, dove l’emissio-ne di CO2 è andata quasi costantemente calando da quando, nel 1990, è stato introdotto questo tipo di tassazione. Quello svedese è un caso particolarmente significativo perché, nonostante la tassa sull’anidri-de carbonica sia stata, nel 2011, la più alta d’Europa (fino a toccare i 115 €/ton.CO2), il suo effetto sull’e-conomia non solo non è stato deprimente ma, anzi, ha dato nuovo impulso all’installazione di impianti a biomasse. Secondo i dati forniti dalla Swedish Bioe-nergy Association, infatti, alla fine del 2010 in Svezia si contavano ben 170 impianti a biomassa in funzio-ne, mentre di circa altri 40 era stata avviata la costru-zione. Un dato che non stupisce se si tiene conto che, dal 2011, le industrie che hanno aderito allo Europe-an Emission Trading Scheme sono state esentate dalle tasse (mentre nel 2010 avevano pagato circa il 15%) e ulteriori aggiustamenti sono stati apportati alla tas-sazione per le aziende di teleriscaldamento che pro-ducono calore attraverso la cogenerazione, che adesso sono tassate al 7%, contro il 94% di tassazione degli impianti tradizionali.
GEotErmia, iDrotErmia E PomPE Di CaLorE: UNa CriSi a mEtàContrariamente a quello delle biomasse, questo set-tore sembra aver risentito del periodo di incertezza economica in Europa dal momento che, secondo i
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È la Finlandia il Paese europeo che più degli altri usa le biomasse
solide per produrre calore
dati pubblicati a ottobre 2011, nel 2010 il mercato delle pompe di calore ha mostrato una flessione di quasi il 3% rispetto all’anno precedente. Infatti, il numero degli impianti a pompa di calore venduti nei 17 principali Paesi che ne fanno uso è passato dal-le 106.940 unità vendute nel 2009 alle 103.846 nel 2010. Se però si confronta questo dato con quello relativo all’anno precedente, ci si rende subito con-to che dal 2008 al 2009 la flessione era stata ben più consistente e pari al 6,6%. Dunque, nonostante la crisi economica, sembra che la contrazione del setto-re stia rallentando notevolmente. D’altra parte, se si guarda ai valori assoluti, la situazione non sembra poi tanto negativa visto che, per la prima volta, nel 2010 il numero delle installazioni a pompa di calore ha su-perato il milione di unità (1,01 milioni) in Europa. Le pompe di calore sono usate principalmente per ri-scaldare ambienti, condomini, abitazioni isolate, fat-torie o piccole installazioni industriali, mentre come applicazione secondaria possono includere sistemi inversi usati, ad esempio, per il raffreddamento du-rante le stagioni calde. Si tratta, dunque, di impianti di piccole o medie dimensioni particolarmente utili per realizzare un sistema di micro produzione diffusa sul territorio. Anche nel caso delle ground source heat pump (GSHP) la parte del leone nell’Europa a 27 la fanno i Paesi scandinavi e del nord Europa, soprat-tutto Svezia, Germania e Francia (Fig. 3). La Svezia, in particolare, ha mostrato grande vitalità anche in questo settore, riuscendo a strappare il primato alla Germania che l’aveva detenuto nel biennio 2008-2009. Le ricadute anche occupazionali non sono state irrilevanti se, come calcolato dalla Swedish Heat Pump Association, le unità lavorative impegnate nel settore ammontano a circa 378.000. Nel segno della contrazione appare, invece, l’andamento nel 2010 per Germania e Francia: nel primo caso, il motivo del vistoso calo nelle vendite e installazioni di pompe di calore potrebbe essere legato a una diversa destina-zione della spesa per gli impianti domestici a favore del fotovoltaico, mentre per la Francia la spiegazione sarebbe da cercarsi nel generale ristagno dell’econo-mia legato alla crisi economica.
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Figura 2
Figura 1
*Estimation, Estimate. Les decimales sont séparées par une virgule. Decimales are written with a comma
Solid biomass primary energy production growth figures for the EU since 2000 (in Mtoe)
52,4 52,5 53,258,4
61,4 63,165,3 67,7
70,673,4
79,3
2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010*
Sweden
Latvia
Finland
Austria
Portugal
Estonia
Denmark
Slovenia
Romania
Lithuania
Spain
Bulgaria
France
Slovakia
Germany
Poland
Czech Repablic
Greece
Italy
Hungary
Ireland
Cyprus
Belgium
Netherlands
United Kingdom
Luxemburg
Malta
European Union (27 countries)
47,7%
2009
Share of energy from renewable sources in gross final consumption of energy in 2010 and national overall targets in 2020
35,5%
30,7%
30,2%
24,7%
23,4%
19,2%
19,7%
22,9%
20,8%
12,9%
11,6%
11,7%
10,7%
9,3%
9,0%
8,5%
8,0%
7,7%
8,5%
5,1%
4,9%
4,7%
4,0%
3,0%
2,6%
0,2%
11,5%
46,9%
2010
34,3%
33,6%
30,7%
24,7%
24,1%
23,0%
21,7%
21,4%
21,1%
14,1%
12,9%
12,4%
11,4%
10,7%
9,9%
9,7%
9,1%
8,5%
8,5%
5,9%
5,5%
5,4%
3,8%
3,3%
2,6%
0,3%
12,4%
49,0%
Obyectif 2020 de la directive 2009/28/CE
Objectice 2020 from the 2009/28/CE Directive
40,0%
38,0%
34,0%
31,0%
25,0%
30,0%
25,0%
24,0%
23,0%
20,0%
16,0%
23,0%
14,0%
18,0%
15,0%
13,0%
18,0%
17,0%
13,0%
16,0%
13,0%
13,0%
14,0%
15,0%
11,0%
10,0%
20,0%
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Puissance comulée des PACg dans le paysTotal capacity of GSHPs to date in the country (MWth) GSHPs in the country (MWth)
* Estimaten.a. : Non disponible. n.a. : Not avaibleLes decimales sont séparées par une virgule. Decimals are written with a comma.Source: EurObserv’ER 2011.
Installe capacity and number of GSHPs in European Union by country in 2010*
Légende / Key
157 Nombre total des PACg installées dans le paysTotal number of GSHPs installed in the country
13085
Figura 3
Positivo invece lo scenario per la Finlandia, che su questo fronte ha fatto molto più che recuperare semplicemente terreno rispetto ad altre nazioni. Il favore delle famiglie finlandesi nei confronti dei sistemi a pompa di calore è tale da averla fatta diventare la prima tecnologia nel cam-po della costruzione e del rinnovo delle abitazioni. An-
che questo fenomeno non dovrebbe sorprendere, dato che sembra essere diretta conseguenza di una politica fiscale, introdotta fin dal 2008, che nel Paese scandina-vo permette di detrarre fino al 60% dei costi sostenuti per l’installazione, con un tetto massimo di tremila euro. L’obiettivo di questi incentivi è dichiarato nel National Renewable Energy Action Plan redatto dal governo fin-landese, che si pone il traguardo dell’installazione, entro il 2020, di un milione di unità a pompa di calore, tra geo-termico e idrotermico. Da quanto detto finora, in defini-tiva, si deduce che lo scenario europeo per il settore delle pompe di calore appare abbastanza contrastato. Forse il problema maggiore sta proprio nel livello di accettazio-ne da parte del pubblico della tecnologia su cui si basa. Un’accettazione che varia notevolmente da Paese a Pae-se, basti pensare alla grande diffusione nell’area scandi-nava in confronto, ad esempio, con la caduta di interesse registrata in Francia. Un vero paradosso, se si pensa che, in questa nazione, l’uso principale che si fa dell’energia elettrica a livello domestico è proprio per produrre acqua calda. Fare delle previsioni per questo settore, dunque, è veramente molto difficile, a maggior ragione se si tiene conto che non esiste una gestione a livello comunitario di questa tecnologia, ma che ogni nazione ha la sua road map. Ciononostante, lo scorso marzo l’agenzia olandese Energy Research Center of the Netherlands ha provato a delineare uno scenario plausibile per il futuro prossimo, giungendo a prevedere, per l’Europa dei 27, il passaggio dalle 4 Mtoe prodotte con le pompe di calore nel 2010, alle 7,2 Mtoe nel 2015, fino alle 12,1 Mtoe nel 2020.
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Nel 2010 il biocarburante più utilizzato è stato il biodiesel, ma l’impiego
di bioetanolo sta crescendo in fretta
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La LUNGa marCia DEi BioCarBUraNtiTra le fonti di energia rinnovabile, i biocombustibi-li in Europa rappresentano una voce di particolare importanza, visti anche i numeri in gioco e l’anda-mento in continua e veloce crescita registrato co-stantemente nel corso degli anni (Fig. 4). Basti pen-sare che, nel solo 20102, la quantità di biocarburanti consumata nei 27 Paesi è stata pari a 13,9 Mtoe con un aumento, rispetto al 2009, del 13,6%. Anche in questo caso, tuttavia, sebbene vi sia stato un incre-mento, guardando ai due anni precedenti si rileva una brusca frenata, dal momento che tra il 2008 e il 2009 l’aumento era stato del 28,9% e addirittura del 42,8% tra il 2007 e il 2008. Tale rallentamento nel-la crescita dei biocarburanti per trasporto è proba-bilmente dovuto al fatto che i maggiori utilizzatori hanno interesse a rilassare la crescita di questo merca-to poichè non si sentono più garantiti dagli obiettivi a lungo termine della Direttiva europea 2009/283, molto meno ambiziosa, che fissa la quota del 10% di rinnovabili nei trasporti entro il 2020. E’ chiaro che, a questo punto, la crescita del settore è sostenuta in gran parte da quei Paesi che si trovano in ritardo sul-la tabella di marcia verso quell’obiettivo. In questo caso, il baricentro delle nazioni che fanno maggior ricorso a questa fonte rinnovabile si sposta dai Pae-
si scandinavi e, anche se vede in testa nazioni come la Germania e la Francia, comprende in posizioni di rilievo anche l’Italia, la Spagna e il Regno Unito. A proposito del nostro Paese, si nota un comporta-mento piuttosto contrastato: se è vero, infatti, che la crescita nell’uso dei biocarburanti negli ultimi anni è stata pressoché costante e a buoni livelli, è anche vero che l’Italia produce solo una piccola parte di quanto consuma e, quindi, per il resto è legato all’importa-zione dall’estero e alle relative oscillazioni di prezzo. Infine, non tutti i biocarburanti sono uguali e ugual-mente graditi dal mercato. Lo dimostra il fatto che, sul totale di essi, ben il 77,3% di quanto consumato nel 2010 è rappresentato dal biodiesel. Una spie-gazione per questo fenomeno, almeno per il 2010, potrebbe essere rintracciata nel fatto che nel Sud America una sovrapproduzione di soia (usata per produrre biodiesel) ha fatto riversare sul mercato europeo un’ondata di biodiesel a basso costo. Il con-trario è invece accaduto nel caso del bioetanolo, il cui maggior Paese esportatore, il Brasile, riesce ormai a stento a soddisfare la domanda interna. Ciò ha finito per favorire le industrie produttrici europee e questo forse spiega perché il bioetanolo guadagni terreno rispetto al biodiesel, visto che anche per il periodo 2009-2010 l’aumento del suo consumo in Europa è stato del 26,1% a fronte di un + 11,1% del biodiesel.
Figura 4 Figura 5
European Union (EU-27) biofuel consumption trends for transport trend (in ktoe) European Union concentrated solar power capacity trend (in MWe)
Sources: Data from 2000 to 2008 (Eurostat 2011), data from 2009 to 2010 (EurObserv’ER 2011) Sources: EurObserv’ER 2011
5493
6645
9492
12236
13903
705 821 1095 1421 1976
3114
2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010
1161
232,4
638,4
2007 2008 2009 2010
CrESE iL SoLarE aNCHE SE CoN QUaLCHE DiFFiCoLtàLo sfruttamento termico del sole si può dividere in due categorie: quello ad uso domestico (per la pro-duzione di acqua calda e riscaldamento) e quello per la produzione di energia elettrica (Concentrating So-lar Power, CSP o solare termodinamico). Nel 2010, per il secondo anno di seguito, l’Europa ha registrato una battuta d’arresto per quanto riguarda un parametro molto importante legato allo sfrutta-mento della risorsa solare: la superficie destinata alla produzione4. Nel 2008 la nuova superficie destinata all’installazione di impianti solari per usi domestici era stata di 4,6 milioni di m2, scesa poi a 4,2 nel 2009 e, infine, a 3,8 milioni di m2 nel 2010. In questo seg-mento, il Paese che negli ultimi anni ha avuto il pri-mato della superficie annua installata è la Germania con 1.170.000 m2 nel 2010, seguita a lunga distanza dall’Italia con soli 490.000 m2 e dalla Spagna, terza, con 348.000 m2. A parte le solite (e un po’ scontate) considerazioni circa l’Italia “Paese del sole” che si fa surclassare dalla Germania, bisogna riconoscere che nel 2010 da questo punto di vista al nostro Paese è andata meglio del previsto, poiché il divario con la Germania anziché ridursi poteva addirittura aumen-tare. Infatti, la Germania ha segnato una drastica bat-tuta d’arresto rispetto al 2009 per quanto riguarda la
nuova superficie installata (-27,8% rispetto al 2009), una frenata dovuta essenzialmente alla decisione del governo tedesco di congelare i 115 milioni di euro che invece erano stati previsti dal programma di in-vestimenti nelle energie rinnovabili, decisione che ha finito per penalizzare anche il solare. Contempo-raneamente, l’Italia ha smentito le previsioni degli analisti che avevano annunciato per il 2010 un ral-lentamento nel settore e, al contrario, ha fatto regi-strare una crescita, per quanto riguarda la nuova su-perficie installata, di 490.000 m2, pari al 22,5%. Un dato positivo, che stringe la forbice con la Germa-nia e che è essenzialmente dovuto alla decisione del governo italiano di ridurre la tassazione sulle nuove installazioni residenziali dal 2011, riduzione che poi è stata estesa per altri dodici mesi. Buoni segnali per
il solare termico europeo, però, sono venuti dal com-parto termodinamico per la produzione di energia elettrica: il 2010 è stato l’anno nel quale questo set-tore ha inziato a prendere consistenza, con il passag-gio dai 232,4 MWe installati del 2009 ai 638,4 MWe
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La Germania resta il Paese con la più ampia superficie destinata
all’installazione di impianti solari
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del 2010 grazie, soprattutto, alla Spagna (Fig. 5). Il dato è confortante perché è sostenuto anche dalla decisione di al-tri cinque Paesi (tutti dell’area mediterranea) di proseguire nella stessa direzione. La Spagna detiene la quasi totalità della potenza installata che, con 15 impianti di cui 8 rea-lizzati nel 2010, raggiunge i 632,4 MWe. Gli altri due Paesi che già dispongono di impianti di questo tipo (sebbene an-cora sperimentali e molto lontani per potenza installata), sono l’Italia (5 MWe) e la Francia (1 MWe). Altri Stati europei hanno inserito nei propri piani energetici la realiz-zazione di impianti per il solare termodinamico, con una previsione di potenza totale installata per il 2020 di 7.044 MW e uno step intermedio di 3.573 MW previsto per il 2015. Infatti, oltre alle già citate Francia e Italia, anche Por-togallo, Grecia e Cipro hanno in programma l’installazio-ne di 500 MW, 250 MW e 75 MW rispettivamente. Ciò permetterebbe, dal punto di vista elettrico, di raggiungere una produzione di circa 20 TWh entro il 2020 e 9 TWh entro il 2015. Le prospettive di sviluppo a lungo termine (2030 e oltre) per il solare termodinamico europeo sono comunque buone e in modo particolare per tutto il bacino del Mediterraneo meridionale, dove si prefigura la possibi-lità di creare una super rete in grado di interconnettere le produzioni dei singoli Stati. Se si riuscirà a interconnettere questa rete con quella dei Paesi nordafricani, lo scenario potrebbe cambiare ancora più drasticamente, poiché si riu-scirebbe a ottenere un ingente abbattimento dei costi e una conseguente maggiore competitività di questa fonte non solo rispetto a quelle tradizionali ma anche ad altre fon-ti rinnovabili. Alla rassegna delle tecnologie solari, però, manca ancora quella fotovoltaica. L’abbiamo volutamente
lasciata per ultima perché è quella che riserva le migliori e più grandi sorprese5. A cominciare dalla constatazione che nel 2010, per la prima volta, il settore fotovoltaico ha visto l’installazione di nuova capacità in misura superiore a qual-siasi altra fonte rinnovabile di elettricità. Secondo le stime
L’Est europeo ha in parte compensato il calo di produzione di energia eolica di Spagna,
Germania, Francia, italia e regno Unito
ufficiali, 13.023,2 MWp6 sono stati connessi alla rete dell’Unione Europea grazie all’installazione di nuo-vi moduli fotovoltaici, facendo segnare, rispetto al 2009, un balzo in avanti del 120,1%. Così, alla fine del 2010, l’UE ha potuto vantare una capacità elet-trica dai suoi impianti fotovoltaici di 22,5 TWh, che permette ad essa di confermare il primato assoluto con oltre l’80% della capacità mondiale. Dietro l’Eu-ropa, ben distanziati, vengono il Giappone, gli USA e la Cina. Per avere un’idea del significato pratico che un tale aumento significa per i 27 Paesi dell’UE, basta guardare alla potenza elettrica disponibile per ciascun abitante europeo, passata da 32,6 Wp nel 2009 a 58,5 Wp nel 2010. Un tale exploit per l’U-nione Europea (che ha spiazzato completamente gli analisti del settore) è spiegabile solo con la caduta dei costi d’installazione ed è tanto più sorprendente in quanto arriva dopo due anni consecutivi di crollo dei prezzi. Per avere un’idea basti pensare che, dall’ini-zio del 2009 all’inizio del 2011, rispetto al mercato di riferimento (quello tedesco) i costi d’installazione di un impianto fotovoltaico da tetto con potenza in-feriore ai 100 kWp si sono quasi dimezzati, passando dai 4.000 €/kWp del 2009 ai 2.546 €/kWp del 2011. Secondo gli analisti, se la tendenza al ribasso dovesse perdurare (e i segnali di un tale andamento sembra-no essere confermati anche per il 2011) in molti Pa-esi entro pochi anni si potrebbe raggiungere il pareg-gio dei costi tra energia fornita dalla rete nazionale e quella prodotta a livello residenziale: in pratica, il costo per produrre un kW con un impianto fotovol-taico residenziale sarà pari al prezzo d’acquisto dello stesso kW sul mercato tradizionale. È ovvio, a questo punto, che la fonte solare fotovoltaica uscirebbe dal mercato di nicchia, con tutte le relative (positive) conseguenze per quanto riguarda l’abbattimento dei costi e le emissioni in atmosfera.
CHE aria tira PEr L’EoLiCo EUroPEo?Per questo settore i dati disponibili risalgono al feb-braio 2011 e non sono buoni. Per la prima volta da vent’anni a questa parte il mercato dell’energia da
fonte eolica mostra segni di flessione, forse in rela-zione alla generale crisi economico/finanziaria. Il rallentamento della crescita del settore è stato parti-colarmente evidente sia per il mercato nordamerica-no che per quello europeo, mentre la costante cresci-ta dei Paesi asiatici ha fatto sì che oggi più della metà del mercato delle turbine eoliche in tutto il mondo (53,3%) sia nelle mani di Paesi come la Cina. Al con-trario, nello stesso mercato, l’UE ha fatto segnare una flessione del 5,8% dal 2009 al 20107. Segnali in-coraggianti per l’eolico europeo vengono almeno dal fatto che nel vecchio continente il settore sta pren-dendo slancio grazie, soprattutto, al materializzarsi dei progetti di impianti offshore e dalla crescita di alcuni Paesi dell’est europeo. Questi due fattori stanno, in parte, controbilancian-do le performance fiacche dei tradizionali produttori europei di energia eolica: Spagna, Germania, Fran-cia, Italia e Regno Unito, dove il principale proble-ma è diventato quello di reperire i fondi necessari ad alimentare la crescita. A dire il vero, per le installa-zioni offshore il 2010 è stato davvero un anno record nel quale pochi Paesi hanno aggiunto 1.139,3 nuo-vi MW di potenza alla produzione eolica europea, permettendo all’UE di consolidare ulteriormente il primato nel settore. In questa speciale graduatoria, il Regno Unito è quello che ha compiuto lo sforzo maggiore, mentre non si può non notare come l’Ita-lia, con i suoi 7.458 Km di costa, sia del tutto assen-te8. Nonostante le note positive provenienti dall’of-fshore, per lo sviluppo dell’eolico europeo il 2010
segna un anno contraddittorio. Basta guardare al dato della Germania, che mostra un calo del 19,1% nell’installazione di nuova potenza, alla contrazione ancora maggiore della Spagna, alla flessione dell’Ita-lia che è scesa sotto il GW di nuova potenza installa-
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Quello del fotovoltaico è il settore che, nel 2010, ha riservato le
migliori e più grandi soprese
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ta e alla relativa stabilità della Francia. Come accen-nato, però, segnali positivi sono venuti da alcuni Pa-esi dell’Est, primo fra tutti la Polonia che, nel 2010, ha immesso nuova potenza per 460,3 MW nella sua rete, portando a 1.185 MW la potenza complessi-vamente ottenuta dall’eolico. Analoga storia per la Romania, che in un solo anno è passata da 18 a 418 MW di potenza installata. Per concludere questa breve ricognizione del settore eolico europeo, non si può dimenticare che tutte le prospettive di crescita futura sono condizionate da numerosi elementi: il perdurare della crisi economico-finanziaria globale, la reale capacità (e volontà) dei singoli Stati di perse-guire gli obiettivi prefissati dai piani energetici per lo sviluppo di questa fonte ma, soprattutto, la tremen-da competizione a livello tecnologico e produttivo dovuta alla pressione della Cina, diventata nel giro di cinque anni il leader manifatturiero del settore delle turbine eoliche. Con questa realtà si stanno confron-tando (e sempre di più saranno costrette a farlo nei prossimi anni) le maggiori aziende produttrici eu-ropee e nordamericane, come la tedesca Siemens, la danese Vestas e la statunitense General Electric. La competizione sta già delineando la direzione futura dello sviluppo eolico europeo che, sempre più, sem-bra orientarsi verso il promettente settore dell’of-fshore, nel quale queste aziende europee hanno già posto decisamente più di un piede.
E L’itaLia?Per le energie rinnovabili in Europa, il 2010 è stato un anno segnato da luci e ombre. Sicuramente tutto il settore ha scontato in varia misura la crisi econo-mica, ma ha anche saputo reagire laddove sono state poste in campo dai governi decise politiche di incen-tivazione fiscale. Quando saranno disponibili i dati definitivi anche per il 2011 sarà possibile capire fino a che punto la crisi abbia condizionato questo set-tore e quanto, invece, queste politiche siano state in grado di contrastarne o limitarne gli effetti. Tuttavia, un dato pare emergere con sufficiente certezza e non è certo favorevole all’Italia che, in pratica, non risul-
ta eccellere in quasi nessuno dei settori presi in esame e, anzi, anche laddove poteva vantare posizioni di ri-lievo (come l’eolico o il solare fotovoltaico) mostra segni di cedimento dovuti allo scarso sostegno rice-vuto dal’azione del governo. E questo discorso vale anche per il settore industriale perché, guardando ai nomi delle maggiori industrie europee che produco-no tecnologia per le energie rinnovabili, le aziende italiane sono praticamente assenti. Ciò che invece si delinea altrettanto chiaramente è il primato europeo nelle fonti di energia rinnovabili (sia per lo sfrutta-mento che per le industrie coinvolte) dei Paesi del nord e centro Europa, Germania in testa. In definitiva, per l’Italia il quadro generale che ne scaturisce non è certo confortante e va più nella di-rezione del declino che in quella dello sviluppo (ba-sti pensare al ritardo nel settore dell’eolico offshore). Con queste premesse non è difficile immaginare che, nei prossimi anni, il nostro Paese dovrà preoccuparsi non solo dello spread finanziario ma anche di quello nelle energie rinnovabili e nell’industria coinvolta.
riferimenti bibliografici
1 Tutti i dati, i grafici e le tabelle riportati sono tratti dai report ufficiali rilasciati da EurObserv’Er (www.eurobserv-er.org)
2 Dati pubblicati ad agosto 2011
3 Il testo della direttiva è consultabile all’indirizzo: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2009:140:0016:0062:it:PDF
4 I dati riportati si riferiscono al giugno 2011 e sono gli ultimi ufficialmente disponibili al momento della stesura di questo articolo
5 Al momento della stesura di questo articolo, i dati disponibili sono di maggio 2011 e si riferiscono al 2010. Quelli per il 2011, invece, non sono ancora disponibili
6 Megawatt di picco
7 E’interessante, tuttavia, notare come, a fronte di una supremazia asiatica nel mercato delle turbine, resista ancora nel 2010 il primato europeo per quanto riguarda la capacità totale installata.
8 Per quanto riguarda l’eolico offshore italiano, esistono però almeno due progetti sebbene ancora in fase di studio: il “Powered” per l’Adriatico e uno nel canale di Otranto, il “Parco Eolico” di Tricase (LE).
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L’efficienza energetica in ItaliaStefano Pisani
Secondo il Primo Rapporto sull’Efficienza Energetica pre-sentato nei mesi scorsi dall’’Enea, nel nostro Paese un considerevole impulso in questo settore è venuto dal settore residenziale, da quello dell’industria e, marginalmen-te, da quello trasporti. Restano però alcune ombre, soprattutto nelle differenze fra le regioni sia in termini di investimenti che di applicazione degli strumenti di legge. Margini di miglioramento potranno venire dall’introduzio-ne di nuovi incentivi e di stan-dard minimi da rispettare
Il 2012, anno dedicato dall’Onu all’energia sostenibile, si apre con una buona notizia: l’Italia è più efficiente dal punto di vista energetico, anche se ancora una volta mo-stra sensibili differenze fra regioni del Nord e regioni del Sud. A sostenerlo è il primo “Rapporto sull’Efficienza Energetica” (RAEE 2010, Rapporto Annuale Efficien-za Energetica) che l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea) ha elabora-to come agenzia nazionale di riferimento. L’Enea, nel contesto delle sue attività, ha infatti il compito di sviluppare conoscenze e attuare azioni di trasferimento tecnologi-co per il risparmio e l’efficienza energetica nei settori dell’edilizia residenziale e ter-ziaria, dell’industria, dell’agricoltura, dei trasporti e nei sistemi dei servizi energetici e della generazione distribuita. Con le sue competenze deve quindi supportare la pro-grammazione energetica italiana in un’ot-tica di sostenibilità ambientale ed econo-mica, in linea con le direttive europee. Il rapporto, presentato a fine gennaio a Roma nella sala capitolare del Senato alla presenza del presidente della X Commissione Indu-stria di Palazzo Madama, è stato predispo-sto con lo scopo di monitorare e valutare il quadro complessivo degli sviluppi dell’ef-ficienza energetica in Italia e dell’impatto, a livello nazionale e territoriale, delle poli-tiche e delle misure per il miglioramento dell’efficienza negli usi finali, in modo da offrire un mezzo che consenta di regolare in maniera dinamica gli strumenti della politica in questo settore, rendendoli più efficaci e incisivi.
QUaLCHE omBra ma SoPrattUtto LUCiI grafici e i numeri mostrati nel documen-
to indicano che l’Italia è un Paese virtuo-so, ma ha ampi margini di miglioramen-to: si può fare ancora molto, infatti, per ridurre i consumi energetici, soprattutto con un mix di interventi che prevedano incentivi e l’introduzione di standard di legge. Finora, comunque, le cifre sono in-coraggianti. Nel 2010 il risparmio ener-getico è stato di 47.711 GWh/anno, un dato che ha superato di gran lunga l’o-biettivo atteso che il Piano di Azione Ita-liano per l’Efficienza Energetica (PAEE) del 2007 indicava in 35.658 GWh/anno. Gran parte di questo risultato, ben l’82%, si deve agli interventi riconducibili al de-creto legislativo 192/2005 - che ha in-trodotto standard minimi di prestazione energetica degli edifici - e al meccani-smo dei Titoli di Efficienza Energetica. Questi titoli, acquistabili e successiva-mente rivendibili, sono entrati in vigore nel 2005 e certificano i risparmi energe-tici conseguiti attraverso la realizzazione di specifici interventi; essi rappresentano quindi un incentivo atto a ridurre il con-sumo energetico in relazione al bene di-stribuito. Nel 2009 l’indice di efficienza energetica per l’intera economia italiana, valutato tramite uno specifico parametro tecnico (Odex), è risultato pari a 89,6 e quindi ha registrato un miglioramento, rispetto al 1990, del 10,4%. I diversi- set-tori hanno contribuito in modo diver-so all’ottenimento di questo risultato. Un buon contributo è stato portato dal settore industriale, grazie ad azioni di rinnovamento tecnologico che hanno visto l’installazione di impianti di coge-nerazione ad alto rendimento e motori elettrici ad alta efficienza: nel decennio 1999-2009 l’industria manifatturiera ha ottenuto un miglioramento dell’efficien-za energetica del 9,9%. Ma se l’industria
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ha potuto vantare questi significativi miglioramenti so-prattutto negli ultimi quattro anni, è il settore residenziale quello che ha mostrato progressi regolari e costanti in tutto il decennio 1990-2009. Il sistema Italia, da questo punto di vista, ha riconfermato la sua felice tradizione: il rapporto evidenzia infatti che il nostro Paese è ad elevata efficien-za energetica, con un consumo finale per abitante fra i più bassi in Europa: 2,4 tonnellate equivalenti di petrolio (tep) a fronte di una media comunitaria di 2,7 tep per abitante. Una buona prestazione, ma inferiore rispetto alle attese, è arrivata dal settore dei trasporti che, tra il 1999 e il 2009, ha registrato un incremento dell’efficienza solo dell’1,1%.
itaLia a DUE vELoCitàIl rapporto mostra però ancora una volta un’Italia a due velocità: se si considerano i dati sull’efficienza energetica a livello regionale, emerge con chiarezza un’applicazione non uniforme degli strumenti di legge. Oltre il 64% del risparmio energetico ottenuto con gli interventi di riqua-lificazione energetica è concentrato in Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia Romagna (Fig. 1). Nella graduatoria stilata in base al valore totale del risparmio energetico, le prime dieci regioni concorrono per circa l’89% del totale (3.800 GWh), mentre il contributo delle altre dieci regioni si attesta a circa 450 GWh, corrispondente al 10% del tota-le. Inoltre, soltanto l’1% del risparmio energetico comples-sivo è attribuibile al contributo delle ultime quattro regioni (Molise, Basilicata, Calabria e Valle D’Aosta). Per quanto
riguarda gli investimenti in interventi di miglioramento dell’efficienza energetica, ancora una volta le quattro regio-ni del Nord sono più virtuose di altre: Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia Romagna hanno contribuito per oltre il 60% all’investimento complessivo di 7.520 milioni di euro nel triennio 2007-2009. Anche in questo ambito si registrano risultati simili a quelli osservati sul fronte delle performance di efficienza energetica: il valore associato al
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Sul fronte degli investimenti, le regioni più virtuose sono Lombardia,
veneto, Piemonte ed Emilia romagna
totale degli investimenti effettuati nelle prime dieci regioni è circa l’88% del totale, il contributo delle ultime dieci regioni si avvicina a un valore prossimo al 12% del totale e soltanto il 2% degli investimenti complessivi è stato effettuato nelle ultime quattro re-gioni (Molise, Basilicata, Calabria e Valle D’Aosta). Infine, a proposito dei certificati bianchi, ovvero i Titoli di Efficienza Energetica (TEE), la quota più significativa è appannaggio di Lombardia, Toscana e Lazio, seguite da Emilia Romagna, Piemonte, Puglia e Campania. Analizzando poi l’intero periodo di ri-ferimento, si nota come in alcune regioni (Lombar-dia, Toscana, Piemonte, Puglia e Veneto) ci siano sta-ti incrementi significativi nel numero di TEE emessi, mentre in altre regioni (Lazio, Emilia, Campania) l’incremento risulti più contenuto, nonostante siano aumentati gli operatori autorizzati.
L’EFFiCaCia DELLE miSUrEIl rapporto ha poi analizzato l’efficacia degli stru-menti normativi e degli incentivi attivati in Italia nel quadriennio 2007-2010, rispetto agli obiettivi stabiliti a livello nazionale. Gli interventi che hanno maggiormente contribuito al raggiungimento degli obiettivi sono stati:• l’installazione di impianti di riscaldamento effi-
cienti nel settore residenziale;• l’adozione degli standard minimi di prestazione energetica del complesso edificio-impianto nel set-tore terziario, attuata per combattere gli sprechi;• l’installazione di impianti di cogenerazione ad alto rendimento e di motori elettrici ad alta efficienza;• il recupero del calore nel settore industriale;• lo svecchiamento del parco autoveicoli, con l’ac-quisizione di nuove vetture più ecologiche.Il grafico (Fig. 2) mostra l’efficacia dei diversi stru-menti normativi e di incentivazione, valutata in base al contributo di ciascuno di essi rispetto all’obiettivo complessivo 2010. I dati evidenziano come lo stru-mento normativo (D.Lgs. 192/05 - standard minimi di prestazione energetica) abbia fornito un contribu-to di entità costante, a fronte di una notevole crescita dei risparmi relativi al meccanismo dei Titoli di Effi-cienza Energetica.
QUaLi iNtErvENti PEr miGLiorarE aNCora?Una prima risposta è senza dubbio riproporre un mix di incentivi e di norme per gli standard minimi. Sul fronte industriale, il rapporto suggerisce un mag-giore ricorso a motori elettrici e inverter fotovoltaici. “Una sostituzione forzata a seguito della normati-
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abru
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legenda legenda2005-2009 D.leg. 192/05
2007 2008 2009 2010
2005-2010 Detrazioni 55% Detrazioni 20%2005-2011 TEE
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Figura 1 - Ripartizione per regioni del numero di Titoli di Efficienza Energetica emessi
Figura 2 - Strumenti normativi e di incentivazione
va cogente – si legge – potrebbe produrre risparmi energetici fino a 5,9 TWh/anno al 2020” e “l’in-verterizzazione di tutto il potenziale porterebbe un risparmio del 35 per cento nel settore ventilazione e pompaggio, del 15 per cento nel settore dei com-pressori e del 15 per cento per le altre applicazioni”. Si deve puntare poi sulla tecnica cogenerativa. En-trando più nel dettaglio, il rapporto messo a punto dall’Unità Tecnica di Efficienza Energetica dell’E-nea suggerisce anche l’uso di impianti di ossidazione a bolle fini, in sostituzione degli attuali metodi di diffusione dell’aria nei sedicimila impianti di depu-razione di acque reflue attivi in Italia, nonché, per gli impianti di grandi dimensioni, l’uso di soffianti centrifughe al posto dei soffianti a lobi. Inoltre, è for-temente consigliato anche il ricorso a motori elettri-ci sincroni a magneti permanenti, in sostituzione di motori asincroni a induzione tradizionali.Nel settore dei trasporti, sempre secondo il rapporto, sarebbe opportuno promuovere modalità alternative al trasporto su strada, una maggiore diffusione del-la commercializzazione a “km 0” e l’ottimizzazione dei sistemi di trasporto intelligenti. E’ necessario infine scommettere sulle smart cities, fatte di smart houses, dando un forte impulso alla ricerca in questo ambito, anche perché il 70% delle emissioni a effetto serra proviene proprio dalle città. “Questo Rappor-to – ha sottolineato il commissario Enea Giovanni
Lelli - evidenzia come il nostro Paese abbia saputo impegnarsi in questi ultimi anni per migliorare la propria efficienza energetica, attuando una riconver-sione del sistema produttivo e dei servizi energetici mediante l’adozione di tecnologie più innovative. Ha contribuito a questo miglioramento anche una
maggiore consapevolezza dei cittadini che hanno sa-puto cogliere le opportunità offerte dallo Stato con gli incentivi per la riqualificazione del patrimonio immobiliare migliorando il proprio benessere abita-tivo. L’efficienza energetica – ha commentato ancora Lelli - è ormai diventata uno dei capisaldi su cui si basa la nostra strategia energetica per ridurre sia la domanda che la dipendenza negli approvvigiona-menti ed ha permesso all’Italia di raggiungere ottimi risultati, in linea con gli indirizzi e le politiche ener-getiche europee. Per mantenere questo trend nei prossimi anni servi-ranno nuovi interventi ed azioni in grado di orienta-re gli investimenti e di influenzare i comportamenti di imprese, Pubblica Amministrazione e cittadini”.
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Le dieci regioni più virtuose coprono, da sole, l’88% degli
investimenti nel settore
Ecologia delle mentiPietro Greco
Gli studi effettuati sulle capacità cognitive di delfini, elefanti e scimpanzé alimentano i molti interrogativi che emergono dalle continue scoperte nel campo della ricerca neuroscientifica. Interrogativi che investono sempre più il campo etico, sociale e dei diritti, ma anche quello più stret-tamente scientifico. Interrogarsi sulle “menti altre”, infatti, significa anche interrogarsi sulla mente umana stessa, sulla sua specificità e sulle basi biologiche della nostra morale
Lori Marino, esperta di neuroanatomia dei cetacei in forze alla Emory University di Atlanta, negli Stati Uniti, ne è convinta. E lo ha ribadito più volte in articoli scientifici e pubbliche conferenze: i del-fini sono così intelligenti e sensibili che non solo non possono essere costretti alla cattività (ne soffrono), ma hanno diritto a essere considerate persone. Persone non umane. Proponendoci di conside-rare persona – anzi, persona non uma-na – un delfino, Lori Marino ci pone un problema che è insieme etico e scientifi-co. Lo potremmo definire un problema di neuroetica, nella duplice accezione di “etica delle neuroscienze”, ovvero di studio delle conseguenze etiche sollevate dalle nuove conoscenze sul cervello. Ma anche di “neuroscienze dell’etica”, ovvero di studio delle basi biologiche della mo-rale. Vediamo perché. I delfini, sostiene Lori Marino, devono essere definiti persone perché hanno tut-ti i requisiti strutturali giusti. Un cervello di 1.600 cm3, che è persino più grande in volume di quello di Homo sapiens, il no-stro, che è, in media, di 1.350 cm3. Ma, soprattutto, hanno un tasso di encefaliz-zazione (il rapporto tra il peso del cervel-lo e il peso del corpo) superiore a quello degli scimpanzé e secondo, appunto, solo a quello di noi umani. Nel loro grosso cervello hanno, inoltre, una neocorteccia molto complessa e sviluppata. E la neo-corteccia negli umani è la sede delle ca-pacità cognitive superiori: da quelle rela-tive alla soluzione di problemi, all’intel-ligenza sociale, alla coscienza. Nei delfini sono stati trovati anche i neuroni “von Economo”, che noi (e gli scimpanzé) at-tiviamo quando instauriamo relazioni sociali complesse, elaboriamo pensieri astratti o, addirittura, una teoria della
mente. Nessun dubbio, dunque: in quan-to a struttura cerebrale “giusta”, i delfini sono gli animali più simili a noi, che ci autodefiniamo sapienti. Persino più degli scimpanzé, con cui condividiamo oltre il 98% del Dna e una storia evolutiva re-cente. Ma possedere un bolide con un potente motore non significa, necessariamente, correre e vincere in Formula 1. I delfini corrono in termini cognitivi in Formula 1? Hanno capacità cognitive paragonabi-li a quelle dell’uomo? Hanno una mente? Il loro grosso cervello secerne pensiero come il fegato secerne la bile, per usare una nota metafora proposta da Pierre Cannabis un paio di secoli fa? Diana Reiss, ricercatrice dell’Hunter College presso la City University of New York, una vita spesa a studiare i mammiferi marini negli acquari e in mare, non ha dubbi: i delfini usano in tutte le sue potenzialità il loro robusto motore cognitivo. Il loro cervello secerne pensiero come il fegato la bile. Hanno infatti un comportamento sociale intelligente almeno quanto quel-lo delle grandi scimmie antropomorfe; hanno autocontrollo; capiscono cosa vuole fare l’altro; hanno personalità; comprendono complesse istruzioni im-partite dagli umani; hanno una capaci-tà di apprendere e di risolvere problemi inediti. E si riconoscono allo specchio. Sono, dunque, dotati di autocoscienza.Insomma, i delfini non hanno solo un cervello che per “potenza” è (sarebbe) in-termedio a quello tra uomo e scimpanzé. Ma hanno anche una mente. E compor-tamenti in cui dimostrano di saperli usa-re, quel loro cervello e quella loro mente. Per tutti questi motivi nessun altro es-sere vivente come i delfini – sostengono Marino, Reiss e molti loro colleghi – può
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autorevolmente candidarsi a essere riconosciuto come “persona non umana”. Una candidatura tanto più ecce-zionale, perché avanzata da una specie che non appartiene alla linea filogenetica dei primati. La persona emergerebbe, dunque, in diverse linee evolutive. Una conferma indiretta ce la fornisce Frans de Waal che, con un gruppo di collabo-ratori della Emory University di Atlanta, ha fornito pochi mesi fa sulla rivista PNAS la prova che anche gli elefanti hanno non solo una spiccata intelligenza individuale, ma anche una spiccata capacità a cooperare e a comprendere il valore della cooperazione. Cosicché gli elefanti possono competere alla pari, per le loro capacità cognitive, con del-fini e scimpanzé. Molti colleghi sono più prudenti di Diana Reiss e di Lori Marino, ricercatrici entusiaste dei mammiferi marini che studiano da anni, o di de Waal. In realtà molti fanno no-tare, a ragione, che sappiamo ancora troppo poco sia dei delfini che degli elefanti. Dobbiamo studiarli ancora. E appropriatamente. Nel loro ambiente naturale, non in cat-tività. Dobbiamo studiarli almeno quanto gli scimpanzé, per poter elaborare un’analisi comparata tra l’intelligenza (le intelligenze) dei cetacei, l’intelligenza (le intelligenze) degli elefanti e l’intelligenza (le intelligenze) dei nostri cu-gini primati. Al netto di tutto questo, resta la candidatura dei delfini e degli elefanti a concorrere per la definizione di “persona non umana”. Il concorso – vale la pena ribadirlo – ha un interesse solo per noi, persone umane, e lascia del tutto indifferenti i nostri amici marini. Ma la domanda è, almeno per noi, di grande interesse: cos’è che intendiamo
per “persona”? Non esiste una definizione scientifica ri-gorosa. Tuttavia, molti filosofi sono d’accordo nel ritene-re persona un essere vivente che ha delle emozioni, che è consapevole dell’ambiente in cui vive, che ha personalità, autocontrollo e ha relazioni appropriate sia con i membri della sua stessa specie, sia con gli altri esseri viventi, sia con il resto dell’ambiente in cui vive. Se questo identikit di persona ha una qualche validità, allora sembra non esser-
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Considerare i membri di alcune specie “persone non umane” apre scenari
sempre più complessi e affascinanti
ci più dubbio: i delfini, come gli elefanti e gli scimpanzé, sono persone. In particolare, sono “persone non umane”. Cosa implica, tutto ciò? Per i delfini, per gli elefanti e per gli scimpanzé nulla. Che noi li definiamo “persone” o no, per loro non cambia – non deve cambiare – assolutamente nulla. Anche se, un paio di anni fa, Zhora, uno scimpanzé uso ad alzare troppo il gomito nello zoo di Rostov, sul Don, è stato mandato in un centro specializzato di recupero per alcolisti e tabagisti, proprio come un alcolizzato umano.Considerare persone scimpanzé, delfini, elefanti ed even-tualmente altri animali potrebbe cambiare qualcosa per noi. Già porci queste domande cambia qualcosa per noi. Molti sostengono per esempio che se delfini, elefanti, scim-panzé e altri animali non umani sono “persone”, allora devono cambiare sia il loro statuto etico sia quello legale: dobbiamo trattarli come persone. Per esempio, non possia-mo tenere un delfino in cattività: perché è come tenere pri-gioniero una persona (appunto) innocente. Né costringere un elefante ai lavori forzati. Ma queste sono, per così dire, le conseguenze a valle del problema posto (in realtà, riproposto) da Lori Marino e Diana Reiss. E proprio la nascita recente e lo sviluppo della disciplina che abbiamo evocato all’inizio, la neuroetica, ci aiuta a capire come l’analisi delle conseguenze a valle ci spinga inevitabilmente a risalire a monte del problema. Quando, all’inizio del XXI secolo, il giornalista e scrit-tore William Safire ha coniato, a quanto pare per primo, il termine neuroetica, pensava a quel nuovo ambito della filosofia e, in particolare, della bioetica che iniziava a di-scutere del trattamento e del potenziamento del cervello umano resi possibili dallo sviluppo delle neuroscienze e delle neurotecnologie. La neuroetica, come ambito di in-teressi nell’accezione di Safire, ha certamente iniziato a vi-vere prima che ne esistesse il nome. Ma non molto tempo prima. È nata infatti nell’ultima decade del secolo scorso, gli anni ’90, quando lo sviluppo delle nuove tecnologie di brain imaging – come la risonanza magnetica funzionale (fMRI), la tomografia a emissione di positroni (PET), la spettroscopia a infrarossi (NIRSI) e altre – ha consentito alla neurobiologia umana di produrre nuove conoscenze sul funzionamento del cervello. Attraverso una vera e pro-pria visualizzazione dei fenomeni cerebrali, è stato possibi-le prendere in esame problemi mai prima affrontati.
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Gli scienziati hanno, dunque, iniziato a chieder-si quali erano le possibili ricadute (implications, in genere, per gli americani; aspects, in genere, per gli europei) etiche, legali e sociali (ELSI, in genere, per gli americani; ELSA, in genere, per gli europei) dello sviluppo a tratti impetuoso delle neuroscienze e delle neurotecnologie. A definire ciò che è bene e ciò che è male intorno a questo nuova conoscenza definita prometeica. Ci si è focalizzati dapprima sull’aspet-to, per così dire, più immediato della questione: i correlati etici delle neuroscienze applicate all’uomo. Che non sono risultati pochi. Lo studio genetico delle malattie neurologiche – la possibilità di predi-re, per esempio, il morbo di Huntington – spalanca a problemi morali di grande portata: abortire o no, in caso di un embrione portatore della propensione genetica alla malattia? Inserire o no in utero un em-brione geneticamente predisposto al morbo? E come comportarsi dopo la nascita del bambino con una propensione genetica a una malattia neurodegenera-tiva che si manifesta solo in età adulta? Si è capito subito, d’altra parte, che lo studio del cervello e del-la neurobiologia delle cause e degli effetti in ambito cerebrale apre a questioni – come il libero arbitrio e la responsabilità personale – con implicazioni (o aspetti) enormi anche da un punto di vista del dirit-to: se non ho reale possibilità di scelta, posso essere considerato responsabile ed eventualmente pagare in sede penale per le mie azioni? Anche la possibilità di intervenire in maniera attiva sul cervello (con tecni-che chimiche, chirurgiche o di qualsiasi altra natu-ra) apre a scenari inusitati: dalla psicofarmacologia al neuromarketing, i campi di potenziale interesse della neuroetica – i campi dove occorre definire il bene e il male – si rivelano davvero innumerevoli. Ma ben presto gli studiosi del nuovo ambito dell’e-tica applicata hanno compreso che le nuove ricerche e le nuove tecniche non consentono (e non impon-gono) solo di cercare le implicazioni (o gli aspetti) morali delle neuroscienze, ma consentono (impon-gono) anche di cercare le basi neurobiologiche del-la morale. O, per dirla con Marc Hauser, le origini naturali del bene e del male. I nostri comportamenti
etici e la capacità di esprimere giudizi morali che li guida sono, anche, una conseguenza della struttura del nostro cervello, della sua ontogenesi e della sua fi-logenesi. Ecco, dunque, perché chiederci se il delfino possa essere definito persona e se, per questo, abbia più diritti di una medusa, significa non solo interro-
garsi sulla mente degli animali non umani, ma anche sulla nostra mente. Sulla nostra etica. La neuroetica nasce infatti con la consapevolezza, presente a molti pionieri della nuova disciplina, che essa deve esse-re intesa non solo come “etica delle neuroscienze”, come metodo per ottenere il massimo dei benefici da eventuali cure mediche del cervello dell’uomo e il minimo dei rischi associati all’intervento sul cervel-lo dell’uomo. La neuroetica si propone anche come “neuroscienze dell’etica” e dunque, come suggerisce il neuroscienziato Micheal Gazzaniga, quale “corpus teorico che definisce e misura la responsabilità indi-viduale all’interno di un contesto più ampio” e addi-rittura come “sforzo di elaborare una filosofia della vita, basata sul cervello”. Da questo punto di vista è importante non solo es-sere consapevoli dei limiti e delle opportunità delle neuroscienze umane, ma anche prestare attenzione – come peraltro ci invitano a fare proprio alcune re-centi ricerche nell’ambito delle neuroscienze come quelle sui neuroni specchio di Giacomo Rizzolatti – alle “correlazioni mentali” e dell’“empatia”. In pra-tica, al rapporto tra le menti. E, quindi, alle relazio-ni tra le “menti altre”. Gli studi di neuroetica, scrive Michael Gazzaniga, “ci aiutano a sviluppare una teo-ria della mente altrui e, di conseguenza, della nostra”.Ma la mente altrui – rispetto alla quale possiamo svi-luppare una teoria della mente nostra – può e deve essere intesa non solo come la mente degli altri uo-mini. Può essere intesa anche come mente di altri esseri, non umani. Ciò apre, almeno in via prelimi-
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La neuroetica è un’area di studi nata solo recentemente,
nei primi anni novanta
nare, ad alcuni nuovi temi: la neuroetica deve sentir-si impegnata nella costruzione anche di una “teoria della mente non umana”? Ovvero, la neuroetica deve occuparsi anche di implicazioni/aspetti etici (e per-ché no, legali e sociali) connessi allo studio di menti non umane? E d’altra parte, quando si occupa delle basi neurobiologiche della morale – che sono basi
evolutive – non si occupa necessariamente anche dell’evoluzione di menti non umane? È evidente che la neuroetica – intesa nella doppia accezione di “eti-ca delle neuroscienze” e di “neuroscienze dell’etica” di Homo sapiens – non può non porsi il problema delle “menti altre” e iniziare a pensare se stessa come “corpus teorico che definisce e misura la responsabi-lità individuale all’interno di un contesto più ampio, che riguarda la mente umana ma anche le menti non umane”. E da questa evidenza, scaturisce un’emer-genza. Nel momento in cui si occupa delle “menti altre” è costretta a occuparsi anche delle relazioni e, quindi, della comunicazione della mente umana con le “menti altre”. Certo non è scontato dire, in questo momento, se esistono e quali sono le «menti non umane»: perché ogni ipotesi è un’ipotesi aperta ed è oggetto di acceso dibattito (tra diverse discipline e anche all’interno delle varie discipline). Per esempio non è possibile dare per scontato che i delfini siano persone e abbiano una mente.Tuttavia non è possibile neppure discutere il fatto che esista una ricerca scientifica – più o meno avan-zata, più o meno solida – intorno alla mente e alla comunicazione tra menti che riguarda, allo stato, al-meno tre grandi ambiti: la mente di Homo sapiens; la mente delle macchine e la mente degli animali non umani. C’è persino qualcuno che sostiene, non a torto, che occorre porsi il problema anche in un quarto ambito, quello della mente delle (eventuali) intelligenze extraterrestri. Per ciascuna delle possi-
bili “menti non umane” considerate esiste già una riflessione, più o meno approfondita, sui cosiddetti aspetti ELSI/ELSA: ovvero sui temi e sugli aspetti etici, legali e sociali. Si discute molto sui correlati etici dell’intelligenza artificiale. Sui robot che di-venteranno persone. Si è giunti anche a stabilire un “manifesto della roboetica”. Si discute anche di SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligences), dei suoi fondamenti scientifici ma anche dei suoi corre-lati etici. Non è rischioso cercare ETI e soprattutto farsi riconoscere da intelligenze extra-terrestri? E se queste intelligenze fossero aggressive? Chi legittima i ricercatori a esporre l’umanità a questo rischio? O, con ottica completamente diversa: quali diritti può vantare ETI? Ma si discute soprattutto dei diritti de-gli animali non umani. E, dunque, dei rapporti tra Homo sapiens e le altre menti animali, non umane. I criteri di giudizio riguardano sia la vicinanza filo-genetica con la nostra specie – in base alla quale per alcuni un gatto avrebbe più diritti di un insetto e uno scimpanzé più diritti di un gatto – sia le capacità co-gnitive delle singole specie – per cui alcuni sono pro-pensi a riconoscere più diritti a un delfino che a una medusa. Ecco, dunque, che la neuroetica si lega con almeno due ambiti di studi scientifici, a loro volta interconnessi. Il primo ambito è quello dell’etologia e della psicologia cognitiva. Ovvero con quell’ambi-to di studi che non considerano più gli animali non umani come mere macchine che rispondono in ma-niera automatica (istintiva) agli stimoli esterni, ma come esseri intelligenti, dotati di un proprio “spazio interno” – localizzato nel cervello, in primo luogo – dove effettuano vere e proprie operazioni mentali. Grazie anche, ma non solo, alle nuove tecniche di in-dagine cerebrale, comprese quelle di brain imaging, gli psicologi cognitivi hanno ora la possibilità di con-siderare questo “spazio interno” non più come una “scatola nera” di cui si possono conoscere solo gli sti-moli in entrata e gli effetti in uscita, ma come la sede del pensiero degli animali che è possibile esplorare.Il tema della mente animale (e, men che meno, quello della persona non umana) sono tutt’altro che esauriti. Restano aperti. Ma non c’è dubbio che
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oggi sappiamo che esiste un’intera costellazione di capacità cognitive
diverse
l’immagine che avevamo degli animali e delle loro capacità cognitive – e, di conseguenza, di noi stessi e della nostra specificità – è radicalmente cambiata rispetto solo a un secolo fa. Oggi sappiamo che c’è un’intera costellazione di capacità cognitive, che i diversi animali hanno diverse capacità cognitive. Alcune delle capacità possedute dagli animali non umane sono simili alle nostre, altre cognitivamen-te persino superiori. Questo ci autorizza a parlare di mente non umana o addirittura di persona non umana? La domanda resta aperta. Ma certo interro-ga direttamente e potentemente noi stessi, la nostra mente. Tanto più se lo studio della mente degli ani-mali è sviluppato in una prospettiva evoluzionista e adattativa. La prospettiva evoluzionista inserisce in una chiave storica la nostra mente e la lega a quel-la delle menti di tutti gli altri animali. La prospet-tiva adattativa – la nostra mente e quella degli altri animali – è il frutto della selezione naturale. Ma la mente ha spalancato anche le porte a quello che il biologo neodarwiniano Theodosius Dobzhansky ha definito il “secondo trascendimento evolutivo” nel-la storia della vita: il passaggio dal biologico al cul-turale. Quanto l’evoluzione culturale è adattativa e quanto non lo è? Gli animali non umani sono sotto-posti a evoluzione culturale e in che modi e forme? In questa ottica neuroetica a tutto tondo che si lega all’etologia cognitiva, alla psicologia cognitiva, alla biologia evolutiva, trovano spazio anche i temi rela-tivi al rapporto tra gli umani e gli altri animali non umani. Tra la nostra mente e le “menti altre”. In ter-mini etici, legali e sociali. Certo le prospettive sono diverse. C’è chi sostiene la tesi di una gradazione di diritti correlata alla gradazione di capacità cogniti-ve. Chi invece separa la questione dei diritti animali dalle loro capacità cognitive (il rispetto degli animali deve prescindere il tasso di vera o presunta vicinanza con l’uomo). Un fatto però è certo. In questa ottica in cui etologia cognitiva, psicologia cognitiva, evolu-zionismo e neuroetica si incontrano, l’uomo cessa di essere solo, “fuori dalla natura”, ma si ritrova insieme a tutte le altre specie viventi completamente “dentro la natura”. In una nuova “ecologia della mente”.
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Crescere meno, crescere tutti Cristiana Pulcinelli
E’ possibile che esista una prosperità senza crescita? Il libro di Tim Jackson ruota intorno a questa domanda. Secondo la visione tradizionale dell’economia, la risposta dovrebbe essere no. Sia-mo infatti abituati a pensare che più crescita economica significa redditi più alti, e redditi più alti implicano maggiori opportuni-tà, vite più ricche e, quindi, qualità della vita migliore. Ma Tim Jackson non è d’accordo. Jackson è consigliere per la sostenibi-lità alla Sustanaible Development Commission del regno Unito e il suo lavoro prende le mosse dalle indagini svolte da questa commissione sui rapporti fra crescita economica e sostenibilità. Il ragionamento che Jackson segue nel suo libro parte da alcune constatazioni. La prima è che la mia prosperità e quella di colo-ro che mi stanno intorno sono intrecciate; quindi, per parlare di prosperità le cose non devono andare bene solo a me, ma anche agli altri membri della società in cui vivo: un mondo prospero è un mondo in cui ci sono meno ingiustizie e povertà, un mondo con un futuro sicuro e pacifico. La seconda constatazione è che la popolazione della Terra nel 2050 raggiungerà i 9 miliardi di persone. La terza constatazione è che la Terra è finita e lo sono anche le sue risorse. Se mettiamo insieme questi dati, emergono evidenti difficoltà: c’è chi ha calcolato che se tutti gli abitanti del pianeta tra 40 anni volessero raggiungere il livello di benesse-re atteso per le nazioni Ocse, avremmo bisogno di un’economia pari a 15 volte quella attuale. Se tutti consumassimo ai ritmi degli Stati Uniti, entro 20 anni ci troveremmo d’altronde di fronte a un problema di scarsità di risorse. Del resto, un Pil in crescita non significa sempre un aumento di prosperità. Anzi, dice Jackson, negli ultimi 50 anni la crescita economica ha creato disuguaglian-ze più marcate e tensioni sociali, non solo tra Paesi ricchi e Paesi poveri, ma anche all’interno delle economie avanzate. Dobbiamo quindi liberarci dell’idea che “più è meglio” e ripensa-re la prosperità come “la nostra capacità di crescere bene come esseri umani, entro i limiti ecologici di un pianeta finito”. Questa prosperità può essere raggiunta senza crescita economica. “L’i-dea di un’economia che non cresce potrà essere un anatema per gli economisti. Ma l’idea di un’economia in costante crescita è un anatema per gli ecologisti. nessun sottosistema di un sistema finito può crescere all’infinito: è una legge fisica. Gli economisti dovrebbero riuscire a spiegare come può un sistema economico in continua crescita inserirsi all’interno di un sistema ecologico finito”. L’autore, nell’ultima parte del libro, spiega anche come si può fare a raggiungere una qualità della vita migliore senza un Pil rampante. La cosa è complessa e non riusciremmo a dar-ne conto in modo completo, ma ricordiamo solo alcuni punti. Le
attività produttive della nuova economia, ad esempio, dovranno sottostare a tre principi operativi: contribuire positivamente alla felicità umana, fornire alle persone i mezzi di sussistenza ade-guati, creare throughput (in termini di impatti ambientali) limi-tati sia da un punto di vista dei materiali sia di energia. E i tre interventi macroeconomici “necessari a raggiungere la stabilità ecologica ed economica nella nuova economia”, saranno: transi-zione strutturale verso attività basate sui servizi; investimento in asset ecologici; politica sull’orario di lavoro come meccanismo di stabilità. In sostanza, come si diceva qualche tempo fa, lavora-re tutti, lavorare meno.
Corsa alla terraGiovanna Dall’Ongaro
Una corsa all’acquisizione delle terre sta cambiando il volto del Sud del mondo. Molti rapporti di organizzazioni internazionali hanno già ampiamente documentato come governi di Paesi ric-chi, multinazionali, società finanziarie si stiano impossessando, per pochi soldi, di centinaia di migliaia di ettari nei Paesi in via di sviluppo. Questo fenomeno, che prende il nome di land grabbing, viene fatto conoscere ora nel dettaglio in Italia dal pionieristico libro-reportage scritto da Stefano Liberti. Viaggiando tra l’Etiopia e il Brasile, l’Arabia Saudita e la Tanza-nia, attraversando i corridoi della Fao e le stanze della borsa di Chicago, Liberti di esempi sull’accaparramento di terre ne ha messi insieme molti. C’è il gruppo indiano Karuturi, dedito a in-vestimenti in agricoltura, che si è aggiudicato 1300.000 ettari di suolo etiope nella regione di Gambella; la compagnia statuni-tense nile Trading & Devolepment Inc., che ha affittato 400.000 ettari di terreno per 49 anni nel Sud Sudan; la britannica new Forests che, per fare largo alle sue piantagioni in Uganda, ha provocato lo sfratto di 20.000 famiglie. Ma ci sono anche governi di Paesi ricchi che nelle distese incolte del Sudan, del Ghana, del Madagascar, di Paesi dell’America Latina e del Sud Est Asiatico hanno trovato un vero e proprio eldorado. Con la crisi finanziaria del 2007 e il conseguente aumento dei prezzi degli alimenti, in-fatti, le terre a sud dell’equatore sono diventate molto appetibili. Per due ragioni: perché potrebbero diventare un’utile riserva di
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Prosperità senza crescita. Economia per il pianeta reale TIM JACKSOnEdizioni Ambiente, 2011 pp.300, euro 24,00
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cibo per tutti quei Paesi ricchi di liquidità ma poveri di terreni coltivabili e perché rappresentano un investimento molto reddi-tizio (si comprano a poco e si rivendono a molto di più). Il libro descrive il fenomeno a 360 gradi, con tutte le cifre che servono a quantificare sia i guadagni che le superfici di terreno cedute e c’è l’analisi politico-economica sulle ragioni che favori-scono questo particolare mercato. Leggiamo, per esempio, che un’altra grande spinta al land grabbing viene dal mercato dei biocarburanti. Attenzione, avverte Liberti, le coltivazioni di soia, mais, canna da zucchero, da cui ricavare biofuel, sottraggono terreno ad altre colture. Con la conseguenza di ridurre la produ-zione di alimenti aumentandone i prezzi. Viene naturale quindi a Liberti rivolgere ai lettori lo stesso quesito che si sentì porre da Lester Brown – direttore dell’Earth Policy Institute e tra i più in-fluenti esperti di sviluppo sostenibile – nel corso di un’intervista: “Siamo di fronte a un bivio: per spendere un po’ meno per le no-stre macchine, mandiamo alla fame milioni di persone nel Sud del mondo. Dobbiamo guardare in faccia la realtà: siamo disposti a perpetrare un simile crimine?”. Oltre a essere un’utile guida per chi vuole conoscere fatti e statistiche, il libro invita anche alla riflessione su temi che, anche se non sembra, ci riguardano da vicino.
Un manuale per risparmiare (energia) ed essere felici Tina Simoniello
In copertina ci sono almeno tre parole che attraggono il lettore: felici (“Come consumare meglio ed essere felici”, il sottotitolo: di questi tempi, di felicità vorremmo almeno leggere), risparmi (“Con questo libro risparmi 1000 euro all’anno!”, lo strillo in co-pertina: inutile dire che risparmiare per milioni di famiglie è un obbligo, non un vezzo ambientalista) e manuale (“Manuale di sopravvivenza energetica”, il titolo: finalmente veritiero, onesto, che mantiene ciò che promette, visto che proprio di un manuale si tratta, utile e molto fruibile). Parliamo del volume di Andrea Mameli, fisico di Cagliari in forza al “Crs4 – Centro di ricerca, sviluppo e studi superiori” in Sardegna, edito ormai da qualche mese da una nuova casa editrice torinese, Scienza Express, pic-cola ma con una evidente passione per la buona comunicazione
della scienza. Il Manuale, dicevamo, è davvero un manuale: scor-re, fluido e leggibile, attraverso brevi capitoli, ognuno una picco-la completa monografia di indicazioni e suggerimenti, finalizzati – come lo stesso autore spiega nel’introduzione – a informarci su quanta energia consumiamo, cosa siamo in grado di limitare e come possiamo ridurre i nostri consumi con un effetto diretto sull’immissione di inquinanti nell’ambiente abbattendo sensibil-mente la spesa (in fondo anche il denaro è una risorsa, ed è noto a tutti che averne un po’ di più a disposizione rende se non felici almeno tranquilli). Perché se è vero – sempre citando Mameli – che molti decenni ci separano dalla fine delle risorse fossili, l’aumento dei prezzi dei carburanti, gas e bolletta elettrica è die-tro l’angolo. Il volume, illustrato, è suddiviso in tre sezioni. nella prima, “Cambiare abitudini”, capitoli come “L’arte di riusare”, “Un uomo a impatto zero” “Elogio della sobrietà” fanno riflettere in modo circostanziato, scientifico ma colloquiale, sull’impatto del nostro stile di vita sull’ambiente e sul portafoglio: i rispar-mi sono espressi in euro oltre che in percentuali di inquinanti. La seconda sezione, “Alfabeto sostenibile” rappresenta a nostro giudizio il cuore del volume. È un susseguirsi di capitoli utili per chi vuole imparare ad esem-pio come utilizzare al meglio il frigorifero continuando a man-giare sano, o il climatizzatore dell’auto, rimanendo comunque freschi. Apprendiamo che è possibile dimezzare le ore di stiro a settimana senza andare in giro con abiti sciatti, come vanno lette le ecoetichette degli elettrodomestici o quanto si risparmia sul riscaldamento domestico utilizzando la lana di pecora come iso-lante. L’ultima parte del libro, “Per saperne di più”, è in qualche modo “più culturale”: oltre una breve storia del controllo dell’e-nergia, ci sono definizioni di impronta ecologica, di bioeconomia e termodinamica. Sempre con un linguaggio accessibile a chiun-que. Il volume di Mameli è certamente utile per chi volesse im-parare a consumare meno energia e consumarla meglio, traen-do soddisfazione etica e anche economica dal proprio impegno, ma è anche adatto a chi, semplicemente, ha curiosità di sapere quanto pigrizia e superficialità impattano sull’ambiente. Inoltre, vista la sua semplicità associata all’estremo rigore scientifico (l’autore – dicevamo – è un fisico) è un volume per gli insegnanti e gli educatori in genere. In fondo è Mameli stesso a suggerirlo nella dedica alla sua mamma “che mi ha insegnato – dice – a
spegnere la luce uscendo da una stanza”.
Manuale di sopravvivenza energetica. Come consumare meglio ed essere felici. AnDrEA MAMELI Scienza Express edizioni, 2011 pp. 139, euro 14,00
Land grabbing. Come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismoSTEFAnO LIBErTIMinimum fax, 2011pp.244, euro 15,00
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Hanno collaborato a questo numero:
Cristian FuschettoUniversità degli Studi di Napoli “Federico II”
Giovanna Dall’OngaroGiornalista Scientifica
Romualdo Gianoli Giornalista Scientifico
Pietro GrecoGiornalista Scientifico
Stefano Pisani Giornalista Scientifico
Cristiana Pulcinelli Giornalista Scientifica
Tina Simoniello Giornalista Scientifica
Emanuela Traversini Giornalista
Silvia ZamboniGiornalista esperta in tematiche ambientali
Le foto che accompagnano questo numero
illustrano la vita quotidiana di alcune
realtà urbane
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