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MARIANI FERNANDO MARTINA MARMO MATTEO DE BONIS

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MARIANI FERNANDO MARTINA MARMO

MATTEO DE BONIS

Le pubblicazioni della collana editoriale

“Per saperne di più...”

sono consultabili e disponibili all’indirizzo:

www.uil.it/contrattazione/persapernedipiu.html

a cura del Servizio Politiche Contrattuali

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MARIANI FERNANDO

MARTINA MARMO MATTEO DE BONIS

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INDICE

I licenziamenti individuali in Italia. Settore privato pag.5

Settore pubblico pag.10

I licenziamenti collettivi in Italia. Premessa pag.13

I licenziamenti collettivi del settore privato. I requisiti pag.13

La procedura da seguire nei licenziamenti collettivi pag.15

Le eccedenze di personale nel settore pubblico pag.19

I licenziamenti collettivi in Europa. Premessa pag.24

Uno sguardo ai singoli Stati membri. Pag. 25

I licenziamenti individuali in Francia pag.25

I licenziamenti collettivi in Francia pag.26

I licenziamenti individuali in Germania pag.28

I licenziamenti collettivi in Germania pag.31

I licenziamenti individuali in Spagna pag.32

I licenziamenti collettivi in Spagna pag.34

I licenziamenti individuali nel Regno Unito pag.35

I licenziamenti collettivi nel Regno Unito pag.38

I licenziamenti individuali in Belgio pag.39

I licenziamenti collettivi in Belgio pag.40

I licenziamenti individuali in Austria pag.41

I licenziamenti collettivi in Austria pag.44

I licenziamenti individuali in Olanda pag.44

I licenziamenti collettivi in Olanda pag.47

I licenziamenti individuali in Slovenia pag.48

I licenziamenti collettivi in Slovenia pag.50

I licenziamenti collettivi in Svezia pag.51

Conclusioni pag.52

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I LICENZIAMENTI IN ITALIA ED IN EUROPA

Settore privato

La disciplina relativa alla tutela conto i licenziamenti rappresenta uno dei temi

più delicati nell’ ambito del diritto del lavoro, per effetto ovviamente dei

fondamentali interessi che essa si prefigge di tutelare. Lo scopo del corpus normativo

in materia di licenziamenti è infatti quello di proteggere il lavoratore, parte debole del

rapporto, da eventuali comportamenti abusivi del datore che, senza la tutela in

questione, potrebbe disporre a proprio piacimento delle energie lavorative del

prestatore senza che questi possa vantare alcuna pretesa di stabilità e continuità del

rapporto.

La forma più elementare di protezione del lavoratore è rappresentata dall’ art.

2118 c.c. il quale stabilisce che ciascuna della parti può recedere dal rapporto

rispettando il termine di preavviso, per il quale si fa generalmente riferimento al

contratto collettivo nazionale di riferimento. Si tratta del cosiddetto licenziamento ad

nutum (dal latino: con un cenno) che peraltro è attualmente legittimo solo per

determinate categorie, come ad esempio i dirigenti, i lavoratori in prova e coloro che

hanno raggiunto l’ età pensionabile. Al di fuori di queste limitate ipotesi trova

applicazione l’ importantissima legge 604/ 1966 la quale ha stabilito che il

licenziamento deve essere necessariamente fondato su una giusta causa o un

giustificato motivo. Una volta individuato il principio bisogna però capire cosa stiano

a significare i due concetti appena citati. La fattispecie di giusta causa è disciplinata

dall’ art. 2119 c.c., che la identifica in quella causa talmente grave da non consentire

la prosecuzione, neanche temporanea, del rapporto di lavoro, che quindi si interrompe

immediatamente senza neanche la necessità di far trascorrere il termine di preavviso.

Come ha avuto modo di puntualizzare la Corte di Cassazione con la sentenza 11163

del 1995, la giusta causa è la più grave delle sanzioni applicabili ed in quanto tale può

ritenersi legittima soltanto ove la mancanza del lavoratore sia talmente grave che

qualsiasi altra sanzione risulterebbe insufficiente a tutelare l’ interesse del datore di

lavoro. L’ art. 2119 è fondato sulla presunta sussistenza di un vincolo fiduciario tra il

datore e il lavoratore, vincolo che può essere di varia intensità a seconda della

tipologia dell’ attività svolta, ma che viene irrimediabilmente reciso in conseguenza

dell’ inadempimento costituente giusta causa di recesso. Il riferimento al vincolo di

fiducia ha inoltre portato la dottrina prevalente a ritenere che la fattispecie in

questione possa determinarsi anche in virtù di episodi e comportamenti estranei al

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rapporto di lavoro vero e proprio, e che quindi non costituiscono inadempimento

contrattuale, ma che evidentemente così gravi da non consentire la proficua

continuazione del rapporto stesso. In realtà si tratta di una materia piuttosto scivolosa

e che difficilmente può essere inquadrata entro schemi rigidi ed immodificabili: per

capire ciò basta far riferimento ad alcune sentenze della Cassazione che hanno

statuito proprio su tale questione. Nella recente sentenza 1668 del 2007 la Suprema

Corte ha stabilito che un epiteto irriguardoso (nello specifico, “delinquente”) rivolto

al dirigente può essere giusta causa di licenziamento anche se pronunciato in un

contesto particolarmente animoso come quello di un’ accesa assemblea sindacale. Si

tratta di una pronuncia che sicuramente può prestare il fianco a critiche ma che

comunque suggerisce una certa prudenza nei comportamenti. Sempre nel 2007 la

Cassazione ha affermato un principio molto importante concernente la disciplina

contrattuale delle ipotesi di giusta causa: anche se in sede contrattuale un determinato

comportamento è ricondotto alla fattispecie della giusta causa o del giustificato

motivo soggettivo, il giudice investito della legittimità del licenziamento deve

comunque verificare l’ effettiva gravità della condotta addebitata al lavoratore e

quindi decidere se essa sia meritevole di licenziamento oppure no. Quest’ ultima

pronuncia, evidentemente più garantista rispetto alla precedente, costituisce un’

ulteriore dimostrazione di come la materia non risponda a regole dogmatiche, ma sia

invece caratterizzata da una certa elasticità, anche in relazione al tipo di mansioni

svolte e all’ intensità del vincolo fiduciario intercorrente tra le parti.

L’ altra fattispecie legittimante il licenziamento, come già accennato in

precedenza, è il giustificato motivo oggettivo o soggettivo. Quest’ ultimo rappresenta

in realtà figura assai vicina alla giusta causa, pur differenziandosene per la minor

gravità del comportamento addebitato al lavoratore. Nella pratica, come è facile

immaginare, spesso e volentieri è piuttosto difficile distinguere tra le due nozioni e

quindi si dovrà ricorrere ancora una volta ad una pluralità di criteri identificativi:

tipologia di mansioni svolte, intensità del vincolo fiduciario, particolari circostanze di

fatto… L’ unica costante è rappresentata dall’ ampia discrezionalità di cui gode il

giudice nel ricondurre l’ inadempimento ad una delle due nozioni piuttosto che all’

altra. In ogni caso va precisato che la distinzione tra i due istituti non è un mero

esercizio di dottrina giuridica, ma è destinata ad avere ripercussioni tangibili sul

rapporto di lavoro. Infatti qualora si ricada nell’ ambito del giustificato motivo

soggettivo, essendo l’ inadempimento più lieve di quello caratterizzante la giusta

causa, il lavoratore conserva il diritto al preavviso stabilito nel contratto collettivo di

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riferimento o, in alternativa, la cosiddetta indennità di preavviso, commisurata alla

retribuzione che sarebbe spettata per quel periodo.

In ultima analisi abbiamo la figura del giustificato motivo oggettivo,che si

distingue abbastanza nettamente da quelle finora esaminate, e che piuttosto potrebbe

presentare alcune analogie con i licenziamenti collettivi. Esso infatti è indipendente

dal comportamento del lavoratore e deriva invece da ragioni inerenti l’organizzazione

del lavoro, l’ attività produttiva e il regolare funzionamento dell’ azienda. La crisi

aziendale è la sicuramente fra le più ricorrenti situazioni poste alla base del

giustificato motivo oggettivo: un’ azienda che si trovi in difficoltà e che magari sia

prossima al fallimento ha varie ragioni per procedere a questo tipo di licenziamenti.

Come già accennato in precedenza c’ è il rischio di una sovrapposizione fra l’ istituto

in questione e quello dei licenziamenti collettivi: per superare questi dubbi occorre

verificare se sussistano o meno i requisiti numerici, temporali e spaziali di cui alla

legge 223/ 1991. Nel caso in cui questa verifica dia esito positivo si applicherà la

disciplina predisposta dalla suddetta legge, in caso contrario si tratterà semplicemente

di una serie di licenziamenti individuali. In base a quanto detto si può, con buona

dose di certezza, condividere l’ opinione del prof. Ichino il quale ha efficacemente

evidenziato che il giustificato motivo soggettivo guarda al passato, ad un

inadempimento già verificatosi, mentre invece il giustificato motivo oggettivo guarda

al futuro, a quelle che sono le prospettive dell’ azienda, che in quanto tali non sono

suscettibili di prova ma solamente di una valutazione prognostica. A questo punto

sorge un ulteriore interrogativo: quanto devono essere negative queste proiezioni per

legittimare il licenziamento? E’ sufficiente il timore di un qualsiasi peggioramento

della situazione aziendale oppure è necessario che si vada oltre una certa soglia?

Ancora una volta non è possibile dare una risposta certa e definitiva sul tema, la

giurisprudenza infatti ha manifestato orientamenti contrastanti che non consentono,

finora, la formazione di un indirizzo unitario. Si può parlare di giustificato motivo

oggettivo anche nel caso di sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore allo

svolgimento delle mansioni per le quali era stato assunto. Originariamente l’

orientamento giurisprudenziale era assai intransigente nel consentire in ogni caso il

licenziamento, senza che il datore dovesse dimostrare l’ impossibilità di impiegare il

lavoratore in altre attività compatibili con le sue condizioni fisiche. Opportunamente i

giudici sono tornati sui loro passi come dimostra chiaramente la sentenza 7755/ 1998

pronunciata dalla Cassazione: la Suprema Corte ha stabilito che il licenziamento per

sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore può dirsi legittimo soltanto nel caso in

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cui non sia possibile impiegare il soggetto in altre attività professionalmente

equivalenti a quella per cui fu assunto. Su questo principio la giurisprudenza ha

ormai maturato un convincimento piuttosto stabile.

Occorre ora soffermarsi sulla tutela riconosciuta al lavoratore nel caso di

licenziamento illegittimo. Le norme di riferimento sono essenzialmente due e ad esse

corrispondono altrettante tipologie di protezione: l’ art. 8 della legge 604/ 1966, da

cui discende la “tutela obbligatoria” e l’ art. 18 dello Statuto dei Lavoratori che ha

invece provveduto all’ introduzione della “tutela reale”.

La prima delle due disposizioni appena citate costituì, all’ epoca, un’

innovazione assai significativa se si pensa che fino a quel momento il datore di lavoro

poteva liberamente recedere dal rapporto ai sensi dell’ art. 2118 c.c., quindi dando

solamente il preavviso. Il legislatore così stabilì che nel caso di licenziamento

illegittimo, cioè irrogato in assenza di giusta causa o giustificato motivo, il datore è

tenuto a riassumere il lavoratore entro tre giorni dalla sentenza o, in alternativa, a

risarcirgli il danno attraverso il pagamento di un’ indennità di importo compreso tra

le 2,5 e le 6 mensilità dell’ ultima retribuzione globale di fatto. Nel caso di lavoratori

con una certa anzianità di servizio l’ indennità è compresa fra le 10 e le 14 mensilità.

Il tanto discusso art. 18 dello Statuto, fermo restando quanto previsto dalla legge

604/1966, si applica alle imprese in cui siano occupati più di 15 lavoratori nell’ unità

produttiva, soglia che scende a 5 nel caso di imprenditore agricolo. Tale norma si

applica anche agli imprenditori che, a prescindere dall’ organico delle singole unità

produttive, occupino più di 15 (o 5) lavoratori nell’ ambito del medesimo comune o

comunque abbiamo alle proprie dipendenze complessivamente più di 60 lavoratori.

Una volta delimitato l’ ambito soggettivo di applicazione dell’ art. 18, occorre

esaminarne il merito: è previsto infatti che nel caso di licenziamento illegittimo il

giudice ordini al datore il reintegro del prestatore nel posto di lavoro nonché il

risarcimento del danno commisurato alla retribuzione globale di fatto dal giorno del

licenziamento a quello del reintegro con il versamento dei relativi contributi

previdenziali e assistenziali. Tale indennizzo non può comunque essere inferiore alle

cinque mensilità. A questo punto, per fare chiarezza, occorre innanzitutto capire in

cosa il reintegro si distingua dalla riassunzione di cui alla legge 604. Essenzialmente

la differenza sta nel fatto che la riassunzione presuppone un’ estinzione del

precedente rapporto di lavoro, mentre invece con la reintegrazione è come se tale

rapporto fosse entrato in uno stato di quiescenza, di “riposo”, fino alla pronuncia del

giudice: in questo modo vengono azzerati gli effetti del recesso e si ha una semplice

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prosecuzione del precedente rapporto, senza che il datore possa essere svincolato

dagli impegni assunti con il contratto. In alternativa al reintegro lo Statuto riconosce

al lavoratore illegittimamente licenziato la facoltà di chiedere al datore il

risarcimento del danno subito, commisurato a 15 mensilità della retribuzione globale

di fatto. Per quanto riguarda invece la tutela giurisdizionale del lavoratore nel caso di

recesso unilaterale del datore, va segnalato come delle importanti innovazioni siano

state introdotte dalla legge n° 183 del 2010 meglio conosciuta con la definizione di

“Collegato Lavoro”. Innanzitutto, coerentemente con quanto già prevista dall’ art. 6

della legge 604, è previsto che il lavoratore debba impugnare il licenziamento con

qualsiasi atto scritto anche stragiudiziale o con l’ intervento del sindacato entro 60

giorni dalla relativa comunicazione scritta da parte del datore o dalla comunicazione

dei motivi ove quest’ ultima non sia contestuale al recesso. A questo punto il

lavoratore per non rendere inefficace la suddetta impugnazione dovrà, nel giro di 270

giorni, depositare il ricorso e quindi avviare il giudizio presso il Tribunale

territorialmente competente oppure comunicare alla controparte la richiesta del

tentativo di conciliazione o arbitrato. Nel caso in cui la conciliazione o l’ arbitrato

siano rifiutati o non sia raggiunto l’ accordo per il loro espletamento, il ricorso dovrà

essere depositato in cancelleria entro 60 giorni dalla data del rifiuto o del mancato

accordo. Questa norma è stata aspramente criticata da più parti in quanto

evidentemente richiede al lavoratore una notevole sollecitudine nell’ esperimento

delle varie iniziative volte all’ impugnazione del licenziamento.

Inoltre non si può fare a meno di sottolineare come in periodi come quello

attuale, caratterizzato come ben sappiamo da una drammatica crisi economico-

sociale che non risparmia alcun settore del tessuto produttivo, spesso e volentieri

accade che la scure del risanamento e dell’ equilibrio finanziario finisca

inesorabilmente per abbattersi sul lavoro dipendente. A complicare ulteriormente le

cose c’ è la necessità, evidentemente ineludibile, di assecondare in toto qualsiasi

indicazione proveniente dalle istituzioni comunitarie che ormai tengono severamente

al guinzaglio i vari Stati membri imponendo le loro politiche in barba a principi, forse

passati di moda, come la sovranità nazionale. Questa sicuramente non è l’ occasione

più indicata per disquisire di questi temi in modo approfondito, però ormai anche i

non addetti ai lavori sanno del vivace epistolario tra la Comunità ed il Governo. La

nostra attenzione non può non soffermarsi sugli input che l’ Europa impone al nostro

Paese in tema di licenziamenti: si sollecita infatti una riforma del mercato del lavoro

nel senso di realizzare una maggiore flessibilità del medesimo, come se quella attuale

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non fosse ancora sufficiente. In particolare l’ auspicio proveniente da Bruxelles è

quello di alzare ulteriormente l’ età pensionabile (idea che, per una serie di ragioni,

non può certo considerarsi folle) e di rendere più agevoli i licenziamenti in modo tale

da favorire, a loro avviso, la propensione delle aziende all’ assunzione. Tale modello,

della cosiddetta flexicurity, non rappresenta di certo una novità visto che da diversi

anni viene applicato anche con buoni risultati in alcuni Paesi del Nord Europa, come

Olanda e Danimarca. Il problema è che un simile modello non necessariamente è

esportabile in altri contesti, dove ovviamente possono esserci situazioni socio

economiche anche piuttosto distanti da quelle del Paese d’ origine: adottare ex novo

questo sistema in un periodo di depressione economica come quello attuale, con

mercati finanziari assolutamente imprevedibili, banche sempre più restie a concedere

credito alle aziende e con governi instabili e comunque non sufficientemente

autorevoli da confrontarsi con le sfide che li attendono, rischia seriamente di rivelarsi

un’ iniziativa troppo spregiudicata se non addirittura controproducente,

potenzialmente letale per quella che probabilmente rappresenta la vera risorsa da cui

ripartire, ossia il lavoro. Non si vuole condannare a priori un qualcosa che ancora

non c’è e quindi non si può giudicare, però occorre ponderare con molta attenzione le

diverse soluzioni disponibili e fra esse scegliere (sempre che sia possibile) quella

meno dolorosa.

Settore pubblico

Il pubblico impiego, negli ultimi venti anni, è stato interessato da un fenomeno di

progressiva privatizzazione del rapporto di lavoro che infatti è attualmente soggetto a

gran parte delle norme vigenti nel settore privato. L’ art. 2, c.2, d. lgs. 165/ 2001

stabilisce che i rapporti di pubblico impiego sono disciplinati dal capo I, titolo II del

libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’ impresa,

fatte salve le diverse disposizioni contenute nel decreto stesso, che costituiscono

norme a carattere imperativo. Altrettanto importante è l’ art. 51 c.2 il quale prevede l’

applicabilità espressa dello Statuto dei Lavoratori a prescindere dal numero dei

dipendenti. La privatizzazione ha inoltre comportato che le materie relative al

rapporto di lavoro e alle relazioni sindacali siano disciplinate contrattualmente e non

più per il tramite di atti pubblicistici quali leggi e regolamenti. Inoltre sono devolute

al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie

riguardanti il rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche. Le

uniche categorie nei cui confronti non trova applicazione questa nuova disciplina

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sono : magistrati ordinari, contabili e amministrativi; avvocati e procuratori dello

Stato, personale militare e di polizia, personale della carriera diplomatica e

prefettizia, professori e ricercatori universitari e i dipendenti di Camera, Senato e

Corte Costituzionale. In base a quanto detto i dipendenti pubblici sono soggetti alla

normativa privatistica anche in materia di licenziamenti, e quindi trovano

applicazione sia la legge 604/1966, sia lo Statuto dei Lavoratori e di conseguenza

hanno rilievo quelle stesse fattispecie da cui può derivare il licenziamento nel settore

privato. Nello specifico, la riforma del pubblico impiego intervenuta con il d. lgs.

150/2009 fa salva la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa e giustificato

motivo soggettivo e le ipotesi previste dal contratto collettivo, ma definisce

espressamente alcune tipologie di infrazioni che per la loro gravità comportano il

cosiddetto licenziamento disciplinare. Alcuni esempi: falsa attestazione della

presenza in servizio o giustificazione dell’ assenza con certificazione medica falsa,

assenza ingiustificata per più di tre giorni anche non continuativi nell’ arco di un

biennio o comunque per più di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni,

ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall’ amministrazione per motivate

esigenze di servizio, reiterazione nell’ ambiente di lavoro di gravi condotte

aggressive, moleste o minacciose, condanna penale definitiva che preveda anche l’

interdizione dai pubblici uffici. Un’ altra significativa ipotesi di licenziamento

disciplinare, in linea con il principio della massima efficienza e trasparenza delle

pubbliche amministrazioni, si ha nel caso di valutazione insufficiente del rendimento

del lavoratore nell’ arco di un biennio, valutazione che deve essere condotta secondo

le relative disposizioni legislative e contrattuali. Anche il medico competente di una

struttura sanitaria pubblica è passibile di licenziamento nel caso di emanazione di

sentenza definitiva che lo condanni per certificazioni mediche false o falsamente

attestanti uno stato di malattia e nel caso di reiterato mancato invio all’ INPS della

certificazione di malattia del lavoratore.

Si può avere il licenziamento del dipendente pubblico anche per giustificato motivo

oggettivo. Tuttavia, a differenza di quanto avviene nell’ impiego privato, le esigenze

organizzative del datore danno luogo all’ istituto dell’ eccedenza di personale e del

collocamento in disponibilità. Di conseguenza il giustificato motivo oggettivo nel

pubblico impiego si riferisce esclusivamente a circostanze inerenti al lavoratore

stesso:

- l’ interdizione dai pubblici uffici, di cui si è parlato in precedenza e che può

derivare da una sentenza penale di condanna

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- la sopravvenuta inidoneità fisica, purchè non sia possibile inquadrare il

lavoratore in livelli equivalenti o anche inferiori.

Un’ ultima fattispecie di licenziamento del dipendente pubblico è costituita dal

superamento del periodo di comporto per malattia o infortunio, ai sensi dell’ art. 2110

c.c. I contratti collettivi individuano un periodo di tempo durante il quale il

lavoratore, in caso di malattia, gravidanza, infortunio o puerperio ha diritto alla

conservazione del posto di lavoro e alla corresponsione della retribuzione o di un’

indennità: in questo lasso di tempo il lavoratore non può essere licenziato. Una volta

scaduto il termine di comporto il datore può recedere ai sensi dell’ art. 2118 c.c.

quindi dando il preavviso oppure attraverso il versamento di un’ indennità sostitutiva

del preavviso. Generalmente i contratti collettivi stabiliscono due termini:

- il comporto secco, riferito ad un’ unica malattia di lunga durata

- il comporto per sommatoria, che trova applicazione nell’ ipotesi in cui il

lavoratore sia colpito da più malattie.

Il lavoratore rimane evidentemente privo di protezione nel caso in cui sia affetto da

una malattia talmente grave da protrarsi oltre il termine di comporto. Proprio per

scongiurare il verificarsi di simili inconvenienti spesso accade che i contratti collettivi

prevedano un’ aspettativa non retribuita che si estende oltre il termine di comporto e

che consente al lavoratore la conservazione del posto di lavoro, pur in assenza di

retribuzione.

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I LICENZIAMENTI COLLETTIVI IN ITALIA

Premessa

L’estinzione del rapporto di lavoro è un fenomeno che riguarda direttamente il

singolo lavoratore, il quale vede terminare così quel rapporto giuridico per cui egli

presta la propria attività lavorativa dietro una retribuzione.

È importante rilevare che quando questo fenomeno riguarda allo stesso tempo

più lavoratori in una stessa impresa, l’attenzione del legislatore si fa più forte e si

prevede una procedura particolare che va sotto il nome di “licenziamento collettivo”.

Si tratta di una procedura volta a tutelare i lavoratori da facili discriminazioni che,

specialmente in tempi di crisi, possono esser perpetrate dal datore di lavoro: con la

scusa di esigenze obiettive dell’impresa, il datore potrebbe, ove sprovvisto di obblighi

precisi, intimare più licenziamenti in modo arbitrario su vari profili, primo tra tutti la

scelta del chi licenziare.

I licenziamenti collettivi del settore privato

I requisiti dei licenziamenti collettivi

La disciplina della materia è ancora oggi contenuta nella legge 223/1991, come

modificata negli ultimi decenni, in particolare dal d. lgs. 110/2004. Gli articoli di

riferimento sono il 24 e il 4 e 5, dal primo richiamati. Essa si applica anche ai datori

di lavoro non imprenditori e norme speciali valgono per i dirigenti. Inoltre, la

disciplina opera anche in caso di procedure concorsuali.

Tale legge, peraltro attuazione della direttiva comunitaria 75/129, prevede

come requisiti di applicabilità:

- una minima dimensione occupazionale dell'impresa (che occupa più di 15

dipendenti);

- un numero minimo di licenziamenti (che coinvolgono almeno 5 dipendenti);

- un arco temporale, di regola di 120 giorni prolungabili solo in sede di

consultazione sindacale, entro cui sono effettuati i licenziamenti stessi.

Circa il requisito occupazionale, i 15 dipendenti in questione devono essere

occupati nella stessa unità produttiva oppure in più unità produttive nell’ambito del

territorio di una stessa provincia. Inoltre, la valutazione della sussistenza del requisito

è fatta non al momento del licenziamento e dunque dell’inizio della procedura, bensì

si guarda all’occupazione aziendale nel normale organigramma produttivo. Ove

questo manchi, fa fede l’occupazione media dell’ultimo semestre, considerando

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anche gli apprendisti e gli assunti con contratto di formazione-lavoro, ormai sostituito

dal contratto di inserimento.

Sono questi gli elementi che distinguono la fattispecie dei licenziamenti

collettivi da quella dei licenziamenti individuali plurimi intimati per giustificato

motivo oggettivo, dove pure necessita la valutazione delle ragioni produttive e

organizzative dedotte dall'imprenditore. Infatti, i licenziamenti collettivi possono

seguire un’intimazione in conseguenza di:

- una riduzione del personale;

- una trasformazione di attività o di lavoro;

- una cessazione dell’attività aziendale.

Queste tre situazioni sono tipizzate dal legislatore all’interno dell’art 24 e

richiede una spiegazione maggiore almeno il caso della riduzione del personale.

Sono contemplate due diverse ipotesi di riduzione del personale, la prima

interessa le imprese che occupano più di 15 dipendenti (art 24), mentre la seconda

(art 4) riguarda l’eventualità in cui il recesso dal rapporto di lavoro derivi dall’

impossibilità di reimpiegare i lavoratori sospesi nelle imprese ammesse alla Cassa

Integrazione Guadagni Straordinaria e dunque riguarda solo tale tipologia di imprese.

Ad ogni modo, alla diversa causa di fatto che origina il recesso, fa fronte in entrambi

i casi la stessa procedura di mobilità.

Per la dimensione anche molto estesa che possono assumere i licenziamenti

collettivi è questo un istituto del diritto del lavoro volto a placare il grande allarme

sociale che suscitano accadimenti del genere. La disciplina è perciò costruita

seguendo tale linea ispiratrice, tanto che sebbene, dando per verificati gli altri

requisiti, basti che il licenziamento venga intimato a cinque lavoratori per

considerarlo collettivo, all’esito della procedura potrebbe darsi - o meglio, sarebbe

altamente auspicabile – che si arrivi a licenziare magari un solo soggetto.

Le eccedenze di manodopera sono un problema spinoso e ad alto tasso di

conflittualità sociale perciò la normativa cerca di promuovere la collaborazione tra le

parti sociali, che possono proporre soluzioni alternative ai licenziamenti e tutta una

serie di misure di sostegno dei licenziati a seguito di un esito delle consultazioni

sindacali negativo o comunque non tale da evitare i licenziamenti.

Alla luce di quanto detto è bene vedere nel dettaglio le caratteristiche della

procedura prevista per i licenziamenti collettivi.

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La procedura da seguire nei licenziamenti collettivi

L’articolazione della procedura, delineata dagli artt. 4 e 5 l.223/1991, è bifasica

e segnatamente è il risultato di una fase sindacale ed una amministrativa, legate da

una forte interdipendenza.

La prima è la fase sindacale. L’apertura di una procedura di mobilità è

necessariamente preceduta da una comunicazione scritta da parte del datore che

intende avviarla, direttamente o per tramite dell’associazione datoriale cui aderisce o

conferisce mandato, alle r.s.a. e alle rispettive associazioni di categoria. Ove

manchino le rappresentanze sindacali destinatari della comunicazione sono le

associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative

sul piano nazionale.

Questa comunicazione deve contenere informazioni puntualmente elencate al

comma 3 dell’articolo 4 della legge 223/1991 relative ai motivi che hanno

determinato gli esuberi, ai motivi tecnici ed organizzativi in base ai quali si ritiene di

non poter evitare la riduzione del personale; va indicato il numero, la collocazione

aziendale e i profili professionali della manodopera eccedente, nonché i tempi di

attuazione del programma di mobilità e le misure ritenute necessarie per fronteggiare

le conseguenze, sul piano sociale, dell'attuazione del piano.

Se il datore non rispetta questi vincoli contenutistici, sia nella forma che nella

sostanza, ad esempio inviando una informazione incompleta, risponderà di condotta

antisindacale ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori. Del resto le scelte organizzative

del datore non sono sindacabili nel merito perché opera la tutela dell’iniziativa

economica privata posta dall’art. 14 della Costituzione. Il giudice in sede di

un’eventuale controversia e ancor prima le parti sociali possono solo verificare la

sussistenza di un nesso causale tra tali scelte organizzative e gli intimati

licenziamenti. I dati richiesti dalla legge sono dunque fondamentali per costruire un

dialogo tra le parti sociali che sia serio e non fittizio. Questa funzione svolta dalla

comunicazione scritta da parte del datore è sottolineata anche dall’obbligo di invio

contestuale di essa anche all’Ufficio provinciale del lavoro e della massima

occupazione, che provvede a controllarne la conformità alle richieste della legge.

In allegato va inviata copia della ricevuta di versamento all’Inps di una somma

pari al trattamento massimo mensile di integrazione salariale per ogni lavoratore

ritenuto eccedente, a garanzia dell’adempimento dell’obbligo di versamento gravante

sul datore ai sensi dell’art 5 comma 4, laddove il lavoratore sia poi effettivamente

licenziato e dunque titolare dell’indennità prescritta dalla legge 223/1991.

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Il legislatore pone come secondo step del procedimento un esame congiunto

che le r.s.a hanno la facoltà di chiedere entro 7 giorni dalla ricezione della

comunicazione. Si cerca così di trovare una soluzione condivisa, in un’ottica che

vede nel licenziamento l’extrema ratio da adottare residualmente, quando altre vie

non siano percorribili. Le vie tracciate dalla normativa vigente prevedono che le parti

si consultino sulle cause dell'eccedenza e le possibilità di riassorbire in tutto o in parte

il personale anche facendo ricorso ai contratti di solidarietà o a forme di flessibilità

per la gestione del tempo di lavoro.

Si vede bene come la preoccupazione sia quella di evitare in tutti i modi di

ridurre il personale e quand’anche ciò non sia possibile si prevede l’esame della

fattibilità di misure sociali di accompagnamento per i licenziati. Tanto è il favor che il

legislatore ha verso la risoluzione sindacale della vicenda che permette che in tali

accordi si possano assegnare ai lavoratori mansioni diverse ed anche inferiori rispetto

a quelle precedentemente svolte (in deroga all’art. 2103 c.c.); si possa convertire in

part-time il tempo di lavoro dei lavoratori full-time ormai prossimi al pensionamento.

La data del ricevimento della comunicazione dell’impresa è anche il dies a quo

per misurare la durata massima delle consultazioni, che non può eccedere i 45 giorni

(30 gg in caso di procedure concorsuali; i termini sono dimezzati se i lavoratori

coinvolti siano meno di 10). Durante le trattative i rappresentanti sindacali possono

anche farsi assistere da esperti.

L’imprenditore deve comunicare per iscritto all’Ufficio provinciale del lavoro

e della massima occupazione anche il risultato dell’esame congiunto ed il suo

eventuale esito negativo. Inizia quindi la fase amministrativa e a questo punto la

situazione può prendere due direzioni parallele a seconda dell’esito delle

consultazioni:

- se l’accordo è raggiunto, le parti seguono quanto convenuto e la procedura si

chiude;

- se l’accordo non si raggiunge, si ha un nuovo esame congiunto convocato dal

direttore dell’Ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, che

può anche formulare proposte. Le nuove negoziazioni durano al massimo 30gg

(15 se i lavoratori coinvolti sono meno di 10) dalla data del ricevimento della

seconda comunicazione.

In caso di accordo sindacale o di fallimento delle nuove negoziazioni,

l’impresa può licenziare i lavoratori, ma ancora non può dirsi scevra da vincoli.

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Operano infatti delle limitazioni legali che riguardano sia le modalità del recesso, sia

i criteri di scelta del personale da mobilitare.

Ai fini di un recesso che sia legittimo è necessario che esso sia comunicato per

iscritto a ciascuno dei lavoratori nel rispetto dei termini di preavviso. A causa della

differente tipologia del contratto con cui sono stati assunti, l’articolo 4 specifica di

non essere applicabile ai lavoratori eccedenti per fine lavoro nelle imprese edili e

nelle attività stagionali o saltuarie e ai lavoratori con contratto a termine. Manca un

obbligo di specifica motivazione, nel senso che è sufficiente richiamare la natura

collettiva del recesso e la procedura svolta.

Il datore di lavoro può inoltre procedere ai licenziamenti solo se individua i

lavoratori da collocare in mobilità secondo criteri obiettivi definiti negozialmente in

sede di consultazione sindacale o astrattamente determinati dai contratti collettivi

nazionali. Solo in via sussidiaria valgono tre criteri legali tra loro concorrenti, stabiliti

dall'art.5 legge 223/91:

- carichi di famiglia;

- anzianità di servizio presso l’azienda;

- esigenze tecnico-produttive e organizzative.

Anche al momento del recesso vero e proprio sorge un obbligo di

comunicazione in capo al datore non solo verso i suoi dipendenti in esubero; deve

inviare per iscritto - contestualmente alla comunicazione scritta del recesso a ciascun

lavoratore eccedente – all’Ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione

competente, alla Commissione regionale per l’impiego e alle associazioni di categoria

aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale

l’elenco dei lavoratori collocati in mobilità, con annesse informazioni anagrafiche e

professionali, con la puntuale indicazione delle modalità con cui sono stati applicati i

criteri di scelta. L’onere della prova del corretto utilizzo dei criteri grava sul datore.

È possibile impugnare i licenziamenti collettivi per vari vizi, a cui si collegano

diverse sanzioni:

- mancanza della forma scritta >> inefficacia del licenziamento;

- non rispetto delle procedure indicate >> inefficacia del licenziamento e

repressione della condotta antisindacale ex art. 28 l.300/1970;

- violazione dei criteri scelta >> annullabilità del licenziamento.

Le diverse situazioni hanno scarso rilievo pratico, poiché in tutte vale sempre

la tutela approntata dall’articolo 18 dello Statuto. Vale sottolineare che nel caso di

uso scorretto dei criteri di scelta esiste un meccanismo di sostituzione di essi stabilito

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dall’art. 7 della l.223/1991, per cui una volta reintegrati nel posto i lavoratori

illegittimamente licenziati, il datore può licenziare un numero di lavoratori pari a

quello di quanti ne ha effettivamente reintegrati senza dover esperire una nuova

procedura.

Salvo il caso della mancata comunicazione, il lavoratore ha 60 giorni da essa

per impugnare il recesso per mezzo di qualsiasi atto scritto anche extragiudiziale (ed

anche attraverso l’intervento delle organizzazioni sindacali). A questi recessi

inefficaci o invalidi si applica l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, per espresso

richiamo di legge contenuto nel comma 3 dell’articolo 5.

Se in possesso dei requisiti oggettivi indicati dall'art.16, comma 1 , i lavoratori1

vengono iscritti in apposite liste di mobilità.

Questa iscrizione nelle liste di mobilità vorrebbe agevolare il reinserimento nel

mercato di lavoro e costituisce presupposto per l'erogazione dall'INPS dell'indennità

di mobilità per un periodo determinato in base all'età del lavoratore alla data del

licenziamento e all'ubicazione dell'unità produttiva di appartenenza.

In sintesi possiamo dire che la normativa sui licenziamenti collettivi appronta

una tutela abbastanza chiara e certamente sufficiente a garantire almeno un dialogo

tra parti sociali in casi in cui il numero delle eccedenze sia fuori dalla fisiologia

aziendale.

Non a caso poi il legislatore, novellando l’art 5 comma 2, ha specificato che la

manodopera femminile in esubero non può essere una percentuale maggiore di quella

che resta occupata, dando così un attenzione alla tutela del lavoro femminile anche

nel contesto dei licenziamenti collettivi.

Ma quali sono i limiti e le possibile elusioni di tale organica disciplina? Si

pensi a titolo esemplificativo al trasferimento di ramo d’azienda e alla turbolenta e

vorticosa evoluzione della sua disciplina, che vede ora la possibilità da parte del

cedente di identificare il ramo d’azienda al momento della cessione; è chiaro come

questo strumento possa servire come grimaldello per evitare l’attivazione della

procedura ex l. 223/1991 e liberarsi più facilmente di un gruppo di lavoratori magari

non più graditi al datore.

Veniamo ora a qualche dato di attualità.

1 Possono iscriversi nella lista di mobilità, senza diritto alla relativa indennità, anche lavoratori dipendenti di imprese

artigiane o cooperative che occupano meno di 15 dipendenti (art.4 L.236/93).

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In Italia licenziamenti collettivi di recente hanno interessato molte imprese a

causa della crisi galoppante che interessa i mercati di tutto il mondo.

Proprio nella capitale ad esempio possiamo citare la vicenda dei lavori in corso

per la costruzione della metropolitana, linee B1 e C.

Per dare un po’ di concretezza alla normativa esaminata e toccare con mano

quanto la norma giuridica si attua ogni giorno, basti ora sapere che negli scorsi mesi i

sindacati territoriali di categoria Feneal Uil, Filca Cisl, Fillea Cgil hanno denunciato

fortemente l’emergenza occupazionale romana, che sta portando oggi al

licenziamento di 90 lavoratori occupati per la metro C e di altri 40 per la B1,

peggiorando ancora la situazione della mobilità capitolina.

Questi avvenimenti ci consentono di passare agilmente dall’analisi della

disciplina del settore privato a quella prevista per il pubblico impiego.

Le eccedenze di personale del settore pubblico

Che il settore pubblico abbia da sempre avuto tratti peculiari rispetto a quello

privato è cosa nota. Molto spesso in diritto è il linguaggio del legislatore a fornirci i

primi indizi di alcune diversità, talvolta sottili, che rendono l’idea di cosa è dietro la

previsione di certe normative.

La più grande considerazione sistematica da fare per ricostruire un quadro

ordinato del diritto del lavoro pubblico sta nel fatto che qui bisogna bilanciare tante

esigenze con l’articolo 97 della Costituzione e dunque se il diritto del lavoro privato è

occasionato dalla tutela del lavoratore in quanto soggetto debole del rapporto, nel

pubblico le norme mirano piuttosto a proteggere l’organizzazione della pubblica

amministrazione.

Questa diversa ispirazione è ben visibile proprio nella regolamentazione

prevista per le cosiddette eccedenze di personale.

Infatti, in linea di massima si richiama la disciplina della legge 223/1991 ma

questa è applicabile solo nei limiti in cui non sia diversamente previsto dal d.lgs.

165/2001, cioè il cosiddetto testo unico in materia di pubblico impiego, o in ogni caso

solo nei limiti della compatibilità con i principi generali del sistema pubblicistico. Le

norme di riferimento sono gli artt. 33, 34 e 34-bis del t.u. sulla fattispecie appunto

della ricollocazione dei dipendenti eccedentari. L’articolo 33 in particolare è stato

oggetto di modifica con la legge di stabilità, che ne ha riscritto il testo (la versione

previgente resterà transitoriamente in vigore fino al 31-12 di quest’anno) ed ha

riaumentato la distanza tra lavoro pubblico e privato.

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Vediamo quali sono i profili di differenziazione delle discipline nel settore

pubblico e privato, partendo dalla disciplina vigente finora.

Innanzitutto dobbiamo analizzare la dizione di “eccedenza di personale”,

come già accennato, e non di “messa in mobilità” o “licenziamento collettivo, in

quanto la messa in mobilità preceduta da cassa integrazione non ha ragioni qui per

differenziarsi dalla riduzione del personale, data l’estraneità dello stesso istituto della

Cassa integrazione guadagni al pubblico impiego.

Si ha un’eccedenza quando essa è rilevata dalla pubblica amministrazione e

riguarda almeno 10 dipendenti, interessati anche tramite distinte dichiarazioni di

eccedenza lungo l’arco temporale di un anno. Tali dichiarazioni vengono effettuate di

regola in sede di programmazione triennale dell’organizzazione degli uffici e delle

dotazioni organiche ex art 6 del t.u. mentre nel settore privato alla base

dell’eccedenza vi deve essere un giustificato motivo oggettivo, nel pubblico questa

non ha qualifiche qualitativo-causali ma attiene in generale alla sfera di

autodeterminazione autoritativa degli interessi dell’amministrazione, circa il proprio

fabbisogno di personale2. Peraltro la dichiarazione di eccedenza è tale anche quando

nell’amministrazione sono occupati meno di 16 dipendenti, a differenza di quanto

richiesto ai fini della definizione di licenziamento collettivo nel privato.

Altra grande divergenza sta nelle conseguenze che seguono un’eventuale

eccedenza: per il lavoratore vi è un collocamento in disponibilità per un periodo

massimo di due anni con conservazione del rapporto.

Manca qui la risoluzione del rapporto precedente del settore privato. Infatti

l’art. 9 comma 25 della l.122/2010 deroga all’art. 33 del t.u. e dispone che gli

eventuali eccedenti all’esito delle riduzioni restano temporaneamente in posizione

soprannumeraria nei contingenti di ciascuna area o qualifica dirigenziale. Ove vi

siano soprannumerari in un’area, nelle aree della stessa amministrazione con vacanze

in organico diventa indisponibile un numero di posti corrispondente; alternativamente

si ricorre ad accordi di mobilità, anche intercompartimentale.

È vietato assumere personale a qualunque titolo e con qualsiasi contratto per

tutte le p.a. coinvolte, nelle aree che abbiano un soprannumero e per i posti comunque

resi indisponibili nelle altre aree.

2 Ad ogni modo si ritiene che in virtù del richiamo generale alla normativa del settore privato, i motivi per cui le

eccedenze si qualificano come tali sono quelli che, ai sensi dell’art. 24 L. n. 223/1991, derivino da riduzione o

trasformazione di attività o di lavoro, considerata come ragione neutra di applicazione della procedura, a prescindere

dalle cause intrinseche che l’hanno determinata. In alcun modo quindi potrebbe trattarsi di ragioni attinenti alla persona

del lavoratore.

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La procedura per il collocamento in disponibilità delle eccedenze è simile a

quella bifasica prevista per i licenziamenti collettivi del settore privato ed è nelle

procedure di informazione e di consultazione tra pubbliche amministrazioni e

organizzazioni sindacali e nell’applicazione dei criteri di scelta si rinviene

sostanzialmente il reale momento di omogeneizzazione della disciplina dei

licenziamenti collettivi nell’impresa. Anche la p.a. deve preventivamente informare

per iscritto – e con dati molto dettagliati prescritti dal legislatore - circa la rilevazione

di un’eccedenza:

- le r.s.u. del personale;

- le organizzazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo nazionale di

comparto o di area.

Come nel privato, i dati sono molto importanti ai fini della partecipazione del

fattore lavoro nella gestione dell’eccedenza, data la facoltà delle r.s.u. di chiedere un

esame congiunto entro 10 giorni dal ricevimento della comunicazione. L’intera fase

sindacale deve concludersi al massimo entro 45 giorni dalla solita comunicazione e

solo eventualmente si passa alla fase amministrativa, presso il Dipartimento della

Funzione pubblica. Va sottolineato che nel pubblico anche la fase amministrativa va

richiesta dai sindacati ed essa si conclude entro un massimo di 60 giorni dalla

comunicazione dell’eccedenza.

I criteri di scelta dei lavoratori da mettere in disponibilità sono rimessi alla

contrattazione collettiva e in via suppletiva operano quelli dell’art. 5 della legge

223/1991.

Le sanzioni per violazioni procedurali e dei criteri di scelta cambiano nel

pubblico, perché qui il lavoratore ha diritto solo ad un risarcimento danni, pari alla

differenza tra l’indennità goduta durante il periodo di mobilità e il trattamento di cui

avrebbe goduto se il suo rapporto lavorativo non fosse stato sospeso.

Senza scendere ora nel dettaglio di quanto avviene una volta che il lavoratore è

posto in disponibilità, evidenziamo che il collocamento in disponibilità è ciò che

corrisponde alla mobilità privata e alla CIGS soprattutto, dato che per tutta la durata

della disponibilità il rapporto di lavoro con la p.a. è solo sospeso e non risolto.

Veniamo ora alle modifiche - di un certo rilievo – operate dalla legge di

Stabilità.

Innanzitutto è previsto che le amministrazioni debbano effettuare annualmente

una ricognizione volta ad individuare eventuali eccedenze di personale e darne

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prontamente comunicazione al Dipartimento per la Funzione Pubblica.. Le

amministrazioni che non si adeguino a tale prescrizione non possono effettuare

assunzioni o instaurare rapporti di lavoro di qualunque tipo, pena la nullità di tali atti.

Inoltre il dirigente va incontro a responsabilità disciplinare.

Qualora vengano rilevate delle eccedenze il dirigente deve dare un' informativa

preventiva alle rappresentanze sindacali unitarie alle organizzazioni sindacali

firmatarie del contratto collettivo nazionale del comparto o area; questo è tratto molto

diverso rispetto al passato, in cui – come abbiamo visto - quando il personale in

eccesso era pari almeno a dieci dipendenti, la pubblica amministrazione doveva

motivare nel dettaglio gli esuberi e che doveva essere aperta, su richiesta delle

rappresentanze sindacali, una fase dedicata all’ esame congiunto delle cause degli

esuberi e alla verifica della possibilità di giungere a un eventuale accordo per la

ricollocazione dei lavoratori in esubero. Insomma, si elimina la fase sindacale, che

resta nei soli limiti della comunicazione.

Attualmente è invece previsto che, una volta trascorsi dieci giorni dalla

suddetta comunicazione, la P.A. possa procedere con la risoluzione del rapporto dei

dipendenti che abbiano un’ anzianità contributiva di almeno 40 anni (coerentemente

con quanto già previsto dalla legge 133/ 2008) oppure verificare la possibilità di una

ricollocazione totale o parziale del personale in situazione di soprannumero o di

eccedenza nell'ambito della stessa amministrazione, anche mediante il ricorso a forme

flessibili di gestione del tempo di lavoro o a contratti di solidarietà, ovvero presso

altre amministrazioni, previo accordo con le stesse, comprese nell'ambito della

regione.

La legge prevede anche che i contratti nazionali possano stabilire criteri

generali e procedure per consentire la gestione delle eccedenze di personale

attraverso il passaggio diretto ad altre amministrazioni al di fuori del territorio

regionale che, in relazione alla distribuzione territoriale delle amministrazioni o alla

situazione del mercato del lavoro, sia stabilito dai contratti collettivi nazionali

Dopo 90 giorni dalla comunicazione ai sindacati, per i dipendenti che non sono

stati ricollocati, scatta la messa in disponibilità, che prevede la cessazione di tutti gli

obblighi inerenti al rapporto di lavoro, e per il dipendente un'indennità pari all'80%

dello stipendio e l'indennità integrativa speciale per un massimo di 24 mesi, due anni.

Questo periodo è riconosciuto ai fini del raggiungimento dei requisiti per

accedere alla pensione e del calcolo della pensione stessa. E' riconosciuto il diritto

all'assegno per il nucleo familiare secondo le precedenti normative. Quest’ ultima

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parte della nuova disciplina è rimasta sostanzialmente invariata rispetto alla

precedente.

I LICENZIAMENTI IN EUROPA

Premessa

Mai come in questo momento storico è necessario volgere lo sguardo a cosa

succede nelle fabbriche e nelle imprese d’oltralpe. E tutto fa pensare che tale

necessità non possa fare altro che continuare a crescere. Nel momento in cui esistono

delle istituzioni europee, alle quali fa capo anche l’Italia, e laddove esse impongono

delle condizioni normative minime e comuni, la legislazione nazionale deve fare i

conti con lo spazio europeo. Senza considerare che i diritti dei lavoratori sono spesso

soggetti a variazioni dovute alle oscillazioni dei mercati, oggi ad altissimo grado di

instabilità.

Per avere un quadro effettivamente chiaro di quelli che sono i nostri diritti in

caso di licenziamento, in modo da poter formulare un critico giudizio di valore, è

utile confrontarli con quelli che hanno i lavoratori nel resto dell’Unione Europea,

confrontando anche la legislazione comunitaria.

La Direttiva 98/59/CEE

Il Consiglio Europeo, il 20 luglio 1998, ha adottato una direttiva riguardante il

ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative ai licenziamenti

collettivi; si tratta di una versione codificata delle precedenti direttive 75/129/CEE e

92/56/CEE, che sono state abrogate.

Gli Stati membri possono applicare o introdurre disposizioni più favorevoli ai

lavoratori e ad oggi possiamo dire che le discipline dei singoli Stati sono abbastanza

armoniche, data l’implementazione della direttiva, cambiando perlopiù nei soli

requisiti di soglia della dimensione collettiva del licenziamento.

Chiariamo per prima cosa che dall’ambito di applicazione della direttiva sono

esclusi:

- i licenziamenti collettivi effettuati nel quadro di contratti di lavoro stipulati per

una durata o per un'attività determinate, a meno che non intervengano prima

del termine ovvero della conclusione di tali contratti;

- i lavoratori delle amministrazioni pubbliche o degli organismi di diritto

pubblico;

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- gli equipaggi delle navi.

Il datore di lavoro che prevede di effettuare licenziamenti collettivi deve

procedere allo svolgimento di consultazioni con i rappresentanti dei lavoratori ai fini

di raggiungere un accordo. Si parla almeno delle possibilità di evitare o ridurre i

licenziamenti e di limitarne le conseguenze, in particolare ricorrendo a provvedimenti

sociali di accompagnamento riguardanti la riclassificazione o la riconversione dei

lavoratori licenziati. I rappresentanti dei lavoratori possano ricorrere ad esperti in

conformità delle misure nazionali.

Il datore è tenuto a fornire tutte le informazioni necessarie ai rappresentanti

dei lavoratori, nel corso delle consultazioni, e comunica a questi in ogni caso e in

forma scritta:

- i motivi;

- il periodo durante il quale è stato previsto di effettuare licenziamenti;

- il numero e la categoria di lavoratori abitualmente impiegati;

- il numero di quelli da licenziare;

- secondo quali criteri sono stati scelti i lavoratori da licenziare;

- il metodo di calcolo di eventuali indennità.

Il datore notifica in forma scritta all'autorità pubblica competente ogni progetto

di licenziamento e tutte le informazioni utili su di esso e le consultazioni, ad

eccezione del metodo di calcolo delle indennità.

I licenziamenti collettivi hanno effetto non prima che dalla notifica del progetto

siano trascorsi 30 giorni (prorogabili fino a 60 in alcuni stati membri), perché nel

mentre la competente autorità pubblica cerca delle alternative. Della proroga e dei

motivi di questa va informato a sua volta il datore, prima della scadenza del termine

iniziale.

Particolari previsioni valgono per i licenziamenti collettivi che avvengono

come conseguenza di una cessazione di attività risultante da una decisione

giudiziaria.

Uno sguardo ai singoli Stati membri:

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FRANCIA

Licenziamenti individuali

In Francia la principale fonti regolatrice del rapporto di lavoro è il Code du

Travaille, emanato nel 1973 e quindi coevo dello Statuto dei Lavoratori italiano. Tale

fonte stabilisce che il licenziamento deve essere bastato su fondate e valide ragioni e

che quindi il datore può recedere dal rapporto solo nel caso di colpa grave del

lavoratore o in caso di forza maggiore.

La legislazione francese, come accade ormai in molti Paesi (e coerentemente

con l' orientamento dell' Unione Europea) contempla anche la figura del

licenziamento per motivi economici: esso ha luogo laddove l' interruzione del

rapporto non sia dovuta a ragioni inerenti la figura del lavoratore bensì all'

eliminazione o trasformazione del lavoro o ad una sostanziale modifica del contratto,

magari in periodi di difficoltà economica oppure in ragione di consistenti innovazioni

tecnologiche.

E' illegittimo il licenziamento della donna incinta, che infatti ha diritto alla

conservazione del posto di lavoro durante l' eventuale periodo di congedo e nelle

quattro settimane successive alla sua scadenza. Allo stesso modo ha diritto alla

conservazione del posto anche il lavoratore che abbia subito un infortunio sul lavoro

o abbia contratto una malattia professionale, salvo che il datore dimostri che la sua

condotta è stata gravemente colposa o che sia impossibile, per motivi estranei alla

"disavventura" del lavoratore, la prosecuzione del rapporto. Ovviamente è invalido

anche il licenziamento discriminatorio per motivi etnici, religiosi, sessuali.

Dal punto di vista procedurale è previsto che il datore di lavoro debba

innanzitutto convocare il lavoratore da licenziare indicando le ragioni dell' incontro.

Il dipendente può farsi accompagnare da un consulente di sua fiducia e, dopo aver

ascoltato le ragioni dell' imprenditore, ha diritto ad illustrare la propria posizione. Il

licenziamento, che va comunicato per iscritto, deve essere preceduto dal preavviso,

che ammonta ad un mese se il lavoratore è in servizio da un periodo compreso fra i

sei mesi e i due anni, due mesi se invece si trova in servizio da più di due anni.

Qualora l' anzianità di servizio del dipendente sia inferiore a quelle appena citate il

preavviso è regolato dagli usi locali. Resta ferma la possibilità che la contrattazione

collettiva stabilisca condizioni più favorevoli in proposito.

In merito alla tutela risarcitoria, vale quanto segue. Se un rapporto di lavoro a

tempo determinato non prosegue fino alla scadenza del termine il lavoratore ha diritto

ad un' indennità di fine rapporto che è calcolata in base alla retribuzione percepita e

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alla durata del rapporto, pur non potendo scendere al di sotto di un ammontare

minimo stabilito per decreto. Tale indennità non è dovuta nel caso di forza maggiore

o colpa grave del lavoratore.

Il dipendente che sia titolare di un rapporto a tempo indeterminato e che venga

licenziato dopo due anni di servizio continuativo ha diritto, salvo che si sia macchiato

di colpa grave, all' indennità di licenziamento il cui ammontare minimo viene

stabilito dalla legge anche se spesso accade che in sede contrattuale vengano definiti

criteri più "generosi". L' indennità legale è stabilita nella misura di 20 ore di salario o

del 10% della retribuzione mensile, da moltiplicare per gli anni di servizio fino ad un

massimo di dieci anni; per ogni anno oltre i dieci viene aggiunto un quindicesimo del

salario. In Francia sta inoltre aumentando sempre di più il fenomeno dei

licenziamenti negoziati accompagnati da un' indennità concordata dalle parti, sebbene

tali accordi siano soggetti alla revisione dei giudici in caso di contestazione.

Una volta che il datore abbia intrapreso la strada del licenziamento è compito

del giudice anche stabilire se sia stata osservata la corretta procedura e se le

motivazioni addotte siano adeguate.

Se il licenziamento non avviene secondo le procedure previste ma è comunque

fondato su valide ragioni, il giudice invita il datore ad ottemperare a tutte le formalità

del caso e riconosce al lavoratore un indennizzo che non può superare una mensilità.

Se invece neanche le motivazioni sono legittime il giudice può proporre il reintegro

del lavoratore in azienda, ma qualora entrambe le parti rigettino tale soluzione la

corte può riconoscergli un risarcimento non inferiore alle retribuzioni percepite nei

sei mesi anteriori al licenziamento.

Licenziamenti collettivi

Arrivare a prescrizioni minime valevoli per tutti gli Stati membri è il traguardo

e possiamo affermare che le direttive strutturali circa i licenziamenti collettivi lo

hanno praticamente raggiunto per le disposizioni nazionali relative alla procedura,

dunque all'informazione e consultazione dei rappresentanti dei lavoratori, nonostante

le esperienze diversissime dei sistemi di relazioni sindacali dei singoli Stati.

Oltre alle strutture sindacali, a variare di Stato in Stato è anche la

configurazione dello stesso panorama industriale e ciò è ben visibile dalle

disposizioni che, in ogni Stato, definiscono un licenziamento come collettivo. La

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nozione stessa, pur rimanendo nei limiti della direttiva, vede una diversa ampiezza ed

anche su altri profili le normative cambiano muovendosi da un paese all’altro.

Infatti in Italia, dove a dominare è la piccola e media impresa, troviamo una

tutela particolarmente estesa dal punto di vista della soglia, a ben vedere la più estesa

tra i paesi europei: fermi restando gli altri requisiti, basta intimare il licenziamento a

sole 5 unità di personale per avviare la procedura ex l. 223/1991 e in un periodo

lungo ben 120 giorni!

È evidente che la previsione di tali numeri nasce dal dato di realtà che attesta la

mancanza in Italia della grande industria, per la quale forse cinque licenziamenti non

sarebbero un’effettiva spia di un’esigenza di tutela davvero collettiva o di un allarme

generalizzato circa la sicurezza dei posti di lavoro in quella data impresa.

Già nella vicina Francia ad esempio, la disciplina prevista dal Code du

Travaille è più stringente da questo punto di vista: si aumenta sia il numero minimo

dei potenziali licenziati e sia si stringe l’arco temporale per intimare un licenziamento

che sia collettivo. Questo si fonda su un motivo esclusivamente economico e riguarda

10 salariati o più in un arco temporale di 30 giorni.

In caso di licenziamento collettivo il datore di lavoro convoca i rappresentanti

del personale e consegna loro un documento scritto che precisa l’effettivo totale

dell’impresa, i motivi del licenziamento, il numero, i criteri di scelta dei salariati

suscettibili di essere licenziati e la data dei licenziamenti; riunisce poi rappresentanti

del personale, chiamati a giudicare il progetto di licenziamento e altre misure con

esso adottabili. L’esame congiunto può avvenire due volte, ad intervalli di tempo

diversi a seconda del numero dei lavoratori toccati dal licenziamento.

Analogamente a quanto avviene nel nostro paese quindi, si segue una

procedura di consultazione dei rappresentanti del personale, d’informazione

dell’amministrazione ed elaborazione delle misure alternative al licenziamento o di

sostegno dei potenziali licenziati, diversa a seconda nel numero di occupati

nell’impresa interessata.

Una volta arrivati al momento finale in cui si può licenziare, la disciplina

francese prevede dei termini precisi di preavviso per l’intimazione, che, essendo una

peculiarità del modello, vale la pena elencare:

- almeno 30 giorni se si vuole licenziare meno di 100 persone;

- almeno 45 giorni, licenziando dai 100 ai 250 lavoratori;

- almeno 60 giorni se I licenziati sono 250 o più.

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GERMANIA

Licenziamenti individuali

In Germania il sistema delle fonti relative alla tutela del lavoratore nei

confronti del licenziamento presenta delle evidenti analogie con l’ ordinamento

italiano. Infatti oltre alla Costituzione tedesca, è presente una legge fondamentale e

dal nome piuttosto complesso (Kündigungsschutzgesetz) introdotta nel 1969 (lo

stesso periodo della nostra legge 604/1966) e più volte rimaneggiata fino alla sua

versione attuale, vigente dal 2008. Infine ci sono le disposizioni del codice civile, che

si occupano soprattutto dei licenziamenti per motivi straordinari, mentre invece l’

altra suddetta legge (che per motivi di praticità indicheremo con la sigla inglese

PADA) disciplina quelli per motivi ordinari. Soffermandoci innanzitutto su questa

seconda categoria occorre dire che il legislatore tedesco, come è ovvio che sia, ha

stabilito dei requisiti a cui il datore deve necessariamente attenersi affinché il recesso

possa considera legittimo. Così come avviene nel nostro Paese, anche in Germania le

regole cambiano a seconda della consistenza numerica dell’ organico impiegato nell’

impresa: infatti le regole in questione non si applicano nelle imprese che impiegano

stabilmente meno di 5 dipendenti e si applica solo parzialmente in quelle che ne

occupano meno di 10. Ai fini di tale computo sono conteggiati come 0,5 i lavoratori

assunti con contratto a tempo parziale il cui orario settimanale non ecceda le 20 ore,

mentre invece sono calcolati come 0,75 quelli il cui orario non ecceda le 30 ore. È

importante sottolineare che la tutela della PADA non si applica a quei rapporti di

lavoro che abbiano durata inferiore a sei mesi. Una volta delimitata la sfera

soggettiva di applicazione di questa protezione occorre capire in quali circostanze la

legge ritiene il recesso del datore socialmente giustificato e giuridicamente legittimo:

è necessario che vi siano ragioni inerenti alla persona o alla condotta del lavoratore

oppure, in alternativa, urgenti esigenze economiche dell’ impresa che non siano

compatibili con la prosecuzione del rapporto di lavoro. Chiaramente l’ onere di

provare la sussistenza di questa situazione grava sulle spalle del datore, il quale dovrà

dimostrare l’ effettiva incidenza di quel rapporto di lavoro sull’ apparato produttivo

dell’ impresa e quindi l’ impossibilità di conservare il lavoratore in organico. Si tratta

in buona sostanza di mettere sul piatto della bilancia i due contrapposti interessi in

gioco e di accertare se quello dell’ azienda sia preminente rispetto all’ altro.

Il legislatore tedesco ha inoltre previsto che nel caso in cui l’ intenzione di

licenziare il proprio dipendente si fondi su una condotta ascrivibile al medesimo, il

licenziamento debba essere preceduto da un’ avvertimento che va dato entro le due

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settimane successive al verificarsi del fatto, salvo che il comportamento del

lavoratore sia stato tale da non consentire ragionevolmente neanche la provvisoria

prosecuzione del rapporto avendo determinato un’ irreversibile rottura del rapporto di

fiducia tra le parti. Le cose cambiano sensibilmente quando il recesso dipenda da

ragioni operative, connesse cioè alla gestione dell’ attività economica: in questi casi

le scelte dell’ imprenditore sono sindacabili solo parzialmente dal giudice, ad

esempio nel caso in cui siano manifestamente arbitrarie. Inoltre l’ esame del giudice

non può spingersi fino al merito della decisone del datore, ma può soltanto verificare

se si tratti di esigenze che debbano essere soddisfatte in via urgente e se vi sia stata

una qualche innovazione nel processo produttivo che abbia reso obsoleta o comunque

superflua quell’ occupazione.

Di fronte alla necessità di procedere a licenziamenti per questo tipo di ragioni il

datore dovrà effettuare una valutazione fra tutti i dipendenti addetti alle medesime

funzioni e fra di essi dovrà individuare quelli da estromettere tenendo conto di una

pluralità di fattori, come ad esempio l’ età o la situazione familiare, in modo tale da

tutelare il più possibile quei soggetti che più difficilmente potrebbero trovare un

nuovo impiego.

Come accennato in precedenza il cosiddetto licenziamento per motivi

straordinari è disciplinato dal codice civile tedesco, art. 626. Questa figura ricorre in

presenza di ragioni particolarmente importanti che giustifichino un licenziamento

sommario, cioè quando non ci si può ragionevolmente aspettare che il datore rispetti

il contratto fino alla sua scadenza predefinita oppure che lasci regolarmente

trascorrere il periodo di preavviso. Questa situazione deve essere valutata alla luce di

tutte le circostanze del caso e ancora una volta si richiede un bilanciamento fra i

contrapposti interessi in gioco. Entrando più nel dettaglio, questo esame si compone

essenzialmente di due passaggi: bisogna stabilire se quella ragione integri in astratto

gli estremi di un licenziamento straordinario e se possa farlo anche in concreto.

Episodi che possono legittimare questa tipologia di recesso sono, ad esempio, i gravi

inadempimenti contrattuali, l’ aver apostrofato il datore in termini piuttosto pesanti

oppure la prolungata violazione di regole di lavoro. Inoltre è bene evidenziare che

nonostante l’ art. 626 sia rubricato come “licenziamento senza preavviso” è possibile

anche che il preavviso stesso debba essere comunque dato, in alcune ipotesi previste

dalla legge. Il datore al momento di comunicare il licenziamento deve indicare se

intenda procedere ai sensi della tipologia ordinaria oppure straordinaria, ferma

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restando la possibilità che in sede giudiziale quest’ ultima venga riconvertita nell’

altra.

In ogni caso, qualora entro tre settimane il licenziamento non venga

impugnato, scatta automaticamente la presunzione legale della sua legittimità.

Al di fuori dei confini segnati dalla PADA e dall’ art. 626 c.c. il licenziamento

è considerato invalido ai sensi degli art. 138 e 242 c.c. per arbitrarietà e

irragionevolezza della decisione dell’ imprenditore.

Riassumendo, il licenziamento cosiddetto ordinario è quello in cui il lavoratore

conserva il diritto di preavviso, mentre invece quello straordinario si ha quando

questo diritto non spetta, anche se talvolta esso è comunque previsto.

Il trascorrere del periodo di preavviso, laddove prescritto, rappresenta una

imprescindibile condizione di efficacia del licenziamento; la legge ne determina la

misura minima in relazione all’ anzianità di servizio ma in sede contrattuale è

possibile che tale arco temporale venga ulteriormente esteso.

La legge prevede inoltre l’ espletamento di una particolare procedura in

presenza del consiglio di fabbrica. In questo caso il datore deve informare il consiglio

circa gli elementi di cui è in possesso e su cui intende fondare in licenziamento,

specificando la tipologia del medesimo (ordinario o straordinario). Nonostante il

mancato rispetto di questa procedura determini l’ invalidità del recesso, il parere del

consiglio non è vincolante e quindi l’ imprenditore potrà comunque procedervi, anche

se chiaramente la posizione espressa da tale organo potrà costituire per il lavoratore

un efficace punto di partenza in sede giurisdizionale.

Il legislatore tedesco ha stabilito che nel caso di mancato rispetto delle

procedure legali il datore è tenuto a corrispondere al lavoratore un risarcimento che è

calcolato nella misura di metà salario mensile per ogni anno di lavoro. Nell’

eventualità che il licenziamento sia invalido ma la prosecuzione del rapporto sia

ritenuta impossibile da entrambe le parti, si può pervenire allo scioglimento

consensuale del medesimo se c’è una comune volontà in tal senso; il datore è

comunque tenuto al pagamento di una somma pari a 12 mensilità.

Molto importante è anche la disciplina relativa all’ impugnazione del

licenziamento. Laddove trovi applicazione la PADA e il lavoratore ritenga per

qualsiasi motivo illegittimo il licenziamento, egli dovrà impugnarlo innanzi alla Corte

del Lavoro competente territorialmente entro le tre settimane successive alla

ricezione del preavviso in forma scritta. Una volta spirato inutilmente il suddetto

termine il licenziamento si considererà irrevocabile, salvo che ricorrano alcune

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particolari condizioni richiamate dalla stessa PADA. Nell’ ottica di intervenire il

meno possibile sulla regolazione del rapporto di lavoro, questa corte svolge un ruolo

di mediazione per tentare di raggiungere una composizione amichevole della

vertenza. Soltanto una volta accertata l’ impossibilità di procedere su questa strada si

apre il vero e proprio contenzioso giudiziale, che tra l’ altro viene celebrato con

priorità quando si tratta di controversie che hanno ad oggetto l’ interruzione del

rapporto di lavoro. Il datore, finche la causa non è decisa, può sempre riconoscere il

diritto del lavoratore alla continuazione del rapporto, perché magari il consiglio di

fabbrica si era espresso in tal senso oppure perché riconosce che il licenziamento è

effettivamente illegittimo. Se il giudizio si protrae fino alla fine e il giudice ritiene

illegittima la risoluzione potrà ordinare la prosecuzione del rapporto di lavoro oppure

condannare il datore al pagamento dell’ indennità di licenziamento (di cui si è parlato

in precedenza).

Licenziamenti collettivi

Nel diritto del lavoro tedesco, preliminarmente è d’obbligo fare una

distinzione: in Germania esiste una doppia articolazione dello stesso diritto del

lavoro:

- individuale, che disciplina il rapporto tra datore e lavoratore;

- collettivo, che regolamenta i rapporti giuridici tra i lavoratori, i datori di lavoro

e le loro rappresentanze e determina in modo puntuale le condizioni di lavoro.

Circa le fonti del diritto del lavoro, sono falliti i tentativi tedeschi di elaborare

un codice unitario ed anzi attualmente ci sono vari codici, di cui trenta riservati

esclusivamente al diritto dei contratti di lavoro. Concentrando l’attenzione sul

momento estintivo del rapporto, rilevano in particolare il codice civile tedesco (CC,

Bürgerliches Gesetzbuch, in particolare §§ 611-630) e la legge di tutela dai

licenziamenti (Kündigungsschutzgesetz). Riguardo i licenziamenti collettivi,

quest’ultima prevede urgenti requisiti operativi per mitigare gli effetti della chiusura

di uno stabilimento, la sua riduzione o razionalizzazione, in termini di costi e di

personale. Queste scelte sono solo parzialmente soggette alla valutazione del giudice,

che non può mettere in discussione il merito delle scelte imprenditoriali; egli può solo

enfatizzare i requisiti di urgenza e la connessione tra la perdita o abolizione di un

posto di lavoro e il fatto che l’occupazione di date persone sia ormai da considerarsi

superflua.

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Il legislatore tedesco, entro un arco temporale di 30 giorni, richiede le seguenti

soglie quantitative:

- almeno 5 lavoratori nelle aziende che occupano dai 21 ai 59 dipendenti;

- almeno il 10% o più di 25 lavoratori per le imprese che occupano tra i 60 e i

500 dipendenti;

- almeno 30 lavoratori, per le imprese con oltre 500 dipendenti.

In questi casi, oltre alle consultazioni, il datore deve attuare un procedura di

selezione dei lavoratori in base alla durata del rapporto di lavoro, all’età, ai carichi di

famiglia e ad un’eventuale seria disabilità del lavoratore (§ 1 (3)

Kündigungsschutzgesetz) per offrire una tutela in più a coloro che più difficilmente

sarebbero riassunti altrove o che abbiano obblighi sociali cui adempiere. Fuori dalla

selezione resta quella parte di personale considerata “cruciale per il funzionamento

dell’impresa”. L’onere di provare la conformità della procedura alla legge è a carico

del datore di lavoro.

SPAGNA

Licenziamenti individuali

La legislazione giuslavoristica spagnola si basa sulla Carta dei Lavoratori

(assimilabile al nostro Statuto), su una serie di decreti reali che disciplinano

specifiche materie come ad esempio gli aspetti più strettamente procedurali, e sull’

importante legge 35/ 2010 che contiene una riforma complessiva del mercato del

lavoro e che comunque ha riguardato parzialmente anche la disciplina dei

licenziamenti.

L’ art. 52 della carta contiene un’ elencazione di quelle che sono considerate

valide cause di licenziamento:

- inattitudine del lavoratore conosciuta o dimostrata dopo il suo effettivo

impiego in azienda. Un’ eventuale inattitudine manifestata durante il periodo di prova

non può essere denunciata dopo tale periodo.

- l’ incapacità del lavoratore di adattarsi alle modifiche tecniche del suo

lavoro, purchè queste siano ragionevoli e siano trascorsi almeno due mesi dalla loro

introduzione.

- L’ esistenza di un’ oggettivo bisogno di coprire posti per uno dei motivi

di cui all’ art. 51 .

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- assenza dal lavoro, anche giustificata ma intermittente, che ammonti al

20% dei giorni di lavoro in un bimestre, o il 25% in quattro mesi anche non

consecutivi nell’ arco di 12 mesi, qualora il livello di assenteismo dell’ intera forza

lavoratrice sia superiore al 5% negli stessi periodi. Non sono comunque classificati

come episodi di assenteismo: scioperi legali, periodi di maternità, vacanze, assenza

dovuta ad incidenti sul lavoro e altre ipotesi indicate dalla legge.

- Quando, in contratti a tempo indeterminato stipulati da enti pubblici o

no- profit per l’ implementazione di piani e programmi pubblici, il progetto non può

più essere portato avanti a causa di insufficienti stanziamenti di bilancio.

La legislazione spagnola contempla anche il licenziamento disciplinare, che ha

luogo quando il datore decide di interrompere il rapporto di lavoro a causa di seri e

colpevoli inadempimenti da parte del lavoratore, che anche in questo caso la legge

provvede ad elencare:

- ripetute e ingiustificati ritardi o assenze dal posto di lavoro

- indisciplina o disobbedienza al lavoro

- aggressioni fisiche o verbali contro il datore o altri lavoratori

- violazione della buona fede contrattuale e abuso della fiducia del datore

nello svolgimento delle mansioni

- riduzione continua e volontaria della produzione normale o concordata

- ubriachezza abituale o tossicodipendenza, quando pregiudichino lo

svolgimento dell’ attività lavorativa

- vessazioni basate su ragioni etniche, razziali, religiose, sessuali, per età o

disabilità, nei confronti del datore o di altre persone che lavorano nell’ azienda.

In presenza di una causa legittimante il recesso si deve comunque rispettare

una certa procedura affinché il licenziamento possa considerarsi valido: in primo

luogo il datore dovrà darne comunicazione per iscritto al lavoratore indicandogli

anche le cause del recesso; deve poi pagargli un’ indennità corrispondente a 20 giorni

lavorativi per ogni anno di lavoro fino ad un massimo di 12 mensilità; è poi

necessario un periodo di preavviso pari ad almeno 30 giorni.

Nel caso in cui il lavoratore da licenziare sia il rappresentante di un’

organizzazione sindacale o ne faccia comunque parte, si dovrà svolgere una formale

procedura nel cui ambito anche il sindacato potrà essere ascoltato.

Detto dell’ indennità che spetta al lavoratore nel caso di licenziamento

legittimo, bisogna dire che nel caso opposto il lavoratore ha diritto ad una somma pari

a ben 45 giorni lavorativi per ogni anno di lavoro, fino ad un massimo di 42

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mensilità. Devono poi aggiungersi le retribuzioni arretrate spettanti dalla data del

licenziamento fino alla notifica della decisione giudiziale o comunque fino a che il

lavoratore non abbia trovato un impiego alternativo, se ciò è avvenuto prima.

Se il datore riconosce che il licenziamento è illegittimo e deposita presso la

corte competente una somma pari all’ indennità legale e agli stipendi dovuti, la

somma a suo carico sarà calcolata sul periodo che va dal licenziamento stesso fino

all’ avvenuto deposito, purchè ne sia stato informato il lavoratore. Se il deposito

avviene entro 48 ore non maturerà alcun salario nel corso del procedimento.

Nel caso in cui la Corte impieghi più di sessanta giorni per prendere la sua

decisione il datore di lavoro potrà pretendere dallo Stato il pagamento dell’ indennità

dovuta al lavoratore, nella parte eccedente i sessanta giorni lavorativi.

I salari dovuti durante il periodo della deliberazione non possono essere dedotti

dalle somme corrispondenti al periodo di preavviso.

Le possibili vie di ricorso che il dipendente può esperire prima di adire la Corte

del Lavoro sono: Appello, Cassazione e revisione. Il tempo limite per proporre l’

appello è di 20 giorni sia nel caso di licenziamento disciplinare che nel caso di

licenziamento per ragioni obiettive.

Come abbiamo visto le sanzioni economiche sono piuttosto pesanti per il

datore, che comunque ha modo di evitarle perché, entro cinque giorni dalla notifica

della decisione del giudice con cui viene dichiarata l’ illegittimità del licenziamento,

egli può scegliere tra il reintegro e il pagamento delle somme dovute secondo i criteri

già illustrati. Nel caso in cui si tratti di un rappresentante sindacale e il datore non

effettui la suddetta scelta, si avrà l’ automatico reintegro sul posto di lavoro come se

il datore avesse optato per questa soluzione sin dall’ inizio. A prescindere dal modo

in cui si arriva al reintegro, questo è giuridicamente vincolante una volta verificatosi.

Qualora il licenziamento non rispetti le regole di procedura viene dichiarato nullo e la

decisione è in favore dell’ immediato reintegro con il pagamento delle retribuzioni

arretrate.

Licenziamenti collettivi

In Spagna si prevede un licenziamento collettivo per cause economiche,

tecniche, organizzative o della produzione, giustificato solo se contribuisce alla

continuità futura e alla migliore organizzazione delle sue risorse.

Sembra proprio la Spagna il paese che ha attuato la direttiva nel modo più

fedele al testo comunitario, in quanto l’art 51 E.T. (Estatudo de los Trabajadores)

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prevede – come nella 98/59/CEE - soglie numeriche diverse per definire il

licenziamento “collettivo” in ragione della dimensione dell’impresa.

Il licenziamento è collettivo se, in 90 giorni, è intimato:

- ad almeno 10 lavoratori per le imprese che occupano fino a 100

dipendenti;

- al 10% dei lavoratori nelle imprese che occupano da 100 a 300

dipendenti;

- a 30 lavoratori nelle imprese più grandi.

Inoltre, il licenziamento deve riguardare la totalità dell'organico dell'impresa,

sempre che il numero dei licenziati sia superiore a 5, quando sia conseguenza della

cessazione totale dell'attività dell'impresa sempre per le stesse cause previste per il

licenziamento collettivo

REGNO UNITO

Licenziamenti individuali

Nel Regno Unito il diritto del lavoro, come qualsiasi altro ramo del diritto, è

governato dalla legge ma anche dal cosiddetto common law (casi pratici,

giurisprudenza) che nei Paesi anglosassoni gioca un ruolo molto più importante che

altrove. Stando al common law qualsiasi contratto può sciogliersi su iniziativa di

entrambe le parti dando il preavviso. Chiaramente il contratto di lavoro merita una

regolazione diversa e soprattutto più protettiva per la parte debole del rapporto, ossia

il lavoratore. E così per evitare che ci siano licenziamenti senza adeguate ragioni è

intervenuta la legge (Employment Relation Act) prevedendo il licenziamento sia da

considerare legittimo quando:

- riguarda l’ adeguatezza o la capacità del lavoratore di svolgere quelle

mansioni

- il lavoratore è in esubero

- è dovuto alla condotta del lavoratore

- è dovuto al fatto che la prosecuzione del rapporto avrebbe determinato

una violazione di entrambe le parti ad un dovere legale.

Sul lavoratore grava l’ onere iniziale di dimostrare che il licenziamento ha

avuto luogo, poi invece sarà il datore a dover dimostrare la sussistenza di una giusta

causa. Una volta che l’ imprenditore abbia soddisfatto tale requisito sarà il giudice a

valutare se egli abbia agito in modo responsabile nell’ adottare quella decisione.

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Se anche il licenziamento avviene al di fuori dei casi citati dall’ ERA, esso può

comunque considerarsi legittimo quando:

- il lavoratore ha preso parte ad un’ azione illegale nell’ ambito dell’

azienda, a condizione che tutti gli altri lavoratori che vi hanno preso parte siano stati

licenziati senza discriminazioni e non riassunti entro tre mesi, a meno che il

lavoratore abbia interrotto la propria partecipazione prima del licenziamento o il

datore abbia preso l’ iniziativa per dirimere il conflitto prima del licenziamento stesso

- il datore ha altre ragioni sostanziali per volere l’ interruzione del

rapporto

Inoltre il licenziamento si considera automaticamente illegittimo quando:

- riguarda l’ adesione o meno ad una determinata organizzazione sindacale

o dipende comunque da ragioni connesse all’ attività sindacale (essendo state

abrogate dal governo Tatcher le cosiddette clausole di closet shop)

- non rispetta le procedure stabilite o concorde per la selezione del

personale in esubero

- si basa su discriminazioni a sfondo sessuale o razziale

- è dovuto al trasferimento d’ azienda.

A queste ipotesi se ne affiancano almeno altrettante indicate specificamente

dalla legge. Anche nel Regno Unito il licenziamento deve essere preceduto dal

preavviso, la cui lunghezza dipende dal periodo in cui il lavoratore ha prestato la

propria attività senza interruzioni. In particolare l’ ERA prevede che il preavviso sia

di una settimana sei il lavoratore ha prestato (continuativamente) la propria attività

per meno di due anni, una settimana per ogni anno di lavoro se egli è stato impiegato

da due a 12 anni, 12 settimane se lavora da più di 12 anni. Il datore di lavoro che non

dovesse rispettare questa regole sarebbe condannato al pagamento della consueta

indennità sostitutiva.

Dal momento che la legge britannica non prevede nulla di particolare in merito

alla procedura da seguire nel licenziamento, il datore deve attenersi alle istruzioni

impartite dal giudice (le cosiddette guidelines): secondo il common law il mancato

rispetto di queste procedure può da solo determinare l’ illegittimità del licenziamento,

anche nel caso in cui siano presenti adeguati elementi sostanziali per procedervi. Dal

2004 è in vigore comunque una procedura, che si articola in tre fasi, a cui il datore

deve attenersi per i licenziamenti disciplinari. Innanzitutto deve comunicare per

iscritto il licenziamento al lavoratore, indicando anche i motivi posti alla base della

sua decisione; deve poi invitare il lavoratore a partecipare ad un incontro per

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discutere la situazione; ed infine si svolge il suddetto incontro qualora il dipendente

abbia intenzione di opporsi al licenziamento.

Per quanto riguarda la tutela risarcitoria va detto che niente è dovuto al

lavoratore nel caso in cui l’ interruzione del rapporto sia dovuta alla sua condotta,

mentre invece qualora egli sia in esubero ha diritto ad un’ indennità calcolata sul

periodo ininterrotto di lavoro presso quell’ azienda.

È previsto inoltre che siano legittimati a ricorrere contro l’ interruzione del

rapporto ritenuta illegittima soltanto i dipendenti che prestino ininterrottamente la

loro attività da un anno in quell’ azienda; questo limite non trova però applicazione se

il licenziamento è dovuto a motivi sindacali, familiari, di salute o maternità. Coloro

che rientrano nelle categorie ammesse all’ impugnazione possono rivolgersi al

tribunale del lavoro o ai tribunali civili. Mentre il tribunale decide se il ricorso è

fondato, il lavoratore può nominare un rappresentante in sede d’ udienza; invece il

datore deve dimostrare che la ragioni del licenziamento sono idonee a giustificare la

cessazione del rapporto di lavoro.

Se il tribunale ritiene invalido il licenziamento può ordinare all’ imprenditore o

il reintegro o la riassunzione. Nel primo caso egli dovrà non solo pagare una somma

di denaro, ma anche ripristinare alcuni diritti e privilegi a partire da una certa data. Se

invece viene ordinata la riassunzione il tribunale ne deve specificare i termini,

compresa la somma che il datore deve pagare e i diritti e privilegi che il lavoratore

deve riguadagnare. Se l’ imprenditore si rende inottemperante a tali prescrizioni viene

condannato al pagamento di una somma compresa fra le 25 e le 52 settimane di

retribuzione. Va detto comunque che nonostante il reintegro e la riassunzione siano,

almeno a livello teorico, il rimedio da percorrere in via prioritaria, molto spesso

accade che i giudici preferiscano condannare al pagamento di una somma di denaro

piuttosto alta e che viene ulteriormente incrementata qualora il datore non abbia

rispettato la procedura prescritta dal giudice. Il lavoratore, oltre a rivolgersi

normalmente ai tribunali civili può anche richiedere un' ingiunzione provvisoria. In

determinate e molto limitate circostanze egli può domandare al giudice anche un'

ingiunzione permanente contro il suo licenziamento sostenendo una violazione del

contratto secondo il common law. Un dipendente può chiedere il risarcimento del

danno per la perdita del lavoro purchè abbia almeno un anno di servizio ininterrotto:

la misura dell' indennizzo varierà a seconda della lunghezza del periodo di lavoro

compreso fra l' età di 20 e 65 anni. Nel caso di licenziamento ingiustificato il

riconoscimento economico ha dei limiti minimi e comunque, ancora una volta, varia

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a seconda dell' età e dell' anzianità di servizio. Se il lavoratore chiede senza successo

il reintegro o la riassunzione ha diritto ad una maggiorazione della somma che gli

sarebbe comunque dovuta.

Licenziamenti collettivi

Sottolineiamo come sia unica la soglia che avvia la procedura collettiva in

Regno Unito: ad un’eccedenza di almeno 10 lavoratori scattano gli obblighi di

informazione e consultazione sindacale. Tra i motivi per un licenziamento lecito da

parte del datore di lavoro vi è anche l’eventualità che il lavoratore sia in esubero, ma

nel testo normativo manca la dizione di “licenziamento collettivo”. Ciononostante

sono imposti obblighi di consultazione e notificazione entro termini dovuti sul datore.

L’esubero deriva, secondo la sezione 139(1) dell’ Employment Rights Act:

- dalla cessazione o dell’intento dell’imprenditore di far cessare l’attività

aziendale in cui il lavoratore è occupato;

- dalla trasformazione dell’attività, per cui il particolare lavoro portato avanti da

un dato soggetto verrà eliminato o ridotto.

La procedura è invece regolata dal Trade Union and Labour Relation

Consolidation Act. Le notificazioni vanno fatte per iscritto in primis al Segretario di

Stato, a pena di una sanzione pecuniaria; copia di esse va inoltrata a tutti i

rappresentanti dei lavoratori, che vanno sentiti in ordine al licenziamento collettivo.

Questi soggetti corrispondono ai rappresentanti di un sindacato autonomo oppure (se

manca un sindacato riconosciuto sul posto di lavoro) si eleggono dei rappresentanti

speciali, ad hoc per le consultazioni circa il licenziamento e questo è un tratto tutto

britannico del meccanismo, rispetto a quanto vediamo accadere negli altri Paesi.

La consultazione deve avvenire alla prima opportunità possibile secondo la

norma, ma nel caso di licenziamento che in un arco di 90 giorni coinvolga dai 100

lavoratori in su, è fissato un termine per intraprenderla di 90 giorni prima che il primo

licenziamento intimato diventi efficace. Se da 10 a 99 lavoratori sono invece

licenziati entro 30 giorni perché in esubero, la consultazione deve iniziare almeno 30

giorni prima della attesa per i licenziamenti.

L’obiettivo delle consultazioni è il solito, cioè quello di trovare alternative per

evitare, ridurre o calmierare le conseguenze dei licenziamenti.

La violazione degli obblighi di informazione e consultazione giustifica un

ricorso davanti al tribunale del lavoro, che può concedere al lavoratore un assegno

temporaneo di tutela che mantiene la busta paga. La durata è decisa dal tribunale

secondo equità, rispetto alla serietà o meno della violazione da parte del datore.

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BELGIO

Licenziamenti individuali

Il Belgio ha una legislazione in tema di licenziamenti che si discosta in modo

abbastanza netto dagli altri Paesi europei in genere: in linea di massima il datore può

licenziare senza dare alcuna giustificazione, purchè rispetti il termine di preavviso o

paghi la relativa indennità sostitutiva. Durante il periodo di prova il preavviso di

licenziamento agli operai può essere dato in qualsiasi momento dopo l’ ottavo giorno

fino alla fine della prova. Ai “colletti bianchi” il preavviso può essere dato con sette

giorni d’ anticipo o con il pagamento della retribuzione corrispondente ai quei sette

giorni. Nel caso in cui ricorra una giusta causa il contratto non può essere interrotto

senza preavviso o prima dello spirare di tale termine, se l’ evento che giustificherebbe

il recesso è conosciuto da almeno tre giorni dalla parte che chiede la risoluzione. Il

“licenziamento improprio” è il licenziamento dell’ operaio senza alcuna correlazione

con le sue competenze, con la sua condotta o che comunque non si basa su esigenza

di funzionamento dell’ impresa. Il datore, come detto, non è obbligato a dare

giustificazioni per il licenziamento (ad eccezione dell’ ipotesi di giusta causa e di

alcune categorie protette di lavoratori), tuttavia non può neanche agire in modo

arbitrario: nel caso di contestazione grava proprio sull’ imprenditore l’ onere di

provare la liceità del suo comportamento. La legge non dice nulla sul concetto di

“licenziamento improprio” per i colletti bianchi quindi occorre far riferimento alla

giurisprudenza, secondo cui deve trattarsi di licenziamenti maliziosi, posti in essere

con l’ intento di nuocere al dipendente, oppure occorre che siano effettuati in modo

talmente avventato da non lasciare dubbi sull’ esistenza di malafede.

In ogni caso il calcolo del periodo di preavviso viene effettuato sulla base di

criteri diversi per ciascuna categoria di lavoratori e dipende da fattori quali ad

esempio l’ anzianità di servizio e, talvolta, anche la retribuzione. Una forma di tutela

più intensa è prevista soltanto per alcune categorie protette di lavoratori,come ad

esempio gli over 60, i delegati sindacali e i componenti del consiglio di fabbrica. In

questi casi il licenziamento deve essere necessariamente preceduto dalla

consultazione delle organizzazioni sindacali, del consiglio di fabbrica stesso e di un’

apposita commissione mista, cosa che invece non accade per le categorie non

protette.

Per l’ impugnazione del licenziamento è possibile rivolgersi alla Corte del

Lavoro, composta di tre soggetti: un magistrato professionale, un rappresentate degli

imprenditori e uno dei lavoratori. Nel recesso per giusta causa il datore ha l’ onere di

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dimostrare gli elementi sulla cui base intende interrompere il rapporto, mentre invece

il lavoratore che pretenda il risarcimento deve dimostrare l’ inesistenza di valide

ragioni. Laddove l’ operaio riesca a dimostrare la fondatezza delle proprie pretese ha

diritto al pagamento di un’ indennità pari a sei mesi di retribuzione a cui si aggiunge

l’ indennità per il mancato preavviso. I colletti bianchi hanno invece diritto alla

medesima indennità più i danni. Se il licenziamento senza giusta causa riguarda un

lavoratore assunto a tempo determinato, ad esso spetta una somma pari alle

retribuzioni che avrebbe percepito fino alla scadenza del termine ma comunque non

superiore al doppio dell’ indennità di mancato preavviso che avrebbe trovato

applicazione se il contratto fosse stato a tempo indeterminato. Non è contemplata la

figura del reintegro, salvo che per i componenti del consiglio di fabbrica e della

commissione per la salute e la sicurezza. Costoro hanno diritto ad un ulteriore

indennizzo qualora il datore rifiuti il reintegro.

Licenziamenti collettivi

Nel paese che ospita il nostro Parlamento europeo, la definizione di

licenziamento collettivo è assai simile a quella spagnola e ci si riferisce a

licenziamenti motivati da ragioni non attribuibili ad un singolo lavoratore e che

coinvolgono in 60 giorni (Royal Order 24 Maggio 1976, Royal Order 26 Marzo 1984,

Royal Order 11 Giugno 1986, Collective Labour Agreement 10/1973, Collective

Labour Agreement. 24/1975, Collective Labour Agreement 24quater/1993):

- almeno 10 lavoratori in un impresa che ne occupa tra i 20 e i 100;

- almeno il 10% degli occupati in un impresa che ne occupa in media tra i 100 e

i 300;

- almeno 30 lavoratori in un impresa che ne occupa in media almeno 300.

Contestualmente alla notifica scritta dei licenziamenti ai rappresentanti dei

lavoratori, il datore deve informarne con raccomandata anche il direttore del

dipartimento regionale dell’Ufficio Nazionale per il Lavoro (sezz. 6 e 7, Royal Order

24 Maggio 1976), dando una serie di dettagliate informazioni (nome e indirizzo

dell’impresa, natura e attività dell’impresa; consiglio di fabbrica competente per

l’impresa competente per ; numero degli occupati; ragioni del licenziamento; numero

dei lavoratori da licenziare, classificati per età, sesso, categoria e dipartimento

occupazionale, periodo dal quale decorre l’efficacia del recesso, risultati delle

consultazioni avute con i rappresentanti dei lavoratori).

I rappresentanti dei lavoratori possono esprimere valutazioni direttamente al

direttore del dipartimento regionale dell’Ufficio Nazionale per il Lavoro (sez. 8,

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Royal Order 24 Maggio 1976). Almeno 30 giorni dalla data di notifica

dell’intimazione dei licenziamenti devono passare affinché essi siano efficaci.

La disciplina è mutata in parte dopo il caso Renault, con l’emanazione

dell’Employment Act nel 1998, che ha chiarito l’obbligo di consultazione dei

rappresentanti sindacali gravante sui e che gli ha imposto di dover analizzare e

rispondere formalmente alle proposte da questi avanzate.

Inoltre la violazione di tali prescrizioni è sanzionata anche dall’obbligo del

datore di rimborsare qualunque sussidio o finanziamento pagatogli dal Governo

federale per la promozione dell’occupazione.

AUSTRIA

Licenziamenti individuali

Nell’ ordinamento austriaco la materia del licenziamento è disciplinata

soprattutto dall’ art. 1162 del Codice Civile e da un’ apposita legge sull’

organizzazione del lavoro. Innanzitutto è previsto che l’ interruzione del rapporto di

lavoro, oltre che per iniziativa del datore, possa avvenire anche:

- su accordo delle parti

- su iniziativa del dipendente, con preavviso

- per dimissioni del dipendente per ragioni serie, senza preavviso

- su richiesta, durante il periodo di prova

- allo spirare del termine, nei rapporti a tempo determinato.

La legge distingue inoltre fa il licenziamento sommario, che interrompe

immediatamente il rapporto senza neanche il preavviso, e il licenziamento ordinario

che, al contrario, ha effetto alla scadenza del termine di preavviso.

Iniziamo parlando del licenziamento sommario. Esso presuppone l’ oggettiva

impossibilita che il lavoratore prosegua, anche provvisoriamente, nello svolgimento

della sua attività; ha bisogno di prova ma non è contemplato il rimedio della

reintegrazione. In particolare l’ art. 1162 c.c. prevede che il contratto di lavoro possa

essere sciolto per importanti ragioni, senza preavviso. La legislazione giuslavoristica

ha poi provveduto ad esplicitare alcune di queste ipotesi:

- incapacità di attendere alle proprie mansioni

- inganno da parte del lavoratore al momento di stipulare il contratto

- ubriachezza nonostante ripetuti avvertimenti

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- rivelazione di segreti professionali e alcuni comportamenti

criminali

- persistente trascuratezza dei doveri e uscite dal lavoro senza

permesso

Licenziamento ordinario. Generalmente non è richiesta nessuna prova per il

licenziamento di questo tipo, tuttavia esso può essere impugnato se si fonda su

determinate attività del lavoratore come ad esempio:

- appartenenza ad organizzazioni sindacali

- svolgimento di attività come rappresentante in materia di salute e

sicurezza

- richiamo al servizio militare o ad un servizio alternativo nel caso

di obiettori di coscienza

- pretese del lavoratore chiaramente legittime derivanti dal contratto

ma contestate dal datore.

Il licenziamento ordinario può essere impugnato anche quando sia socialmente

ingiustificato, ossia quando attenti a interessi fondamentali dell’ individuo, oltre

ovviamente ai casi di discriminazione a sfondo etnico, razziale, sessuale, religioso e

politico.

Una particolare protezione è accordata ad alcune categorie di lavoratori

protetti: si tratta di rappresentanti sindacali, persone disabili, donne in stato di

gravidanza e lavoratori richiamati al servizio militare. Costoro hanno diritto che il

preavviso venga dato soltanto dopo un’ apposita autorizzazione del giudice o di un’

apposita autorità amministrativa. L’ eventuale preavviso dato senza rispettare tale

condizione è da ritenersi invalido. Il preavviso, che può essere dato in forma orale,

scritta o per fatti concludenti è valido soltanto se anche la controparte ne è venuta

effettivamente a conoscenza. La sua durata in genere dipende dall’ anzianità di

servizio del dipendente e comunque varia a seconda che si tratti di operai o colletti

bianchi. I primi hanno una tutela molto ridotta da questo punto di vista: il contratto

collettivo prevede generalmente un termine di due settimane ma, nel caso di

lavoratori assunti a giornata o a cottimo, esso è di un solo giorno. I colletti bianchi

godono di un trattamento molto più protettivo, perché il termine di preavviso è di due

mesi per coloro che abbiano più di due anni di lavoro e cresce ulteriormente in

proporzione all’ età di servizio. È possibile che termini più lunghi rispetto a quelli

appena illustrati in via generale siano previsti da specifici contratti o accordi

collettivi. Nella prassi giudiziaria ogni periodo di preavviso che è inferiore a quello

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prefissato o che comunque è impostato per cadere in una data anteriore viene

considerato come illegittimo licenziamento prematuro. La procedura prevede che il

datore informi il consiglio di fabbrica circa l’ intenzione di licenziare. Il modo in cui

il consiglio risponde a tale comunicazione è molto importante poichè influenza il

futuro, eventuale procedimento d’ impugnazione, e comunque una volta che siano

stati soddisfatti i criteri d’ informazione e consultazione il licenziamento può andare

avanti. Se il datore comunica il preavviso dopo la comunicazione al consiglio ma

prima che scada il periodo di cinque giorni che esso ha a disposizione per rispondere

(o comunque prima che il consiglio si sia pronunciato), il recesso è invalido.

Il licenziamento sommario dovrebbe essere dichiarato immediatamente se

colui che prende l’ iniziativa in tal senso ha valide prove. Se ritarda perde tale diritto,

e a quel punto non ha l’ obbligo di informazione e consultazione prima del

licenziamento, ma deve farlo nei tre giorni successivi. La materia dell’ indennità di

licenziamento è stata riformata nel 2002 con un apposito provvedimento normativo.

Innanzitutto il datore è tenuto a versare un contributo pari all’ 1,53% della

retribuzione in un fondo per il sostegno del reddito dei lavoratori dipendenti. Una

volta verificatasi la risoluzione del contratto il lavoratore ha diritto di ottenere dal

suddetto fondo un’ indennità calcolata sui contributi versati e sugli interessi nel

frattempo maturati. Il pagamento in contanti può aver luogo solo se il lavoratore ha

accumulato un minimo di 36 mesi di contribuzione (non importa da quali e quanti

datori di lavoro), purchè l’ interruzione del rapporto non sia dovuta a sue dimissioni o

a licenziamento sommario. In ogni caso le somme accumulate si trasferiscono al

rapporto successivo. Le stesse regole valgono anche per i rapporti che si siano

conclusi prima dell’ entrata in vigore della nuova disciplina, anzi i contratti collettivi

possono prevedere anche trattamenti di maggior favore.

La competenza per le controversie in materia di licenziamenti spetta ai

tribunali del lavoro. Se il consiglio di fabbrica concede la sua approvazione non ci

può essere impugnazione neanche contro il licenziamento ingiustificato. Altrimenti è

proprio il Consiglio che può impugnare in via prioritaria il licenziamento entro una

settimana dalla ricezione della notifica. Lo stesso termine va osservato anche qualora

il lavoratore, contrariamente al consiglio, voglia impugnare. Sono due le principali

vie di impugnazione del licenziamento ingiusto. Si può sostenere che esso sia

socialmente ingiustificato (purchè il lavoratore abbia un’ anzianità di servizio di

almeno sei mesi) oppure che costituisca una rappresaglia del datore in risposta ad

azioni legittime del lavoratore, come ad esempio lo svolgimento di attività sindacale.

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Nel primo caso il datore può opporsi sostenendo che quella sua determinazione sia

dovuta al soddisfacimento di indifferibili necessità funzionali dell’ impresa, mentre

nel secondo caso è il dipendente a dover dimostrare che lo scioglimento del rapporto

è dovuto proprio a quelle ragioni. L’ indennità spettante per il licenziamento

irregolare è limitata alle retribuzioni che sarebbero spettate tra l‘ interruzione del

rapporto e la sentenza che in teoria, quando dichiara invalido il licenziamento,

dovrebbe determinare la prosecuzione del vecchio rapporto.

Licenziamenti collettivi

L’Austria prevede procedure di informazione e consultazione sindacale anche

per i licenziamenti individuali; dunque, sia in caso di licenziamento del singolo sia di

più lavoratori, il consiglio di fabbrica deve esser informato emesso nella posizione di

discutere con il datore ogni possibile alterazione dell’impiego nell’impresa, ai sensi

del Works Constitution Act, sezione 109 (1), (2).

Il consiglio può proporre misure per prevenirne, evitarne o mitigarne le

conseguenze dannose per i lavoratori, tenendo però in conto le caratteristiche e la

situazione economica dell’impresa (sez. 109 (3), WCA). Queste misure possono esser

raggiunte anche tramite accordi collettivi nelle imprese che occupano

permanentemente almeno 20 lavoratori.

Laddove non si trovi un accordo circa la modifica o revoca delle intimazioni di

licenziamento e nessun’altra soluzione sia prevista già dai contratti collettivi vigenti,

la decisione sul da farsi è presa, se entrambe le parti (datore e consiglio di fabbrica) lo

richiedono, da un consiglio per le vertenze. Infatti, al locale ufficio per l’impiego

vanno notificate per iscritto tutta una serie di informazioni riguardanti le persone in

esubero, almeno 30 giorni prima dell’intimazione del recesso da parte del datore, a

pena di nullità di quest’ultima (sez. 45a, Labour Market Support Act) i periodi di

preavviso per intimare i licenziamenti collettivi coincidono con quelli prescritti per i

licenziamenti individuali.

OLANDA

Licenziamenti individuali

Il Codice Civile olandese, che insieme al Decreto straordinario sulle Relazioni

Industriali rappresenta la più importante fonte per il diritto del lavoro, stabilisce che il

rapporto può interrompersi in tre ipotesi: per mutuo consenso, per legge o per

licenziamento. Le conseguenze giuridiche in caso di scioglimento del rapporto per

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mutuo consenso sono rappresentate dall’ impossibilità, per entrambe le parti, di

invocare la nullità del licenziamento e di chiedere il relativo risarcimento danni. Per

ovvie ragioni sono da ritenersi invalidi i patti che prevedano lo scioglimento del

rapporto in caso di gravidanza o matrimonio del lavoratore. La legge prevede come

cause di scioglimento del rapporto la scadenza del termine apposto al contratto e la

morte del lavoratore. Quanto alla prima ipotesi va detto che anche in caso di scadenza

del contratto a tempo determinato deve essere dato il preavviso se ciò è previsto dal

regolamento, dalle consuetudini (se non in violazione del contratto) o se è stato

concordato per iscritto. La conclusione anticipata del rapporto è possibile solo se ciò

è stato concordato dalle parti. In caso contrario è richiesta una preventiva

autorizzazione come se si trattasse di un licenziamento. Il contratto rinnovato

tacitamente alla scadenza si considera esteso per lo stesso periodo, non superiore a

dodici mesi, alle stesse condizioni di prima. In relazione alla morte del lavoratore, il

datore deve pagare ai parenti superstiti una somma pari alla retribuzione dal giorno

della morte all’ ultimo giorno del mese successivo. Tuttavia il contratto non si

scioglie per effetto della legge quando si verifica la morte del datore: i suoi eredi e il

lavoratore potranno recedere da un rapporto a tempo determinato come se fosse

permanente. Per quanto riguarda invece il licenziamento vero e proprio la legge

olandese tutela la posizione del lavoratore attraverso un meccanismo che agisce a

priori. Infatti per interrompere il rapporto di lavoro è necessario che il giudice abbia

già rescisso il contratto e che sia stato dato il preavviso secondo una ben precisa

procedura. La rescissione può aver luogo solo di fronte a ragioni sostanziali, come

possono essere, ad esempio, radicali cambiamenti tecnologici che giustifichino l’

interruzione del rapporto di lavoro. La strada della rescissione giudiziale del contratto

è quella utilizzata più frequentemente dai datori in quanto assicura una rapida

soluzione . Il preavviso che deve dare il giudice è molto breve ed un altro vantaggio,

per il datore, è rappresentato dal fatto che questo strumento è utilizzabile anche nei

casi in cui il preavviso non può essere dato. Contro queste decisioni del giudice non è

ammesso appello ad una corte superiore. Fino a poco tempo fa anche i lavoratori

preferivano la via della rescissione piuttosto che il mutuo consenso, perché così

potevano salvare l’ indennità di disoccupazione. Infatti poteva accadere che, di fronte

ad un mutuo accordo, il giudice attribuisse la risoluzione al lavoratore che così

avrebbe perso l’ indennità. Tuttavia accadeva che anche nel caso in cui le parti

avessero raggiunto un accordo, potesse essere comunque ottenuto dal giudice un

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provvedimento di rescissione, cosiddetto “pro forma”: l’ abolizione di questa

formalità è uno degli obiettivi della nuova legislazione.

Un principio generale del Codice Civile olandese è che il contratto di lavoro

può essere risolto sia dal datore che dal dipendente dando il preavviso, anche se poi ci

sono specifiche norme di legge che rafforzano ulteriormente la tutela contro il

licenziamento. Il Decreto Straordinario sulle Relazioni industriali prevede infatti che

il datore non possa risolvere il contratto di lavoro dando il semplice preavviso senza

il preventivo assenso del competente Ufficio per il Lavoro, salvo che la risoluzione

avvenga durante il periodo di prova o a causa del fallimento dell’ impresa o del

fallimento personale dell’ imprenditore. Passiamo ora ad analizzare gli aspetti

procedurali.

Le ragioni del licenziamento devono essere specificate per iscritto e devono

essere suffragate da validi elementi di prova affinché possa essere ottenuto il

consenso dell’ Ufficio del lavoro, il quale a sua volta adotterà una decisione solo

dopo avere ascoltato le parti coinvolte e dopo aver ottenuto il parere de di un apposito

comitato chiamato a pronunciarsi proprio in materia di esuberi. Il licenziamento potrà

essere considerato valido quando sia fondato su un’ eccedenza di personale, sulla

condotta non conforme del lavoratore, sull’ incapacità del lavoratore di attendere alle

proprie mansioni. In questi casi l’ Ufficio può concedere il permesso per il

licenziamento, che però ha un’ efficacia limitata nel tempo e quindi deve

necessariamente avvenire prima della scadenza di un determinato termine. Tale

assenso può essere sottoposto anche a condizioni, come ad esempio l’ onere di

assumere altri lavoratori per adibirli alle medesime mansioni, verificando al

contempo se sia possibile ricollocare all’ interno dell’ azienda il lavoratore da

licenziare. La risoluzione del contratto senza il consenso dell’ Ufficio del lavoro deve

ritenersi invalida e il dipendente potrà chiederne l’ annullamento entro sei mesi. Le

decisioni dell’ Ufficio non sono suscettibili di impugnazioni.

Sono poi previste ulteriori restrizioni circa la possibilità di licenziare, ad

esempio sono protetti in tal senso:

- i lavoratori che siano assenti a causa di malattia, purchè questa non si protragga

da oltre due anni

- le lavoratrici durante il periodo di gravidanza e nelle sei settimane successive

- i lavoratori impegnati nel servizio militare

- i lavoratori che siano anche membri del consiglio di fabbrica

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- i lavoratori che abbiamo presentato un reclamo lamentando discriminazioni sul

luogo di lavoro.

Le stesse disposizioni si applicano anche ai lavoratori chiamati ad occuparsi

della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro: supervisori, medici e membri dei

comitati di salute e sicurezza. Sono invece esclusi da questa protezione i lavoratori in

prova e quelli che siano oggetto di licenziamenti sommari. La violazione di queste

regole legittima chiaramente il lavoratore a chiedere la cancellazione del

licenziamento, come anche nel caso in cui non siano rispettati i termini legali per il

preavviso. Questo viene stabilito dalla legge nel suo ammontare minimo, poi è

possibile che intervenga la contrattazione collettiva che però può apportare modifiche

soltanto in senso migliorativo. I termini legali di preavviso dipendono esclusivamente

dall’ anzianità di servizio e variano dai trenta giorni, per chi sia impiegato da meno di

cinque anni, a 4 mesi per coloro che abbiano una militanza aziendale superiore ai 15

anni. Nel caso di risoluzione del contratto per ragioni urgenti è sufficiente che una

delle due parti notifichi all’ altra la natura di tali ragioni, che sono definite dalla legge

come le qualità, i comportamenti o gli atti di una parte che non rendano

ragionevolmente possibile la prosecuzione del rapporto per l’ altra.

Per quanto riguarda l’ aspetto risarcitorio va detto che, sebbene la legge non

stabilisca nulla in proposito, i tribunali hanno provveduto all’ elaborazione di una

serie di “raccomandazioni” al fine di garantire un’ adeguata protezione al lavoratore e

scongiurare il pericolo di iniquità. In linea di massima si è stabilito che si debba tener

conto innanzitutto del reddito mensile lordo, aumentato di una serie di prerequisiti e

diminuito delle detrazioni come contributi pensionistici. Il risultato è moltiplicato per

gli anni di servizio e per un ulteriore coefficiente.

Licenziamenti collettivi

Uno dei paesi che più si distingue nella normativa sui licenziamenti collettivi è

proprio l’Olanda.

I lavoratori olandesi sono protetti dal licenziamento, sia individuale che

collettivo, addirittura da un sistema di controllo che opera a priori rispetto al

licenziamento stesso. Infatti, il datore di lavoro, prima di poter licenziare, deve

regolarmente ottenere:

- la rescissione giudiziale del contratto; oppure

- il permesso del CWI - Centrum voor Werk & Inkomen – che è l’equivalente

pubblico dei nostri pubblici uffici del lavoro.

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Per avere quest’ultima approvazione, esistono tutta una serie di regole

procedurali che il datore deve attendere, sia per i licenziamenti individuali che

collettivi, regolati dal CRNA, Collective Redundancy (Notification) Act.

Parliamo di licenziamento collettivo quando il contratto di 20 o più lavoratori,

occupati nella stessa regione, viene fatto terminare nel giro di 3 mesi.

In questo caso il datore deve notificare al CWI e a tutte le organizzazioni

sindacali coinvolte (per il solo scopo della consultazione) le date proposte per il

recesso, vari dettagli sui lavoratori in esubero e la data in cui è stato consultato il

consiglio di fabbrica. Il CWI non valuta la richiesta di approvazione finchè non sia

passato un mese dalla ricevuta notificazione. Il requisito della consultazione del

consiglio di fabbrica è meno stringente quando l’impresa o il datore sono in crisi e ciò

vale anche per il posticipo della valutazione del CWI.

Senza il consenso di tale organo pubblico, eventuali licenziamenti comunque

intimati sono o dovrebbero essere dichiarati nulli e invalidi, e sia i datori che i

lavoratori possono chiederne la cancellazione entro 6 mesi dal recesso. Non è

previsto alcun appello contro la decisione del WCI.

Anche se manca la previsione legislativa del calcolo dell’indennità in caso di

licenziamento collettivo, in alcuni settori dell’industria sono i contratti collettivi a

fornire le linee guida per i casi di fusione, trasformazione e riorganizzazione

dell’impresa. Solitamente è stilato un “piano sociale”, un accordo collettivo tra datore

e sindacati, contenente uno schema dell’esubero e specifiche norme e procedure da

seguire per assistere i potenziali licenziati ed aiutarli nel trovare un nuovo lavoro. In

genere questo schema prevede anche un supplemento dell’ordinaria indennità di

disoccupazione per un certo periodo di tempo, pagato spesso in un’unica rata

contante.

SLOVENIA

Licenziamenti individuali

Per i licenziamenti in Slovenia occorre far riferimento alla riforma avvenuta

nel 2003. La legge distingue fra cessazione ordinaria e straordinaria del rapporto di

lavoro, che può essere su iniziativa di entrambe le parti. Dal momento che il

lavoratore è la parte debole del rapporto e il recesso comporta una perdita di

occupazione e di reddito, il legislatore restringe le possibilità di licenziamento

attraverso una serie di regole protettive, che si riferiscono soprattutto alle ragioni e

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alle procedure da seguire. Innanzitutto vengono individuate tre tipologie di situazioni

che possono giustificare l’ ordinaria risoluzione del rapporto di lavoro su iniziativa

dell’ imprenditore:

- -quando ci sono ragioni di tipo economico

- In presenza di un’ incapacità del lavoratore

- In ipotesi di colpa del lavoratore.

Allo stesso tempo la legge si preoccupa anche di indicare espressamente alcune

circostanze che non possono in alcun caso giustificare il licenziamento ordinario:

assenza dal lavoro per infortunio o malattia, congedo parentale, svolgimento di

attività sindacale, sciopero e discriminazioni varie.

Soffermandoci sulle ragioni di tipo economico che possono determinare il

recesso da parte del datore, può accadere che la necessità di estromettere il

dipendente dal ciclo produttivo dipenda da esigenze di carattere organizzativo,

tecnico, strutturale, e altri motivi simili. Si tratta evidentemente molto simile al nostri

giustificato motivo oggettivo.

L’ incapacità del lavoratore legittimante il licenziamento può essere di due tipi:

di natura soggettiva se non vengono raggiunti determinati risultati (per motivi di

tempo, di qualità…), e di natura oggettiva se il lavoratore non possiede i requisiti per

lo svolgimento delle mansioni che gli sono affidate.

Il licenziamento per colpa si ha quando il lavoratore si rende inadempiente nei

confronti di obbligazioni contrattuali o di altro tipo.

Passando all’ altra macrocategoria, quella del licenziamento straordinario,

occorre preliminarmente precisare che esso può scaturire da motivazioni imputabili

ad entrambe le parti. In alcuni casi, di fronte a ripetute violazioni provenienti da una

delle parti, tali da non consentire la prosecuzione del rapporto, l’ altra può recedere

dal contratto senza neanche dare il preavviso. Ragioni di questo tipo sono previste

tassativamente dalla legge.

Il procedimento da seguire in queste ipotesi è sostanzialmente lo stesso che

trova applicazione a fronte di una risoluzione del contratto dovuta a “normali”

violazioni degli obblighi contrattuali: necessità di forma scritta, informazione ai

sindacati se il lavoratore lo richiede, possibilità di posticipare la data della

conclusione del rapporto.

Una volta che il datore abbia illustrato per iscritto le ragioni del licenziamento,

il lavoratore ha diritto di replicare e di argomentare la propria difesa. Se ad essere

interessato è un rappresentante sindacale bisogna che l’ imprenditore ne informi

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anche l’ organizzazione di appartenenza, che a sua volta potrà opporsi in forma

scritta, magari ritenendo non integrati i requisiti sostanziali o violate le norme

procedurali. Se invece il sindacato riconosce le ragioni del datore, il dipendente può

chiedere di posticipare la data della risoluzione. I lavoratori che non svolgano attività

sindacale possono ottenere quest’ ultimo effetto soltanto rivolgendosi all’ ispettorato

del lavoro, che potrà accogliere la loro richiesta qualora accerti che l’ imprenditore ha

agito in modo arbitrario. In ogni caso il licenziamento non produce effetti finche non

si sia conclusa la controversia giudiziale o l’ arbitrato. L’ onere di provare l’ esistenza

di ragioni talmente gravi non consentire la permanenza del lavoratore, grava sull’

imprenditore. Il dipendente ha comunque diritto ad un periodo di preavviso, il cui

ammontare dipende dalla natura delle ragioni per le quali viene estromesso dall’

impresa e dalla sua permanenza presso la stessa. Secondo criterio più o meno

analoghi viene calcolata l’ indennità spettante nei casi di licenziamento per ragioni

economiche o per incapacità: si può arrivare fino ad un massimo di un terzo dello

stipendio medio mensile negli ultimi tre mesi moltiplicato per gli anni di servizio in

azienda (per coloro che si lavorino per lo stesso datore da più di 15 anni.). Egli ha

diritto anche ad un’ indennità di disoccupazione per i due anni successivi alla perdita

del posto, che ammonta al 70% della retribuzione precedentemente goduta. Queste

forme di protezione non spetta a coloro che siano stati licenziati per colpa.

Il licenziamento va impugnato entro 30 giorni dalla notifica e la controversia

può essere risolta o dal competente giudice del lavoro oppure da un collegio arbitrale

appositamente costituito, se ciò è previsto dal contratto collettivo e le parti sono d’

accordo per una soluzione del genere. È previsto inoltre che nonostante l’

affermazione dell’ illegittimità del licenziamento e l’ ordine di proseguire nel

rapporto di lavoro, il lavoratore può ugualmente agire per il risarcimento del danno

nei confronti del datore, se riesce a dimostrarne i profili di responsabilità

Licenziamenti collettivi

Anche nei paesi dell’Est Europeo entrati in Europa più recentemente, le regole

sono simili a quelle caratterizzanti gli altri Paesi europei

In Slovenia è prevista l’estinzione del rapporto di lavoro per cause economiche

legate all’intero business aziendale, nel cui ambito collochiamo le procedure di

licenziamento collettivo. La soglia temporale è di 30 giorni, mentre il numero

minimo dei soggetti coinvolti in un licenziamento che sia collettivo varia a seconda

della dimensione dell’impresa. Il datore deve elaborare un programma dell’eccedenza

che ne indichi i motivi; le misure per prevenire o limitare al massimo una riduzione di

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personale, anche considerando di mutare le condizioni di lavoro dei dipendenti;

l’elenco dei lavoratori in eccesso; i criteri di scelta di essi e dei mezzi di limitazione

dei licenziamenti (come l’offerta di altro post di lavoro, un’assistenza economica,

etc).

Valgono le norme sull’informazione e consultazione dei sindacati e

dell’agenzia del lavoro.

SVEZIA

Licenziamenti collettivi

Imprescindibile è accennare a quanto avviene in caso di licenziamenti collettivi

nel Nord Europa.

La Svezia, il paese che ha imposto il mobile low cost nel mondo e che vanta un

modello di welfare considerato da molti tra i migliori (come del resto vale per tutti i

paesi scandinavi), prevede una serie di restrizioni del potere del datore di licenziare

causa esubero.

Egli è tenuto a considerare se il lavoratore in eccedenza possa esser assegnato

ad alta posizione ed anche la possibilità di intraprendere misure strutturali diverse,

che non creino esuberi. Ad ogni modo, il bisogno di riduzione dei costi e l’effetto

delle decisioni sulla forza lavoro sono gli elementi che guidano la scelta finale

dell’imprenditore.

Nonostante il potere di determinare un licenziamento basato sull’eccedenza di

personale, il datore manca di quello di scegliere anche chi sia il soggetto specifico da

mandare a casa per primo.

I lavoratori coinvolti nella procedura sono assegnati alle cosiddette “unità

d’anzianità”, dove, per ogni unità, i lavoratori assunti più di recente sono i prima a

venir meno. Inoltre, l’effettiva operatività dell’organizzazione aziendale è considerata

solo nella misura in cui i restanti lavoratori siano in grado e qualificati per gestire gli

obiettivi necessari dell’impresa, dopo un periodo di prova.

Se un datore occupa 10 o meno persone, egli può decidere di esentare dal

licenziamento un massimo di due lavoratori che ritiene particolarmente validi e

importanti per il suo gruppo.

Se il licenziamento coinvolge 5 o più impiegati, oppure 20 o più entro 90

giorni, l’ Act on Various Employment Promotion Measures del 1974 obbliga il datore

a notificare al territoriale ufficio del lavoro le informazioni sulla procedura pendente.

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Nei casi di estinzione del rapporto di lavoro dovuti ad un’eccedenza, il datore

che pianifichi il recesso per 5 o più dipendenti ha l’obbligo di notificarlo all’autorità

distrettuale per l’occupazione tra i 2 e i 6 mesi di anticipo, in base al numero di

persone che si vuole licenziare. Quando è molto probabile che un esubero conduca al

licenziamento, il datore deve rispettare un termine di preavviso di un mese.

È tratto particolare che nella scelta dei lavoratori da licenziare è

specificatamente tutelato il rappresentante sindacale, cui è data priorità nella

continuazione dell’impiego laddove ciò sia determinante per la gestione dell’attività

sindacale sul posto di lavoro.

Attualmente mancano indennità di disoccupazione di fonte legale, ma in caso

di perdita del lavoro per ragioni economiche spesso suppliscono previsioni dei

contratti collettivi.

Dal punto di vista rimediale, quando un lavoratore affiliato ad un sindacato

riceve una notifica di licenziamento (ciò vale per qualsiasi licenziamento, non solo

per quelli causa esubero), egli e il sindacato sono abilitati a discuterne con il datore.

Questa consultazione può esser richiesta solo entro una settimana dal preavviso del

recesso e quando è richiesta, il licenziamento non può proseguire, cioè non può

divenire efficace, prima del confronto tra le parti. Allo stesso modo, qualora nasca

una disputa sulla validità del preavviso del licenziamento, né il rapporto di lavoro non

si risolve fino all’esito della controversia né il lavoratore viene sospeso solo in

ragione del preavviso

Conclusioni

Il quadro di insieme circa la disciplina dei licenziamenti è stato delineato in

modo abbastanza completo. È noto a tutti quanto questo fenomeno sia oggi attuale e

quanto dunque sia utile per chi lavora e per chi rappresenta i lavoratori avere ben

chiare prerogative e diritti.

Benché si auspica sempre di non usare quegli strumenti giuridici che operano

nelle patologie – è sempre più bello parlare di assunzione invece di licenziamento -

ad ogni modo bisogna considerare che meglio è strutturata la normativa che regola la

patologia, migliore è la garanzia della fisiologia del sistema.

E ancora, più la patologia è estesa e generalizzata, più la cura deve esser

uniforme per tutti e se non in grado di guarire, almeno utile per alleviare le

sofferenze.

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Fuor di metafora, riteniamo che una buona ed uniforme regolazione dei

licenziamenti, sia un ingrediente fondamentale per lo sviluppo di un mercato del

lavoro sano, non solo all’entrata ma anche all’uscita.

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MARIANI FERNANDO MARTINA MARMO

MATTEO DE BONIS

Le pubblicazioni della collana editoriale

“Per saperne di più...”

sono consultabili e disponibili all’indirizzo:

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a cura del Servizio Politiche Contrattuali