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M axwell. Fiat lux (di Giuseppe Mussardo) Tranne che per un poeta, un eroe di guerra o una rock-star, morire giovane e’ un terribile sbaglio. James Clerk Maxwell commise questo errore morendo nel 1879 a soli 48 anni e, anche se per i fisici rimane ancora oggi una delle figure piu’ significative nel suo campo, per la maggior parte delle persone il suo e’ un nome che dice poco o niente: e’ improbabile infatti che a qualcuno oggi venga in mente che si debba a lui la nostra moderna tecnologia: televisori a colori, telefoni cellulari, fotografia digitale e computer, tutti dispositivi basati sui principi dell’elettromagnetismo. In realta’, non e’ solo un problema di tecnologia, la questione e’ molto piu’ generale e abbraccia tutta la sfera della conoscenza, cioe’ quello che sappiamo sul mondo che ci circonda e sulle leggi che lo regolano. Sulla base di numerosissime esperienze, oggi sappiamo infatti che le forze elettriche condizionano largamente le proprieta’ fisiche e chimiche di tutta la materia, dall’atomo alle cellule viventi: l’acqua che gela, la pianta che cresce, l’aurora boreale o il grandioso spettacolo di un fulmine sono tutti fenomeni naturali di natura esclusivamente elettrica o magnetica. Codificati come tali in sole quattro equazioni: le meravigliose equazioni di Maxwell. Queste non solo racchiudono l’intera teoria dei fenomeni elettrici e magnetici ma spiegano anche le leggi dell’ottica, la natura della luce e di tutte le altre radiazioni, come le onde radio o i raggi X. Maxwell le elaboro’ nel 1861 quando, dopo lunghi anni di studio, arrivo’ ad un’idea che risulto’ essere piu’ profonda di qualsiasi libro di filosofia, piu’ bella di qualsiasi quadro, piu’ potente di qualunque atto politico. Dopo quell’anno niente sarebbe piu’ stato come prima. Prima di allora, per tutta la meta’ dell’Ottocento, i maggiori fisici dell’epoca erano andati alla ricerca della chiave per spiegare i misteri dell’elettricita’ e del magnetismo. I due fenomeni sembravano legati in maniera inestricabile ma la natura finale di questo legame si era rivelata alquanto inafferabile tanto da aver sconfitto tutti i tentativi fatti per decifrarla. Si deve a Maxwell la soluzione del puzzle. La sua teoria dell’elettromagnetismo, una delle interazioni fondamentali della natura, e’ tra i pilastri centrali per la comprensione del nostro mondo: ha aperto la strada a due grandi trionfi della fisica del ventesimo secolo, la teoria della relativita’ e la meccanica quantistica, ed e’ sopravvissuta, indenne, agli scossoni concettuali prodotti in fisica da queste due grandi rivoluzioni. Come scrisse un altro grande fisico, Max Planck, la teoria di Maxwell deve essere James Clerk Maxwell, con la ruota dei colori

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Maxwell. Fiat lux

(di Giuseppe Mussardo)

Tranne che per un poeta, un eroe di guerra o una rock-star, morire giovane e’ un terribile sbaglio. James Clerk Maxwell commise questo errore morendo nel 1879 a soli 48 anni e, anche se per i fisici rimane ancora oggi una delle figure piu’ significative nel suo campo, per la maggior parte delle

persone il suo e’ un nome che dice poco o niente: e’ improbabile infatti che a qualcuno oggi venga in mente che si debba a lui la nostra moderna tecnologia: televisori a colori, telefoni cellulari, fotografia digitale e computer, tutti dispositivi basati sui principi dell’elettromagnetismo.

In realta’, non e’ solo un problema di tecnologia, la questione e’ molto piu’ generale e abbraccia tutta la sfera della conoscenza, cioe’ quello che sappiamo sul mondo che ci circonda e sulle leggi che lo regolano. Sulla base di numerosissime esperienze, oggi sappiamo infatti che le forze elettriche condizionano largamente le proprieta’ fisiche e chimiche di tutta la materia, dall’atomo alle cellule viventi: l’acqua che gela, la pianta che cresce, l’aurora boreale o il grandioso spettacolo di un fulmine sono tutti fenomeni naturali di natura esclusivamente elettrica o magnetica. Codificati come tali in sole quattro equazioni: le meravigliose equazioni di Maxwell. Queste non solo racchiudono l’intera teoria dei fenomeni elettrici e magnetici ma spiegano anche le leggi dell’ottica, la natura della luce e di tutte le altre radiazioni, come le onde radio o i raggi X. Maxwell le elaboro’ nel 1861 quando, dopo lunghi

anni di studio, arrivo’ ad un’idea che risulto’ essere piu’ profonda di qualsiasi libro di filosofia, piu’ bella di qualsiasi quadro, piu’ potente di qualunque atto politico. Dopo quell’anno niente sarebbe piu’ stato come prima.

Prima di allora, per tutta la meta’ dell’Ottocento, i maggiori fisici dell’epoca erano andati alla ricerca della chiave per spiegare i misteri dell’elettricita’ e del magnetismo. I due fenomeni sembravano legati in maniera inestricabile ma la natura finale di questo legame si era rivelata alquanto inafferabile tanto da aver sconfitto tutti i tentativi fatti per decifrarla. Si deve a Maxwell la soluzione del puzzle. La sua teoria dell’elettromagnetismo, una delle interazioni fondamentali della natura, e’ tra i pilastri centrali per la comprensione del nostro mondo: ha aperto la strada a due grandi trionfi della fisica del ventesimo secolo, la teoria della relativita’ e la meccanica quantistica, ed e’ sopravvissuta, indenne, agli scossoni concettuali prodotti in fisica da queste due grandi rivoluzioni. Come scrisse un altro grande fisico, Max Planck, la teoria di Maxwell deve essere

James Clerk Maxwell, con la ruota dei colori

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ricordata tra le piu’ grandi conquiste intellettuali di tutti i tempi. Se il suo autore fosse vissuto solo un po’ piu’ a lungo, il 12 dicembre del 1901 avrebbe potuto gioire con Guglielmo Marconi della ricezione del primo segnale radio, una delle predizioni piu’ sorprendenti delle sue equazioni. O forse sviluppare, prima di Einstein, la teoria della relativita’: in fondo, e’ proprio dalle equazioni di Maxwell che parti’ Einstein per demolire i concetti di spazio e di tempo assoluti. Inoltre, fu proprio leggendo il suo articolo sull’etere, nella nona edizione dell’Encyclopaedia Britannica, che Albert Michelson ideo’ l’interferometro, il nuovo strumento ottico con cui, insieme a Edward Morley, scopri’ che la velocita’ della luce e’ la stessa per tutti gli osservatori, indipendentemente dal loro stato di moto.

Tutti conoscono Isaac Newton ed Albert Einstein ma, come dicevamo, al di fuori di una stretta cerchia di specialisti James Clerk Maxwell e’ praticamente uno sconosciuto. Perche’ sia cosi’ e’ un mistero, anche se la ragione va forse cercata nella sua disarmante modestia: non era uno scienziato che sgomitava molto per promuovere il proprio lavoro e non ci fu neanche chi lo fece al posto suo, come accadde invece con il suo contemporaneo Darwin, anche lui restio agli onori del grande pubblico, ma che ebbe la fortuna di avere uno sponsor eccezionale, T. H. Huxley. Anziche’ darsi da fare a rincorrere onori e riconoscimenti, Maxwell amava piuttosto starsene tranquillo nella sua tenuta scozzese, a passeggiare tra i laghi e i prati di Glenlair, a fare esperimenti (a volte in compagnia della moglie), a meditare sulle esperienze che aveva compiuto o sulle teorie matematiche che le governavano.

Chi lo avesse incontrato negli anni della maturita’, sarebbe rimasto affascinato dalla sua figura snella, dalla dolcezza di quegli occhi penetranti, dalla grande barba che gli incorniciava il viso, dal timbro della voce in cui spiccava un forte e inconfondibile accento scozzese; si sarebbe trovato di fronte lo sguardo di un uomo generoso e gioviale, di grande charme, uno di quei tipi a cui piace stare in compagnia, magari ad intrattenere gli amici con battute o arguti giochi linguistici, fatti senza alcuna vanita’ salottiera. Per l’eleganza sobria dei suoi tweed di Shetland, abbinati a panciotti sportivi e a morbide camicie di flannella, lo si sarebbe scambiato per un colto gentiluomo di campagna, come ce n’erano tanti nell’era vittoriana: un gentleman certamente svezzato nei colleges di Oxford o Cambridge ma piu’ a suo agio tra le verdi distese della campagna inglese che nell’ovattata atmosfera dei club, felice di poter stare all’aria aperta, di andare a cavallo e fare il bagno nei laghi, fermarsi nei pub lungo i fiumi a bere un whisky di doppio malto. Mai avrebbe sospettato di avere di fronte, invece, uno dei maggiori scienziati di tutti i tempi, uno in grado di competere con Newton o con Einstein in quanto ad originalita’ e profondita’. Uno scienziato di un’abilita’ prodigiosa, capace di far sembrare tutto talmente semplice da apparire quasi naturale: nei suoi scritti tutto procedeva come le note di una sinfonia, un’equazione dopo l’altra, intervallate da argomenti logici di grande eleganza. Tuttavia non era difficile intuire che dietro quella straordinaria leggerezza si celava in realta’ una grande maestria, quella rara perizia che viene dalla padronanza eccezionale di tutta la grammatica del grande libro della Natura; un po’ come Mozart in musica, che seppe trasformare le pagine del pentagramma in un fiume di suoni e fare della leggerezza delle sue note la qualita’ sublime delle sue opere.

James Clerk Maxwell nacque il 18 giugno del 1831 ad Edinburgo, da John Clerk Maxwell e Frances Cay, in una famiglia che poteva vantare nelle generazioni precedenti personaggi illustri nei campi della politica, della geologia, della musica e della poesia. Passo’ i suoi primi dieci anni di vita a Galloway, nel sud-overst della Scozia, dove si erano trasferiti dopo aver ereditato una grande proprieta’ terriera. Il luogo era talmente isolato da non avere ne’ case ne’ scuole nelle vicinanze. Fu il padre che esegui’ personalmente e con grande entusiasmo i lavori della nuova casa a cui fu dato il nome di Glenlair: un entusiasmo contagioso, James si affeziono’ infatti cosi’ tanto a quel posto da

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eleggerlo per sempre suo rifugio ideale, sia negli anni della gioventu’ che in quelli della maturita’. John Maxwell era una persona molto socievole ma un tipo anche alquanto eccentrico, che passava i pomeriggi ad inventare indovinelli e a costruire marchingegni e altre diavolerie che piacevano moltissimo al giovane James. Questi, sin da piccolo, era affascinato dal mondo che lo circondava e impegnato gioiosamente a capire come funzionavano le cose. Ogni oggetto che si muoveva, scintillava o emetteva suoni non faceva che attirare immediatamente la sua curiosita’: chiedeva allora, con la sua vocina dal fortissimo accento scozzese, “What’s the go o’ that?” e, se gli veniva risposto fugacemente che si trattava di un uccello dalle piume blu, insisteva “How d’ye know it’s blue?”.

Fino agli otto anni, la sua fu una vita molto felice, scandita dalla filastrocche lette dalla madre davanti al camino e dai giochi fatti con il padre con le tinozze nello stagno in compagnia del cane Toby. Quel clima idilliaco termino’ pero’ con la morte prematura della madre, stroncata da un cancro allo stomaco a 48 anni, lo stesso male che lo avrebbe poi colpito alla stessa identica eta’. La reazione di quel ragazzino davanti ad un evento cosi’ tragico fu di un’innocenza disarmante: ”Sono cosi’ felice che sia morta, almeno ora la mamma non soffrira’ piu’ ”. Dopo quel fatto luttuoso, il legame tra padre e figlio divenne ancora piu’ stretto, e il ragazzo lo accompagnava molto volentieri quando andava in giro per i suoi possedimenti. Per dargli un’educazione, John Maxwell affido’ il ragazzino a un tutore del villaggio vicino, un uomo rude e dai modi di insegnamento alquanto discutibili: non esitava a picchiare il piccolo James, fino a farlo sanguinare, se non portava a termine gli esercizi di latino, per continuare poi ad accanirsi su di lui a fronte dei suoi stoici silenzi. Quel trattamento cosi’ crudele lascio’ delle tracce durature nel carattere di James Clerk Maxwell: secondo il suo amico e primo biografo, Lewis Campbell, quelle violenze subite da bambino furono la causa delle esitazioni o delle risposte alquanto oblique che a volte offriva alle domande. Fu solo l’intervento della zia materna che lo salvo’ da quell’inferno, pretendendo che si interrompessero quelle lezioni e che il ragazzo andasse a stare da lei ad Edinburgo.

Qui il suo esordio in societa’ fu decisamente tragicomico: si presento’ il primo giorno di scuola con addosso uno strano vestitino cucitogli dal padre, un guazzabuglio di stoffe di tartan di vari colori, messe su cosi’ come capitavano. Il fortissimo accento scozzese, unito a quel ridicolo vestito campagnolo, fece il resto: fu subito battezzato dai suoi compagni “Dafty”, un nome che a volerlo tradurre suonerebbe forse come “grullo” o quantomeno “strambo”. Ovviamente si divertirono non solo a canzonarlo ma anche a lacerargli quello strano costume da arlecchino. Ma piu’ che spaventarsi, la reazione del giovane James fu invece di meraviglia, quasi come se fosse un nuovo gioco, a cui non era avvezzo. Per questo non mostro’ nessun segno di irritazione e la cosa scemo’ rapidamente: dopo pochi giorni, i nuovi compagni, conoscendolo meglio, iniziarono a volergli tutti un gran bene. Tra questi vi erano Lewis Campbell e Peter Guthrie Tait, con cui rimase amico per tutta la vita. Al padre scriveva spesso delle lettere molto curiose, tutte infarcite di scherzi, giochi di parole, comiche assurdita’: “Caro Mr. Maxwell, oggi ho visto suo figlio che mi ha detto che non e’ riuscito a risolvere il suo indovinello. Ha parlato pero’ con un sempliciotto che stava per annegare in una polla d’acqua e che, appena uscito fuori, ha giurato di non toccare piu’ l’acqua fino a quando non avesse imparato a nuotare, aff.mo Jas. Alex. M’Merkwell, lettera imbucata chissa’ dove”.

I successivi studi universitari non scoraggiarono certo questo suo comportamento poco convenzionale: a vent’anni, quando era al Trinity College di Cambridge, aveva l’abitudine di svegliarsi alle 2 di notte e correre per tutti i corridoi dell’edificio per una mezz’oretta, cosa che duro’ fino a che gli altri collegiali, svegliati da quel trambusto, iniziarono a bersagliarlo dalle camere con un lancio di scarpe. Aveva anche conservato alcune antiche consuetudini scozzesi, come

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tuffarsi in uno stagno, prima a faccia in giu’ e dopo di schiena, per nuotare poi vigorosamente per una decina di minuti: diceva che tutto questo stimolava la circolazione!

Da giovane, in una lettera ad un cugino, scrisse che per imparare le cose servono tre qualita’: le dita, la testa e il cuore, e, in effetti, Maxwell fu un campione in tutte e tre queste specialita’. Da studente, dimostro’ l’abilita’ delle sue dita (fuor di metafora, quella della sua memoria e della sua tecnica) superando brillantemente i Tripos del Trinity College, i temibili esami di quell’universita’; da adulto uso’ invece la testa per costruire le sue teorie, combinando sofisticati ragionamenti di fisica con eleganti modelli matematici. La fonte principale del suo genio fu pero’ il metodo del cuore, cioe’ quella profonda intuizione delle leggi della natura che lo porto’ infine a scoprirne i segreti. E se indelebile e’ l’impronta lasciata da Mozart nella musica, ugualmente profonda rimane quella lasciata da Maxwell nella fisica: il suo posto nella storia della fisica e’ assicurato dalle sue ricerche rivoluzionarie nel campo dell’ottica, sulla visione dei colori, gli anelli di Saturno, la viscosita’ dei gas, l’analisi dimensionale, la termodinamica, la meccanica statistica e, ovviamente, l’elettromagnetismo.

Si deve a lui la formulazione dei principi che sono alla base della moderna teoria dei colori, teoria a cui dedico’ con successo molti anni di studi: Maxwell creo’, di fatto, la scienza della colorimetria quantitative, ideando il triangolo dei colori, un diagramma usato ancora oggi in fotografia, e la scatola dei colori, uno strumento estremamente utile per studiarne la composizione. Per mezzo di una trottola che, ruotando, combinava il rosso, il giallo e il blu, stabili’ inoltre l’abilita’ dell’occhio umano a riconoscere i vari colori e identifico’ i recettori responsabili per la cecita’ parziale o totale. Applico’ con successo i principi della colorometria da lui scoperti per realizzare, tra l’altro, la prima fotografia a colori, il cui soggetto era una sgargiante cinghia di tartan scozzese.

Per spiegare le leggi della termodinamica e quelle dei gas ebbe la brillante idea di introdurre i metodi probabilistici della meccanica statistica. Il grande problema a cui si trovavano di fronte i fisici del XIX secolo era quello di spiegare non solo le leggi – note da tempo – che pongono in relazione il volume, la pressione e la temperatura di un gas ma anche i principi generali della termodinamica, scoperti nella prima meta’ del secolo e rivelatisi cruciali sia per la scienza pura che che quella applicata. Il contributo apportato da Maxwell alla soluzione di questo problema fu di importanza straordinaria: partendo dall’idea che fosse poco plausibile che tutte le molecole di un gas avessero la stessa velocita’, introdusse l’ipotesi che le velocita’ delle molecole differissero sia per direzione che per grandezza, e che l’intero problema fosse quindi di natura puramente probabilistica. Con queste premesse, Maxwell giunse velocemente ad una dimostrazione elegantissima della legge probabilistica che regola la distribuzione delle velocita’ delle molecole in un gas – un risultato ripreso e ulteriormente perfezionato in seguito da Boltzmann (a tale proposito si veda il capitolo su Boltzmann). Arrivo’ cosi’ a spiegare la natura della temperatura di un gas e come essa sia legata alla velocita’ media delle sue molecole: tanto piu’ elevata e’ quest’ultima, tanto piu’ alta e’ la temperatura. Predisse inoltre che la viscosita’ di un gas non dipende dalla pressione a cui esso e’ sottoposto ma solo dalla temperatura, un risultato decisamente contro-intuitivo, ma che si premuro’ di verificare direttamente conducendo degli esperimenti con l’aiuto della moglie.

Grazie a Maxwell, il calcolo delle probabilita’ entro’ quindi a far parte a pieno titolo dei componenti essenziali dell’apparato matematico usato in fisica. Tuttavia, il grande scienziato scozzese era ben conscio che, nonostante gli importanti successi conseguiti, rimaneva ancora molto da capire, in particolare nel caso del secondo principio della termodinamica che regola l’irreversibilita’ dei processi naturali. A tale riguardo ideo’ il famoso diavoletto di Maxwell, un’ipotetica creatura microscopica frutto della sua fantasia, da lui inventata proprio per evidenziare i problemi che l’approccio statistico poneva alla termodinamica. Se si accetta l’idea che un gas possa essere

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descritto come un insieme di particelle e che il loro stato di equilibrio sia in realta’ solo lo stato piu’ probabile del sistema, nulla vieta allora di considerare l’esistenza di fluttuazioni termodinamiche, di solito escluse solo sulla base della loro alta improbabilita’ e non per ragioni fisiche di base: questo fu il ragionamento di Maxwell. Il diavoletto e’ quindi un essere immaginario che, operando sulla base di leggi fisiche ben stabilite, e’ in grado pero’ di violare le condizioni di equilibrio di un gas come, ad esempio, aprire e chiudere valvole senza alcuno attrito. All’apparenza un perfetto burocrate, capace pero’ di realizzare quello che non si e’ mai visto in natura: produrre un flusso di calore da una sostanza calda ad una fredda. Ecco cosa scriveva Maxwell:

Supponiamo di avere un recipiente pieno di gas, diviso in due parti, A e B, da un setto in cui vi e’ un piccolo foro, e che un piccolo essere, un diavoletto, che puo’ vedere le singole molecole, apra e chiuda questo foro in modo da permettere solo alle molecole piu’ veloci di passare da A a B e solo a quelle piu’ lente di passare da B ad A. In questo modo, senza compiere lavoro, egli innalzera’ la temperatura di B e abbassera’ quella di A, in contraddizione con la seconda legge della termodinamica. Morale: la seconda legge della termodinamica ha lo stesso grado di verita’ che se getti in mare un bicchiere d’acqua non potrai ritirare lo stesso bicchiere”.

Il diavoletto di Maxwell e’ rimasto per decenni un puzzle logico della termodinamica ma i tentativi fatti per venirne a capo non sono stati per niente vani, anzi, essi hanno stimolato lo sviluppo della teoria dell’informazione, una scienza che e’ alla base della nostra civilta’ dei computer. L’importanza di questa creatura fantasiosa ha inoltre travalicato i confini dell’ambito in cui era stata originariamente inventata, finendo con l’essere un esempio emblematico di gedankenexperimen in fisica: un esperimento puramente mentale, un modo particolarmente efficace di portare avanti delle argomentazioni scientifiche senza far ricorso a veri esperimenti, una tecnica in seguito molto usata da Einstein per spiegare i principi della relativita’ generale.

Rimanendo ancora nel l ’ambi to del l ’epis temologia , ma spostandoci nel l ’area dell’elettromagnetismo, va anche ricordato che le equazioni di Maxwell non solo hanno sistematizzato tutti i fenomeni elettromagnetici ma hanno dato anche il colpo di grazia finale ad un’idea particolarmente strana dell’intero impianto della fisica newtoniana, quella dell’azione a distanza istantanea. Come disse Einstein, “Con James Clerk Maxwell fini’ una stagione scientifica e ne comincio’ un’altra”. Il fatto e’ che, nel nuovo schema della fisica maxwelliana, l’interazione tra due corpi non avviene piu immediatamente ma, in realta’, essa e’ trasmessa da un campo di forze. Questo campo di forze, che si comporta come una perturbazione nello spazio tra i due corpi, viaggia ad una velocita’ finita, quella della luce. E’ quindi solo per l’altissimo valore di questa velocita’ che l’interazione ci sembra instantanea! Vedremo che questa e’ un osservazione non da poco, anzi, cosi’ importante, da aver cambiato radicalmente la nostra visione del mondo fisico.

Spetta a Faraday il merito di aver introdotto in fisica il concetto di “campo”, ovvero un continuum di forze che riempre lo spazio, tali da determinare in maniera univoca i fenomeni elettrici e magnetici che ivi hanno luogo. Tuttavia il grande fisico sperimentale (di cui ci siamo occupati in uno dei capitoli precedenti) non aveva una preparazione adeguata per tradurre in una rigorosa trattazione matematica quello che osservava in laboratorio, cosicche’ i suoi contemporanei ebbero gioco facile a dire che le linee di forza, da lui evidenziate con la limatura di ferro, altro non erano che un comodo artificio, un modo come un altro per descrivere fenomeni, la cui vera origine andava cercata invece sia nei magneti che nelle cariche elettriche. Spetta invece a Maxwell, il Mozart della fisica, la costruzione del nuovo edifico teorico in tutta la sua imponente architettura, ovvero l’elaborazione completa della teoria dei campi nel senso moderno di questo termine.

Visto in retrospettiva, il corso della fisica fino al 1820 fu il trionfo del programma scientifico di Newton. Le varie forze della natura – il calore, la luce, l’elettricita’, il magnetismo, le reazioni

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chimiche – erano state tutte progressivamente ridotte all’attrazione o repulsione istantanea di particelle. Lo scenario dell’universo newtoniano nel quale avevano luogo tutti i fenomeni fisici era lo spazio tridimensionale della geometria euclidea classica, uno spazio assoluto, sempre immobile ed immutabile, immerso in un tempo ugualmente assoluto. Gli elementi del mondo newtoniano che si muovevano nello spazio e nel tempo assoluti erano le particelle materiali che, nelle equazioni matematiche, venivano trattate come “punti materiali”: Newton le considerava oggetti piccoli, solidi ed indistruttibili, dei quali era costituita tutta la materia. Il modello richiamava alla memoria l’atomismo degli antichi greci, con l’importante differenza che, nell’atomismo newtoniano, si aveva una precisa descrizione della forza che agisce tra le particelle materiali: nella maggior parte dei casi

si trattava di una forza molto semplice, dipendente dalla reciproca distanza delle particelle, e la cui azione si manifestava istantaneamente a qualsiasi distanza. Lo straordinario successo della concezione meccanicistica della natura fece nascere nei fisici dell’inizio Ottocento la convinzione che l’universo fosse in realta’ un enorme meccano, che funzionava secondo le leggi del moto di Newton: queste leggi furono quindi viste come quelle fondamentali della natura e la meccanica di Newton divenne la teoria definitiva dei fenomeni naturali.

Tuttavia, ben presto nuove scoperte resero evidenti i limiti del modello newtoniano e mostrarono che, in realta’, nessuno dei suoi aspetti aveva validita’ assoluta. Le prime crepe si ebbero con la scoperta fatta da Oersted a Copenaghen nel 1820: in una celebre esperienza fatta nell’aula di quella Universita’, il fisico danese evidenzio’ che una corrente elettrica non solo e’ in grado di influenzare un ago magnetico ma che la forza e’ diretta in direzione ortogonale alla loro distanza, una vera e propria stranezza

per gli schemi della fisica newtoniana. La cosa suscito’ vario stupore tra i fisici: Faraday prese atto che questo era un nuovo fenomeno non riconducibile ai vecchi schemi e che nuove idee erano oramai necessarie per la sua comprensione.

Il primo lavoro di Maxwell sull’elettromagnetismo, On Faraday’s Lines of Forces, vide la luce nel 1855 ed in esso inizio’ a prendere forma la trattazione matematica del campo elettromagnetico che avrebbe poi assunto la sua struttura definitiva nel capolavoro scientico Treatise on Electricity and Magnetism, finito di scrivere nel 1873. Secondo Maxwell, la nozione di linea di forza consentiva l’elaborazione di un modello geometrico dei fenomeni fisici, in cui tutto lo spazio era un intreccio di curve che fornivano informazioni sulla direzione delle forze agenti punto per punto. Questo approccio geometrico aveva la funzione di evitare congetture sulla natura fisica dell’elettricita’ e del magnetismo, per dare spazio invece a ragionamenti matematici capaci di arrivare ad un livello tale

elettromagnetico una vera e propria realta’ fisica. In questa modo, la teoria, elaborata

inizialmente sulla base di pure analogie meccaniche, fini’ per cristallizzarsi in un insieme

di equazioni differenziali che non avevano bisogno di nessun’altro supporto se non la loro

eleganza e coerenza logica: era come rimuovere le impalcature della cupola del

Brunelleschi e vedere con meraviglia che, non solo questa rimaneva in piede, ma che si

slanciava anche vertiginosamente verso il cielo grazie solo all’armonia dei suoi archi.

Molti fenomeni divennero cosi’ immediatamente intellegibili, mentre si affacciavano

all’orizzonte nuovi e straordinari effetti: era una teoria azzardata ma sublime. In

particolare, secondo Maxwell, esistevano ragioni per credere che lo spazio fosse permeato

da una perturbazione che consentiva la trasmissione delle forze da punto a punto. Le sue

equazioni consentivano di esprimere l’energia immagazzinata dal campo in ogni punto

dello spazio e di dedurre l’azione da esso esercitata sui conduttori percorsi da corrente, sui

magneti e sui corpi elettrizzati. La velocita’ di propagazione del campo elettromagnetica,

da lui calcolata, era molto prossima a quella della luce e si avevano quindi forti motivi

nell’affermare che la luce altro non era che una radiazione elettromagnetica! Un’idea

semplice e penetrante allo stesso tempo, come era nello stile di Maxwell, con profonde

implicazioni per la scienza e la tecnologia, anche se si dovettero aspettare vari decenni

prima di vederne le implementazioni.

Linee di forza del campo elettrico e superfici equipotenziali per due piastre

elettrizate (dal Treatise on Electricity and Magnetism di James Clerk Maxwell)

Nella teoria elaborata da Maxwell non vi sono attori materiali, le equazioni esprimono

solo le leggi che governano il campo elettromagnetico: non collegano istantaneamente,

come nelle leggi di Newton, due eventi separati da grandissima distanza ma ci dicono

invece come il campo elettromagnetico, qui ed ora, dipende solo dal suo valore nelle

immediate vicinanze e dall’istante appena trascorso. E’ come se il campo elettromagnetico

vivesse una vita propria, regolata solamente dalle equazioni di Maxwell. Esse ci mostrano

l’esistenza di una sostanziale simmetria tra elettricita’ e magnetismo, e riassumono in un

colpo solo tutte le leggi valide in questi due importantissimi settori dell’esperienza.

Con le parole di Einstein e Infeld, “le equazioni di Maxwell rappresentano l’avvenimento

piu’ importante verificatosi in fisica dal tempo di Newton in poi, e cio’ non soltanto per la

Linee di forza del campo elettrico e superfici equipotenziali per due piastre elettrizatte (dal Treatise on Electricity and Magnetism di James Clerk Maxwell

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di precisione e di generalita’ da consentire, alla fine, di associare al campo elettromagnetico una vera e propria realta’ fisica.

In questa modo, la teoria, elaborata inizialmente sulla base di pure analogie meccaniche, fini’ per cristallizzarsi in un insieme di equazioni differenziali che non avevano bisogno di nessun’altro supporto se non la loro eleganza e coerenza logica: era come rimuovere le impalcature della cupola del Brunelleschi e vedere con meraviglia che, non solo questa rimaneva in piedi, ma che si slanciava vertiginosamente verso il cielo grazie soltanto all’armonia dei suoi archi. Molti fenomeni divennero cosi’ immediatamente intellegibili, mentre si affacciavano all’orizzonte nuovi e straordinari effetti: era una teoria azzardata ma sublime. In particolare, secondo Maxwell, esistevano ragioni per credere che lo spazio fosse percorso da una perturbazione che consentiva la trasmissione delle forze da punto a punto. Le sue equazioni consentivano di esprimere l’energia immagazzinata dal campo in ogni punto dello spazio e di dedurre l’azione da esso esercitata sui conduttori percorsi da corrente, sui magneti e sui corpi elettrizzati. La velocita’ di propagazione del campo elettromagnetico, da lui calcolata, era molto prossima a quella della luce e si avevano quindi forti motivi per affermare che la luce altro non era che una radiazione elettromagnetica! Un’idea semplice e penetrante allo stesso tempo, come era nello stile di Maxwell, con profonde implicazioni per la scienza e la tecnologia, anche se si dovettero aspettare vari decenni prima di vederne le implementazioni.

Nella teoria elaborata da Maxwell non vi sono attori materiali, le equazioni esprimono solo le leggi che governano il campo elettromagnetico: non collegano istantaneamente, come nelle leggi di Newton, due eventi separati da grandissima distanza ma ci dicono invece come il campo elettromagnetico, qui ed ora, dipenda solo dal suo valore nelle immediate vicinanze e dall’istante appena trascorso. E’ come se il campo elettromagnetico vivesse una vita propria, regolata solamente dalle equazioni di Maxwell. Esse ci mostrano l’esistenza di una sostanziale simmetria tra elettricita’ e magnetismo, e riassumono in un colpo solo tutte le leggi valide in questi due importantissimi settori dell’esperienza.

Con le parole di Einstein e Infeld, “le equazioni di Maxwell rappresentano l’avvenimento piu’ importante verificatosi in fisica dal tempo di Newton in poi, e cio’ non soltanto per la dovizia di contenuti di tali equazioni, ma anche perche’ esse hanno fornito il modello di un nuovo tipo di leggi”. Questa importanza sta nel fatto che la teoria di Maxwell si presenta come una teoria del continuo, contrapposta a quella particellare del discontinuo, che aveva dominato la mente dei ricercatori per circa due secoli come la piu’ qualificata candidata al ruolo di scienza universale della natura. Negli ultimi decenni, gli sviluppi che si sono avuti in fisica con la teoria dei campi quantistici, originati direttamente dalla teoria di Maxwell, hanno in realta’ unificato le due opposte visioni del mondo, quella del continuo e quella particellare, ed aperto la strada alla comprensione delle altre forze fondamentali operanti in natura, quella forte dei nuclei atomici, quella debole dei decadimenti radioattivi, e quella gravitazionale delle grandi massi galattiche. La superba architettura concettuale di Maxwell ha finito cosi’ con l’essere uno dei piu’ grandi edifici intellettuali di tutti i tempi. Essa fu eretta con la testa e con il cuore, e con un ingrediente della mente che non si esiterebbe a definire semplicemente magico.

Ulteriori approfondimenti

Emilio Segre’, Personaggi e Scoperte della Fisica Classica, Mondadori, 1996.

Enrico Peruzzi, Maxwell, I grandi della Scienza, Le Scienza 1998

Page 8: Maxwell. Fiat Lux

Albert Einstein e Leopold Infeld, L’evoluzione della fisica, Boringhieri, Torino 1976.

Edward Purcell, Elettricita’ e Magnetismo, La Fisica di Berkeley, vol 2. Zanichelli, Bologna 1979.