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MET HODO Anno 2 Numero 5 gennaio-febbraio 2015 Prezzo di copertina 10 € 5 A L A N TURING

METHODO #5

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Rivista tecnico scientifica riguardante metodi, approcci, strumenti ed esperienze sullo sviluppo di nuovi prodotti e sulla loro produzione.

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METHODOAnno 2 Numero 5gennaio-febbraio 2015Prezzo di copertina 10 € 5

A L A NT U R I N G

gennaio-febbraio

design industrialeLa forma della memoria

sviluppo prodottoTecniche di analisi del valore

DOSSIERspeciali e incontri

MADE expoInnovazione, bellezza, sostenibilità

valutazione del ciclo di vitaL’importanza del comportamento sostenibile in un edif icio

interviewIntervista a Lucia Chierchia, Open Innovation Manager di Electrolux

ecodesignIl design sistemico

project managementI progetti nell’ambito della strategia aziendale

qualità del servizioIl valore etico della qualità

i nostri autori

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Rimettiamo l’uomo al centro, il suo ecosistema, non solo le cose.

60Proprietà OTTOLOBI editoria e comunicazioneVia A.Caretta, 320131 - Milanot/f 02.36798297www.ottolobi.itP.IVA 03559000983N.REA: MI-2021527

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Ho pensato a lungo a quale potesse essere il tema dell’editoriale di questo numero. Come sempre gli stimoli non mancano ed è difficile decidere dove portare la vostra pazienza. La decisione è arrivata dopo una delle tante trasferte a Roma degli ultimi tempi. Non smetterò mai di stupirmi di fronte alla capacità di circondarsi dal bello che avevano, non solo i romani, ma molti popoli nella storia antica, ancora più stupefacente se si pensa alle difficoltà che normalmente incontravano nel vivere, dove la “sussistenza” era l’economia. Eppure questi popoli si circondavano di terme, ornavano di marmi le prospettive e costruivano templi con colonne di granito provenienti da zone remote dell’Egitto. Costruivano per il senso comune del bello, non vi erano dubbi su ciò che fosse uniformemente definito come tale, ancora oggi fatichiamo a non definire bella l’arte classica. In questo numero l’amico Giuseppe Alito ci ha come al solito regalato un articolo interessante che spiega a fondo come oggi percepiamo i prodotti, li riconosciamo, in base alla loro storia, al loro essere icone. Ritornando ai tempi antichi, oggi vediamo i verticali esempi di quanto queste costruzioni bellissime fossero anche progettate per essere eterne. Abbiamo dovuto aspettare il Rinascimento per ritrovare una nuova esplosione della creatività umana, con opere che hanno rimesso al centro l’uomo, le sue capacità e il suo gusto. Non è retorico fare riferimento a Leonardo. Un artista, architetto creatore di bellezza, grande amante della natura a cui si ispirava, ideale di perfezione, capace di miscelare ingegno e bellezza in ogni sua opera: se pensiamo alle sue macchine non possiamo non vedere in queste la volontà di impregnare ogni singolo parte, componente, di gusto estetico e di viscerale ammirazione per madre natura. Negli ultimi decenni abbiamo assistito alla decadenza del nostro ingegno, asservito unicamente alla funzionalità, ma non solo, una funzionalità sempre più breve, quanto la durata della garanzia, breve da permettere di alimentare i consumi grazie alla necessità di ripristinare gli oggetti. Mediante questo meccanismo perverso abbiamo si riempito le case di oggetti, ma non abbiamo progredito quanto avremmo potuto. La tecnologia sta rendendo la vita più complicata di prima, la robotica è una seria minaccia per il lavoro e non un’opportunità per l’umanità (rileggetevi Asimov), ci siamo convinti che la natura sia dominabile (quanto è arrogante l’uomo) e al nostro servizio.

editoriale

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Non so quanto sia condivisibile, ma ho la speranza di rivedere l’arte al centro della società, vorrei che ogni progettista abbia in sé la capacità di creare forme complesse, belle, armoniose, che riscopra il valore di materiali naturali. Nelle scuole le materie umanistiche sono ancora prevalenti, non perdiamo questa opportunità, facciamo in modo che non siano solo nozioni ma diventino la mano invisibile che guida i tecnici di oggi facendoli diventare dei nuovi piccoli Leonardo. Spingiamo perché le “cose” nascano per essere eterne, solo così faremo cose veramente nuove e la società potrà veramente progredire, non reinventiamo la forchetta, il bicchiere, non perdiamo tempo dietro la carrozza semplicemente mettendoci di volta in volta un cavallo, un motore a scoppio dei freni o delle luci. Eterno non vuol dire utilizzare risorse che la natura non sia in grado di digerire, eterno non vuol dire produrre risucchiando energia, la sostenibilità è vera innovazione, ci preserva da un futuro triste e grigio, a tal proposito vi segnalo l’articolo sul design sistemico nella rubrica ecodesign e sostenibilità del collettivo NUUP o ancora “il valore etico della qualità” di Maria Cristina Galgano. Rimettiamo l’uomo al centro, il suo ecosistema, non solo le cose, l’uomo è il target a cui rivolgere la produzione del nostro intelletto. L’uomo non ha molti bisogni materiali, non così tanti come vogliono farci credere i centri commerciali, la vita frenetica a cui tutti noi siamo sottoposti ne è la dimostrazione, forse ne ha di più di spirituali o comunque vuole essere sempre più partecipe nel processo inventivo, dirottiamo l’economia in questa direzione? In questo numero troverete una intervista molto interessante alla Dott.ssa Chierchia, Open Innovation Manager di Electrolux, impegnata sul fronte dell’innovazione esplorando concretamente il nuovo brodo primordiale dei Fablab e dei piccoli inventori.Ho la speranza che l’apertura dimostrata da molte aziende nei confronti della innovazione “dal basso” sia una opportunità per rendere più democratico questo consumismo, che lo renda più a misura d’uomo, e che non ci faccia perdere, almeno in Italia, le ultime opportunità di mettere a frutto le conoscenze sulla storia, sull’arte e sulla letteratura prima che il cinismo le uccida definitivamente, rendendo i calcoli (fragili) l’unico faro della creatività. Buona lettura, Nicola Lippi

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La forma della

MEMORIA

Nel primo articolo di questa rubrica abbiamo parlato di Walter Gropius il quale sosteneva che “ogni essere umano di qualunque estrazione sociale, produce MDM (mental design model). Si tratta di un’idea di prodotto elaborata dalla mente che nella sua componente sostanziale è statistica (è quindi simile a quella di qualunque altra persona che immagina quell’oggetto), mentre nella componente formale è soggettiva (generata, cioè, dalle esperienze sedimentate del singolo soggetto)”.

In altre parole Gropius ci dice che ogni persona possiede una sua natura creativa che usa per costruire e modificare il proprio contesto.

Ma allora perché non siamo tutti “creativi” allo stesso modo? Una spiegazione potrebbe venire da Freud, il quale nel suo testo Interpretazione dei sogni cerca di spiegare come molta della nostra natura creativa venga in qualche modo repressa durante la veglia a causa del condizionamento vigile, mentre nel sogno l’attività psichica soggettiva appare oggettiva, perché la facoltà percettiva concepisce i prodotti della fantasia quasi fossero vive impressioni sensoriali. Il sonno, in pratica, è una sospensione dell’esercizio dell’Io. Per certi versi si può affermare che l’attività creativa sia una pratica “estrema” o quantomeno non

convenzionale mentre l’aspirazione dello spirito umano a cogliere un nesso in ogni cosa è così intensa da spingerci a colmare involontariamente i difetti di coesione rilevabili (da molte persone) in un’attività di pensiero creativo. Quindi siamo tutti molto creativi da addormentati ma solo alcuni lo sono da svegli!

Successivamente, affrontando la discussione di “quale design per quale mercato per quale utente”, ci siamo posti la seguente domanda:

La “forma della memoria” (MDM di cui ci parlava

Gropius) che riconduce tutti a un’unica immagine può essere, ai fini della scelta, un elemento

di interesse trasversale a prescindere dalla classe sociale,

economica, e intellettuale di appartenenza?

di Giuseppe Alito

design industriale

La forma della

MEMORIAET

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Abbiamo capito che un “design” universale (in termini semiotici) sarebbe, oltre che

utopico, controproducente. Si rende, dunque, necessario un approccio di volta in volta

adeguato al mercato/utenza di riferimento. Tuttavia esiste una variabile comune nel

processo di percezione. Si tratta della forma della memoria o, per essere più

precisi, della componente sostanziale (di solito maggioritaria) di essa. Attenzione: il

riferimento, in tutti i casi, è alla forma (intesa come estetica) e alla funzione che ricopre

nell’attività percettiva di chiunque.

Un esempio per meglio comprendere di cosa parliamo può essere un semplice scolapasta. Tutte le persone sollecitate immagineranno

un oggetto di forma semisferica, con dei fori, dei manici, etc. Questa è la componente sostanziale (comune per tutti), mentre la

dimensione e la forma dei fori, dei manici, etc. rappresentano la componente formale la quale avrà certamente caratteristiche uniche per ogni

singolo pensiero/utente perché influenzata dalle esperienze personali di ognuno.

Ma da che cosa è determinata la componente sostanziale così pregnante nell’immaginario collettivo? Il filosofo Shopenhauer sosteneva che la rappresentazione del mondo si crea in noi, in quanto l’intelletto trasferisce nelle categorie di tempo, spazio e casualità le impressioni che lo colpiscono dall’esterno, James Sully (psicologo) sosteneva: “nel sonno ritorniamo ai nostri antichi modi di guardare alle cose e ai nostri antichi sentimenti verso di esse, ritorniamo a impulsi e attività che ci hanno a lungo dominato”. Quindi l’anzianità di un oggetto (in termini di presenza sul mercato e di funzione d’uso) che lo ha reso iconico, ossia rappresentativo di quella specifica categoria funzionale. L’idea dello scolapasta a semisfera rimanda a un oggetto antico pensato più per funzione che per forma. Quindi possiamo dire che un’altra caratteristica che alimenta la componente sostanziale dell’immaginario collettivo è una certa spiccata “dichiarazione” funzionale della forma che tende a rendere elementare la componente puramente estetica.

Arthur Schopenhauer, filosofo tedesco 1788-1860

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Per spiegare meglio il fenomeno basti pensare al vintage. Lo stato di sereno appagamento che un oggetto “antico” provoca nel consumatore è lo stesso provocato da un oggetto che rispetti i canoni di cui sopra nonostante si tratti di un oggetto nuovo. Due sono le componenti psicologiche che intervengono:

1. Il rimando all’antico porta con sé una latente consapevolezza (anche se spesso infondata) di qualità, perché è buono tutto ciò che esiste da tanto tempo, quindi affievolisce il dubbio della durabilità.

2. Una forte connotazione funzionale della forma (quindi componente sostanziale) dichiara più velocemente il fine per cui quell’oggetto è stato concepito. Questo aspetto, meno importante per l’area premium, è fondamentale nella zona più bassa dei mercati. Basti pensare che una qualsiasi persona assume la decisione di acquistare o no un oggetto in un tempo che varia tra i 5 e i 10 secondi. Questo è il tempo che lo stesso oggetto ha a disposizione per “dichiararsi”. A tal proposito nel testo di Freud “noi riconosciamo, interpretiamo esattamente, un’espressione sensoriale, cioè la inseriamo nella serie dei ricordi a cui appartiene secondo tutte le nostre precedenti esperienze, solo se l’impressione è sufficientemente intensa, chiara e duratura e se abbiamo a disposizione il tempo necessario”.

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Dark Side,Philippe Starck per

Baccarat, 2003

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Spesso accade, quindi, che un prodotto venga scartato semplicemente perché non capito. L’eccessivo uso di sterili formalismi adoperati per rendere “diverso” un oggetto rispetto a un altro ha finito per scardinare i canoni percettivi o addirittura a volte per annientarne la componente funzionale (sia percepita che reale).

Per tornare all’esempio dello scolapasta, immaginate la “nostra” casalinga che un giorno decide di acquistarne uno. Essa partirà da casa certamente con un’idea sua di scolapasta ma, come abbiamo detto in precedenza, quella sua idea è per la maggior parte sostanziale perché si tratta di una persona “normale” quindi non creativa. Trovandosi di fronte a una vasta offerta formale non ne sceglierà certamente uno triangolare o di altra forma “strana” e questo non per una questione di gusto estetico (che interviene in un secondo tempo) ma semplicemente perché non riconosce quell’oggetto in quella categoria funzionale che a lei serve. In poche parole essa vede uno scolapasta e alcune altre cose indefinite messe lì a fianco nei quali l’estetica ha fallito la missione funzionale di dichiarare subito e senza alcun dubbio lo scopo dell’oggetto, il quale viene scartato prima ancora di partecipare alla competizione.

A questo punto si potrebbe pensare che la forma della memoria serve esclusivamente per quei prodotti che si collocano nella parte bassa dei mercati. Sbagliato! Come abbiamo detto in precedenza il processo percettivo delle variabili che stanno alla base della componente sostanziale della forma della memoria è identico in tutte le fasce di consumo, mentre varia certamente (in linea tendenziale) nella componente formale che, col variare delle fasce di mercato subisce anche una trasformazione verticale. Quindi a quella determinata dalle esperienze (diverse) tra i singoli soggetti appartenenti a una stessa fascia di consumo (orizzontale), si aggiunge quella (verticale) determinata delle differenze comportamentali tra i soggetti appartenenti a fasce di consumo differenti.

Mentre per i primi (entry level) rappresenta uno “stato di necessità”, per i secondi (premium price) assume una funzione prettamente comunicativa. Il che è anche logico. Se torniamo indietro a rileggere quanto dicevamo rispetto alle scelte più minimal operate dalla fascia più alta del consumo.

Ma quali sono i prodotti che rispettano i canoni della forma

della memoria? E questi canoni valgono solo

per gli oggetti?

Ci sono tantissimi esempi di prodotti di questo tipo e, cosa molto interessante, tutti di grande successo commerciale.

Ad esempio molto del lavoro di Philippe Starck del secondo periodo è permeato da questa “filosofia” le lampade Miss Sissi e la serie Romeo Moon e Soft di Flos, i progetti per Baccarat, molti oggetti di Marcel Wanders per Moooi e per Alessi, quasi tutte le auto iconiche mostrano elementi di forma della memoria, basti pensare al frontale delle BMW, Mercedes, Alfa Romeo, Maserati, Bentley, Roll Royce. Tutte conservano la forma del radiatore come avveniva in origine.

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Ovviamente i canoni della forma della memoria, oltre che per gli oggetti, valgono anche nella costruzione di un brand o di una comunicazione. Mentre poco hanno a che fare con l’iconicità di un marchio. Un esempio potrebbe essere Moon Boot. A questo nome tutti collegano lo scarpone doposci, attribuendolo addirittura anche a modelli di altri marchi. Ebbene lo scarpone Moon Boot è oggetto iconico quindi “portatore-fautore” di forma della memoria per quella specifica categoria di prodotto mentre il marchio Moon Boot, pur essendo mono-prodotto no.Seguendo la logica del ragionamento, però, potrebbe sorgere il dubbio che pensare un oggetto secondo i canoni della forma della memoria implica il dover lavorare nel “meno” (forma) perché il “più” (funzione della forma) è in qualche modo già prestabilito. Quindi esiste il rischio che i prodotti siano tutti uguali, o addirittura che possano sembrare “vecchi”.

Per rispondere al dubbio direi che il problema non esiste. Applicare i canoni della forma della memoria è un processo ben più sofisticato della semplice replica di un oggetto in chiave vintage che farebbe virare il prodotto verso il gadget. Si tratta, invece, di sottili interventi che mutuano le nuove conoscenze acquisite, in termini tecnici e tecnologici, con l’utilizzo di pochi segni chiave che contengano la semiotica largamente diffusa per quella specifica categoria di prodotti. Un chiaro esempio è la lampada Romeo Soft di Starck prodotta da Flos. In essa troviamo i pochi segni (componente sostanziale) che rimandano tutti allo stesso oggetto l’abatjour, ma troviamo anche quanto di più moderno (riguardo ai materiali, i processi produttivi, le tecnologie inerenti le fonti illuminanti, etc.) esisteva al tempo della sua produzione, oggi a loro volta superati dall’avvento della tecnologia LED. Il tutto concepito in un mix assolutamente equilibrato privo di eccessi nella componete formale.Esistono molti esempi di interventi di questo tipo, alcuni particolarmente ben riusciti. La nuova Mini è uno di essi. Se confrontate il nuovo prodotto con il modello in produzione fino al 1999 e osservate nel dettaglio, sono molte le differenze che troverete (dimensione, rapporto proporzionale tra molte parti, numero di segni, etc.), ma nel complesso il nuovo “oggetto Mini” rimanda senza alcun dubbio all’icona che tutti conoscono, tanto quasi da sostituirsi all’icona stessa.

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Al contrario la cosa non è avvenuta con il progetto Panda di Fiat. L’auto di oggi che porta questo nome non ha nulla a che vedere con il concetto rivoluzionario di Giugiaro. Devo dire, purtroppo, che non fa parte nel dna della casa automobilistica italiana valorizzare i propri prodotti storici di successo, oggi più che mai dove il progetto delle auto sembra avvenga con photoshop (prendo il logo di qua e lo metto la), si veda il lavoro fatto (o non fatto) su Lancia e Chrysler. Per non parlare dello snaturamento del marchio Jeep con la nuova Cherokee, vecchia icona oggi irriconoscibile.

Esiste, infine, un’ultima categoria di prodotti iconici e che sono diventati tali perché non si sono “evoluti”. Sono rimasti praticamente immutati da sempre. Gli occhiali Persol 649, gli occhiali Ray Ban Wayfarer, la sedia Thonet nr.14, alcune borse di Hermes e di Vuitton, etc. Questi prodotti rappresentano in pieno la filosofia della forma della memoria perché sono puri rappresentanti della componente sostanziale. Tuttavia bisogna dire che, in questi casi, la non evoluzione è stata possibile solo perché di fatto non è avvenuta nessuna rivoluzione funzionale tale da costringere al cambiamento.

Il tema è certamente vasto e molto interessante. L’intento è sempre lo stesso, ricondurre il maggior numero di scelte verso un’oggettività che sia, però, meno palese possibile altrimenti risulterebbe noiosa. Tra i tanti esempi fatti, credo, che il progetto Mini sia quello più calzante nel quale la tanto inflazionata frase (spesso usata con accezione negativa) del mio conterraneo Tomasi di Lampedusa “cambiare tutto perché nulla cambi”, rappresenti la perfetta sintesi di un lavoro orientato alla conservazione ma che per essere efficace non può prescindere dalla trasformazione dettata dai tempi.

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Persol 649,concepito nel 1857

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Thonet Nr.14Sedia Thonet, Nr. 14,

1859

Ray-Ban Wayfarer,Original Wayfarer Classic,rappresentano una vera e

propria icona,1952

Tecniche di analisi del valore

PremessaIl peccato originale di molti progetti di sviluppo di un nuovo prodotto è la non comprensione dei requisiti del cliente e del loro valore (figura 1). Abbiamo già trattato il tema della definizione dei requisiti e della relativa importanza nell’articolo sul primo numero di METHODO quando abbiamo introdotto il QFD, Quality Function Deployment (o “Casa della Qualità”). Una volta che il “valore” è stato raccolto questo si deve in qualche modo scomporre all’interno del prodotto definendo per ogni funzione, sotto-funzione, sottogruppo o componente, un obbiettivo di costo coerente con quanto il cliente è disposto a riconoscere per quella determinata caratteristica. Attenzione, non commettiamo l’errore di trarre le stesse valutazioni che si possono fare sul costo del prodotto con quelle sul prezzo di listino. Il listino segue delle logiche che non sempre sono il semplice costo del prodotto più margine; il listino è un’indicazione che normalmente si scontra con le logiche di mercato ed è proprio quest’ultimo a definirne il prezzo sulla base delle performance che sono riconosciute al prodotto stesso ma non solo quelle. L’acquisto segue logiche che spesso vanno ad attribuire un valore a caratteristiche immateriali quali il brand, la storicità e l’esperienza sul mercato, i servizi che vengono offerti a corredo, le garanzie, la velocità di risposta e di consegna. Siamo quindi di fronte a delle tecniche, degli strumenti che vanno utilizzati ben consci dei loro limiti, utilizzati per trarre delle indicazioni, facendo bene attenzione a non cercare di osservare segnali pari o superiori all’errore che, utilizzando questi strumenti, inevitabilmente si commettono.

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sviluppo prodotto

di Nicola Lippi

Ma quali sono gli scopi dell’analisi del valore?

• offrire al cliente il prodotto/servizio al giusto valore, solo con le funzioni richieste, realizzate al minimo costo possibile;

• non ridurre la qualità del prodotto per ridurne i costi;

• agire soltanto sulle caratteristiche del prodotto che non sono importanti per il cliente.

Sostanzialmente si utilizzano questi strumenti per andare a ridurre i costi dove questi non giustificano un adeguato livello di performance. Non più tagli “lineari” ma pesati e su ciò che evidentemente penalizza il prodotto in fatto di costi senza aumentarne il valore.Dal punto di vista strategico:

• incrementare il valore del nuovo prodotto,

l’unico modo per superare la concorrenza, proponendo al mercato un prodotto realmente “nuovo” per il cliente;

• fare vera innovazione di prodotto superando il trade-off tra funzione e costi;

• incrementare il valore perché è anche l’unica vera leva per creare un vero nuovo mercato.

Spesso l’analisi dei costi è un lavoro “part time”, i prodotti o i servizi nascono con costi non necessari ridotti poi in estenuanti sessioni di cost reduction in fasi avanzate di sviluppo, se non addirittura con il prodotto sul mercato. Con queste tecniche si vuole progettare il bilanciamento tra costi e funzioni in modo da avere fin da subito chiari gli obiettivi scomposti per sotto-funzioni o sottogruppi in modo da avere maggiori informazioni e riuscire a mantenere i costi sotto controllo senza sottrarre risorse preziose a funzioni fondamentali.

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Figura 1

Definizione di “valore”

Il valore è ormai universalmente identificato come rapporto tra “funzionalità” e “costo” (figura 2).

Quando si parla di funzionalità significa sostanzialmente descrivere la “forza” di un determinato prodotto (o sotto-funzione), ovvero la capacità di fornire prestazioni elevate in corrispondenza di caratteristiche importanti. Per esempio, nella scelta di un elettrodomestico saremo molto più attenti alla classe energetica (a cui diamo molta importanza) rispetto all’imballo (di cui ci accorgiamo solo per qualche istante, prima del primo utilizzo). Quindi è normale che una parte maggiore del costo del prodotto sia dedicata a sistemi capaci di contenere i consumi e maggiore sarà la classe (che è una prestazione), maggiore sarà il suo prezzo. Si dedicheranno quindi minori risorse all’imballo per soluzioni che siano in linea con il livello di importanza attribuibile allo stesso.Normalmente prodotti che sono da tempo sul mercato, consolidati, difficilmente presentano un “bilanciamento” del rapporto funzione/costo anomalo. Il mercato ha infatti negli anni “scolpito” il prodotto obbligando l’azienda produttrice ad allinearsi su soluzioni e costi compatibili con le esigenze del consumatore. È normale scoprire che quando si adottano queste metodologie su un prodotto esistente, o comunque presente da anni sul mercato, questo sia sostanzialmente “bilanciato”, l’habitat in cui vive lo ha obbligato a plasmarsi e a evolversi secondo precise logiche di valore. Questo “habitat” non è altro che il mercato e svolge un ruolo fondamentale perché è esso stesso a definire il valore, quindi, se non esiste mercato o comunque confronto, non si può definire il valore di nulla. Un prerequisito quando si adottano queste tecniche è avere qualcosa con cui confrontarsi, tipicamente una delle seguenti situazioni:

• due soluzioni con due costi diversi e

prestazioni differenti su cui voglio effettuare una scelta in base al valore;

• almeno un prodotto della concorrenza a cui fare riferimento.

Va da sé che se offriamo al mercato una funzione completamente nuova, innovativa, che nessun altro propone, che va a coprire un bisogno importante per il cliente, per il solo fatto di non avere rivali, il valore tende all’infinito o, rimanendo sulla terra, siamo di fronte a un’importante opportunità di business: tutto questo fino a quando un concorrente non proporrà la stessa soluzione, solo a quel punto comincerà la guerra sui costi.

Ma come si calcola il “valore”, in particolare

come si arriva a definire la funzionalità?

Intanto è importante chiarire di quale valore stiamo parlando

Valore per il cliente = Funzionalità-PrezzoValore per l’azienda = Prezzo-Costo

Come abbiamo avuto modo di chiarire, non è possibile in questo contesto inserire la complicazione del “prezzo”, rimarremo tra funzionalità e costo anche se già questo ci impegnerà a sufficienza dandoci modo di orientare meglio il prodotto sul mercato conferendogli un profilo di funzionalità (che abbiamo intravisto con il QFD) coerente con il conseguente costo.

Vediamo ora cosa in tendiamo con il rapporto F/C, ovvero il valore

Immaginando di avere diverse (n) funzioni a cui è associato un costo possiamo anche scrivere per la singola funzione:

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Figura 2

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Da cui si può concludere che il Valore globale di un prodotto è dato dalla sommatoria dei valori delle singole sotto-funzioni (o sottogruppi a cui fanno riferimento), pertanto:

doveIi = Importanza della i-esima funzioneAi = Adeguatezza della i-esima funzioneC = Costo totale del prodotto

È importante ora descrivere il percorso per arrivare a definire i numeri corretti da inserire nelle formule appena descritte. Nel paragrafo successivo parleremo proprio di questo.

Il percorso operativo

In figura 3 è descritto il percorso per arrivare alla definizione del valore. La prima operazione da compiere è quella di descrivere quali funzioni e requisiti deve soddisfare il prodotto oggetto dell’analisi, indicati in figura con i termini “F”. Successivamente si devono individuare i valori di importanza delle singole funzioni per poi attribuire

alle stesse dei parametri misurabili. Tutta questa prima fase assomiglia a qualcosa che abbiamo già visto in precedenza: si tratta, di fatto, di quanto il QFD ci restituisce con un’analisi molto più attenta ed elaborata. In ragione di questo, qualora si disponga di un QFD già completato, questo può e deve essere il punto di partenza dell’analisi del valore. In figura è rappresentata l’area che potrebbe essere alternativamente coperta con il QFD.

Completata questa prima parte, è necessario scomporre la struttura del prodotto, la sua architettura nelle singole parti o sottogruppi che la compongono. Di queste parti si deve conoscere il costo (possibilmente comprensivo del montaggio delle parti in questione). A questo punto è chiaro che, se si vuole fare un’analisi del valore, è necessario avere la struttura del prodotto e quindi almeno il concept o i concept che si vogliono valutare oltre a una stima dei costi. In alternativa, avendo già Importanza e Adeguatezza (la performance della funzione), possiamo semplicemente attribuire il costo a suddette funzioni e limitarsi in seguito a monitorare che questo venga mantenuto entro il budget definito. Come vedremo, infatti, la percentuale di FxI della singola funzione dovrebbe essere pari alla percentuale di costo del totale per l’esecuzione della stessa.

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Figura 3

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Proveremo a fare qualche esempio per chiarire meglio questi concetti. In particolare vedremo tre casi di utilizzo della analisi del valore:

1. verificare il bilanciamento del costo all’interno del prodotto per compiere riduzioni costo mirate dove il rapporto tra prestazioni e costo è svantaggioso, evitando quindi “tagli lineari”;

2. scegliere tra due o più soluzioni quella che presenta il rapporto prestazione/costo maggiore;

3. analizzare il proprio posizionamento competitivo rispetto alla concorrenza.

Vedremo tutti i tre casi.

Analisi del valore di un prodotto

Esistono diverse modalità per condurre l’analisi del valore, noi utilizzeremo il metodo più comune e semplice, regola d’oro in questo tipo di analisi è porre le complicazioni solo dove effettivamente possono servire. In figura 4 è riportata una semplicissima analisi del valore di un comune tagliaerba. Si procede come dallo schema di figura 3. Per prima cosa si individuano le funzioni che devono essere svolte dal prodotto, in questo caso

“tagliare l’erba”, “raccogliere l’erba”, “avanzare con una velocità di taglio adeguata”. A queste funzioni si associa un valore d’importanza (da 1 a 5 come da didascalia), valutazioni che possono essere svolte internamente da un gruppo interfunzionale (anche con metodologie un po’ più complesse come vedremo nei paragrafi successivi), oppure attraverso questionari fatti compilare ai propri clienti per ottenere un grado di precisione maggiore. Una volta definita l’importanza, si impostano i parametri con i quali è possibile “misurare” l’adeguatezza con la quale si realizza la funzione e se ne indica la specifica attuale, il livello di performance. Se ricordate, importanza del requisito e livello di specifica sono gli output principali del QFD, il quale è lo strumento migliore per svolgere questa parte e l’analisi del valore è il naturale proseguimento dello stesso. Nel caso il QFD non sia disponibile, questo è il modo più semplice con cui procedere e ricavare queste informazioni.

Una volta definita la specifica, come ad esempio la velocità di taglio in metri al minuto, dobbiamo valutare il grado di adeguatezza della stessa al mercato. Ecco che, come avevo anticipato, condurre un’analisi del valore vuol dire in un certo senso confrontarsi con il mercato, in questo caso esprimendo una valutazione molto qualitativa

(da 1 a 5). In seguito svolgeremo meglio questo compito immaginando di conoscere anche i dati della concorrenza (vedi ancora QFD). Il passo successivo è quello di calcolare il valore d’importanza per adeguatezza (IxA), il numeratore

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Figura 4

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nella formula del valore. Questo valore espresso in termini percentuali non è altro che il target di costo per svolgere quella funzione che deriva dall’importanza della stessa e dall’obiettivo di performance che ci si è posti. Arrivati a questo punto è necessario scomporre il costo del prodotto per funzione, questa è l’attività più complessa, dove è facile commettere errori specie quando il prodotto è molto integrato, cioè pochi componenti svolgono molte funzioni. È necessaria una notevole

conoscenza del prodotto e dei suoi componenti, una modellazione funzionale del tipo già visto quando si parlava di architettura potrebbe essere di aiuto per comprendere “chi fa che cosa”. Per quanto correttamente si possa condurre questa scomposizione possiamo serenamente affermare che proprio da qui nascono i maggiori dubbi sulla precisione ottenibile da questa analisi ed è per questo motivo che suggerisco sempre di cogliere solo i segnali forti derivanti da questa analisi piuttosto che le differenze di un 2-3% nel rapporto del valore. Una volta sommati i costi per funzione derivanti dalla scomposizione è possibile calcolarne il rapporto (in termini di percentuali) valore-costo scoprendo se è presente un “buon bilanciamento” o, come in questo caso, “recuperare

l’erba tagliata” ha dei costi molto superiori a come la funzione viene svolta, e quanto la stessa sia importante (il famoso IxA). È interessante produrre un grafico comunemente chiamato “mappa del valore” riportato in figura 5.

Possiamo notare come il “tagliare l’erba” sia adeguato, “velocità di taglio” più che adeguato (performance elevate rispetto ai costi per ottenerle) mentre il “recuperare l’erba” costi troppo rispetto

a quello che fa. Per risolvere il problema di quest’ultima funzione ci sono tre opzioni possibili. La bisettrice è la linea che raccoglie i punti dove il valore è 1 (100% nel grafico), ovvero dove IxA = C.

1. eliminare la funzione; 2. ridurre il costo della funzione a parità di

performance;3. aumentare le performance a parità di costo.

La raccomandazione che mi sento di fare nell’analizzare questi valori e il relativo grafico è quella di guardare ai segnali “forti”, alle grandi differenze percentuali tra costo e IxA, ponendo attenzione ai punti che si discostano di molto dalla linea bisettrice, soprattutto nell’area bassa.

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Figura 5

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Ricerca della soluzione che massimizza il valore

Immaginiamo ora di dover scegliere tra tre diverse configurazioni di prodotto, cioè che il nostro tagliaerba possa avere tre concept diversi con prestazioni e costi differenti. Una visione semplicistica del problema potrebbe portare a scegliere il concept più economico in senso assoluto, a noi piace invece capire se il rapporto tra ciò che il prodotto è in grado di offrire e il suo costo siano coerenti. In pratica sceglieremo il prodotto con il valore più alto, ovvero (IxA)/C più elevato. L’esempio è riportato in figura 6.

Se analizziamo i soli costi, la soluzione 2 è quella sicuramente più vantaggiosa, mentre a parità di costo tra la 1 e la 3, quest’ultima presenta un valore superiore (0,57 contro 0,41 della 1). Tutte queste considerazioni valgono fino a quando il portafogli del nostro cliente è in grado di coprire i costi, sappiamo bene che tra una 500 e una Ferrari le performance e quindi i costi sono differenti. Pur riconoscendo un adeguato valore alla Ferrari, non tutti se la possono permettere.

Confronto con la concorrenza

Verifichiamo ora come sia possibile, con gli stessi strumenti, confrontare i valori di prestazione (Importanza x Adeguatezza) di un nostro ipotetico prodotto (sempre un tagliaerba) rispetto a due prodotti della concorrenza. L’esempio è riportato in figura 7.

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Figura 6

Figura 7

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Se conoscessimo anche i costi della concorrenza saremmo in grado di capire inoltre se il nostro valore è maggiore o minore, potremmo forse fare qualche ragionamento sul prezzo, ma con tutte le cautele del caso come abbiamo già sottolineato precedentemente. In mancanza (come spesso accade) di queste informazioni ci limiteremo a verificare il posizionamento competitivo, riassunto nel grafico di figura 8.

Aumentare il grado di precisione dell’analisi

Abbiamo già sottolineato quanto questo metodo subisca l’influenza di valutazioni perlopiù qualitative o comunque in parte soggettive. Per cercare di rendere più affidabile l’analisi del valore è opportuno introdurre alcune modifiche al modo di valutare l’importanza delle funzioni e al modo di valutare l’adeguatezza delle stesse, fino a ora, infatti, avevamo lasciato a una scala da 1 a 5, solo in parte legata a valori di prestazione, questo compito. Ridurre l’errore nella valutazione di importanza è fondamentale perché da queste dipende il peso con cui moltiplicare l’adeguatezza.Iniziamo dai valori d’importanza. Nel caso si disponga di dati dal mercato (indagini etc.) è bene utilizzare sempre queste ultime, in caso contrario il metodo migliore è l’AHP, Analytic Hierarchy Process. L’Analytic Hierarchy Process (AHP) è una tecnica strutturata per prendere decisioni complesse. Il metodo AHP aiuta I “decision makers” a tradurre concretamente e in maniera formale le informazioni che già

possiede. Basato su matematica e psicologia il metodo AHP è stato sviluppato da Thomas L. Saaty negli anni 70 e successivamente affinato. È particolarmente utilizzato in “group decision making” nel mondo in una moltitudine di “decision situations”, nel campo della politica, del business, nell’industria in genere, salute ed educazione. In figura 9 è riportato l’esempio di calcolo. Tutto si basa sul prendere atto che il nostro cervello riesce a esprimere meglio le sue valutazioni quando è messo nelle condizioni di poter confrontare. Nell’AHP i confronti avvengono a coppie, in una specie di “campionato” delle funzioni che alla fine produce una classifica.

L’aspetto interessante è quello di riuscire, matematicamente, a valutare il grado di coerenza dei giudizi che si esprimono con questo metodo. Bisognerebbe parlare di Autovalori massimi di matrici, pertanto non mi soffermerò in questo articolo su questo aspetto, mi limiterò a citare nella bibliografia i testi che potrete consultare. Posso solo affermare, in base all’esperienza accumulata nell’applicazione dell’AHP in diversi progetti, di avere trovato di rado una “non coerenza” dei giudizi espressi, questo perché il metodo è molto robusto e la nostra mente è capace di essere

molto efficace nel giudicare coppie, piuttosto che elenchi numerosi.La seconda correzione nell’analisi riguarda la valutazione dell’adeguatezza. In figura 10 è riportato il nostro esempio dove si può notare

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Figura 8

Figura 9

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come l’adeguatezza della funzione viene valutata in termini percentuali come rapporto tra prestazione del nostro prodotto e prestazione media di mercato: ad esempio, “Avere adeguata velocità di taglio” vale per il nostro prodotto 20 metri al minuto, 18 per il concorrente 1 e 25 per il concorrente 2. La media di mercato è quindi 21. Pertanto 20/21=95%, quindi 5% al di sotto, questo valore moltiplicato per l’importanza (37%) ci fa ottenere IxA = 35%. È interessante osservare come, alla fine di queste valutazioni, la somma degli IxA delle varie funzioni non è scontato porti ad avere 100%. Se conoscessimo anche la media di mercato dei costi (o dei prezzi) potremmo calcolare il valore per ogni concorrente e valutare l’adeguatezza della nostra proposta commerciale o quanto meno capire se vi sono dei macro scostamenti. Nell’esempio osserviamo come il concorrente 2 presenti un IxA complessivo del 105%. Potrebbe sfruttare questo vantaggio competitivo sui suoi costi aumentando gli stessi di un 5% rispetto alla media di mercato? E il prezzo? A parità di margine, e quindi di struttura dei costi in azienda, forse potrebbe essere superiore a patto di saper riuscire a far percepire al cliente il maggiore valore della propria soluzione. Ma siamo sicuri che questo prodotto, seppur superiore come prestazione, sia compatibile con la capacità di acquisto del nostro cliente? Siamo sicuri che il cliente non valuti anche altri servizi accessori, quali capacità di assistenza tecnica? Oppure solidità e storicità del brand, o ancora altri fattori che normalmente non possono essere inseriti nel prodotto? Insomma non fatevi ingannare dalla semplicità di questi strumenti, utilizzateli per ciò che sono: una rappresentazione semplificata della complessa realtà.

Bibliografia consigliata:

Quality function deploymentF. Franceschini Lingua: Italiano

Progettazione e sviluppo di prodottoK.T. Ulrich, S. Eppinger, R.FilippiniLingua: Italiano

Il decision marketing e i sistemi decisionali multicriterio. Le metodologie AHP e ANPFabio De Felice, Thomas L. Saaty, Domenico Falcone Lingua: Italiano

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Figura 10

LUCIA CHIERCHIA

Ruolo: Open Innovation Manager

Azienda: Electrolux

Ruolo: Open Innovation Manager

Azienda: Electrolux

Partiamo dal suo background. Ci potrebbe raccontare le tappe fondamentali del suo percorso formativo e lavorativo?

Ho una Laurea in Ingegneria Meccanica, conseguita presso il Politecnico di Milano, e un Master in Technology and Innovation Management, ottenuto presso la Business School di Bologna.

Ho iniziato il mio percorso professionale nel settore aerospaziale, in Alenia Difesa, e successivamente sono passata al settore degli elettrodomestici, in Whirpool Corporation, dove ho compiuto un percorso della durata di circa sei anni ricoprendo diversi incarichi, da responsabile progetto fino a ruoli manageriali in area Ricerca e Sviluppo. Whirlpool mi ha dato l’opportunità di lavorare in un ambiente internazionale, fondamentale per imparare a muoversi nell’attuale contesto di mercato.

Tappa successiva è stata l’approdo nel gruppo Electrolux, nel 2006, dove inizialmente ho proseguito il mio cammino “tradizionale” all’interno dell’R&D management . Nel 2011 mi è stata offerta l’opportunità di guidare un nuovo team, ancora da costruire, con l’obiettivo di implementare il modello Open Innovation: si trattava di una sfida che avrebbe fatto leva su competenze multidisciplinari, con obiettivi chiari ma una strada tutta da costruire, qualcosa di decisamente nuovo non solo per me ma anche per l’azienda stessa. Ho accettato la sfida e oggi guido il team Open Innovation del gruppo Electrolux: tre persone in Europa e tre in Cina, che cercano nuove opportunità di business per l’azienda, interagendo ogni giorno con un network esterno di innovatori.

un viaggio alla scoperta di nuovi orizzonti

OPEN INNOVATION:

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interview

Come riconoscimento per il mio percorso professionale, nel 2013 ho ricevuto l’“Alumni Polimi Award” dal Politecnico di Milano, diventando membro di “Minds Shaping the World”.

In cosa consiste il modello Open Innovation e come lo avete implementato in azienda?

Open Innovation è un nuovo modo di fare business costruito mediante la sinergia tra l’azienda e un network esterno di innovatori. La sfida consiste nell’andare oltre la rete tradizionale di player esterni con cui già interagiamo: l’obiettivo è difatti catturare soluzioni innovative in quelli che chiamiamo gli “ecosistemi non tradizionali”, dove vivono persone brillanti con differenti background: inventori che costruiscono prototipi in garage, startup in cerca di finanziamenti, professori universitari che propongono nuove tecnologie, aziende che cercano nuovi business.

Di norma un’azienda aperta costruisce innovazione con partner esterni all’interno di una cosiddetta “trusted network”, un sistema chiuso in cui vi sono i partner esterni di cui ci fidiamo, quali fornitori, clienti, università e altre aziende. Vi sono però numerosi innovatori nascosti o perché piccoli – ad esempio startup e singoli inventori – oppure perché molto lontani dal nostro settore tecnologico o di business. L’interazione con questi nuovi ecosistemi offre opportunità di business uniche: la sfida consiste nel trovare un modo

per raggiungerli, intercettarli e portarli all’interno dell’azienda. Ciò non significa che la “trusted network” debba passare in secondo piano; anzi, fornitori, clienti e altri partner possono creare sinergie con i nuovi player provenienti dalla nuova rete Open Innovation.

Il trucco consiste nel creare alleanze strategiche con partner intermedi – che chiamiamo open innovation broker – ovvero personaggi che a loro volta fanno da ponte tra noi e gli innovatori. I broker possono essere le banche e gli investitori, che tutti i giorni eseguono uno scouting di idee di business in cerca di finanziamento; oppure aziende specializzate nello scouting tecnologico, che offrono accesso alla loro rete di innovazioni.Abbiamo definito un workflow per poter gestire le idee, ossia cercare soluzioni innovative, analizzarle, filtrarle e promuoverle all’interno dell’azienda in incontri periodici, che chiamiamo open innovation board: se un’idea viene approvata, diventa progetto e viene gestita mediante il tradizionale processo di project management aziendale.

Parallelamente esiste un workflow dedicato allo scouting dei broker. Valutiamo costantemente nuovi potenziali intermediari che offrono diverse tipologie di servizi, al fine di raggiungere innovatori in tutte le parti del mondo. Anche in questo caso l’ultimo passo decisionale avviene tramite un open innovation board: se un broker viene approvato, viene attivato un contratto di brokeraggio della durata di qualche mese o qualche anno.

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Mi ha appena descritto quali sono i broker che vi permettono di raggiungere più facilmente gli innovatori. Le chiedo, cosa ne pensa dei Fablab?

Fablab è, in termini open innovation, un ecosistema molto potente e molto innovativo. Rappresenta il modello di lavoro del futuro, anzi, del presente. Il Fablab ha una moltiplicità di valori. È innanzi tutto una rete di innovatori, da cui riceviamo proposte in modo spontaneo e costante. Inoltre ha una caratteristica che ne raddoppia il valore: è un partner che ci può aiutare a sviluppare le idee, a prototiparle e realizzarle velocemente grazie al loro modello molto snello e trasparente e alla loro rete ampia e ben strutturata. Infine il Fablab può giocare da broker perché è un nodo verso una rete molto fitta di innovatori.

Il vostro approccio ai broker in cosa si distingue da quello di altre aziende?

Utilizziamo sia broker tradizionali, ossia partner che hanno fatto dello scouting il loro modello di business, e broker non tradizionali, ossia player che ci offrono accesso alla loro rete di innovatori anche se ciò non è parte del loro focus strategico.La maggior parte delle aziende che fa open innovation si rivolge ad altre aziende che di mestiere fanno scouting e che quindi offrono accesso a un network di innovatori, mediante il pagamento di una quota che normalmente non è legata al risultato di business. È un approccio che funziona ma offre opportunità limitate.Vi sono difatti altri player che sono agganciati a una rete di innovatori/imprenditori, a cui proponiamo di fare da broker. Molti di loro accettano la sfida. Ad esempio, abbiamo trasformato in broker una piccola startup indiana – che offre servizi tradizionali di R&D – poichè hanno evidenziato di avere un link forte con il mondo accademico indiano. Ora, grazie alla nostra proposta, hanno un business model aggiuntivo.Tutti i player, Fablab ma non solo, che hanno capito il valore della rete, intesa come persone che appartengono a mondi diversi, possono fare squadra tra loro e conseguire risultati altrimenti inimmaginabili.

Parlando con vari amministratori di

Mi è stato chiesto di accettare una

sfida importante; qualcosa di nuovo

non solo per me ma per l’azienda

stessa: l’Open Innovation.

Ho accettato la sfida!

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LUCIA CHIERCHIA

aziende sia italiane che straniere, ho notato un forte pessimismo di fondo. Lei cosa ne pensa?

Purtroppo vedo che molte aziende italiane hanno un management con uno stile obsoleto: accentratore, chiuso, diffidente. Mi rendo conto che spesso l’ambiente non è favorevole all’ascolto e pertanto risulta difficile fare innovazione aperta.C’è una chiusura molto forte a livello di piccole, medie e grandi imprese. Vedo invece un’apertura, una voglia di fare da parte delle piccole startup: team non timorosi di andare contro corrente rispetto al mondo imprenditoriale tradizionale.Vedo inoltre la difficoltà a finanziare progetti di rischio. Se si parla di innovazione vuol dire che c’è un livello di rischio più alto altrimenti la soluzione non è innovativa ma ovvia. In italia vi è un certo scoramento a riguardo, ma vi sono per fortuna iniziative di grande valore che possono fare la differenza per molte realtà imprenditoriali. Ad esempio Confindustria – con cui Electrolux collabora – ha un programma specifico per supportare le aziende a implementare il modello di open innovation. Unicredit e Intesa San Paolo hanno implementato delle vere e proprie piattaforme per aiutare le giovani startup a costruire i loro business plan e a trovare finanziamenti. Triwù e StartupBusiness hanno creato delle reti di innovatori accessibili a tutti e rappresentano dei role model sul nostro territorio.Anche Electrolux offre supporto a tutti coloro che vogliono scoprire come funziona il modello open innovation. Teniamo ad esempio webinar periodici gratuiti per chiunque voglia imparare quali metodologie e strumenti usare per fare open innovation . Offriamo anche supporto ad hoc a singole aziende, sempre in forma gratuita, poiché aiutare gli altri a fare rete fa parte della nostra visione.

Nell’intervista a Massimo Temporelli, co-fondatore di The FabLab: Make in Milano, pubblicata sull’ultimo numero di Methodo, viene riportata la frase: finché c’è innovazione c’è speranza. Lei è d’accordo con quest’affermazione?

Io vorrei lanciare un messaggio ancora più forte, se possibile, che è poi quello che noi abbiamo veicolato all’interno dell’azienda quando siamo partiti a sperimentare il modello open innovation. Abbiamo riconosciuto nell’innovazione aperta l’unica strada percorribile per fare business. Non si tratta solo di avere speranza nel futuro, si tratta di comprendere che la strada è questa e non vi sono alternative.Se si crede di poter fare tutto da soli, non si può andare lontano. I grandi risultati si raggiungono insieme ad altri. La grande azienda può fare sinergia con la piccola startup.Noi amiamo dire “guidiamo la macchina mentre la stiamo costruendo”: l’obiettivo è chiaro, ma la strada deve spesso essere

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definita cammin facendo. È pericoloso, complesso, ma il potenziale è molto grande.

Le istituzioni, secondo il suo parere, possono dare una mano in questo processo di innovazione?

Se facciamo riferimento al Governo – in particolare al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – allora la risposta è sì, si può fare tanto, però è necessario muoversi più velocemente e in modo nuovo, creando un ponte tra chi fa politica e le imprese.A livello europeo vedo diversi cambiamenti in corso. Ad esempio Horizon 2020 offre incentivi a progetti che hanno un chiaro potenziale impatto a livello industriale. Finalmente vengono incentivate le interazioni tra il mondo accademico e quello industriale Vedo finalmente un cambiamento in atto, penso sia un bel segnale.

Che significato ha per lei la parola Metodo?

Le rispondo in due punti.

Primo: quando si parla di innovazione spesso si pensa solamente alla componente creativa. Innovazione sicuramente richiede creatività – che può provenire dall’interno o dall’esterno dell’azienda – però poi per mettere in pista le idee di business è necessario, anzi direi cruciale, non soltanto avere un metodo, ma un metodo snello. Secondo me il valore nasce dalla creatività abbinata a un metodo.

Il secondo punto è che in realtà innovare, per un’azienda, non vuol dire soltanto innovare i propri prodotti, i propri processi, i propri servizi ma il proprio modo di lavorare. Non possiamo pensare di fare una lavatrice innovativa se non rinnoviamo il nostro modo di progettare. In quest’ottica l’open innovation è qualcosa di più di un metodo, in realtà è un modello di lavoro, è un modello di interazione tra le persone che deve avere al suo interno metodologie e strumenti, altrimenti sarebbe ingestibile. Parlare con il mondo esterno – noi riceviamo ogni giorno 40-50 soluzioni innovative – senza avere un metodo sarebbe praticamente impossibile.

Metodo, quindi, è certamente una parola chiave.

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Quanto è importante, per lei e il suo team, coniugare la tecnologia alla creatività?

Come è fondamentale collegare creatività e metodologia così è fondamentale collegare, nella maniera opportuna, tecnologia e business. Infatti, se devo trovare un sinonimo di innovazione, l’unico che mi viene in mente è business. La tecnologia non è innovazione, è in realtà un driver, potentissimo ma solo un driver, verso l’innovazione.

Quali sono gli aspetti più gratificanti e quelli più complicati del suo lavoro?

L’aspetto gratificante è uno: avere l’opportunità di interagire tutti i giorni con persone brillanti sia all’interno dell’azienda che al di fuori, spesso persone fuori dal comune. Il dialogo con gli innovatori è un’opportunità di accrescimento non solo professionale ma soprattutto personale.

L’aspetto più critico è quello gestionale: definire un workflow per gestire un numero elevato di innovatori, interagendo con una realtà interna molto grande, facendo “scorrere” le idee per non creare colli di bottiglia; inoltre, trovare nuovi modi per gestire in modo appropriato la proprietà intellettuale, favorendo sinergie con player non tradizionali.

Può lanciare una provocazione oppure lasciare un consiglio ai professionisti che leggono la nostra rivista. Quale opzione sceglie e di cosa si tratta?

Vorrei lanciare un messaggio: abbiamo tutti l’opportunità di percorrere un viaggio alla scoperta di nuovi orizzonti, nuove opportunità, nuovi business, ... perché fare questo viaggio da soli? Perché fare questo viaggio rinchiusi nel proprio ufficio? Possiamo aprire la porta al mondo esterno, possiamo fare il viaggio insieme ad altri, insieme a persone molto diverse da noi, consapevoli che la diversità è un valore unico.

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L’importanza del comportamento sostenibile

in un edificio

IntroduzioneNegli ultimi anni, in particolare negli ultimi dieci per l’Italia, si sono sviluppate nuove normative sempre più esigenti in termini di riduzione dei consumi energetici, in particolare per quello che riguarda gli edifici. Allo stesso tempo, l’aumento del costo dell’energia spinge i “gestori di immobili”, siano essi privati o aziende, a trovare soluzioni per ridurre i propri consumi.In questo scenario si moltiplicano quindi le opportunità di carattere sia gestionale che tecnologico per migliorare la prestazione energetica di un edificio, in particolare per gli edifici esistenti. Tra tutte le soluzioni più ampiamente studiate dalla letteratura non vi è però una delle più redditizie, ovvero il comportamento umano nella gestione dell’energia consumata da un edificio. Se il comportamento del singolo privato ha un grande impatto sui consumi della propria abitazione, questo impatto su edifici a uso lavorativo, in particolare su edifici a uso uffici, può diventare enorme, tanto che alcune aziende operanti nel settore terziario iniziano a considerare l’intervento di formazione del proprio personale alle corrette pratiche energetiche come intervento prioritario per ridurre i propri consumi.

La spinta

La spinta al risparmio energetico è quindi duplice: legislativa ed economica. Da una parte si sviluppano norme in merito alla costruzione di nuovi edifici e alla messa in commercio di materiali da costruzione sempre più efficienti. In contemporanea però si vuole offrire la possibilità di mettere mano agli edifici esistenti, spesso realizzati in periodi in cui il controllo dei costi energetici e la scarsità di fonti non rinnovabili non erano sicuramente un parametro da prendere in considerazione. Si

di Massimo Granchi e Riccardo Bozzo

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punta quindi a innescare logiche di mercato che tendono a premiare edifici a maggiore efficienza, che risultano più economici in fase di gestione, e a creare soluzioni, oltre che incentivi, mirati al miglioramento delle dotazioni tecniche del proprio edificio.

Dall’altra parte il risparmio economico garantito dall’efficienza del proprio edificio è ormai un fatto noto a ogni livello della società, efficienza che investe non solo la gestione dell’aspetto legato al consumo di energia per la parte termica, ma anche per l’uso di corrente elettrica.

Mentre le soluzioni tecniche per migliorare l’efficienza di un edificio sono molteplici e sempre più raffinate, poco si fa per modificare il comportamento delle persone che occupano tale edificio e anche poco si conosce al riguardo. Solo di recente iniziano a comparire pubblicazioni scientifiche che confrontano la modifica del comportamento degli occupanti con un intervento di tipo tecnologico, a livello di analisi costi-benefici.

L’impatto del comportamento umano

Il comportamento umano nei confronti della gestione delle risorse energetiche afferenti a un edificio è sicuramente un fattore estremamente importante. Deve essere però scisso in due differenti accezioni: il comportamento in un edificio di nuova concezione e quello in un edificio esistente. Se infatti la formazione nel primo caso è centrale per far comprendere e sfruttare al meglio le nuove tecnologie di cui dispone l’edificio, aumentandone altresì l’efficienza, con le quali non siamo abituati a confrontarci, nel secondo caso la formazione diventa un vero e proprio intervento di riduzione dei consumi paragonabile a un intervento tecnico, ed è questa la parte su cui ci vogliamo concentrare in questo articolo.

Gli studi scientifici in materia risultano molto difficoltosi e affetti da notevole incertezza, correlata a due aspetti principali: le differenze costruttive degli edifici stessi, quindi le differenti reazioni degli stessi al comportamento umano, e la stretta interconnessione del comportamento delle persone con il confort da loro percepito nel permanere all’interno dell’edificio. Se infatti

la parte correlata al consumo elettrico per l’impiego di attrezzature (PC, attrezzature da ufficio, elettrodomestici, etc.) e illuminazione è direttamente influenzata dal solo comportamento, la parte correlata alla gestione della temperatura interna – quindi dei sistemi di riscaldamento e raffrescamento – è maggiormente influenzata dal confort ambientale percepito, quindi più difficilmente modificabile.

Uno studio effettuato su abitazioni residenziali in otto differenti stati americani (Ed Carroll & Eric Hatton – Franklin Energy, Mark Brown – Greenway Insights 2009) ha coinvolto gli occupanti in un processo di formazione relativo al corretto impiego delle tecnologie esistenti nei loro edifici senza perdita di confort, in merito all’impiego dell’illuminazione, uso delle apparecchiature elettriche domestiche, impostazione del termostato e dei parametri di temperatura della caldaia per riscaldamento e acqua sanitaria. Al processo di formazione è stato affiancato l’intervento tecnico legato all’installazione di una centralina che permette di rilevare i consumi e presentarli in forma grafica all’occupante, unita a un’informativa generata dall’ente gestore, in merito al risparmio economico in bolletta. Come risultato lo studio propone che in media gli occupanti formati hanno

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ottenuto una riduzione del consumo energetico di circa il 20% nel corso di un anno rispetto al loro precedente comportamento. È un risultato di grande portata, che difficilmente è ottenibile con un intervento di tipo tecnico, e soprattutto a costo così ridotto, ovvero pari all’installazione di una centralina di rilevazione, parte che come vedremo è fondamentale per la modifica del comportamento.

Vedendo il risultato ottenuto nell’ambito residenziale, la portata del risparmio legato alle buone pratiche in un edificio a uso uffici diventa enorme, anche di fronte a risultati con aumenti di efficienza dimezzati rispetto a quanto proposto dallo studio riportato.

In particolare, in grossi edifici adibiti a uso uffici l’aspetto comportamentale è molto sottovalutato, tanto che in molti casi il consumo elettrico notturno risulta superiore a quello durante le ore lavorative, legato al dimenticare e mantenere accesi dispositivi elettronici e illuminazione anche di notte, e magari spegnerli di giorno per migliorare il proprio confort; uno studio svolto negli Stati Uniti (Masoso and Grobler 2010) ha stabilito che del consumo elettrico totale di un grande edificio a uso uffici il 56% è dato dal periodo in cui non vi sono persone al lavoro, che a livello di ore è superiore, ma che a rigore di logica dovrebbe portare consumi nettamente inferiori.

Alcuni dati sui consumi legati alle attrezzature di ufficio

Di seguito presentiamo alcuni dati legati al consumo energetico di tre classiche attrezzature elettriche impiegate in ufficio, estratti da un documento redatto dall’amministrazione pubblica della Provincia di Udine, allo scopo di sensibilizzare i propri dipendenti:• un tipico computer da ufficio acceso per 9 ore

al giorno arriva a consumare fino a 175 kWh in un anno. Impostando l’opzione di risparmio energetico il consumo scende del 36%, con un risparmio energetico di 63 kWh corrispondenti a 33 kg di anidride carbonica (CO2) e a 12 € risparmiati. Il PC è uno di quegli elettrodomestici che assorbe una potenza elettrica anche da spento; il led di stand-by dei monitor ha una potenza che può variare dai 3W a 6W a seconda dei modelli. Stimando l’ammontare annuo medio di ore in cui il PC resta presumibilmente spento, ma con il led di stand-by attivo, è possibile valutare una spesa annua che può variare da 28 € a 56 € per ogni singolo PC, pari a 156-311 kWh e 83-162 kg di CO2 risparmiati;

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• una stampante da ufficio può arrivare a consumare ben 63 kWh per anno di energia elettrica, che corrispondono alle emissioni di 48 Kg di CO2 emessa nell’ambiente. Scollegando la stampante fuori dall’orario di ufficio, i consumi possono scendere a 48 kWh, con un risparmio di CO2 emessa di circa 8 Kg, 3 € e di una quantità di polveri sottili paragonabili a quelle emesse da un motore diesel Euro IV in circa 210 km di percorrenza;

• una fotocopiatrice media può arrivare a consumare in un anno fino a 1800 kWh, determinando l’emissione in atmosfera di circa 1400 kg di CO2. Impostando le opzioni per il risparmio energetico e usando maggiori attenzioni nell’utilizzo, come quella di scollegare l’apparecchio dalla presa quando non utilizzato per molto tempo, si può ridurre il consumo energetico di circa il 24% corrispondente a 432 kWh, 237 kg di CO2 e 77 €.

Le soluzioni

Dal piccolo specchietto proposto su sole tre apparecchiature impiegate in classici uffici si evince che il risparmio possibile legato alle buone pratiche comportamentali è realmente elevato.

La soluzione principale che funge come punto di partenza è sicuramente il monitoraggio dei consumi, fondamentale sia per quantificare i consumi e i relativi risparmi indotti dal comportamento, ma anche per stimolare lo stesso comportamento sostenibile. Visualizzare infatti il consumo relativo del nostro consumo giornaliero induce automaticamente a informarsi e verificare quanto influiamo sui consumi totali.

Il monitoraggio può essere effettuato con differenti e molteplici sistemi presenti sul mercato; alcuni di essi sono basati su tecnologie consolidate, come apposite centraline da posizionare sulle spine elettriche, le quali rilevano i consumi istantanei e comunicano i dati con sistemi senza fili a sistemi centralizzati, che tramite software dedicati possono archiviare i dati e rappresentarli in forma grafica aggregata.Il passaggio successivo al monitoraggio è quello di mettere in relazione i consumi degli occupanti. Questi possono essere confrontati

con altre situazioni analoghe, ovvero con altri uffici, normalizzando quindi il dato, ovvero dando una misura di riferimento, per capire se il nostro comportamento sia già virtuoso oppure sia ancora molto migliorabile. Altro aspetto è quello di riportare quanto sia il reale risparmio messo in atto dal comportamento virtuoso, confrontando i costi precedenti con gli attuali e presentando questi dati in una forma grafica in modo da creare interesse nel miglioramento continuo delle prestazioni.

Conclusioni

Numerose aziende, comprese pubbliche amministrazioni, hanno intrapreso la strada della formazione sulle tematiche ambientali ed energetiche correlate al comportamento dei propri dipendenti e dei propri fornitori, comprendendo le ampie ricadute del lato economico legate a minori consumi. L’intervento formativo diventa sempre più una tipologia di intervento da confrontare con il miglioramento tecnico, con risultati mantenibili nel tempo e con effetti virtuosi che si ripercuotono anche sui comportamenti domestici.

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Il design

sistemico

Le relazioni alla base del design sistemico

Un sistema è, per definizione, un insieme di elementi connessi tra di loro e con l’ambiente esterno tramite relazioni che formano un tutt’uno in grado di agire come una macro-unità singola, secondo delle regole proprie. Un buon esempio che vede coinvolta la specie umana, come uno degli elementi interconnessi e facenti parte di un sistema, è l’affascinante teoria di Gaia, formulata per la prima volta dallo scienziato inglese James Lovelock nel 1979 e basata sull’assunto che acqua, aria, terra e tutte le altre componenti geofisiche del pianeta mantengano le condizioni idonee alla presenza della vita sul pianeta proprio grazie alle relazioni che intercorrono con gli organismi viventi,

vegetali e animali. In breve il sistema terra, secondo la teoria di Gaia, è un super-organismo dove ogni elemento concorre a creare le prerogative per la vita stessa presente su di esso.

Ogni elemento di un sistema può avere a sua volta piccoli sottosistemi e tutto è interconnesso e influenzato dalle relazioni stesse, come da una rete invisibile, lo spiega bene Fritjof Capra dicendo che la rete è uno schema comune a tutte le forme di vita e questo è qualcosa che si può osservare anche dal punto di vista formale.

Le attività umane coinvolgono, quindi, altri elementi e sotto-insiemi della rete e solo recentemente si è iniziato ad applicare la visione sistemica al progetto, come necessario insieme di relazioni.

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ecodesign e sostenibilità

di NUUP, Sustainable Creativity®. Revisione del testo e coordinamento articolo a cura di Luca Pastore per NUUP, Sustainable Creativity®

Il design

sistemico

Talvolta solo alla manifestazione di un problema ci accorgiamo delle relazioni di sistema che ci vedono coinvolti, prendiamo ad esempio il caso della morìa delle api, un fenomeno degli ultimi anni ma in continua crescita, tanto da preoccupare diversi studiosi, tra cui Marla Spivak che, nel Ted Talk “Why bees are disappearing”, racconta le concause che hanno portato all’accrescimento del fenomeno e che includono l’attività umana: la standardizzazione richiesta dal comparto industriale della produzione massiva di cibo ha trovato nei sistemi di coltivazione intensiva (monocolture) la soluzione ideale, queste coltivazioni, però, necessitano di diserbanti e pesticidi che stordiscono e debilitano gli insetti e, nel contempo, li affamano creando immense distese di una sola specie coltivata a discapito della biodiversità, negando loro disponibilità di cibo. Vi sono poi problemi tipici della specie, come il parassita “Varroa destructor” che, trovando questi animali già così debilitati dai precedenti fattori, spesso ha la meglio sull’insetto stesso. Ma, data l’importanza delle relazioni nei sistemi, non possiamo pensare che la morte delle api non sia un problema per noi, inevitabilmente ne subiremo una ripercussione: molte delle coltivazioni di cui apprezziamo i frutti necessitano, infatti, di impollinazione da parte degli insetti (le api in particolare sono state selezionate dalle piante come migliori impollinatori), quindi l’attenta analisi di questo sistema ci mostra come, per

produrre cibo, rischiamo di privarci di parte del cibo stesso, questo per non aver considerato importante un elemento del nostro sistema e la relazione che lo lega a noi.Anche il design necessita di un approccio sistemico: spesso la visione del designer non è così omnicomprensiva, perché focalizzata su alcuni aspetti specifici della produzione o dell’impatto sul pubblico, ma i principali impatti ambientali di un prodotto vengono decisi nella fase di concept dai designer e l’analisi del Ciclo di Vita (di cui si è parlato nei precedenti articoli) può essere affiancata a un approccio sistemico al progetto, offrendo un valido aiuto per comprendere gli input e gli output del sistema produttivo in ogni sua fase.

Il pensiero sistemico applicato al progetto porta, quindi, a scoprire delle concause a volte inaspettate, ma può anche aiutare a ottimizzare la produzione stessa, come nel caso della startup “Funghi Espresso”, che applica una delle linee guida del design sistemico (vedere lo scarto come una risorsa) coltivando funghi a partire dai fondi di caffè esausti. Se pensiamo che, dopo il petrolio, il caffè è il prodotto più commercializzato al mondo e che solo 1 grammo su 500 passa all’interno del nostro corpo, il resto è scarto, capiamo come il processo classico della produzione di caffè a livello sistemico non funzioni, in quanto troppo dispendioso in termini di energia e scarti. L’idea di utilizzare i fondi

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nella coltivazione di funghi apre, invece, nuove possibilità per questo materiale, che possono poi ancora proseguire nella vermicoltura con i substrati esausti della produzione di funghi e ritornare come fertilizzante naturale della terra a chiudere il cerchio produttivo e naturale. «Il vero obiettivo del design deve tendere al concetto di rifiuti zero», ci ricorda Paul Connet, ed è così che i sistemi lavorano in natura: il concetto di scarto non esiste, perché tutto è una risorsa destinata a una nuova produzione.

Sistema Design_Impresa artigiana

Il design può sembrare un’attività distante dal mondo artigianale, vista la sua propensione verso il settore della produzione industriale; l’artigiano, per una sua naturale particolarità, è abituato a condurre personalmente l’intero processo, dall’ideazione allo sviluppo e alla realizzazione del prodotto, secondo una personale cultura del “saper fare” e, a volte, è guidato da una sua visione e da una creatività “istintiva”. Abbiamo assistito, però, negli ultimi anni a diverse operazioni in cui il design, nella sua accezione più completa, culturale e professionale, è stato chiamato a confrontarsi con la produzione artigianale, non certo per intaccare l’autonomia ideativa dell’artigiano, quanto piuttosto per creare sinergie, contaminazioni e trasferimenti tecnologico-culturali in grado di determinare nuovi modelli produttivi. Il connubio “design-artigianato” diventa, quindi, fondamentale per la valorizzazione del territorio, non a caso rappresentano entrambi alcune delle qualità più diffuse in Italia, peculiarità da tempo insediate sul territorio, non facilmente replicabili altrove o imitabili e dunque risorse distintive. Diversi sono i punti in comune su cui lavorare: si pensi alla loro identica propensione al fare e al creare impresa, al contributo fondamentale che entrambe queste realtà danno allo sviluppo del modello dell’economia di un territorio e di una nazione. C’è, comunque, un dato di cui tenere conto: estremizzando il concetto, si può sostenere che la piccola impresa e l’impresa artigiana sono oggi in una fase di maturità ma con limitate prospettive di crescita. Il design, all’opposto, è una forma “giovane”, non solo per il dato anagrafico dei professionisti della “nuova conoscenza orientata all’impresa e al fare impresa”, ma anche in conseguenza del fatto che le potenzialità dell’azione innovatrice del

design non sono ancora state colte ed esplorate appieno. Se il rapporto tra design e media-grande impresa è in qualche modo definito e praticato in forme ben precise, non altrettanto accade per quanto riguarda la relazione tra design e piccola impresa artigiana, quest’ultima potrebbe, dunque, giovarsi concretamente degli apporti di una nuova conoscenza qualificata provenienti dal mondo del design e della ricerca. Osservando la figura del designer oggi e la professionalità che esprime in forma di impresa, si può tranquillamente affermare che il designer rappresenti una delle forme maggiormente evolute e contemporanee dell’artigianato stesso.

Dunque trarranno vantaggio dall’azione di sistema:

• la struttura tradizionale della piccola impresa e dell’impresa artigiana che deve, oggi, rinnovarsi e trovare nuove strade, di prodotto, di mercato e di filiera;

• la parte più giovane del mondo del design che avrebbe in tal modo la possibilità di sviluppare essa stessa nuova imprenditoria sia in ambito produttivo sia nel campo dei servizi;

• il sistema produttivo di gran parte dell’Italia nel suo insieme che vive anche e soprattutto di queste risorse.

Diverse sono le realtà che legano design e artigianato soprattutto sul territorio (es. “slowd” trattato in un numero precedente della rivista “METHODO”) e considerevoli sono i progetti e le realtà presenti sul territorio nazionale, soprattutto legati alle università, che mirano a diffondere l’idea del valore del design attraverso una partecipazione diretta e guidata dei giovani designer ai progetti dell’impresa, permettendo così una crescita parallela di entrambi: da una parte l’impresa artigiana apprende concretamente le potenzialità del design, sino ad ora in gran parte sconosciute, dall’altra i giovani designer imparano a lavorare con le imprese, apprendendo tempi e logiche del progetto, confrontandosi con gli aspetti della produzione e delle tecnologie, sperimentando così con gli artigiani nuovi modelli di business. Progetti di questo tipo forniscono un primo aiuto alle imprese artigiane, aprono nuove prospettive, determinano una rinnovata propensione all’investimento di medio periodo, generando nuove e innovative idee di imprenditoria.Gli artigiani, però, hanno bisogno di altro, di un

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sostegno continuativo, di essere accompagnati dalle istituzioni nello sviluppo concreto dei nuovi progetti, nonché di strutture stabilmente operanti che possano sostenere i processi innovativi avviati. L’impresa artigiana, da parte sua, svolge un ruolo molto importante in quanto rappresenta un serbatoio di nuova imprenditoria, contribuisce alla formazione delle risorse umane nei diversi settori di attività e interviene nell’adattamento strutturale dell’offerta. L’autore del libro Futuro Artigiano, Stefano Micelli, afferma che «in Italia abbiamo sempre posto una forte enfasi sul design per l’industria. Lo stesso Compasso d’Oro è un premio dell’Associazione del Disegnatori Industriali, ADI appunto. In realtà, se andiamo a vedere i numeri, di industriale nel nostro design ce n’è poco, nel senso che gran parte del Made in Italy è, invece, costituito da prodotti fortemente personalizzati che, di solito, si adattano ai contesti d’uso. In un’intervista a La Stampa, tanto per essere chiari, un’icona del design italiano come Carlo Molteni ha dichiarato che tutte le sue cucine e ben l’80% dei suoi armadi sono fatti su misura e che il futuro del suo settore è l’artigianato. E come si fa a personalizzare e rimanere competitivi? «Bisogna, evidentemente, avere sempre in primo piano un modus operandi manageriale e un saper fare artigianale». Continua l’autore: «Dobbiamo passare da un design tradizionalmente subordinato, e che comunque deve confrontarsi con i vincoli della tecnica e della tecnologia, a un design in grado di organizzare una relazione tra un cliente che non sa necessariamente cosa vuole, e un processo produttivo che ha margini di flessibilità impensabili fino a poco tempo fa. Bisogna valorizzare un potenziale di varietà che altrimenti rischia di rimanere inespresso». A parere di Micelli, il design sarà sempre più chiamato a organizzare relazioni, a dare forma al rapporto tra processi produttivi ed esigenze del cliente. Motivo di ciò è l’enorme potenziale di flessibilità offerto dalle nuove tecnologie che consente margini di manovra assolutamente inesplorati. «Dietro tante nostre aziende c’è una lunga tradizione di abilità manuale, di conoscenza profonda dei gesti e dei materiali. C’è, però, anche molta innovazione, in primis tecnologica, una grande capacità di adattare strumenti innovativi a pratiche del passato».

Contrariamente a quanto si pensi «una parte significativa della nostra industria manifatturiera ha saputo fare un uso davvero sorprendente del

“digital manufacturing”, ovvero quell’insieme di tecnologie che combinano computer e strumenti manifatturieri consolidati: dalle frese a controllo agli scanner 3D, dai laser-cutter alle stampanti 3D. Oggi questi strumenti sono parte della cassetta degli attrezzi dei nostri artigiani, ma ciò non intacca la loro fortissima attenzione, diciamo così pre-industriale, per la cura e la qualità del prodotto. In questo caso la tecnologia è davvero al servizio del lavoro e non viceversa. E il motivo è che c’è un’idea forte di lavoro».

Innovazione strategica di sistema

Oggi, quando parliamo di design e usiamo il termine “disegno industriale”, lo intendiamo nel suo significato più aggiornato che non si applica solo a un prodotto fisico (definito da materiali, forme e funzione) ma al sistema prodotto, cioè l’insieme integrato di prodotti, servizi e comunicazione con cui le imprese si presentano sul mercato.

Nel processo produttivo, progettare, produrre, comunicare, distribuire sono aspetti che devono essere considerati nel loro insieme. In questo senso il design strategico si differenzia dal più classico design di prodotto, perché allarga la sua azione al sistema di prodotti e servizi che nel loro insieme danno soddisfazione a una determinata domanda di benessere. È come passare dalla progettazione di una macchina alla progettazione della mobilità, in un determinato contesto. In particolare, il design strategico sposta l’attenzione oltre il prodotto, alla progettazione degli attori del sistema stesso e cioè alla progettazione di nuove forme di partnership tra imprenditori, tra imprenditori e utenti e anche organizzazioni istituzionali o altri attori sociali cercando, nel caso in cui sia sostenibile, quelle configurazioni che portino a una sensibile riduzione dell’impatto ambientale. Le aziende stanno sviluppando strategie che si servono di quest’approccio verso l’innovazione attraverso studi metodologici messi a fuoco sull’ambiente, in una ricerca in tandem tra azienda e progettista. Da questo quadro si evince che il lavoro del designer non si esaurisce entro le logiche di una progettazione centrata solo su un bene fisico. Il processo progettuale è, quindi, un percorso aperto a nuove variabili. Non basta che il prodotto abbia un valore estetico produttivo, ma lo stesso dev’essere completato

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da una strategia di comunicazione coerente, da un progetto di servizio valido, dalla scelta di un giusto canale distributivo e di un sistema di vendita efficace.

L’imprevedibilità dei mercati e la maturità dei consumatori richiedono uno scenario d’intuizioni e un approccio interpretativo strategico e operativo che hanno come oggetto del progetto proprio questa pluralità. Il designer delinea nuove visioni strategiche con l’uso creativo degli elementi principali del design (la performance, la qualità, la durabilità, l’estetica, il costo) in relazione con gli oggetti, gli ambienti, l’informazione e la corporate identity.

Prendiamo in esame il caso “Ikea”: ogni oggetto esposto è facilmente rintracciabile nei centri commerciali (completi di ristorante self-service), nel sito web o nel catalogo aggiornato ogni anno. Tutto ha un nome proprio e una scheda dettagliata per tipo, fattura, misura, peso dell’imballo, spese di trasporto e tempi di montaggio. Un’organizzazione aziendale che cura la completezza dell’offerta e si sposta sul piano cognitivo indicando l’usabilità, l’identità, i requisiti ambientali degli articoli posti in vendita.

Forma, funzione e comunicazione sono i fattori che rendono vincente questo sistema-prodotto integrandone la creatività, di fronte a un mercato maturo, orientato sempre più verso scelte legate al contesto dove le tecniche produttive, la sostenibilità ambientale, il posizionamento, il prezzo della distribuzione contano quanto valori estetici e funzionali. Il sistema-prodotto è la strada per differenziare, creare valore e allontanarsi da logiche competitive imitative. Ciò richiede un maggior contributo progettuale, su registri diversi (tutte le situazioni che vedono punti di contatto tra impresa e mercato), ma anche un coordinamento di questi registri per evitare possibili incomprensioni dell’offerta, come ad esempio una comunicazione sbagliata rispetto al prodotto.

Il design strategico operativamente assume un ruolo di regia di progetto: sul design dei servizi, sul design dell’identità, sul design dell’informazione, sul design del prodotto. Supporta e dialoga con chi prende le decisioni e coordina le diverse espressioni del sistema prodotto, tutelando il sistema di valori che l’impresa vuole offrire al mercato.

Design sistemico nato per bisogno, gli scarti dell’Agave Tequilana in Messico

La tequila è una bevanda alcolica messicana riconosciuta a livello mondiale, questa bevanda si produce soprattutto nella regione di Jalisco (area occidentale del Messico) e proviene dall’Agave Tequilana Weber.

Ma, prima di entrare nel tema in questione, è necessario conoscere un po’ la situazione sul mondo della tequila: qual è la problematica intorno alla produzione di questa bevanda? E perché l’abbiamo associata al design sistemico? L’agave è una pianta che deriva dalla famiglia agavaceae e appartiene alla classe dei monocotiledoni. Ci sono oltre 200 specie appartenenti a questo genere, uno dei quali è l’Agave Tequilana Weber. La sua coltivazione non è tanto complessa perché le agavi possono crescere in terreni rocciosi, aridi e persino desertici, purché non siano troppo umidi.

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Si trovano in quasi tutto il Messico e in diversi habitat, che vanno dal livello del mare fino a 3400 metri s.l.m., tuttavia, sono più abbondanti tra i 1000 e i 2000 metri. L’Agave Tequilana Weber è coltivata nei territori stabiliti per la denominazione di origine innanzitutto in Jalisco che, secondo INEGI, nel 2007 aveva 78.674 ettari coltivati ad agave, il che vuol dire circa 1,7 milioni di tonnellate di agave tequilana. In un ettaro possono essere coltivati approssimativamente 2.500-2.800 piante, a seconda delle condizioni climatiche, cha raggiungono la maturità tra i sei e i dieci anni (Guzman, 1997). Com’è ben noto, la Tequila è prodotta dalla distillazione del mosto fermentato ottenuto dal cuore dell’agave, il centro della pianta, che è simile a una gigantesca pigna, per questo è popolarmente conosciuta come “Piña”.

Riassumiamo il Ciclo di produzione della Tequila:La prima operazione viene definita “jima”, è il processo in cui si tagliano le foglie dell’agave (da cui si ottengono fibre naturali) lasciando soltanto il cuore (il peso di ciascuno di essi varia tra i 25 e i 45 kg). Si cuoce poi la “Piña” tra le 36 e le 48 ore nei forni, quindi si passa alla macinazione dove vengono estratti i succhi e gli zuccheri che vengono immessi nei serbatoi di fermentazione.

I rifiuti liquidi (miele amaro) vengono utilizzati per i terreni agricoli (essi vengono trattati prima di procedere all’applicazione, perché il miele è troppo acido e può incidere sul pH del terreno). Il processo per ottenere queste bevande alcoliche genera un prodotto denominato “bagassa” (in media dai 15 ai 20 kg su base umida per ogni litro).

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Secondo il Consiglio di regolamentazione della Tequila, solo nel 2011 sono stati prodotti 261,1 milioni di litri di tequila, generando così l’equivalente di bagassa pari a 783.300 tonnellate, questo rappresenta un grosso problema, perché un’enorme quantità, impossibile da smaltire, si accumula sotto forma di colline in prossimità delle fabbriche che producono la tequila e, poiché la sua composizione chimica è molto resistente all’azione dei microrganismi e della biodegradazione la bagassa in eccesso può rimanere nello stesso stato per lungo tempo, spesso viene inviata nei campi dove viene lasciata senza essere trattata, provocando l’acidificazione e l’indurimento della terra rendendola, quindi, inservibile per l’agricoltura e, a volte, viene gettata in fiumi e ruscelli.

L’uso della bagassa come input per nuovi prodotti e servizi

È a questo punto che il design sistemico nasce da una necessità e senza essere ideato, perché le applicazioni tipiche individuate per l’uso della bagassa non sono state sufficienti vista la grande quantità di rifiuti, ma negli anni recenti si sono sviluppate alternative in cui si inizia a pensare in modo sistemico per risolvere questo problema, alcune di esse sono:

1. Carta di Agave: l’azienda Fibraz realizza carta fatta con 90% di pasta di cellulosa e 10% di pasta di carta. Questa è utilizzata per fare quaderni, taccuini, inviti, materiale di cartoleria e prodotti artigianali.

2. Spugne in bagassa: l’azienda Scotch Brite di 3M produce le spugnette “Greener Clean” per le stoviglie in cui il 50% della spugna proviene dalla bagassa.

3. Pellet di bagassa per generare biomassa: si stanno conducendo esperimenti per realizzare pellet dai rifiuti dell’agave, in modo che le stesse fabbriche di tequila possano produrre l’energia necessaria per i loro processi di produzione. La bagassa dell’agave può essere usata direttamente (valore di combustione 9.55 Kj/g.) o pirolizzata (come il carbone, presenta un valore di combustione 19.36 MJ/Kg.

4. Bioplastica: l’azienda BioSolutions (Monterrey, Messico) sviluppa, produce e commercializza il composto polimerico (BCP) derivato dalla bagassa dell’agave che è in grado di sostituire plastiche tradizionali in molte applicazioni

quotidiane. La resina ibrida può essere utilizzata in miscele con polietilene (PE) e polipropilene (PP). Tale composto può essere usato in quasi tutti i processi di trasformazione della plastica: soffiaggio iniezione, film soffiato ed estrusione. Attualmente si producono imballaggi durevoli, come i sacchetti di plastica, le bottiglie di shampoo e le confezioni per il detersivo.

5. Legno plastico: l’azienda Plast Mark (Jalisco) ha sviluppato del legno-plastica che è composto al 50% di bagassa di agave e il restante 50% di PE o PP riciclato. I prodotti realizzati con questo materiale vengono assorbiti dal terreno in circa otto anni. Attualmente si producono pellet, elementi d’angolo per il trasporto in sostituzione del polistirolo, tavole per la produzione di pallets in sostituzione del legno in genere utilizzato.

6. Tappi per bottiglie: a Oaxaca nel CIIDIR del Politecnico Nazionale (IPN), il ricercatore Magdaleno Caballero e il suo studente Luis Miguel Perez Silva, hanno sviluppato un componente con la bagassa di agave con proprietà simili a quelle del sughero, che funge da tappo per bottiglie di liquori.

Questo è un chiaro esempio di come la necessità di risolvere una problematica, in questo caso per un settore e una popolazione intera, ha spinto a cercare soluzioni che collegano i diversi attori del sistema.

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Design sistemico e open design

Dall’Open source all’Open design

Quando parliamo di Open source, indichiamo un progetto di qualsiasi natura che possa essere modificato e sviluppato da diversi utenti in rete tra loro in maniera collaborativa

o singolarmente. La prerogativa dell’Open source è che la licenza sia aperta, che sia possibile, quindi, modificare, ampliare, diffondere una nuova versione del progetto iniziale senza nessun obbligo nei confronti dell’autore ma con il solo scopo di migliorarla. L’Open source è nato e si è diffuso principalmente nell’ambito del software estendendosi poi all’hardware e a vari ambiti del design.

L’Open Design è un processo simile, viene condiviso un progetto in maniera aperta per far sì che gli utenti possano riconoscere dei punti di partenza su cui sviluppare la propria versione. Per questo, spesso, per i progetti di Open Design vengono utilizzati materiali e componenti facilmente reperibili, processi standard e strumenti di progettazione Open source in grado di massimizzare la capacità degli

individui di realizzarli e utilizzarli.

I sistemi sono composti prevalentemente da relazioni e, per far sì che tutti traggano un beneficio dal sistema, è importante costruire una forte identità, aumentando la consapevolezza e costruendo una comunità di sostegno in termini di sostenibilità economica, sociale e ambientale.

Tutti sono open con il source degli altri

Attraverso la rete, è possibile accedere a numerose piattaforme di design collaborativo, progetti che raccolgono opinioni diverse avanzando con l’aiuto degli utenti. La problematica più evidente è che in molte situazioni non si riesce a creare una community davvero attiva e che i progetti, seppur nati con le migliori intenzioni, si eclissano o rallentano in maniera sostanziale. Un esempio è la piattaforma online openmaterials.org che si concentra sulla diffusione di nuovi

metodi produttivi e utilizzi di vari materiali in formato DIY (Do It Yourself); nata nel 2009 e redatta da una decina di professionisti (tra cui artisti specializzati in varie aree materiche, ingegneri e architetti) conta 7 categorie di materiali (carta, tessuti, polimeri, metalli, materiali conduttori, organici e ceramici) e numerose sottocategorie. Lo scopo è quello di instaurare un dialogo e uno scambio di informazioni in continua evoluzione. Non essendo una community aperta, i contenuti caricati sono minori rispetto a quanti potrebbero essere abbracciando tutti gli utenti della rete interessati.

Saper gestire bene una community è essenziale per agevolare la buona riuscita di questi sistemi, se gli utenti si limitano a osservare passivamente, a trarre dei benefici o contenuti senza restituire almeno un feedback concreto, il sistema avrà pochi dati in entrata e troppi in uscita spezzando l’arteria che permette al sistema di crescere e di alimentarsi.

Sono molti i casi di Design di Prodotto nati con la volontà di realizzare un oggetto che cambierà in estetica e contenuto a seconda della volontà dell’utente e del metodo di sviluppo (materiali, lavorazioni), cercando così di realizzare un sistema; di contro, se viene a mancare un controllo, anche solo un monitoraggio, sull’avanzamento del progetto, il prodotto non decolla e pochi sono coloro che riescono a trarre beneficio dal sistema.

Open sì ma insieme

Ci sono dei casi, nell’intricato panorama del design e della progettazione, in cui avviene un processo simile all’Open source, cioè viene ridistribuito un valore oggettivo tra tutti gli attori del sistema, ad esempio quando un’azienda concentra il suo business vendendo le istruzioni per realizzare un manufatto. L’utente che entrerà in possesso delle istruzioni avrà piena libertà di sviluppo e modifica secondo i suoi gusti e le proprie esigenze, restituendo (molto spesso attraverso la rete) un feedback o l’intero processo di realizzazione modificato.

È il caso di Burda, la rivista di cartamodelli di abiti nata nel 1949 nella Germania del sud. La rivista pubblica mensilmente 50 modelli e istruzioni acquistabili in edicola a un basso costo. Il brulicante sito web si occupa di diffondere gratuitamente ai propri lettori alcuni modelli scaricabili in pdf,

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consigli, rubriche e ospita una community attiva sia sul sito stesso che sui diversi social network (Facebook, Pinterest, Instagram). La community virtuale conta più 300.000 visitatori al mese mentre la rivista viene attualmente pubblicata in 16 lingue e distribuita in 89 Nazioni.

Molte piattaforme di Open design differenziano gli utenti in base alla reputazione. Basata sulla preferenza della community o sulla quantità di materiale prodotto e caricato, gli utenti attivi, non riuscendo davvero a ottenere un valore oggettivo, vengono considerati come dei semplici hobbisti. Quando queste persone o gruppi riescono a emergere e ad ampliare la propria conoscenza ne beneficia il sistema. È il caso di Kerbals un videogioco open-source che rappresenta una missione spaziale, tra i vari contribuenti conta anche scienziati di alto livello. Il gioco è costantemente in fase di sviluppo: esiste una versione in uso, ma è possibile modificare la versione demo gratuitamente; questo contribuisce allo sviluppo di nuove idee che il team KSP riceve dai propri utenti.

Tra le varie tipologie di sistemi legate al mondo del Design non possiamo che citare il caso Arduino, a cavallo tra un Sistema Open e un’azienda. L’ormai celebre scheda elettronica Arduino consente, attraverso un microcontrollore e circuiteria di contorno, di realizzare rapidamente prototipi o veri e propri prodotti. Rendere l’hardware open significa dare agli utenti la possibilità di condividere i propri sviluppi e dare vita a progetti collaborativi. Arduino offre inoltre la possibilità di acquistare il kit ed è riuscito a creare una vera e propria azienda che vende prodotti, si occupa della distribuzione e dell’assistenza generando un notevole valore economico.

Problemi comuni, soluzioni condivise

Molti progetti di Open Design nascono in ambiti sociali, universitari o pubblici con lo scopo di risolvere problematiche comuni a livello mondiale e, parallelamente, sviluppare una conoscenza collettiva e un percorso formativo. Condividere le proprie esperienze e i propri studi permette di risparmiare tempo e di far avanzare le idee a un livello più alto.

Un caso interessante è la piattaforma web Open Ideo, della omonima firma internazionale Ideo (una società che aiuta le organizzazioni pubbliche e private a crescere grazie alla progettazione

centrata sulla persona), dove è possibile condividere soluzioni a diversi problemi attraverso dialogo, ricerca e prototipazione. In questo modo i bisogni che risiedono in una parte del mondo possono essere risolti o sostenuti da un utente che, geograficamente, si trova nella direzione opposta e adattati ai bisogni di un terzo anch’esso dislocato.

Una community motivata, aperta e intelligente, una piattaforma ben gestita e contenuti validi per competenza e creatività sono gli agenti che permettono a un sistema di Open Design di esistere e maturare. Il processo di Open Design riesce quando tutti gli attori operano in maniera collaborativa riuscendo a sviluppare e far crescere le idee.

Il nemico numero uno è la passività: lasciare al proprio destino le idee senza guidarle o condividerle spesso le blocca sul nascere, sicuramente nella rete ci sono Community Manager e sviluppatori pronti a supportare le nuove idee di Open Design.

BibliografiaLuigi Bistagnino, Design Sistemico. Progettare la sostenibilità produttiva e ambientale, 2ª ed. Bra (Cn), Slow Food Editore, 2011.Fritjof Capra, La scienza della vita. Le connessioni nascoste fra la natura e gli esseri viventi, Milano, Rizzoli, 2004.Stefano Micelli, Futuro artigiano. L’innovazione nelle mani degli italiani, ed. Marsilio (collana I grilli), 2011.Santo Giunta , Nei luoghi del design. Azioni e interazioni, ed. Biblioteca Del Cenide, 2008

Sitografiahttp://www.linkiesta.it/artigiani-italiahttp://www.tafterjournal.it/2009/12/14/design-e-sistema-territorio-l’esperienza-didattica-del-progetto-arredo-territorio/http://www.artigianapoli.com/nuova_pagina_7%20design.htmhttp://www.funghiespresso.com/http://www.lifegate.it/persone/stile-di-vita/design_strategico_per_la_sostenibilita1https://it.wikipedia.org/wiki/Pagina_principalehttp://www.systemicdesign.org/systemic-design/design-sistemicohttp://www.arduino.cc/https://kerbalspaceprogram.com/https://openideo.com/content/how-it-workshttp://www.redalyc.org/articulo.oa?id=41611203http://www.elinnovador.mx/noticia.php?w=158http://www.inegi.org.mx/prod_serv/contenidos/espanol/bvinegi/productos/censos/agropecuario/2007/agricola/agave_teq/AgaveTeqJal.pdfhttp://www.cambioclimatico.yucatan.gob.mx/energias-renovables/documentos_posgrados_cicy/Residuos_agave_para_aceites_Flor_Fonseca.pdfhttp://www.earth911.com/living-well-being/health/3m-agave-sponges/http://crt.org.mx/

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I progetti nell’ambito della

strategia aziendale di Alberto Fischetti

project management

Sappiamo quanto importante sia in un progetto la chiara definizione degli obiettivi che si vogliono raggiungere. Si tratta veramente del punto di partenza e, come si usa dire per qualsiasi attività umana, è fondamentale partire “col piede giusto”. Se non si ha ben presente che cosa si vuole perseguire è molto probabile che nello svolgimento del nostro piano, s’incontreranno moltissimi problemi e gli esiti dell’impresa saranno incerti.

Definire con precisione cosa si vuole ottenere avviando un progetto non è sufficiente. Ogni progetto comporta investimenti in termini di risorse e quindi, definiti gli obiettivi, ci si deve domandare se le risorse che si vogliono utilizzare sono allocate in maniera ottimale, o non sarebbe piuttosto meglio impiegarle per altri scopi.

A tale interrogativo si può rispondere solamente se è stata definita una strategia d’impresa e se il progetto è un elemento che contribuisca alla realizzazione di tale strategia.Affronteremo dunque il tema della definizione delle strategie aziendali e dell’allineamento dei progetti a tali strategie.

Lo sviluppo della strategia aziendale

Non pensiamo sia necessario dilungarsi sul concetto di strategia: esistono nella letteratura manageriale moltissime definizioni (Andrews, Collins, Porter, Tregoe e Zimmerman, Kaplan e Norton e altri). Scegliamo fra tutte, tanto per individuare un punto di partenza del nostro discorso, quella di Alfred Chandler:

“La strategia è la determinazione degli obiettivi a lungo termine

di un’impresa, e l’adozione delle azioni e delle risorse necessarie per

raggiungere tali obiettivi”

La strategia di un’organizzazione, dunque, descrive come intende creare valore per i suoi azionisti, clienti e in generale i suoi “stakeholders”. Riteniamo quindi che lo sviluppo di una strategia sia assolutamente fondamentale per il successo di un’organizzazione. Come diceva qualcuno: “se non sappiamo dove andare finiremo certamente nel posto sbagliato”. E se le idee e i progetti che nascono continuamente (o così almeno si spera) nell’ambito dello svolgimento delle attività di un’azienda non contribuiscono allo sviluppo della strategia che si è definita, essi costituiscono un dispendio di risorse che diventa addirittura controproducente ai fini della crescita della stessa. Le energie si disperdono in tante iniziative che alla fine non contribuiscono al successo che l’azienda vuole perseguire.

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Vorremmo quindi parlare prima di sviluppo di strategie aziendali e successivamente di come i progetti possano essere valutati nel quadro generale della strategia che è stata definita.

Sviluppare una strategia può essere fatto in molti modi ed è comunque un’attività complessa. Il modo con cui si sviluppa un piano strategico in un’organizzazione dipende dalla sua leadership, dalla sua cultura, dalla sua complessità, dalle sue dimensioni, dal settore di business in cui essa opera.

In generale nelle organizzazioni ogni funzione sviluppa una propria strategia basandosi su una visione limitata alla propria area: il CFO disegna una strategia basata sugli aspetti finanziari, gli executives delle vendite e marketing guardano alle percezioni dei clienti e alle quote di mercato, i responsabili delle operazioni si focalizzano sulla qualità, sui lead times e sull’efficienza dei processi, i direttori HR considerano gli investimenti sulle

persone, il CIO spinge sull’implementazione di sistemi ICT. Difficilmente esiste una visione strategica “olistica” che tenga conto di tutti gli elementi che abbiamo elencato, in un’ottica di “balanced scorecard”.

Il processo che si dovrebbe seguire per costruire una visione olistica di strategia aziendale è in quello che viene definito “pianificazione strategica”.

Fra le varie modalità possibili di svolgimento di un processo di pianificazione strategica pensiamo possa essere utile indicare uno schema basato sul concetto delle “quattro colonne”, che descriveremo qui di seguito molto sommariamente.

Le “quattro colonne” si riferiscono agli elementi inclusi nella seguente tabella.

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Nel processo di pianificazione strategica che qui suggeriamo, le quattro colonne devono essere percorse in ordine logico partendo dalla prima fino a giungere alla quarta e ultima, nella quale viene descritto il piano operativo a 12 mesi per l’implementazione della strategia definita mediante gli elementi delle prime tre colonne. Notiamo che nella colonna del piano operativo sono inclusi i progetti che verranno approvati e avviati.

Colonna 1: l’analisi dell’ambiente

Gli elementi della colonna 1 sono determinati da un’analisi dell’ambiente in cui verrà sviluppata la strategia. Verranno dunque esaminati i mercati, verranno individuati i key players in tali mercati, saranno valutate le possibili evoluzioni nel tempo assieme al loro grado di probabilità di realizzazione, saranno individuate le posizioni dei concorrenti e verrà svolta un’analisi SWOT, in cui ricordiamo che S sta per strengths (punti di forza interni alla propria organizzazione), W sta per weaknesses (punti di debolezza della propria organizzazione), O sta per opportunities (elementi favorevoli esterni all’organizzazione) e T sta per threats (elementi di pericolo od ostili esterni all’organizzazione). Infine i valori sono quegli elementi che l’azienda ritiene fondamentale salvaguardare nel proprio modo di operare (per esempio eticità, qualità, rispetto per le persone etc.). Vediamo un po’ più in dettaglio questi punti.

Key Players: è l’identificazione e l’analisi dei principali attori nei mercati che sono stati sopra analizzati, ovvero tipo e segmentazione della clientela, fornitori, legislatori etc. È necessario non solo identificare i principali attori ma

anche capire come essi sono collocati nei mercati, con quali criteri determinano il valore, come influenzano il business e come essi interagiscono. Il termine “stakeholders” definisce nella letteratura anglosassone quelle che sono le persone coinvolte.

Trend e incertezze: non è sufficiente fare un’analisi della situazione attuale delle condizioni al contorno. È critico determinare quale sarà l’evoluzione di tali condizioni nel futuro, cioè fare un’analisi dei trend. Poiché le ipotesi sull’evoluzione future non possono essere che probabilistiche, sarà necessario stimare un grado di probabilità delle varie evoluzioni possibili.

Posizione dei concorrenti: è l’analisi dei concorrenti, quelli già esistenti, le possibili “new entries” etc. Chi sono, quali sono i loro punti di forza e di debolezza, quali sono i loro comportamenti, quali sono i loro piani, prodotti etc. (competitive intelligence).

Valori: fanno parte della cosiddetta “cultura aziendale”. Sono dei punti fermi di riferimento nel modo di operare dell’azienda che qualsiasi strategia dovrà salvaguardare e rafforzare. Sono non negoziabili e duraturi nel tempo.

L’analisi dell’ambiente, in sostanza, individua lo scenario nell’ambito del quale verrà sviluppata una strategia. Nessuna organizzazione opera nel vuoto, ma deve tenere conto di quella che è la “realtà esterna”, oggi certamente molto complessa e in velocissima evoluzione. Basti pensare a qual è l’impatto sul business della globalizzazione; attualmente nessuna azienda si può permettere di ignorare questo elemento nel definire le proprie strategie.

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Colonna 2: i fini strategici (il “cosa”)

Nella colonna 2 si stabilisce cosa si vuole ottenere dallo sviluppo di una strategia. Ricordiamo le definizione degli elementi principali di tale colonna:

• la missione definisce perché l’organizzazione esiste, qual è il suo scopo precipuo (stato presente);

• la visione definisce dove l’organizzazione vuole arrivare nell’arco di tempo dei prossimi 1–5 anni (stato futuro);

• l’intento strategico è strettamente collegato alla visione e può essere contenuto in essa: l’intento strategico è il “cosa” l’organizzazione vuole diventare, la visione è “come” l’intento strategico si realizzerà;

• le competenze di base sono l’insieme di capacità e tecnologie che costituiscono la base del vantaggio competitivo;

• le aree chiave di risultato (KRA ossia Key Result Areas) sono le macro aree in cui verranno definiti i risultati specifici che si vogliono raggiungere (ad esempio area clienti, area impiegati, area qualità etc.);

• le misure (KPI ossia Key Performance Indicators) sono l’insieme di misure che verranno adottate per monitorare l’implementazione del piano strategico.

Un esempio di “mission statement” tratto dalla Walt Disney Company è: “The mission of The Walt Disney Company is to be one of the world’s leading producers and providers of entertainment and information”. E un esempio di “vision” della Università dell’Illinois di Springfield è: “UIS will be recognized as one of the top five small public liberal arts universities in the United States”.

L’intento strategico definisce come si intende realizzare la visione. Ad esempio sempre per la Walt Disney Company l’intento strategico è formulato come: “Using our portfolio of brands to differentiate our content, services and consumer products, we seek to develop the most creative, innovative and profitable entertainment experiences and related products in the world”.

Colonna 3: i fini strategici (il “cosa”)

Una volta determinato cosa si vuole ottenere, deve essere determinato come ottenerlo.

In sostanza, una volta individuata la méta deve essere tracciato il percorso da seguire per raggiungerla.

Questi sono i punti articolati nella colonna 3:

• la proposta di valore (value proposition) che risponde alla domanda: “che valore apportiamo agli stakeholders? Perché i clienti dovrebbero spendere i loro soldi con noi piuttosto che non con i nostri concorrenti?”;

• i programmi di prodotto che definiscono quali prodotti, servizi e programmi si intendono sviluppare e offrire sui mercati. I programmi di prodotto sono sviluppati per assicurare l’allineamento dei prodotti e dei servizi offerti dall’azienda con le proposte di valore relative ai clienti;

• le capacità e le relazioni chiave, ossia quali sono le capacità in cui si deve eccellere, che devono essere sviluppate a un livello superiore alla concorrenza, e quali sono invece quelle che possono restare a un livello medio. Su quali relazioni e risorse esterne si può far leva (esternalizzazione);

• l’architettura organizzativa è la definizione di quale tipo di organizzazione deve essere costruita per implementare con successo la strategia. Si tratta di definire la leadership, quali i processi, quale la “governance” (l’insieme dei principi, delle regole e delle procedure che riguardano la gestione), quale la struttura (organigrammi), quali le persone (ruoli e responsabilità) e quali le competenze richieste.

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Colonna 4: il piano operativo (12 mesi)

Avendo costruito le fondamenta dell’edificio della strategia, possiamo finalmente articolare un piano operativo che verrà intrapreso nei prossimi dodici mesi, costituito dal business plan, dagli obiettivi dettagliati, dai progetti specifici e in definitiva dal “chi farà che cosa per quando”.Possiamo quindi cominciare a ideare e a valutare i progetti, ossia le iniziative che verranno avviate per eseguire la strategia che abbiamo definito.

La valutazione dei progetti

Per arrivare ai progetti partendo dalla strategia è necessario dunque seguire un processo “a cascata” (waterfall model).

Il waterfall model è un modo di procedere a passi successivi partendo dall’alto fino a scendere al livello dei progetti esecutivi.

Formulando un’analogia con gli scacchi, il più nobile e antico gioco di strategia, possiamo dire che i progetti equivalgono alle singole mosse che un giocatore fa per realizzare la strategia di gioco che ha ideato. Chi conosce il gioco sa che una potente strategia di attacco è quella della “colonna aperta”, ossia della realizzazione di una colonna nella scacchiera lungo la quale non siano presenti pedoni. Lungo di essa due torri possono sferrare attacchi micidiali contro l’avversario. Se si decide di portare avanti tale strategia, ogni mossa (progetto) dovrà essere indirizzata verso

la creazione di tale “colonna aperta”. Tutte le mosse che non contribuiscono a tale obiettivo diventano del tutto inutili.

Partendo dunque dalla strategia si arriverà alla definizione e valutazione dei progetti, ponendosi alcune domande fondamentali:

1. Cosa si deve fare per realizzare la strategia che è stata definita?

2. L’investimento in tempo e risorse contribuisce significativamente allo sviluppo della nostra strategia?

3. Il progetto dà risultati migliori rispetto ad altri progetti proposti?

Naturalmente a questo tipo di scrutinio non saranno sottoposti quei progetti che devono essere realizzati per ottemperare a requisiti di legge o a normative. Si tratta in questo caso di progetti “mandatory” che devono essere fatti in ogni caso: un esempio che tutti ricordiamo è il progetto di adeguamento dei processi e dei sistemi aziendali alla nuova moneta unica europea entrata in vigore il 1 gennaio 1999.

Alla prima domanda risponde ciò che si è determinato nella colonna 3 della pianificazione strategica. Ad esempio, se la KRA è “clienti”, l’obiettivo nell’ambito di tale area è “accrescere la fidelizzazione” e la proposta di valore è “fornire ai clienti un’esperienza indimenticabile mediante un servizio che superi le loro aspettative”, può essere attivato un progetto di implementazione di un sistema CRM (Customer Relationship

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Management). Se la KRA è “impiegati”, l’obiettivo in tale area è di diminuire il turnover e la proposta di valore è “creare un ambiente di lavoro dove i collaboratori possono capire in modo chiaro i percorsi di carriera” si potrà iniziare un progetto di costruzione di una Intranet chiamata “Employee Self Service” accessibile a tutti i dipendenti dove sono specificati i requisiti richiesti per percorrere le tappe dello sviluppo professionale.

Alla seconda domanda sarà data una risposta se il progetto rientra in ciò che si vuole ottenere nel percorso strategico definito.

Alla terza domanda si risponde analizzando i costi e i benefici del progetto e confrontando tale analisi a quella relativa ad altri progetti possibili. Se l’obiettivo strategico è quello di migliorare i risultati finanziari, si valuterà il Net Present Value (NPV) del progetto o, secondo un criterio abbastanza utilizzato, l’Economic Value Added (EVA), ossia in Net Operating Profit After Taxes (NOPAT) meno l’investimento richiesto e si confronteranno tali valori con quelli generati da altri progetti, in modo da stabilire una scala di priorità.

In un’ottica di “balanced scorecard” (come dicono Robert Kaplan e David Norton) oltre a una prospettiva finanziaria i progetti verranno valutati in base al loro impatto sugli elementi della scorecard quali ad esempio:

• I processi di business: per soddisfare i nostri azionisti e i nostri clienti, in quali processi di business dobbiamo eccellere?

• Crescita e apprendimento: per realizzare la nostra visione, come possiamo sostenere la nostra capacità di cambiamento e di apprendimento?

• Clienti: per realizzare la nostra visione, come dobbiamo essere percepiti dai nostri clienti?

Conclusioni

Quando si affronta l’argomento del Project Management si pone quasi sempre molta enfasi sulle metodologie utilizzate, sui fattori di successo, sulle cause di fallimento, sulle fasi di pianificazione e controllo. Noi abbiamo voluto invece per una volta richiamare l’attenzione sul momento della nascita dei progetti, sottolineando l’importanza basilare che essi facciano parte dello sviluppo di una strategia ben definita.

Un’ottima applicazione delle metodologie di Project Management garantisce che i progetti vengano affrontati e svolti con ottime probabilità di successo, ma non assicura che vengano intrapresi i giusti progetti. In altre parole, se si limita l’attenzione alle tecniche di progettazione si ottiene come risultato la perfetta esecuzione di cose sbagliate!

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Il valore etico della qualità

Dare un senso di direzione

Oggi, in un mercato dominato da una costante discontinuità, vi è certamente la necessità per chi lavora all’interno delle organizzazioni di trovare dei riferimenti stabili che diano un senso al proprio lavoro. L’unica vera certezza è il senso profondo che si può dare al proprio fare lavorativo quotidiano, che deriva dal legame tra il proprio lavoro e la “mission” dell’azienda. Di fronte a ruoli, organigrammi, priorità che cambiano continuamente, l’unica certezza può derivare dal valore etico del proprio lavoro. Solo la consapevolezza del contributo che esso può dare alla crescita culturale, sociale ed economica della comunità alla quale si appartiene, può generare questo senso di direzione.

Ma cosa si intende per valore etico della

qualità? E come si declina questo concetto

che può apparire astratto?

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qualità del servizio

di Mariacristina Galgano

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Il valore etico della qualità

La prima risposta è semplice: vi è un valore etico nel “fare” qualità in quanto questo aspetto rappresenta certamente il fattore chiave per lo sviluppo di un Paese. Si può immaginare un Paese civile, senza scuole, ospedali, trasporti e, quindi, senza prodotti di qualità? Certamente no. Dunque senza qualità non vi è crescita culturale, non vi è sviluppo sociale ed economico. La dimensione etica della qualità richiede, però, una visione sistemica che evidenzi le importanti interrelazioni tra gli attori del nostro contesto economico e sociale.

Quattro elementi chiave

La qualità collega, in un sistema virtuoso e quindi etico, i clienti, l’azienda, i fornitori e il territorio. Esaminiamo brevemente il ruolo di questi quattro elementi.I “doveri “ del cliente.

I “doveri “ del cliente

Prima di tutto vi è il cliente. Anche il cliente ha una responsabilità nel generare un contesto di qualità. Il cliente ha, infatti, il dovere di esprimere in modo civile i propri diritti, segnalare in modo fattivo disagi e disservizi, essere di stimolo al miglioramento, interagire in modo adulto con il proprio fornitore.

Le responsabilità dell’azienda

Vi è poi naturalmente il ruolo dell’azienda, pubblica o privata che sia. L’azienda deve avere l’umiltà di rimettersi sempre in discussione e “salire sulle spalle dei giganti” per cogliere spunti, idee, stimoli da altri settori anche molto lontani da quello del proprio business. Occorre, infatti, avere sempre “sete” di riconoscere con intelligenza quei collegamenti che possono essere utili per il proprio contesto aziendale.

Il coinvolgimento dei fornitori

Vi è poi un aspetto importante, ma spesso trascurato, sul fronte della qualità: il coinvolgimento dei fornitori. È questo un tema particolarmente importante in un contesto come quello italiano, ricco di piccole e medie aziende. L’azienda etica comprende l’importanza di far crescere nei propri fornitori una cultura della qualità. Essa si preoccupa di far sì che il fornitore comprenda che un approccio “robusto” alla qualità diventi determinante e si doti di adeguate tecniche e metodologie, formando il proprio personale. È proprio per questo che l’azienda “cliente”, magari di dimensioni più grandi di quella dei

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fornitori, investe le proprie risorse per formare il personale dei fornitori con l’obiettivo di avviare progetti di miglioramento dell’affidabilità. Aziende lungimiranti sul fronte della qualità, seguendo gli insegnamenti di Toyota, creano le supplier association, un organismo attraverso il quale i fornitori si riuniscono, condividendo nuove conoscenze ed esperienze sulla qualità dando così valore al network. Questo significa uscire da un’ottica certamente di breve periodo e di “antagonismo” con i propri fornitori, finalizzata a minimizzare il costo vivo d’acquisto. Le aziende che maturano una visione di lungo termine della qualità, invece, sanno perfettamente che possono crescere qualitativamente solo se migliorano anche i loro fornitori. Su un territorio come quello italiano, tutto questo produce una crescita manageriale e culturale importante nelle piccole e medie imprese, che da sole non avrebbero le risorse sufficienti per sostenere investimenti di tale portata.

Il territorio

Vivere in armonia con il proprio territorio è del resto un’altra dimensione chiave con cui si declina il valore etico della qualità. L’azienda come parte sociale, quindi, deve assicurare rispetto per l’ambiente e generare ricchezza e sviluppo. In questo modo, anche tutti gli attori che su quel territorio operano possono a loro volta generare un contesto in cui l’azienda possa fiorire trovando le condizioni più favorevoli. Qui entrano in gioco ovviamente la pubblica amministrazione locale, le scuole, il sistema dei trasporti e molti altri attori che, nel reciproco rispetto dei propri ruoli, possono entrare in una sintonia che genera benefici reciproci.

Esaminata la dimensione sistemica entro la quale si esprime la dimensione etica della qualità, vale la pena però di soffermarsi sul ruolo dell’azienda.

La qualità può essere declinata attraverso cinque dimensioni: il prodotto, il processo, le persone, la sfera manageriale e, infine, quella individuale.

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In relazione al prodotto, fare qualità significa evitare il superfluo mettendo la tecnologia al servizio delle persone. Spesso ci si dimentica che la vera qualità significa fare bene le cose essenziali, sempre e in modo sistematico, mantenendo la promessa fatta al cliente.

Nella dimensione del processo, qualità significa lotta agli sprechi: fare le cose giuste la prima volta e far entrare “la voce del cliente” in ogni ambito aziendale lavorando in un’ottica più ampia, interfunzionale. Così facendo, si può anche scoprire che le richieste del cliente sono ragionevoli e, a volte, molo più semplici di quelle che ci si sarebbe aspettati.

Nella dimensione delle persone, significa dare fiducia ai dipendenti mettendoli nelle condizioni di poter crescere, ricordando sempre il senso del loro lavoro (il perché).

Rispetto alla sfera manageriale, qualità significa essere di buon esempio, avere l’umiltà di ascoltare i propri collaboratori, mettersi al servizio di coloro che producono valore per il cliente e andare “a gemba” ovvero là dove si produce il prodotto/servizio per mantenere il contatto diretto.

La quinta dimensione della qualità è quella individuale: ognuno di noi deve sentirsi responsabile vedendo i propri spazi d’azione, non solo quelli degli altri, rimuovendo vecchi schemi mentali del passato e trovando in sé le leve per fare bene il proprio lavoro senza alibi.

Infine, per fare continua ricerca di miglioramento, occorre leadership. La qualità non può essere soltanto prescritta dall’alto. Per fare qualità si deve credere nel

valore strategico del miglioramento continuo, investire nella crescita professionale delle persone mobilitando e coinvolgendo la loro mente e il loro cuore.

Chi guida questo percorso di miglioramento deve sapere che la qualità risiede nell’attenzione per i dettagli con la consapevolezza che le persone possono dare il meglio se trattate con rispetto.

Rispetto non è solo uno slogan privo di senso. Vuol dire avere fiducia delle proprie persone, fare formazione, favorire la comunicazione interna e agevolare il lavoro anche sul piano dell’ergonomia degli spazi. Rispetto significa anche curare il benessere delle persone, dare loro la possibilità di esprimere opinioni, predisporre contesti che possano stimolare lo sviluppo di talenti, “immergersi” nella realtà aziendale, cercare le cause e non i colpevoli (azione non semplice) e credere che le persone hanno risorse infinite quando cominciano a pensare.

Ma prima di tutto la qualità è un atto di rispetto verso se stessi, è un senso forte di responsabilità, che deve animare tutti noi come lavoratori e come cittadini. Mahatma Gandhi diceva “dobbiamo diventare il cambiamento che vogliamo vedere”.

Frammenti di testimonianze aziendali

Perché “Valore etico della Qualità”? Perché la qualità è visione di lungo termine che produce crescita sociale e culturale. È la stella polare che indica la direzione, crea un legame profondo fra tutte le persone in azienda, è attenzione al cliente, è umiltà di sapersi mettere in gioco sempre. È un fattore unificante e di crescita, generatore di un vero e proprio circolo virtuoso di idee e di azioni.

In occasione della Campagna Nazionale Qualità 2014 di novembre, alcune testimonianze aziendali hanno dimostrato quanto tutto ciò sia possibile.

Nel settore farmaceutico, come ha dichiarato la presidente Elena Zambon, la qualità è fondamentale perché riguarda la grande responsabilità di occuparsi della salute delle

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persone. Significa investire continuamente in tecnologie produttive sofisticate, ma non solo. È altrettanto importante investire anche sui collaboratori, affinché sentano in modo convinto la necessità di trasformare regole e procedure in comportamenti coerenti, indispensabili per garantire una salute di qualità.

In Zambon si occupano della salute delle persone attraverso un approccio scientifico e tecnologico valorizzato da un’organizzazione flessibile. La vision aziendale, infatti, è la consapevolezza che chi lavora in questa azienda è al servizio di qualche cosa di molto più grande, che riguarda la salute delle persone. L’impresa è un bene collettivo con un forte valore sociale collegato al fatto di essere strumento di benessere verso la società. Il concetto d’impresa integrale, che guida ogni decisione dell’azienda, nasce dalla forte consapevolezza che bisogna valorizzare il lato umano dell’impresa per farla vivere al di là e oltre il semplice risultato di business. Il mantenere ben saldi questi valori fondanti implica il presupposto della condivisione come leva per attivare una vera e propria leadership diffusa per una responsabilità etica che permea tutti i livelli aziendali.

Anche nel settore pubblico è possibile il valore etico della qualità. In AVEPA Agenzia veneta per i pagamenti in agricoltura ritengono che l’etica pubblica sia fondata sui valori di legalità, trasparenza e sostenibilità, oltre che sui princìpi di efficacia ed efficienza dell’attività amministrativa. L’utile di un’organizzazione pubblica si misura sui livelli di performance (qualità del servizio erogato) e di soddisfazione del cliente (qualità del servizio percepita). Per la Pubblica Amministrazione, la qualità non deve essere solo un obiettivo o uno strumento, ma un autentico valore che integri l’etica pubblica, declinandola in termini di etica (pubblica) della qualità.Spendere meglio, non solo meno (spending review) e fare di più con meno (lean government) sono due sfide che Avepa ha già vinto: grazie a un approccio orientato alla qualità, si è iniziato a innovare i processi (digitalizzazione) e si è ridotto il consumo di risorse (materiali e immateriali), aumentando l’efficienza complessiva del sistema di erogazione degli aiuti al settore agricolo.La creazione di valore per le aziende agricole, attraverso il recupero di efficienza dei servizi pubblici dedicati al settore primario, è l’obiettivo principale di Avepa.Qualità è sinonimo di semplificazione sia nella

gestione dei processi interni sia nell’erogazione del servizio al cliente: ridurre gli oneri burocratici dell’attività amministrativa per guadagnare tempo da investire nell’innovazione e far risparmiare tempo agli agricoltori da impiegare nel lavoro in azienda, anzichè negli uffici pubblici.

Una nuova percezione della qualità sta caratterizzando in questi anni anche il percorso di Abb – Unità Operativa Comem, società fondata nel 1962 e acquistata da Abb nel 2010: Qualità non solo di prodotto ma anche qualità come servizio al cliente. La sfida dell’implementazione della qualità è stata affrontata seguendo tre direttive che si sono rivelate strategiche: la cultura aziendale, il metodo e le tecniche di miglioramento (e di coinvolgimento). Si è entrati nell’ordine di idee che occorresse migliorare. Si è capito che solo la piena consapevolezza, da parte di tutti, della necessità di questi miglioramenti a livello di qualità e servizio al cliente avrebbe portato alla loro risoluzione.

Il primo passo, quindi, è stato quello di misurare i dati. Si è deciso di misurare sistematicamente proprio quegli aspetti su cui l’azienda viene giudicata dal mercato, definendo qual era la situazione di partenza e stabilendo poi dove si voleva arrivare. Il secondo passo è stata la comunicazione interna all’azienda. Oltre alla misurazione più sistematica si è deciso, infatti, di rendere pubblici a tutta l’organizzazione tali parametri per ribadirne l’importanza. Gli stessi risultati positivi conseguiti sono stati poi pubblicati nella Intranet aziendale del gruppo con un’ampia diffusione ed elevate visualizzazioni.

Si è anche rafforzata la consapevolezza di come l’adozione di un metodo e di tecniche rigorose siano fondamentali per poter registrare effettivi miglioramenti in azienda. È altrettanto importante, però, formare le persone perché possano proseguire su questo percorso anche nel lungo periodo. E questo è possibile coinvolgendo il proprio personale perché – come insegna il Toyota Production System – la tecnica in sé, anche se efficace, risulta sterile se non viene applicata da persone motivate a farlo. Gli obiettivi di miglioramento – piccoli o grandi che siano – si raggiungono e soprattutto si mantengono nel tempo quando i risultati numerici positivi sono ottenuti con la motivazione, il coinvolgimento e la soddisfazione di tutte le persone.

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AGRO-FARMACEUTICOABOCAALIMENTARE | AGRO-ALIMENTARECONSORZIO TUTELA GRANA PADANOLAVAZZAMARENCO VINI Viticoltori in StreviPERFETTI VAN MELLEPODERE ARGO Agriturismo BiologicoARREDAMENTONATUZZI GROUPSCAVOLINISITLANDVENETA CUCINEASSICURAZIONIEUROP ASSISTANCE ITALIAGLOBAL ASSICURAZIONIGRUPPO ASSIMOCOASSOCIAZIONI | FONDAZIONI AICA ASSOCIAZIONE ITALIANA

PER L’INFORMATICA ED IL CALCOLOAUTOMATICO

AVIS COMUNALE DI MILANOCONFARTIGIANATO IMPRESE VARESECONFINDUSTRIA UMBRIAFONDAZIONE ENASARCOFONDAZIONE MEDIOLANUM ONLUSFONDAZIONE PROGETTO ARCA ONLUSFONDAZIONE SVILUPPO COMPETENZEAUTOBMW ITALIAMOCAUTO GROUPBANCHEBANCA MEDIOLANUMCASSA DI RISPARMIO DI ASTIFEDERLUSGRUPPO CREDITO VALTELLINESEICCREA BANCAIMPRESAING BANK N.V. SUCCURSALE DI MILANORCI BANQUE SUCCURSALE ITALIANAVENETO BANCABENI DI LARGO CONSUMOARTSANA GROUPFATER CAMERE DI COMMERCIOCAMERA DI COMMERCIO DI ANCONACAMERA DI COMMERCIO DI TREVISOCARTAIPI ASEPTIC PACKAGING SYSTEMSTECNOCARTACHIMICO | FARMACEUTICO | COSMESIA.MENARINIABBVIEALPAANGELINIASTELLAS PHARMABASF the chemical companyBECTON DICKINSONBIOFUTURA PHARMABRISTOL MYERS SQUIBBCIP4CLARIANTFINE FOODS & PHARMACEUTICALSGRUPPO BOERO

KEDRION BIOPHARMAL’ERBOLARIO LODINOVARTIS FARMANOVARTIS VACCINESROQUETTE ITALIASANDOZSANOFISIADSOL GROUP gas tecnici, medicinali e homecareUNIVARZAMBONZOBELE GROUPCOMMERCIO | GRANDE DISTRIBUZIONEBIANCHI CUSCINETTIMETRO ITALIA CASH AND CARRYNSK ITALIACOMPONENTI AUTOAPOLLOCOOPERATIVA VOLOENTIERIDELPHI AUTOMOTIVE SYSTEMSDELPHI CONNECTION SYSTEMSMAGNETI MARELLI – PowertrainMECCANOTECNICA UMBRATIBERINAWEBASTOEDITORIAABRUZZO MAGAZINEAGENDA DEL GIORNALISTABUSINESSCOMMUNITY.ITDEA EDIZIONI RIVISTA ECODM&C MAGAZINEECCELLERE BUSINESS COMMUNITYEDIFORUM: Daily Media, Daily Net,

Mediaforum, NetforumGUERINI E ASSOCIATIGUERINI NEXTGRUPPO MAGGIOLIHARVARD BUSINESS REVIEW ITALIAL’AMBIENTE GIRSAMAGAZINE QUALITA’MARIO MODICA EDITORE: Spot and WebMEDIA KEYMETHODOMONDOLIBEROPROMOTION MAGAZINEPUBLITEC: Costruire Stampi,

Deformazione, InMotion, Soluzioni di Assemblaggio&Meccatronica,Applicazioni Laser, NewsMec, Elemento Tubo

RIVISTA IL PERITO INDUSTRIALETECNA EDITRICE: L&M Leadership

& Management, ICT SecurityTVN MEDIA GROUP: Pubblicità Italia,

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FAIST COMPONENTI we think globalFINCANTIERIFRANDENTGEA PROCOMACGRUPPO ATURIAIGV GROUPI.M.M. HYDRAULICSINGERSOLL RAND AIRINNSE CILINDRILOMBARDINIMETAL WORK componentiper automazione pneumaticaMONDIALMOTOVARIOMUSTAD tecnologia delle vitiNARDIROBUR SCM GROUP tecnologie per il legnoSLIMPATOSTIVANESSAZUCCHETTI RUBINETTERIAMETALLURGICOFIAMMLAMINAZIONE SOTTILE GROUPPETROLIFERO | ENERGETICOAPI RAFFINERIA DI ANCONAEDISON ENERGIAGE OIL & GASKUWAIT PETROLEUM ITALIASERVIZI DI PUBBLICA UTILITA’ACEAETRAGELSIA – energia elettrica e gasGRUPPO HERASERVIZI VARICOOPSERVICE S.Coop.p.AEDENREDICM INDUSTRIALTHE FOOL The Digital Reputation CompanyWARRANT GROUPTELECOMUNICAZIONISPARKLETELECOM ITALIATESSILE | CALZATURIEROA.TESTONIBATA - vendita calzature e accessori dal 1894BERTO E.G. INDUSTRIA TESSILETRASPORTO MERCI - PERSONEAIRGESTA.N.M. – AZIENDA NAPOLETANA MOBILITÀCARONTE & TOURISTCTM CAGLIARIGESTIONE TRASPORTI METROPOLITANIGRANDI NAVI VELOCIHERMES ITALIAMERIDIANA MAINTENANCESDA EXPRESS COURIERTURISMO | ALBERGHI | RISTORAZIONECENTRO CONGRESSI VILLE PONTICIR FOOD

gli autori diMETHODO

NICOLA LIPPI

Ingegnere, consulente di direzione, dopo diversi anni trascorsi in aziende multinazionali di primaria importanza nelle aree di Ricerca e Sviluppo, collabora stabilmente con Galgano & Associati, storica società di consulenza italiana, occupandosi con passione e professionalità dei temi dello Sviluppo di Nuovi prodotti. Nell’ambito della professione ha contribuito con numerosi interventi in azienda a organizzare e migliorare la capacità di sviluppare prodotti, aumentandone i contenuti in termini di innovazione, di rapporto tra costi e prestazioni nel rigido rispetto dei tempi. Metodo, visione sistemica, spirito imprenditoriale e capacità di sintesi sono i suoi principali fattori distintivi.Esprime con ironia e leggerezza il suo libero pensiero sui temi dello sviluppo prodotto nel blog personale www.sviluppoprodotto.com

GIUSEPPE ALITO

Dopo la laurea in Disegno Industriale e un Master in Design Management, nel 1998 entra in Baleri Italia, azienda di prodotti di arredamento alta gamma, come Direttore tecnico del centro ricerche e dello sviluppo prodotti. Un anno dopo è in Ferrari come “design techniter” dove si occupa dello sviluppo delle postazioni di rilevamento telemetrico (muretto) utilizzate poi per i campionati del mondo F1 dal 2002 al 2004. Nel 2001 entra in Grand Soleil, azienda di prodotti di arredamento per esterni e di giocattoli mass market come engineering manager e con la responsabilità dello sviluppo prodotti per diventarne, due anni dopo, Responsabile R&S. All’attività professionale affianca la docenza di Design Management ai Master di Car Design e Industrial Design della Scuola Politecnica di Design SPD di Milano. Nel 2005 entra in Gio’Style Lifestyle come Responsabile Ricerca & Sviluppo.

MASSIMO GRANCHI

Massimo Granchi ha conseguito la laurea in Ingegneria presso il Politecnico di Milano nel 1993 e nel 2003 il titolo di Master in Business Administration presso la SDA Bocconi di Milano (Chartered Master in Direzione Aziendale ex lege 4/2013).Dopo una brillante esperienza presso una multinazionale nel settore metalmeccanico nell’anno 2000 ha fondato la società mtm consulting s.r.l. che offre servizi di consulenza organizzati su quattro linee di prodotto che coprono tutti gli aspetti di sicurezza e ambiente: dai servizi per la marcatura CE agli studi del ciclo di vita (LCA).Nell’anno 2013 ha ideata, creato e avviato GreenNess, divisione di mtm consulting s.r.l., che propone servizi per lo sviluppo sostenibile non più solamente al settore industriale/metalmeccanico, ma anche al settore del commercio attraverso lo sviluppo di una piattaforma proprietaria che, utilizzando le tecnologie di ultima generazione, consente a ogni tipologia di impresa commerciale di offrire ai propri clienti non più solo prodotti, servizi o sconti, ma una vera e propria esperienza di acquisto sostenibile come leva di fidelizzazione.

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ALBERTO FISCHETTI

Laureato in Ingegneria, nel corso di una carriera di oltre trent’anni in grandi industrie multinazionali dei settori della metalmeccanica, ingegneria, cosmesi e farmaceutica, ha maturato significative esperienze manageriali fino a far parte dell’alta direzione aziendale. Fra le varie responsabilità ricoperte è stato Project Manager in importanti progetti a livello di affiliata italiana e di gruppo europeo. Dal 2005 collabora nei settori della formazione, consulenza e coaching professionale con la Change Project. E’ autore di libri su project management, creatività e problem solving, coaching e gestione delle risorse umane.

METHODOCOLLETTIVO NUUP

NUUP®, Sustainable Creativity è un collettivo di designer e professionisti creativi che ha lo scopo di divulgare e promuovere comportamenti e oggetti sostenibili, basando il metodo progettuale sull’Analisi del Ciclo di Vita.Fanno parte del Collettivo Nuup: Barbara Pollini, Luca Pastore, Francesca Maccagnan, Federico Freddi, Serena Vinciguerra, Camilo Martinez, Gloria Escobar e Jared Jiménez.www.nuup.it

MARIACRISTINA GALGANO

Mariacristina Galgano è amministratore delegato e responsabile della Business Unit Servizi del Gruppo Galgano - una delle più affermate realtà italiane di consulenza di direzione al servizio dell’economia nazionale, con forte orientamento ai risultati - nonché della Scuola di Formazione.Profonda conoscitrice del Toyota Production System, ha sviluppato numerosi progetti Lean Six Sigma presso aziende di servizi italiane finalizzati a migliorare qualità ed efficienza. È anche autrice di numerosi libri. La sua ultima pubblicazione è “Il Movimento della Qualità in Italia. Racconti di aziende pioniere” e ha recentemente curato la traduzione italiana del libro “A3 Thinking, il segreto dell’approccio manageriale Toyota” di Durward K. Sobek II e Art Smalley, entrambi i volumi editi da Guerini e Associati.

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THE TURING

BOMBE MACHINE