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1 L’UOMO CHE FU GIOVEDÌL’UOMO CHE FU GIOVEDÌL’UOMO CHE FU GIOVEDÌL’UOMO CHE FU GIOVEDÌ –––– UN INCUBOUN INCUBOUN INCUBOUN INCUBO
… A LIETO FINE DI G.K. CHESTERTON… A LIETO FINE DI G.K. CHESTERTON… A LIETO FINE DI G.K. CHESTERTON… A LIETO FINE DI G.K. CHESTERTON
di Annalisa Teggi
PARTE I – La discesa agli inferi
«Perché non c’è niente di così piacevole come un incubo, quando sai che è un incubo. …
Io risponderò alla chiamata del Caos e dell’Antica Notte. Io cavalcherò l’incubo, ma lui non cavalcherà me».
G.K. Chesterton
Quando ho concluso la traduzione de L’uomo che fu Giovedì di G. K. Chesterton avrei voluto
scrivere un’introduzione o postfazione alla nuova edizione che sarebbe uscita; la cosa avrebbe
gratificato il mio orgoglio e l’entusiasmo che riempie il lettore alla fine di ogni opera del nostro.
Giusto o sbagliato che sia, non ho corredato la mia nuova traduzione con nessuno scritto.
Innanzitutto perché Chesterton, nella sua Autobiografia, si lamentò della sovrabbondanza di
interpretazioni date a questa sua storia e sottolineò che, contemporaneamente, si era prestata
poca attenzione al sottotitolo, che di per sé doveva essere usato come eloquente chiave di lettura:
un incubo.
Cos’è quest’incubo? Si tratta di una discesa agli inferi, che il lettore è invitato a percorrere in
prima persona e «senza paracadute», cioé senza l’appoggio rassicurante di esaustive esegesi.
D’altra parte, quando di notte ci si sveglia di soprassalto da un incubo, la paura resta addosso in
modo tanto forte quanto incomprensibile; e non c’è lì, accanto a noi, uno psicologo pronto a
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2 svelarci tutti gli arcani di quel terrore. Eppure, nella sua potente irrazionalità, l’incubo è una forma
terapeutica di per sé.
In secondo luogo, oltre al sottotitolo, un’introduzione vera e propria fu già scritta dall’autore
stesso. Mi riferisco alla poesia con cui si apre il romanzo, composta da GKC come dedica all’amico
E. C. Bentley:
Questa è la storia di quelle vecchie paure, di inferni trovati vuoti,
e solo tu capirai il vero di cui quest’incubi sono intessuti:
incubi di dèi infami, che distruggono la vita e scompaiono in un’ora,
di diavoli che oscurano le stelle, poi cadono con un colpo di pistola.
Il diavolo non è così nero come lo si dipinge, è questa la scommessa o battaglia del romanzo. E,
sempre nell’Autobiografia, GKC riprende il medesimo filo conduttore, dichiarando a proposito de
L’uomo che fu Giovedì: «Se mai la storia possiede un senso, intendeva esordire con un ritratto del
mondo nella sua peggiore rappresentazione e dimostrare che, invece, il quadro non era poi così
nero come sembrava». Se uno ha in canna il colpo giusto, può disintegrare il velo scuro
dell’incubo. Questa è la speranza di questo libro: è una strada ripida nella discesa, e repentina
nella risalita, di chi va nel buio a smascherare la menzogna dei diavoli che vorrebbero oscurare il
cielo, e poi esce a riveder le stelle.
Proprio per questo, chiunque legga L’uomo che fu Giovedì, è molto grato all’autore di averlo
scritto e può cadere nella tentazione di volerlo ringraziare per iscritto, come faccio io ora. Niente
erudizione. È solo una mia riflessione grata e - ahimé - molto prolissa, perché molti «fili elettrici»
che mi scorrevano sottopelle si sono scoperti durante la lettura, e il modo in cui Chesterton li ha
accesi mi ha scosso.
1. Crisi
L’adolescenza è una delle tappe più complesse della nostra vita e per Chesterton fu il periodo in
cui fu colpito da una drammatica crisi esistenziale, durante la quale mise sottosopra cielo e terra,
tutto e niente, senso e assenza di senso. Ne parlò lui stesso nel capitolo Come diventare pazzo
della sua Autobiografia:
«il fatto è che i miei occhi erano ri
conferendo alla mia personalità morale, io credo, uno sgradevole strabismo.
gravato dall’incubo di negazioni dell’anima e della materia
del male, dal fardello del mio corpo e del mio cervello, stranamente misteriosi».
Vale la pena vedere come Chester
immagine simbolica nel romanzo
frequenta l’università, Innocent segue le lezioni
divulgatore di teorie nichiliste. Essendo un alunno diligente, Innocent d
il Professore e di verificare, alla prova dei fatti, se la vita è nul
andare dal Prof. Eams per ingaggiare con lui una partita all’ultimo sangue
è molto puntiglioso nel descriverci l’ambiente e l’atmosfera che circonda i
anima è sinceramente lacerata dal terrore che la visione cupa del nulla sia l’ultimo orizzonte sul
vivere umano:
Il paesaggio che circonda gli edifici di questo College è pianeggiante, ma non ha un aspetto
affatto piano per chi lo osserva dall’interno del College. Perché t
creano sempre degli occasionali
la prospettiva, mutando quello che dovrebbe essere uno schema orizzontale di line
schema di linee verticali. In tutti i punti i
edifici si raddoppia, così che una commune casa inglese in mattoni assume l’aspetto
torre babilonese. Perché
perfettamente, producendo u
comignolo più alto e a quello più basso
quello specchio d’acqua, sprofonda dentro il mondo tanto quanto l’originale s’innanlza nel
cielo. […] Sotto i piedi dell’uomo la terra si spacca a metà, creando vertiginose prospettive
aeree […].
i miei occhi erano rivolti verso l’interno piuttosto che verso l’
conferendo alla mia personalità morale, io credo, uno sgradevole strabismo.
gravato dall’incubo di negazioni dell’anima e della materia, dalle morbose rappresentazioni
el mio corpo e del mio cervello, stranamente misteriosi».
Vale la pena vedere come Chesterton rielabora questa sua condizione biografica
agine simbolica nel romanzo Uomovivo, di cui è protagonista Innocent Smith. Al tempo in cui
l’università, Innocent segue le lezioni di filosofia del Prof. Emerson
nichiliste. Essendo un alunno diligente, Innocent decide di prendere sul serio
verificare, alla prova dei fatti, se la vita è nulla. La notte in cui Smith decide di
andare dal Prof. Eams per ingaggiare con lui una partita all’ultimo sangue (per entrambi
nel descriverci l’ambiente e l’atmosfera che circonda il giovane studente, la cui
te lacerata dal terrore che la visione cupa del nulla sia l’ultimo orizzonte sul
Il paesaggio che circonda gli edifici di questo College è pianeggiante, ma non ha un aspetto
affatto piano per chi lo osserva dall’interno del College. Perché tra queste piatte paludi si
creano sempre degli occasionali laghetti o dei ristagni d’acqua e questo cambia costantemente
la prospettiva, mutando quello che dovrebbe essere uno schema orizzontale di line
. In tutti i punti in cui quest’acqua crea delle pozze, l’altezza degli
si raddoppia, così che una commune casa inglese in mattoni assume l’aspetto
su quella superficie luminosa e piatta le case si riflettono
producendo un’immagine capovolta ma corrispondente all’originale fino al
comignolo più alto e a quello più basso. Il riflesso di ogni nube corallina
quello specchio d’acqua, sprofonda dentro il mondo tanto quanto l’originale s’innanlza nel
Sotto i piedi dell’uomo la terra si spacca a metà, creando vertiginose prospettive
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3 volti verso l’interno piuttosto che verso l’esterno,
conferendo alla mia personalità morale, io credo, uno sgradevole strabismo. Ero ancora
, dalle morbose rappresentazioni
el mio corpo e del mio cervello, stranamente misteriosi».
biografica in forma di
, di cui è protagonista Innocent Smith. Al tempo in cui
Emerson Eams, fervente
ecide di prendere sul serio
la. La notte in cui Smith decide di
per entrambi), l’autore
l giovane studente, la cui
te lacerata dal terrore che la visione cupa del nulla sia l’ultimo orizzonte sul
Il paesaggio che circonda gli edifici di questo College è pianeggiante, ma non ha un aspetto
ra queste piatte paludi si
laghetti o dei ristagni d’acqua e questo cambia costantemente
la prospettiva, mutando quello che dovrebbe essere uno schema orizzontale di linee in uno
e pozze, l’altezza degli
si raddoppia, così che una commune casa inglese in mattoni assume l’aspetto di una
su quella superficie luminosa e piatta le case si riflettono
n’immagine capovolta ma corrispondente all’originale fino al
riflesso di ogni nube corallina, visto attraverso
quello specchio d’acqua, sprofonda dentro il mondo tanto quanto l’originale s’innanlza nel
Sotto i piedi dell’uomo la terra si spacca a metà, creando vertiginose prospettive
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Il tremendo pericolo di un eccesso di riflessione, ecco cosa descrive qui GKC. E lo fa usando la
cosa più efficace possibile, un’immagine: la mente dell’uomo è come uno specchio d’acqua,
riflette. Riflettere significa vedere due volte la stessa cosa, come accade in una pozzanghera o in
uno stagno: c’è l’oggetto reale e c’è il suo riflesso identico e capovolto (ma inesistente) nell’acqua;
lo stesso accade nella mente umana, che è il luogo in cui l’uomo, riflettendo, ri-vede il reale. E
questa capacità riflessiva può diventare vertiginosa («una semplice casa può diventare una torre
babilonese»), insomma può tramutarsi in uno sgradevole strabismo, come dichiarato da GKC
nell’Autobiografia, se l’immagine (irreale) della mente diventa più reale di quella della realtà. Cioé
se l’incubo prevale sulla realtà. Ecco, infatti, cosa accade al giovane Smith che – simbolicamente e
pericolosamente – cammina verso la casa del Prof. Eams, in questo paesaggio pieno di specchi
d’acqua che raddoppiano la vista di ogni oggetto:
Era nel mezzo del suo cammino, in quella notte stellata dalla luce sconcertante, le stelle erano
sopra e sotto di lui. E la sua cupa fantasia gli sussurrava che il cielo sotto i suoi piedi era più
profondo di quello sopra la sua testa: era ossessionato dall’idea terribile che, se si fosse
messo a contare le stelle, ne avrebbe trovata una di troppo nella pozza. […] Per lui, come per
quasi tutti i giovani studenti del suo tempo, le stelle erano cose crudeli. Anche se brillavano
ogni notte nella grande volta celeste, erano un enorme e tremendo segreto, perché mettevano
a nudo la natura, come se mostrassero chiari indizi degli ingranaggi di ferro e delle pulegge che
stanno dietro la scena. Perché i giovani cresciuti in quell’epoca triste pensavano che il divino
provenisse dalla macchina. Non sapevano che, in realtà, è la macchina a provenire dal divino.
In breve, erano tutti dei pessimisti e la luce delle stelle era crudele ai loro occhi … ed era
crudele perché li metteva di fronte alla verità. Per loro l’universo era tutto nero con qualche
puntino bianco.
Nel mezzo del cammin di sua vita, il giovane Gilbert si trovò a percorrere la stessa strada di
Innocent Smith: si trovò a fronteggiare quel dubbio estremo che colpisce la mente quando rivolge
«gli occhi più verso l’interno che verso l’esterno», e arriva persino a credere che l’universo riflesso
dentro la mente abbia una stella in più di quello reale, cioè sia più vera la riflessione della realtà.
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5 Come Dante, Chesterton seguì la via più corraggiosa per uscire dalla selva mortale: quella di
scendere agli inferi, quella di vivere l’incubo fino in fondo:
«Io mi sentivo un impulso irresistibile a scrivere idee orribili e a disegnare immagini orribili,
sguazzandoci dentro in una sorta di cieco suicidio spirituale … vorrei dire che ho scavato
talmente in profondità, da incontrare il diavolo e misteriosamente riconoscerlo» (da
Autobiografia).
E qui entra in scena Gabriel Syme, il poeta-poliziotto filosofico, protagonista de L’uomo che fu
Giovedì. Ecco colui che scaverà in profondità tutti i meandri dell’incubo, e ne riemergerà segnato,
ma vivo. Sarà un man alive, un sopravvissuto che, capirà fino in fondo perché gli inglesi esultano
gridando manalive!, che è l’equivalente del nostro evviva!. Non c’è cosa più sorpredente e meno
scontata di un uomo che si ritrova vivo.
Ed ecco perché, rispetto a tutte le esegesi critiche che si erano soffermate a indagare la visione
religiosa sottesa al Giovedì, Chesterton preferì di gran lunga la testimonianza di chi gli disse che
molte persone in difficoltà avevano trovato pace leggendo questo libro:
«Vorrei piuttosto citare l’elogio che mi fu fatto da un uomo di tipo completamente diverso,
che, per qualche ragione, fu uno dei pochi a trovare il bandolo della matassa del
disgraziatissimo romanzo della mia giovinezza. Era un celebre psicanalista, dei più
all’avanguardia e dei più scientifici. […] Era uno studioso attento e competente e mi fece
rizzare i capelli in testa, quando disse che aveva trovato il mio romanzo giovanile un rimedio
utilissimo per i suoi pazienti, soprattutto il lungo processo con cui il diabolico anarchico si
rivela un rispettoso cittadino travestito. “Conosco molti che erano vicini alla pazzia” mi disse
con tutta serietà, “e che trovarono la pace per aver capito L’uomo che fu Giovedì”. Era
sicuramente eccessivo, nella sua generosità, anzi forse era lui a essere pazzo. Ma confesso che
mi lusinga che in quel periodo di personale follia, io possa essere stato di un piccolo aiuto ad
altri pazzi come me» (da Autobiografia).
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PARTE II: la notte della battaglia
Nel fondo del cuore di ogni uomo, ovunque trascorra la sua vita,
c’è un male di vivere che è nobile, un sacro scontento.
G. K. Chesterton, da Adveniat regnum tuum
L’impresa, che nella trama de L’uomo che fu Giovedì deve compiere Gabriel Syme, è quella di
confrontarsi con un nemico spietato, che sparge terrore e disordine nel mondo: l’anarchia. La sua
discesa agli inferi assume, innanzitutto, la forma della discesa nel covo di una congregazione di
anarchici, la cui sede sotterranea è stipata di fucili, rivoltelle e bombe. Sottoterra, c’è un luogo
«esplosivo» in cui si complotta per dilaniare il mondo consegnandolo al caos e al nulla della
distruzione. Allo stesso modo, nel fondo del cervello di un uomo, può covare una forza che spinge
la mente a confrontarsi con l’incubo supremo del nulla. Il Segretario del Grande Consiglio
Anarchico, che Gabriel incontrerà nel corso di una colazione pubblica, afferma:
«Il coltello rappresenta il tipo di vendetta personale di vecchio stampo, quella del singolo
uomo contro il singolo tiranno. La dinamite, oltre a essere la nostra arma migliore, è anche il
nostro simbolo migliore. È un simbolo perfetto quanto lo è l’incenso che accompagna le
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7 preghiere dei cristiani: si espande. Ed è distruttiva proprio perché si diffonde; allo stesso modo,
il pensiero è distruttivo proprio perché si diffonde. La mente di un uomo è una bomba».
2. Luce e ombra
Chi sceglie di confrontarsi con questo nemico, affronta un duello mortale e vitale insieme. Il
paradosso che prende corpo in tutta la produzione di GKC è che l’uomo si accorge davvero della
luce (vita) solo mettendola a fuoco sullo sfondo del buio (morte). La mente dell’uomo può essere
una bomba distruttiva – quando rivolge eccessivamente gli occhi verso l’interno – ma essa può
anche generare un’esplosione benefica come un fuoco d’artificio, che riempie di luce la notte. Si
tratta, attraverso un percorso sofferto e doloroso, di mettere a fuoco questa risorsa buona che
giace nel profondo di ogni uomo. E, come insegnava la fotografia di un tempo, affinché in
un’istantanea emergano i colori, si deve passare dalla camera oscura.
Dunque Syme deve scendere al buio, abbandonando il regno della luce. Il romanzo, infatti,
inizia col tripudio di un tramonto bellissimo in cui il cielo dà il meglio di sé, quasi per tendere una
mano al giovane Gabriel, che di lì a poco sprofonderà nella notte:
Se non per altro, nella zona ci si ricorda di quella sera particolare a causa di uno strano
tramonto. Sembrava l’apocalisse. Tutto il cielo si era rivestito di un vivace piumaggio quasi
palpabile: il cielo era proprio un tripudio di piume che parevano sfiorare le teste con una
carezza e riempivano gran parte della volta celeste con tinte grigie, che si mescolavano alle più
strane sfumature di violetto e malva, per arrivare anche a un rosa surreale e al verde pallido. A
occidente la vista era addirittura indescrivibile: in un cielo terso e infuocato le ultime falde di
quella livrea piumata erano d’un rosso incandescente e coprivano il sole, quasi fosse qualcosa
di troppo bello per essere guardato. Questa scena celeste s’abbracciava stretta alla terra,
come per trattenere un ardente segreto».
Quando, quella stessa sera ma qualche ora più tardi, Gabriel Syme sarà pienamente arruolato
nella sua missione segreta di investigatore mandato tra gli anarchi, il cielo testimonierà che la
battaglia col buio è cominciata. Tutto il tripudio di luce si tramuta in freddezza e oscurità
innaturale:
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8 Quando Syme mise piede sul rimorchiatore ebbe la strana sensazione di inoltrarsi verso
qualcosa di assolutamente nuovo; non semplicemente di trovarsi in un paese sconosciuto, ma
di essere stato catapultato su un altro pianeta. Questo dipendeva dalla decisione folle eppure
ferma presa nel corso di quella serata, ma anche dal completo stravolgimento del cielo e del
clima da quando era entrato nel pub due ore prima. Ogni traccia di quel folto piumaggio di
nubi che aveva avvolto il tramonto era scomparsa e ora la luna brillava limpidissima in un cielo
altrettanto terso. La luna era così piena e splendente che (per un paradosso che si nota spesso)
sembrava piuttosto un sole affievolito: non dava l’impressione di un lucente chiaro di luna, ma
piuttosto di un giorno spento.
Sull’intero paesaggio pesava una luce innaturale e sbiadita, quel crepuscolo apocalittico di
cui parla Milton riferendosi all’eclissi solare; e quindi, fu spontaneo per Syme ritornare al suo
primo pensiero, quello di essere finito su qualche pianeta desolato, che ruotava attorno a una
malinconica stella. Ma più avvertiva la pungente desolazione di quel paesaggio illuminato
dalla luna, più la sua follia cavalleresca ardeva come un fuoco nella notte. […] E così, in quel
paesaggio disumano, c’era un briciolo di autentica immaginazione perché ne faceva parte un
uomo davvero umano».
Questo è un pilastro fondamentale, o se vogliamo cruciale: non ci sono scorciatoie o
alternative. La battaglia che l’uomo deve combattere col buio è una lotta solitaria. Vedremo, poi,
che l’uomo non è da solo a combattere, ma il primo grande passo che coraggiosamente bisogna
fare è quello di sentire la solitudine desolante della lotta. Proprio come accadde a Giacobbe, nella
sua lotta notturna con una presenza misteriosa:
«Così Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntar dell'alba. Quando
quest'uomo vide che non lo poteva vincere, gli toccò la cavità dell'anca; e la cavità dell'anca di
Giacobbe fu slogata, mentre quello lottava con lui. E quegli disse: «Lasciami andare, perché sta
spuntando l'alba». Ma Giacobbe disse: «Non ti lascerò andare, se non mi avrai prima
benedetto!». L'altro gli disse: «Qual è il tuo nome?». Egli rispose: «Giacobbe». Allora quegli
disse: «Il tuo nome non sarà più Giacobbe, ma Israele, poiché tu hai lottato con DIO e con gli
uomini, ed hai vinto». Giacobbe gli disse: «Ti prego, dimmi il tuo nome». Ma quello rispose:
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9 «Perché chiedi il mio nome?». E qui lo benedisse. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Peniel,
perché disse: «Ho visto Dio faccia a faccia, e la mia vita è stata risparmiata».
(Genesi, cap. 32)
Una benedizione attende l’uomo che, solo, affronta una battaglia nella notte.
Il compagno di scuola, e amico di una vita, Lucian Oldershaw disse di Chesterton, riguardo al
tempo della sua crisi: «Sentivamo che stava cercando Dio» (cit. in Maisie Ward). E nel suo
quaderno degli appunti, Gilbert descrisse, infatti, in forma simbolica la lotta/ricerca che stava
facendo, tratteggiandola in modo alquanto simile alla vicenda di Giacobbe:
«È sera.
E nella stanza entra di nuovo un’immensa e indistinta presenza.
È un uomo o una donna?
È morto da tempo o è uno che deve ancora venire?
Ecco chi siede con me la sera».
Si dice, peraltro, che con le sue ultime parole Chesterton abbia ribadito sul letto di morte che la
battaglia costante e perenne dell’uomo è quella di scegliere la sua parte tra la luce e il buio.
E così, il tramonto lancia a Gabriel un ultimo infuocato messaggio, prima che scenda la notte
della lotta. Ma anche dentro l’oscurità della notte non tutto è buio, finché ne fa parte un «uomo
davvero umano». Per comprendere cosa significhi quest’affermazione, occorre rifarsi ancora una
volta al quaderno degli appunti di Gilbert e sempre al periodo arduo della sua giovinezza. Stephen
Medcalf, nell’edizione da lui curata de L’uomo che fu Giovedì, cita un breve passaggio dal diario di
Gilbert, che pare una poesia e che lascia basiti quanto a radicalità di speranza e ragionevolezza:
«It is not a question of Theology,
It is a question of whether,
Placed as a sentinel of an unknown watch,
You will whistle or not».
Traduzione:
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10 Il punto non è la Teologia,
Il punto è se tu,
Messo di sentinella per un turno di guardia sconosciuto
Fischierai oppure no.
Qui, oso dire, c’è l'osso attorno a cui si salda il corpo del pensiero di Chesterton: è stato un
uomo che, partendo dalla tabula rasa, ha trovato, proprio nel buio del deserto del nulla, la
radicalità della speranza connaturata nell’uomo. «Il punto non è la Teologia», ovvero: prova a
ragionare a partire dal grado zero; immagina di essere catapultato nel peggiore dei mondi
possibili, un pianeta alieno e desolato, come quello in cui si sente immerso Gabriel la notte in cui
comincia la sua avventura. Ebbene, anche in un contesto di eclissi solare (cioè di assenza di
riferimenti luminosi), l’uomo non perde quella sua qualità congenita che lo distingue dal ogni altra
creatura: la capacità di fischiare. Perfino se messo di guardia nel contesto di una guerra a lui
sconosciuta (in cui non si sa nè chi è il nemico nè chi è l’amico, ovvero la guerra di un dubbio
radicale su tutto), l’uomo è quella creatura in grado di fischiare. È colui che manda segnali, è
qualcuno la cui natura si esprime nella coscienza personale di sé e, di conseguenza, nella ricerca di
un vincolo con il circostante. Anche in un pianeta vuoto e desolato, l’uomo sarebbe l’unica cosa
non vuota e desolata. Manderebbe segnali anche in un mondo in cui, regnando il caos e il nulla,
non sarebbe possibile ricevere risposta.
Da questo grado zero, da questa pars destruens, Chesterton costruisce la speranza, non più
come idea positiva e astratta, ma come ragionevole presenza. Infatti: se tutto il mondo è solo un
caotico coacervo che progressivamente tende al nulla, come può essere che ne faccia parte una
creatura che – non per sua scelta, ma per natura – contraddice il caos e il nulla, essendo capace di
lanciare segnali per generare legami con l’esistente? Se il nulla e il caos sono la cifra dell’universo,
perché dell’universo fa parte anche una sentinella?
La scoperta vitale che attende Gabriel Syme, in fondo a tutti gli scontri mortali che affronta nel
romanzo, è proprio questa: giunto al limite estremo di ogni scontro, quando tutto sembra perduto
e nient’altro che la morte pare attenderlo, ecco che la sentinella, che è in lui, ode un fischio di
ritorno. Proprio quando è al fondo della desolazione, qualcosa di concreto, semplice e vivo lo
ridesta, come mandandogli un fischio di vita. Capita una prima volta, quando Gabriel si trova al
cospetto del gigantesco e imperscrutabile Presidente del Consiglio degli Anarchici, il cui nome è
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11 Domenica, e sa che la sua strada è giunta a un punto di non ritorno, non può più tirarsi indietro
dalla sua impresa:
Il momento della scelta decisiva era giunto, ora aveva la pistola alla tempia. […] Per strada fu
azionato un organetto da cui si diffuse un motivetto allegro. I nervi di Syme si tesero, come se
fosse stato lo squillo di tromba che prelude alla battaglia e sentì il suo animo invaso da un
coraggio che proveniva da chissà dove. Gli pareva che quel tintinnante motivetto contenesse
tutta la vivacità, la trivialità e l’inconcepibile valore della povera gente, quella che pur abitando
in quelle vie sudicie si aggrappava a tutto ciò che di decoroso e caritatevole c’era in seno alla
cristianità. […] Si sentiva l’ambasciatore della buona gente comune che passava per strada, di
tutti quelli che affrontavano la propria quotidiana battaglia marciando al ritmo dell’organetto.
E il grande orgoglio di appartenere a questa umanità lo aveva innalzato infinitamente al di
sopra degli uomini mostruosi che lo circondavano».
Capita una seconda volta, quando Gabriel si scontra a duello con il più feroce degli anarchici, il
Marchese di St. Eustache:
Perché non appena vide il bagliore del sole correre lungo il filo della lama del suo rivale e non
appena sentì quelle due lingue d’acciaio toccarsi e vibrare come fossero vive, si rese conto che
il suo nemico era un avversario terribile e capì che probabilmente era arrivata la sua ora.
Avvertì in modo stranamente vivido il valore di tutta la terra che lo circondava, anche
dell’erba sotto i suoi piedi; sentiva l’amore alla vita che c’è in ogni cosa vivente».
Ecco il primo e gigantesco frutto buono di uno scontro all'ultimo sangue con l'anarchia:
accorgersi che c’è una stella in più nella realtà (e non nella pozza della nostra mente). Il quid in più,
e buono, è nella realtà. Perché – e questo è il grande rovescimento – la realtà nel suo insieme,
tragico e comico, non è altro che un fischio di risposta al fischio dell’uomo. Una chiamata. La realtà
è una vocazione: dentro il reale c’è qualcosa che chiama l’uomo, qualcosa che risponde al bisogno
di un legame che l’uomo sente. E chi ha provato la vertigine di sentirsi una sentinella sperduta in
un mondo desolato e alieno, diventa un testimone attendibile. Credibile, in nome del suo dolore.
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12 O, meglio, questo è il frutto buono che ne ha ricavato GKC. Non ha lodato la solitudine titanica
dell’uomo che lotta contro il buio, ma ha chiarito che anche la solitudine – dolorosa –, che ci
accompagna nei momenti bui, serve.
Le prove e i dolori più laceranti, in cui ciascuno è chiamato a una battaglia solitaria terribile,
hanno un senso; il senso di metterci a nudo completamente, di riconsegnarci un’innocenza
radicale. Proprio quando non ci sono più speranze, l’uomo può guardarsi candidamente, senza
filtri di ideologie e teorie, e decidere se il nulla ha l’ultima parola oppure no.
Per Chesterton la risposta fu «oppure no».
Re Alfred, protagonista de La ballata del cavallo bianco, troverà il seme di quest'innocenza
proprio quando, sul campo di battaglia e di fronte a un nemico che lo sta per schiacciare, decide di
dare il tutto per tutto, anche se il risultato sarà un sconfitta:
«Perché nella foresta densa di paure,
come una strana folata che giunge dal mare,
lo sospinse quell’antica innocenza
che è molto più della destrezza»
Non è un’innocenza candida quella che Chesterton trovò nel fondo cupo della sua crisi, ma
un’innocenza segnata da ferite mortali. Nel punto più basso della parabola umana, giunge una
folata di vento; una voce misteriosa dentro il mondo invita l'uomo a non mollare. Ed è proprio
così: il più delle volte l'uomo riesce a sentire questa voce solo quando è completamente prostrato.
A terra. Ed essere a terra, etimologicamente significa essere umili, o anche umiliati: ripuliti da ogni
orgoglio, e dunque nudi e sinceri. È quel genere di innocenza che rende coraggioso un soldato,
pronto a sparare al vero nemico eterno che oscura le stelle, il Diavolo. Così, afferma Gabriel Syme
alla fine della sua avventura:
«Ora capisco – gridò – capisco tutto. Perché ogni singola cosa sulla Terra fa guerra a tutte le
altre? Perché ogni piccola cosa esistente al mondo deve combattere contro il mondo intero?
[…] Per lo stesso motivo per cui io dovevo sentirmi da solo in mezzo al tremendo Consiglio dei
Giorni: e cioé affinché ogni cosa che obbedisce alla legge possa avere la gloria e la solitudine
dell’anarchico, affinché ogni uomo che combatte in nome dell’ordine possa essere tanto
impavido e devoto quanto un terrorista. Solo così la bugia di Satana può essere ritorta contro
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13 quella sua faccia da bugiardo, solo così noi possiamo guadagnarci il diritto, attraverso le
lacrime e il sangue versato, di dirgli in faccia: “Tu menti!”».
Come a dire: «Tu menti, Satana. Tu dici menzogne: perché io – Gabriel Syme – anche al fondo
della disperazione ho fischiato. Ho cercato un legame, e qualcosa mi ha risposto». Il compito del
Diavolo è proprio quello di separare dai vincoli (dia-ballo), cioè di alterare la vista così che l'uomo
dimentichi la sua stessa natura, quello di essere una sentinella ... l'unica creatura vigile e protesa a
sentire voci, l'unica creatura la cui stessa esistenza - persino in assoluta solitudine - è una lode al
bisogno di un legame.
E a partire da ciò, l’uomo sopravvissuto alla discesa negli inferi – alive – comincia a guardare la
realtà esistente e ogni altro essere umano come fratello e amico, come un compagno di battaglia.
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14 PARTE III: sveglia!
«Questo non è il migliore dei mondi possibili,
ma, tra tutte le cose possibili, la migliore è che il mondo sia possibile»
G.K. Chesterton
Scendere nei dettagli della trama de L'uomo che fu Giovedì è un atto di slealtà nei confronti dei
futuri lettori. Perché un giallo va seguito passo dopo passo, e non c'è niente di peggio del tizio che
salta su prematuramente a dire: "L'assassino è il maggiordomo!". Perciò, per quanto possibile,
cercherò di parlare per metafore, cioé cercherò di mettere a fuoco l'ultimo tassello della mia
riflessione, senza esplicitare troppo gli elementi specifici della storia.
3. Giù la maschera! ... oppure: W la mucca
Uno dei temi più sviscerati dalla letteratura novecentesca è stato il rapporto tra realtà e
apparenza. Quel gigante di Pirandello ha sondato ogni meandro del rapporto dell'uomo con la sua
identità, o meglio, col problema della sua identità: chi sono io? chi è l'altro?
Scelgo una citazione, tra le mille possibili, da Il piacere dell'onestà:
«Ecco veda, signor Marchese: inevitabilmente, noi ci costruiamo. Mi spiego. Io entro qua, e
divento subito, di fronte a lei, quello che devo essere, quello che posso essere - mi costruisco -
cioé, me le presento in una forma adatta alla relazione che debbo contrarre con lei. E lo stesso
fa di sè anche lei che mi riceve. Ma, in fondo, dentro queste costruzioni nostre messe così di
fronte, dietro le gelosie e le imposte, restano poi ben nascosti i pensieri nostri più segreti, i
nostri più intimi sentimenti, tutto ciò che siamo per noi stessi [...]».
Chi parla è Angelo Baldovino, un pover'uomo che per denaro ha accettato di sposare Agata,
rimasta incinta dal Marchese Colli, che non può sposarla perché già ammogliato. Il tema della
maschera viene evocato in modo inappuntabile in queste parole, e Baldovino/Pirandello descrive
benissimo qualcosa di concreto e vero, che tutti conosciamo. Nelle relazioni tra noi e gli altri c'è
sempre un filtro, che poi si rifrange in una moltitudine di filtri: c'è l'immagine di me che io do agli
altri, c'è l'immagine che gli altri si fanno di me; c'è l'immagine con cui gli altri si mostrano a me, c'è
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15 l'immagine che io mi faccio degli altri. Da questo punto di vista, ogni incontro umano potrebbe
apparire solo un gioco di specchi, con l’implicazione che sia impossibile un contatto umano
autentico.
Tutto ciò è una ferita bruciante. Gli autori, come Pirandello, che hanno documentato questa
lacerata e imperfetta natura nei rapporti umani, hanno fatto sanguinare la ferita. Ed è un bene.
Anche Chesterton ci fece i conti, e vorrei quindi sollecitare gli insegnanti a tenere conto della
sua voce nell'ambito della letteratura novecentesca, perché lui ci ha lasciato un contributo di
valore, offrendoci un punto di osservazione che sconfigge l'ombra scura dell'apparenza e proprone
una via per ridare pieno valore di autorità alla realtà.
Mi spiego, Chesterton non ha risolto il problema della «maschera», ma ha proposto un modo
coraggioso per affrontare con energica fiducia il tema dell'identità, affinché il dubbio non avesse
l'ultima parola nel nostro rapporto col mondo e con gli altri. L'uomo che fu Giovedì, ne è una delle
testimonianze più luminose. Fu scritto nel 1908, quando contemporaneamente Pirandello
pubblicava L'umorismo; fu scritto, ci informa Stephen Medcalf, da un confronto con Joseph Conrad
(in occasione di un pranzo presso un circolo culturale, GKC e Conrad discussero di un attentato
dinamitardo avvenuto a Londra, e ciò diede lo spunto a Conrad per scrivere il celebre L'agente
segreto, che uscì nel 1907, e a Chesterton per scrivere il Giovedì). Insomma, è un'opera
pienamente collocata nel dibattito del suo tempo, eppure le storie della letteratura la ignorano.
Il tema della maschera, cioè dell’aspetto di sé che ciascuno offre agli altri e – forse – dietro cui
ciascuno vuole celare se stesso, è uno degli elementi cardine dell’avventura di Gabriel Syme; lui
stesso indosserà una maschera, cioè si fingerà un anarchico per sedere nel Grande Consiglio degli
Anarchici. Fanno parte di questo consiglio sei Consiglieri e un Presidente; essendo in sette,
ciascuno porta il nome di un giorno della settimana. Scrutando a uno a uno i Consiglieri, durante
una colazione del consiglio, Gabriel (eletto a ricoprire il ruolo di Giovedì) ne resta atterrito. Ne è un
esempio perfetto il Dottor Bull, che porta il nome di Sabato, e il cui volto pare un enigma
terrificante:
All’estremità del tavolo sedeva l’uomo chiamato Sabato, il più semplice e insieme il più
sconcertante di tutti. […] Non c’era nulla di strano in lui, tranne il paio di occhiali scuri e opachi
che portava. […] Lo sguardo di Syme era catturato da quegli occhiali neri e dalla smorfia cieca
di quel viso. […]. Quelle lenti impedivano di comprendere il senso di quel volto, perché era
impossibile dire cosa significassero quel sorriso e quell’austerità.
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Non occorrono mirabolanti travestimenti, a volte basta un tocco di oscurità o un velo di opacità
per renderci imperscrutabili agli occhi degli altri. Lo scontro con ciascuno di questi sei terribili
Consiglieri porterà Gabriel a esasperare l’angoscia di sentirsi catapultato in un mondo di maschere,
in un universo in cui non esistono criteri per distinguere un amico da un nemico. Un universo
anarchico, appunto; e questo è un altro tassello dell’incubo. Per Gabriel l’ossessione del dubbio
raggiunge il vertice nel momento in cui si trova a fuggire proprio da una folla di anarchici che lo
inseguono col volto mascherato; la fuga lo porta ad attraversare un bosco – una selva oscura – in
cui sprazzi di luci e ombre disorientano completamente la vista:
Il fitto del bosco era pieno di sprazzi di luci improvvisi e ombre vibranti; tutto ciò diffondeva
sulle cose un tremolio, che procurava una sorta di vertigine … . Per Syme era persino difficile
distinguere le solide figure di chi gli camminava accanto, a causa di quel balletto di luci e
ombre. […] E se tutti stavano indossando una maschera? Chi era cosa? … Dopo tutti questi
stravolgimenti era propenso a chiedersi cosa distinguesse un amico da un nemico. Esisteva
qualcosa oltre l’apparenza?
Interrompo la citazione in corso per spiegarne il senso simbolico, usando le parole dello stesso
Chesterton, il quale non si lasciò sfuggire un’occasione golosa che gli offrira l’inglese, lingua in cui
le parole amico (FRIEND) e nemico (FIEND) sono ancora più simili che in italiano. Spiega quindi
GKC:
«In un incubo anche le facce degli amici (FRIENDS) possono apparire come facce di nemici
(FIENDS). Ma c’è davvero del bene da scovare nei posti più improbabili e può accadere che
chi si combatte a vicenda stia in realtà combattendo dalla stessa parte, quella giusta; ma è
un bene che noi lo ignoriamo, perché l’anima deve sentirsi solitaria nella lotta o non ci sarebbe
spazio per il coraggio».
Ecco qua il ribaltamento – paradossale – di cui l’intelligenza di Chesterton è stata capace: ci può
essere un valore positivo nei mascheramenti reciproci degli esseri umani. Io non leggo
candidamente nel cuore di chi mi sta accanto; questa «imperfetta» conoscenza concede al singolo
di «sentirsi» solo nel momento della lotta, di non nascondersi dietro una facile compagnoneria.
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17 Ma poi, il senso anche vertiginoso e doloroso di questo confronto solitario, ha proprio lo scopo di
farmi accorgere che, davvero, chiunque ho accanto a me – anche il nemico – è un amico. Perché
tutti siamo sentinelle cooptate in questa battaglia di dare un nome al mistero del mondo. Con
drammi diversi e persino opposti, perseguendo scopi divergenti, aderendo a ideali umani
differenti, tutti – nel profondo – siamo dentro la stessa battaglia. Stiamo al cospetto del buio e
cerchiamo quella lampada luminosa che possa far sparire le tenebre.
L’unico nemico reale e di ogni creatura è la menzogna diabolica della separazione, la tentazione
di chiudere i ponti con il reale, di ergere la mente a idolo. È quella tentazione che il giovane
Innocent Smith di Uomovivo sentiva quando era portato a credere che l’universo riflesso nella
pozzanghera avesse una stella in più del cielo vero e proprio. E qui torno alla citazione, che
riguarda Gabriel smarrito nel bosco e in preda a dubbi sull’esistenza di ogni cosa:
In fondo, non era forse vero che tutto, come in quel bosco incantato, consisteva in una danza
tra il buio e la luce? Ogni cosa è solo un bagliore, un bagliore che giunge sempre inaspettato e
che sempre viene subito dimenticato. Ecco che Gabriel Syme aveva trovato nel fitto di quel
bosco punteggiato di luce ciò che vi trovarono molti pittori moderni: era ciò che la gente
moderna definisce Impressionismo, un altro nome per identificare quello scetticismo estremo,
incapace di trovare le fondamenta dell’universo.
Intendiamoci, qui Chesterton non sta scagliandosi contro Monet&Co, ma sta puntando il dito
contro una pericolosa visione dell’umano e che egli traduce per immagini richiamandosi
all’Impressionismo. Chesterton frequentò la scuola d’arte e rimase poi, in qualsiasi contesto di
scrittura, una mente essenzialmente pittorica. Nella sua Autobiografia spiegò bene questo
appunto critico nei confronti del presupposto teorico che muove l’artista impressionista:
«Penso tuttavia ci fosse qualcosa di spirituale nell’impressionismo, in rapporto con la sua
epoca, che era l’epoca dello scetticismo. Intendo che raffigurava lo scetticismo nel suo aspetto
soggettivo. Il suo principio era che, se di una mucca si vedeva una linea bianca e una sfumatura
color porpora, bisognava ricreare la sfumatura, non la mucca. Era necessario credere nella
linea e nella sfumatura, non nella mucca».
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18 Lo scetticismo, quel dubbio radicale che è capace di portare la mente fino all’anarchia, può
essere sconfitto solo in un modo: ascoltare il fischio che proviene dal reale, non lasciare che le voci
delle mente coprano la voce del mondo reale. La sentinella messa alla prova fino all’estremo,
Gabriel, ha sentito una voce semplice e concreta che proveniva dall’esserci delle cose. A quella
voce bisogna dare credito. Ed è proprio quello che Gabriel fa in quel bosco oscuro: sentendosi
pervaso dalle ombre del dubbio, costringe sé stesso a muoversi verso le persone che gli stanno
vicino e «con due impazienti falcate» raggiunge l’ispettore Ratcliffe, che lo precede. Bisogna
costringere lo sguardo a confrontarsi con la presenza delle cose, non con il loro riflesso inesistente
creato dalla mente.
Se il primo passo è la lotta solitaria col buio, la seconda fase della lotta è non perdere il frutto
buono dello scontro col buio: l’aver distintamente udito il fischio della realtà. E, in questa seconda
parte della battaglia, che è la pars costruens, ci è compagno e amico chiunque si trovi accanto a
noi, anche se ha l’aspetto di un nemico. Ed è amico perché la sua battaglia è, al fondo, la nostra
stessa. Ne è un altro esempio la condotta di Innocent Smith, il quale non decide in solitudine,
rimuginando, se l’orizzonte del nichilismo è l’ultima parola sul mondo, ma lo verifica coinvolgendo
il Professor Eams; cioè catapultandosi nella realtà del rapporto con quell’uomo (che pure è suo
avversario). Se il Professore sarà disposto a morire, per dimostrare che la vita dell’uomo è nulla,
allora anche Innocent si darà la morte. Ma, alla prova dei fatti, il confronto reale tra Eams e la
morte dimostra ciò che anche Gabriel Syme ha scoperto, cioè che l’uomo – quando sta nudo di
fronte all’esistenza – è una sentinella: ode una voce buona che proviene da ciò che esiste. La
mucca c’è davvero e muggisce. Il Professor Eams avendo una pistola puntata alla tempia,
improvvisamente si accorge della realtà e che l’esistente lo interpella:
«Mentre parlava spuntò il sole. E sembrò che infondesse il colore su ogni cosa, con la
rapidità di un fulmineo artista volante. Una flottiglia di piccole nubi che navigava nel cielo
mutò di colore passando dal grigio tortora al rosa. […] Attraverso un piccolo scorcio che si
apriva tra una vecchia taverna di legno e l’imponente massa grigia del College, [il Professor
Eams] poteva vedere un orologio dalle lancette dorate che il sole aveva incendiato di luce. Lo
fissò ipnotizzato e d’improvviso l’orologio si mise a battere l’ora, come volesse rispondergli».
Per svegliarsi da un incubo bisogna cacciare un urlo, bisogna essere capaci di un gesto concreto
e violento per aprire gli occhi. Le ombre sono solo ombre mute, mentre la luce del sole ci parla. E
poiché il tempo di vita che ci è concesso sarà sempre un costante destreggiarsi tra buio e luce, è
bene armarsi e trovare alleati valorosi.
Uscendo dalle tenebre del proprio incubo giovanile, Chesterton gridò a voce alta e in piena
coscienza: Evviva! Perché la realtà è viva. Ed è un miracolo. Poi
su questa terra a lasciare ai suoi lettori testimonianze autentiche e ragionevoli della verità di
queste parole scritte ne L’uomo che fu Giovedì
Il male è così malvagio da farci pensare che il bene sia solo un caso; ma il bene è così buono da
darci la certezza che dev’esserci una spiegazione per i
Indice delle opere citate:
� G. K. Chesterton, Autobiografia
� G.K. Chesterton, La ballata del
� G. K. Chesterton, L'uomo che fu Giovedì
� G. K. Chesterton, The Man
text, explanatory notes by Stephen Medcalf), Oxford University Press, New York 1996
� G. K. Chesterton, Uomovivo
� Luigi Pirandello, Il berretto a sonagli
Milano 1991
� Maisie Ward, G. K. Chesterton
poiché il tempo di vita che ci è concesso sarà sempre un costante destreggiarsi tra buio e luce, è
bene armarsi e trovare alleati valorosi.
Uscendo dalle tenebre del proprio incubo giovanile, Chesterton gridò a voce alta e in piena
Perché la realtà è viva. Ed è un miracolo. Poi passò il resto
a lasciare ai suoi lettori testimonianze autentiche e ragionevoli della verità di
L’uomo che fu Giovedì:
Il male è così malvagio da farci pensare che il bene sia solo un caso; ma il bene è così buono da
darci la certezza che dev’esserci una spiegazione per il male.
Autobiografia, Lindau, Torino 2010
La ballata del cavallo bianco, Raffaelli, Rimini 2009
L'uomo che fu Giovedì - Un incubo, Lindau, Torino 2014
The Man Who Was Thursday - A Nightmare, (Introduction, notes on
text, explanatory notes by Stephen Medcalf), Oxford University Press, New York 1996
Uomovivo, Lindau, Torino 2013
Il berretto a sonagli - La giara - Il piacere dell'onestà
G. K. Chesterton, Sheed & Ward, 1943
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19 poiché il tempo di vita che ci è concesso sarà sempre un costante destreggiarsi tra buio e luce, è
Uscendo dalle tenebre del proprio incubo giovanile, Chesterton gridò a voce alta e in piena
passò il resto tempo che trascorse
a lasciare ai suoi lettori testimonianze autentiche e ragionevoli della verità di
Il male è così malvagio da farci pensare che il bene sia solo un caso; ma il bene è così buono da
, Raffaelli, Rimini 2009
, Lindau, Torino 2014
(Introduction, notes on
text, explanatory notes by Stephen Medcalf), Oxford University Press, New York 1996
Il piacere dell'onestà, Mondadori,
Dal blog www.capriolecosmiche.com
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