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metodi e strumenti educativi nell'accompagnamento lavorativo di soggetti svantaggiati"
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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FIRENZE
FACOLTA’ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONECORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELL’EDUCAZONE
___________________________________________________
“METODI E STRUMENTI EDUCATIVI
NELL’ACCOMPAGNAMENTO LAVORATIVO
DI SOGGETTI SVANTAGGIATI”
RELATRICEProf.ssa Silvia Guetta
LAUREANDOAntonio Sammartino
ANNO ACCADEMICO 2005-2006
“Le persone si accompagnano non si portano”
Don Luigi Ciotti
Fondatore del Gruppo Abele
Introduzione
Una prima definizione legislativa che riconosce lo status di persona
svantaggiata la troviamo inserita all’interno della legge n° 381 del 1991, una
norma che disciplina e regola l’attività delle cooperative sociali. Queste
organizzazioni si propongono come scopo statutario la promozione umana e
l’integrazione sociale dei cittadini attraverso l’inserimento lavorativo di persone
svantaggiate, come nel caso delle cooperative sociali di produzione e lavoro (tipo
B). La suddetta legge, all’articolo quattro, considera persone svantaggiate gli
invalidi fisici, psichici e sensoriali, gli ex degenti d’istituti psichiatrici, i soggetti in trattamento psichiatrico , i tossicodipendenti, gli alcolisti, i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare e i condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione.
Nel corso degli anni la definizione di svantaggio, seppur non
applicabile alle cooperative sociali, si è estesa ad ulteriori tipologie di soggetti 1 in
precedenza non rientranti in questa particolare categoria, quasi a testimonianza
della crisi socio – economica che sta attraversando la nostra società.
Le analisi sociologiche del periodo storico attuale, che investono anche il
campo della riflessione pedagogica, si pensi ad esempio all’elaborazione teorica
all’interno della pedagogia della marginalità e della devianza, rilevano un
rafforzamento in termini negativi di quei meccanismi d’espulsione sociale, che
rendono più faticoso rispetto a periodi antecedenti, la conduzione di un’esistenza
“normale”. L’uomo d’oggi vive un senso profondo di precarietà che lo rende
inquieto, perché avverte in fondo quanto sia più facile, rispetto al passato, cadere
nel baratro dell’isolamento sociale e della povertà e quanto, nello stesso tempo,
sia più difficile risalire dopo la caduta, riportandosi su un livello minimo di
sopravvivenza e di sicurezza sociale.
Nella determinazione di questo senso d’inquietudine e precarietà concorrono
vari fattori, tra i quali in modo particolare quello rappresentato dal mondo del
lavoro, caratterizzato da una sempre maggiore selezione, minori tutele, nonché da
una crescente perdita d’identità da parte della stessa forza lavoro. In questo
meccanismo nel quale il lavoro è strutturato da forme d’accentuata flessibilità
1 Si veda nello specifico il Regolamento CE n° 2204/2002, all’articolo 2 lettera f e il D.lg. n° 276/03.
(contratti a progetto, lavoro interinale, a chiamata, ripartito, a termine, ecc.) 2, sono
emerse in questi ultimi anni nuove forme di disagio sociale, le cosiddette nuove
povertà3. Situazioni ritenute vent’anni fa eccezionali in Europa, e più o meno
circoscritte, sono oggi ricorrenti. I casi di disagio sono diventati più numerosi e più
critici del previsto: periodi lunghissimi senza lavoro, livelli d’istruzione bassi o
peggiorati in seguito a lavori aridi, mancanza d’abitazione o cattive condizioni
d’alloggio, salute deteriorata, sentimento d’impotenza, d’isolamento, d’abbandono
e disperazione.
Per le giovani generazioni che crescono in questi contesti, gli strumenti
utilizzati dai servizi sociali e da quelli scolastici, sembrano essere inadeguati ed è
in questo clima d’incertezza, d’incomprensione e di disperazione, che
l’atteggiamento adolescenziale si trasforma talvolta in rivolta o in comportamento
deviante, solo per affermare la propria esistenza.
Il presente lavoro intende affrontare in termini pedagogici il percorso del
reinserimento sociale attraverso lo strumento dell’inserimento lavorativo rivolto ai
soggetti svantaggiati, e più estesamente a tutti coloro che rientrano tra le
cosiddette fasce deboli.La premessa teorica, che comunque è suffragata anche da
elementi di praticità4, è che l’esperienza lavorativa stessa ha in sé degli elementi
che possano generare una sorta di riabilitazione sociale del soggetto che vive
difficoltà di tipo clinico o sociale , se l’inserimento al lavoro è accompagnato da
adeguati strumenti di mediazione pedagogica.
Di seguito sono presentati i principali temi che saranno trattati
approfonditamente nei rispettivi capitoli.
Nel primo capitolo è discusso l’elemento che contraddistingue il paradigma
pedagogico dalle altre scienze sociali ed umane, nel campo della marginalità e
della devianza, che è rappresentato dalla concezione del deviante come soggetto
attivo. La visione pedagogica pone sempre il soggetto deviante o marginale non
come protagonista passivo degli eventi circostanti, ma come attore del proprio
comportamento antisociale, che è per lui giustificabile, perché in linea con la
2 Cfr. Riforma Biagi: le nuove norme in materia d’occupazione e mercato del lavoro Decreto legislativo 10.09.2003 n° 276 , G.U. 09.10.2003 3 Cfr. S.Uliveri (a cura di), L’Educazione e i marginali, La Nuova Italia, Firenze,1997 e vedi anche Il servizio “Torino, laboratorio di povertà” pubblicato dal quotidiano La Repubblica il 9 Dicembre 1998, nonché l’intervista a Stefano Zamagni, economista all’Università di Bologna, a cura di Silvio Mini, pubblicata su UniboMagazine il 23 Gennaio 2004.4 Si guardi a proposito il capitolo n°5 dedicato all’esperienza della Cooperativa Sociale “In Cammino” di Pistoia e la sua metodologia d’inserimento lavorativo rivolta a soggetti svantaggiati.
propria visione del mondo.
Il lavoro educativo di reinserimento sociale che sarà progettato ed illustrato
nelle sezioni successive partirà pertanto da questa impostazione teorica.
Il secondo capitolo illustra la metodologia adottata nella mediazione pedagogica
dell’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, partendo dalla fase dell’orientamento,
fino ad arrivare ad illustrare i fondamenti e le prospettive collocate all’interno del
progetto individuale d’inserimento lavorativo. Il presente capitolo fornisce inoltre
una rappresentazione degli strumenti utilizzati, che gli operatori della mediazione
adoperano nell’interazione con i soggetti coinvolti, come l’utilizzo dell’Analisi
Transazionale per la stipulazione dei contratti di cambiamento, nonché particolari
tecniche di comunicazione.
Il terzo capitolo presenta un modello applicativo d’inserimento lavorativo
all’interno delle cooperative sociali di produzione e lavoro, andando ad analizzare
anche qui la metodologia e gli strumenti educativi impiegati e volti al reinserimento
sociale dei soggetti inseriti. In questo capitolo sono anche presentati alcuni aspetti
problematici relativi all’organizzazione e alla gestione delle attività, mettendo in
evidenza anche le dinamiche relazionali che si sviluppano all’interno delle
cooperative sociali stesse, che si presentano come delle vere e proprie realtà
lavorative, svolgendo contemporaneamente anche determinate azioni formative e
rieducative.
Nel quarto capitolo è presentata la metodologia adottata durante
l’accompagnamento lavorativo all’esterno dell’ambito lavorativo della cooperativa
sociale. In questo caso, secondo la tipologia di svantaggio presentata dai soggetti
coinvolti, viene progettato un percorso formativo individuale, che va dalla
frequenza presso i laboratori formativi prevedendo la presenza di un tutor e di un
docente per l’attività pratiche specifiche, all’esperienza degli stage e dei tirocini
lavoro. All’interno di questa sezione di lavoro vengono anche illustrate alcune
schede di rilevazione che i tutor utilizzano durante la fase di monitoraggio e di
verifica per le persone inserite nelle aziende.
L’ultimo capitolo è dedicato alla particolare esperienza della cooperativa
sociale “In Cammino” di Pistoia, dove il sottoscritto ha svolto l’attività di tirocinio e
attualmente lavora come operatore sociale e tutor degli inserimenti lavorativi di
persone con svantaggio di tipo clinico e/o sociale. Molte delle riflessioni
pedagogiche ed educative che saranno presentate di seguito hanno avuto
riscontro nell’attività pratica svolta all’interno di questa cooperativa. L’esperienza
stessa ha fornito poi delle occasioni d’arricchimento e di rivisitazione, in senso
critico, delle impostazioni teoriche di partenza.
Capitolo I
I SOGGETTI SVANTAGGIATI, IL RAPPORTO
CON IL MONDO DEL LAVORO ED IL RUOLO
DELLA COOPERAZIONE SOCIALE
I.1 Paradigma pedagogico dello svantaggio
Le persone cosiddette svantaggiate appartengono a quella fascia di popolazione
connotata da una forte componente d’emarginazione e d’atteggiamenti devianti5. Tra
questa tipologia di soggetti sono comprese varie realtà disagiate, tra cui quelle
contraddistinte da una maggiore problematica psico - sociale, come i tossicodipendenti, gli
alcolisti, i detenuti ed i minori con difficoltà familiare.
Parlare di queste persone, indagare sul loro vissuto, ed ancora più difficile,
riuscire a stabilirci una relazione conquistando la loro fiducia, al fine di
intraprendere un percorso riabilitativo, implica il presupposto di un approccio
pedagogico, che sappia interpretare tali realtà e pensare adeguate modalità
d’intervento. L’elemento che contraddistingue il paradigma pedagogico dalle altre
scienze sociali ed umane, nel campo della marginalità e della devianza, è per
l'appunto la concezione del deviante come soggetto attivo, che prende parte ad un
contesto comunicativo di tipo interattivo e intenzionale. 6
La visione pedagogica pone sempre il soggetto deviante come attore del
proprio comportamento antisociale, che è per lui giustificabile, perché in linea con
la propria visione del mondo, nonché con il suo progetto di vita. Anche a fronte
dell’esistenza di contesti caratterizzati da una disgregazione famigliare, carenza di
cure parentali, appartenenza della famiglia ad una subcultura criminale o la
presenza in essa di soggetti che hanno già intrapreso una carriera deviante, sono
tutte condizioni che non implicano un’evoluzione necessaria del soggetto in una
direzione predeterminabile. I fattori familiari come d’altra parte quelli psicologici,
non sono cause del comportamento deviante, ma realtà che possono essere
investite di senso dal soggetto e da chi lo circonda. Ed è l’individuazione del
particolare significato ad esse accordato, che permette di cogliere le motivazioni
del passaggio ad un certo agire. In altre parole, certe condizioni di vita possano
limitare la scelta dei significati loro attribuibili entro una gamma piuttosto ristretta,
ciò non significa però che la capacità di significazione attiva del soggetto sia
neutralizzata e che quindi quei fattori familiari e/o psico-sociali, determinino
meccanicisticamente le forme di comportamento assunte dal soggetto.5
Per semplificare il concetto si può definire la devianza come “un’infrazione della norma sociale, un comportamento non conforme ai modelli o alle aspettative istituzionalizzate”. Cfr. De Marchi F. (a
cura di), Nuovo dizionario di Sociologia, Ed. Paoline, Milano, 1987, p.655. 6 Cfr. P. Barone, Pedagogia della marginalità e della devianza,Ed. Guerini Studio, Milano, 2001.
L’oggetto specifico di riflessione e d’intervento pedagogico è allora
rappresentato dal contributo del soggetto alla costruzione del proprio modello
d’interpretazione del mondo e d’azione nel mondo. Il termine, contributo
soggettivo, si riferisce esclusivamente a quella capacità di investire di senso il
reale, che appartiene ad un soggetto che non appare mai globalmente determinato
da pressioni e costrizioni esterne. Da questo punto di vista il comportamento
antisociale del soggetto appare come una forma di agire comunicativo, la cui
comprensione necessita di un approccio interpretativo, che tenda a cogliere le
tracce di quella particolare visione del mondo e quel profondo sistema di significati
in base a cui egli interpreta la realtà e progetta di conseguenza la sua esistenza.
Emerge dall’analisi di queste dinamiche la centralità del soggetto ed i
processi squisitamente personali e originali in base a cui egli partecipa alla
costruzione di se stesso. Di se stesso come deviante, ma anche di se stesso come
capace di cambiamento. Possiamo quindi affermare che là dove si rivelano dei
casi d’irregolarità della condotta le cause sono da ricercarsi nei limiti dello sviluppo
della coscienza intenzionale e si manifestano attraverso due diversi tipi
d’atteggiamento: l’assenza dell’intenzionalità e la distorsione dell’intenzionalità.
“L’assenza dell’intenzionalità rappresenta l’incapacità del soggetto di sentirsi
attore nel proprio contesto di vita, a situarvisi come donatore di senso e origine
d’ogni investimento di significato del mondo circostante. L’individuo rinuncia a
concepirsi all’origine del proprio comportamento e corresponsabile nella
costruzione della propria esistenza e di quelle altrui. Egli rimane costretto entro i
limiti di una visione del mondo dominata dal senso della nullità del sé di fronte alle
cose del mondo, che gli appaiono dotate di una forza autonoma e soverchiante” 7. Il
soggetto tende così a considerare se stesso come sganciato dal resto del mondo:
egli vive continuamente la sensazione di non potervi in alcun modo intervenire in
maniera significativa. La sua vita scorre sotto il segno del patire, ossia del
soccombere sotto la pressione di una potente ed incontestabile realtà. Uno
scetticismo acritico ed un fatalismo esistenziale, nati dalla percezione che la
trasformazione della propria realtà sia fuori della sua portata, saranno gli esiti di
quella visione disadattiva di sé e del mondo. In assenza di un’adeguata
competenza cognitiva a pensare una possibile trasformazione di sé, tende a
produrre continui fallimenti nei tentativi abbozzati di diventare un altro, creando
7
P. Bertolini, L. Caronia, Ragazzi difficili. Pedagogia interpretativa e linee d’intervento. Pag. 58-59, Ed. La Nuova Italia, Firenze, 1993.
così un circolo infernale che non fa che confermare e rafforzare la convinzione
della propria totale negatività.
Quando il soggetto possiede una sufficiente carica vitale egli tenderà a
precipitarsi nella vita, cercherà di distrarsi dalla scomoda consapevolezza della
sua insufficienza impegnandosi in imprese capaci di dargli un brivido, un interesse
che possa per un po’ attutire quel sentimento, più o meno latente, di totale nullità.
Il fenomeno del teppismo, o almeno alcune sue manifestazioni, rivela a volte
proprio un desiderio di evadere da un mondo giudicato insostenibile e di gettarsi
nella vita quasi per dimenticare se stesso e la propria nullità annullandosi nel
mondo.
Quando al contrario, per varie ragioni, il soggetto non possiede la carica
vitale necessaria a questa reazione, il rischio maggiore è che egli metta in atto
gesti d’autoannullamento, come ad esempio l’uso di sostanze stupefacenti o alcol,
fino al vero e proprio suicidio.
Tra tutti questi soggetti, la cui difficoltà nasce da un’assenza d’intenzionalità,
sembra esserci alla fine un comune denominatore: un arresto nella loro evoluzione
verso quel livello d’esistenza che abbiamo chiamato soggettività.
“ La distorsione dell’intenzionalità implica un secondo limite nello sviluppo
della coscienza intenzionale, e a differenza del primo caso essa nasce da una
sorta d’eccesso dell’io. Il soggetto si rapporta al mondo attraverso una pratica di
fagogitazione totale dell’oggetto, consumato da una soggettività che si ritiene
onnipotente. La visione del mondo che scaturisce da quest’intenzionalità onnivora
è profondamente disadattiva: il mondo delle cose è un universo da fagocitare e
l’altro, in quanto soggetto dotato almeno di un analogo diritto verso il mondo,
semplicemente non esiste, ridotto allo stato d’oggetto anche lui”. 8 Il mondo e
l’altro, i vincoli che essi pongono a qualunque persona non sono riconosciuti e
questa tipologia di soggetti ritengono, più o meno consapevolmente, di poter
disporre e fare di tutto. Essi elaborano così un mondo per sé frutto di un
immaginario d’onnipotenza, di un’intenzionalità fantasmatica, che accredita l’io di
un posto centrale ed esclusivo nella costruzione della realtà.
A questa visione del mondo che ruota intorno ad un eccesso dell’io possono
essere ricondotti molti comportamenti d’aggressività fino alla violenza, d’assenza
d’autocontrollo, d’irresponsabilità, nonché veri atti delinquenziali. 9 Come nel caso
8
P. Bertolini, L. Caronia, Op.citata, pag. 64, Ed. La Nuova Italia, Firenze, 1993.9 Cfr. P. Orefice (a cura di), L’operatore sociale di strada, Edizioni ETS, Pisa 2002.
dei soggetti privi d’intenzionalità anche questi individui cercano nella compagnia e
nell’aggregazione una soluzione ai loro problemi, ma a differenza dei primi,
l’incontro costituisce per loro il luogo in cui poter imporre la propria egoità, lo
strumento con cui dimostrare agli altri, e di riflesso a sé, di essere in grado di
dominare e di decidere in totale autonomia del proprio destino. Dietro questi
incontri, dunque, non c’è vera apertura alla dimensione sociale: l’altro è
essenzialmente un mezzo necessario all’affermazione di se, spettatore del proprio
esibizionismo narcisista.
Seppur in modo diverso dai soggetti privi d’intenzionalità, anche questi
“giganti”, maturano un profondo senso d’insoddisfazione che scaturisce da un
eccesso dell’io, così come nel primo caso scaturiva da un eccesso del mondo.
Tuttavia tengo a sottolineare che trattandosi di schematizzazioni, seppur
efficaci ed importanti ai fini di approfondire e chiarire eventuali cause comuni a
certi atteggiamenti devianti, nessun caso concreto, nessuna personalità deviante,
potrà mai rientrare completamente ed essere ridotto nelle due categorie suddette;
Il soggetto umano è sempre più complesso ed articolato, portatore di molteplici
sfaccettature e peculiarità, che vengono perse ogni qual volta si cerca di
generalizzare, chiudere o ridurre in categorie certi atteggiamenti.
Scopo del rapporto educativo, come vedremo, è quello di portare il soggetto a
riformulare lo stile della sua percezione di sé e del mondo depurandola dagli
eccessi che la rendono disfunzionale. Il suo comportamento verso il mondo e gli
altri muterà di conseguenza.
I.2 L’intervento rieducativo
Rieducare non vuol dire puntare sulla scomparsa del comportamento
irregolare, ma eliminare i motivi che inducano il soggetto ad assumere quel
comportamento.
Intervenire per aiutare il soggetto deviante a modificare il suo comportamento
irregolare significa, paradossalmente, tralasciare il comportamento in questione o,
quanto meno, utilizzarlo solo come punto di partenza per cercare di comprendere
la visione del mondo e l’orientamento dell’intenzionalità che possono averlo
motivato.
Una volta individuato il disturbo in questa sfera della soggettività, il compito
dell’educatore professionale sarà quello di provocare una progressiva
trasformazione di quella visione del mondo e una ristrutturazione dell’attività
intenzionale.
Ri – educare significa quindi procedere ad una profonda trasformazione della
visione del mondo del soggetto: del suo modo di intendere se stesso, gli altri e le
cose, del suo modo di mettersi in relazione con queste realtà e di procedere quindi
nella scelta dei suoi atteggiamenti e dei suoi comportamenti.
L’intervento rieducativo, rispetto ad un’esperienza di tipo educativa, presenta
maggiori difficoltà sulla concreta realizzazione, in quanto si colloca in un momento
spostato nel tempo rispetto all’avvio della normale storia educativa d’ogni
individuo. Un soggetto svantaggiato ha, in genere, avuto modo di elaborare un
proprio vissuto, di sedimentarlo e di arricchirlo di successive stratificazioni. In
questo lasso di tempo egli ha avuto modo di consolidare una certa visione del
mondo che egli sente come propria e spesso come per nulla disadattiva. Dover
rimettere in gioco tutto questo, rivedere e modificare le proprie convinzioni, il
proprio modo di percepire sé, il mondo e gli altri non è cosa facile, soprattutto
quando queste convinzioni sono introiettate e difese come proprie. Il lavoro
rieducativo non può partire dal passato della persona pretendendo che egli ne
prenda le distanze; questo semmai è il punto d’arrivo di un processo costruttivo
rivolto, fin dall’inizio, al futuro. Si tratta di sfruttare quegli aspetti della personalità
del soggetto che possono essere valorizzati, di fargli compiere nuove esperienze e
di prospettargli nuove possibilità capaci di aprirgli orizzonti diversi e diverse forme
d’esistenza.
Quando questo lavoro pedagogico avrà provocato il necessario
disorientamento inducendo la persona a problematizzare uno stile di vita che egli
tendeva a dare per scontato, quando lo stesso soggetto avrà cominciato ad
ampliare o modificare la sua tavola di valori e sarà mosso da nuove esigenze e da
nuovi interessi, solo allora avrà senso provocare un ripensamento del suo passato.
Sarà, infatti, la trasformazione della sua visione del mondo, avvenuta
progressivamente e autonomamente, a permettere una visione critica del passato,
una nuova attribuzione di senso al proprio vissuto e un effettivo suo superamento.
Il significato della rieducazione è, dunque, essenzialmente quello di essere una
trasformazione attiva, frutto non tanto di una sistematica negazione del passato,
quanto di una rinnovata proiezione nel futuro.
Il primo momento fondamentale della pratica rieducativa, secondo il
paradigma fenomenologico,10 è quello della conoscenza. In questa fase non si
tratta solo di recuperare il maggior numero di dati possibili, circa la storia di vita di
quella persona e il suo ambiente familiare e sociale, quanto soprattutto di
percepire come questo insieme di condizioni siano state vissute dal soggetto, quali
convinzioni e quali pensieri su di sé e sugli altri egli abbia elaborato a partire da
quelle premesse. La visione del mondo costituisce il suo quadro motivazionale: è a
partire da questa che egli agisce ed è conoscendo questa che possiamo
comprendere il perché del suo agire. Da un punto di vista pedagogico è essenziale
giungere a tracciare gli autentici motivi dell’agire, perché è a partire da questi che
va predisposto il progetto rieducativo se vogliamo che esso si riveli efficace.
Tutto questo comporta che l’osservazione, che s’instaura come momento
iniziale dell’incontro, non debba configurarsi come uno “stare a guardare”, ma
come un “vivere con”. Non si tratta di una pratica asettica fondata sul
distanziamento e sulla non implicazione dell’educatore; al contrario, prevedendo
come suo momento fondamentale la necessità di mettersi dal punto di vista
dell’altro, essa si pone immediatamente come un momento di relazione e di
comunicazione.11
L’educatore deve conoscere ciò che dal soggetto è stato investito di
significato. Infatti non è sufficiente sapere che il soggetto ad esempio è figlio di
genitori tossicodipendenti, ma è altrettanto importante per l’operatore capire cosa
nel processo di crescita questa condizione ha significato per lui; così come non è
sufficiente constatare che proviene da un ambiente socialmente, economicamente,
culturalmente deprivato, ma è altrettanto importante comprendere quale immagine
del mondo e di sé egli si è costruita a partire da quell’ambiente: un mondo contro
cui lottare o un mondo da subire? Un io titanico disancorato da qualsiasi vincolo
con la realtà o un io sopraffatto e destituito d’ogni possibilità intenzionante?
Molto spesso per giungere al nocciolo del problema, ossia alla messa in crisi
dell’intera visione del mondo su cui si regge il comportamento deviante, è
necessario, in prima istanza, puntare alla riduzione della forza vincolante d’alcune
carenze o di certi usi distorti delle abilità cognitive e relazionali, che altrimenti
10 Da un punto di vista fenomenologico, ogni individuo in quanto soggetto vivente ha nell’intenzionalità della coscienza, nella sua capacità d’investire di senso il mondo naturale e sociale, la sua caratteristica essenziale. Cfr. Schutz A., La fenomenologia del mondo sociale, Ed. Il Mulino, Bologna, 1974.
11 Cfr. P.Bertolini, L’esistere pedagogico, La Nuova Italia, Firenze,1990
potrebbero neutralizzare qualsiasi intervento educativo. Il valore di questi primi
interventi consiste nel preparare il terreno all’intervento rieducativo vero e proprio,
quello cioè che mira ad una ricostruzione radicale della visione del sé e del
mondo.
Le attività manuali in un laboratorio formativo, (facendo un esempio
nell’ambito dei percorsi di formazione lavoro, che illustrerò nei capitolo successivi),
possono in questa fase iniziale costituire una palestra d’acquisizione o
ridefinizione delle abilità percettive, cognitive e sociali necessarie per affrontare un
nuovo rapporto con il mondo e con gli altri. 12 Lo stile, i modi con cui il soggetto
partecipa a queste attività, il genere di relazioni che egli tende a stabilire con gli
altri, possono essere osservati come tracce che testimoniano quale particolare
visione del mondo sia dominante nel soggetto e quale difetto dell’intenzionalità
caratterizzi la persona. Rispetto ai casi in cui il soggetto mostri nel rapporto con
l’altro delle interazioni inautentiche, occorre trasmettergli l’impressione
dell’inefficacia e della non convenienza di quegli atteggiamenti asociali. Per
circoscrivere la forza vincolante di quest’incapacità di relazione interpersonale
appare opportuno puntare sulla partecipazione ad alcune attività di gruppo, in cui i
processi di comunicazione e d’accordo intersoggettivo sul da farsi, la distribuzione
di ruoli complementari a persone diverse, l’interdipendenza delle azioni, la
necessità che ciascuno svolga il proprio compito nei tempi previsti e che mantenga
l’impegno che si è assunto, si rivelano pratiche indispensabili al conseguimento
dello scopo. La persona attraverso queste esperienze comincerà a sperimentare
gli esiti positivi dell’interazione, comincerà a percepire che, assumendo
atteggiamenti più relazionali nei confronti del gruppo, è possibile vivere meglio ed
evitare spiacevoli inconvenienti. In altre parole si tratta di mostrare che se alcune
dinamiche interpersonali o alcune tacite regole dell’interazione si rivelano efficaci e
produttive con alcuni compagni, ciò può valere anche nei confronti d’altre persone:
per parlare con gli altri, per fare qualcosa con gli altri, per ottenere dagli altri, in
ogni caso e qualunque sia l’oggetto dello scambio, bisogna mettere in atto alcune
strategie di negoziazione e di mediazione non molto diverse da quelle che il
soggetto in questione sta sperimentando nei confronti d’alcune persone. Certi
rifiuti, certe maschere impenetrabili, certe stereotipie nel vestire, nel parlare del
soggetto sembrano vanificare ogni sforzo da parte dell’educatore. Egli si trova di
12
Gli aspetti rieducativi, legati all’inserimento dei soggetti svantaggiati nei percorsi formativi e lavorativi, che qui sono solamente accennati, saranno ripresi e approfonditi nel dettaglio nei prossimi capitoli.
fronte ad un muro di gomma fatto di discorsi sentiti mille volte, di gesti mille volte
visti, di parti mille volte recitate. Spesso l’unico modo per far breccia in questo
muro, alla ricerca di un’individualità nascosta dietro ad una serie di cliches è
proprio quello di destrutturare quelle abitudini, organizzando degli scenari in cui il
soggetto sia costretto ad abbandonare quei comportamenti e quegli atteggiamenti
che ne impediscono ogni conoscenza. Questa, quando si compie, nell’istante o nel
lungo periodo, ha sempre una valenza formativa: perché c’è educazione anche
nella de – formazione o nella de – strutturazione, nella perdita d’abitudini e
convinzioni.13
L’idea di formazione, che ci riporta alla nozione del letterale “dar forma”, è
pertanto spendibile anche quando ci si decostruisce e non solo quando si
aggiunge a quella precedente una nuova rappresentazione. Per entrare nel nuovo
bisogna ristrutturare il vecchio o disimpararlo: questa dinamica pedagogica è il
nucleo dell’esperienza formativa e si presenta allo stesso modo in ogni fase o
momento della vita.
Il momento conclusivo del percorso rieducativo è quello in cui il soggetto,
avendo avuto occasioni per scoprirsi responsabile delle proprie scelte e per
cogliere la necessità di dimensionare queste a quelle del gruppo sociale in cui
vive, fa proprio questo modo di pensare se stesso nel mondo e con gli altri. Tale
momento rappresenta un’appropriazione soggettiva di un nuovo punto di vista sul
sé e sul mondo.
La chiave di volta per giungere a questo momento è la ristrutturazione
dell’intenzionalità, ossia un cambiamento profondo degli schemi di significato con
cui il soggetto si dirige verso un mondo attuale e possibile. E’ proprio l’immersione
in un nuovo e più vasto campo d’esperienze, che permette alla persona di
superare quei limiti dell’intenzionalità che in qualche modo provocavano e
sostenevano una visione disadattiva del sé, del mondo e del loro essere in
relazione. Questo rovesciamento di prospettiva, e l’adeguazione di un nuovo
modo di pensare la propria implicazione nel reale, è la condizione per un
ripensamento del passato. Un ripensamento che, a questo punto, non è più la
ripetizione più o meno farfugliata di un giudizio altrui su di sé, ma la produzione di
un giudizio proprio: non si tratta di collocarsi in una prospettiva indicata
dall’esterno, ma di raggiungerla personalmente e di riconoscerla alla fine come
propria.13
Cfr. D. Demetrio, L’età adulta, Carocci, Roma, 1990
I.3 La professione come proposta ri – educativa.
La riflessione specificamente pedagogica sul problema del lavoro, non ha
raggiunto una salda sistemazione teorica e si scontra ancora oggi con retaggi
culturali persistenti. Si può affermare con Dewey che: “…la più fondamentale delle
scissioni fra i valori educativi è probabilmente quella fra cultura e utilità”. 14
L’opposizione dei termini nasce in contesti nei quali la cultura è identificata
con l’esercizio delle abilità cognitive disposte alla contemplazione, mentre l’utilità
delle attività pratiche è relegata allo stato servile. Tale deprivazione produttiva
dall’educazione, ancorata all’idea di una necessaria opposizione tra intelligenza
educata al sapere ed inutilità culturale d’ogni fine pratico, ha di larga misura
superato le condizioni storico sociali d’origine. Non sono peraltro mancati, con la
pedagogia moderna, riflessioni e sperimentazioni tendenti ad avvicinare
educazione e lavoro. Da quando Pestalozzi denunciava i limiti sociali della
pedagogia tradizionale “troppa educazione da bocca”, si è indubbiamente
rafforzata la convinzione della necessità di riconoscere la partecipazione del
lavoro ai processi educativi.
Sotto le spinte dell’affermazione industriale, si è aperto un sostanziale
capitolo della pedagogia sociale, che ha trovato proprio nel lavoro, l’elemento
cardine di un’aperta critica all’idea stessa d’educazione, come andava
sviluppandosi nelle società avanzate. E’ all’interno dell’attivismo pedagogico che si
afferma l’idea di una formazione integrale, comprensiva quindi anche della
dimensione del lavoro, quale fondamento di rinnovamento culturale.
Da queste riflessioni nasce la formazione professionale come animazione e
come interprofessionalità, nel senso di mirare ad uno sviluppo armonico e globale
delle risorse intellettive, motorie, attitudinali e creative di un soggetto. La
formazione professionale diventa e si pone come processo formativo e educativo
autonomamente determinato e organizzato, assorbendo nelle sue finalità
professionali e globali gli scopi stessi della rieducazione. Quest’ultimo aspetto
assume una peculiare rilevanza per i soggetti svantaggiati, aventi caratteri di
minorità fisica, psichica o socio – culturale.
14
J. Dewey, Democrazia ed educazione,La Nuova Italia, Firenze, 1949, p. 341.
Con il concetto di “formazione ad una professionalità”, si comprende
quell’area di competenze ed atteggiamenti che risultano validi e spendibili tanto in
un contesto lavorativo, come in un più ampio ambito sociale. Sul versante
prettamente lavorativo la professionalità include elementi essenziali per la
gestione dei processi di lavoro in un’organizzazione, quali l’affrontare imprevisti e
variazioni, risolvere problemi, comprendere l’organizzazione nella quale si è
collocati ed interagire con i diversi soggetti: ruoli, funzioni in essi presenti; lavorare
in gruppo; prendere decisioni.
L’acquisizione di queste capacità in ambito lavorativo e la loro, seppur non
automatica, trasferibilità anche ad altri contesti, favorisce nel soggetto
svantaggiato una ri – acquisizione della propria soggettività intenzionate, ed è
proprio in questo senso che l’esperienza lavorativa assume una valenza anche
rieducativa. I possibili percorsi di socializzazione lavorativa includono differenti
aspetti e contribuiscono non solo alla progressiva definizione d’identità
professionali, ma anche della stessa identità personale e sociale dell’individuo.
L’inserimento lavorativo non significa di per sé il raggiungimento di un livello
sufficiente d’inserimento sociale, ma la socializzazione al lavoro può però
costituire l’avvio e l’asse portante di un percorso di socializzazione globale. Se si
attribuisce quindi alla socializzazione non il semplice valore d’adattamento a
condizioni concrete di lavoro (ruolo, organizzazione, relazioni…), ma un più ampio
riferimento al processo di costituzione di un’identità professionale e di
conseguenza personale e sociale, centrale diventa la questione del rapporto tra
socializzazione e formazione.
Le interpretazioni della relazione che si viene a creare tra questi due ambiti
sono diverse. Assai diffusa risulta essere, anche in concrete realizzazioni, una
concezione della formazione come funzione coincidente con la stessa
socializzazione lavorativa. In questo senso, nella pratica, non esiste azione
formativa esplicita e formalizzata: il lavoro stesso è ritenuto formativo. A questo
sacrificio della formazione è stato ad esempio costretto lo strumento
dell’apprendistato, nato peraltro con intenti sostanzialmente formativi. 15 La
concezione alla quale ci si riferisce è assai diffusa e tradotta in concrete forme
d’intervento soprattutto nei settori lavorativi a basso livello di qualificazione, quindi
15 Cfr. E. Porzio Serravalle,<<Apprendistato: dall’idea d’addestramento all’idea di formazione>>, in <<Ceep>> n. 15, lug. – sett. 1981, pp. 29 – 51.
Anche l’inserimento di alcuni moduli formativi introdotti con la nuova legislazione sull’apprendistato, che in gran parte dei casi sono risultati fallimentari per scarsa partecipazione e motivazioni da parte degli allievi, non sembra incidere in modo sostanziale né contraddire quanto sopra esposto.
coinvolge in particolar modo l’area dei soggetti svantaggiati. Da una ricerca
condotta sul ruolo della formazione nelle piccole – medie imprese è stato rilevato
come “ … processi d’acquisizione, di socializzazione, di mutamento e di sviluppo
professionale sono avvenuti e per gran parte avvengono in assenza d’appositi,
espliciti, intenzionali, formali processi formativi: la professionalità è normalmente
acquisita sul mercato del lavoro e/o la professionalizzazione avviene
generalmente sul posto di lavoro e attraverso processi di trasmissione orale
individuale e collettiva”.16
Da tale impostazione di sostanziale scomparsa del momento formativo si
discosta l’ipotesi che vede nella formazione una funzione indispensabile,
finalizzata e subordinata alla riuscita del processo di socializzazione lavorativa. In
questa prospettiva le due fasi (formazione e socializzazione) sono separate ed
ordinate secondo un criterio di succedaneità temporale: la formazione si esaurisce
nel tempo della preparazione, la socializzazione si realizza durante l’inserimento
lavorativo. All’interno di tale concezione, che si realizza secondo modalità spesso
differenziate, pare di poter collocare le esperienze di formazione aziendale,
giustificate spesso da visioni produttivistiche della professione.
Appare chiaro, da un punto di vista formativo, i limiti di quest’impostazione,
soprattutto per i soggetti svantaggiati, che apertamente manifestano sintomi di
demotivazione, rifiuto dell’impegno e delle regole.
A partire da queste constatazioni si aprono possibili piste di ricerca per
l’elaborazione d’ipotesi alternative.
Occorre innanzitutto esplicitare la centralità che il momento della formazione
e quello della socializzazione rivestono per la condizione concreta del soggetto
con difficoltà d’inserimento sociale.
Il rapporto tra formazione, vista come processo di cambiamento della
persona, dell’ambiente (soggetti, organizzazioni…) e delle relazioni che in questa
stabilisce, e socializzazione (processo d’integrazione e ricerca d’identità
personale, professionale, sociale) può essere impostato e realizzato secondo
criteri di circolarità. I due momenti si presentano non solo complementari ma
essenzialmente come funzioni di uno stesso processo.
Dal punto di vista del soggetto marginale momenti formativi e di
socializzazione in ambito formativo costituiscono opportunità differenti che, se
adeguatamente valorizzate, possono significare l’aumento delle possibilità
16 P. Montobbio, Il contenuto manageriale del lavoro nella piccola e media impresa , Angeli, Milano, 1984, p.99.
individuali d’inserimento sociale.
All’agenzia formativa (all’educatore in concreto) spetta il compito di governare
la coerenza del processo che si struttura in modo ricorrente ed oscillatorio tra
cambiamento formativo ed impatto con la realtà produttiva.
Innanzi tutto occorre anticipare, nello svolgersi stesso della formazione,
alcune tappe di socializzazione lavorativa. Oltre l’attuazione di stage, tirocini, si
può attribuire dignità alla socializzazione formativa nell’ambito del laboratorio
formativo, in quanto momento d’anticipazione della successiva realtà di lavoro.
Quanto più l’ambito formativo per organizzazione, attività, metodologia, luoghi, si
discosta dal modello scolastico (aula) e si avvicina alla realtà produttiva
(laboratorio, officina), tanto più la socializzazione durante la formazione può
contenere elementi reali del mondo del lavoro. Tale validità dell’attività formativa
dovrebbe risultare evidente e concretamente riconosciuta non solo dai soggetti
direttamente coinvolti (operatori, educatori, allievi), ma anche dagli interlocutori
esterni, in primo luogo dall’impresa.
Per il soggetto svantaggiato, che sta facendo un’esperienza formativa sul
posto di lavoro, è necessario porre attenzione alla formalizzazione delle diverse
tappe, all’esplicitazione degli elementi importanti (obiettivi, metodi, tempi, …), alla
predisposizione di modalità di controllo e supporto. Quel tasso di casualità a cui è
comunque esposto, l’esistenza di difficoltà, incoerenze, contraddizioni, che da una
parte lo espone a rischi d’insuccesso, costituisce comunque l’occasione di
un’effettiva maturazione e crescita di quell’identità professionale che è inclusa fra
gli obiettivi della socializzazione.
.Sia l’azione formativa, che quella di socializzazione in ambito lavorativo,
richiedono una preparazione/programmazione che definisca strumenti, risorse,
organizzazione e, soprattutto, professionalità necessarie alla realizzazione
dell’intervento. Se l’intero processo va governato occorre, infatti, la presenza di
figure di significato formativo nel corso delle diverse fasi. Tali soggetti possono
essere diversi nei differenti momenti (tutor, docente, tutor aziendale sul lavoro),
ma esercitando funzioni concordanti in alcuni punti essenziali:
- Attenzione al percorso d’apprendimento (difficoltà, possibilità, vincoli,
capacità di risolvere problemi, superare difficoltà, trasferire soluzioni)
della singola persona;
- Interazioni che il soggetto stabilisce o non riesce a stabilire;
- Evoluzione dell’identità professionale, personale, sociale del soggetto
e della consapevolezza che questi mostra di raggiungere.
Nell’arco della successione, dalla socializzazione formativa, alla
socializzazione lavorativa, particolare rilievo riveste la dimensione del gruppo
come ambito d’apprendimento e d’interazioni. Il progressivo affermarsi del gruppo
come situazione ricorrente in campo lavorativo come formativo, enfatizza
l’importanza di capacità di carattere comunicativo ed interattivo:
- processi e modalità di presa di decisione sia individuali che di gruppo;
- esercizio della funzione di coordinamento e di leadership;
- modalità di risoluzione di problemi (individuo/gruppo);
- orientamento individuale e di gruppo agli obiettivi;
- modalità di risposte a varianze;
Saper comunicare significa sempre più saper lavorare, anche a livelli bassi di
qualificazione e per ruoli di carattere esecutivo.
Il formatore si presenta allora come facilitatore dei processi di socializzazione
all’interno del gruppo di formazione ed ancora una volta tutor del singolo percorso
dell’allievo durante le fasi di socializzazione lavorativa (alternanza formazione –
lavoro).
I.4 Rapporto tra il sistema produttivo tradizionale, i
soggetti svantaggiati e il ruolo della cooperazione sociale.
Un’organizzazione produttiva che sta sul libero mercato rappresenta come un
sistema, di cui una volta stabiliti gli obiettivi, organizza le sue risorse per
raggiungere dei risultati. Quest’aspetto è vero in una grande impresa dove gli
obiettivi saranno esplicitati e pianificati, come in una piccola azienda artigiana
dove gli obiettivi potranno essere impliciti all’organizzazione, o magari solo
presenti nella testa dell’artigiano. Il rapporto tra obiettivi e risultati rappresenta
l’efficacia del sistema. L’azienda è inserita in un sistema competitivo, costituito da
clienti e concorrenti, entro il quale essa può restare a condizione che il suo
prodotto resti conveniente, pertanto è spinta a rispettare gli obiettivi utilizzando al
meglio le risorse di cui dispone.
All’interno dell’ambiente lavorativo, e non potrebbe essere altrimenti,
prevalgono pertanto leggi di produttività rispetto alle quali il soggetto svantaggiato
è subito visto come un potenziale contravventore e ciò lo pone immediatamente in
una condizione atipica rispetto ai compagni di lavoro. La sua disarmonia evolutiva,
personale o sociale che sia, ed i suoi bisogni, di solito mal si adattano alle
richieste che comunque giungono dall’organizzazione. L’ingresso di una persona
svantaggiata in un’organizzazione produttiva è vissuta dall’organizzazione stessa
come una possibile minaccia al suo equilibrio interno. I compagni di lavoro,
secondo il loro ruolo di responsabilità che ricoprono nell’organizzazione
aziendale, possono far prevalere una delle seguenti reazioni: 17
- Diffidenza per il nuovo arrivato, che si ritiene possa far gravare una parte
delle incombenze che gli sono state affidate sulle persone più vicine a lui.
Questo tipo d’atteggiamento prevale nel settore terziario.
- Simpatia per un elemento che può opporsi ai ritmi dell’attività lavorativa
senza subirne conseguenze dirette, diventando una sorta di rivalsa
simbolica nella dinamica conflittuale fra “padroni” ed operai.
Quest’utilizzazione “classista” della disabilità, che spesso si maschera da
solidarietà ideologica nei confronti di un compagno svantaggiato, prevale nel
settore dell’industria.
- Accettazione paternalistica di un individuo che si presume sia, in ogni
circostanza, più debole e debba quindi essere protetto e guidato, ma senza
porsi il problema di una sua reale emancipazione ed autonomia lavorativa.
Quest’atteggiamento prevale nel settore del lavoro artigianale, ma è anche
frequente all’interno della fabbrica.
In queste condizioni l’infantilizzazione, la passività, l’isolamento, le soluzioni
disadattative di vario tipo da parte del soggetto svantaggiato, sono all’ordine del
giorno ed assumono un valore di risposta che deve essere riconosciuto ed
interpretato. Gli effetti riabilitativi collegati con il ruolo lavorativo sono, infatti, più
17
Cfr. M. Cannao, A. Moretti, G.P. Guaraldi, Filosofia dell’integrazione di Giorgio Moretti, Redazione Editoriale IRCCS E. Medea.
significativi quando il ruolo affidato è percepito dal soggetto come vero, reale,
utile, intercambiabile con gli altri lavoratori e quindi non costruito ad hoc per lui.
L’inserimento al lavoro costituisce uno degli elementi cardine su cui fondare
percorsi riabilitativi, miranti ad una concreta reintegrazione sociale dell’individuo
svantaggiato, se e solo se, si prevedono delle forme d’accompagnamento di
carattere educativo e professionale. Gli elementi fondamentali sui quali costruire
validi percorsi rieducativi, atti a ridefinire un’adeguata visione del proprio sé e del
mondo, devono essere orientati all’acquisizione d’autonomia gestionale e
comportamentale.
All’azienda comunemente intesa di lavoro, che è strutturata per la sua finalità
produttiva, salvo casi eccezionali, non può essere pertanto relegato il compito
d’essere anche un’agenzia con finalità di riabilitazione sociale, in quanto per
quest’importante obiettivo occorre la partecipazione, l’intervento diretto o il
supporto d’altri attori sociali.
La forma lavoro della cooperativa sociale sembra quella che meglio risponde
alle esigenze occupazionali espresse dalle persone con disagio clinico o sociale.
Nel 1991 con l’approvazione della legge n° 381, si sancisce giuridicamente
l’esistenza di una particolare forma della cooperazione: quella per l'appunto
cosiddetta sociale. Questo riconoscimento legislativo introduce, tuttavia, alcune
notevoli differenze tra questa forma cooperativa e le altre. La più importante è
sicuramente quella esplicitata nell’articolo numero 1, che recita quanto segue: “ le
cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della
comunità alla promozione umana ed all’integrazione sociale dei cittadini”; esse
svolgono quindi le loro attività principalmente a favore di terzi. Si rafforza così la
loro natura solidaristica, mentre in qualche modo s’indebolisce la finalità
mutualistica, quella cioè rivolta ai soli soci.
L’innovazione introdotta dalla legge n°381/91, con riferimento alle cooperative
sociali di produzione e lavoro (tipo B), sta nell’averle individuate come strumento
privilegiato e specialistico per l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati e
come soggetto titolato a svolgere una formazione professionale sul campo, a
lavorare per una piena integrazione sociale delle persone in difficoltà e a favorire,
se possibile, un loro successivo avviamento lavorativo all’esterno della
cooperativa. Il valore della cooperativa sociale si riconosce nella qualità del
contesto lavorativo, delle relazioni, coniugando l’emancipazione dei soggetti deboli
con la produzione e la qualità del prodotto. A partire da tutto questo le cooperative
riescono a svolgere nelle comunità, accanto ai servizi, un’importante azione
riabilitativa mediata dal “fare” anche nei confronti di soggetti con disturbo psichico,
arrivando a volte dove il farmaco o la parola non arrivano. Le cooperative sociali
sono organizzate come luogo di lavoro, ma anche di formazione professionale, di
costruzione d’identità, di capacità relazionali, d’espressione, luogo di scambi
sociali e d’emancipazione dove si favoriscono lo sviluppo d’abilità professionali e
competenze trasversali.
La formazione avviene prevalentemente attraverso il fare ed è formazione ad
un’abilità, ad un compito, ad una mansione, ma tanto più formazione all’autonomia
ed indipendenza, alla responsabilità, alla possibilità e capacità di scelta, all’utilizzo
dei servizi e delle istituzioni del territorio, alle relazioni e agli scambi sociali. A tal
fine occorre però che le persone svantaggiate inserite in cooperativa abbiano
comunque un’attitudine sufficiente al lavoro, che la presenza di lavoratori ordinari
sia tale da garantire lo svolgimento delle attività e che le cooperative siano gestite
tenendo presente, sia un progetto complessivo di formazione, sia programmi
personalizzati. Sulla base dell’esperienza sembra che una quota eccessivamente
elevata di lavoratori svantaggiati ponga due ordini di problemi: il primo riguarda il
fatto che la presenza di soli lavoratori disabili non caratterizza l’ambiente di lavoro
come luogo d’integrazione, il secondo che l’assenza di una quota significativa di
lavoratori normodotati impedisce di utilizzare il loro apporto in termini di supporto
ai lavoratori disabili e la possibilità di integrare le competenze assenti a causa
della loro disabilità. Per questi aspetti, l’articolo n° 4 della legge 381/91, stabilisce
che le persone svantaggiate devono costituire almeno il trenta per cento dei
lavoratori normodotati della cooperativa e, compatibilmente con il loro stato
soggettivo, essere soci della cooperativa stessa.
L’esperienza ha mostrato che un rapporto equilibrato fra le due componenti di
lavoratori ha prodotto buoni risultati, sia in merito alla gestione dei problemi
connessi alla produttività, che alla capacità d’integrare effettivamente la
componente dei lavoratori disabili. Nelle realtà cooperative, dove il numero di
lavoratori disabili è molto elevato, sono invece particolarmente pesanti i problemi
connessi alla produttività e le imprese trovano maggiori difficoltà a promuovere
all’esterno l’immagine di una realtà produttiva invece che assistenziale.
Valutando l’insieme delle esperienze, nelle cooperative sociali sono impiegati
lavoratori con le più varie forme di disagio, sia esso di tipo clinico e/o sociale. A
livello di singole cooperative esistono però esperienze che per “tradizione” o per
scelta operano esclusivamente con una sola categoria, mentre ce ne sono altre
che sono aperte a tutte le categorie di disabili. La tendenza sembra essere
comunque verso la massima apertura a tutti i lavoratori disabili indipendentemente
dal loro handicap, purché, come già ricordato, vi sia un minimo di compatibilità
delle abilità residue con quanto richiesto dagli specifici processi produttivi
dell’azienda. In questo senso alcune cooperative sociali tendono a differenziare le
proprie attività proprio per ampliare il target di lavoratori disabili impiegati.
La cooperazione, intesa come impresa sociale, è eminentemente una filosofia,
un lavoro progettuale, d’attivazione di risorse, di sinergie, d’intelligenze, di
trasformazione culturale, di connessione tra mondi di norma separati, che
concretamente avvia l’accesso materiale ai diritti di cittadinanza per i soggetti
deboli. La conciliazione tra mondo della produzione e quello dello svantaggio, pare
essere il nuovo terreno di sfida nelle pratiche della riabilitazione, come nelle
pratiche sociali. Dell’impresa sociale le cooperative sociali non rappresentano né
l’unica espressione, né la totalità dell’esperienza, ma certamente sono uno dei
terreni privilegiati attraverso cui l’impresa sociale stessa si può articolare.
Oggi più che mai è importante che la cooperazione sociale trovi il proprio
spazio nello sviluppo di comunità. Il rischio che corre l’impresa sociale altrimenti, è
quello di diventare un mero prestatore d’opera nei confronti dell’Ente locale.
Ritengo che la cooperazione sociale deve sì prestare dei servizi al territorio e
agli enti locali, ma anche promuovere lo sviluppo sociale della comunità,
dissolversi nelle reti sociali e familiari ed essere co-generatrice di progetti per il
territorio stesso.
La cooperazione sociale insomma non deve perdere l’ambizione di leggere i
bisogni emergenti e farsene interprete con progetti di sostegno alla comunità
locale.
Capitolo II
LA MEDIAZIONE PEDAGOGICA
NELL’ACCOMPAGNAMENTO LAVORATIVO DI
SOGGETTI SVANTAGGIATI
II.1 L’orientamento lavorativo: tipologizzazione dello
svantaggio e possibili azioni d’intervento.
Le pratiche d’orientamento e accompagnamento al lavoro di persone collocate
nell’area dello svantaggio, si pone come obiettivo quello di concretizzare un’offerta
in grado di ricanalizzare storie individuali, potenzialmente a rischio
d’emarginazione e di forte involuzione, in processi di motivazione e riattivazione
personale. Tali interventi assumono come presupposto di natura culturale, che
diviene anche orientamento teorico e metodologico, la centralità dei beneficiari
dell’intervento, attraverso un approccio che sappia riconoscere le singole identità.
E’, infatti, nella relazione e nel reciproco riconoscimento tra il tutor
dell’orientamento e i rispettivi utenti, quest’ultimi molto spesso condizionati da
esistenze fragili e provate nel corso della vita, che si rende possibile il riattivarsi di
disponibilità, il germinare di risorse proprie, l’affermarsi di volontà, il crescere del
senso di responsabilità nel protagonismo personale.18 Per questo l’attività di
supporto necessita di una connotazione fortemente guidata dagli aspetti
relazionali, e non può essere ridotta alla tematica della semplice costruzione di un
meccanico incontro fra domanda e offerta di lavoro.
Fin dall’inizio dell’attività d’orientamento al lavoro è opportuno l’impostazione
di un modello basato sull’ascolto attivo e l’accoglienza della persona, offrendo a
quest’ultima la possibilità di essere sostenuta nel vivere esperienze positive in un
percorso di sviluppo concordato, in una cornice in cui sia possibile ripensarsi nella
propria condizione di vita e ritrovare, in questa riflessività, spunti positivi per un “ri
– cominciare”.19 In questo modello, che prevede avanzamenti graduali di sviluppo
di nuove consapevolezze ed esperienze, connotate da una circolarità tra
riflessione – sperimentazione – riflessione, non si vogliono negare le limitazioni di
carattere sociali e/o psicofisiche, anche molto gravi, che riguardano una parte dei
beneficiari dell’intervento, quanto piuttosto riconoscere la possibilità di procedere
verso una direzione riabilitativa, che la stessa persona svantaggiata ha scelto di
18 Cfr. G. Iannis (a cura di), Orientamento e integrazione socio – lavorativa per soggetti svantaggiati. L’esperienza di un progetto pilota di formazione in Provincia di Treviso. Ed. Del Cerro, Pisa, 2000.19 Cfr. Scalvini F. L’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate, Impresa sociale, n° 21 anno 1995.
percorrere insieme con un operatore, che per un periodo limitato svolgerà un ruolo
di supporto e accompagnamento.
Nella ricerca della destrutturazione della complessità, rappresentata
dall’eterogeneità delle varie forme di svantaggio 20, è opportuno come prima cosa la
costruzione di un modello di tipologizzazione dei beneficiari, cogliendo i tratti
caratteristici che quest’ultimi assumono, relativamente alle proprie autonomie 21. E’
possibile pertanto ipotizzare una classificazione in un modello che contempla
quattro diverse tipologie basate sull’individuazione delle autonomie personali. Tali
tipologie sono d’orientamento nell’identificazione di modalità diverse per far fronte
ai problemi, nonché sui tempi necessari per modificare gli stili disfunzionali e per
acquisire strumenti efficaci per l’inserimento lavorativo.
Quest’operazione supporta gli operatori nel processo valutativo e di
comprensione dei bisogni degli utenti e conseguentemente favorisce la definizione
dell’approccio più opportuno da utilizzare in ciascuna singola situazione.
La lettura delle situazioni personali rappresentate per livelli d’autonomia
personali aiuta a coniugare la condizione di svantaggio della persona e le sue
risorse presenti e potenziali, con gli standard d’autonomia che i vari contesti di
lavoro richiedono. Come già accennato questa strutturazione permette una
prefigurazione del percorso più idoneo da offrire, in relazione ad un contesto
d’inserimento adeguato alla situazione.
Di seguito sono illustrate le quattro tipologie di svantaggio socio –
lavorative22.
1) Persone in situazioni di difficoltà transitorieGli appartenenti a questo gruppo rivelano alte motivazioni alla ricerca di
lavoro, sono persone dotate di sufficiente o buon’autostima, dimostrano discrete
capacità comunicative e relazionali, hanno la capacità di costruire amicizie. Il loro
sistema valoriale è in genere consolidato, quindi dimostrano una chiarezza d’idee,
buone convinzioni e capacità introspettive. Pertanto sono persone dotate di un
buon livello d’autonomia generale. Se è loro possibile tendono ad essere 20 Nell’articolo 4 della legge 381/91, già menzionata nell’introduzione, sono compresi tra questa tipologia di soggetti
gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, gli ex degenti d’istituti psichiatrici, i soggetti in trattamento psichiatrico, i tossicodipendenti, gli alcolisti, i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare e i condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione.
21 Cfr. Colaianni L., La competenza ad agire nelle situazioni problematiche. Animazione Sociale, Inserto numero d’Aprile 2004, Ed. Gruppo Abele, Torino.
22 Cfr. Quaderni d’Orientamento n° 26 Maggio 2005. Periodico semestrale edito da Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia.
indipendenti per cui si spostano da sole, quasi sempre hanno la patente e l’auto
propria. Le difficoltà che spingono queste persone alla richiesta d’aiuto presso i
servizi sociali generalmente non dipendono dalla mancanza di risorse proprie,
quanto da circostanze esterne (eventi sfavorevoli, malattie, separazioni, ecc..).
Quindi si trovano in condizioni economiche precarie o gravati da altri vincoli, che
limitano la loro possibilità di ricerca di lavoro. Generalmente hanno già maturato
esperienze di lavoro significative, talvolta di medio – lungo periodo, in cui non
sono mancati il senso di responsabilità e la capacità organizzativa. L’urgenza di
disporre subito di un lavoro per migliorare la precaria situazione economica
personale o familiare li limita fortemente nella possibilità di fruire di corsi di
formazione, che permetterebbero loro un re – inserimento lavorativo più qualificato
e remunerato23.
2) Persone che vivono situazioni d’empasse o crisi temporaneeQuesto gruppo di persone dimostra una molteplicità di risorse che sono
bloccate da eventi sfavorevoli che però non sfociano in situazioni di vita
particolarmente critiche. In genere si rivelano situazioni in cui l’assenza di punti di
riferimento e l’inesperienza ad affrontare la vita in piena autonomia, ha condotto
tali soggetti a compiere scelte che si sono rivelate errate. Queste scelte a loro
volta hanno penalizzato lo sviluppo d’esperienze e competenze utili al lavoro, tra
cui l’area delle relazioni. Se questa categoria di persone sono poste nella
condizione di riconoscere le loro risorse, e queste possono essere stimolate e
indirizzate operando scelte significative, hanno la possibilità di fare cambiamenti e
adattarsi a nuove realtà ed esperienze di vita, compresa quella lavorativa.
In questo gruppo si trovano persone che, a fronte d’iniziali resistenze,
dimostrano in seguito una disponibilità a ri - esaminare i comportamenti che hanno
generato o favorito i vari fallimenti, non solo lavorativi, ma anche su altri fronti
della loro vita (relazioni, istruzione, ambito famigliare). Fondamentale per loro è
maturare la consapevolezza che hanno le risorse interne e la capacità per
fronteggiare le difficoltà, e che non è un dramma riconoscere di avere dei limiti 24,
ciò li porta ad acquisire maggiore autonomia. Hanno la capacità di adattarsi ai
cambiamenti, muoversi con autonomia e, generalmente, intuiscono quando è il
23 Cfr. Selvatici A., D’Angelo M.G., Il bilancio di Competenze, Ed. Franco Angeli, Milano, 1999.
24 Cfr. N. Radia, L. Verini, L’orientamento come counseling”, in Psicologia dell’Orientamento scolastico e professionale. Teorie, modelli e strumenti. Ed. Franco Angeli, Milano, 2002
momento di ricercare orientamento e sostegno in situazioni di criticità.
3) Persone con vissuti problematici consolidati nel tempoQuesto gruppo di persone si presenta generalmente con una richiesta di
lavoro inizialmente chiara. In un secondo momento, avviata la fase di conoscenza,
si coglie una loro domanda latente, che preme con forza, di appoggiarsi a
qualcuno che considerano autorevole, che le aiuti a chiarire la loro confusione e la
loro incapacità ad operare scelte non necessariamente rivolte al contesto
lavorativo.
Queste persone quasi sempre mancano di pre – requisiti per avviarsi al lavoro
o quantomeno per mantenerlo, e vivono con difficoltà e sofferenza problematiche
personali e sociali irrisolte consolidate nel tempo, che limitano fortemente la loro
autonomia. La loro capacità organizzativa è molto carente e quasi sempre non
dispongono d’autonomia di movimento con mezzi propri. Hanno serie difficoltà a
riflettere per fronteggiare e risolvere i loro problemi, sono persone inclini ad
autosvalutarsi, talvolta con accanimento. Spesso l’operatore deve relazionarsi con
il loro vittimizzarsi che non le aiuta in termini evolutivi.
E’ difficile articolare progetti dallo sviluppo lineare perché sono persone
soggette ai dubbi, ai ripensamenti e quindi vanno continuamente sostenute e
incoraggiate, pertanto i tempi d’accompagnamento si allungano.
Parallelamente ad un accompagnamento prolungato nel tempo necessitano di
contesti lavorativi parzialmente tutelati, non competitivi, dove vi sia una
componente di socialità che possa soddisfare il bisogno di accoglienza e di
rassicurazione sulle loro capacità25.
4) Persone con disagi significativiIn questa fascia si collocano persone che per condizioni e stile di vita possono
essere considerate ad alto rischio di marginalità sociale, se non già rientranti in
questa condizione. Talvolta si rilevano situazioni in cui alla radice della
problematicità vi sono carenze cognitive ed intellettive riscontrabili da diagnosi
cliniche. Queste persone vivono una condizione esistenziale di forte disagio che si
aggrava quando vivono da sole, senza risorse familiari e privi di reti sociali. La loro
fragilità deriva spesso da marcati disagi nella loro dimensione più profonda, con
25 Cfr. A. Grimaldi (a cura di), Orientamento:modelli, strumenti ed esperienze a confronto, Isfol strumenti e ricerche, Ed. Franco Angeli, Milano, 2002.
problematiche personali irrisolte ed una conseguente ricaduta negativa sulle
autonomie, che dovrebbero presiedere i normali processi vitali, così da impedire
condizioni di vita d’emarginazione e solitudine.
La loro richiesta di lavoro è assente o minima perché sono mentalmente
coinvolte in una difficile, talvolta sterile, ricerca di soluzioni al loro faticoso vivere
quotidiano, oppure sono già da tempo rassegnate e in qualche modo “si lasciano
vivere”. La loro domanda è confusa e mutevole per cui cambiano spesso opinioni
ed obiettivi. Talvolta si riscontrano forti dipendenze da alcol, dipendenze da droghe
in connessione a problematiche pre – esistenti.26
L’offerta loro rivolta richiede l’attivazione di una serie articolata di risorse, sia
del servizio sociale, sia di altri tipi di servizi, come ad esempio il Ser.T (Servizio
tossicodipendenze) e/o la psichiatria.
La problematicità dei vissuti richiede, che al costante accompagnamento e
sostegno di tipo educativo, siano affiancati progetti di re – integrazione sociale
realizzati in contesti propedeutici ad un inserimento lavorativo e comunque
tutelanti27.
In relazione all’esigenza e alle risorse dei beneficiari appena descritti e
classificati, si procede ad identificare l’intervento d’orientamento lavorativo più
appropriato per ognuna di queste categorie. Pertanto, seguendo lo stesso ordine di
classificazione, avremo:
A1) Le consulenze orientative 28 Tali consulenze costituiscono dei percorsi brevi di chiarificazione del proprio
progetto lavorativo – professionale. Solitamente di questo intervento ne
beneficiano persone che non hanno elevati problemi di criticità sull’asse cognitivo
e relazionale, ma piuttosto si trovano in situazioni di difficoltà transitoria, e
contemporaneamente mostrano sufficienti livelli di autonomia personale per
riattivare una propria progettualità. In questo caso il colloquio di orientamento è
inteso più come uno strumento a carattere informativo, fornendo al soggetto le
informazioni indispensabili per una lettura corretta della realtà, che gli
consentiranno successivamente di operare le proprie scelte in ambito 26 Tali situazioni ricadono nelle cosiddette “doppie diagnosi”, per cui i soggetti affetti da disturbi di natura
psicologia/psichiatrica, ricorrono all’uso di sostanze alcoliche o stupefacenti con l’intento di attutire lo stato di malessere che provano.
27 Cfr. Montobbio, Lepri, Lavoro e fasce deboli, Op. citata28 Cfr. Pombeni M.L., Il Colloquio d’orientamento, Ed.NIS, Firenze, 1996
professionale. Si offre pertanto un orientamento per un periodo concordato
solitamente volto a verificare e sostenere scelte già fatte, ma che richiedono
opportuni passi per una loro concretizzazione.
B1) I percorsi di sviluppo delle potenzialità individuali (empowerment) 29
Sono percorsi di durata variabile incentrati sull’accompagnamento e sostegno
educativo. Sono articolati per fasi dove l’attenzione è rivolta a sostenere processi
di maturazione individuale e di miglioramento delle abilità relazionali. Ne
beneficiano persone che hanno la necessità di affinare caratteristiche e
competenze funzionali all’occupabilità, per poi presentarsi attivamente nel mercato
del lavoro in autonomia, o inizialmente supportati dagli operatori del progetto.
I percorsi riguardano persone in situazione di fragilità, ma dotati di risorse che
permettono una ri – elaborazione dell’esperienze di vita tali da garantire ricadute positive
nell’area lavoro. Questi percorsi spesso si accompagnano ad esperienze di formazione
personalizzate.30 L’attenzione nell’intervento è rivolta alla valutazione delle competenze
lavorative e all’individuazione di possibili percorsi positivi caratterizzati da scelte formative
o lavorative sentite come proprie.
C1) Percorsi di supporto all’accesso al mercato del lavoro (placement)
Le persone con carenze consolidate hanno bisogno di tempi più lunghi per
beneficiare degli interventi educativi, delle pratiche di valutazione e d’indirizzo alle
competenze lavorative. Da tali soggetti emergono richieste che esprimono una domanda
di lavoro non sempre chiara31. L’intervento pertanto si propone di sostenere le motivazioni
a perseguire obiettivi lavorativi alla reale portata della persona e, contemporaneamente,
favorire lo sviluppo delle capacità atte a fronteggiare condizioni di criticità con ricadute
sull’autostima, sull’intraprendenza personale e su quanto necessario a creare condizioni di
vita dignitose. Come già accennato si rivela importante inserire la persona in contesti
lavorativi parzialmente tutelati, non competitivi, dove vi sia una componente di socialità
che possa soddisfare il bisogno di accoglienza e di rassicurazione sulle loro capacità,
29 Cfr. C. Ancona e D. Boerchi, Il bilancio di competenze. All’interno del testo di C. Castelli, L. Venini (a cura di), Psicologia dell’orientamento scolastico e professionale. Teorie, modelli e strumenti, Ed. Franco Angeli, Milano, 2002.
30 Cfr. capitolo n° 4 nella sezione in cui si parla dell’esperienza formativa del laboratorio e dello stage formativo, o quella direttamente del tirocinio lavoro.
31 Cfr. N. Ranie e L. Venini, L’orientamento come counseling”, Op. citata.
nonché aumentare il numero di relazioni sociali. Tutto questo si concretizza attraverso
l’inserimento lavorativo della persona all’interno di una cooperativa sociale,
prevedendo nel lungo periodo (1 – 2 anni), la fuoriuscita del soggetto e
l’inserimento lavorativo presso altri contesti aziendali, a fronte di un’avvenuta ri
-acquisizione delle competenze professionali e trasversali. 32
D1) Progettualità d’integrazione socialeSono percorsi finalizzati a strutturare opportunità di miglioramento della
qualità della vita per adulti in gravi difficoltà. I percorsi d’accesso al lavoro sono
valutati a scadenza molto lunga ed il principale obiettivo consiste nell’inserire in un
contesto relazionale, mediato dall’esecuzione di un compito identificato, persone
fortemente deprivate sul versante delle relazioni umane e della capacità adattativa
al lavoro33. In questo modo si promuove la rigenerazione del capitale di fiducia e la
riattivazione di processi di contrattualità con il servizio sociale.
Questo tipo di progettualità infatti sostanzia il superamento della semplice
erogazione di contributi economici a favore d’interventi finalizzati al miglioramento
della qualità della vita, mirando a ridefinire processi ed abitudini di comportamento
e rinforzando la rete sociale di riferimento.
L’intervento si concretizza nell’offerta di luoghi particolarmente accoglienti che
permettono situazioni di sperimentazione. In questi contesti le persone possano
vivere l’accoglienza positiva delle proprie capacità misurandosi con compiti definiti.
Lo sviluppo dell’autostima e l’interiorizzazione delle regole funzionali al lavoro
si possano generare in presenza di un sostegno costante. Il percorso tipo per
questa tipologia d’utenza da individuare, progettare e sostenere nella fase
d’orientamento lavorativo, potrebbe essere il seguente:
- Inserimento in un laboratorio formativo34(3 mesi);
- Inserimento in stage formativo all’interno di una cooperativa sociale di
produzione e lavoro, di tipo B35 (3 mesi);
- Assunzione all’interno della cooperativa sociale seguendo un percorso
32 Cfr. capitolo n° 3 e 5 della presente tesi dove è affrontato in modo più specifico il percorso lavorativo della persona svantaggiata all’interno delle cooperative sociali di produzione e lavoro.
33 Cfr. C. Calkins, H. Walzer, L’adattamento all’ambiente di lavoro nei soggetti deboli –interventi psicoeducativi di supporto, Ediz. Erickson, 1996
34 Cfr capitolo n° 4 per quanto riguarda la metodologia d’intervento e le figure professionali previste.
35 Cfr capitolo n° 3 per quanto riguarda la metodologia d’intervento e le figure professionali previste.
individuale d’inserimento lavorativo (1,5 – 2 anni);36
- Fuoriuscita dalla cooperativa ed inserimento in un’azienda esterna,
prevedendo un periodo iniziale di stage (1 – 2 mesi), con un
accompagnamento del tutor (operatore sociale) e di un tutor aziendale.
- Assunzione all’interno dell’azienda esterna.
II.2 Fondamenti e prospettive del progetto individuale
d’inserimento lavorativo
L’inserimento lavorativo è finalizzato ad un progetto di crescita globale della
persona. Il lavoro dunque può rappresentare uno strumento efficace soltanto se è
vissuto come un valore positivo. L’attività lavorativa e l’interazione con l’ambiente
di lavoro permettono di creare nuove relazioni umane, di misurarsi con il mondo
della produzione, con le sue contraddizioni, ma anche con la possibilità di una
crescita nel campo economico e sociale e, attraverso questo, come ricordato nel
primo paragrafo, acquisire la statura di cittadino di pari dignità con diritti e doveri.
Pertanto, nel percorso di formazione, acquistano particolare importanza il
desiderio di apprendere, l’impegno, l’assiduità, la precisione e la partecipazione
attiva. La crescita in questa direzione è ciò che rende concretamente verificabile il
significato dell’inserimento lavorativo.
Il progetto d’inserimento richiede, infatti, un’adesione convinta, che non si
limiti alla mera esecuzione dei compiti, ma stimoli una crescita personale. La
valutazione del tutor sull’andamento del percorso di reinserimento sarà fatta
tenendo conto di questi criteri.
Il significato dell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate non può
prescindere da obiettivi fondamentali come quelli dell’autonomia e uguaglianza
delle opportunità. Amartya Sen37, nel suo libro “La disuguaglianza”, scrive: ”La
libertà è uno dei possibili campi d’applicazione dell’eguaglianza, e l’eguaglianza è
36 Cfr. il modello d’inserimento lavorativo illustrato nel capitolo n° 5 della presente tesi.37 Amartya Sen, premio Nobel per l´economia nel 1998, è uno dei più originali e influenti pensatori contemporanei.
Benché egli abbia lasciato l´India nel 1971 per insegnare nelle più prestigiose università del mondo, dalla London School of Economics a Harvard, non ha mai smesso di interessarsi ai destini del suo paese: ne ha sempre mantenuto la cittadinanza esclusiva, e ne ha studiato a fondo le problematiche economiche e sociali. Amartya Sen è stato l'ideatore della Grameen Bank, nata in Bangladesh per finanziare i piu` poveri. Quasi paradossale considerando che le banche, di norma, finanziano solo chi ha già dei beni per assicurarsi la restituzione del prestito.
una delle possibili configurazioni della distribuzione della libertà”. C’è libertà dove
c’è autonomia e ripristino delle capacità del soggetto nel gestire la propria
esistenza come progetto di vita. Il ragionamento di Sen è calzante per chi si
occupa d’inserimento al lavoro di persone svantaggiate, di persone con handicap,
di tossicodipendenti, detenuti ed ex detenuti, minori a rischio d’esclusione, ma
anche donne disoccupate di lungo periodo, donne sole con figli a carico senza
un’occupazione, donne che escono dal circuito dello sfruttamento della
prostituzione e persone migranti. E’ quando viene meno “l’insieme delle capacità”
ed il loro “funzionamento”, per usare un’espressione di Sen, che si creano le
situazioni d’esclusione.
L’economista indiano scrive anche che “ l’eguaglianza delle libertà è garantita
da un diritto diseguale, che recepisce le diversità per favorire il ripristino del
funzionamento delle capacità e la soddisfazione dei bisogni ”. Le acquisizioni, in
termini di conoscenze e competenze di una persona sono quindi il vettore dei suoi
funzionamenti e lo strumento per riattivare la capacità d’essere e di fare. Sono le
reali opportunità, come quelle lavorative, che producono la capacità di decidere e
di scegliere.
Sen ricorda che “l’uguaglianza delle opportunità” deve tener conto di diverse
“variabili focali” per lottare contro le disuguaglianze, le discriminazioni e
l’esclusione, come la sostanziale eterogeneità degli esseri umani e dei loro
percorsi; la varietà dei contesti relazionali di vita; le condizioni socio – culturali. I
processi d’acquisizione di competenze relazionali e sociali (capacità comunicative,
capacità di valutare, di decidere, di scegliere), dipende quindi dall’opportunità di
acquisire queste abilità.
I progetti d’inserimento lavorativo devono tener conto di queste “variabili
focali”, per ripristinare “l’insieme delle capacità” della persona e per garantire una
possibile integrazione socio- lavorativa. Il ruolo dell’accompagnatore sta quindi nel
creare tra i diversi passaggi, le varie tappe, i vari attori e i vari contesti, le
connessioni utili alla creazione di uno “sfondo integratore”.
L’accompagnatore è un tessitore di connessioni tra il soggetto, il suo contesto
di vita, la rete dei servizi del territorio e l’azienda. Garantisce continuità e un
supporto costante all’utente nelle varie tappe del suo percorso. Questa figura è
quindi un’interfaccia tra sistema dei servizi, contesto lavorativo e soggetto. Nel
rapporto con l’utente deve creare delle congruenze situazionali, cioè un
abbinamento riuscito tra le caratteristiche dell’utente (potenzialità, deficit,
situazioni di vita) e quelle del contesto lavorativo.
L’attività dell’accompagnatore produce relazione d’aiuto nei processi
d’inserimento lavorativo di persone in difficoltà; in questo senso si tratta quindi di
un operatore della mediazione. Le mediazioni sono l’insieme di strumenti e
tecniche, che usa l’operatore per facilitare l’integrazione socio – lavorativa della
persona svantaggiata38.
Il modello del progetto individuale d’inserimento lavorativo, rivolto ad utenza
svantaggiata, rielabora alcuni aspetti delle pratiche dell’apprendistato artigianale:
come ragionare e fissare gli scopi dell’attività, verificarla e rettificarla di continuo,
anche attraverso la valutazione finale del prodotto, senza per questo distogliere
completamente lo sguardo da ciò che accade all’esterno, proprio come il vecchio
artigiano, che stava con un occhio in bottega e l’altro in strada. Il maestro forniva il
modello, sosteneva, dava strumenti, ambienti, seguiva “passo dopo passo” l’allievo
nel processo di lavorazione fino a renderlo indipendente. In generale l’obiettivo era
d’acquisire competenze e qualità che si dovevano estrinsecare in un “capolavoro”
finale, che doveva rivelare le virtù dell’allievo. Si apprendeva pertanto “in
situazione”, insieme al maestro e agli altri allievi, condividendo le competenze e
divenendo così esperti attraverso “scambi virtuosi”.
Prendendo spunto da quest’impostazione, anche Il progetto individuale
d’inserimento lavorativo rivolto ad utenza svantaggiata, definisce i processi,
basandosi su quattro aspetti particolari dell’apprendistato artigianale 39:
➢ Il modelling (fornire il modello): si mostrano i processi. Il maestro (nel
nostro caso, come vedremo nei capitoli seguenti, il tutor aziendale o il
docente per l’attività d’aula – laboratorio) dimostra all’allievo come fare;
➢ Il coaching (accompagnamento): si dirige, si fornisce assistenza, si
agevola il lavoro;
➢ Lo scaffolding (fornire impalcature): si forniscono dei supporti durante
lo svolgimento di compiti, incoraggiamenti, spiegazioni, chiarimenti;
➢ Il falding (dissolvenza): lenta rimozione del supporto, in cui si
assegnano compiti di sempre maggiore complessità e responsabilità,
sfumando e rimovendo gradatamente le azioni di supporto.
38 Cfr., Mappatura degli accompagnatori – Sintesi della rilevazione,Progetto Equal, Bologna, 200239 Cfr. M. Pascucci, G. Stacciali, Itinerari nell’educazione, Carocci, Roma, 2001
Il tutor in queste fasi è colui che allestisce gli ambienti formativi, fornisce
l’impalcatura (scaffolding) per le attività, svolge il ruolo di stimolo, di facilitatore, di
guida, di sostegno, di supporto ed accompagnamento nelle strategie cognitive,
affettive e sociali. Per svolgere queste funzioni sono di particolare importanza la
conoscenza e l’acquisizione di particolari strumenti di mediazione pedagogica,
quali i contratti di cambiamento e l’utilizzo di tecniche di comunicazione.
II.3 L’utilizzo dell’Analisi Transazionale nella stipulazione dei contratti di cambiamento.
All’interno di tutti i progetti individuali d’inserimento lavorativo, l’operatore
sociale, insieme al soggetto svantaggiato, individuerà il raggiungimento graduale
d’alcuni obiettivi, riguardanti l’acquisizione di competenze professionali, ma anche
di tipo trasversale già accennati (esempio: sviluppare le capacità relazionali, saper
osservare gli orari di lavoro, riuscire ad avere una presenza costante e
continuativa, saper sostenere complessivamente la dimensione lavorativa).
Particolari tecniche, riprese dall’Analisi Transazionale, possono facilitare
l’operatore ed il soggetto cui è rivolto l’intervento a raggiungere tali obiettivi.
L’Analisi Transazionale è di solito considerata una delle nuove psicoterapie, ma
diversi studi e la mia modestissima esperienza “sul campo”, dimostrano che essa
può essere trasferita ed applicata in ambito sociale e nell’azione di tutoraggio,
relativo all’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati. Al fine di poter
comprendere meglio e poter dimostrare quanto appena esposto, si rende
necessaria una presentazione sintetica dell’impianto teorico dell’Analisi
Transazionale.
L’Analisi Transazionale, di seguito abbreviata con le lettere A.T., fu
originariamente elaborata da Eric Berne (1910 – 1970), psichiatra americano di
formazione freudiana. Le sue idee teoriche derivano dall’osservazione clinica dei
pazienti, mentre la sua filosofia scaturiva dalla critica che muoveva a gran parte
della pratica psicoanalitica tradizionale. Era contrario ad un modello terapeutico
paternalistico o medicalizzato, in cui gli operatori si assumevano responsabilità di
analizzare i problemi dei clienti e di decidere le varie soluzioni, mentre i clienti
rimanevano passivi e scarsamente coinvolti nell’elaborazione delle loro difficoltà.
Al contrario, egli sosteneva che le persone potessero e dovessero avere una parte
attiva nel processo, assumersi delle responsabilità, comprendere i propri problemi
e sforzarsi di trovare delle soluzioni adeguate. Berne partiva dalla convinzione che
suo primo dovere fosse quello di aiutare le persone a stare meglio, piuttosto che
concentrarsi sulle origini del problema. Ciò significava abbandonare un modello in
cui il cambiamento avveniva dopo un’esplorazione, un’analisi, e l’acquisizione
d’insight40, per passare a un modello il cui obiettivo principale era giungere
rapidamente ad un reale cambiamento nelle emozioni e nel comportamento. Il
grande merito di Berne è stato quello di aver elaborato un sistema di psicologia
altamente semplificato, ma non per questo superficiale, che può essere insegnato
a tutti, adolescenti compresi. La sua linea psicologica prende il nome di “Analisi
Transazionale” per il fatto che si interessa dei meccanismi con cui gli individui
interagiscono tra loro; meccanismi da lui definiti “transazioni”. Per transazione,
pertanto, s’indica qualsiasi scambio che avviene tra due o più persone: un dialogo
è una serie di transazioni, così come lo può essere uno scambio di gesti d’affetto 41.
All’interno di questa disciplina s’inseriscono quelli che Berne definisce i
contratti di cambiamento, e che possono costituire come cercherò d’illustrare, degli
strumenti importanti nel rapporto educativo – rieducativo tra l’operatore sociale ed
il soggetto svantaggiato nel processo d’inserimento lavorativo. Berne definisce un
contratto come “un esplicito impegno bilaterale per un ben definito corso
d’azione42”. Nei contratti è specificato:
- Chi sono entrambi le parti
- Che cosa faranno insieme
- Quanto tempo ci vorrà
- Quale sarà l’obiettivo o l’esito di questo processo
- come faranno a sapere quando l’avranno raggiunto
- come questo sarà vantaggioso per il soggetto
I contratti si basano sul consenso reciproco. Questo significa che entrambe le 40 Insight (intuizione): termine inglese che significa letteralmente “vedere dentro” ed è (non perfettamente) tradotto
con intuizione o illuminazione. Indica quel fenomeno per cui un qualsivoglia contenuto della mente (una sensazione, un ricordo, la risoluzione di un problema) appare come un’idea improvvisa e inaspettata (non come la conseguenza di un pensiero logico o discorsivo) ed è vissuto dal soggetto come un’esperienza indipendente dalla volontà cosciente.
41 Cfr. E. Pitman, L’analisi transazionale per l’operatore sociale, Astrolabio, Roma, 1985
42 I. Stewart, V. Joines, L’Analisi Transazionale – guida alla psicologia dei rapporti uman, pag. 331- Ed. Garzanti, Milano,1998.
parti devono essere d’accordo con quanto è sancito nel contratto. Il tutor non
impone al soggetto svantaggiato degli obiettivi da raggiungere, né quest’ultimo li
impone al tutor. Invece al contratto si giunge attraverso la trattativa tra le due parti.
Le due parti stabiliscono insieme i compiti da svolgere al fine di raggiungere gli
obiettivi, concordano i tempi per fare una verifica, prevedono insieme una penalità
se quanto stabilito non è rispettato. (Esempio. Tutor: <<In questo mese non devi
fare ritardo al lavaro>>. Risposta: << Di sicuro non ce la farò sempre>>. Tutor:
<<Allora concordiamo, come consentito, solamente una giornata, ma non oltre>>.
In questo caso anche il soggetto svantaggiato ha concorso nello stabilire la
condizione).
Il soggetto deve essere in grado di capire il contratto e avere le risorse fisiche
e mentali per portarlo a termine. Questo indica che, per esempio, una persona con
una grave lesione cerebrale potrebbe non essere in grado di stipulare in modo
competente un contratto di cambiamento. Né un contratto valido può essere
stipulato da chi sia sotto l’immediata influenza dell’alcol o di sostanze stupefacenti
che alterano la mente. Questo chiaramente non significa che un contratto non
possa essere definito con soggetti alcoldipendenti o tossicodipendenti, come
invece sto cercando di dimostrare.
Un altro aspetto da tener presente è che uno degli scopi della stipulazione dei
contratti, tra il tutor e l’utente, è di deviare l’attenzione dal problema ed incentrarla
sull’obiettivo del cambiamento . Al contrario, se entrambi le parti hanno
indirizzato prevalentemente la loro azione al problema, avranno dovuto costruirsi
un’immagine mentale del problema stesso. Senza volerlo avranno effettuato una
visualizzazione negativa dirigendo le loro risorse all’esame del problema più che
alla sua risoluzione. C’è un altro vantaggio ancora nello stabilire un obiettivo di
contratto chiaramente enunciato. Esso dà ad entrambe le parti un modo di sapere
quando il loro lavoro insieme è effettuato. Permette anche di valutare il progresso
che stanno facendo lungo il cammino, evitando le situazioni in cui il processo
d’inserimento potrebbe trascinarsi interminabilmente.
Un obiettivo di contratto deve essere enunciato in termini positivi. I contratti
che individuano degli obiettivi negativi, esempio smettere di fare qualcosa, non
funzionano mai nel lungo termine.
Questo è in parte dovuto al modo in cui l’obiettivo di contratto funziona come
visualizzazione. Non si può visualizzare di non fare o immaginare qualcosa
(esempio visualizzare “non un elefante rosso”). Quando si cerca di farlo,
automaticamente si crea un’immagine mentale di qualsiasi cosa segua al “non”, o
di qualsiasi altra cosa negativa. (Esempio: se il problema consiste nel non essere
puntuali al lavoro, un contratto di cambiamento da stipulare potrà essere
rappresentato dal raggiungimento del seguente obiettivo: svegliarsi alle ore 7:00
ed arrivare sul luogo di lavoro alle ore 8:00; anziché stipulare un accordo generico
e di negazione del tipo: non arrivare più in ritardo). Proseguendo con un altro
esempio: se una persona stipula un contratto per smettere di bere, non può
affrontare il contratto senza visualizzare continuamente l’attività problematica che
il prefiggersi di smettere comporta. Per arrivare ad un contratto efficace si deve
allora specificare la cosa positiva con una chiara direttiva d’azione, una nuova
opzione di sopravvivenza e d’esaudimento dei bisogni che sia altrettanto valida
della vecchia opzione. Inoltre l’obiettivo deve essere specifico e osservabile.
Le persone esterne devono essere in grado di riconoscere se è stato
raggiunto l’obiettivo. Spesso i soggetti del contratto partano con obiettivi generici
del tipo “Voglio migliorare la mia situazione”. Stipulare un contratto come questo
significherebbe mettersi in un lavoro indefinito, dato che l’obiettivo enunciato non è
abbastanza specifico perché permetta a qualcuno di sapere se è stato raggiunto.
Occorre quindi da questo desiderio generico espresso dall’utente scendere nel
particolare, “affondare dei paletti” ben visibili nella pratica del quotidiano.
II.4 Tecniche di comunicazione
La comunicazione all’interno del processo d’aiuto rappresenta uno degli
elementi centrali. E’ attraverso la comunicazione verbale e non verbale, che il tutor
stabilisce con il soggetto un rapporto che tende ad orientare, sostenere ed
accompagnare l’utente durante l’intero percorso lavorativo. Per questo è
importante andare ad esaminare in modo più approfondito le dinamiche che
agiscono durante il processo comunicativo e individuare alcune tecniche che
possono rendere più agevole la trasmissione dei messaggi 43.
La nostra fantasia e le nostre idee influiscono a tal punto che ciò che avviene
43 Cfr. R. Carli, Il colloquio in una prospettiva psicosociale in G. Trentini (a cura di), Manuale del colloquio e dell’intervista, Ed. Mondatori, Milano, 1995.
all’altro può assumere improvvisamente un senso diverso. Inoltre i sentimenti
immediati, da noi provati nei confronti dell’interlocutore, incidono sul modo in cui lo
ascoltiamo.
Requisito fondamentale per un ascolto attivo44, in una relazione di tutoraggio
con soggetti svantaggiati, è la capacità del tutor di neutralizzare tutti i
condizionamenti che provengono dalla sua persona in modo da penetrare nei
significati, nelle emozioni e nei problemi così come sono provati dai soggetti
stessi. Cioè si deve decentrare da se stesso e penetrare nell’universo dell’altro per
comprenderlo umanamente. Questo deve però avvenire mantenendo tutta la
lucidità necessaria, senza farsi trascinare emotivamente da colui che parla
perdendo l’obiettività. L’ascolto deve avvenire in modo empatico. “ Si chiama
empatia l’atto con il quale un soggetto esce da se stesso per comprendere
qualcun altro senza, tuttavia, provare realmente le medesime emozioni dell’altro.
Si tratta perciò di una simpatia fredda, ossia capace di penetrare nell’universo
soggettivo dell’altro, pur mantenendo il proprio sangue freddo e la possibilità
d’essere obiettivo45”.
Il tutor, proprio per la responsabilità che si assume e per il ruolo che occupa in
senso più ampio all’interno del processo d’aiuto, deve:
Non giudicare la persona che sta parlando, né con le parole, né con il pensiero. Se si vuole ascoltare veramente l’altro si deve sospendere ogni
considerazione dentro di noi, si deve sentire ed assorbire il suo messaggio senza
esprimere nessun giudizio, negativo o positivo che sia.
Non dare consigli personali. Non si deve assolutamente dire: <<Secondo
me bisogna fare così>>; << Io dico che la cosa deve essere fatta in questo
modo>>.
Non interpretare. Non bisogna attribuire alle parole, ai sentimenti, alle
emozioni e ai problemi dell’interlocutore il significato che non hanno.
Non assumersi la responsabilità del problema presentato dalla persona. Si deve sempre ricordare che le emozioni, i sentimenti e i problemi appartengono
all’altro. Si deve pertanto assumere nei suoi confronti, come enunciato in
44 L’ascolto attivo è una tecnica di comunicazione usata nella Peer counseling (Consulenza alla Pari), che nacque negli Stati Uniti d’America a metà degli anni sessanta, quando all’Università di Berkeley un gruppo di studenti disabili, decisero di incontrarsi regolarmente e di dedicarsi del tempo l’un l’altro, per discutere e confrontarsi sui problemi, di ordine pratico e sociale, che ogni giorno si trovavano ad affrontare. In questi gruppi si offrivano sostegno emozionale reciproco e sperimentarono attraverso un processo interiore di crescita in gruppo, la forza di contribuire a cambiare le condizioni di vita delle persone disabili. Un’esperienza ormai radicata ed a tutti nota nel mondo è quella degli Alcolisti Anonimi.
45 R.Mucchielli, Apprendere il counseling, Erickson, Trento, 1996
precedenza, un atteggiamento di tipo empatico46.
Tutto questo non è di facile attuazione anche per la valenza che l’ascolto ha
assunto nella società attuale, pertanto occorre all’operatore rieducarsi e
disciplinarsi verso tale attività e acquisire alcune capacità indispensabili, quali:
a) Prestare attenzione; b) Utilizzare domande; c) Parafrasare d) Riassumere .
Prestare attenzione vuol dire che il tutor deve ascoltare con molta attenzione
ciò che la persona dice. L’attenzione è dimostrata attraverso il linguaggio del
corpo, cioè attraverso il linguaggio non verbale. Bisogna stare molto attenti alla
posizione che si assume con il corpo, all’espressione del viso e al contatto con gli
occhi.
Per quanto riguarda la posizione del corpo il “consulente” (tutor/operatore
sociale), deve mantenere la giusta distanza dal “consultante” (persona
svantaggiata), in modo tale da farlo sentire a proprio agio, rilassato. Quindi non
deve stare né troppo vicino da essere intrusivo, togliendo spazio, né troppo
lontano da sembrare disinteressato. Bisogna stare molto attenti alle posture che si
assumono, perché attraverso di esse comunichiamo all’altro quanto si è disponibili
nei suoi confronti. Il più delle volte i pensieri, le emozioni e le sensazioni sono
riflessi, traspaiono nella postura che è assunta dalla persona. Una delle posizioni
da assumere per dare attenzione all’altro è mettersi l’uno di fronte all’altro, faccia a
faccia. Se si è seduti bisogna inclinare leggermente il corpo in avanti verso l’altro.
In relazione all’espressione del viso, il consulente, nella figura del tutor, deve
mantenere un’espressione naturale in modo che le emozioni e gli stati d’animo del
consultante, nella figura della persona svantaggiata, si riflettano sul suo viso.
Inoltre il consultante deve avere un buon contatto con gli occhi; attraverso gli
occhi gli deve dire: <<Sono con te, non sei solo, lavorando insieme ti ritroverai>>.
“Contatto oculare” vuol dire non fissare la persona che ci sta davanti, ma
guardarla. In altre parole non è sufficiente che il consulente assuma le posture
46 Alla base della filosofia della Consulenza alla Pari c’è l’idea che le persone sono capaci di trovare dentro di sé le soluzioni ai propri problemi e alle proprie difficoltà e sono in grado di raggiungere da sole i loro traguardi. Il consulente non ha il compito di risolvere i problemi dell’altro, ma aiutare il consultante ad attivare le proprie capacità di conoscere e sperimentare, a ricercare dentro di sé la propria creatività, a divenire consapevole delle proprie emozioni, dei propri desideri e dei propri bisogni. In sostanza il consulente deve svolgere un lavoro di promozione delle capacità (empowerment) del consultante.
giuste, ma deve usare tutto se stesso per comunicargli la propria attenzione.
E’ chiaro che il prestare attenzione implica anche un contatto fisico più
esplicito come l’abbraccio. Abbracciare, in alcuni casi e con alcune persone, è la
cosa più giusta da fare, ma in altri è meglio evitarlo perché può mettere in difficoltà
il consultante. E’ il consulente, in queste situazioni, che deve valutare e
comportarsi di conseguenza.
Un altro modo per dimostrare che si sta ascoltando l’altro è quello di
“annuire”, dire: << Si, vai avanti>>. Inoltre è molto importante non interrompere il
consultante mentre sta parlando, in modo da permettergli di determinare il corso
della conversazione.
L’utilizzo delle domande è di fondamentale importanza per il lavoro del tutor,
perché gli permette di ottenere informazioni e d’incoraggiare il soggetto a dire di
più su un determinato problema. Le domande possono essere di due tipi: aperte e
chiuse.
Le domande aperte, quali <<raccontami quali sono i sentimenti che provi>>,
servono per approfondire, per aiutare l’altro ad esplorare a fondo un problema, le
proprie idee, i propri sentimenti, le proprie emozioni, per incoraggiarlo a parlare e
possono sciogliere una situazione bloccata, nonché guidare la conversazione
verso un punto più personale, intimo. Naturalmente le domande aperte possono
essere pericolose, perché si può arrivare a concedere troppe libertà al consultante
facendolo andare a “ruota libera”, lasciando che si perda in chiacchiere inutili.
Le domande chiuse servono per avere maggiori informazioni, per
puntualizzare, per specificare meglio quando una cosa non è chiara, per limitare le
chiacchiere indiscriminate, possono colmare ansie e paure e aiutare ad analizzare
la veridicità delle informazioni. Naturalmente anche le domande chiuse hanno dei
lati negativi, inducendo talvolta a soffocare il dialogo, provocando risposte del tipo
<<si – no>> e favorendo il crearsi di un clima impersonale.
Non bisogna assolutamente utilizzare le domande per riempire il silenzio. Non
si deve assolutamente farsi prendere dalla fobia del silenzio, ma bisogna
ascoltarlo, perché anche se c’è un silenzio vuoto, vi è anche quello pieno che
esprime comunicazione, riflessione, e non è da considerarsi un problema da
eliminare riempiendolo con domande.
Parafrasare significa ripetere in modo conciso, utilizzando parole diverse, ciò
che precedentemente il consultante ha detto.
Per non turbare il colloquio è opportuno iniziare la parafrasi con espressioni
quali: <<Vediamo se ho capito bene; hai detto così; è giusto ciò che ho capito?>>.
E’ importante che la parafrasi sia breve, comunque più breve della frase detta dal
consultante, e bisogna assolutamente evitare di concluderla con esclamazioni del
tipo: <<non è vero?>> oppure <<si o no?>>.
Questa tecnica serve:
a) A dimostrare che si sta ascoltando l’altro e che lo si sta comprendendo;
b) Al consulente per verificare se ha capito bene quello che è stato detto
dal consultante;
c) Da specchio al consultante. Infatti parafrasando si riflette a quest’ultimo
ciò che è e ciò che ha detto, aiutandolo a chiarirsi su ciò che sta
provando e pensando, portandogli così nuove conoscenze e
prospettive;
d) Ad aiutare il consultante a prendere coscienza quando si trova in preda
alle emozioni.
E’ di fondamentale importanza, infine, riassumere ciò che è stato detto e ciò
che emotivamente si è sentito in un incontro. Con questa tecnica si coglie
l’essenza di ciò che il consultante ha detto, s’individuano le idee, i problemi e la
prospettiva di un percorso.
Questa tecnica, che lega insieme contenuti ed emozioni, è utilizzata
soprattutto alla fine dell’incontro e serve per dare un quadro preciso del problema,
identificando possibili contrasti e possibili decisioni che sono state prese.
Come con la parafrasi anche con il riassunto si rischia di interpretare o
falsificare ciò che il consultante ha detto, quindi è molto importante che il
consulente verifichi insieme a lui se quello che ha capito è giusto, oppure se ha
aggiunto o sottratto qualcosa a quello che è stato detto durante l’incontro. Pertanto
sarebbe opportuno sempre concludere con la domanda: << E’ giusto?>>.
Capitolo III
METODOLOGIA DELL’INSERIMENTO
LAVORATIVO DI SOGGETTI SVANTAGGIATI
ALL’INTERNO DELLE COOPERATIVE SOCIALI
DI PRODUZIONE E LAVORO:
PRESENTAZIONE DI UN MODELLO
APPLICATIVO E RELATIVE PROBLEMATICHE.47
47 Il modello qui proposto delle cooperative sociali di produzione e lavoro (tipo b), come tutti i modelli, è da intendersi come una rappresentazione generale che non tiene in considerazione, né sarebbe stato possibile fare altrimenti, le specificità che ogni cooperativa possiede al proprio interno, sia a livello organizzativo, che di gestione dell’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati (art. 4 legge 381/91).
III.1 La cooperativa come organizzazione complessa
dell’integrazione lavorativa di soggetti deboli.
La cooperazione sociale di produzione e lavoro, come illustrato anche nel primo
capitolo, rappresenta un’organizzazione finalizzata all’integrazione lavorativa di persone
con svantaggio. Essa va a collocarsi idealmente sull’asse che congiunge il mondo del
disagio a quello del lavoro: due realtà sempre meno distanti, anche se ancora fortemente
estranee l’una all’altra.
Fig. 1 – L’asse della mediazione48
Collocarsi su quest’asse con l’intenzione di sviluppare interventi e strategie di
mediazione, atte a favorire l’avvicinamento tra questi due poli opposti, significa
uscire da un’ottica di contrapposizione tendente ad accentuare i motivi
d’inconciliabilità tra queste due distinte realtà, e muoversi verso una visione
maggiormente partecipativa. In tal senso il modello cooperativo non viene ad
essere solo un mero fatto formale, ma si arricchisce d’implicazioni pedagogiche e
metodologiche forti e tali da mutare la relazione univoca e bipolare in una
relazione complessa, cioè reciproca e triangolare.49
48 Cfr. C. Lepri, E. Montobbio, Lavoro e fasce deboli-strategie e metodi per l’inserimento lavorativo di persone con difficoltà cliniche o sociali, FrancoAngeli, Milano, 1999.
49 Cfr. G. Mancini, G. Sabbattini (a cura di), Una metodologia per l’inserimento lavorativo delle persone ex tossicodipendenti, disabili e dei pazienti psichiatrici, Carocci, Roma, 1999.
SVANTAGGIO LAVORO
Fig. 2 – Il sistema di mediazione della cooperativa sociale
L’organizzazione che intende operare all’interno di questo sistema assumerà al suo
interno professionalità, ruoli e funzioni, orientate all’agevolazione dell’accesso per le
persone svantaggiate al mondo del lavoro, tramite progetti personalizzati di formazione
professionale “in situazione”50, e sviluppando tutte le strategie alla propria portata per
promuovere la figura di questa tipologia di lavoratore all’interno della società e nel mercato
del lavoro, facilitandone in un certo senso la capacità d’accoglienza. Ecco, quindi, che il
lavoro svolto all’interno della cooperativa sociale non è solo una mera attività produttiva
finalizzata al sostentamento dei soci lavoratori (svantaggiati e non), ma il lavoro, in questa
particolare organizzazione, assume valori ulteriori di formazione professionale e
promozione sociale, tali da attuare in senso pieno e forte l’originaria missione affidata dal
legislatore alla cooperazione sociale.51
Il sistema di mediazione che la cooperativa sociale promuove verte sull’intenzione di
fare della cooperazione, intesa come modalità di relazione tra soggetti, il fluidificante per la
miglior riuscita dell’integrazione sociale e lavorativa. In questo senso, il modello di
relazioni che la cooperativa instaura con tutti i soggetti con cui opera, si dispongono in un
sistema reticolare di relazioni complesse di scambio, in cui chiunque secondo il proprio
ruolo deve aver chiaro di stare collaborando all’inserimento lavorativo di persone
svantaggiate52.
50
Cfr. Montobbio E.; Handicap &Lavoro. La formazione professionale e l’inserimento lavorativo degli handicappati. Parte I: riflessioni e proposte. Quaderno n°1 di “handicappati e società”. Edizioni del Cerro, Tirrennia (PI), 1981.
La formazione in situazione, rivolta a soggetti svantaggiati, rappresenta una metodologia di lavoro insita nel progetto individuale d’inserimento lavorativo. L'imparare lavorando in situazione di lavoro reale tenta di creare nelle persone inserite le condizioni per favorire la sperimentazione di una propria autonomia, nonché di una propria libertà consapevole. Tale concetto sarà comunque illustrato nel terzo paragrafo del presente capitolo.
51 Cfr. Art. 1 legge n° 381/91 – disciplina delle cooperative sociali.52
Cfr. Perrini F, Zanoni G., Inserimento lavorativo nelle cooperative sociali. Criteri, strumenti, fonti normative, Ed.
SVANTAGGIO LAVORO
COOPERAZIONE SOCIALE
Il modello di rete di relazioni con l’esterno e l’intenzione di svolgere le proprie attività
su più livelli, oltre il mero piano dell’esecuzione del lavoro, impone la progettazione di
un’organizzazione che si strutturi secondo una chiara divisione degli ambiti d’intervento,
tenendo soprattutto a mantenere il più aperti possibile i contatti con altre organizzazioni,
enti o progetti, orientati allo stesso fine o in cui sia possibile portare il proprio peculiare
contributo53.
Per l’organizzazione e la gestione di quest’aspetti della vita della cooperativa è
necessario lo sviluppo d’aree gestionali dedicate alla regolazione dei rapporti e alle
funzioni principali necessarie allo svolgimento dell’intervento sociale, (formazione
professionale, accompagnamento al lavoro, attività di promozione). Nel pensare a
quest’ulteriore sviluppo dell’organizzazione cooperativa si sono individuati cinque ambiti
fondamentali concepiti come aree gestionali trasversali al funzionamento dei vari settori
produttivi:
1. Relazioni esterne
2. Supporto utenza
3. Sviluppo progetti
4. Ricerca commesse
5. Amministrazione economica
Volendo dare a questo modello organizzativo una forma grafica, otteniamo uno
schema diviso per aree di questo tipo54:
Franco Angeli, Milano, 2005.53 Cfr. Seed P., Analisi delle rete sociali; Folgheraiter F., Interventi di rete e comunità locali, Ed. Centro Studi
Erickson, Trento, 1996.54 Lo schema grafico prende spunto dalle riflessioni riportate dal testo di F. Bartolotti, Marco Batazzi (a cura di),
L’evoluzione della struttura dell’occupazione nel sistema cooperativo toscano, edito dalla Regione Toscana, 2003, nonché dallo schema grafico riportato dal progetto della cooperativa sociale denominata “La Bottega”di Torino, e ricavabili dal sito della cooperativa stessa
Fig. 3 – Le cinque aree gestionali della cooperativa sociale
Com’è stato evidenziato nello schema, ricorrendo al pentagono centrale, l’azione
d’intervento sociale e riabilitativo che la cooperativa svolge è il risultato dell’interazione dei
cinque ambiti gestionali. Risulta chiaro, infatti, che il progetto di mediazione e integrazione
lavorativa potrà realizzarsi se, e solo se, la cooperativa riuscirà nello stesso tempo a
ricercare ed acquisire nuove commesse di lavoro, mantenere una buona amministrazione
economica – finanziaria della società, nonché sviluppare delle relazioni esterne e delle
capacità progettuali con Enti e altre realtà del privato sociale, che operano anch’essi sul
tema dell’inserimento al lavoro rivolto a soggetti appartenenti alle cosiddette fasce deboli.
Nell’intervento d’integrazione lavorativa è particolarmente importante adottare il
sistema della cooperazione come momento formativo, in cui coinvolgere anche le persone
con svantaggio, cercando di renderle il più possibile partecipi della sorte
dell’organizzazione stessa. Solo in questo modo la formazione “in situazione”, offerta alla
persona svantaggiata, va a sedimentarsi su quel sostrato forte d’adesione ad una causa,
d’appartenenza ad un’organizzazione lavorativa e di valorizzazione delle capacità di
ognuno, che caratterizzano lo sviluppo dell’integrazione stessa.
La principale valenza di carattere educativo di questa scelta sta nell’opporsi il più
possibile al rischio, sempre presente negli inserimenti lavorativi, che la persona una volta
raggiunto la stabilità del posto di lavoro lasci cadere le proprie aspettative, vivendo il
lavoro e la retribuzione ad esso correlata come un diritto acquisito, e mutando
gradualmente quest’atteggiamento in una sempre più marcata rivendicazione
d’assistenza, che spesso caratterizza il rapporto tra la persona con svantaggio e qualsiasi
Relazioni esterne
Ricerca commesse
Sviluppoprogetti
Amministrazione
Supporto utenza
organizzazione.
In riferimento al tipo di strutturazione organizzativa esistono due concezioni differenti
sulla cooperazione sociale: una che vede questa come luogo finale di collocamento dei
soggetti svantaggiati, un’altra che invece interpreta l’ambiente cooperativa come luogo di
transito verso altre soluzioni occupazionali55, andando a costituirsi come una sorta di
“azienda ponte”.
Quest’ultima impostazione prevede un percorso lavorativo nel quale il soggetto
inserito in cooperativa, dopo un congruo periodo di permanenza in quest’ambiente, maturi
delle competenze di tipo professionale e trasversali, atte a permettergli di trovare un’altra
ricollocazione lavorativa all’interno del normale mercato di lavoro.
In entrambe le concezioni l’approccio culturale al problema dell’integrazione
lavorativa, ruota intorno alla visione della dimensione del lavoro, svincolato dalla visione
solo produttivistica ed individuale, ma inteso invece come ambiente che favorisce lo
sviluppo relazionale, in cui è importante far prevalere il gioco di squadra e la
partecipazione di tutti i suoi componenti.
III.2 L’ambiente della cooperativa come luogo di mediazione.
Fin qui abbiamo descritto gli aspetti organizzativi e di strutturazione delle funzioni
vitali della cooperativa, non perdendo l’occasione d’individuare anche quelli impliciti,
spesso non detti, relativi alla portata pedagogica e formativa d’alcune scelte
organizzative.56
Abbiamo visto in precedenza come la mediazione implichi la strutturazione di
relazioni triangolari tra le due parti e la figura del mediatore stesso.57 La stessa
strutturazione, tipica di qualsiasi fase del processo d’integrazione lavorativa, caratterizza il
modello operativo di lavoro in cooperativa.
55 Cfr, Perrini F, Zanoni G., Op. citata.56
Cfr. Bocca G., Pedagogia e Lavoro tra educazione permanente e professionalità, Ed. Franco Angeli, Milano, 1992.57 Cfr. Fig.2. Il sistema di mediazione della cooperativa sociale
Fig. 4 – La mediazione per il lavoro in cooperativa58
Se il ruolo del lavoratore svantaggiato appare il più chiaro, è opportuno
illustrare con maggiore accuratezza la funzione delle altre due figure coinvolte
nello schema triangolare di mediazione59:
- Il tutor aziendale: è un tecnico specializzato nello sviluppo delle attività lavorative
proprie di uno o più settori produttivi della cooperativa ed è colui che svolge il ruolo
di formatore tecnico del lavoratore svantaggiato. Collabora con il tutor (mediatore),
al fine di garantire il buon esito del percorso lavorativo del soggetto inserito.
- Il tutor (mediatore). E’ una delle principali espressioni dell’area
dell’accompagnamento dell’utente all’interno della cooperativa. Ha il compito di
agevolare e stimolare l’inserimento in cooperativa dell’utenza, nonché di progettare
assieme al tutor aziendale il percorso formativo allargandone la portata oltre il mero
svolgimento tecnico della mansione. Egli si fa carico di tutti quei problemi legati
all’avviamento al lavoro della persona svantaggiata e durante la permanenza in
cooperativa.
Appare immediatamente chiaro che uno schema del genere, sia pur affrontando i
principali aspetti dell’inserimento lavorativo, rimanga comunque aperto ad altre tipologie
d’intervento e vada ad integrarsi con l’insieme delle aree gestionali60, aprendo così nuove
opportunità di sviluppo dei singoli progetti personali. In questo senso la cooperativa
58 Lo schema prende spunto dal testo di C. Lepri, E. Montobbio, Op. citata
59 Cfr. Alessandrini G., Manuale per l’esperto nei processi formativi, Carocci, Roma, 2000; Bruscaglioni M., La gestione dei processi nella formazione degli adulti, Franco Angeli Editore, 1997.
60 Cfr. Fig.3 Le cinque aree gestionali della cooperativa.
LAVORATORESVANTAGGIO
TUTOR AZIENDALE
TUTOR (MEDIATORE)
diviene luogo privilegiato in cui sperimentare e sviluppare una progettualità imprenditoriale
e formativa orientata alla creazione di nuove situazioni lavorative, nuovi percorsi di
formazione ed integrazione lavorativa, sia all’interno delle strutture stesse della
cooperativa, che nel mondo del lavoro e delle imprese in generale.
Ancorare la progettualità individuale allo sviluppo delle attività imprenditoriali della
cooperativa, significa tenere il problema dell’integrazione lavorativa all’interno del mondo
del lavoro, ricercando in questo soluzioni e risposte che altri servizi, orientati
maggiormente all’assistenza alla persona, stentano a trovare.
La cooperativa, metà azienda e metà sede di formazione, si propone di operare
all’interno del mercato del lavoro delle aziende, dimostrando con i fatti che l’integrazione
lavorativa di persone con svantaggio non solo è possibile, ma è foriera di valori aggiunti
per l’organizzazione, il lavoro in sé e la clientela. A questo scopo per rendere
perfettamente interfacciabile la formazione professionale con il mercato, si deve concepire
quest’ultimo come una parte della rete sociale in cui svolgere il proprio intervento61.
Facendo del lavoro lo strumento principale di riabilitazione sociale e personale è
inevitabile, dal punto di vista progettuale della cooperativa, rivolgersi ai soggetti coinvolti
nelle attività economiche della cooperativa stessa, promovendo la peculiare funzione di
mediazione che quest’ultima svolge. La mediazione non è più solamente intesa come
attività interna alla situazione di lavoro, ma diviene al tempo stesso contenuto
promozionale inscindibile delle attività produttive svolte dalla cooperativa.62
L’esperienza maturata in ambiti progettuali, appositamente per svolgere funzioni di
mediazione, diviene in quest’ottica patrimonio preziosissimo per la società, per le imprese
e per le persone svantaggiate. E’ sempre più chiaro che il luogo della mediazione non sia
ristretto ai laboratori e ai cantieri della cooperativa, ma debba necessariamente trovare i
canali per raggiungere realtà aziendali più consolidate ed interessate a questo tipo
d’intervento.
Volendo rappresentare graficamente lo schema delle reti relazionali, che definiscono
il circuito all’interno del quale una cooperativa sociale tipo va a collocarsi, otteniamo il
seguente grafico63: 61
Cfr. Quaderni d’Animazione e formazione, L’intervento di rete, concetti e linee d’azione, Collana a cura d’Animazione Sociale Università della strada, Ed. Gruppo Abele.
62
Cfr. Lepri C., Montobbio E., Lavoro e fasce deboli, strategie e metodi per l’inserimento lavorativo di persone con difficoltà cliniche e sociali, Franco Angeli, Milano, 1993.
63 Tale schema prende spunto dalle riflessioni riportate dal progetto della cooperativa sociale “La Bottega”di Torino e ricavabili dal sito della cooperativa stessa, nonché dai testi e riviste:
G.Mancini, G. Sabbatici (a cura di), Op. citataG.Cotronei, Cooperative sociali, Buffetti editore, Roma, 1998 Animazione sociale, mensile per operatori sociali, Gennaio 2001, Gruppo Abele, Torino.
Fig. 5 – La rete di promozione sociale di una cooperativa sociale
Da questo schema si evidenzia che la rete sociale in cui la persona del lavoratore
svantaggiato viene ad inserirsi, è determinata dall’insieme dei soggetti che la cooperativa
coinvolge nelle proprie attività. Va chiarito che la stessa persona svantaggiata,
partecipando alle attività lavorative in modo integrato e continuo, viene a contatto con gli
stessi soggetti, allargando da un lato la propria rete relazionale, e dall’altro testimoniando
direttamente con il proprio lavoro la possibilità dell’integrazione lavorativa.
Specificato questo si evince un ulteriore aspetto, che assume un valore decisivo in
relazione all’integrazione lavorativa, e al transito verso l’inserimento presso altre realtà
Fornitori
Cliente privato/pubblico
Aziende clienti *
Servizi socio – sanitari invianti RETE PER
L’INSERIMENTO
MIRATO E/0 ALTRE
TIPOLOGIE DI
SVANTAGGIO
RETE COMMERCIALE
DI PROMOZIONE
occupazionali al termine del percorso in cooperativa: il rapporto di fiducia incentrato
sull’effettiva capacità di quest’ultima di sviluppare lavoro assieme a persone con disagio di
tipo clinico e/o sociale. Quest’aspetto costituisce uno strumento che in qualche modo
agevola la possibilità, da parte della cooperativa stessa, di operare inserimenti mirati
all’interno d’aziende clienti *, che sono vincolate dalla legge n.68/9964, oppure, laddove
questo vincolo per loro non sussista, promovendo comunque dei tirocini lavoro finalizzati
ad un conseguente contratto d’assunzione65. Tali aziende, come risulta dallo schema, si
trovano in una posizione d’intersezione tra la rete promozionale e quella dell’inserimento
mirato o altre tipologie di svantaggio66. Una simile risorsa costituisce indubbiamente
un’opportunità preziosa per tutte quelle agenzie interessate all’integrazione lavorativa di
soggetti svantaggiati.
E’ importante, infine, approfondire maggiormente l’azione che la cooperativa sviluppa
all’interno di quella che è stata definita come “rete commerciale di promozione”, nella
quale s’intende dare visibilità alle capacità lavorative di persone svantaggiate, e alla
stessa organizzazione cui queste partecipano. L’azione della cooperativa diviene in
quest’ottica essenzialmente un progetto di comunicazione in cui l’integrazione si rivela,
tramite le attività lavorative, non solo dato di fatto tangibile per il cliente, ma anche oggetto
promozionale. Sicuramente la promozione sociale dei lavoratori con svantaggio, senza
alcun riferimento ad attività concrete o senza alcuna testimonianza diretta da parte degli
stessi, rischierebbe d’essere poco credibile, vana e per certi aspetti criticabile. Interpretata
invece come attività complementare ed inscindibile alle attività lavorative e produttive,
sviluppate dai lavoratori svantaggiati assieme agli operatori della cooperativa, essa si
64 Cfr. A. Simontacchi, L’inserimento lavorativo dei disabili, “Salute e territorio”, n° 122/2000, p. 19. Tale legge disciplina l’assunzione nelle aziende dei soggetti con invalidità civile riconosciuta dall’apposita commissione
medica ed iscritti nelle liste speciali di collocamento (categorie protette), gestite dall’Ente Provincia. L’obbligo dell’assunzione dei lavoratori iscritti nelle categorie protette, chiamato inserimento mirato, scatta per tutte quelle aziende sopra i 15 dipendenti. Nello specifico si rimanda al testo di legge oggetto della presente nota, ricavabile anche dal sito internet www.camera.it, all’interno della sezione normativa – leggi 13° e 14° legislatura.
65 Alcune aziende clienti, anche se non rientrano nell’obbligo dell’inserimento mirato, perché di dimensioni più piccole (esempio con numero di dipendenti inferiore alle 15 unità), possono ugualmente essere interessate, in una fase d’aumento della produzione, ad inserire al proprio interno persone svantaggiate , che hanno concluso l’inserimento in cooperativa e che dimostrano delle capacità lavorative.
Cfr. Marocchi G., Integrazione lavorativa, impresa sociale, sviluppo locale, … F.Angeli, 1999.La fase finale, che prevede una fuoriuscita del soggetto svantaggiato e l’inserimento presso un’altra realtà di lavoro, al
termine del percorso lavorativo all’interno della cooperativa, si pone per tutte quelle cooperative che sono strutturate per inserimenti a tempo. L’aspetto riguardante l’inserimento lavorativo, tramite lo strumento del tirocinio lavoro, sarà approfondito maggiormente nel prossimo capitolo.
66 Cfr. Lepri C., Papone G., Alcune considerazioni critiche sullo stato di attuazione della legge 68/99, “Appunti”, n. 5/2000, p.2;
Per inserimento mirato s’intende l’accompagnamento lavorativo di soggetti appartenenti alle categorie protette e pertanto con un’invalidità civile riconosciuta. E’ sembrato pertanto opportuno aggiungere la dizione “altre tipologie di svantaggio”, comprendendo anche quei soggetti con problematiche sociali (tossicodipendenza, problemi giudiziari), non necessariamente quindi con un’invalidità civile, ma ugualmente appartenenti alle fasce deboli del mercato del lavoro.
configura com’essenziale momento di crescita culturale della società civile, del mondo
delle organizzazioni lavorative e del mercato del lavoro nel suo insieme, nonché
espressione di una nuova sensibilità sociale della società nel suo insieme.
La testimonianza offerta dai lavoratori con disabilità clinica o sociale, il loro attivarsi
nel portare a termine il lavoro nel miglior modo possibile, accompagnati in
quest’importante compito dalla figura del tutor aziendale, è il primo strumento di
promozione delle capacità lavorative espresse da questi soggetti.
III.3 Le attività lavorative della cooperativa
Fino a questo punto ci siamo soffermati sugli aspetti dell’intervento sociale e
sulla ripercussione che questi hanno sull’organizzazione di una cooperativa. Ora ci
soffermeremo sull’attività lavorativa che quest’ultima sviluppa al suo interno,
prendendo come riferimento principale quelle realtà che sono rivolte alla
produzione artigianale67, anche se questo non costituisce l’unico settore di lavoro,
infatti in altri casi il lavoro delle cooperative sociali consiste nella fornitura di
servizi, come ad esempio l’attività di pulizia dei locali pubblici, purché sempre
finalizzata all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate.
In questa sezione possiamo descrivere i tratti fondamentali della proposta
formativa, che si offre alle persone svantaggiate inserite, nonché le tipologie
d’interventi possibili.
Ogni settore produttivo è sorretto dalle cinque aree gestionali 68 descritte in
precedenza, e va pertanto considerato come campo in cui si svolge la mediazione
tra: lavoratore svantaggiato, tutor (mediatore) e tutor aziendale. 69
Gli ambiti che s’individuano nelle cooperative sociali, che svolgono attività di
tipo artigianale, si denotano generalmente per due tipi di situazione di lavoro: i
laboratori ed i cantieri.
I laboratori sono ambiti strutturati ed attrezzati nei quali le persone sono
formate allo svolgimento di mansioni specifiche, comprendenti l’utilizzo di
67 Cfr. Marocchi G., Op.citata.68
Cfr. fig. n° 369 Cfr. fig. n° 4
macchinari e compiti lavorativi compatibili con il grado di disagio presentato.
I cantieri si svolgono presso i clienti che richiedono interventi specifici di
manutenzione od altre tipologie di lavoro.
Come situazione lavorativa questa presenterebbe delle ottime possibilità di
promozione sociale della figura del lavoratore svantaggiato, in quanto ne
permetterebbe il contatto con la clientela .
In ogni settore di lavorazione il setting formativo adottato è quello della
formazione “in situazione”70.
Nello specifico è attivata attorno alla persona svantaggiata una rete di risorse
e di professionalità, secondo lo schema cui più volte abbiamo fatto riferimento, in
grado di consentire la progressiva crescita “sul campo” delle potenzialità operative
e relazionali, in una prospettiva d’integrazione sempre più stretta all’interno delle
strutture organizzative della cooperativa.
La formazione “in situazione” si connota d’alcuni aspetti peculiari tali da
rendere difficile, e sotto certi aspetti impossibile, una strutturazione a priori della
formazione stessa, poiché questa si sviluppa adattandosi alle differenti situazioni
lavorative (intese come luoghi in cui svolgere un lavoro), e alle criticità che volta
per volta vengono a presentarsi. Questa caratteristica, che apparentemente rischia
di sconfinare nell’improvvisazione, in realtà ci permette di definire un aspetto
chiave del funzionamento dello schema formativo adottato.
La differenza è tra una formazione occasionale, incentrata sulla casualità
delle occasioni formative, ed una formazione “occasionata”, in cui le situazioni
rientrano in uno schema precedentemente strutturato secondo modalità verificabili,
orientate verso obiettivi definiti in cui i momenti formativi sono strettamente
correlati allo sviluppo effettivo del lavoro e della vita dell’organizzazione stessa 71.
Cercando di chiarire ulteriormente questo concetto possiamo affermare che la
caratteristica fondamentale della formazione “in situazione” è di inserire la persona
con svantaggio in una situazione di lavoro effettivo, partendo dal presupposto di
rendere questa il più possibile protagonista del lavoro, dei suoi aspetti sociali e
d’inserimento, sia all’interno della cooperativa, che del mondo del lavoro in genere.
Tale approccio offre la possibilità di mediare l’esperienza dell’inserimento
lavorativo, tramite progressivi passaggi di un processo che deve configurarsi
70 Cfr. Montobbio E. (a cura di), Handicap e lavoro-La formazione in situazione una forma originale d’addestramento lavorativo per handicappati psichici – La storia – Il metodo – I risultati, Ed. Del Cerro, 1985.
71
Montobbio E. (a cura di), Op. citata.
sempre più come un continum, dalla formazione al collocamento.
La scansione dei differenti passaggi del processo d’integrazione lavorativa si
configura e sviluppa parallelamente alla complicazione della situazione lavorativa
della persona con svantaggio, che progressivamente accresce le proprie abilità, le
reti relazionali ed il bagaglio esperienzale, connesso alla situazione di lavoro.
La formazione “in situazione”, concepita come strumento metodologico di
base dell’inserimento lavorativo, fa dell’inserimento stesso un processo di crescita
e sviluppo della persona svantaggiata, che qualora inserita in cooperativa,
trasferisce queste tendenze allo sviluppo dell’organizzazione, secondo il principio
che l’accrescimento del potenziale operativo d’ogni socio, porta inevitabilmente
all’aumento del potenziale lavorativo della stessa organizzazione 72.
Esiste quindi una relazione stretta tra le capacità di crescita della persona
all’interno della formazione “in situazione” e quella della cooperativa.
In questo aspetto risiede forse la forza della proposta della cooperazione
sociale, intesa come sede ideale della formazione in situazione.
III.4 Come le cooperative sociali generano capitale
sociale.
Il capitale sociale è un concetto che deriva dalle scienze economiche, e in
quest’area disciplinare vuole distinguersi da altri tipi di capitale. Sappiamo, infatti,
come ogni organizzazione produttiva contenga al suo interno il capitale
finanziario, che è costituito dal denaro, un capitale fisso che è dato dagli immobili,
un capitale umano che sono le conoscenze, i saperi, le informazioni, che ciascun
attore organizzativo possiede e mette in gioco nei processi di lavoro 73.
Il capitale sociale è invece il network74 di relazioni di cui un soggetto
individuale (imprenditore o lavoratore) o collettivo (privato e pubblico) dispone.
Attraverso questo capitale di relazioni, si rendono disponibili risorse cognitive,
emotive, strategiche, indispensabili per il raggiungimento d’obiettivi individuali o 72 Gruppo Abele, L’impresa Sociale in Italia, 2002, tratto da http://www.gruppoabele.org/lavoro73 Cfr. Auteri E., Management delle risorse umane, Ed. Angelo Guerini e Associati, 1999, Milano.74 Termine inglese la cui traduzione letterale è rete. In questo caso il termine è da intendersi come rete sociale, Cfr.
Seed P., Op.citata.
collettivi, come sostenere che il capitale sociale permette di conseguire scopi, che
con le nostre sole forze non sarebbero raggiungibili (e forse neanche
concepibili)75.
Capiamo subito come il capitale sociale possa essere inteso in due modi:
come proprietà dei singoli attori o risorsa in loro possesso per meglio perseguire
fini privati, ma anche come dotazione di un contesto, come “attributo della
struttura sociale in cui la persona è inserita”.76
In tutti e due i modi è una risorsa per l’azione sociale. Esso può, infatti,
favorire il cambiamento sociale, nel senso che attraverso l’interazione e lo
sviluppo di nuove forme di cooperazione, un contesto può facilmente aprirsi
all’innovazione.
In questo senso il capitale sociale si connette strettamente alle questioni
dello sviluppo locale, ed è per questo motivo che è entrato a far parte dei discorsi
sulla cooperazione sociale77. In quanto frutto dell’interazione tra soggetti, il
capitale sociale non appartiene ai singoli individui, ma appartiene al network.
Come attributo della struttura sociale in cui la persona è inserita, il capitale
sociale non è proprietà privata di qualcuna delle persone che ne traggono
vantaggi78, ma, a differenza del capitale privato, ha natura di bene pubblico.
Non diversamente da altre forme di capitale, tuttavia, esso ha bisogno
d’investimenti continui.
Il capitale sociale è il risultato di un processo d’interazione dinamico: si crea,
si mantiene e si distrugge. Si alimenta nella misura in cui i diversi attori del
network, mentre ne usufruiscono, si preoccupano di rigenerarlo; si distrugge se si
limitano a consumarlo.
Facciamo l’esempio di essere un network di cooperative sociali che lavorano
all’interno del territorio e scambiano informazioni, conoscenze, risorse, saperi.
La questione dirimente è: mentre usiamo le conoscenze ed i saperi che gli
altri mettono a disposizione nel network, riusciamo a reciprocare, immettendo
75 Cfr. Camarlinghi R. e D’Angela F. (a cura di) (2003), “Quanto è sociale il capitale delle cooperative?”, in Animazione Sociale, n°9.
76
Cit. in AA.VV., Il capitale sociale. Istruzioni per l’uso, Il Mulino,200177 Cfr. Zandonai (a cura di), La creazione d’occupazione a livello locale: il ruolo delle reti del terzo settore, Rapporto
finale, realizzato da Cgm nel 2001 con il sostegno della Commissione Europea – Direzione occupazione e affari sociali.
78 Cfr. Animazione Sociale, Novembre 2002. Mensile per gli operatori sociali, Gruppo Abele, Torino.
anche noi conoscenze e saperi che diventano beni collettivi, patrimonio di tutti,
oppure no? All’interno di un territorio, la cooperazione sociale come si posiziona?
Si posiziona nella direzione di usare il capitale sociale locale oppure in quella
d’incrementarlo?
Il concetto di capitale sociale diventa importante oggi per tre ordini di
ragioni79:
• In un’epoca in cui ci confrontiamo con fenomeni di frammentazione (sociale,
organizzativa), mettere al centro il network vuol dire evidenziare la dimensione
dell’integrazione, della cooperazione e della fiducia reciproca come fattori
essenziali per lo sviluppo locale. Quanto più un contesto è frammentato, infatti,
tanto più il capitale umano degli individui si dissiperà e tanto più la capacità
produttiva di un’azienda s’indebolirà, se è vero che essa deriva anche dal tipo
di network in cui è inserita.
• In un’epoca in cui si constata la scarsità delle risorse, evitare i fenomeni di
spreco, prodotti dal posizionamento individuale – egoistico, diventa centrale
nella costruzione dello sviluppo sostenibile.
• In un‘epoca in cui si ripensano le risorse per garantire un sistema di tutela
sociale e sanitaria, incentivare gli attori sociali a pensarsi nella logica della
produzione di capitale sociale, verso il territorio d’appartenenza, ma anche al
proprio interno, diventa importante: non solo per andare oltre la crisi del
welfare state, ma per dotare i soggetti di fattori di protezione sociale. Anche
con la propria base dei soci una cooperativa può sviluppare capitale sociale e
questo non è una questione secondaria, perché se un lavoratore dentro la
propria impresa non fa esperienza d’apprendimento di costruzione di capitale
sociale, difficilmente riuscirà a riprodurlo nel suo servizio e nei suoi rapporti
interpersonali.
Il concetto di capitale sociale è oggi quindi strategico sia per il contesto socio – economico
– politico, sia nel ripensare la propria prospettiva d’impresa sociale.
Contribuire all’inclusione sociale di soggetti che vivono condizioni
d’emarginazione attraverso una proposta lavorativa, che modifica la condizione
dei soggetti stessi, da assistiti a cittadini attivi, (come nel caso delle cooperative
sociali di produzione e lavoro), genera sicuramente capitale sociale.79 Cfr. Animazione Sociale, Agosto -Settembre 2002. Mensile per gli operatori sociali, Gruppo Abele, Torino.
Le cooperative sociali debbono, allora, assumersi il compito di elaborare un
doppio prodotto: il primo, legato alle prestazioni specifiche richieste dal
committente, ed il secondo, proiettato verso la ricostruzione del tessuto sociale
interno ed esterno all’ambiente di lavoro.
La cooperazione sociale dovrebbe essere in grado, quindi, di contribuire ad
un disegno politico di cambiamento della società che sappia coniugare le
esigenze di mercato e profitto, con gli obiettivi di coesione sociale e
integrazione80.
Il condizionale è d’obbligo, in quanto nella fase attuale si avvertono alcune
problematiche.
Infatti, rispetto all’invadenza di un mercato che tende a fagocitare tutto,
anche il sociale, le cooperative corrono talvolta il rischio di pensare soprattutto ad
autoconservarsi. La stessa tendenza a costituirsi in consorzi, a costruire network,
a tessere alleanze, sembra rispondere più ad una funzione difensiva, che
propulsiva di un’idea81.
Sulla “scia” di quest’atteggiamento alcune cooperative corrono anche il
rischio dell’istituzionalizzazione, in un triplice senso: di aderire alle richieste
custodialistiche che provengono dalla società (il declino dell’ideale riabilitativo si
manifesta anche nelle cooperative d’inserimento lavorativo); d’arroccarsi a
protezione della propria identità; di appiattirsi sul registro del mercato.
In tutti i casi, gli ideali che hanno animato il movimento cooperativo si
spengono: nel primo caso per snaturamento, nel secondo per entropia, nel terzo
per colonizzazione82.
L’istituzionalizzazione è il nemico numero uno del lavoro sociale, in quanto si
traduce molto spesso in una totale chiusura e grado zero dello scambio. Nel
nostro caso significa che il capitale sociale s’impoverisce. La logica
dell’istituzionalizzazione è, infatti, una logica dell’autoreferenza. E’ l’irrigidimento
nei propri confini, l’appiattimento sulla dimensione gestionale, la rinuncia alla
propria specificità83.
80 Cfr. Zalla D., La cooperazione sociale d’inserimento lavorativo e il punto di vista dell’utente, W.P. 16, Issan, 2001, Trento.
81 Cfr. Istituto Tagliacarte, Report settore No profit, Progetto Quasar, 2003, Milano.82 Cfr. Centro Studi CGM (a cura di), Comunità cooperative. Terzo settore sulla cooperazione sociale in Italia,
Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, 2002, Torino.83 Cfr. Forum Permanente Terzo Settore, Le prospettive per l’occupazione e il ruolo del terzo settore,documento per il
Governo, 1999.
Per chiarire: nel momento in cui la legittimazione è cercata
nell’accreditamento presso l’ente pubblico, o attraverso la sub-fornitura di
commesse per l’industria, si può sostenere che le cooperative si stanno movendo
nella logica del capitale sociale?
Oppure: se pur di accaparrarsi l’appalto di una comunità alloggio per minori o
delle commesse di lavoro, che prevedono l’inserimento lavorativo di soggetti
svantaggiati, si accettano logiche al ribasso (per cui si finirà col ridurre il rapporto
numerico tra operatori ed utenti, con ripercussioni sulla qualità del servizio, sulla
possibilità di dialogare con il contesto sociale, di lavorare con la rete dei servizi,
ecc..), si può affermare che questo comportamento produrrà legame sociale?
Sono esempi reali perché presi dalla cronaca, retorici perché contengono in
sé la risposta.
La cooperazione sociale può cambiare restando fedele alla propria storia, se
accetta di tornare a confrontarsi fino in fondo con i cambiamenti intervenuti
all’esterno e se riprende contatto con il mandato sociale, che certo oggi parla più
il lessico della sicurezza, che non quello della socialità.
La cooperazione sociale deve riscoprire che significato può assumere la sua
presenza dentro questo contesto socio – economico e deve farlo insieme ad altri,
in una società che ha molti mezzi di comunicazione, ma è fin troppo povera di
luoghi di discussione.
Il dibattito sulla funzione sociale delle cooperative può apparire vecchio e
può sembrare addirittura ingenuo lo stratagemma di rinominarlo con un linguaggio
aggiornato, quale quello per l'appunto denominato “capitale sociale”. Eppure la
modernizzazione della cooperazione passa di qui: per la ripresa di domande di
fondo, questioni strategiche su cui oggi non c’è investimento 84.
Le cooperative possono generare capitale sociale se riescono, senza
compiere un’azione di demonizzazione, a pensare la catena del valore economico
e quella del valore sociale non “attaccate ad un palo”, ma nel movimento di una
storia che continua.85
84 Cfr. Marocchi G., Integrazione lavorativa, Impresa Sociale, Sviluppo locale, Op. citata.85 Cfr. Magatti – Monaci, L’impresa responsabile, Bollati Boringhieri, 1999.
Capitolo IV
INSERIMENTO LAVORATIVO DI SOGGETTI
SVANTAGGIATI: L’ESPERIENZA RIEDUCATIVA DEI
LABORATORI FORMATIVI, DEGLI STAGE E DEI
TIROCINI LAVORO
IV.1 L’esperienza rieducativa del laboratorio pre-
lavorativo
Fig.6 – Schema delle fasi del percorso all’interno del laboratorio pre- lavorativo
Il percorso formativo all’interno del laboratorio pre-lavorativo nasce con la
finalità di offrire a persone caratterizzate da vari tipi di problematiche, cliniche o
sociali, la possibilità di sperimentarsi in un’esperienza lavorativa semi – protetta, in
vista di un futuro inserimento nel mondo del lavoro. Scopo ultimo è quello di
ricreare all’interno di questa struttura le condizioni più simili alla normale realtà
lavorativa, permettendo di far sentire l’utente il più utile possibile, e favorendone
un suo potenziale reinserimento all’interno del mercato del lavoro. Il tentativo è
pertanto quello di offrire uno spazio di lavoro diverso, che tuttavia sappia misurarsi
con le esigenze reali di produzione e di vendita. Solo così, infatti, sembra sia
possibile conciliare l’attenzione delle persone con l’esigenza di non emarginarle
ulteriormente86.
Le attività di lavoro, così come all’interno della cooperativa sociale, si
sviluppano proponendosi alcune qualità87: realizzare una pratica diversa nel
lavorare affermando il valore del lavoro come modo d’espressione e di
realizzazione personale; formare un’abitudine al lavoro rifiutando però una
mentalità che vede le persone adattarsi passivamente; affermare la validità della
condizione delle responsabilità in un impegno qualificato 88.
Il momento formativo, non costituendo un intervento in termini
assistenzialistici, è caratterizzato da un’attenzione al metodo d’apprendimento, che
parte dalla pratica e vuole confrontarsi fin dall’inizio con i problemi reali del
contesto sociale ed economico in cui si colloca89.86 Cfr. Sanavio G., L'inserimento lavorativo dei disabili: condizioni e strumenti, Fondazione Zancan, Padova 1990.87 Cfr. AA.VV., Gli strumenti e metodi che consentono alla persona disabile un inserimento graduale e mirato in un
contesto produttivo, Fondazione Zancan, Padova 1991.
88 Cfr. Marocchi G., Integrazione lavorativa, impresa sociale, sviluppo locale,..Ed. F.Angeli, 1999.89 Cfr. Donvito P., L'evoluzione dell'organizzazione del mercato del lavoro, con specifico riferimento agli interventi
Segnalazione soggetto svantaggiatoda parte dell’Ente
Colloqui con il tutor dell’agenzia formativa
Attività di Aula Laboratorio
Stage formativo
Gli obiettivi specifici90 dell’intervento sono:
e) Favorire nelle persone destinatarie del servizio l’apprendimento del concetto
“lavoro” a livello sia cognitivo che pratico91:
- Permettendo l’acquisizione e lo sviluppo delle capacità nel
rispettare l’orario e l’organizzazione del lavoro (incarichi,
riordino dei propri spazi, ecc..);
- Promovendo l’importanza della continuità produttiva e del
completamento del lavoro;
- Favorendo l’acquisizione della maturazione al lavoro e della
capacità di prendere decisioni, di avere iniziativa e di
organizzarsi;
- Sviluppando la consapevolezza delle responsabilità in ambito
lavorativo;
- Permettendo l’acquisizione e lo sviluppo delle capacità di
lavorare in gruppo e di rapportarsi con colleghi e “superiori”;
- Facilitando l’interiorizzazione della relazione tra retribuzione e
lavoro.
f) Potenziare le risorse delle persone destinatarie del servizio a livello sia intra -
individuale che interpersonale92:
- Aumentando l’autostima ed il senso di competenza;
- Favorendo la scoperta in sé di un interesse e di un’attitudine
specifici;
- Aumentando le abilità sociali e relazionali.
Le modalità con le quali si articola l’azione formativa è evidenziata dalla
successione d’alcune fasi realizzative del progetto, che sono illustrate di seguito 93.
Le persone alle quali è rivolto il servizio possono essere inviati da vari Enti
istituzionali, secondo il loro tipo di svantaggio: esempio il Ministero di Grazia e possibili per le fasce deboli, Fondazione Zancan, Padova 1990.
Cfr. Montobbio E. (a cura di), Handicap e lavoro – La formazione in situazione una forma originale d’addestramento lavorativo per handicappati psichici – La storia – Il Metodo –I risultati, Ed. Del Cerro, 1985.
90 Gli obiettivi elencati di seguito sono gli stessi che si cerca di perseguire durante il percorso lavorativo della persona svantaggiata all’interno dell’ambito di lavoro della cooperativa sociale, così come illustrato nel terzo capitolo.
91 Cfr. AA.VV., Ricerca dei modi sempre più efficaci di avvicinare fino all’integrazione le parti coinvolte nell'inserimento dei disabili,Fondazione Zancan, Padova 1991.
92 Cfr. Cottoni G., Riflessioni sull'importanza della competenza relazionale comunicativa e psico-pedagogica nell'inserimento lavorativo, Fondazione Zancan, Padova 1989.
93 Cfr. Monterisi G. (a cura di), il laboratorio protetto, A.A.I., Roma 1971.
Giustizia attraverso le assistenti sociali del CSSA (Centro servizi sociali per adulti),
il SERT (Servizio per le tossicodipendenze), nonché i Servizi sociali del Comune
del territorio e delle ASL.
Inizialmente è concordato un incontro tra il referente dell’Ente inviante ed il
tutor che gestirà il progetto del laboratorio pre - lavorativo, al fine di raccogliere
informazioni relative alle caratteristiche socio-anagrafiche e l’eventuale stato di
svantaggio o di handicap della persona, così da stilare una scheda di pre –
ingresso. Tale incontro è reso necessario anche allo scopo di valutare in che
modo l’inserimento all’interno del laboratorio pre – lavorativo s’integri in un
processo più globale di cura, riabilitazione ed inserimento sociale 94.
In una fase successiva sono concordati più incontri diretti di conoscenza tra il
tutor e il potenziale allievo, durante i quali in particolare l’attenzione sarà rivolta
nell’osservare quale percezione ha quest’ultimo sul tema lavoro e quali sono le
sue motivazioni ad affrontarlo: quali aspettative e bisogni lo muovono
all’esperienza pre-lavorativa e quali significati sono da lui attribuiti ad una sua
eventuale occupazione.95.
In una terza fase, dopo che il tutor ha verificato le motivazioni reali dell’utente
e ritenute idonee con il tipo di percorso formativo proposto, il soggetto è
effettivamente iscritto ed inserito all’interno del corso 96.
Le attività pratiche che si svolgono all’interno del laboratorio possono essere
varie, perlopiù, come accennato in precedenza, ricadono nel settore di lavoro di
tipo artigianale. Anche in quest’ambito d’intervento, come per l’inserimento
lavorativo di soggetti svantaggiati all’interno della cooperativa, è prevista la
presenza di un’equipe professionale di supporto, composta da 97:
- Un responsabile tecnico per le attività pratiche di laboratorio (docente);
- Un tutor con funzione di preparazione, supporto e supervisione degli
allievi, allo scopo di accompagnarli nell’apprendimento cognitivo e
pratico del lavoro, di sostenerli a livello informativo ed emotivo, nonché
di sostenerli nell’eventuale difficoltà conoscitiva e/o relazionale;
94 Cfr. AA.VV., Orientare educando, LAS, 1981.95
Cfr. Mucchielli R., Manuale d’autoformazione al colloquio d’aiuto,Ed. Erikson, Trento 1993. 96 Cfr. Cottoni G., Cenni generali sulla valutazione nell'inserimento lavorativo dei disabili, Fondazione Zancan,
Padova 1991.97 Cfr. Bocca G., Pedagogia e lavoro tra educazione permanente e professionalità, Franco Angeli, Milano, 1992.
- Un coordinatore dell’intera attività, con il quale sia il tutor sia il docente
si rapportano per ricevere le eventuali azioni correttive d’attuare.
Per la valutazione dell’intervento98, il tutor si avvale d’alcuni strumenti di
verifica che sono:
- Un diario giornaliero finalizzato alla registrazione delle presenze degli
allievi, nonché all’eventuale annotazione del tutor su alcuni aspetti
inerenti al comportamento dimostrato dagli utenti;
- Una scheda d’osservazione e valutazione delle abilità lavorative per
ogni soggetto inserito, (comprendendo sia le capacità cognitive, sia
quelle relazionali, sia quelle realizzative), compilata dal tutor all’inizio
del corso, in itinere e al termine dell’esperienza.
Inoltre il tutor svolge con i soggetti inseriti degli incontri specifici finalizzati
all’individuazione, verifica e valutazione sui progetti individuali d’inserimento.
Attraverso dei colloqui l’operatore cerca di conoscere le impressioni, le riflessioni,
il livello di soddisfazione o le difficoltà riscontrate dall’utente, prevedendo anche
delle azioni correttive, qualora si rilevassero delle incongruenze tra gli obiettivi
fissati dal progetto individuale d’inserimento stesso, e l’andamento effettivo del
soggetto inserito.
Nell’incontro di verifica finale l’intera equipe (docente, tutor, coordinatore),
relativamente all’andamento tenuto dai singoli allievi durante il percorso formativo
dell’aula laboratorio, esprime alcune linee d’indirizzo 99:
• Un inserimento in un contesto lavorativo esterno (stage), finalizzato ad
una possibile assunzione e proseguendo nell’azione di monitoraggio e
accompagnamento del tutor;
• Un inserimento in stage in un contesto lavorativo esterno protetto, quale
quello in una cooperativa sociale, per affinare le capacità professionali
e di tipo trasversale acquisite durante l’esperienza dell’aula laboratorio,
ma risultanti ancora insufficienti per affrontare un normale contesto di
lavoro;
98 Cfr.Felisatti, E., (a cura di), Modelli progettuali e valutativi per l'intervento didattico, , CLEUP, Padova 2005.99
Cfr. Baudino R. – Nicolotti V. (a cura di), Lo sviluppo e la gestione degli interventi formativi,Ed. Armando,1992.
• Un ulteriore periodo di permanenza nel laboratorio pre-lavortivo: si
elaborerà un nuovo progetto individuale considerando i risultati ottenuti
e le eventuali modifiche da apportare per gli obiettivi non ancora
raggiunti;
• L’invio e l’accompagnamento del soggetto verso altri tipi di servizi
sanitari per ulteriori nuove problematiche rilevate durante il periodo
d’inserimento in laboratorio, che rendono incompatibile la collocazione
del soggetto presso realtà esterne di lavoro, e/o il rinvio dell’utente
stesso verso il Servizio pubblico che lo aveva inizialmente segnalato. Il
tutor fornirà una relazione sull’esperienza pre - lavorativa della persona,
in particolare relativamente agli aspetti che hanno portato a ritenere il
soggetto non ancora pronto ad affrontare il mondo del lavoro.
La durata dell’esperienza pre – lavorativa delle persone inserite può variare a
seconda dei vari percorsi formativi, sia per il tipo d’attività proposte, sia in
relazione alla tipologia dello svantaggio dei soggetti coinvolti. Mediamente la
durata di questi percorsi, in relazione anche al tipo di disponibilità economica del
progetto, può variare dai tre ai sei mesi100.
IV.2 Lo stage e i tirocini formativi nella formazione
professionale.
I cosiddetti stage all’interno della formazione professionale costituiscono uno
dei più consolidati strumenti di contatto tra l’apprendimento in aula – laboratorio e
l’apprendimento nelle situazioni lavorative. La loro storia risale alla sistemazione
della cosiddetta Legge quadro sulla formazione professionale 101 e precedono di
parecchi anni l’istituzione dei tirocini e dei piani d’inserimento. Nello stage della
formazione professionale è escluso, per definizione, il rapporto di lavoro 100 Cfr. Cedefop, I sistemi di formazione professionale in Italia, Ceca – Ce-Ceea, Bruxelles,1994.101 Cfr. legge n° 845 del 1978.
dell’allievo: esso consiste, infatti, in un periodo più o meno lungo nel quale gli
utenti di un corso di formazione professionale, individualmente o suddivisi in
gruppi, sono inseriti in una o più imprese del settore pertinente alle competenze
professionali apprese, per svolgere compiti di norma sintonizzati su di esse.
(Questo non esclude però la possibilità che dopo un congruo periodo
d’inserimento in stage, l’inserimento non possa tramutare in un vero e proprio
contratto d’assunzione, e che quindi anche lo strumento dello stage stesso non
possa essere adoperato con questa finalità, come ho cercato d’illustrare nei
precedenti paragrafi). Nel senso comune diffuso l’obiettivo dello stage sarebbe la
messa in pratica, la verifica, la validazione e l’arricchimento delle competenze
apprese precedentemente in aula a livello teorico.
Nella riflessione scientifica, il lungo processo d’attivazione e consolidamento
di questo modello, ha dato agli studiosi l’occasione per problematizzare molto la
definizione di stage usata nell’ambito del senso comune, non solo relativamente
ad un approfondimento di quello che avviene nel corso di queste esperienze, ma
ancor più di quello che dovrebbe avvenire 102. Nella realtà le prassi degli stage, ai
diversi livelli regionali, sono state molteplici, e non hanno corrisposto ad un
modello omogeneo che ne definisse le modalità attuative simili a quello che
caratterizza oggi, ad esempio, il dispositivo dei tirocini di formazione ed
orientamento103. In tale assenza di riferimenti e vincoli univoci, la funzione dello
stage è stata, nel corso degli anni ed a seconda delle diverse situazioni regionali,
interpretata e soprattutto declinata in una ricchissima fenomenologia di prassi 104:
1. “Stage conoscitivo”, attraverso cui un individuo comprende,
direttamente nella realtà lavorativa completa, il ruolo al quale è formato,
grazie a momenti d’osservazione di processi organizzativi, che
presuppongono l’accesso a fonti informative ed il sostegno di un tutor.
2. “Stage applicativo”, un evento formativo attraverso cui un individuo
sperimenta od agisce nella realtà lavorativa concreta il ruolo al quale è
102 Cfr.Ghiotto G., Le competenze per la transizione al lavoro, in "Professionalità", n. 38, 1997, pagine XXIX-XXXI.103 Cfr.QUAGLINO G.P., Fare formazione, Bologna, Il Mulino, 1985104
Cfr. Callini e Montaguti, Lo stage: Modelli e strumenti per la formazione, IAL Emilia Romagna, Efeso, 1995, pagg. 19 – 20.
formato, tramite l’applicazione, la verifica ed il consolidamento di
conoscenze, abilità ed atteggiamenti precedentemente acquisiti
all’interno della struttura formativa.
3. “Stage orientativo”, sottospecie dello stage cognitivo, un evento
formativo attraverso cui l’individuo ha modo di comprendere le
caratteristiche fondamentali dell’attività facente capo ad uno o più
ambiti professionali, con il fine di facilitare la scelta di percorsi di
carriera.
4. “Stage di pre – inserimento”, sottospecie dello stage applicativo, che
ha doppia valenza: da un lato formativa – applicativa, dall’altro di
sostegno ad un vero e proprio inserimento lavorativo futuro in una data
precisa realtà organizzativa.
La tipizzazione proposta è da utilizzarsi in maniera flessibile e non esclude la
presenza d’altre forme in qualche modo “miste”, che si manifestano nel concreto
operare degli enti e dei centri di formazione distribuiti sul territorio nazionale.
Generalmente, la seconda e la quarta tipologia di stage elencati sopra, meglio si
prestano all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate con disagio di tipo
clinico o sociale, in quanto in gran parte dei casi tali soggetti si
contraddistinguono per un basso livello di scolarizzazione e con un bisogno
economico immediato. Questi due elementi giustificano pertanto una dimensione
formativa professionale in cui sia prevalente l’azione del “fare”, nella quale si
apprende facendo e che sia finalizzata ad un effettivo inserimento lavorativo nel
contesto aziendale, in modo da garantire loro un ritorno economico quasi
immediato per le attività svolte. Lo stage nella formazione professionale ha
costituito in molti casi e modelli regionali un importante strumento di raccordo tra
la formazione professionale e le imprese, ed uno strumento essenziale per la
finalizzazione occupazionale delle attività formative.
La mancanza di un modello operativo omogeneo o di standard condivisi per
programmare e realizzare gli stage, ha prodotto una differenziazione delle prassi
accomunate genericamente sotto la nozione stessa di stage. Quantunque la
modalità più diffusa permanga quella dell’inserimento in impresa di corsisti per
periodi definiti, sotto la supervisione di un tutor, tuttavia sono state considerate
concorrenti all’assolvimento degli obblighi previsti anche attività di visita guidata,
partecipazione a mostre e fiere campionarie, attività esterne all’aula di ricerca
intervento, ecc..
In numerosi casi, comunque, lo stage è posizionato a conclusione del
progetto formativo come verifica e validazione delle competenze apprese in aula e
pertanto senza funzione di retro – azione sulla didattica stessa in itinere 105. Il
modello pedagogico sotteso da quest’impostazione è quello rigidamente
sequenziale (prima la teoria, poi la prassi), che non prevede una riflessione
sull’esperienza pratica come argomento di ri – definizione e ri – orientamento
dell’esperienza teorica.
Da un punto di vista sostanziale il tirocinio si affianca all’istituto dello stage
nella formazione professionale e, rispetto ad esso, ha la proprietà di poter essere
allestito ed utilizzato anche al di fuori di un percorso strutturato di formazione del
quale lo stage costituisce una parte o un modulo didattico.
L’intento è:
- Nel caso del tirocinio formativo, offrire ai soggetti destinatari la possibilità di
trascorrere periodi definiti di lavoro e formazione all’interno delle imprese, allo
scopo di accrescere le loro competenze professionali ed innestare, sullo
zoccolo dei saperi prevalentemente teorici posseduti, il valore aggiunto di
saperi tecnico – professionali e trasversali, attraverso la collocazione in un
preciso segmento produttivo e l’esercizio d’attività pienamente partecipi della
produzione stessa dell’impresa;106
- Nel caso del tirocinio d’orientamento, offrire ai soggetti coinvolti, sempre
attraverso una partecipazione quantunque più modesta e meno coinvolta nei
processi di lavoro, una panoramica delle funzioni presenti in un’impresa ed
una prima percezione del clima aziendale complessivo, allo scopo di favorire
105 REALE G.G., Il percorso d’orientamento professionale per disabili G.O.A.L. (Gruppo d’Orientamento Al Lavoro): una riflessione sull'esperienza, in "Quaderni CROSS", ISU Università Cattolica Milano, n. 6, 2001, pagine 141-159.
106
Tale tipologia di tirocinio è quella che più s’addice nel caso dei soggetti svantaggiati, per le implicazioni e necessità illustrate nelle sezioni precedenti.
scelte successive di formazione o di lavoro più consapevoli.
Il dispositivo dei tirocini formativi e d’orientamento 107 e la sempre maggiore
diffusione di tale metodologia ha negli ultimi anni consentito un graduale
incremento del livello d’integrazione fra il sistema scolastico ed il sistema
produttivo, riducendo così il divario fra il tempo della formazione e il tempo del
lavoro, favorendo la creazione di percorsi “guidati” d’ingresso nel mondo del
lavoro delle persone in cerca di un’occupazione, ed in particolare delle cosiddette
fasce deboli108. La realtà lavorativa, infatti, come ampiamente illustrato anche nei
capitoli precedenti, può assolvere a tre funzioni:
- Rappresenta uno spazio ideale per l’acquisizione e lo sviluppo delle
conoscenze di base, delle abilità tecnico – professionali e delle
competenze trasversali;
- Stimola il confronto e lo scambio d’esperienze e di conoscenze;
- Rappresenta un luogo di verifica e di monitoraggio della qualità e della
pertinenza delle competenze professionali e contribuisce a rielaborare i
contenuti in funzione delle difficoltà da risolvere e delle decisioni da
prendere.
Più in particolare il dispositivo dei tirocini formativi e d’orientamento può
essere così sintetizzato109:
a) I percorsi di tirocinio sono promossi dall’Agenzie per L’Impiego (Enti
strumentali delle Regioni), dai Centri per l’Impiego, dalle Scuole, Università e
Provveditorati, dagli Enti di Formazione Professionale e d’Orientamento, dalle
Comunità Terapeutiche, dalle Cooperative Sociali e dai Servizi d’Inserimento
per disabili, in favore di soggetti inoccupati e disoccupati, senza limiti d’età,
107 Cfr. legge n° 186 del 24/6/97 che all’art. 18 tratta proprio dei tirocini formativi e d’orientamento. Tali principi sono stati successivamente tradotti in norma operativa dal Decreto del Ministero del Lavoro n° 142 del 25/03/98.
108 Cfr. Giugni G., Pedagogia dell'orientamento scolastico e professionale, in "Orientamento Scolastico e Professionale", n. 1-2, 1987, pagine 11-52.
109
Cfr. Arkel D. (a cura di), Introduzione al modello per l’inserimento lavorativo di soggetti deboli, Ed. dall’Agenzia Liguria lavoro – Unità Operativa Fasce Deboli.
che abbiano assolto l’obbligo scolastico;
b) Preso atto dell’interesse dei potenziali utenti e della disponibilità delle
imprese, i promotori realizzano una convenzione e stilano un progetto
formativo con i datori di lavoro pubblici e privati, la trasmettono agli organi
ispettivi competenti, nonché alle parti sociali, e nominano un tutor
responsabile della didattica e dell’organizzazione delle attività;
c) Le imprese accolgono i tirocinanti e designano un responsabile aziendale con
funzioni di tutoring. Nel caso che il proponente sia un’agenzia del lavoro od un
ufficio del lavoro, le imprese assumono gli oneri assicurativi (che nei casi
restanti sono a carico dei soggetti proponenti), favoriscono l’esperienza del
tirocinante e possono rilasciare un attestato che certifica le competenze
acquisite;
d) Il tirocinio è prestato a titolo gratuito110 e la durata massima varia111:
• Dai quattro mesi, per gli studenti della scuola secondaria superiore;
• Ai sei mesi, per gli allievi degli Istituti Professionali e della
Formazione Professionale, e gli studenti frequentanti corsi post - diploma o
post - laurea;
• Ai 12 mesi, per gli studenti universitari e soggetti svantaggiati;
• Ai 24 mesi, per i portatori di Handicap.
Riassumendo gli attori del processo individuati dalla normativa sono: il
soggetto promotore, il tirocinante, l’azienda o realtà produttiva, il tutor dell’Ente
promotore ed il tutor aziendale. Sembra opportuno al riguardo chiarire alcuni
aspetti riguardanti quest’ultimi due attori.
110 Nel caso specifico d’inserimento in tirocinio lavoro di soggetti svantaggiati, com’è facilmente comprensibile per chi vive situazioni d’emarginazione sociale, è invece opportuno, per esigenze soggettive e per incentivare l’aspetto motivazionale, prevedere qualche forma di compenso economico per le ore effettivamente svolte.
111 Fonte Decreto del Ministero del Lavoro n° 142 del 25/03/1998.
Il tutor del soggetto promotore112 è un operatore dei servizi incaricato dal
soggetto promotore di accompagnare il tirocinante durante l’esperienza
d’apprendimento in azienda ed è il garante del raggiungimento degli obiettivi
formativi. Il tutor, che accompagna il soggetto durante l’inserimento, è una sorta di
facilitatore dell’esperienza formativa orientativa sul lavoro e non soltanto un
mediatore fra la persona e l’azienda. Per tale motivo assicura un costante
monitoraggio delle attività svolte collaborando con il tutor aziendale affinché
l’inserimento rispetti i contenuti del progetto formativo. La riuscita del tirocinio,
nonché la sua credibilità, si misurano da com’è svolto il monitoraggio
dell’esperienza in atto. Il ruolo del tutor è centrato sostanzialmente sulle seguenti
azioni: sviluppare le capacità decisionali del soggetto, favorire l’interscambio tra
saperi teorici appresi e capacità pratiche, facilitare lo sviluppo di competenze
nella situazione lavorativa, aiutare la persona nella costruzione di un’identità socio
– professionale, nonché sostenere la persona nella socializzazione all’interno del
contesto lavorativo. I compiti del tutor del soggetto promotore sono quelli di
effettuare dei colloqui d’accoglienza e di monitoraggio con il tirocinante al fine di
assicurarsi che il tirocinio corrisponda alle sue aspettative e lo faciliti nel
conseguimento dei propri obiettivi. (Standard minimo: occorre garantire, oltre al
colloquio d’accoglienza, almeno altri tre momenti relazionali con il tirocinante:uno
prima dell’avvio propedeutico all’inserimento, uno durante lo svolgimento del
tirocinio, monitoraggio in itinere, e uno al termine dello stesso, verifica e
valutazione). Inoltre nell’attività di monitoraggio, oltre a verificare lo svolgimento
del compito, il tutor rileva eventuali problematiche e si attiva per dare risposte
efficaci, valorizza i successi conseguiti, ed interviene prontamente qualora
riscontri irregolarità od una non coerenza tra le aspettative e il progetto
professionale del tirocinante, con l’esperienza che egli sta conducendo in azienda.
Inoltre il tutor cura la stesura del progetto formativo in collaborazione con il tutor
aziendale, individuando gli obiettivi, le conoscenze e le competenze necessarie in
ingresso, nonché le conoscenze, competenze, strumenti e metodologie che
dovranno essere acquisite dall’allievo, andando a definire anche nello specifico i
compiti che dovrà svolgere ed i risultati che si attenderanno da tale intervento
formativo. A questa figura spetta anche il compito di curare, eventualmente in
collaborazione con i colleghi od operatori del servizio promotore, la stesura e la
trasmissione delle convenzioni (allegando copia del progetto 112 Tale figura professionale è equiparabile a quella dell’operatore sociale all’interno dell’ambito di lavoro della
cooperativa sociale.
formativo/orientativo), agli organi individuati dal D.M. n° 142/98. Infine Il tutor
relaziona in itinere e al termine del tirocinio all’Ente promotore o ai soggetti
promotori, circa l’andamento ed i risultati del tirocinio, nonché valuta e verifica i
risultati attesi con i risultati ottenuti.
Il Tutor Aziendale113(responsabile del reparto o altro dipendente in organico)
è colui che accoglie il tirocinante, favorisce l’inserimento e l’intero percorso
d’apprendimento sul luogo di lavoro. Deve essere individuato prima che il
tirocinante arrivi in azienda, scelto fra i lavoratori in organico in possesso di una
significativa esperienza professionale, disponibile a seguire stabilmente e fino al
termine dello stage il tirocinante, al fine di tradurre in compiti gradualmente più
complessi gli obiettivi del progetto formativo (sviluppo delle competenze sociali,
professionali e dell’autonomia lavorativa). Infine collabora ed intrattiene rapporti
con il tutor disegnato dal progetto promotore, sia nella fase di progettazione e
programmazione, sia durante l’esperienza in azienda. Il ruolo del tutor aziendale è
centrato pertanto nelle seguenti funzioni:
- Informativa: vale a dire il tirocinante deve essere informato circa norme,
consuetudini e regole informali, che vengano rispettate dall’organizzazione
aziendale;
- Integrativa: vale a dire il tutor aziendale deve facilitare l’integrazione nel
contesto aziendale ponendo attenzione agli aspetti di relazione e di
socializzazione;
- Sostegno all’apprendimento: vale a dire facilitare lo sviluppo delle conoscenze
e delle competenze richieste dal ruolo professionale ricoperto;
113 Tale figura è equiparabile al responsabile che accompagna il soggetto svantaggiato durante l’intero processo produttivo all’interno dell’ambito di lavoro della cooperativa, al fine di trasmettergli gradualmente le competenze professionali del settore di lavoro specifico.
IV.3 Congruenza tra competenza sociale e richiesta
dell’ambiente di lavoro. Strumenti di rilevazione e
metodologia d’intervento.
I soggetti deboli (persone con ritardo mentale, problemi psichiatrici, forme
varie di disadattamento sociale), che cercano un impiego in un qualsiasi ambiente
di lavoro, devono essere in grado di soddisfare non soltanto le richieste di buona
esecuzione del lavoro medesimo, ma anche un certo numero d’aspettative di
competenza interpersonale, che qualsiasi ambiente di lavoro nutre nei confronti
delle persone occupate. Purtroppo, la gran parte dei soggetti deboli spesso
delude le aspettative del minimo di competenza interpersonale e d’adeguatezza
comportamentale richiesto all’interno di un ambiente di lavoro (ad esempio,
interagire con i superiori ed i colleghi, conformarsi alle regole formali ed informali
dell’ambiente di lavoro e così via).
Alcuni ricercatori114sostengono che l’adattamento soddisfacente di un
lavoratore ad un qualunque ambiente di lavoro, dipende meno dalle caratteristiche
individuali e molto di più dalla relazione tra gli attributi della persona e le richieste
dell’ambiente di lavoro, e cioè dalla congruenza tra persona ed ambiente.
Nell’analizzare sistematicamente la congruenza tra lavoratore ed impiego è
importante allora programmare interventi appropriati, che riducano la discrepanza
tra le abilità sociali di un lavoratore e le competenze interpersonali cruciali
richieste nell’ambiente di lavoro.
Per competenza sociale s’intende un giudizio di valore, espresso da un
superiore o da un collega, o qualunque operatore sociale, tutor, sull’efficacia del
comportamento di un individuo in uno specifico ambito di relazioni.
Le abilità sociali, d’altro canto, sono i comportamenti interattivi e relazionali
che consentono ad un individuo d’agire in una maniera che viene giudicata
socialmente competente da un osservatore.
I giudizi di competenza sociale (o interpersonale) sono influenzati dalla
natura del compito che i lavoratori devono svolgere, dal contesto sociale in cui la
114 Cfr. C. Calkins, H. Walzer, L’adattamento all’ambiente di lavoro nei soggetti deboli –interventi psicoeducativi di supporto, Ediz. Erickson, 1996
competenza trova espressione e dalle caratteristiche personali dell’individuo che
viene valutato.
Un modo opportuno di considerare il problema della rispondenza del
lavoratore inserito, rispetto alle richieste ed aspettative dell’azienda di lavoro, è
porsi la seguente domanda: con quali risultati il soggetto si adatta ed aderisce alle
richieste d’abilità comportamentali, personali e sociali ritenute importanti
nell’ambiente di lavoro? Formulando altrimenti, quanto sono adeguate le
interazioni di un individuo con i superiori e i colleghi sia nel contesto dell’eseguire
mansioni lavorative, sia in quello di stabilire rapporti con altre persone
nell’ambiente di lavoro?
I primi passi da muovere per aiutare i soggetti deboli a rispondere in modo
proficuo alle richieste di competenza sociale legate al lavoro sono:
1) Valutare le competenze sociali attuali delle persone inserite;
2) Valutare le richieste di competenza sociale dell’eventuale ambiente
di lavoro in cui un inserimento può essere effettuato.
Una volta acquisite queste informazioni, l’operatore è in grado di
determinare il grado in cui le competenze sociali manifestate da un dato individuo
siano in linea con le richieste di uno specifico ambiente di lavoro. Per esempio, un
individuo potrebbe possedere l’abilità di interagire appropriatamente con i colleghi
e i superiori, ma il posto preso in considerazione (per esempio, quello di custode
notturno, che si svolge in assoluta solitudine), potrebbe non richiedere la
presenza di quella particolare abilità o fornirebbe opportunità estremamente
limitate per manifestarla. In alternativa un soggetto potrebbe manifestare una
carenza come quella di essere pulito e vestito in modo ordinato e trovarsi in un
ambiente di lavoro in cui tali requisiti risultino necessari, (per esempio, un
ristorante o un bar). In questo modo l’operatore può facilmente rendersi conto che
un buon grado di congruenza tra un particolare individuo ed un particolare lavoro
può contribuire in modo decisivo a migliorare l’adattamento di quella persona
all’ambiente di lavoro e ad aumentare le probabilità che il suo impiego dia buoni
risultati.
Ogni lavoratore deve essere in grado di seguire le regole, stabilite dalla
direzione e applicate dallo staff dei superiori, che riflettono le politiche relative al
personale e le procedure operative dell’azienda.
I lavoratori devono essere capaci di seguire le istruzioni relative
all’esecuzione dei propri compiti impartite loro dai superiori o dai colleghi. Devono
anche essere in grado di accettare il feedback115 dei superiori, in particolare le
critiche relative all’esecuzione di un lavoro, senza arrabbiarsi. I lavoratori devono
riuscire a fare domande relative all’attuazione delle procedure relative al lavoro
quando sono incerti sul comportamento auspicato, perché non sono informati su
un particolare aspetto del lavoro o perché necessitano d’ulteriori istruzioni.
L’igiene personale e un abbigliamento adeguato sono sempre richiesti, così
come la capacità di rendere noti i bisogni personali, (facendo domande,
dichiarando le proprie necessità, ecc..).
I lavoratori devono iniziare puntualmente ogni giorno. Ritardi o assenze
occasionali avranno come conseguenza dei rimproveri verbali. Ritardi frequenti o
un atteggiamento assenteista avranno come conseguenza richiami scritti da parte
dei superiori, e nel caso il comportamento non migliori, potranno sfociare in
un’ulteriore azione disciplinare. Educazione, cortesia e appropriate abilità sociali
sono auspicate ed incoraggiate in tutte le interazioni con superiori e colleghi, sia
nelle situazioni formali (per esempio nelle riunioni del personale, sia in quelle
informali, come la pausa per il caffè). Piagnucolare, lamentarsi, criticare
sistematicamente o rifiutarsi di cooperare sono comportamenti inaccettabili. Ogni
sorta di comportamento aggressivo verso se stessi o altri (sia colleghi sia
superiori), non sarà tollerato e avrà come conseguenza la conclusione del
rapporto di lavoro. Anche distruggere, deturpare o rubare qualcosa che
appartenga all’azienda (o ad altri lavoratori), risulterà inaccettabile e significherà
la risoluzione del rapporto di lavoro.
Per rilevare appropriati interventi educativi di supporto (per esempio, una
formazione specifica sulle abilità sociali o sulle procedure di gestione di
comportamento), rivolti all’inserito che sta manifestando problemi di competenza
sociale sul suo attuale posto di lavoro, diventa indispensabile, come strumento di
115 Feedback Termine inglese, derivato dalla cibernetica e ampiamente diffuso anche in psicologia e nelle altre scienze
umane, usato per indicare l'informazione che l'allievo riceve dal docente o dal sistema informatico in conseguenza di una sua azione. Il feedback, immediato o dilazionato nel tempo, consente al discente di conoscere i risultati di volta in volta conseguiti e, pertanto, di migliorare le sue prestazioni.
rilevazione, lo strumento del protocollo di congruenza. Tale protocollo, articolato in
16 item116, trae origine da uno studio preliminare condotto in America su uno
strumento che comprendeva 18 item e che venne spedito nel Marzo 1987 ad una
serie di figure professionali, che rivestivano ruoli di primo piano nell’ambito
dell’inserimento lavorativo di persone con difficoltà (specialisti dell’inserimento,
assistenti sociali, psicologi, ricercatori, datori di lavoro). Gli item vennero
selezionati sulla base della letteratura relativa alle ricerche più recenti sui fattori
connessi alla competenza sociale, che migliorano o danneggiano un buon
inserimento lavorativo. Nel protocollo i 16 item selezionati sono stati suddivisi in
due sezioni fondamentali (item positivi ed item negativi). All’interno di ciascuna
sezione fondamentale, sono state create due sottosezioni, ciascuna delle quali
comprende quattro item. Nell’ambito della sezione d’item positivi, troviamo
dapprima quattro comportamenti giudicati “critici” per l’adattamento ad un posto di
lavoro, cui seguono quattro comportamenti giudicati “desiderabili”. Nell’ambito
della sezione d’item negativi, troviamo invece quattro comportamenti giudicati
“inaccettabili”, cui seguono quattro comportamenti giudicati “tollerabili”.
Riportiamo di seguito la scheda del protocollo della congruenza tra
competenze interpersonali e ambiente di lavoro.
116 Il significato di item sta per articoli, punti.
TABELLA A
TotaleDella congruenza
Quo
zientedi congruenza
TotaleDella congruenza
Quo
zienteDi congruenza
Totaledella congruenza
Quo
zientedi congruenza
1 2,7 13 36.1 25 69.42 5.6 14 38.9 26 72.23 8.3 15 41.6 27 75.04 11.1 16 44.4 28 77.85 13.9 17 47.2 29 80.66 16.7 18 50.0 30 83.37 19.4 19 52.8 31 86.18 22.2 20 55.6 32 88.99 25.0 21 58.3 33 92.7
10 27,8 22 61.1 34 94.411 30.6 23 63.9 35 97.3
12 33.3 24 66.7 36100.
0Tabella ripresa dal testo di Calkins,Walzer, Op. citata.
Sulla colonna del “Lavoratore” figurano dei quadratini che si devono barrare per
verificare se il comportamento corrispondente è presente (viene manifestato) o assente
(non viene esibito) dal lavoratore. Sulla colonna dell’”Ambiente di Lavoro” figurano
analoghi quadratini che si devono barrare per verificare se, in relazione allo specifico
comportamento, ne è richiesta la presenza, ne è richiesta l’assenza o non c’è nessuna
richiesta. Per esempio, può darsi che del comportamento “E’ pulito e vestito in modo
ordinato” (item positivo, comportamento desiderabile) sia richiesta la presenza agli occhi
del caporeparto di un’azienda alimentare, mentre non figuri nessuna richiesta in proposito
da parte di chi intenda assumere un custode per uno stabile che rimane vuoto di notte. Di
altri comportamenti come “Ruba” (item negativo, comportamento inaccettabile), sarà
probabilmente richiesta l’assenza in entrambi gli ambienti di lavoro.
Si fa ricorso alla colonna della Discrepanza (barrando il quadratino) in tutti i casi in
cui si verifica una discrepanza tra il lavoratore e l’ambiente di lavoro. Ciò avviene quando:
• Un particolare comportamento viene registrato come presente (viene esibito dal
lavoratore), ma ne viene al tempo stesso richiesta l’assenza (nell’ambiente di lavoro);
• Un comportamento è assente (non viene esibito dal lavoratore), ma ne viene al
tempo stesso richiesta la presenza (nell’ambiente di lavoro)
Se invece tra il comportamento del lavoratore e le richieste dell’ambiente vi è
congruenza, si cerca il valore corrispondente nella colonna Congruenza. Il livello
globale di congruenza viene determinato calcolando il punteggio totale di
congruenza (sommando i valori degli item segnati nella colonna di congruenza) e
trasformando nel quoziente corrispondente della tabella A (riportata alla fine del
protocollo).
Vale la pena sottolineare che, ogni volta un comportamento viene etichettato con
“nessuna richiesta” nell’ambiente di lavoro, ciò significa che non può esservi né
congruenza né discrepanza e per conseguenza non va spuntata alcuna colonna. Per
esempio, un particolare item positivo (per esempio: “Si adatta ai cambiamenti di ruolo di
colleghi e superiori” può rientrare in “Nessuna richiesta” semplicemente perché è un
comportamento che ha poche possibilità di verificarsi o perché non viene valutato né
critico né desiderabile per un risultato positivo nel lavoro. Nelle aziende o nelle industrie in
cui il turnover di colleghi e superiori è particolarmente basso, per esempio, può non essere
fondamentale essere capaci d’adattarsi a cambiamenti che comunque non
sopraggiungono che molto di rado.
Il protocollo della congruenza dovrebbe essere compilato dal tutor o dall’operatore
direttamente responsabile dell’inserimento lavorativo della persona con difficoltà, e magari
si auspica che venga usato insieme ad altri strumenti o procedure che valutino l’idoneità
delle abilità specifiche di una persona alle particolari richieste di un determinato ambiente
di lavoro.
Esso può essere usato per:
a) Coadiuvare gli operatori nel determinare quale posto, tra i possibili, si adatta
meglio alle competenze di una persona;
b) Aiutare gli operatori a determinare quale persona tra quelle disponibili, è più
idonea ad un particolare posto di lavoro;
c) Assistere gli operatori nell’identificare le discrepanze tra gli individui e le
richieste dei posti disponibili che richiedono un intervento, se si desidera che i
posti vengano mantenuti nel tempo.
In generale per stabilire se una particolare discrepanza riveste un’importanza
critica sufficiente a garantire la necessità di un intervento, è opportuno assumere
come punto di partenza le linee guida esposte di seguito:
1) Discrepanza per la quale l’intervento ha la priorità più alta: item
negativi inaccettabili;
2) Discrepanza per la quale l’intervento ha una priorità
moderatamente alta: item positivi critici;
3) Discrepanza per la quale l’intervento ha una priorità moderata:
item negativi tollerabili;
4) Discrepanza per la quale l’intervento ha la priorità più bassa:
item positivi desiderabili.
Capitolo V
L’ESPERIENZA DELLA COOPERATIVA
SOCIALE “IN CAMMINO” DI PISTOIA
V.1 Presupposti teorici e culturali della cooperativa
sociale “In Cammino” nella pratica d’inserimento
lavorativo di soggetti svantaggiati.
Avere un lavoro vuol dire, prima d’ogni altra cosa, garantirsi una certa
stabilità nel tenore di vita, nelle relazioni affettive e, più in generale, nella vita
sociale. Oltre alla funzione manifesta di produrre beni, il lavoro produce anche una
serie di funzioni latenti: chi lavora acquista una certa legittimazione sociale (è
accettato dalla società, in quanto lavorando si crea un proprio ruolo sociale),
inoltre il lavoro spinge ad un’affermazione personale attraverso un consolidamento
della personalità e stimola il soggetto alla crescita, a migliorarsi.
Il lavoro, in ogni caso, oltre ad avere una valenza come strumento di
produzione di benessere e sicurezza, se ben strutturato può avere funzioni di tipo
educativo – riabilitativo: un esempio molto esplicito è rappresentato per l'appunto
dalle esperienze relative agli inserimenti lavorativi di soggetti svantaggiati. La
possibilità di interagire, di produrre, di responsabilizzarsi (iniziando anche solo a
rispettare gli orari di lavoro), stimolando l’uscita dalla logica assistenziale, sono gli
elementi chiave in ogni tipo di progetto risocializzante o riabilitativo e possono
essere sperimentati proprio nell’ambito lavorativo. E’ chiaro che tutte queste
funzioni devono essere riferite e pensate col soggetto del progetto su cui si lavora,
e con l’ambiente in cui si va creando il nuovo ruolo professionale del soggetto
inserito.
L’operazione d’inserimento lavorativo di fasce deboli si presenta come
un’operazione connotata da una doppia complessità 117: da un lato quella collegata
con l’organizzazione sociale (l’evoluzione del mercato del lavoro, le nuove
tecnologie, i cambiamenti organizzativi), dall’altro la complessità collegata ai
soggetti coinvolti.
Per sperare in un buon esito dell’inserimento è necessario far crescere nel soggetto
una certa predisposizione al lavoro e suscitare in lui quelle potenzialità in grado di renderlo
“recettore” degli elementi positivi che si possono ritrovare in un ambiente lavorativo. In
117 Cfr. C.Lepri, Lavoro e fasce deboli, Franco Angeli, Milano, 1999
questo tipo di percorso è fondamentale, oltre alla figura del tutor aziendale118, anche quella
dell’operatore sociale, che all’interno della cooperativa “In Cammino” coincide con altre
figure professionali illustrate in precedenza, come ad esempio quella del tutor,
dell’accompagnatore dell’inserimento lavorativo, del mediatore, nonché quella del
facilitatore. All’interno della cooperativa tutte queste figure sono pertanto riconducibili ad
unico soggetto.
Estendendo tali definizioni in senso più generale s’impongono però alcune
precisazioni. Generalmente alla figura del tutor è attribuito come oggetto della
relazione con l’utente, il perseguimento d’obiettivi di tipo formativo, come aiutare
ad acquisire competenze, a sviluppare la capacità di apprendere, a porsi come
soggetto autonomo nella realtà sociale.
Alla figura dell’operatore sociale è invece relegata la funzione di esplorare
le dinamiche intrapsichiche personali del soggetto affidato, i rapporti con la
famiglia, con il gruppo dei pari, lo scioglimento dalle forme di dipendenza.
In quel che può essere definito come il percorso d’aiuto e promozione, che
l’operatore/tutor instaura con l’utente, possono essere evidenziate alcune fasi. E’
chiaro che questa scansione in fasi corrisponde solo parzialmente alla realtà
fattuale119, perché se fosse seguita in modo automatico, il processo d’aiuto
risulterebbe irrigidito, tale da non poter più rispondere in modo originale alle
necessità soggettive dell’utente.
Appropriarsi del concetto di processualità ed utilizzarlo nell’ambito di un intervento di
sostegno all’utente significa considerare tutte le sue varie tappe in una successione non
automatica, ma soggetta a variazioni, a retroazioni, a rimandi continui derivanti da
momenti di valutazione in cui sono analizzati criticamente i vari momenti del processo. “Il
percorso d’aiuto prende forme che si distanziano dalla successione prevista, poiché
l’evoluzione subisce degli arretramenti, dei ritorni, dei blocchi e le operazioni che vi sono
contenute non si concludono una volta per tutte120”. Questa stessa logica vale anche nello
specifico per l’inserimento lavorativo, in quanto essendo formato da più fasi, l’operatore
sociale inizia ad attivarsi in tal senso già da subito, andando a rilevare quegli elementi
indispensabili per delineare le basi su cui poi, in futuro, compiere scelte relative
all’inserimento nella società lavorativa.
Nella fase d’esplorazione l’operatore, dopo aver ricevuto la richiesta dalla
118 Per la definizione di questa figura professionale si rimanda a quanto illustrato nel capitolo n° 3 e 4 del presente lavoro.
119 F.Ferrario, Le dimensioni dell’intervento sociale, Nuova Italia Scientifica, Urbino, 1996120 F.Ferrario, Le dimensioni dell’intervento sociale, op. citata
persona, inizia a ricostruire la situazione attuale dell’utente così da arrivare alla
definizione di un quadro problematico definito, nel quale sarà attivato l’intervento
dell’operatore. Raggiunta questa prima meta, utente e operatore giungono ad un
accordo operativo in cui sono concordati il “verso dove ci s’incammina” e il “perché
si lavora”, insomma, il tipo d’intervento, gli obiettivi e gli strumenti necessari per
raggiungerli.
La seguente fase di realizzazione dei contenuti degli accordi vede accanto
al soggetto il sostegno dell’operatore, che organizza il suo affiancamento in
funzione dell’orientamento, del supporto e del richiamo verso impegni assunti
dall’utente nella prima fase.
Al termine d’ogni intervento è prevista la fase di valutazione, che non
rappresenta soltanto la conclusione di quel particolare intervento, ma costituisce,
attraverso le riflessioni maturate in sede valutativa, nuovo materiale conoscitivo,
che sarà utilizzato per la predisposizione di futuri interventi.
Predisporre un progetto d’inserimento lavorativo comporta un lavoro che parte
ben prima del formale atto del contratto di lavoro. È necessario, già da subito,
iniziare a curare con particolare attenzione gli ambiti già descritti: il mondo del
lavoro, le risorse disponibili sul territorio d’azione e la persona.
L’utente in carico ai servizi sociali offre, solitamente, un quadro della propria
vita burrascoso, in modo particolare per ciò che concerne la qualità e la quantità
delle relazioni sociali, affettive e lavorative. Da questa situazione di partenza il
soggetto dovrebbe intraprendere un percorso di maturazione che lo possa portare
ad affrontare il lavoro. Prima di tutto, dovrà essere in grado di rispettare i vincoli
che il lavoro impone: il dover svolgere quel particolare lavoro magari con quel
particolare compagno, il dover rispettare gli orari di lavoro sopportando la fatica,
avere una presenza costante, nonché rispettare le “gerarchie” ed i ruoli. Inoltre è
abbastanza chiaro che la funzione risocializzante del lavoro, sebbene sia sempre
presente, spesso è nascosta da elementi d’ostilità e competizione interna. E’
necessario allora che il soggetto sia supportato, nel senso di renderlo
progressivamente in grado di recepire e distinguere gli elementi positivi del proprio
ambito lavorativo, quando quest’ultimi sono apparentemente meno evidenti.
“Se il processo d’aiuto, con i suoi interventi, si pone come obiettivo la
produzione di benessere ed autonomia, allora dovrà influenzare la qualità della
vita delle persone attivando soprattutto processi d’apprendimento, che fanno
maturare nelle persone nuove strategie di fronte ai problemi quotidiani 121”. Questo
concetto può essere incluso nel più ampio concetto di counselling espresso da
Rogers, con cui s’intende quella strategia d’aiuto in cui si cerca di fare in modo
che il soggetto si riappropri del proprio ruolo individuale e sociale e gestisca il
problema attraverso scelte di cui si assuma le proprie responsabilità 122.
Visto in questo senso, diviene dunque molto importante che il soggetto si
faccia capace di bilanciare ed orientare le proprie competenze ed i propri
strumenti.
V.2 Breve presentazione della cooperativa sociale “In
Cammino” e descrizione della sua metodologia
d’intervento e degli strumenti utilizzati.
L’idea di costituire una cooperativa sociale, che abbia come finalità
l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, nasce, oltre che da aspetti legati
alle motivazioni etiche di carattere personale dei propri soci fondatori, anche da
alcune considerazioni riguardanti i mutamenti sociali ed economici, che hanno
investito negativamente in questi anni la nostra società e il mondo del lavoro nel
suo insieme.
Nel settore lavorativo si assiste ad una sempre maggiore specializzazione del
personale occupato. Tanto i ruoli, che le figure intermedie del processo lavorativo,
sono messe ai margini e soppiantate da un meccanismo economico che richiede
una redditività e una capacità lavorativa alta. L’alto costo del lavoro e le nuove
esigenze del mercato contribuiscono ad un processo di questo tipo.
Il risultato evidente dal punto di vista occupazionale, è che le fasce cosiddette
deboli sono espulse dal mercato del lavoro, e si vengono a creare situazioni di
doppio disagio: alle difficoltà sociali esistenti si sommano quelle derivanti da una
mancata collocazione lavorativa. Quest’ultima è poi motivo sufficiente per
alimentare e moltiplicare ulteriori tensioni sociali.
Il divario fra chi ha avuto condizioni favorevoli dalla vita e chi invece non le ha
avute, non necessariamente per loro scelta, si allarga sempre di più producendo 121 F.Ferrario, Le dimensioni dell’intervento sociale, op. citata. 122 R.Mucchielli, Apprendere il counseling, Erickson, Trento, 1996
maggiori povertà.
Il lavoro sta così perdendo una fisionomia ed un ruolo educativo che gli
compete e che sta nella sua stessa essenza: la capacità di mettere in relazione
persone, integrarle fra di loro, essere motivo di crescita e di sviluppo di processi
d’autonomia della persona, colmando difficoltà di tipo sociali.
La persona in quanto tale ha il diritto di essere accolta e valorizzata nel
contesto della società, ed anche stimolata a superare difficoltà che si possono
essere presentate in momenti particolari della vita.
L’inserimento lavorativo è, secondo la filosofia della cooperativa, un mezzo
concreto con cui può essere accompagnato un processo di questo tipo che deve
veder convivere solidarietà e qualificazione, per non fermarsi a soluzioni di tipo
assistenzialistico.
Con questi intendimenti e nell’adesione ai principi e alle norme che regolano il
mondo della cooperazione sociale, si è costituita a Pistoia, nel Luglio del 1996, la
“In Cammino” Cooperativa Sociale. La cooperativa è nata dalla trasformazione di
una preesistente azienda individuale, che dopo diversi anni d’attività nel settore
artigianale della carpenteria in ferro, ha modificato la propria struttura adeguandosi
alle normative di legge sulla cooperazione sociale.
Nel tentativo di coniugare l’aspetto lavorativo, con quello del recupero delle
persone svantaggiate, servendosi proprio dell’inserimento lavorativo come
strumento ri/educativo, la cooperativa sociale si trova a svolgere un duplice ruolo:
quello di normale impresa artigiana, e quello d’agenzia formativa, la cui azione
socio educativa è rivolta ai soggetti con difficoltà di tipo clinico e/o sociale.
Il numero delle persone svantaggiate, che sono regolarmente assunte dalla
cooperativa attraverso il Contratto Collettivo Nazionale delle Cooperative Sociali,
percependo una regolare busta paga, deve costituire, ai sensi della legislazione
vigente, almeno il 30% dei lavoratori “normodotati” della cooperativa stessa 123.
L’inserimento lavorativo avviene cercando di accompagnare ciascuna di
queste persone lungo un percorso formativo, che preveda nel tempo l’acquisizione
di competenze lavorative ed un serio tentativo di eliminare le situazioni di
svantaggio, al fine di permettere loro, conseguentemente all’esperienza all’interno
della cooperativa stessa, un concreto sbocco lavorativo presso altre aziende
esterne. Per facilitare quest’obiettivo sono attivate insieme al lavoro anche delle
ore specifiche di formazione professionale, in modo da consentire un’acquisizione
123 Fonte art. 4 legge n° 381/91, disciplina delle cooperative sociali.
più precisa delle varie tecniche di lavorazione.
Per questi motivi sono presenti in azienda, sia operai qualificati, sia degli
operatori sociali con funzioni di tutoring e accompagnamento psico - pedagogico.
La Cooperativa sociale, in conformità con quanto richiesto dal Ministero del
Lavoro, si trova così a svolgere il ruolo di “un’azienda ponte”, dove si compie un
percorso lavorativo, che punta ad una qualifica professionale e ad un’acquisizione
di regole comportamentali, tali da permettere una reale immissione sul normale
mercato del lavoro124.
La cooperativa dal punto di vista lavorativo svolge la propria attività nel
settore della carpenteria in ferro, nell’imbiancatura, nella verniciatura su ferro e
legno, nonché nelle opere di restauro di portoni e cancelli. Il lavoro si svolge su
diversi cantieri, che sono gestiti a seconda delle fasi e necessità lavorative.
L’inserimento delle persone svantaggiate avviene attraverso i settori di lavoro
sopra indicati, cercando d’accompagnare ciascuna di loro insieme ad un operaio
qualificato della cooperativa, a seconda del grado di competenza che ogni persona
riesce ad esprimere. Si vengono così a formare delle squadre miste (una in
laboratorio, due al montaggio ed una nel settore della verniciatura), dove è
possibile individuare un responsabile già esperto nel lavoro insieme a persone
meno qualificate.
Parallelamente all’esperienza lavorativa le persone inserite ricevono un
accompagnamento di tipo pedagogico da un operatore della cooperativa stessa,
con il quale sono previsti degli incontri di monitoraggio e verifica, generalmente
con cadenza mensile.
Dall’inizio della propria attività, in conformità con il proprio scopo statutario, la
cooperativa “In Cammino”, all’interno dei propri ambiti di lavoro, ha inserito
complessivamente 56 soggetti. Nello specifico sono state inserite le seguenti
tipologie: 22 minori con situazioni familiari a rischio, 15 detenuti ammessi alle
misure alternative alla pena detentiva, 2 invalidi civili, 5 psichiatrici, 9 soggetti con
problemi di tossicodipendenza, 3 soggetti con problemi d’alcolismo. Gran parte
degli inserimenti lavorativi di questi soggetti è avvenuta su segnalazione dei
servizi sociali delle varie circoscrizioni del Comune di Pistoia, del Ser.t (servizio
tossicodipendenze), della Psichiatria dell’azienda Asl di Pistoia e dalle assistenti
sociali del CSSA (Centro servizi sociali per adulti) del Ministero di Grazia e
124
Cfr. Atti del Convegno “Dal disagio individuale al Benessere collettivo”, 3 Dicembre 2004 Palazzo comunale di Pistoia.
Giustizia. Questi Enti, al momento dell’ingresso delle persone all’interno della
cooperativa, hanno certificato con un atto formale il loro status di persone
svantaggiate.
Il bilancio riguardo all’andamento delle persone inserite può considerarsi
positivo, infatti, gran parte di loro, dopo aver completato il percorso in cooperativa,
hanno trovato una collocazione lavorativa stabile presso altre realtà di lavoro.
Il percorso d’inserimento lavorativo presso la cooperativa sociale “In Cammino”
prevede l’acquisizione graduale di competenze lavorative, nonché l’acquisizione di
competenze trasversali (rispetto di regole, capacità relazionale, tenuta della dimensione
lavorativa globale). Le fasi del percorso, volendo schematizzare, sono così strutturate:
1) Accoglienza e preparazione di base;
2) Trasmissione di competenze lavorative professionali e trasversali;
3) Autonomia nei processi lavorativi;
4) Fuoriuscita dalla cooperativa e assunzione presso un’altra realtà
di lavoro.
Ciascuna fase del percorso prevede al suo interno l’individuazione d’obiettivi precisi,
che il soggetto, in accordo con l’operatore sociale della cooperativa, s’impegnerà a
raggiungere.125
E’ riportato di seguito uno schema esplicativo delle fasi del percorso, che riassume la
metodologia adottata negli inserimenti lavorativi. I tempi di durata d’ogni singola fase
riportate nello schema, sono da intendersi in senso generale, in quanto il progetto
d’inserimento lavorativo viene di volta in volta adattato, in relazione alle specificità d’ogni
singolo lavoratore svantaggiato inserito.
125 Sul tema riguardante il contratto di cambiamento che si stipula tra il tutor/operatore sociale della cooperativa e la persona inserita, si veda quanto riportato dal cap. 2 della presente tesi.
V.3 Aspetti valutativi sulla tipologia dei percorsi
d’inserimento lavorativo realizzati all’interno della
cooperativa sociale.
A) Soggetti provenienti dall’area psichiatrica.
Il livello di disturbo psichico presentato da quest’utenza è stato di medio livello.
Nella gran parte dei casi si è trattato di soggetti affetti da malattie come depressione
e disturbo della personalità, con dei precedenti ricoveri ospedalieri. Al momento
della segnalazione alla cooperativa i medici e gli operatori di riferimento hanno
ritenuto tali soggetti in grado di essere inseriti gradualmente all’interno del contesto
lavorativo, prevedendo nel contempo delle forme d’accompagnamento. Inizialmente
sono stati inseriti attraverso lo strumento dell’inserimento socio – terapeutico,
prevedendo un periodo d’impiego part – time e con oneri assicurativi e contributivi,
spettanti alla persona inserita, totalmente a carico dell’azienda sanitaria locale126.
Successivamente per alcuni di loro l’inserimento socio terapeutico, dopo un graduale
aumento dell’impegno lavorativo, si è trasformato in un contratto d’assunzione; per
altri, invece, non si sono presentati a livello soggettivo quei requisiti minimi per
procedere in questa direzione.
Esprimendo alcune valutazioni a riguardo possiamo constatare che la
cooperativa sociale “In Cammino”, per il tipo di lavorazione che svolge, riguardante i
settori della carpenteria in ferro e quello del restauro del legno, e per gli obiettivi
d’autonomia che si pone per ciascun soggetto inserito, come illustrato in precedenza,
non si è in qualche modo dimostrata particolarmente “adatta” alla forma di svantaggio
di tipo psichiatrico. Infatti, seppur la cooperativa si presenta come un ambiente di
lavoro protetto, è pur sempre una realtà lavorativa. Pertanto gli obiettivi di
un’acquisizione di competenze, nonché il raggiungimento di una progressiva
126 L’inserimento socio – terapeutico segue le modalità operative e legislative del tirocinio lavoro. Per una presentazione dettagliata si rimanda al capitolo n°4 dedicato prettamente a quest’argomento.
autonomia lavorativa, si sono rivelati obiettivi “troppo alti” per soggetti affetti da
patologie significative di tipo psichiatrico.
Dall’analisi appena esposta non potendosi realizzare per queste persone lo
schema dell’inserimento illustrato in precedenza, la cooperativa ha cercato di
orientare gli utenti verso canali di lavoro più tutelanti, che dessero più garanzie e
tenessero in considerazione le difficoltà e i bisogni specifici. I soggetti provenienti da
quest’area di svantaggio, che hanno terminato il proprio percorso lavorativo, hanno
così trovato in qualche modo una risposta positiva al problema lavoro, da verificarsi
nel tempo, attraverso i percorsi di collocamento mirato gestiti dalla Provincia di
Pistoia127. Il ruolo svolto dalla cooperativa con i soggetti in questione è stato
soprattutto quello di accompagnarli verso questo tipo di percorsi esterni, rendendo
effettivo il loro inserimento nel mondo del lavoro. L’azione d’accompagnamento si è
pertanto così articolata:
- Accoglienza in ambito lavorativo all’interno della cooperativa puntando alla ri-
acquisizione di una minima capacità relazionale, saper sostenere la dimensione
lavorativa complessiva, nonché, dove possibile, acquisire alcune competenze
professionali di base;
- Accompagnamento per l’espletamento delle pratiche burocratiche al fine del
riconoscimento dello stato dell’invalidità civile e la conseguente iscrizione nelle liste
di collocamento relative alle categorie protette gestite dal Servizio Lavoro dell’Ente
Provincia.
- Inserimento dei soggetti all’interno dei percorsi di collocamento mirato, favorendo
l’incontro tra gli operatori del Servizio Lavoro e gli utenti stessi.
127 Cfr. Disposizioni legislative della legge n° 68/1999 sul collocamento mirato rivolto ai soggetti disabili o con invalidità civile, riconosciuta dall’apposita commissione medica locale.
B) Detenuti ammessi alle misure alternative alla pena detentiva.
L’inserimento di questi soggetti all’interno della cooperativa è avvenuta per
singolo caso su segnalazione dell’ufficio educatrici della Casa Circondariale di
Pistoia, o su richiesta diretta d’alcuni detenuti che conoscevano l’attività della
cooperativa.
In un primo momento l’operatore sociale della cooperativa ha svolto dei colloqui
interni all’istituto penitenziario con le persone interessate, andando ad esaminare il
quadro generale dei soggetti, cercando anche di capire se vi fossero le condizioni
giudiziarie per accedere alle misure alternative alla pena detentiva, come
l’ammissione al regime della semilibertà o l’affidamento ai servizi sociali.128
Conseguentemente a queste prime verifiche, la seconda fase ha riguardato
l’impostazione di un’ipotesi di progetto d’inserimento lavorativo, prevedendo, qualora
ve ne fossero state le necessità, anche altre forme d’accompagnamento, come ad
esempio quelle di tipo terapeutico – sanitario. Questa fase di lavoro ha previsto il
confronto tra l’operatore sociale e gli altri soggetti istituzionali coinvolti: l’educatrice
dell’Istituto penitenziario, l’assistente sociale del CSSA (Centro servizi sociali per
adulti)129, nonché per alcune situazioni anche gli operatori del Ser.T (servizio 128 Cfr. quanto stabilito in materia legislativa per i condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione previste
dagli articoli 47, 47-bis, 47-ter e 48 della legge 26 luglio 1975, n. 354, come modificati dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663, nonché dell’articolo 21 della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni.
129 Le competenze operative dei CSSA sono individuate nella Legge n. 354 del 26/7/1975 di Riforma dell'Ordinamento Penitenziario (o.p.), nel Regolamento d’Esecuzione (R.E.), D.P.R. 431/76, ed in altre leggi successive. I C.S.S.A. hanno specifici compiti e responsabilità in relazione alle misure alternative, alle sanzioni sostitutive ed alla libertà vigilata. • Per quanto riguarda l'affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 o.p., come modificato dalla Legge 27/05/98
n.165) "il condannato può essere affidato al servizio sociale ..." e quest'ultimo ne "controlla la condotta e lo aiuta superare le difficoltà d’adattamento alla vita sociale, anche mettendosi in relazione con la sua famiglia e con gli altri ambienti di vita" (art. 47 comma 9). "Il servizio sociale riferisce periodicamente al Magistrato di Sorveglianza sul comportamento del soggetto" (idem, comma 10);
• Il servizio sociale è altresì competente per (art. 94 ), ovvero l'affidamento concesso a soggettitossicodipendenti o alcool dipendenti che abbiano in corso un programma di recupero o che ad esso intendano sottoporsi;
• Nei confronti dei soggetti ammessi al regime di semilibertà (artt. 48 e 50 o.p.), l'attività di vigilanza ed assistenza è espletata in via primaria dal servizio sociale. "La responsabilità del trattamento resta affidata al direttore dell'Istituto, che si avvale del Centro di servizio sociale" (art. 92, comma 3, reg. es.);
• I Centri provvedono "... a prestare la loro opera per assicurare il reinserimento nella vita libera dei sottoposti a misure di sicurezza non detentive" (art. 72 comma 4 o.p.), e più specificamente, "il servizio sociale svolge compiti di sostegno e d’assistenza..." nei confronti dei sottoposti alla libertà vigilata", al fine del loro reinserimento sociale" (art. 55 o.p.). Anche nel caso di libertà vigilata a seguito della liberazione condizionale "al C.S.S.A. è affidato il compito di aiutare il soggetto ai fini del suo reinserimento. Il Centro riferisce periodicamente al Magistrato di Sorveglianza sui risultati degli interventi effettuati." (art. 55 o.p. e art. 95 r. e.);
• I Centri di Servizio Sociale possono svolgere, per richiesta della Magistratura di Sorveglianza, eventuali "interventi idonei al reinserimento sociale" anche per i condannati sottoposti alle misure sostitutive della e della (artt. 53, 55 e 56 della Legge 24 novembre 1981 recante "Modifiche al sistema penale");
tossicodipendenze delle Unità sanitaria locale) ed i servizi sociali del territorio.
Per quanto riguarda questa tipologia d’utenza si è rilevato nel corso del tempo
una buona percentuale d’inserimenti riusciti. Il soggetto detenuto, con la possibilità di
svolgere attività lavorativa all’esterno, è naturalmente un utente motivato, perché in
parte vuole realmente uscire da certe situazioni di marginalità, dall’altra,
specialmente nel regime di semilibertà, è consapevole che in qualche modo “non può
sgarrare”. Il rischio della revoca del beneficio ottenuto, in questo caso, funge da forte
deterrente.
Possiamo comunque precisare che anche per questa tipologia d’utenza, quando
oltre al problema della detenzione si unisce anche quello della tossicodipendenza, o
problemi d’ordine psichiatrico, la situazione diventa sicuramente più problematica. I
detenuti tossicodipendenti subiscono durante la detenzione una disintossicazione
forzata, pertanto non si ha più un utilizzo di sostanze stupefacenti da parte del
soggetto, ma permangono tutti quei problemi soggettivi di carattere psicologico, che
hanno spinto la persona alla tossicodipendenza. Questi problemi “riesplodono”
quando la persona esce dal carcere, pertanto al soggetto detenuto
tossicodipendente, oltre all’inserimento lavorativo deve essere offerto anche un altro
tipo d’accompagnamento, tramite il Ser.T o attraverso altri strumenti terapeutici.
Dall’esperienza degli inserimenti svolti all’interno della cooperativa sociale “In
Cammino” possiamo affermare che, qualora i servizi sanitari preposti (Ser.T e/o unità
psichiatrica) non fossero disponibili ad una seria presa in carico della persona, o se
quest’ultima rifiutasse il loro intervento, sarebbe più opportuno rinunciare
all’attivazione di un percorso lavorativo, perché in questi casi il solo strumento lavoro,
seppur svolto all’interno del contesto di una cooperativa sociale, non risulterebbe
sufficiente per fronteggiare alle problematiche presenti nel soggetto, e pertanto non
sarebbe possibile svolgere alcuna azione socio -riabilitativa.
• Il direttore dell'Istituto di pena può richiedere ai Centri interventi di servizio sociale in favore degli ammessi al lavoro all'esterno (art. 21 o.p.), con particolare riferimento alla tutela dei diritti e della dignità del detenuto e dell'internato (art. 46 reg. es.).
c) Minori con disagio socio – familiare.
La problematicità di questi soggetti è per certi aspetti più complessa, rispetto ai
casi precedentemente descritti. Ci troviamo di fronte a ragazzi con una personalità
non ancora definita. L’età stessa, coincidente con il periodo adolescenziale, anche in
soggetti provenienti da un contesto familiare “normale”, si contraddistingue
generalmente con un comportamento antisociale, che si manifesta contro le
istituzioni e contro tutto quello che può essere identificato con l’autorità costituita. Tali
soggetti vivono con difficoltà l’accettazione delle regole, sono discontinui e non
accettano consigli. Questo comportamento che contraddistingue il periodo
adolescenziale in soggetti “normali”, lo troviamo triplicato e più violento nei ragazzi
che vivono un disagio socio - familiare. Le ragioni possono essere tante, anche in
questo caso provo ad indicarne alcune:
La mancanza di figure di riferimento significative con le quali aver condiviso un
rapporto educativo, ma anche autentici sentimenti d’affetto. Alcuni
atteggiamenti violenti sono quasi sempre una conseguenza di una carenza
d’affetto e di gesti d’attenzione, che purtroppo non hanno ricevuto.
L’uso di sostanze stupefacenti, le cosiddette “droghe leggere”, assume per
questi soggetti una dimensione (seppur gradualmente) incontrollabile, che in
qualche modo tende sempre più a dominarli. Infatti possiamo constatare che
in molti casi tali soggetti tendono ad amplificare le situazioni problematiche di
partenza, in quanto l’uso ripetuto di sostanza abitua a non affrontare le
situazioni difficili e progressivamente anche una piccola frustrazione
quotidiana diventa un problema insormontabile, che richiede la presenza della
sostanza stessa per essere superato. Progressivamente questo tipo
d’atteggiamento modifica in senso negativo il comportamento di questi
ragazzi, nonché la loro capacità relazionale e d’adattamento ai vari contesti,
siano essi di tipo sociale o lavorativo. Anche il loro livello d’attenzione,
costanza e concentrazione, gradualmente viene meno, rendendo problematico
il prosieguo della loro attività lavorativa.
La fase dell’inserimento lavorativo di questi soggetti all’interno degli ambiti di
lavoro della cooperativa hanno evidenziato alcuni aspetti problematici che riporterò di
seguito.
Per quanto riguarda l’ambito esterno al lavoro è stata riscontrata in alcuni casi
l’assenza dei servizi sociali, che come Enti pubblici dovrebbero svolgere un
ruolo di monitoraggio e d’accompagnamento, oltre a quello svolto dalla
cooperativa, durante l’intera fase del progetto individuale d’inserimento
lavorativo. E’ stata rilevata che per alcune situazioni la dimensione lavorativa da
sola non è sufficiente per affrontare le problematiche presentate dai ragazzi, e
pertanto è necessario l’intervento di uno psicologo e/o degli operatori del Ser.T,
nonché quello dei servizi sociali del territorio. La difficoltà riscontrata è stata nel
mettersi in relazione con queste strutture, sia per il tempo d’attesa troppo lungo,
sia come nel caso delle assistenti sociali, per il fatto di non avere sempre
un’unica persona di riferimento. In molti casi si assiste ad un repentino
succedersi delle assistenti sociali nell’arco di pochi mesi, creando così grossi
disagi all’utenza, ma anche agli operatori che in qualche modo con questi servizi
devono rapportarsi.
Un’analisi critica porta ad affermare che un errore commesso dagli operatori
della cooperativa è stato forse anche quello, in alcuni casi, di aver voluto trovare
delle soluzioni alle problematiche dei ragazzi, senza aspettare che maturassero
loro stessi un’esigenza di cambiamento e fossero così gli attori principali della
trasformazione delle proprie visioni del mondo. Questo ha indotto gli operatori
stessi a “rincorrerli troppo”, quasi a fargli le cose più che fare in modo che le
facessero, andando a determinare situazioni in cui invece di accompagnare
questi soggetti, fossero in qualche modo “portati”. Dopo una prima fase in cui è
naturale che vi sia uno sbilanciamento dei propri operatori nei confronti di questi
utenti, cercando di coinvolgerli in un progetto, dovrebbe seguire una seconda
fase (e questo è l’aspetto critico), in cui la cooperativa svolge un ruolo di stimolo
verso un cambiamento che parta da situazioni concrete e verificabili, ma in
nessun modo, salvo situazioni particolari, deve sostituirsi al ragazzo in ciò che
quest’ultimo è chiamato a fare. L’esperienza di questi anni ha dimostrato che
nessuno può essere spinto a fare qualcosa, se fondamentalmente, almeno per il
momento, non la vuole realizzare, anche quando questa è rivolta
oggettivamente a migliorare la propria situazione. Forse dopo aver compiuto
diversi tentativi, senza aver ricevuto da parte dei ragazzi coinvolti alcuna
rispondenza, siamo arrivati alla conclusione che l’atteggiamento educativo più
appropriato, rischiando anche in molti casi l’abbandono da parte dell’utenza del
percorso d’inserimento, è quello dell’attesa, cioè aspettare che siano i soggetti
stessi che tornino per un’eventuale richiesta d’aiuto e in quell’occasione
riprovare a parlare, prendendo delle decisioni insieme sul dove e come ci si
vuole orientare.
d) Soggetti con problemi di tossicodipendenza e/o alcolismo130.
Come accennato in precedenza la problematica della tossicodipendenza
sembra essere incompatibile con l’esperienza lavorativa, quando questa non è
accompagnata anche da un’azione terapeutica significativa, che vada aldilà di una
semplice somministrazione del metadone. I numeri dei risultati relativi ai soggetti che
sono stati inseriti all’interno della cooperativa lo dimostrano. Se l’inserimento
lavorativo non è anticipato da un percorso psico – educativo serio del soggetto
tossicodipendente, (comunità, supporto psicologico, gruppi d’auto – aiuto), vi sono
scarse possibilità che questo vada a buon fine. Le ragioni della tossicodipendenza
sono da ricercarsi molte volte in situazioni familiari e sociali che hanno ostacolato uno
sviluppo sereno e completo della propria identità, tant’è che la sostanza stupefacente
sembra costituire un sostituto di questo vuoto affettivo e di mancanza di riferimenti
significativi. Pertanto il campo di lavoro su questi soggetti deve concentrarsi prima su
gli aspetti più prettamente psicologici – educativi, e solo successivamente spostarsi
su una prospettiva d’inserimento lavorativo. L’uso delle cosiddette “droghe pesanti”
rendono incompatibile l’impegno lavorativo richiesto, perché il soggetto non è nella
condizione psico – fisica per sostenere con continuità e costanza il lavoro. Può
essere pertanto tentato un percorso d’inserimento lavorativo con questa tipologia
d’utenza, solo se a monte è stato svolto un lavoro di supporto terapeutico, oppure se
questo tipo d’intervento è previsto e concretamente realizzato contestualmente alla
collocazione all’interno della cooperativa sociale.
130Alcuni degli aspetti problematici dello stato di tossicodipendenza coniugati all’esperienza lavorativa sono già stati trattati al punto b, relativo ai soggetti detenuti ammessi alle misure alternative con la possibilità di svolgere lavoro all’esterno.
V.4 Progetti realizzati all’esterno degli ambiti strettamente
lavorativi della cooperativa e risultati131 conseguiti
La cooperativa sociale “In Cammino” con l’intento di perseguire gli scopi
statutari che si è data, in quanto riconosciuta anche come agenzia formativa
accredita132, ha promosso e svolto nel corso di questi anni dei progetti formativi
rivolti alle persone che rientrano nelle cosiddette “fasce deboli”. Con il
riconoscimento dell’accreditamento, la cooperativa ha inoltre ottenuto nel luglio
del 2004 la certificazione di qualità ISO 9001, sia per l’attività produttiva sia per
quella della formazione professionale. Non essendo possibile fare un resoconto
complessivo dettagliato delle attività formative realizzate in questi anni, è
presentata di seguito una sintesi della relazione sociale della cooperativa “In
Cammino”, relativa al periodo 2004. Tale relazione è sufficiente a far comprendere
la tipologia dei corsi di formazione sviluppati dalla cooperativa in questi anni,
tenendo presente che molte delle azioni formative elencate di seguito,
rappresentano la riedizione d’attività già svolte negli anni precedenti.
a) Il progetto denominato “Virgilio”, finanziato dagli Istituti Raggruppati di Pistoia133 è
stato rivolto ad alcuni giovani rientranti nell’età dell’obbligo formativo (15 – 18 anni), che
presentavano numerose difficoltà ad inserirsi nei percorsi promossi dalle istituzioni
131 E’ difficile poter definire un parametro di giudizio che stabilisca in termini assoluti quando si sono raggiunti dei risultati al termine o durante l’accompagnamento lavorativo di soggetti svantaggiati. L’esperienza c’insegna che al di là dell’esito dell’inserimento avuto con il ragazzo, cioè che si abbia o no al termine del percorso formativo l’assunzione dell’allievo all’interno dell’azienda ospitante, rappresenta in ogni caso un risultato, in termini educativi, aver dato l’occasione al ragazzo/a di potersi confrontare con se stesso/a, inducendo ad un possibile graduale cambiamento della propria visione del mondo, così come spiegato nel capitolo uno.
132 Cfr. Direttiva in materia di accreditamento delle agenzie formative emanata dalla Regione Toscana (allegato A alla D.G.R.T. n° 436/2003 e come modificato dall’allegato A alla D.G.R.T n° 786/2003).
133 Conservatorio degli orfani, bb. e regg. 500 ca, (1722-1907). Elenco 1984. [vol. III, pag. 763] Fu istituito da Cesare Godemini nel 1722 per l'assistenza, l'istruzione e l'avviamento al lavoro di quattordici orfani e conobbe con il tempo un notevole sviluppo grazie a provvedimenti del granduca Pietro Leopoldo e a lasciti e donazioni di munifici benefattori.Il filantropo pistoiese Niccolò Puccini morendo nel 1852 elesse il conservatorio erede universale del proprio patrimonio. Con r.d. 30 giu. 1907 il conservatorio degli orfani e la pia casa di lavoro Conversini (vedi p. 764) furono unificati negli Istituti raggruppati.L'archivio afferisce all'amministrazione patrimoniale dell'ente, agli alunni ospiti, ad iniziative legate a Niccolò Puccini, quale la " festa delle spighe ", da lui organizzata negli anni 1841-1846.Con le eredità di Cesare Godemini e Niccolò Puccini giunsero inoltre al conservatorio nuclei documentari di famiglie pistoiesi ed altri documenti di vario argomento (vedi Raccolte e miscellanee, Famiglie pistoiesi e documenti diversi, p. 785). BIBL.: L. BARGIACCHI, Storia... cit., II, pp. 170-250.
competenti in materia d’inserimento lavorativo. Le attività promosse dal progetto sono
state rivolte a quei soggetti, che non avevano più nessun tipo di legame né con la scuola,
né con altri percorsi d’inserimento lavorativo. Il rischio di devianza è, in questi casi, molto
elevato in quanto questi giovani si trovano ad avere pochi e sporadici rapporti con referenti
adulti appartenenti ai Servizi sociali o ad altre realtà del privato sociale. Il progetto ha
previsto degli incontri formativi della durata di tre ore ciascuno, due volte la settimana, per
un periodo di sei mesi, in cui si sono svolte delle attività sulla carpenteria in ferro,
prevedendo la presenza di un tutor e di un docente esperto nel settore. In questi incontri,
strutturati in un aumento progressivo delle ore di corso, è stato approfondito il livello
motivazionale degli allievi e sono state valutate alcune componenti essenziali per il lavoro,
quali la frequenza assidua e l’acquisizione di capacità relazionali in rapporto con i propri
compagni di lavoro, nonché con le altre figure adulte previste dal corso.
Al termine della fase d’aula – laboratorio si è svolto un periodo di stage aziendale, di
due mesi, che non aveva come obiettivo principale quello dell’assunzione. (Solo in un
secondo momento, in considerazione della giovane età degli allievi, e della normativa in
materia di collocazione al lavoro di soggetti minorenni134, può, infatti, essere preso in
considerazione attraverso nuovi progetti lo svolgimento di un periodo di stage finalizzato
all’assunzione). Per incentivare i ragazzi ad una frequenza il più possibile costante e
continua, era stato previsto, in tutte le fasi del percorso, (aula laboratorio + stage
aziendale), l’assegnazione di un compenso economico, che tenesse conto delle ore
effettivamente svolte dagli allievi.
I ragazzi coinvolti complessivamente nel progetto sono stati cinque (due in più
rispetto a quanto previsto inizialmente dal progetto).
Riportiamo di seguito una tabella riassuntiva del progetto realizzato.
Numero di soggetti inseriti in attività d’aula laboratorio 5Numero di soggetti inseriti in attività d’aula laboratorio +
stage formativo2
Numero di soggetti assunti in azienda 1
Tabella riassuntiva relativa al progetto denominato Virgilio
134 Cfr. D.lgs. n° 262 del 18 Agosto 2000, “Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 4 agosto 1999, n° 345, in materia di protezione dei giovani sul lavoro, a norma dell’articolo 1, comma 4, della legge 24 Aprile 1998, n° 128”, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n° 224 del 25 Settembre 2000; nonché la legge n° 9/99 avente come oggetto le Disposizioni urgenti per l’elevamento all’obbligo di Istruzione.
b) Il progetto denominato “Carcere e Lavoro”, finanziato dalla Diocesi di Pistoia, ha
promosso dei tirocini - lavoro rivolti a tre persone detenute, che sono state ammesse alle
misure alternative alla pena detentiva135. Questo tipo d’accompagnamento si è realizzato
attraverso la presenza, al fianco della persona svantaggiata, di un tutor durante tutte le
fasi del progetto. La presenza continua e assidua del tutor ha permesso gradualmente una
conoscenza reciproca con l'utenza, svolgendo una funzione di supporto e sostegno nei
momenti più difficili del percorso.
Il percorso proposto si è realizzato tenendo conto della normativa vigente, tutelando
ampiamente sia gli utenti, che le aziende, attraverso una copertura assicurativa per la
Responsabilità Civile, che per gli infortuni sul luogo di lavoro (INAIL).
Le fasi del progetto si sono così articolate:
1. Conoscenza e “selezione” dell'utenza durante i colloqui all’interno della Casa Circondariale di Pistoia;
2. Individuazione delle aziende;
3. Tirocinio lavoro;
4. Possibili inserimenti definitivi in azienda.
Riportiamo di seguito il resoconto del progetto:
E. M., un uomo di 37 anni, di nazionalità marocchina, in detenzione domiciliare, con
una moglie e due figlie a carico. Attraverso il progetto è stato autorizzato a svolgere
attività lavorativa presso una ditta artigiana di carpenteria in ferro, situata nel Comune di
Quarrata, in Provincia di Pistoia. L’inserimento è iniziato in data 29/03/’04 e si è svolto con
regolarità, evidenziando da parte del soggetto una buona partecipazione al lavoro. Con la 135 Misure alternative alla pena detentiva: Affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 della legge n° 354/1975 e
come sostituito anche dall’art.11e 12 della legge n° 663/1986); Detenzione domiciliare (art. 47 ter, della legge n° 354/1975 e come aggiunto dall’art. 13 della legge n°663/1986); Regime di semilibertà (art.48 della legge n° 354/1975 e come modificato dall’art. 29 della legge n°663/1986).
conclusione dello stage, terminato in data 30/06/’04, il soggetto è stato assunto
dall’azienda come operaio con contratto a tempo indeterminato.
V.A., un uomo di 35 anni, con problemi d’alcoldipendenza, conosciuto dal Ser.T –
(Centro Alcologico di Pistoia). Al momento in cui si sono svolti i colloqui era entrato da
poco tempo in carcere e si trovava in custodia cautelare. Ha svolto inizialmente dei
colloqui d’orientamento con il tutor del progetto e successivamente è stato inserito dal
31/05/’04 in tirocinio lavoro, presso un’azienda operante nel settore del giardinaggio.
Contemporaneamente all’inserimento lavorativo è stato attivato un programma terapeutico
con il rispettivo servizio sanitario di provenienza, che comprendeva un trattamento di tipo
farmacologico, dei colloqui di sostegno psicologico, nonché la partecipazione, per tre
giorni alla settimana, ai gruppi d’auto - aiuto organizzati dall’Associazione degli Alcolisti
Anonimi. Al termine dello stage (31/07/’04), nel quale il soggetto ha dimostrato un forte
impegno e partecipazione, si è creata l’opportunità di un’assunzione presso un’azienda
con la quale la ditta ospitante era in rapporto di lavoro. Dal mese d’Agosto del 2004 è stato
pertanto regolarmente assunto.
C.G., un ragazzo di 30 anni, residente a Pescia, in Provincia di Pistoia, con un “fine –
pena”136 fissato per il mese di Settembre del 2004. L’obiettivo dichiarato con il ragazzo è
stato quello di procedere ad un suo accompagnamento lavorativo fino alla scadenza
giudiziaria, senza porsi l’obiettivo prioritario dell’assunzione, e questo essenzialmente per
due ragioni: la residenza nel territorio di Pescia e la volontà manifestata dal soggetto di
trovare una collocazione definitiva, a conclusione della pena detentiva, vicina al proprio
luogo di residenza. Il ragazzo è stato inserito in stage presso un’azienda artigiana di
Pistoia dal giorno 22/04/’04 e successivamente, in data 06/07/’04, presso un vivaio di
Pistoia. Con il soggetto, in prospettiva di facilitare una sua collocazione futura, il tutor del
progetto ha anche svolto le seguenti azioni:
➢ Accompagnamento all’ufficio di collocamento per aggiornare la posizione
lavorativa e ottenere il riconoscimento dello status di disoccupato di lunga durata, con
conseguenti facilitazioni fiscali per l’azienda che potenzialmente fosse interessata
all’assunzione137 del soggetto.
136 Con questo termine s’intende il temine ultimo nel quale la pena sarà completamente espiata, dopo che il soggetto detenuto è stato condannato con sentenza definitiva.
137 Secondo la legge 407/90 (art.8 comma 9), le aziende che assumo a tempo indeterminato lavoratori disoccupati da almeno 24 mesi (purché non in sostituzione di lavoratori dipendenti dalle stesse imprese per qualsiasi causa licenziati o
➢ Stesura del proprio curriculum vitae e segnalazione d’alcune aziende
con le quali sono stati svolti dei colloqui di lavoro.
Lo stage attraverso la cooperativa si è concluso in data 24/09/’04.
c) Il progetto denominato “Itinerari”, finanziato dai Servizi Sociali del Comune
di Pistoia, è stato articolato in quattro azioni diverse:
- Azione 1: Attività d’accoglienza e accompagnamento verso le Politiche attive
del lavoro, rivolto ad un massimo di dieci utenti (risultati poi molti di più), segnalati
dal Servizio Sociale e che necessitavano di un aiuto per meglio orientarsi nella
ricerca del lavoro ed eventualmente essere inseriti nei percorsi proposti dal
Servizio Lavoro e Istruzione e formazione Professionale della Provincia;
- Azione 2: Orientamento per la valutazione delle motivazioni al lavoro rivolto
ad un massimo d’otto utenti, che di norma hanno difficoltà ad entrare in contatto
con i servizi. Nello specifico giovani adolescenti che hanno concluso l’obbligo
scolastico, ma non ancora maggiorenni. (L’attività, che ha riguardato degli incontri
formativi sulla carpenteria in ferro con la presenza di un docente e di un tutor e
successiva prova di un mese di stage in aziende esterne, non si poneva come
obiettivo prioritario quello dell’assunzione, bensì quello di verificare le motivazioni
dei soggetti e approfondire le problematiche sociali cercando di individuare
possibili indirizzi di crescita);
- Azione 3: Percorso integrato d’inserimento lavorativo rivolto ad un massimo
di cinque persone con disagio conclamato, che hanno difficoltà a reinserirsi nel
mondo del lavoro. L’intervento formativo (attività d’aula laboratorio per tre mesi
con docente e tutor, più tre mesi di stage in azienda) si è posto come obiettivo
quella dell’assunzione in azienda dei soggetti inseriti nel progetto;
-Azione 4: Accompagnamento e tutoraggio in percorsi di tirocinio lavoro, rivolto solo a
donne. (Tale azione è stata inserita nel progetto in corso d’opera per venire incontro alle
numerose richieste provenienti dall’azione1).
sospesi) possono godere di agevolazioni previdenziali e assistenziali.
In riferimento alla tipologia degli indicatori della cooperativa sociale In Cammino, che
riporta unicamente gli interventi svolti sulla base delle attività di svolte in aula – laboratorio
e negli stage formativi, si riporta di seguito una tabella riassuntiva dei risultati conseguiti
limitatamente per le azioni due e tre.
Numero di soggetti inseriti in attività d’aula laboratorio 7Numero di soggetti inseriti in attività d’aula laboratorio + stage
formativo6
Numero di soggetti inseriti in stage formativo 2Numero di soggetti assunti in azienda 4
Tabella riassuntiva relativa al progetto denominato “Itinerari” (azione 2 e 3).
Appendice
Schede di monitoraggio e verifica utilizzate dai tutors della
Cooperativa Sociale “In Cammino”.
Per il monitoraggio e la verifica del raggiungimento degli obiettivi stipulati con
le persone inserire, il tutor della cooperativa utilizza alcune schede di rilevazione,
cui riportiamo di seguito una breve presentazione.
Scheda A: colloquio iniziale di conoscenza della persona Questa scheda permette la rilevazione dei dati personali del soggetto, che
chiede personalmente, o perché inviato dal rispettivo servizio sociale di
provenienza, di essere inserito all’interno degli ambiti di lavoro della cooperativa.
Tale scheda può servire, sia per un successivo inserimento della persona
all’interno della cooperativa, sia per i possibili percorsi d’accompagnamento al
lavoro attraverso i progetti esterni gestiti sempre dalla cooperativa stessa.
Scheda B: dati del soggetto inserito all’interno della cooperativaQuesta scheda è compilata successivamente all’ingresso del soggetto
all’interno degli ambiti di lavoro della cooperativa. Tale scheda riprende i dati che
erano stati trascritti nella scheda A, apportando altri tipi d’informazioni, nonché
riportando le date dei colloqui che l’operatore sociale svolgerà insieme al soggetto
inserito. La scheda è inoltre munita anche di una sorta di calendario, dove sono
riportati i giorni in cui il lavoratore è assente, oppure arriva in ritardo al lavoro,
indicandone le eventuali motivazioni.
Scheda C: progetto individuale d’inserimento lavorativo.
Si delineano le fasi e gli obiettivi specifici che seguirà il soggetto durante l’intero arco
dell’inserimento lavorativo.
Scheda D: Verifica degli obiettivi del progetto
Con questa scheda l’operatore sociale, insieme alla persona inserita e al tutor
aziendale (o docente per i percorsi esterni), va ad individuare gli obiettivi specifici che il
soggetto s’impegna a raggiungere in un determinato tempo (generalmente un mese). Gli
obiettivi, individuati di volta in volta, riguarderanno sia competenze di tipo professionali, sia
quelle di tipo trasversali.
Per una maggiore comprensione si riportano di seguito i modelli delle suddette
schede.
Conclusioni
L’azione rieducativa nei confronti dei soggetti svantaggiati necessita di misure
che non si fermino ad un disegno occupazionale in senso stretto, ma sappiano
stimolare e sostenere lo sviluppo di capacità soggettive di progettazione e
realizzazione di un progetto di vita. Nella gran parte dei casi il livello di
compromissione sociale di queste persone è tale, per cui l’intervento necessita di
un’azione difficoltosa di recupero, che si deve dispiegare nella più ampia
dimensione della vita quotidiana degli individui, che è fatta di relazioni e di
capacità di gestione delle stesse138. L’esperienza dell’inserimento lavorativo non si
esaurisce quindi nella dimensione dell’apprendimento di competenze lavorative,
ma parte del progetto sulla e con la persona svantaggiata, deve prevedere
occasioni per la formazione di competenze sociali, senza lo sviluppo delle quali
l’esperienza lavorativa rischia di rimanere fine a se stessa 139.
In questo senso l’apporto della pedagogia diventa determinante, al fine
d’individuare e progettare appropriate metodologie d’intervento, nonché per
definire la strutturazione dei progetti formativi individuali.
La cooperazione sociale, ed in particolare quella di tipo b, cioè di produzione
e lavoro, il cui scopo sociale è quello dell’inserimento lavorativo di soggetti
svantaggiati, deve essere capace di tessere vasti e positivi legami sociali (con le
istituzioni locali, il mondo del volontariato, le forze sociali, le imprese e le loro
organizzazioni), in grado di favorire percorsi di riabilitazione sociale e ridurre gli
effetti negativi dello stigma che si costituisce attorno alla sofferenza e al disagio.
L’inserimento lavorativo deve creare collegamenti e sinergie sia con la società
civile e con i servizi sociali specifici, sia con le imprese al fine d’individuare la
domanda delle professionalità richieste e, quindi, i successivi sbocchi lavorativi per
le persone inserite in cooperativa.
La cooperazione sociale non riesce a risolvere da sola il problema del lavoro
dei soggetti svantaggiati, e al fine di migliorare l’efficacia dell’intervento rispetto
all’obiettivo dell’integrazione lavorativa di queste persone, è necessario insistere
sul coinvolgimento delle imprese tradizionali. E’ necessario costruire percorsi di
reinserimento che possano sfociare nella collocazione aziendale e che sappiano
concentrarsi sulla costruzione di una risposta complessiva. C’è la necessità di 138 Su questo tema si rimanda nello specifico a quanto illustrato nel capitolo 2.139 Sul tema riguardante l’importanza delle competenze sociali vedi capitolo 4 e cfr. il testo di C. Calkins, H. Walzer,
L’adattamento all’ambiente di lavoro nei soggetti deboli. Interventi psicoeducativi di supporto, Ed. Erikson, 1996.
muoversi verso la creazione di una rete integrata di servizi, che sappia
promuovere e valorizzare lo sviluppo di competenze lavorative e relazionali, e
sappia cogliere la complessità e la dinamicità delle traiettorie del disagio, per
reimpostare ipotetici indirizzi e possibili percorsi.
Questo mutamento deve dar luogo ad un processo d’attivazione di risorse e
competenze improntate a restituire al soggetto svantaggiato le basi minime per
intraprendere un cammino d’emancipazione che ha, come primo obiettivo, quello
della ricostruzione di un’identità personale complessiva, costituita sia da
competenze lavorative e professionali, sia psicologiche e sociali. Bisogna
affiancare alle misure volte all’inserimento lavorativo, azioni capaci di sostenere i
processi di sviluppo di competenze sociali, agendo in modo il più possibile
individualizzato sui molteplici e complessi fattori che determinano l’esclusione, al
fine di favorire l’inclusione e l’integrazione dei soggetti in stato di svantaggio.
Per il raggiungimento di tutti questi obiettivi, come già accennato in
precedenza, si rende sempre più necessario lavorare in futuro alla costruzione di
una rete di servizi,140 in grado di rispondere ai bisogni dei singoli e di operare su
più livelli. Nello specifico:
a) Con i servizi sociali, sanitari ed abitativi operanti sul territorio, con
l’obiettivo di affiancare e integrare l’attività svolta dalle cooperative
sociali;
b) Con il mondo imprenditoriale e le associazioni di categoria per favorire
lo scambio tra mondo profit e non profit, ed evitare che le relazioni siano
limitate alle reti amicali;
c) Con gli Enti locali e le Amministrazioni allo scopo di creare forme di
partnerariato proficue nel contesto di un welfare municipale;
d) Con il mondo del volontariato e dell’associazionismo al fine di creare
una rete di sostegno alla persona e di offrire occasioni di formazione,
scambio e socializzazione.
140 Cfr. Ministero del lavoro e delle politiche sociali - Commissione d’indagine sull’esclusione sociale (a cura di), Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale, anno 2003
E’ opportuno lavorare in questa direzione affinché la parola “rete” diventi
davvero un’esperienza concreta e verificabile sul “campo”, e non solo un termine
astratto molto spesso abusato nelle conferenze e nei dibattiti, ma privo di un
riscontro reale.
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